Sommario: 1. Il diritto perpetuamente in pericolo - 2. L’ordine naturale delle cose - 3. Giustizia, diritto e forza - 4. Diritto, politica e cultura - 5. La lotta per il diritto
1. Il diritto perpetuamente in pericolo
In un saggio che ha accompagnato la pubblicazione del libro sulla ‘certezza del diritto’ di Lopez de Oñate, Piero Calamandrei ammoniva sulla necessità di rendersi consapevoli che «il diritto è perpetuamente in pericolo».[1]
Questo passaggio è stato ricordato (da Guido Alpa) nella presentazione della pubblicazione di una conferenza tenuta dallo stesso Calamandrei nel 1940 nella sede della Fuci: una pubblicazione arricchita, oltre a quello di Guido Alpa, dai saggi di presentazione di Gustavo Zagrebelsky e di Pietro Rescigno.[2]
Il testo della conferenza, intitolata alla ‘fede nel diritto’, valeva, allora, come un monito contro la creazione libera del diritto fuori dal perimetro costituito dal sistema positivo.
La fede dell’intellettuale liberale nel diritto positivo si poneva, in quegli anni, in ultima analisi, come la disperata difesa contro l’arbitrarietà del potere, che appariva, a quel tempo, più facilmente predicabile in relazione all’attività dei giudici e dei funzionari (allora, in larga misura, ancora legati alla corrente fedeltà politica), che alla volontà del legislatore.
Ma che cosa è in pericolo, quando è in pericolo il diritto?
Il diritto, di per sé, è privo di un suo contenuto specifico: è la mera idea (formale) del limite. La cifra esteriore della sacralità.
Prima ancora che la storia si incaricasse di fornirgliene una tragica conferma, Carl Schmitt e Hans Kelsen (campioni di un dibattito capace di travalicare i confini del discorso giuridico) hanno insegnato al Novecento, violentemente spalancato dagli orrori della Grande guerra, che il diritto è pura decisione sovrana[3] e norma aperta ad ogni contenuto.[4]
Quando la vecchia Europa - umiliata e, in gran parte, suicidatasi nella sua trentennale guerra civile[5] - ha riscritto le sue costituzioni democratiche, si è talora illusa di poter recuperare il valore antico del diritto di natura come ultimo baluardo contro la ferocia e la barbarie.
2. L’ordine naturale delle cose
Al tema dell’‘ordine naturale delle cose’, uno tra i nostri giuristi civilisti di più apprezzata e raffinata cultura, ha ricondotto, non molti anni fa – quasi come a un comune denominatore – l’ispirazione di talune, ricche, riflessioni dedicate ai più diversi temi (come la soggettività, l’uguaglianza, le biotecnologie, il multiculturalismo), tenendo sullo sfondo il dilemma da sempre iscritto nelle dispute, mai sopite, sul rapporto tra diritto e natura.[6]
La storia delle dottrine del diritto naturale, si ammonisce, è la nostra storia intellettuale, che prende vita dall’esperienza presocratica, con la proiezione, nella natura, di principi e affermazioni di valore tratti dall’esperienza delle relazioni sociali, e l’annuncio dell’apertura del pensiero, con l’abbandono della magia, a ciò che diverrà, in progresso di tempo, il senso della causalità scientifica. Una storia lunghissima, coerentemente misurabile fino alle reazioni opposte, in un tempo a noi più vicino, agli orrori delle dittature del ‘900, con la dichiarazione dei diritti universali dell’uomo e la creazione di una dimensione giuridica sovra-nazionale e sovra-statuale.
E tuttavia, pur quando così ben strutturato sulla trama elegante dell’‘ordine naturale delle cose’, nessuno steccato immaginario ha mai potuto preservare l’esperienza delle nostre comunità dalle istanze del pluralismo, dal bagno della concretezza, dalla dilagante problematicità del reale. Su quelle forze ‘dis-ordinanti’ ancora registriamo oggi, come esiti politico-culturali di un secolare tragitto, la permanente espropriazione, da parte degli esecutivi (in nome dell’urgenza e del tecnicismo delle decisioni), della funzione legislativa; la liquidazione della legge; la trasformazione della politica da rappresentanza in rappresentazione; il giudizio politico, morale, e perfino quelli storico e giuridico, veleggianti verso approdi conformisti, ludici, puramente estetici.
Cospira a questi effetti, senza alcun dubbio e paradossalmente, «il progresso della conoscenza, che con la vertigine della storia genera anche quella di un’infinita complessità. Si direbbe che l’uomo contemporaneo sia meno in grado di ogni suo predecessore di reggere il fardello – di sopportare quello che sa. Come è solito nascondersi l’umanità della legge giuridica, così amerebbe non aver scoperto che è rivedibile la legge naturalistica, e che l’ordine si presenta in entrambi i sensi come un prodotto instabile della mente. […] Nell’era dell’onnipotenza tecnologica, l’idea dell’ordine naturale tradisce, attraverso brandelli di antiche dottrine, il suo sembiante di gran lunga più ingenuo: la vita ‘secondo natura’ – ed in essa un individualismo ‘debole’, sordo e muto – come abbandono al corso delle cose, come scelta di non scegliere, la cui sola evocazione è sufficiente a candidarla come la migliore delle scelte possibili. Se natura è ciò che è intatto da manipolazione – in contrapposto all’artificio – abbiamo oggi ogni elemento per affermare che, quale criterio dell’azione, non c’è da farvi affidamento. […] Anche le abitudini che troviamo, per la loro diffusione e familiarità, massimamente naturali – le nostre maniere di lavorare, abitare, nutrirci, quelle di amarci con anime e corpi – conosciamo come il risultato di una lunga evoluzione umana nella storia. Ci sappiamo insomma, anche se stentiamo a dichiararlo, inchiodati senza scampo a una cultura sovrapposta alla natura: le opzioni dell’etica non sono mai tra natura e cultura, ma fra diverse possibilità aperte nel contesto culturale in cui viviamo».[7]
La formula del diritto naturale, con tutta la sua antica vocazione di argine all’ingiustizia, rischia più che mai nel mondo attuale di risuonare come un’abiura al pensiero critico, parola d’ordine delle divisioni culturali e religiose, grido di intolleranza, invito alla chiusura, alla discriminazione, perfino alle armi.
Dovunque invocato come fonte di potere, il diritto naturale rivela la sua irriducibile vocazione totalitaria.
Ma ancora una volta, come un vertiginoso nuovo capovolgimento, il sentimento del nostro darci con il mondo, dell’appartenenza a quello sfondo mobile a cui di ‘natura’ diamo il nome, la progettazione del dover essere in base all’essere (alle regolarità e ai nessi causali che si riscontrano nei nostri rapporti reciproci nel contesto in cui hanno luogo) sembrano tornare a offrirci le condizioni necessarie perché il diritto, mantenendo la propria struttura ambigua, non cessi di manifestarsi come tale.[8]
Come in un’ideale trasposizione di letture ‘leviane’[9], la coltivazione degli studi giuridici ci insegna a muoverci verso un ‘futuro dal cuore antico’; a progettare l’idea dell’‘allontanamento’ e, dunque, a disegnare con precisione il punto dal quale, sempre, ogni cammino ha da partire.
3. Giustizia, diritto e forza
La fondazione in termini ‘forti’ dell’idea del diritto sul tronco della ‘giustizia’ (e, in ultima analisi, della ‘verità’ che di quest’ultima rappresenta lo sfondo) vale a giustificare il riferimento alla stessa idea della ‘forza’ come connotato della giustizia che trova attuazione, e che contrassegna il tratto di qualificazione della stessa ‘aggressione’ conforme a giustizia come il contrario speculare della ‘violenza’.
L’esame del frammento contenuto nel codice di Hammurabi rimanda all’idea della giustizia come ‘baluardo’ contro la pre-potenza dei ‘forti’ contro i ‘deboli’ («affinché rendesse visibile la giustizia nel Paese, eliminasse i malvagi e i cattivi, perché i deboli non fossero privati dei diritti dai forti»[10]).
Gli stessi documenti della storia greca più antica appaiono inserirsi con coerenza nel vivo di questo discorso. Nella narrazione della guerra del Peloponneso - con particolare riguardo alla vicenda degli Ateniesi venuti a portare un ultimatum alla sventurata cittadina di Melo (destinata a soccombere dinanzi ai progetti di espansione imperiale della grande metropoli attica) -, Tucidide ricorda come, agli abitanti di quella minuscola città che insistevano sul loro diritto all’autonomia, gli ambasciatori ateniesi rispondessero con agghiacciante lucidità che «l’esame di ciò che è giusto, lo si compie solamente quando c’è uguale necessità da ambo le parti. Là dove ci sono un forte e un debole, il possibile viene eseguito dal primo ed accettato dal secondo».[11]
«Sempre, per una necessità di natura» - continuano gli Ateniesi nel racconto di Tucidide - «ogni essere esercita tutto il potere di cui dispone».[12]
La nozione di giustizia che trova spazio nel racconto dello storico greco del V secolo sembra profilarsi, con caratteri di rigorosa necessità, in un contesto di rapporti di forza che risultano già di per sé equilibrati; quando cioè il potere non può esercitarsi in virtù di limiti oggettivi che ne comprimono la capacità espansiva, costituendo per ciò stesso la giustizia come effetto di una forza in equilibrio.
È possibile persino immaginare che queste battute, che precedono il massacro indiscriminato degli abitanti di Melo, siano pronunciate dagli ateniesi con una specie di religiosa e rassegnata amarezza, in coerenza con lo spirito della tragedia cui gli stessi furono da sempre avvezzi, educati alla contemplazione della dura e fatale necessità che s’impone nel mondo degli uomini, e degli stessi dèi, pur essi ineluttabilmente governati dalla legge della forza.[13]
Più di recente, chiamato ad affrontare il tema del rapporto tra ‘giustizia’ e ‘forza’, nel ‘rileggere’ un frammento dei ‘Pensieri’ di Blaise Pascal («Giustizia, forza. – È giusto che ciò che è giusto sia seguìto, ed è necessario che ciò che è il più forte sia seguìto»), Jacques Derrida ha tentato di ordinare il rigore e il senso di quelle parole: il frammento suggerisce che «quello che è giusto deve - ed è giusto - essere seguìto: seguìto di conseguenza, seguìto d’effetto, applicato, enforced; poi che ciò che è ‘il più forte’ deve ugualmente essere seguìto: di conseguenza, d’effetto ecc. Detto altrimenti, l’assioma comune è che il giusto e il più forte, il più giusto come il più forte devono essere seguìti. Ma questo ‘dover essere seguìto’ comune al giusto e al più forte, è ‘giusto’ in un caso, ‘necessario’ nell’altro: è giusto che ciò che è giusto sia seguìto [detto altrimenti, il concetto o l’idea del giusto, nel senso di giustizia, implica analiticamente e a priori che il giusto sia ‘seguìto’, enforced, ed è giusto - anche nel senso di giustezza - pensare così], è necessario che ciò che è il più forte sia seguìto (enforced).
«Pascal prosegue: “La giustizia scompaginata dalla forza è impotente [detto altrimenti, la giustizia non è la giustizia, non è resa se non ha la forza di essere enforced; una giustizia impotente non è una giustizia, nel senso del diritto]; la forza scompaginata dalla giustizia è tirannica. La giustizia senza forza viene contraddetta, perché ci sono sempre malvagi; la forza senza la giustizia viene riprovata. Bisogna dunque congiungere la giustizia e la forza; per fare in modo che quel che è giusto sia forte e che quel che è forte sia giusto”».[14]
‘Giustizia’, ‘diritto’ e ‘forza’ riannodano così, in un rapporto di reciproca implicazione, il legame che trascorre tra la legittimazione della forza (e quindi del ‘potere’ che ne costituisce l’espressione più saliente sul territorio dei rapporti politici) in base al diritto; e ancora di quest’ultimo in base alla giustizia. Per il mistico cristiano (se tale può qualificarsi la vocazione del giansenismo pascaliano), un potere che pretenda di legittimare l’imposizione di regole sulla base della sola forza (come valore in sé), svincolandone ‘programmaticamente’ la manifestazione da alcun nesso con il valore della ‘giustizia’, costituisce l’esempio più evidente dell’azione ‘arbitraria’ e ‘violenta’, della criminosa pretesa del tiranno.
E tuttavia - nell’impossibilità di statuire, nei termini di una condivisione storicamente ‘universale’, il contenuto ‘sostanziale’ dell’asserzione che è giusta di per sé (in quanto tale), che si impone in ‘forza’ del carattere intrinseco della sua ‘giustizia’ -, ciò che distingue, sul piano storico-culturale, le diverse impostazioni fornite sul tema della natura del diritto e del potere, dev’essere piuttosto ricercato nelle differenti inclinazioni assunte con riguardo ai principi di legittimazione e di riconoscimento dell’idea stessa di ‘giustizia’.
Quest’ultima idea è a sua volta condizionata dai differenti criteri di discernimento e di selezione del valore di ‘autorità’ - e, in ultima analisi, di ‘verità’ – che occorre assegnare alle istanze identificative della giustizia, quali parametri di corrispondenza idonei alla determinazione dell’asserzione ‘giusta’.
Di volta in volta, nel corso dei secoli, l’idea della ‘giustizia’ ha finito con l’associarsi all’intuizione di ciò che è ‘giusto’ rispetto ai contenuti della volontà divina; quando non della ‘tradizione dei padri’; della natura delle cose; della ragione naturale dell’uomo (naturalis ratio); di ciò che è giusto rispetto al valore dell’uguaglianza universale; alla spontanea regolatività storica dei rapporti; alla volontà del più forte; dei più sapienti; della maggioranza, etc.
Si avverte, nel discorso condotto attorno ai principi di legittimazione o di identificazione della giustizia, l’eco dei ‘titoli’ che la tradizione della scienza politica comunemente rinviene in relazione al tema del ‘potere’.[15]
4. Diritto, politica e cultura
Nel tempo delle democrazie contemporanee, il diritto, dunque, non è altro che il prodotto della cultura e del potere che prevalgono nel conflitto delle idee.[16] Null’altro che la particolare forma di un sapere che si struttura come potere, poiché la verità non si presenta mai al di fuori del potere, né senza potere.
Si tratta della lezione che occorre trarre dalle lucide riflessioni di Michel Foucault.
Nell’analisi dei rapporti di potere, sostiene Foucault, occorre «assumere come punto di partenza le forme di resistenza contro le diverse forme di potere. Per usare un’altra metafora, esso consiste nell’usare tali resistenze come un catalizzatore chimico per portare alla luce i rapporti di potere, localizzarne la posizione, individuarne il punto di applicazione e i metodi adottati. Invece di analizzare il potere dal punto di vista della sua razionalità interna, si tratta di analizzare i rapporti di potere attraverso l’antagonismo delle strategie. Ad esempio, per scoprire che cosa la nostra società intende per normalità, forse dovremmo indagare cosa avviene nel campo della follia. O cosa intendiamo per legalità nel campo dell’illegalità. E così per capire quali sono i rapporti di potere in gioco, forse dovremmo indagare le forme di resistenza e i tentativi che sono stati fatti per scindere tali rapporti».[17]
Tra gli esempi di ‘opposizione’ sociale che si sono andati sviluppando e moltiplicando nel corso degli ultimi anni, vale ricordare l’opposizione al potere degli uomini sulle donne, dei genitori sui bambini, della psichiatria sul malato mentale, della medicina sulla popolazione, dell’amministrazione sui modi in cui vive la gente.
Ai temi toccati da Foucault appare utile accostare - in una prospettiva che intenda suggerire le possibili condizioni di un discorso ‘giuridico’ sul potere - l’autorità così come esercitata negli ambiti più ristretti (settoriali o locali) della politica dei partiti o dei movimenti, del sindacato, delle confessioni religiose, delle comunità del lavoro e della scuola, delle famiglie, delle strutture associative organizzate della cultura, del volontariato, della produzione o del consumo. E a quella, associare le esperienze della ‘contestazione’ e del ‘dissenso’ interni ai gruppi sociali, più spesso destinate ad assumere la forma di organizzazioni autonome delle minoranze, come strategie di ‘lotta’ o di ‘resistenza’ politica e/o culturale all’autorità della maggioranza.
Al di là dell’ovvio carattere anti-autoritario, queste opposizioni si qualificano tra loro per una molteplicità di caratteri comuni: si pensi alla relativa ‘trasversalità’ (o intersezionalità) nello spazio politico; alla lotta diretta contro gli aspetti effettuali del potere; all’immediatezza dello scontro, in cui l’atteggiamento critico si rivolge agli aspetti più ‘vicini’ del potere ed a quelli che esercitano direttamente la loro azione sugli individui.
Queste lotte neppure si aspettano di trovare una soluzione al problema in un tempo futuro (come liberazioni, rivoluzioni, fine della lotta di classe). Rispetto alla scala teorica di spiegazione e rispetto al parametro rivoluzionario che polarizza lo storico, sono lotte ‘anarchiche’.
Le lotte in cui si manifesta l’opposizione al potere, in questa sua dimensione ‘microfisica’[18], sono lotte che mettono in discussione in primo luogo la condizione dell’individuo, affermando il diritto di questi alla propria diversità e alla difesa di tutto ciò che concorre alla determinazione della propria individualità, ed attaccando ciò che isola l’individuo, rompe i suoi legami con gli altri, spezza la vita comunitaria, rinchiude l’individuo in se stesso e lo vincola alla propria identità in modo forzato. Queste lotte non sono propriamente a favore o contro l’individuo, ma sono piuttosto contro il governo dell’individualizzazione.
L’obiettivo privilegiato delle opposizioni sociali in esame è costituito dallo smascheramento degli effetti di potere legati al sapere, alla competenza e alla qualificazione: la lotta muove contro i privilegi del ‘sapere’, ma anche contro la segretezza, la deformazione e le immagini mistificanti imposte alla gente. In questo non c’è niente di scientifico (cioè una credenza dogmatica nel valore del sapere scientifico), ma non c’è neppure un rifiuto scettico e relativistico di ogni verità verificata. Ciò che qui viene messo in discussione è il modo in cui circola e funziona il sapere, i suoi rapporti con il potere. In breve, il regime du savoir.[19]
5. La lotta per il diritto
L’invito foucaultiano sollecita ad affrontare un’analisi di noi stessi, ed insieme del nostro presente, in cui il compito della filosofia, come ontologia dell’attualità, ossia come analisi critica del nostro mondo, è qualcosa che assume un’importanza sempre meno eludibile.
L’obiettivo di ciascuno, chiamato all’esistenza nell’epoca della contemporaneità, ritrova, nell’incoraggiamento dello studioso francese, il senso di uno slancio diretto (piuttosto che a ‘scoprire’ cosa siamo) a rifiutare ciò che inconsapevolmente siamo diventati per la determinante incidenza conformativa dei poteri sociali egemoni circostanti. Ed ancora, ad immaginare e costruire quello che potremmo essere, per liberarci di questo tipo di ‘doppio legame’ politico indotto dall’individualizzazione e dalla totalizzazione simultanea delle moderne strutture di potere.
Ciò a cui siamo invitati a prendere coscienza è che il diritto (e i suoi contenuti) sta tutto nella spontanea disponibilità di ciascuno a ‘lottare per il diritto’ (secondo la formula cara a Rudolf Jhering[20]) e, dunque, a lottare per quel potere e per quella cultura a cui i nostri paesaggi mentali chiedono d’essere ricondotti.
La storia del pensiero dell’uomo sul diritto può dirsi – secondo un’elementare stilizzazione - il luogo dell’eterna ricapitolazione del conflitto culturale tra la sfrenatezza della volontà di potenza e l’arte misurata sulle condizioni dell’incontro. Dietro il punto in cui l’importanza del diritto sembra venir meno - quando si escluda la malizia della strategia - vi è solo il trionfo, mesto, della rassegnata rinuncia a lottare per l’affermazione delle proprie idee.
[1] P. CALAMANDREI, La certezza del diritto e le responsabilità della dottrina, in F. LOPEZ DE OÑATE, La certezza del diritto, Milano, 1968, pp. 169 ss. (v., in partic., p. 190).
[2] P. CALAMANDREI, Fede nel diritto, Roma-Bari, 2008.
[3] Cfr. i passaggi sul tema della ‘teologia politica’ in C. SCHMITT, Le categorie del ‘politico’, Bologna, Il Mulino, 1972, partic. pagg. 29 e segg.
[4] Cfr. H. KELSEN, Lineamenti di dottrina pura del diritto, Torino, Einaudi, 1967.
[5] Sulla categoria - puramente storiografica – del trentennio 1914-1945 come ‘guerra civile europea’ v. E. TRAVERSO, A ferro e fuoco. La guerra civile europea 1914-1945, Bologna, Il Mulino, 2007.
[6] D. CARUSI, L’ordine naturale delle cose, Torino, Giappichelli, 2011.
[7] Op. ult. cit., pp. 127 ss. I passaggi in corsivo sono tratti da U. Scarpelli, Bioetica laica, Milano, Baldini e Castoldi, 1998, pp. 44 s.
[8] D. CARUSI, Op. cit., p. 130.
[9] C. LEVI, Il futuro ha un cuore antico, Torino, Einaudi, 1956.
[10] Prologo del Codice di Hammurabi.
[11] «...nella considerazione [logos] umana il giusto [dikaia, come complesso dei diritti e dei doveri di ciascuno] viene preferito per una uguale necessità [apo tes ises ananches], mentre chi è più forte fa quello che può e chi è più debole cede» (TUCIDIDE, Guerra del Peloponneso, Libro V, 89, 1).
[12] «Noi crediamo infatti che per necessità di natura chi è più forte comandi; che questo lo faccia la divinità lo crediamo per convinzione (doxa), che lo facciamo gli uomini lo crediamo perché è evidente» (TUCIDIDE, Guerra del Peloponneso, Libro V, 105, 2).
[13] Cfr., per l’integrale resoconto del dialogo tra i mèli e gli ambasciatori ateniesi. TUCIDIDE, Il dialogo dei mèli e degli ateniesi, Milano, Apogeo Editore 2004. Su questa rivista L. Fierro C’è un modo per liberare gli uomini dalla “fatalità della guerra”?
[14] J. DERRIDA, Diritto alla giustizia, in Annuario filosofico europeo. Diritto, giustizia e interpretazione, Roma-Bari, Laterza, 1998, p. 12.
[15] La questione della legittimazione del potere è venuta conoscendo, nella prospettiva delle forme storiche in cui ha trovato la sua incarnazione, una pluralizzazione dei ‘principi’ di legittimità, sostanzialmente (e schematicamente) riconducibili (muovendo dalla integrazione dell’originaria ‘diade’ delle ‘formule politiche’ illustrate da Gaetano Mosca, coincidenti con la ‘formula politica’ che fa derivare il potere dall’autorità di Dio e quella che lo fa derivare dall’autorità del popolo: G. MOSCA, Elementi di scienza politica, Bari 1953 [1896], 2, pag. 110) ad almeno sei principi di legittimità, che si richiamano, a coppie antitetiche, a tre grandi principi unificatori: la Volontà, la Natura, la Storia. Il primo (la Volontà), sostanzialmente coincidente con la contrapposizione moschiana; il secondo (la Natura), distinto nelle due versioni della ‘natura’ come ‘forza originaria’, secondo la prevalente concezione classica del potere, e come ‘ordine razionale’ (per cui la legge di natura si identifica con la legge della ragione, secondo la prevalente interpretazione del giusnaturalismo moderno); il terzo (la Storia), distinguibile nella concezione del potere discendente dal principio di ‘legittimazione’ tradizionale (con riguardo all’autorità della storia passata), e nella concezione del potere sostenuta dal ‘rivoluzionario’, attraverso il riferimento alla storia futura come criterio di legittimazione del potere costituendo (su questa ricostruzione cfr. N. BOBBIO, Stato, governo, società. Frammenti di un dizionario politico, Torino, Einaudi 1995, pp. 79 e segg.).
[16] V., se si vuole, M. DELL’UTRI, Diritto, politica e cultura, Roma, Aracne, 2012.
[17] M. FOUCAULT, Perché studiare il potere: la questione del soggetto, in Potere e strategie. L’assoggettamento dei corpi e l’elemento sfuggente, Milano, Mimesis, 1994, pp. 106 e segg.
[18] Sul tema v. M. FOUCAULT, Microfisica del potere, Torino, Einaudi, 1977.
[19] M. FOUCAULT, Perché studiare il potere: la questione del soggetto, in Potere e strategie. L’assoggettamento dei corpi e l’elemento sfuggente, cit., passim.
[20] R. JHERING, La lotta per il diritto, Bari, Laterza, 1960 [Der Kampf um's Recht, 1872).