Il presente contributo rappresenta la ideale prosecuzione di quanto già espresso su questa rivista in “Sulla soglia dell’Umanità. Un dialogo interrotto tra Roma e Strasburgo” cui si rimanderà per brevità su alcuni temi che saranno oggetto di indagine. Se in quella sede ci si era interrogati sulla congruità dei parametri assunti dalla giurisprudenza di legittimità, giudicando non condivisibili le statuizioni di principio emerse in seno alla Corte di Cassazione rispetto agli standard di tutela dell’art. 3 CEDU nell’interpretazione attualmente offerta dalla giurisprudenza di Strasburgo, a questo scritto spetta il compito arduo di rappresentare la pars construens di quel discorso, per rintracciare tra le interpretazioni possibili e nel solco della Carta Costituzionale una via italiana per la tutela della dignità delle persone ristrette avverso il sovraffollamento carcerario, eventualmente anche oltre l’art. 3 CEDU.
Una proposta radicale e radicata nell’art. 27 c. 3 Cost., che si offre al dibattito ed alla riflessione di chi per professione, per passione o mero senso civico, si interessa al mondo penitenziario.
Sommario: 1. Introduzione: il sovraffollamento carcerario, un tema ricorrente – 2. Nozioni e definizioni del fenomeno: il sovraffollamento tra scienze tecniche e diritto – 3. Spazio detentivo minimo e tecniche di tutela: l’art. 35 bis O.P. e l’art. 35 ter O.P. – 4. Il rilievo del sovraffollamento nell’art. 35 bis O.P.: norme rilevanti e criteri ermeneutici – 5. Gli standard di tutela dell’art. 3 CEDU, tra C.P.T. e Corte di Strasburgo – 6. Il letto di Procuste[1]: i criteri Mursic nell’interpretazione fornitane dalla Corte di Cassazione – 7. Sovraffollamento e trattamento contrario al senso di umanità: Parte I “Verso Mursic...” – 8. Sovraffollamento e trattamento contrario al senso di umanità: Parte II “.... e oltre” – 9. La tutela dal sovraffollamento in chiave costituzionale: una proposta radicale.
1. Introduzione: il sovraffollamento carcerario, un tema ricorrente
Il tema del sovraffollamento carcerario occupa indubbiamente un posto di primario rilievo nel discorso pubblico e nella riflessione degli operatori in materia di esecuzione penale.
Al sovraffollamento - oltre che alla cronica carenza di risorse per il trattamento penitenziario - si imputano gran parte delle storture e delle inefficienze del “sistema carcere”, a sua volta messo ulteriormente sotto pressione dall’elevato tasso di recidiva che si registra nel nostro paese, in un moto circolare dove la causa scolora nell’effetto e viceversa, dipingendo un quadro a tinte fosche e scure.
In questo scenario, a farla da padrone è un uroboro asfissiante che ciclicamente ritorna a bussare alla porta delle coscienze di chi, per professione, per passione o mero senso civico, si interessa al mondo penitenziario, convinto che è dalla condizione delle carceri che si giudica la civiltà di un popolo[2].
Un serpente che si rigenera ed auto divora e che, talvolta, stringe le sue spire a guisa di nodo[3] - se è vero che a stento si muore e che di stenti si può anche morire[4] - senza lasciare apparente scampo.
E nonostante qualcuno, da lontano, gracchi un “Nevermore”[5], l’eterno ritorno delle carceri che scoppiano, inadeguate e che uccidono perseguita operatori penitenziari, avvocati e magistrati.
È chiaro: si tratta di problema complesso, che coinvolge la società tutta e chiama ad un’assunzione di responsabilità non solo i diversi operatori della giustizia, ma anche l’azione della politica, la cui soluzione richiederebbe interventi sinergici, coraggiosi e lungimiranti da parte di tutte le istituzioni coinvolte; doti rare, nell’evo contemporaneo (tam saeva et infesta virtutibus tempora, per dirla con Tacito[6]).
Quel che qui ci si propone è di indagare le risposte ordinamentali al tema dall’angolo prospettico degli strumenti di tutela giurisdizionale e del potere di intervento del giudice cui, sostanzialmente, l’intera materia è stata tralaticiamente demandata dal legislatore.
Giudice che (secondo una felice immagine della dottrina) nel labirinto delle fonti[7], pare aver perso il suo filo d’Arianna, la stella polare della Costituzione, avventurandosi per approdi lontani da porti sicuri, in cui l’esercizio della giurisdizione cede il passo alla fredda calcolatrice del geometra.
È, dunque, necessario recuperare il Nord, orientare la bussola e porre al centro del proprio cammino l’orizzonte costituzionale, nella cui roccia potrebbero (e secondo lo scrivente possono) riscoprirsi filoni auriferi nuovi, da cui trarre materia per plasmare, in via ermeneutica, il volto costituzionale della pena.
2. Nozioni e definizioni del fenomeno: il sovraffollamento tra scienze tecniche e diritto
Quando si parla di sovraffollamento carcerario, ci si riferisce ad un tema che coinvolge numerosi aspetti della realtà detentiva, ma che affonda le proprie radici anzitutto sul terreno dell’edilizia penitenziaria e della capacità ricettiva degli istituti.
Una struttura carceraria o una cella in tanto può essere definita sovra-affollata, in quanto ospita un numero di persone eccedente quello che potrebbe ordinariamente accogliere; il che postula che a monte esista un dato numerico che definisca la capienza dell’istituto o della camera detentiva.
Ma poiché la capienza degli istituti deve essere definita sulla base di criteri di abitabilità e vivibilità degli ambienti, e che questi, a loro volta, discendono da scelte valoriali ed assiologiche sullo spazio vitale minimo di cui ciascun detenuto ha bisogno, la definizione di un numero di capienza massima può essere giudicata più o meno accettabile nella misura in cui rispetta i criteri posti a monte della definizione stessa.
Esemplificando, si potrebbe pure stabilire che una cella di 10 mq sia idonea ad ospitare dieci persone; ma, chiaramente, tale indicazione si colorerebbe in termini di non accettabilità in quanto restituirebbe l’immagine di un ambiente non vivibile.
In questo senso, assume estrema rilevanza la definizione di standard di abitabilità/vivibilità minimi che definiscano quanto spazio occorre perché un ambiente possa essere considerato adeguato ad ospitare una o più persone.
Nella valutazione sulla abitabilità, ovviamente, al di là dello spazio rilevano ulteriori fattori, quali illuminazione, areazione, condizioni di temperatura etc.
Ai fini di interesse per l’odierna indagine, occorre limitare l’analisi al tema dello spazio vitale minimo, quale presupposto di partenza per un giudizio che porti a riscontrare una condizione di sovraffollamento.
Si tratta di un tema che è stato oggetto di approfondimento per lo più in ambito internazionale.
In particolare, le tre istituzioni che da un punto di vista tecnico si sono occupate di affrontare la materia sono le seguenti: nell’ambito del Consiglio d’Europa e della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo il Comitato di Prevenzione della Tortura; il Commissariato della Croce Rossa Internazionale; da ultimo, in seno alle Nazioni Unite, il Cometee Against Torture, istituito nell’ambito della Convention Against Torture and Other Cruel, Inhuman or Degrading Treatment or Punishment del 1984.
Seppur con approcci e standard non sempre omogenei, le fonti citate hanno dedicato particolare attenzione al tema, elaborando una serie di criteri per valutare l’adeguatezza delle condizioni detentive in termini di spazio personale, con specifico riferimento al fenomeno del sovraffollamento carcerario; standard che saranno oggetto di approfondimento nel corso del presente scritto.
Sul piano giuridico, invece, un ruolo di primaria importanza per l’evoluzione dell’ermeneutica in materia deve essere riconosciuto alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo. Ad essa, in particolare, si deve nel nostro ordinamento l’introduzione dei due strumenti normativi offerti agli operatori del diritto ed all’interprete per la tutela giurisdizionale della dignità dei ristretti (anche) rispetto a condizioni di sovraffollamento carcerario: gli artt. 35 bis e 35 ter L. 354/1975.
3. Spazio detentivo minimo e tecniche di tutela: l’art. 35 bis O.P. e l’art. 35 ter O.P.
Il tema dello spazio personale minimo all’interno delle celle detentive e del sovraffollamento carcerario è stato coltivato dalla giurisprudenza interna in massima parte nell’ambito del reclamo ai sensi dell’art. 35 ter L. 354/1975, di cui si è detto ampiamente in altra sede, cui si rinvia[8].
Si tratta, in estrema sintesi, di un rimedio indennitario e risarcitorio, che riconosce uno sconto di pena o una liquidazione monetaria nei casi in cui si riscontri una lesione dell’art. 3 dalla Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo (d’ora innanzi CEDU), per come interpretato dalla Corte di Strasburgo.
La norma è stata introdotta quale completamento della tutela astrattamente garantita dal reclamo giurisdizionale ex art. 35 bis L. 354/1975 (d’ora innanzi anche O.P.), sulla base della sentenza Torregiani v. Italy del 2013, nell’ambito del piano concordato tra il Consiglio d’Europa e lo Stato italiano per l’esecuzione della condanna. La sentenza citata, infatti, aveva tra le altre statuizioni, censurato ai sensi dell’art. 13 CEDU l’assenza di un rimedio effettivo che consentisse a livello di legislazione interna di ristorare i pregiudizi già esauritisi del diritto dei detenuti a non subire trattamenti disumani o degradanti ai sensi dell’art. 3 CEDU - da intendersi quale violazione degli obblighi positivi di tutela discendenti dalla Convenzione - a causa delle condizioni di sovraffollamento carcerario sistemiche del nostro paese, giudicando a tal fine insufficiente il reclamo ai sensi dell’art. 35 O.P.
Ma, a ben vedere, è la stessa sentenza Torregiani v. Italy ad indicare che lo strumento fisiologicamente più adatto a garantire effettiva tutela al diritto leso, sarebbe un reclamo giurisdizionale di tipo preventivo[9], oggi disciplinato dagli artt. 35 bis e 69 c. 6 lett. b O.P.
Gli articoli citati, infatti, consentono al detenuto o all’internato di proporre reclamo al Magistrato di Sorveglianza avverso l’inosservanza da parte dell’amministrazione di disposizioni della legge sull’ordinamento penitenziario e del relativo regolamento da cui derivi un attuale e grave pregiudizio all’esercizio dei diritti.
La normativa, sebbene l’art. 69 c. 6 lett. b) O.P. faccia riferimento a violazioni di disposizioni previste “dalla presente legge e dal relativo regolamento”, è pacificamente letta dalla giurisprudenza di merito e costituzionale alla luce di una interpretazione costituzionalmente orientata come volta a rendere giustiziabile innanzi alla Magistratura di Sorveglianza l’esercizio dei diritti in ambiente detentivo, consentendo al detenuto di ottenere una tutela effettiva avverso quegli atti o comportamenti dell’amministrazione penitenziaria che, impedendo tout court o limitando oltre misura tale esercizio, realizzino delle gravi lesioni di diritti costituzionalmente tutelati.
In questa prospettiva, la norma può essere viatico per censurare quelle scelte amministrative e quelle condotte attive o omissive dell’amministrazione che, pur attuate nell’ambito della discrezionalità propria dell’ente penitenziario, compromettano l’esercizio dei diritti dei detenuti oltre la misura necessaria rispetto a quella già insita nella privazione della libertà personale determinata dall’esecuzione inframuraria.
Si tratta di un giudizio che, evidentemente, consente alla Magistratura di Sorveglianza di vagliare, secondo canoni di proporzionalità e adeguatezza, anche la discrezionalità delle scelte amministrative di pertinenza dell’amministrazione penitenziaria.
Tale sindacato, tuttavia, può essere ammissibile (vertendosi in terreno particolarmente esposto ad una possibile ingerenza del potere giudiziario su quello esecutivo-amministrativo, con lesione della separazione dei poteri) solo ove la lesione attinga un diritto del detenuto o dell’internato e ove la lesione eventualmente riscontrata sia connotata dai caratteri di gravità ed attualità.
Non sempre, infatti, la limitazione di un diritto rappresenta, per ciò solo, una lesione dello stesso.
L’ermeneutica costituzionale ed internazionale in tema di diritti fondamentali è chiara nell’indicare che l’esercizio dei diritti da parte della persona in concreto può (e a volte deve) essere operativamente limitato in presenza di interessi contrapposti, eventualmente a loro volta espressivi di diritti fondamentali di altri soggetti o di interessi parimenti meritevoli di tutela tali da porsi, nel caso di specie, in termini antinomici rispetto alla piena soddisfazione dell’interesse fatto valere dalla persona.
Si ritiene di dover richiamare, sul punto, l’ampia giurisprudenza della Corte di Strasburgo che ha più volte chiarito come i diritti sanciti dalla Convenzione, ad eccezione di quelli incomprimibili di cui agli artt. 3, 4 e 7, non debbano essere intesi in termini assoluti nel loro esercizio e che possano subire una compressione o financo un sacrificio, laddove ciò risulti necessario per garantire altri diritti o esigenze egualmente meritevoli di tutela[10].
Quel che preme rilevare, in questa sede, è come la Corte di Strasburgo, nelle materie in cui è stata chiamata ad esprimersi, abbia indicato le condizioni (generalmente mediante l’elaborazione di test) che possono portare a ritenere adeguato al caso concreto il sacrificio imposto ai diritti tutelati nella Convenzione, adottando un approccio che, lungi dall’esaurirsi ad una statica considerazione dei diritti fondamentali, legge gli stessi nel loro dinamico farsi e comporsi, alla ricerca di quell’equilibrio che realizzi, a parità di tutela dell’uno, il minor sacrificio possibile dell’altro; ma che, astrattamente, non preclude anche l’instaurazione di legittimi rapporti di subvalenza/prevalenza tra diritti antinomici.
Si tratta, in verità, di concetti che non sono estranei all’ermeneutica della Corte Costituzionale italiana, che, seppur in un contesto di civil law tendenzialmente a trazione lege-centrica, ha da tempo enucleato come criterio di risoluzione delle antinomie tra i diritti e di valutazione delle opzioni normative il canone della ragionevolezza (in parte mutuato dalla giurisprudenza espressa dal Bundesverfassungsgericht a partire dalla Sentenza Apotheken-Urteil del 11.6.1958).
In origine costruito quale corollario dell’art. 3 Cost., ed ancorato nella sua operatività dal raffronto con un tertium comparationis, si tratta di un principio che negli ultimi anni la Corte ha utilizzato per garantire un sindacato sempre più attento e puntuale alla proporzionalità delle scelte legislative nell’ottica di garantire tutela adeguata ai principi costituzionali, valutando che il legislatore eserciti ponderatamente la discrezionalità che gli è propria[11] (sino a sanzionarne il mancato esercizio, con conseguente vuoto di tutela per i diritti costituzionalmente e convenzionalmente tutelati; si veda da ultimo C. Cost. 10/2024 in tema di sessualità-affettività inframuraria).
Anche in questo contesto, tuttavia, la Consulta ha più volte indicato che alcune esigenze pur costituzionalmente rilevanti, possono in concreto subire una compressione laddove sussistano ragionevoli elementi per limitare la soddisfazione delle stesse, accettando opzioni normative che hanno accordato prevalenza a taluni interessi a discapito di altri laddove l’opzione prescelta non risultasse manifestamente irragionevole, sproporzionata, incongrua o inadeguata[12].
Queste considerazioni, operate su un piano di teoria generale, servono ad inquadrare il metodo con cui occorre approcciarsi alla materia del reclamo giurisdizionale.
Perché possa ammettersi un sindacato sulle scelte amministrative in ambito penitenziario devono, dunque, ricorrere i seguenti presupposti:
- il detenuto deve vantare un diritto soggettivo/fondamentale, protetto dalla legge o dalla Costituzione (o dalla CEDU, tramite l’art. 117 Cost.);
- tale diritto deve subire una limitazione da parte di scelte organizzative o da condotte attive/omissive dell’amministrazione penitenziaria;
- la limitazione deve risultare grave, dovendo intendersi questo requisito integrato tutte le volte in cui la stessa si presenti come particolarmente incongrua e sproporzionata rispetto alla tutela che assicura ad eventuali diverse esigenze rilevanti nel caso di specie, sì da ledere irragionevolmente il diritto del detenuto;
- la lesione deve essere attuale, nel senso di perdurante al momento della decisione da parte del Magistrato di Sorveglianza, avendo lo strumento in esame l'obiettivo di fornire una tutela ripristinatoria in forma specifica al diritto leso, posto che eventuali pregiudizi esauritisi possono trovare forme di ristoro secondo gli ordinari strumenti previsti dall’ordinamento (innanzi al giudice civile ovvero, laddove la lesione attinga l’art. 3 CEDU con reclamo ex art. 35 ter O.P.).
Solo a queste condizioni, dunque, può consentirsi al potere giudiziario di valutare la congruità dell’assetto degli interessi nel caso concreto e, dunque, offrire tutela al diritto del detenuto.
Tale tutela si concreta in un potere del giudice di ordinare all’amministrazione penitenziaria ed alle amministrazioni coinvolte un facere specifico, vale a dire rimuovere entro un termine indicato dal provvedimento gli ostacoli all’esercizio del diritto da parte del detenuto, adottando le scelte necessarie in tal senso.
Laddove l’amministrazione non adempia, è poi consentito al detenuto o al suo difensore di agire per ottenere l’ottemperanza dell’ordinanza emessa dal Magistrato di Sorveglianza, garantendo, in un’ottica di effettività della tutela, la realizzazione coattiva del diritto da parte del giudice.
Questi potrà, ai sensi dell’art. 35 bis c. 6 O.P. ordinare l’ottemperanza, indicando modalità e tempi di adempimento (di fatto anche con facoltà di sostituirsi all’amministrazione), nominare un commissario ad acta per l’esecuzione dell’ordinanza, e dichiarare la nullità degli atti amministrativi adottati in violazione-elusione del giudicato (riecheggia, nella normativa citata, l’eco degli artt. 21 septies L. 241/1990 e dell’art. 114 D.Lgs. 104/2010).
Dalla rapida disamina dell’istituto, dunque, appare abbastanza evidente che le frecce nella faretra del Magistrato di Sorveglianza nell’ambito del reclamo giurisdizionale siano particolarmente perforanti, sì da poter aprire dei significativi varchi nella corazza apparentemente impenetrabile dell’azione amministrativa.
Nel reclamo ai sensi dell’art. 35 bis O.P. una condizione di sovraffollamento strutturale, infatti, potrebbe essere affrontata di petto dalla magistratura di sorveglianza, con l’adozione di provvedimenti cogenti e capaci di imporre all’amministrazione azioni concrete per rimuoverne le cause, ove occorra anche sul piano strutturale.
Eppure, statisticamente, il problema sovraffollamento carcerario viene affrontato nelle aule di giustizia quasi sempre sul piano risarcitorio del reclamo ai sensi dell’art. 35 ter O.P., con un approccio che pare preferire il risarcimento/indennizzo alla tutela effettiva dei diritti. E ciò, se del caso, brandendo la sentenza Torregiani e l'art. 35 ter O.P. quale arma formidabile contro l’amministrazione e panacea dei mali del sistema, in quella che pare a chi scrive una chiara deviazione da quella che la Corte EDU aveva, effettivamente, indicato come la via maestra per garantire tutela all’art. 3 CEDU: l’art. 35 bis O.P.
Le tecniche di tutela dei diritti, infatti, classicamente si articolano, quantomeno su tre livelli.
Il livello minimo è rappresentato dal risarcimento per equivalente mediante attribuzione di una somma di denaro, tecnica di tutela che è utilizzata nei casi in cui non è possibile il ripristino né l’esatta realizzazione del diritto leso, ma solo ripararne simbolicamente il pregiudizio sul piano economico, anche laddove l’interesse del titolare del diritto non avesse ad oggetto una pretesa di tipo patrimoniale.
Forme intermedie possono essere quelle di tipo ripristinatorio quali il risarcimento in forma specifica, che sono utilizzate laddove il diritto leso viene ristorato nel suo esercizio mediante l’eliminazione del pregiudizio, che realizza di per sé l’accesso al bene della vita sotteso al diritto stesso.
Ma, occorre ricordare che la forma più elevata di tutela che un ordinamento giuridico può apprestare ad un diritto è quella preventiva, vale a dire quella che orienta le scelte normative nel senso di fissare regole volte a non consentire, quantomeno in astratto, che il diritto tutelato venga posto in pericolo.
Tale tecnica di tutela è, in genere, adottata per garantire beni giuridici particolarmente significativi per l’ordinamento, la cui sola messa in pericolo è considerata non accettabile.
È quest’ultima, secondo la Corte, la tutela che si dovrebbe garantire in via prioritaria all’art. 3 CEDU[13].
4. Il rilievo del sovraffollamento nell’art. 35 bis O.P.: norme rilevanti e criteri ermeneutici
Chiarito questo punto, occorre chiedersi, tecnicamente, in che termini il sovraffollamento carcerario potrebbe sorreggere una doglianza deducibile ai sensi degli artt. 35 bis e 69 c. 6 lett. b L. 354/1975.
Evidentemente, un eventuale reclamo sul punto dovrebbe mettere in discussione l’adeguatezza della camera di pernottamento sotto lo specifico profilo della carenza di spazio personale, che trova un proprio addentellato normativo nella legge sull’ordinamento penitenziario all’art. 6 L. 354/1975, laddove si afferma che le persone ristrette devono essere inserite in locali di pernottamento strutturalmente congrui e “di ampiezza sufficiente”.
La legge italiana, tuttavia, non stabilisce a monte una nozione o un indice numerico che definisca il concetto di “ampiezza sufficiente” (come avviene nella legislazione di altri paesi); con ciò rimettendo sostanzialmente alla discrezionalità amministrativa il compito di individuare cosa debba intendersi per spazio insufficiente e, dunque, quale sia il parametro minimo di spazio personale nelle camere detentive.
Laddove, tuttavia, l’amministrazione, spinta dalla contingenza di dover gestire un numero di ingressi superiore all’ordinario, provvedesse a sistemare nelle celle più persone del dovuto, potrebbe venire in rilievo il diritto costituzionalmente e convenzionalmente riconosciuto ai detenuti di non subire trattamenti contrari al senso di umanità (art. 27 c. 3 Cost.) ovvero disumani o degradanti (art. 3 CEDU e 117 Cost.), ribadito anche dall’art. 1 L. 354/1975.
La lesione di tale diritto può ben presentarsi, oltre che per gravi carenze strutturali della singola cella o dell’istituto, in quelle situazioni in cui, a causa del sovraffollamento carcerario, vengano allocati nella camera un numero di detenuti eccedente il limite di vivibilità all’interno della stessa.
In questo caso, spetterebbe al giudice valutare l’adeguatezza della condizione detentiva e delle scelte operative dell’istituto, e, ove riscontrasse una violazione dei diritti del condannato, censurare la condotta dell’amministrazione nell’ambito del reclamo giurisdizionale.
Ma, un tale giudizio, richiederebbe l’individuazione di uno standard minimo, che consenta di esprimere l’incidenza del sovraffollamento sul diritto leso.
Il rapporto tra sovraffollamento e spazi minimi di detenzione nelle camere di pernottamento non trova, però, una specifica elaborazione nella giurisprudenza interna, essendo stato in principalità affrontato nell’ambito del rimedio di cui all’art. 35 ter O.P., che, come detto, richiama espressamente l’interpretazione offerta dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo dell’art. 3 CEDU; da ciò è comprensibile che l’analisi della tematica sia stata condotta in massima parte con un approccio di tipo derivativo.
Approccio che, però, non pare aver vagliato in termini approfonditi alcuni aspetti di contraddizione insiti nell’attuale assetto della tutela convenzionale rispetto all’art. 3 CEDU in punto di vivibilità degli ambienti e condizioni minime di detenzione.
Il sistema di tutela garantito dal Consiglio d’Europa all’art. 3 CEDU, infatti, poggia su due pilastri: da un lato le indicazioni provenienti dal Comitato di Prevenzione della Tortura (C.P.T.), compendiate nei Reports e nelle European Prison Rules; dall’altro, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo.
Le due fonti, tuttavia, sono al momento in uno stato di disallineamento sul punto specifico dello spazio personale minimo, individuando standard detentivi parzialmente divergenti.
Su tale asimmetria, appare opportuno soffermarsi.
5. Gli standard di tutela dell’art. 3 CEDU, tra C.P.T. e Corte di Strasburgo
Il Comitato di Prevenzione della Tortura è un ente del Consiglio d’Europa che ha il compito di promuovere l’adozione di standard comuni per il rispetto dell’art. 3 CEDU.
Nei vari anni di attività, questa autorità indipendente e tecnica, ha elaborato numerosi report, culminati nella redazione delle European Prison Rules[14], in cui sono fissati diversi parametri orientativi per migliorare le condizioni detentive negli Stati aderenti perché non si realizzino violazioni dell’art. 3 CEDU.
Il Comitato, per quanto di specifico interesse in questa sede, ha dedicato particolare attenzione al tema del sovraffollamento carcerario, quale fenomeno capace di imprimere alla detenzione un portato afflittivo che, per carenza di spazio personale, ridondi in un trattamento inumano o degradante.
Nell’elaborazione del Comitato sono ben delineati i criteri di valutazione dello spazio personale nelle camere detentive al fine di riscontrare o meno una condizione di sovraffollamento carcerario, distinguendo tra misure auspicabili e misure minime.
Quanto ai parametri auspicabili cui gli Stati dovrebbero tendere, il Comitato indica che una cella singola dovrebbe avere misure di almeno 6 mq al netto del bagno, mentre le celle con più occupanti, fino ad un numero massimo di quattro, dovrebbero prevedere 4 mq netti in più per ciascun detenuto rispetto alla cella singola. Dunque, a titolo esemplificativo, una cella doppia dovrebbe misurare auspicabilmente 10 mq (6+4), una cella tripla 14 (6+4+4) e così via[15].
Viceversa, il parametro minimo al di sotto del quale il Comitato ritiene sussistano profili di lesione dell’art. 3 CEDU nelle celle con più occupanti è indicato costantemente in 4 mq di spazio personale ciascuno; esemplificando, una cella doppia non dovrebbe mai misurare sotto gli 8 mq, una cella tripla avere dimensioni inferiori ai 12 mq e così via.
Nel calcolo dello spazio personale, inoltre, il C.P.T. considera esclusivamente le dimensioni della cella, intendendo con essa la sola camera di pernottamento ad esclusione del locale bagno, dividendo poi il dato metrico per il numero di occupanti.
Sono, dunque, inclusi all’interno dello spazio disponibile nella metodologia di calcolo del C.P.T. anche gli arredi quali letti e/o armadi, trattandosi di suppellettili necessarie ed utili a rendere l’ambiente vivibile.
Si consideri, a tale proposito, che la presenza di un letto per ogni singolo occupante è valutata dal C.P.T. quale misura positiva, avendo riscontrato diverse situazioni in cui ai detenuti non era garantito un proprio luogo per il riposo, ma questi erano costretti o a dormire a terra, o in due per ogni singolo letto, ovvero ancora a turno. Parimenti dicasi per gli altri arredi, che rendono l’ambiente abitabile, consentendo lo svolgimento delle attività ordinarie di vita dentro la cella.
Preme evidenziare che lo stesso C.P.T. indica che i propri standard non sono dotati di valore tassativo, potendo escludersi una violazione dell’art. 3 CEDU laddove, a prescindere dallo spazio personale, sussistano congrui elementi ulteriori che consentano di valutare positivamente le condizioni detentive.
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, viceversa, è l’organo giurisdizionale, interprete della Convenzione, chiamata a giudicare se in un caso concreto vi sia stata una violazione delle norme di principio da essa stabilite.
Rispetto alla tematica di interesse, la Corte, sulla premessa dell’impossibilità di stabilire in maniera certa e definitiva lo spazio personale che deve essere riconosciuto a ciascun detenuto ai termini della Convenzione, ha adottato un parametro orientativo di spazio personale minimo di 3 mq per ciascun ristretto all’interno delle camere detentive.
Nella copiosa giurisprudenza della Corte EDU sul punto, occorre fare primario riferimento alla sentenza della Grande Camera Mursic v Croatia del 20.10.2016[16].
La sentenza citata, infatti, rappresenta certamente il leading case della giurisprudenza EDU in materia, non solo perché proveniente dal più ampio consesso della Corte di Strasburgo, ma anche perché con tale pronuncia la Grande Camera ha individuato le regole di giudizio e le situazioni rilevanti ai sensi dell’art. 3 CEDU attraverso un’opera di raccordo e selezione degli orientamenti emersi in seno alla Corte negli anni precedenti.
È con la sentenza Mursic v. Croatia ,infatti, che la Corte ha accolto e stabilizzato l’indirizzo per cui la soglia orientativamente idonea a porsi in contrasto con il divieto di trattamenti inumani e degradanti debba essere fissata nelle celle con più occupanti in 3 mq pro capite, calcolati secondo la metodologia adottata dal Comitato di Prevenzione della Tortura del Consiglio d’Europa (vale a dire calcolando la superficie della cella al netto del bagno e dividendola per il numero di occupanti)[17].
Tale condizione, infatti, secondo la Corte, implica un disagio o una prova d’intensità superiore all’inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione, a causa della promiscuità degli ambienti tra più detenuti e della scarsa libertà di movimento all’interno della cella.
L’individuazione della soglia in 3 mq di spazio personale è stato un approdo non del tutto scontato né condiviso all’unanimità dai giudici di Strasburgo, atteso che vi era forte dibattito in seno alla Grande Camera circa la necessità di adottare il più elevato standard minimo indicato dal C.P.T. di 4 mq di spazio personale, che era stato accolto in alcune pronunce minoritarie (Cotleţ v. Romania (no. 2), n. 49549/11, §§ 34 e 36, 1.10.2013; Apostu v. Romania, n. 22765/12, § 79, 3.2.2015).
Tuttavia, la Grande Camera, a maggioranza, ha inteso ribadire che gli standard del C.P.T. indicano livelli minimi ed auspicabili e svolgono, dunque, una funzione preventiva e di indirizzo per gli Stati membri, laddove la Corte è chiamata a valutare situazioni reali ed effettive; pertanto, l’adozione di un parametro auspicabile per la valutazione dell’esistente, comporterebbe un giudizio non coerente con il tipo di tutela che la Corte EDU può assicurare nel sistema della Convenzione, andando a sovrapporsi a quella del Comitato.
La Corte, a ben vedere, non ha del tutto ignorato l’elaborazione del C.P.T. stabilendo che laddove lo spazio sia compreso tra i 3 ed i 4 mq, pur non essendovi applicazione dello strong presumption test, sussistono condizioni valutabili come problematiche, che richiedono adeguati elementi compensativi, per escludere la produzione di una lesione dell’art. 3 CEDU.
Laddove, da ultimo, lo spazio sia superiore ai 4 mq, non si evidenziano condizioni di pregiudizio sotto il profilo della carenza di spazio personale.
Sul punto della mancata adozione dello standard di 4 mq fissato dal C.P.T. non sono mancate le voci critiche dei giudici che avevano espresso orientamento di senso contrario in seno alla Grande Camera.
I giudici Sajò, López, Guerra and Wojtyczek hanno redatto una dissenting opinion congiunta, rimarcando la necessità che la Corte adottasse, quantomeno, gli standard minimi del C.P.T., posto che i 3 mq rappresentano un dato metrico particolarmente basso, che comporta per i detenuti una costante lesione dello spazio personale reciproco e che si colloca, peraltro anche al di sotto degli standard elaborati da altre organizzazioni internazionali[18].
Particolarmente approfondita è, ancora, la dissenting opinion del giudice Pinto de Albuquerque[19], il quale ha, in sintesi, osservato come la maggioranza dei giudici della Grande Camera, scegliendo di adottare uno standard di spazio minimo inferiore a quello accolto dal C.P.T. abbia sostanzialmente tradito la premessa maggiore da cui muove tutta l’ermeneutica della Corte EDU in materia di art. 3 della Convenzione: l’inderogabilità dell’art. 3 CEDU.
Se, argomenta il giudice portoghese, l’art. 3 CEDU individua un diritto inderogabile dell’individuo - concetto che nel sistema convenzionale significa non solo non violabile ex professo, ma soprattutto incomprimibile e, come tale, non bilanciabile nel suo esercizio con altri interessi o altri diritti, pur se garantiti dalla stessa Convenzione – non dovrebbe essere possibile accettare una soglia di tutela inferiore a quella minima fissata dal C.P.T.
E ciò anche in considerazione del fatto che il documento del C.P.T. contenente gli EPR (European Prison Rules) è stato espressamente adottato per impegnare i Governi degli Stati aderenti alla Convenzione a dotarsi di una legislazione nazionale che fissi chiari e specifici standard minimi di spazio personale (“the EPR are intended to compel Governments to declare by way of national law specific standards, which can be enforced” and these enforceable standards include certain European “minimum standards” in terms of accommodation: first and foremost, “there must be a clear minimum space”).
Alla luce delle chiare intenzioni del Consiglio e del Comitato nell’elaborazione del documento sugli standard detentivi minimi europei, ritenere lo stesso espressivo di indicazioni con mero valore programmatico anche nella parte in cui fissa gli standard minimi è giudicato dal giudice portoghese frutto di una lettura superficiale del testo.
La critica del giudice dissenziente è poi estesa anche al metodo adottato dalla Grande Camera: mentre lo standard C.P.T. di 4 mq è stato elaborato dal Comitato sulla base di un lungo lavoro di osservazione statistica e scientifica sugli effetti del sovraffollamento carcerario in termini di correlazione tra ovecrouding e inadeguatezza degli spazi personali, problematiche psicologiche ed insorgenza di agiti autolesivi, il parametro dei 3 mq è frutto della mera elaborazione della Corte EDU e non si confronta con gli argomenti a sostegno della soluzione più ampia (il paragrafo termina un irridente “in umbris est potestas”).
In conclusione, la dissenting opinion del giudice De Albuquerque evidenzia come con giudizi come quello reso nel caso Mursic v. Croatia la Corte non solo indebolisce e scredita il lavoro degli altri organi del Consiglio d’Europa, ma rinforza l’impressione che il sistema di tutela Europeo ai diritti fondamentali sia complessivamente incoerente.
Al netto della severità del giudizio conclusivo, le due dissenting opinion citate pongono all’attenzione dell’interprete un tema: un disallineamento tra Corte di Strasburgo e Comitato in punto di individuazione dello spazio personale minimo ai fini del rispetto della Convenzione.
L’analisi di tale distonia tra i due organi del Consiglio d’Europa sarà oggetto delle considerazioni e delle proposte successive.
Ma, prima, appare necessario confrontarsi sinteticamente con la giurisprudenza interna.
6. Il letto di Procuste[20]: i criteri Mursic nell’interpretazione fornitane dalla Corte di Cassazione
La giurisprudenza convenzionale in materia, come detto, è stata approfondita dai giudici nazionali (di merito e di legittimità), prevalentemente nell’ambito del reclamo ex art. 35 ter O.P., con esiti che però appaiono allo stato non coerenti con il complessivo sistema di tutela convenzionale.
In particolare, l’ermeneutica della Corte di Cassazione ha inteso alcuni passaggi della sentenza Mursic in termini difformi rispetto a quanto effettivamente ivi indicato dalla Grande Camera, elevando lo standard di tutela dell’art. 3 CEDU in via ermeneutica.
In particolare, la Corte EDU, indicando lo spazio di 3 mq, ha precisato che, una volta calcolato questo al lordo del bagno e al netto del mobilio, deve poi verificarsi se, in concreto, i detenuti potessero muoversi liberamente/normalmente nello spazio così determinato.
Le Sezioni Unite[21], dunque, hanno proposto una interpretazione che sconti già gli arredi tendenzialmente fissi, sovrapponendo le nozioni di spazio personale e spazio di libero movimento già per la determinazione della regola di giudizio, detraendo arredi e letto a castello (anche qui, si consenta di rimandare ad altro scritto sul tema, in questa rivista).
Si tratta di operazione che, se non del tutto censurabile sul piano assiologico - in quanto sospinta dalla volontà di dare la maggiore tutela possibile - sul piano metodologico è stata compiuta interpretando in modo creativo e adattando le indicazioni della giurisprudenza di Strasburgo fino a stravolgerne la fisionomia (come nel proverbiale letto di Procuste), nonché esercitando un potere di interpretazione della giurisprudenza convenzionale che appare, come minimo, discutibile rispetto alla collocazione della CEDU nel sistema delle fonti indicata dalla Corte Costituzionale[22].
In particolare, la più recente ermeneutica emersa in seno alla Corte di Cassazione circa lo scomputo degli arredi fissi e, da ultimo, anche solo tendenzialmente fissi (quali il letto singolo[23]) per la determinazione dello spazio personale è frutto di una premessa maggiore non in linea con la giurisprudenza convenzionale, data dalla sovrapposizione delle distinte nozioni di spazio personale, calcolato al lordo degli arredi e funzionale ad individuare in via tendenziale la regola di giudizio (se strong presumption test o meno), e spazio di libero movimento, concetto che è calcolato in ambito EDU al netto di tutti gli arredi – anche mobili – e valorizzato per valutare l’effettiva realtà detentiva sperimentata dal ricorrente quale criterio suppletivo e concreto.
Si tratta di tema apparentemente di scarso respiro, ma che assume particolare rilevanza per stabilire, secondo la giurisprudenza convenzionale, il test e la regola di giudizio applicabile al caso di specie e che, dunque, se non correttamente inquadrato, rischia di portare ad esiti non coerenti con il sistema di tutela convenzionale.
E ciò non soltanto nell’ambito di quanto stabilito dalla giurisprudenza Corte di Strasburgo ma, anche, rispetto alle indicazioni dettate in ottica preventiva dal C.P.T.
Come si è già detto, infatti, il Comitato, pur adottando uno standard più elevato, utilizza un criterio di calcolo che individua lo spazio pro capite al netto del bagno e al lordo del mobilio.
In questo senso, l’ermeneutica interna, detraendo gli arredi tendenzialmente fissi già in fase di determinazione dello spazio personale, finisce con il far scivolare sotto soglia situazioni che rispetterebbero non solo gli standard minimi, ma persino quelli auspicabili indicati dal C.P.T.
Così ricostruito il quadro giurisprudenziale interno, può dubitarsi dell’effettiva validità dei canoni ermeneutici affermati in sede di legittimità.
Posto che le regole di giudizio assunte dalla Corte di Cassazione nell’ambito dell’art. 35 ter O.P. paiono frutto di un travisamento dei criteri espressi dalla giurisprudenza di Strasburgo ed eccedono nella sostanza la stessa elaborazione del C.P.T., queste non possono essere utilizzate per valutare se sussistano condizioni di sovraffollamento carcerario, semplicemente perché si discostano senza congrua motivazione dagli standard internazionali nella subjecta materia.
Il tema, dunque, allo stato attuale dell’elaborazione Costituzionale e Convenzionale, dovrebbe essere affrontato facendo riferimento alla sola giurisprudenza convenzionale tanto nell’ambito del reclamo ai sensi dell’art. 35 ter O.P. (ed anzi, a fortiori in tale ambito, in cui la giurisprudenza EDU è legge per relationem) quanto dell’art. 35 bis O.P., considerando il rispetto dell’art. 3 CEDU quale obbligo internazionale dello Stato ai sensi dell’art. 117 c. 2 Cost.
In questo senso, il limite di spazio personale oltre il quale dovrebbe potersi riconoscere una condizione di sovraffollamento carcerario è rappresentato dai 3 mq indicati dalla sentenza Mursic da calcolarsi al netto del bagno ed al lordo del mobilio, salva la verifica in concreto sulla effettiva possibilità di movimento normale all’interno della cella.
7. Sovraffollamento e trattamento contrario al senso di umanità: Parte I “Verso Mursic...”
Quanto sinora affermato appare necessario per fondare le considerazioni che seguiranno.
L'approdo cui si è giunti, per quanto coerente con il sistema della Convenzione e coi limiti costituzionali all’interpretazione del giudice comune rispetto alla CEDU, appare non soddisfacente e, invero, sollecita ulteriori interrogativi sul piano della sua congruità costituzionale.
In particolare, a parere di chi scrive, non ci si può esimere dal considerare che la sentenza Mursic ha adottato standard minimi inferiori a quelli provenienti dall’elaborazione del C.P.T., scelta su cui la stessa Grande Camera non ha raggiunto una decisione unanime.
Fondate e ampie ragioni di dissenso sul punto sono state espresse da molti giudici.
A fronte di questo dato, verrebbe da chiedersi se non possa immaginarsi la possibilità di valutare la congruità delle condizioni detentive di un carcere sovraffollato non tanto con riferimento all’art. 3 CEDU per come interpretato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ma alla stregua dell’art. 27 c. 3 Cost., quest’ultimo da leggersi alla luce delle fonti internazionali che hanno affrontato il tema, elaborando una nozione autonoma di trattamento contrario al senso di umanità, che non si appiattisca sulla giurisprudenza EDU[24].
L’operazione ermeneutica qui proposta potrebbe, invero, risultare di primo acchito di tipo creativo, esponendosi dunque a critiche non dissimili da quelle rivolte all’interpretazione dell’art. 3 CEDU proposta dall’attuale giurisprudenza di legittimità.
Tuttavia, la stessa è in verità costruita sulla ritenuta possibilità di individuare in ambito internazionale dei parametri più tutelanti, frutto di elaborazione scientifica e di puntuale osservazione statistica, valevoli come riferimento costituzionalmente adeguato a riempire di significato la nozione di “trattamento contrario al senso di umanità” sancito dalla Costituzione.
Tale operazione, peraltro, sarebbe possibile esclusivamente nell’ambito del reclamo ex art. 35 bis O.P., posto che l’art. 35 ter O.P., richiamando la giurisprudenza della Corte di Strasburgo sull’art. 3 CEDU, vincola l’interprete al formante giurisprudenziale espresso dalla Corte.
Viceversa, nella sede del reclamo giurisdizionale, è compito del giudice individuare una posizione di diritto tutelabile e di specificarne il relativo contenuto, con il solo limite di radicare la stessa nell’alveo della normativa penitenziaria e nella Costituzione.
8. Sovraffollamento e trattamento contrario al senso di umanità: Parte II “.... e oltre”
Ora, è indubbio che l’art. 27 c. 3 Cost., nella parte in cui vieta che la pena si traduca in un trattamento contrario al senso di umanità, faccia riferimento ad un concetto pre- o para- giuridico, appartenente alla sfera del pensiero, del sentimento e dello spirito, di difficile definizione anche perché inevitabilmente mutevole nello spazio e nel tempo (cosa è umanamente inaccettabile qui ed ora, infatti, un tempo era, o altrove lo è, ritenuto pacificamente tollerabile).
Potremmo descrivere l’umanità come un sentimento di solidarietà, di comprensione e di indulgenza verso gli altri uomini, che porta ad attribuire a ciascuno un portato minimo di dignità intangibile, derivante dal solo fatto di esser parte del consorzio umano. Alla base di questo sentimento vi è l’intuizione della comune natura, di un atto di riconoscimento reciproco tra l’io e l’altro da sé, fino alla costruzione di una identità condivisa (potrebbe dirsi uno specchiarsi nell’altro).
Contrario al senso di umanità, dunque, è ogni atto o trattamento che, tradendo la solidarietà tra pari, viene agito non riconoscendo la comunanza di destino con l’altro, che viola il perimetro intangibile dell’altrui dignità, che reifica o degrada la persona al punto da disconoscere ad essa il valore di uomo.
Sul concetto di umanità, nonché sui corollari principi di uguaglianza e dignità tra gli uomini, poggia l’intera costruzione del pensiero liberale (dal celeberrimo motto kantiano “Agisci in modo da trattare sempre l'umanità, così nella tua persona come nella persona di ogni altro, sempre come un fine, e mai come un mezzo”) che ha posto le basi per il costituzionalismo moderno (a partire dalla Costituzione Americana: “Noi riteniamo che le seguenti verità siano di per sé stesse evidenti, che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono stati dotati dal loro Creatore di alcuni Diritti inalienabili, che fra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità”) e che ha condotto, dopo la deflagrazione dei totalitarismi e gli orrori delle Guerre Mondiali, al costituzionalismo contemporaneo ed alle Carte internazionali dei diritti, tra cui la CEDU.
Ad esso, la Carta Fondamentale della nostra Repubblica ha informato il proprio orizzonte programmatico, ponendo la persona umana al centro del progetto politico e organizzativo sancito in Costituzione (si vedano, in particolare l’art. 2 “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”; e l’art. 3 c. 2 “E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”).
Nell’ambito dell’esecuzione penale, la Corte Costituzionale ha riconosciuto che dagli artt. 2 e 27 della Costituzione debba trarsi il principio di civiltà giuridica per cui i detenuti mantengono la titolarità di diritti soggettivi e vedono garantita quella “parte di personalità umana” che la pur legittima privazione della libertà personale non può intaccare (ex multiis Sentenze n. 114/1979 e 349/1993).
In questa cornice si colloca il divieto di cui all’art. 27 c. 3 Cost., ribadito anche dall’art. 1 della L. 354/1975.
L’ermeneutica Costituzionale sulla nozione di trattamento contrario al senso di umanità evidenzia la già esposta indeterminatezza del concetto, facendo però alcune precisazioni.
In particolare, si è affermato che un trattamento contrario al senso di umanità è tale se caratterizza oggettivamente la detenzione stessa (Corte Costituzionale, sentenza 104/1982) sì da determinare una incompatibilità assoluta con il protrarsi della carcerazione.
Con specifico riferimento al sovraffollamento carcerario, sovviene poi la sentenza 274/2013 della Corte Costituzionale, che ha affrontato direttamente il tema.
In sintesi, a seguito della sentenza Torregiani, si voleva sollecitare la Corte ad introdurre nell’art. 147 c.p. una ipotesi di differimento della pena per sovraffollamento carcerario e violazione dell’art. 3 CEDU; la Corte, pur dichiarando inammissibili le questioni sollevate per carenza di soluzioni a rime obbligate, ha evidenziato che il sovraffollamento carcerario è fenomeno idoneo pregiudicare i connotati costituzionalmente inderogabili dell’esecuzione penale e ad incidere, comprimendolo, sul “residuo” irriducibile della libertà personale del detenuto.
Tuttavia, non esistendo in ambito nazionale una chiara nozione di sovraffollamento carcerario, la giurisprudenza Costituzionale nella sentenza citata (anche perché in tali termini era stata posta la questione) si è limitata a richiamare l’art. 3 CEDU per come interpretato dalla Corte EDU; ciò sulla base della ritenuta coincidenza tra il concetto di “trattamento contrario al senso di umanità” espresso dalla Costituzione e quello di “trattamento inumano o degradante” espresso dall’art. 3 CEDU.
La giurisprudenza interna, però, non considerando il già richiamato disallineamento nella tutela offerta all’art. 3 CEDU venutosi a creare tra le sentenze della Corte di Strasburgo e gli EPR elaborati dal C.P.T., non ha vagliato l’opzione che qui si intende sostenere: vale a dire che ai sensi dell’art. 27 c. 3 Cost. non sarebbe accettabile una tutela inferiore rispetto a quella minima indicata dal C.P.T., che individua un livello di protezione più elevato di quello offerto dalla giurisprudenza di Strasburgo.
Tale asserzione trova le sue premesse nella considerazione per cui l’elaborazione del C.P.T., come indicato dal giudice Pinto de Albuquerque nella sua dissenting opinion alla sentenza Mursic v. Croatia, non è frutto di scelte arbitrarie e/o politiche, ma piuttosto il punto di arrivo di una lunga osservazione tecnica e scientifica delle realtà detentive europee, condotta dal Comitato, che ha il pregio di fissare dei parametri sia auspicabili che minimi per la definizione dello spazio vitale di cui necessita una persona ristretta.
La soglia di 4 mq al netto del bagno e al lordo del mobilio, in altri termini, è stata calcolata sulla base di una concreta valutazione degli effetti che uno spazio inferiore a tale limite produce nella persona detenuta, evidenziando che ad esso si associano statisticamente l’insorgenza di agiti autolesivi, l’emersione di disturbi del comportamento, maggiore frustrazione ed aggressività.
Per il C.P.T., dunque, al di sotto di tale soglia sussiste già sovraffollamento carcerario ed una condizione valevole ad integrare, quantomeno, un trattamento degradante o a mettere a rischio la dignità delle persone detenute.
È in questa cornice che, l’interprete dovrebbe chiedersi se, a prescindere dal rilievo che una certa condizione detentiva può assumere rispetto all’art. 3 CEDU (quale fonte sub-costituzionale, che trova ingresso nell’ordinamento tramite l’art. 117 Cost.), possa considerarsi o meno “contraria al senso di umanità” e, dunque, valevole per riscontrare una violazione dell’art. 27 c. 3 Cost. l’allocazione in una camera in cui sia garantito uno spazio personale inferiore allo standard minimo che un organismo internazionale indipendente (al quale il nostro paese da aderito) abbia giudicato di per sé indicativo di una condizione di sovraffollamento carcerario e fissato come limite minimo di accettabilità.
Con ciò attribuendo alla norma costituzionale un significato più ampio e tutelante di quello espresso dalla Corte di Strasburgo e, dunque, interpretando la normativa interna, laddove parla di spazio sufficiente, nel senso che non sia sufficiente uno spazio inferiore ai 4 mq calcolati con la metodologia C.P.T.
Ulteriore argomento a sostegno della possibilità di riempire di significato più ampio il concetto di trattamento contrario al senso di umanità può venire anche dalla considerazione che il limite di 3 mq al netto del bagno e al lordo del mobilio fissato dalla sentenza Mursic v. Croatia è, in ambito internazionale, lo standard più basso tra quelli emersi nell’elaborazione sul tema.
Si è già citato, in premessa, il Comittee Against Torture delle Nazioni Unite, istituito nell’ambito della Convention Against Torture and Other Cruel, Inhuman or Degrading Treatment or Punishment del 1984, ratificata dall’Italia il 12.1.1989.
Il Comitato (anche C.A.T.), infatti, nel proprio report del 2018[25] sui temi inerenti all’oggetto della Convenzione ha indicato che, sebbene sia impossibile stabilire con certezza degli standard uniformi, vi sono due organismi internazionali dotati di sufficiente autorevolezza che hanno indagato il tema del sovraffollamento carcerario e fissato dei parametri minimi per prevenire il fenomeno, che a sua volta si correla alla sottoposizione dei ristretti a trattamenti inumani e degradanti. Uno è il C.P.T., di cui si è già detto; l’altro è il Commissariato della Croce Rossa Internazionale, che il C.A.T. indica quale proprio modello primario e con cui ha redatto uno specifico documento in tema di sovraffollamento: il “Handbook on strategies to reduce overcrowding in prisons” del 2013.
L’I.C.R.C. ha elaborato, sulla base dell’esperienza maturata (verrebbe da dire sul campo), che lo spazio congruo da garantire ad un prigioniero perché possa dormire indisturbato, allocare i propri oggetti personali e muoversi dovrebbe essere di 5,4 mq per le celle singole, escluso il bagno ma inclusi 1.6 mq almeno di letto/spazio per dormire, mentre dovrebbe attestarsi in 3,4 mq a persona in camere condivise o dormitori comuni, incluso lo spazio in cui sono allocati i letti.
La Croce Rossa, tuttavia, evidenzia che anche spazi inferiori potrebbero essere adeguati, in considerazione delle condizioni complessive del regime detentivo, non potendo esaurirsi il sindacato nella mera valutazione dello spazio disponibile[26].
È chiaro a chi scrive che le fonti richiamate sono appartenenti al cosiddetto soft law, sicché attribuire ad esse valore direttamente cogente non sarebbe possibile.
Tuttavia, alcuni elementi rinforzano l’idea che le indicazioni in esse contenute possano essere utilizzate non tanto come parametro normativo, quanto piuttosto quali fonti di conoscenza, descrittive di quel che in ambito internazionale è considerato sovraffollamento carcerario; nonché di come, ed in che misura, su base scientifica e di osservazione statistica, al sovraffollamento così descritto venga associata una condizione di sofferenza ulteriore, data dalla carenza di spazio vitale.
Le fonti indicate, anzitutto, (così come la giurisprudenza EDU), convergono nell’individuare un metodo di calcolo lo spazio personale al netto del bagno e al lordo del mobilio; particolarmente chiare sul punto le indicazioni del ICRC e del CAT che specifica come rientrino nello spazio personale sia i letti singoli che i letti a castello (il che, ancora una volta, evidenzia la non adeguatezza della giurisprudenza interna sul tema).
In secondo luogo, le stesse indicano dei parametri minimi che fissano lo spazio personale che occorre garantire per evitare che la detenzione si connoti in termini di ill-treatment (maltrattamento).
Pur adottando, poi, un approccio multifattoriale per verificare se, in concreto, il trattamento degradante sussista, la base di partenza del ragionamento di entrambe le fonti citate è che quella soglia rappresenta il minimo accettabile in termini di spazio per escludere che possa porsi un problema di carenza di sufficiente vivibilità degli ambienti ed al di sotto del quale si verte già in una condizione di ovecrowding.
Da ultimo, entrambi gli organismi internazionali citati hanno fissato soglie più elevate di quelle accolte dalla giurisprudenza EDU nella sentenza Mursic.
In un quadro siffatto, l’interprete non può esimersi dal chiedersi quale opzione possa essere costituzionalmente accettabile ai sensi dell’art. 27 c. 3 Cost.: 3 mq, minimo fissato dalla giurisprudenza della Corte EDU; 3,4 mq, minimo fissato dal I.C.R.C. ed adottato dal C.A.T.; 4 mq, secondo l’elaborazione del C.P.T.
Tale ultima opzione appare quella più coerente con il sistema costituzionale nel suo complesso.
Se, come si è detto, il senso di umanità si caratterizza per l’essere frutto di un atto di riconoscimento reciproco che porta ad attribuire alla persona umana un minimo di dignità intangibile, ed è contrario ad esso ogni condotta che viola il perimetro intangibile di questa dignità, ponendo la persona in una condizione di sofferenza che finisce per disconoscere ad essa il valore di uomo, non potrebbe accettarsi costituzionalmente una tutela inferiore a quella che individua il punto oltre il quale la detenzione viene esperita in condizioni di sovraffollamento.
E ciò per la valida ragione che già questa soglia 4 mq di spazio personale, al lordo del mobilio e al netto del locale bagno, individua una condizione di pregiudizio per la persona ed uno spazio che viene giudicato insufficiente, come riconosciuto anche dalla giurisprudenza EDU che, pur accogliendo uno standard più basso, valuta comunque come idonee a richiedere un sindacato per una potenziale violazione le condizioni in cui lo spazio personale è compreso tra i 3 ed i 4 mq.
L’assunzione di questo parametro è, dunque, comunque coerente anche con la giurisprudenza EDU, che pur non applicando lo strong presumption test considera già al di sotto dei 4 mq la sussistenza di una condizione problematica ai fini della tutela dell’art. 3 CEDU.
Giova, poi, evidenziare che una nozione autonoma eccedente l’art. 3 CEDU costruita in questi termini sarebbe ben compatibile con la tutela convenzionale. Lo stesso art. 53 CEDU, infatti, consente agli Stati di adottare standard più elevati di quelli espressi dalla convenzione; circostanza che, anche in un’ottica di sistema, rende la presente costruzione compatibile sia con il rispetto della Costituzione che della Convenzione.
Merita di essere segnalata sul tema la recentissima sentenza n. 33/2025 della Corte Costituzionale, in cui, ai paragrafi 7.1 e seguenti, la Corte ha ribadito che in virtù dell’art. 53 CEDU la tutela dei diritti garantiti dalla Convenzione può essere assicurata dagli Stati membri anche in assenza di specifiche pronunce della Corte di Strasburgo su un determinato aspetto di quel diritto.
È chiaro che in questa sede si è di fronte ad un tema molto arato in ambito convenzionale e dove vi è, viceversa una stabile giurisprudenza a Strasburgo, il che non consentirebbe all’interprete-giudice comune di andare oltre la Corte deputata all’interpretazione della Convenzione (secondo Corte Costituzionale 49/2015).
Tuttavia è interessante ai fini del discorso qui in costruzione la pronuncia citata perché individua il metodo che potrebbe portare ad una corretta integrazione dei sistemi di tutela tra Costituzione e Convenzione: considerare la Convenzione parte del sistema costituzionale e elevare la protezione dei diritti allineando, ai sensi dell’art. 53 CEDU, la minor tutela in ambito convenzionale a quella (che qui si intenderebbe costruire) più elevata costruita sulla norma costituzionale[27].
9. La tutela dal sovraffollamento in chiave costituzionale: una proposta radicale
Alla luce della disamina condotta e richiamando le tecniche di tutela dei diritti, può dirsi che la dignità umana sia un bene che non meriterebbe costituzionalmente la più ampia forma di tutela possibile?
E se diversi organismi internazionali, pur adottando diverse soglie, concordano sul fatto che già tra i 3 ed i 4 mq di spazio personale ci si colloca in un range già insufficiente, capace di porre in dubbio il rispetto della dignità dei ristretti, non è costituzionalmente doveroso fare del parametro dei 4 mq il limite di riferimento ai sensi dell’art. 27 c. 3 Cost., alla luce del quale leggere poi le altre norme dell’ordinamento?
A questi interrogativi, si ritiene di poter dare risposta affermativa.
La carenza di spazio determinata dalla disponibilità di meno di 4 mq per ciascun ristretto, infatti, individua una caratteristica oggettiva della detenzione, che viene esperita in condizioni di chiara non adeguatezza ed insufficienza degli spazi detentivi, sino a porsi in termini non compatibili con il pieno rispetto della dignità dei ristretti; sarebbero, dunque, riscontrati in questo senso anche i criteri ermeneutici già accolti dalla giurisprudenza costituzionale sulla nozione di trattamento contrario al senso di umanità, sopra richiamati.
In questo senso emergerebbe una nozione autonoma di trattamento contrario al senso di umanità con specifico riferimento alle condizioni minime di spazio personale, ancorata all’art. 27 c. 3 Cost.
Sembrerebbe, dunque, poi possibile addivenire ad una interpretazione costituzionalmente orientata degli art. 1 e 6 L. 354/1975, alla luce dell’art. 27 c. 3 Cost. nel senso di ritenere che, ai fini di individuare l’adeguatezza delle dimensioni delle camere detentive, lo spazio personale all’interno di ogni cella da garantirsi ordinariamente a ciascun detenuto debba essere pari a 6 mq nelle celle singole e 4 mq per detenuto nelle celle con più occupanti, calcolati al netto del locale bagno ed al lordo del mobilio, secondo lo standard C.P.T.
Una interpretazione in questi termini, ove venisse accolta e sostenuta, infatti, individuerebbe una opzione coerente sul piano assiologico, costituzionalmente adeguata e convenzionalmente conforme, orientata alla tutela dei diritti secondo standard effettivi.
Un’ermeneutica di questo tipo, inoltre, consentirebbe alla magistratura di offrire ai ristretti una ben più articolata, elevata ed adeguata risposta al problema del sovraffollamento carcerario, distogliendo la Magistratura di Sorveglianza da una mole defatigante di reclami tesi ad ottenere meri risarcimenti - spesso infondati, adottando l’effettiva giurisprudenza convenzionale sull’art. 3 CEDU - ed impegnando la stessa in una più puntuale valutazione delle effettive condizioni di detenzione nelle carceri del nostro paese, con poteri di intervento ben più pregnanti di quelli che attualmente la stessa sta esercitando.
Infatti, attraverso l’individuazione di un limite minimo di spazio personale costituzionalmente adeguato e superiore a quello rilevante per l’art. 3 CEDU secondo la giurisprudenza di Strasburgo, si potrebbe riempire di significato il dato normativo di cui all’art. 6 O.P., alla luce dell’art. 27 c. 3 Cost., e considerare grave ed attuale ogni allocazione in celle non compatibili con gli standard C.P.T.
Ciò consentirebbe al magistrato di intervenire nel caso specifico, disponendo ad esempio una diversa allocazione del detenuto, vietando di allocare in celle più detenuti di quelli che consentano il rispetto del limite indicato, eventualmente imponendo all’amministrazione con provvedimenti vincolanti di cessare nella condotta lesiva dei diritti delle persone ristrette, piuttosto che limitarsi ad offrire un magro ristoro (ristoro che, comunque, rimarrebbe azionabile in altra sede per i pregiudizi esauritisi).
Forse, un’ermeneutica di questo tipo potrebbe consentire interventi più efficaci e risolutivi di quelli sinora messi in campo, realizzando la tutela piena ed effettiva della dignità dei detenuti.
Una proposta, come detto, provocatoriamente radicale, ma che, lungi dal porsi quale imprudente balzo oltre la CEDU che dal labirinto ci schianti in mare, getta i suoi passi nel dedalo delle fonti seguendo il filo che promana dalla Costituzione, superando la paura ed il senso di impotenza; come quel del pastore che addenta il serpente e spezza il giogo dell’eterno ritorno.
[1] Cfr.“Il letto (di Procuste) e le Sezioni Unite-sent.n.6551/2021-: il punto sugli spazi detentivi minimi e un’occasione per parlare ancora di giurisprudenza convenzionale e limiti all’apprezzamento del giudice nazionale”, F. Gianfilippi, in questa rivista.
[2] Celebre motto di Voltaire.
[3] F. Nietzsche, “Così parlò Zarathustra – Un libro per tutti e per nessuno”, Adelphi, 1976.
[4] Il riferimento è qui al brano La Ballata degli Impiccati, di Fabrizio De Andrè: “Tutti morimmo a stento/ ingoiando l’ultima voce/ tirando calci al vento/ vedemmo sfumare la luce”; dall’album Tutti Morimmo a stento, 1968.
[5] Si allude a E. A. Poe, “The raven” poesia pubblicata sull’“American Review” nel febbraio 1845.
[6] P.C. Tacito, “De vita et moribus Iulii Agricolae”, Introduzione § 1-2, ed. Rizzoli, 1990.
[7] V. Manes, “Il giudice nel labirinto. Profili delle intersezioni fra diritto penale e fonti sovranazionali” ed. Dike, Roma, 2012.
[8] Si rimanda, per una analisi esaustiva allo scritto “Sulla soglia dell’Umanità. Un dialogo interrotto tra Roma e Strasburgo”, in questa rivista.
[9] Cfr. Corte Europea dei diritti dell’uomo, Sez. II, Causa Torregiani e altri c. Italia, 8 gennaio 2013, nella traduzione disponibile sul sito del Ministero della Giustizia, al paragrafo 50: “In particolare, la Corte ha già avuto modo di indicare che, nella valutazione dell’effettività dei rimedi riguardanti denunce di cattive condizioni detentive, la questione fondamentale è stabilire se la persona interessata possa ottenere dai giudici interni una riparazione diretta ed appropriata, e non semplicemente una tutela indiretta dei diritti sanciti dall’articolo 3 della Convenzione (si veda, tra l’altro, Mandić e Jović c. Slovenia, nn. 5774/10 e 5985/10, § 107, 20 ottobre 2011). Così, un’azione esclusivamente risarcitoria non può essere considerata sufficiente per quanto riguarda le denunce di condizioni d’internamento o di detenzione asseritamente contrarie all’articolo 3, dal momento che non ha un effetto «preventivo» nel senso che non può impedire il protrarsi della violazione dedotta o consentire ai detenuti di ottenere un miglioramento delle loro condizioni materiali di detenzione (Cenbauer c. Croazia (dec.), n. 73786/01, 5 febbraio 2004; Norbert Sikorski c. Polonia, n. 17599/05, § 116, 22 ottobre 2009; Mandić e Jović c. Slovenia, sopra citata § 116; Parascineti c. Romania, n. 32060/05, § 38, 13 marzo 2012). In questo senso, perché un sistema di tutela dei diritti dei detenuti sanciti dall’articolo 3 della Convenzione sia effettivo, i rimedi preventivi e compensativi devono coesistere in modo complementare (Ananyev e altri c. Russia, nn. 42525/07 e 60800/08, § 98, 10 gennaio 2012).”
[10] L’ermeneutica di Strasburgo sul punto è ingente, trattandosi di tema che riveste nell’interpretazione della Corte carattere metodologico; per un approfondimento si vedano in dottrina: V. Zagrebelski - R. Chenal - L. Tomasi “Manuale dei Diritti Fondamentali in Europa”, ed. il Mulino, 2022, Cap. 7, pagg. 147 e ss. dedicato al tema della giustificazione dell’interferenza Statale; J. Gerards, “General Principles of the European Convention on Human Rights”, ed. Cambridge University Press, 2019.
[11] Si segnala, sul tema generale, G. Silvestri, “La discrezionalità tra legalità e giurisdizione, in Sistema Penale, rivista online, 17.5.2024.
[12] Si veda A. Ruggeri – A. Spadaro “Lineamenti di giustizia costituzionale”, ed. Giappichelli, Torino, 2009; più di recente F. Viganò, “La proporzionalità nella giurisprudenza recente della corte costituzionale: un primo bilancio”, in Sistema Penale, rivista online, 8.1.2025.
[13] Cfr. Torregiani c. Italia, cit., § 50 e § 90 e ss.
[14] Cfr. European Prison Rules, 2006 Printed at the Council of Europe, aggiornate al giugno 2020 dalla “Recommendation Rec(2006)2-rev of the Committee of Ministers to member States on the European Prison Rules”.
[15] Si veda, in particolare “Living space per prisoner in prison establishments: C.P.T. standards” (C.P.T./Inf./2015/44).
[16] ECHR, Case Mursic v. Croatia, G.C., 2016.
[17] ECHR, Case Mursic v. Croatia, G.C., cit. § 103-123: “The Court has stressed on many occasions that under Article 3 it cannot determine, once and for all, a specific number of square metres that should be allocated to a detainee in order to comply with the Convention. Indeed, the Court has considered that a number of other relevant factors, such as the duration of detention, the possibilities for outdoor exercise and the physical and mental condition of the detainee, play an important part in deciding whether the detention conditions satisfied the guarantees of Article 3 […] Accordingly, the Court’s assessment whether there has been a violation of Article 3 cannot be reduced to a numerical calculation of square metres allocated to a detainee. Such an approach would, moreover, disregard the fact that, in practical terms, only a comprehensive approach to the particular conditions of detention can provide an accurate picture of the reality for detainees”.
[18] Si veda la ECHR, Case Mursic v. Croatia, G.C., 2016, “Joint Partly Dissenting Opinion Of Judges Sajò, López, Guerra and Wojtyczek”, p. 65 e ss.
[19] Si veda ECHR, Case Mursic v. Croatia, G.C., 2016, “Partly Dissenting Opinion of Judge Pinto de Albuquerque” p. 73 e ss.
[20] Cfr.“Il letto (di Procuste) e le Sezioni Unite-sent.n.6551/2021-: il punto sugli spazi detentivi minimi e un’occasione per parlare ancora di giurisprudenza convenzionale e limiti all’apprezzamento del giudice nazionale”, F. Gianfilippi, in questa rivista.
[21] Cassazione, SS. UU. Sentenza n. 6551 del 29.4.2021.
[22] Si veda la Sentenza n. 49/2015 del 14.1.2015, § 7“Solo nel caso in cui si trovi in presenza di un “diritto consolidato” o di una “sentenza pilota”, il giudice italiano sarà vincolato a recepire la norma individuata a Strasburgo, adeguando ad essa il suo criterio di giudizio per superare eventuali contrasti rispetto ad una legge interna, anzitutto per mezzo di «ogni strumento ermeneutico a sua disposizione», ovvero, se ciò non fosse possibile, ricorrendo all’incidente di legittimità costituzionale (sentenza n. 80 del 2011). Quest’ultimo assumerà di conseguenza, e in linea di massima, quale norma interposta il risultato oramai stabilizzatosi della giurisprudenza europea, dalla quale questa Corte ha infatti ripetutamente affermato di non poter «prescindere» (ex plurimis, sentenza n. 303 del 2011), salva l’eventualità eccezionale di una verifica negativa circa la conformità di essa, e dunque della legge di adattamento, alla Costituzione (ex plurimis, sentenza n. 264 del 2012), di stretta competenza di questa Corte.
Mentre, nel caso in cui sia il giudice comune ad interrogarsi sulla compatibilità della norma convenzionale con la Costituzione, va da sé che questo solo dubbio, in assenza di un “diritto consolidato”, è sufficiente per escludere quella stessa norma dai potenziali contenuti assegnabili in via ermeneutica alla disposizione della CEDU, così prevenendo, con interpretazione costituzionalmente orientata, la proposizione della questione di legittimità costituzionale.”.
[23] Cfr. Sez. 1, n. 11207 del 08.02.2024, Barone, Rv. 286126 “In tema di rimedi risarcitori ex art. 35-ter Ord. pen. nei confronti di detenuti o internati, ai fini della determinazione dello spazio individuale minimo di tre metri quadrati da assicurare affinché lo Stato non incorra nella violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti stabilito dall'art. 3 della Convenzione EDU, come interpretato dalla giurisprudenza della Corte EDU, non deve essere computato lo spazio occupato dal letto singolo del soggetto ristretto, in quanto arredo tendenzialmente fisso al suolo, non suscettibile, per il suo ingombro o peso, di facile spostamento da un punto all'altro della cella e tale da compromettere il movimento agevole del predetto al suo interno”.
[24] Si allude, in termini inversi, all’ermeneutica delle nozioni autonome elaborate in ambito CEDU.
[25] Si veda il “General Comment No. 4 (2017) on the implementation of article 3 of the Convention in the context of article 22”, pubblicato il 9.2.2018.
[26] Cfr. “Handbook on strategies to reduce overcrowding in prisons”, United Nations, October 2013, p. 10-11.
[27] Il tema meriterebbe spazio maggiore, ma ci si ferma qui per brevità.