ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
I profili penalistici del concordato preventivo di Andrea Fidanzia
L’autore si occupa dei profili penalistici del concordato preventivo partendo, in primo luogo, dall’analisi dell’art. 236 L.F. , unica norma della Legge Fallimentare che contempla tale istituto sotto l’aspetto penalistico. Sono state, inoltre, esaminate le ricadute in termini penalistici dell’entrata in vigore della legge fallimentare del 2005 ed i rapporti dell’art. 236 L.F. con la dichiarazione di fallimento. Infine, sono state approfondite le problematiche relative al diverso configurarsi delle fattispecie di bancarotta concordataria e fallimentare in relazione alle varie fasi (ammissione, approvazione ed omologa) della procedura di concordato preventivo.
Sommario: 1. Premessa - 2. Disciplina dell’art. 236 1°comma L.F.- 3. Individuazione delle norme penali applicabili agli amministratori di società - 4. Ambito di applicazione dell’art. 236 comma 2° L.F. - 5. Applicabilità dell’art. 236 comma 2° L.F. a seguito della riforma della legge fallimentare - 6. Disciplina dell’art. 236 comma 2° L.F. e rapporto con la dichiarazione di fallimento - 7. Consumazione del delitto di bancarotta concordataria - 8. Atti distrattivi compiuti dopo l’ammissione al concordato preventivo - 9. Atti distrattivi commessi successivamente all’approvazione del concordato ed al provvedimento giudiziale di omologa, - 10. Atti distrattivi compiuti prima dell’ammissione al concordato preventivo da amministratore di società poi fallita.
1. Premessa
La normativa penalistica del concordato preventivo è sempre stato un tema tradizionalmente trascurato dal nostro legislatore, il quale, se nel versante civilistico, ha sempre disciplinato la procedura del concordato preventivo in modo dettagliato e capillare, sia nel periodo precedente che in quello successivo alla riforma del diritto fallimentare del 2005, che è stato caratterizzato da una serie di interventi finalizzati ad attribuire nuovo vigore, nuova linfa a tale procedura, in campo penale, per lungo tempo, prima della recente introduzione degli art. 217 bis e 236 bis L.F., l’unica norma di riferimento è sempre stata l’art. 236 L.F. , la quale è rimasta inalterata nonostante le profonde modifiche e trasformazioni dell’istituto del concordato preventivo, finalizzate ad accentuarne il caratteristico privatistico, a consentire una anticipata emersione della crisi dell’imprenditore, a ridimensionarne i profili liquidatori a vantaggio della prospettiva di risanamento dell’impresa.
L’art. 236 L.F. è una norma che già prima della riforma della legge fallimentare del 2005 era formulata in modo imperfetto a causa di imprecisioni, incongruenze, e difetti di coordinazione, che riguardavano e riguardano, tuttora, soprattutto il primo comma.
Con riferimento al secondo comma, la dottrina si è, in primo luogo, posta la problematica della sua perdurante applicabilità dopo il mutamento normativo dei presupposti di accesso alla procedura concordataria, non più identici a quelli del fallimento, e del venir meno dell’automatismo tra concordato preventivo e fallimento, in caso di insuccesso della procedura concordataria, mutamenti che non giustificherebbero più il rinvio tout court alle norme che disciplinano i reati fallimentari.
2. Disciplina dell’art. 236 1°comma L.F.
L’art. 236 comma 1° L.F. è una norma che, in primo luogo, sanziona le condotte riferibili esclusivamente all’imprenditore individuale.
L’art. 236 comma 1° L.F. non è estensibile agli amministratori delle società se non violando il divieto di analogica in malam partem delle disposizioni penali, concetto recentemente ribadito dalla Corte di Cassazione [1]. E’ stato in particolare, evidenziato che l’applicabilità della norma al solo imprenditore individuale emerge necessariamente dal tenore letterale della medesima, soprattutto raffrontando la dicitura di “imprenditore” ivi contemplata con il precetto disegnato dal comma successivo che, mediante la tecnica del rinvio ad altre norme della legge fallimentare, si occupa dei soggetti titolari di funzioni gestorie, di direzione e controllo di imprese societarie nonché degli stessi creditori.
Peraltro, il giudice di legittimità ha precisato che la delimitazione voluta dal legislatore, sotto diverso profilo, potrebbe financo intendersi giustificata dall’autonoma previsione per gli amministratori delle società e non per gli imprenditori individuali (come sarà più avanti approfondito) di figure delittuose concernenti l’appostazione di dati falsi in bilanci o diverse comunicazioni sociali, reati che possono prescindere anche dalla sussistenza di procedure concorsuali.
Esaminando, a questo punto, la struttura della norma, deve, in primo luogo, precisarsi che la stessa disciplina due diverse fattispecie.
La prima contempla il caso dell’imprenditore, che allo scopo di essere ammesso alla procedura di concordato preventivo, si attribuisce attività inesistenti.
La seconda concerne la simulazione di crediti in tutto in parte inesistenti per influire sulla formazione delle maggioranze.
Entrambe le fattispecie configurano reati di mera condotta e di pericolo che si perfezionano indipendentemente dal verificarsi dell’effettivo danno per i creditori.
Ove, infatti, si determini un danno ai creditori, è stato prospettato il ricorso alla fattispecie della truffa di cui all’art. 640 c.p..
Si tratta di fattispecie incriminatrici plurioffensive contro l'amministrazione della giustizia e contro il patrimonio dei creditori, tutelando, da un lato, la regolarità e la legalità della procedura concordataria controllata dall'autorità giudiziaria, dall’altro, l'interesse dei creditori a non essere tratti in inganno da atti di frode compiuti dal debitore proponente il concordato in loro danno.
Tali norme hanno lo scopo di evitare che l’imprenditore, attraverso una falsa rappresentazione della propria realtà aziendale, consegua i benefici insiti nella procedura di concordato preventivo, sacrificando quelli dei propri creditori, senza possederne i requisiti.
Il dolo specifico caratterizza entrambe le fattispecie, con la conseguenza che difetta l’elemento soggettivo ove l’immutatio veri compiuta dall’imprenditore sia diretta a realizzare finalità diverse da quelle afferenti alla procedura concorsuale, come l’ammissione a tale procedura o la formazione delle maggioranze.
La condotta dell’imprenditore deve quindi essere diretta a trarre in inganno gli organi della procedura ed i creditori.
La formulazione eccessivamente restrittiva delle due fattispecie ha dato luogo a notevoli problemi interpretativi.
In un primo arresto, il giudice di legittimità [2] , valorizzando il tenore letterale della norma che circoscrive la condotta punibile all’attribuzione di attività inesistenti, aveva ritenuto che la sopravalutazione di beni effettivamente esistenti nel patrimonio del fallito non fosse prevista come reato dall'art. 236 legge fallimentare.
Di diversa opinione, è il successivo intervento della Suprema Corte [3] che ha ritenuto che con la dizione “attribuzione di attività inesistenti e simulazione di crediti in tutto o in parte inesistenti", anche l'omessa indicazione di debiti e la sopravvalutazione di immobili integri il delitto in oggetto.
Infatti, la simulazione o la dissimulazione, anche parziali, dell'attivo o del passivo, sono operazioni che, alterando il risultato finale della denunzia della situazione patrimoniale dell'impresa al momento della proposta di concordato, comportano, implicitamente ed esplicitamente, una automatica attribuzione di attivo, ideologicamente falsa.
Si tratta di un reato a condotta libera, che può essere commesso in qualsiasi forma e con qualsiasi mezzo, attraverso operazioni contabili e atti artificiosi, implicanti, nella sostanza, non solo la falsa attribuzione di attività inesistenti in assoluto ma che comunque incidano sull'entità dell'attivo, risultante del computo di elementi positivi e negativi.
E’ quindi punibile la condotta di dolosa omissione o esagerazione di voci attive e passive rappresentate nei documenti contabili allegati alla domanda di concordato ed indicati nell’art. 161 comma 2° L.F. (e segnatamente la relazione aggiornata sulla situazione patrimoniale, finanziaria e contabile dell’impresa di cui al punto a), lo stato analitico ed estimativo delle attività e l’elenco nominativo dei creditori con l’indicazione dei rispettivi crediti e delle cause di prelazione, etc.) che sono necessari per la formazione dell'inventario del patrimonio dell'imprenditore.
Ad avviso di questa seconda pronuncia della Suprema Corte, la norma incriminatrice richiama, in sostanza, quali disposizioni integrative, l’art. 161 L.F. e le altre norme, come l’art. 173 L.F. che, prima della riforma della legge fallimentare, sanzionavano, sotto il profilo civilistico, la condotta dell’imprenditore che aveva occultato o dissimulato parte dell'attivo, o omesso di denunziare uno o più crediti, esposto passività insussistenti o commesso altri atti di frode", con la trasformazione della procedura alternativa in dichiarazione di fallimento, e, dopo l’entrata in vigore della riforma, con la revoca dell’ammissione alla procedura concordataria.
In conclusione, l’art. 236 comma 1° L.F. sanziona in sede penale come falso ideologico la medesima condotta di occultamento, simulazione e dissimulazione, pur se espressa con una formulazione riassuntiva e generica, sanzionata civilisticamente dall’art. 173 L.F., non potendosi seriamente ritenere che il legislatore avesse voluto punire determinati atti fraudolenti, escludendone altri, pur sanzionati civilmente, non riportandoli nella dizione della norma incriminatrice.
Una diversa conclusione sarebbe del tutto incoerente con la natura del reato e la ratio della stessa norma incriminatrice, con la struttura e la finalità del concordato preventivo, che invece, giustificano la diversa interpretazione.
Questo secondo intervento del giudice di legittimità nell’interpretazione dell’art. 236 comma 1° L.F. è stato oggetto di molte critiche da parte della dottrina, che ha ritenuto che l’interpretazione giurisprudenziale avesse eccessivamente dilatato la portata incriminatrice della norma, sconfinando nel divieto di analogia di malam partem.
Dopo la pronuncia del 2000 non constano altri arresti della giurisprudenza penale di legittimità in ordine all’interpretazione della norma sopra esaminata.
Verosimilmente, la scarsa applicazione della norma in oggetto deriva, oltre che dal ridottissimo uso dello strumento concordatario nel periodo ante riforma, anche dal rilievo che riguarda solo l’imprenditore individuale e non si applica a quei soggetti titolari di funzioni organiche nelle imprese sociali, ovvero agli amministratori delle società, degli enti collettivi, che rappresentano senz’altro i soggetti che in una percentuale prevalente, se non quasi esclusiva, si sono avvalsi in questi anni della procedura concordataria.
3. Individuazione delle norme penali applicabili agli amministratori di società
Non essendo loro applicabile l’art. 236 comma 1° L.F , si pone la questione di individuare in quali fattispecie penali sia sussumibile la condotta degli amministratori di società, che, al solo scopo di essere ammessi alla procedura di concordato preventivo o di influire sulla formazione delle maggioranze, rappresentino ai creditori e agli organi della procedura una situazione contabile e finanziaria inveritiera, manipolando i dati contabili aziendali.
Sul punto, va osservato che l’art. 236 comma 2° L.F. rinvia alla previsione dell’art. 223 L.F., norma quest’ultima che richiama la violazione dell’art. 2621, 2622 cod. civ.
Tuttavia, in tale ambito, la contestazione dell’art. 236 L.F. a titolari di funzioni gestorie appare problematica, in primo luogo, perchè il richiamo agli artt. 2621 e 2622 cod. civ. da parte dell’art. 223 L.F. riguarda una fattispecie di reato avente caratteristiche peculiari, ovvero le c.d. operazioni dolose che abbiano cagionato il dissesto della società, concetto questo non sempre coincidente con lo stato di crisi, che costituisce il presupposto per essere ammesso alla procedura di concordato preventivo.
Inoltre, l’accusa sarebbe onerata della dimostrazione del nesso di causalità tra le false comunicazioni sociali ed il dissesto (ammettendo che lo stato di crisi sia sfociato in quest’ultimo evento), prova non del tutto agevole, e ciò sul rilievo che il delitto di bancarotta impropria di cui all’art. 223 L.F. comma 2° L.F. , a differenza della bancarotta fraudolenta disciplinata all’art. 216 L.F., richiede la prova del nesso di causalità tra la condotta dell’amministratore ed il dissesto e la consapevolezza dell’idoneità della condotta dell’agente a determinare o aggravare il dissesto.
Si pone allora la questione se le informazioni fraudolente fornite dall’amministratore di società nell’ambito della procedura di concordato preventivo siano sussumibili - senza il filtro dell’art. 236 L.F. - direttamente nella previsione dell’art. 2621 cod. civ. che, secondo la nuova formulazione, punisce la condotta degli amministratori , direttori generali etc. che, al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali dirette ai soci o al pubblico o imposte dalla legge, consapevolmente espongono fatti materiali non rispondenti al vero ovvero omettono fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale finanziaria della società o del gruppo in modo concretamente idoneo ad indurre altri in errore.
Una prima problematica concerne la riconducibilità o meno della relazione sulla situazione patrimoniale dell’impresa prevista dall’art. 161 L.F. o di altri documenti analoghi (a titolo di esempio, la situazione finanziaria dell’impresa che il debitore che abbia presentato domanda di concordato in bianco, e cui sia stato assegnato per il deposito del piano e della proposta concordataria, deve depositare con cadenza mensile a norma dell’art. 161 comma 8° L.F.) alla nozione di “comunicazioni sociali previste dalla legge dirette ai soci od al pubblico”. [4]
La risposta deve ritenersi affermativa.
In primo luogo, per i documenti contabili sopra citati è prevista dall’art. 161 comma 5 ° e 8° L.F. una particolare forma di pubblicità, dovendo essere pubblicati nel registro delle imprese a cura del cancelliere, in modo tale che siano conoscibili per tutti coloro che siano interessati alle vicende della società che ha proposto la domanda di concordato (o che sia stata già ammessa alla procedura).
Inoltre, tradizionalmente la giurisprudenza di legittimità ha riconosciuto al delitto di falso in bilancio di cui all’art. 2621 cod. civ. la natura di reato plurioffensivo, posto a tutela non solo della fede pubblica ma anche degli interessi patrimoniali della società, dei singoli soci, dei creditori e dei terzi che entrano in rapporto con la società [5].
Le successive modifiche intervenute nella formulazione della norma non ne hanno modificato la struttura in ordine ai soggetti destinatari ed ai beni giuridici tutelati.
Va, inoltre, osservato che eventuali dubbi che erano sorti in ordine alla persistente rilevanza penale del falso valutativo all’indomani dell’entrata in vigore dalla legge 27 maggio 2015 n. 69 – che ha eliminato l’inciso “ancorchè oggetto di valutazioni “ – essendo state pronunciate alcune sentenze contrastanti sul punto dalla V Sezione Penale della Corte di Cassazione, sono stati definitivamente fugati dal celeberrimo arresto delle Sezioni Unite Passarelli[6].
Il Supremo Collegio ha ritenuto irrilevante che il nuovo testo non faccia più riferimento alle “informazioni” ma solo ai “fatti materiali rilevanti” non rispondenti al vero, considerata la natura meramente concessiva/specificativa – e sostanzialmente la superfluità – del sintagma “ancorchè oggetto di valutazioni”, come, del resto, ritenuto dalla giurisprudenza antecedente alla riforma del 2015.
In particolare, l’esclusivo riferimento ai “fatti materiali” oggetto di falsa rappresentazione non ha avuto l’effetto di escludere dal perimetro della repressione penale gli enunciati valutativi, i quali ben possono essere definiti falsi quando si pongano in contrasto con criteri di valutazione normativamente determinati ovvero tecnicamente generalmente accettati (si è osservato, proposito, che la valutazione, se fa obbligatorio riferimento a criteri vincolanti e predeterminati, è un modo di rappresentare la realtà non dissimile dalla descrizione o dalla constatazione).
D’altra parte, il termine di “materialità” non va inteso nell’accezione comune, trattandosi di espressione del linguaggio contabile di derivazione anglosassone, e vuole significare essenzialità, nel senso che nella redazione del bilancio devono essere riportati ( e valutati ) solo dati informativi essenziali, cioè significativi ai fini dell’informazione, utili a garantire la rappresentazione veritiera e corretta della situazione patrimoniale, finanziaria ed economica della società e del risultato economico di esercizio (art. 2423 cod. civ.).
“Rilevanza” è un concetto di origine comunitaria (art. 2. Punto 16 dir. 2013/34/UE) e deve intendersi l’idoneità dell’informazione ad influenzare le decisioni dei destinatari, degli utilizzatori sulla base del bilancio.
Per “rilevanza” deve quindi intendersi l’idoneità del dato falsamente esposto ad alterare in modo apprezzabile il quadro d’insieme, ad indurre concretamente in errore il lettore del documento.
In conclusione, il falso valutativo per essere rilevante deve riguardare dati informativi essenziali idonei ad ingannare i destinatari e ad indurli a scelte potenzialmente pregiudizievoli per gli stessi.
La sentenza delle S.U. ha, infine, concluso che tale potenzialità ingannatoria ben può derivare dalla esposizione in bilancio di un bene inesistente o dalla omissione di un bene esistente, o dalla falsa valutazione di un bene che è pure presente nel patrimonio sociale.
Alla luce delle sopra illustrate argomentazioni delle S.U., non può esservi dubbio che ove la relazione aggiornata sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria dell’impresa, allegata alla domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo a norma dell’art. 161 comma 2° lett a) L.F., così come la situazione finanziaria dell’impresa depositata a norma dell’art. 161 comma 8° L.F contengano una rappresentazione inveritiera della situazione patrimoniale, finanziaria ed economica della società proponente, frutto della violazione dei criteri di valutazione normativamente fissati o dei criteri tecnici generalmente accettati – connotata da rilevanza e significatività - e siano concretamente idonee a trarre in errore sia gli organi fallimentari e soprattutto i creditori, inducendo soprattutto questi ultimi ad approvare una proposta di concordato che senza la falsa rappresentazione non avrebbe mai ottenuto la loro adesione e che pregiudica i loro interessi patrimoniali, non vi sono elementi ostativi alla configurabilità del delitto di false comunicazioni sociali[7].
4. Ambito di applicazione dell’art. 236 comma 2° L.F.
Come per la previsione legislativa di cui al primo comma dell’art. 236 L.F. , anche per la norma in esame è stata riscontrata una disparità di trattamento (questa volta in termini rovesciati) tra gli organi societari che rispondono dei fatti di bancarotta, in virtù del richiamo agli artt. 223 e 224 L.F. , gli imprenditori individuali cui non si applica tale disciplina.
La Suprema Corte ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata in merito [8], evidenziando la diversità della posizione dell’impresa individuale e di quella societaria di fronte alla procedura di concordato preventivo (e di amministrazione controllata) e rilevando, in sintonia con quanto da tempo sostenuto dalla dottrina [9], la maggiore gravità riconosciuta alle condotte commesse da soggetti che non sono titolari del patrimonio pregiudicato dalle condotte illecite.
L’imprenditore individuale, infatti, a differenza dei titolari delle cariche sociali, nel porre in essere le condotte di bancarotta, pone in pericolo non solo gli interessi dei creditori ma anche il proprio patrimonio, il quale nella sua interezza è posto a garanzia delle obbligazioni assunte nell’esercizio dell’impresa.
5. Applicabilità dell’art. 236 comma 2° L.F. a seguito della riforma della legge fallimentare
Si è già accennato che all’indomani dell’entrata in vigore della riforma del diritto fallimentare del 2005, è stata sollevata [10] la questione della perdurante applicabilità di tale norma, e ciò in conseguenza del mutamento normativo dei presupposti di accesso alla procedura concordataria, non più identici a quelli del fallimento, e del venir meno dell’automatismo tra concordato preventivo e fallimento.
In particolare, dopo l’intervento legislativo di riforma della materia fallimentare, presupposto di accesso alla procedura di concordato preventivo non è più lo “stato di insolvenza” ma lo “stato di crisi” che, da un lato, può comprendere anche l’insolvenza, come puntualizzato dall’art. 160 comma 3° L.F., dall’altro, non coincide in via esclusiva con lo stesso[11].
Inoltre, in base al nuovo dettato normativo dell’art. 162 comma 2° L.F. , qualora la proposta di concordato preventivo venga dichiarata inammissibile, il fallimento può essere dichiarato soltanto previo accertamento dei presupposti di cui agli artt. 1 e 5 L.F… Analoga disciplina è prevista dall’art. 173 L.F. in caso di revoca dell’ammissione al concordato o dall’art. 180 L.F. in caso di mancata omologa del concordato.
In conclusione, il venir meno con la riforma del diritto fallimentare dell’automatismo tra concordato preventivo e fallimento farebbe parimenti venir meno il fondamento del rinvio operato dall’art. 236 comma 2° n. 1 e 2 L.F. alle norme penali ricollegabili al fallimento e che giustificava l’equiparazione tra gli effetti della dichiarazione di fallimento e l’ammissione alla procedura di concordato preventivo.
Tale affermazione non è condivisibile.
Va osservato che secondo la giurisprudenza consolidata di legittimità,[12] che si era pronunciata sull’istituto dell’amministrazione controllata prima della sua abrogazione con la riforma del 2005, il legislatore, in virtù del richiamo dell’art. 236 comma 2 ^ L.F. (“Nel caso di concordato preventivo o di amministrazione controllata si applicano….”) alle norme della bancarotta impropria (art. 223 e 224 L.F.) aveva equiparato agli effetti penali il decreto di ammissione alla procedura di amministrazione controllata alla sentenza dichiarativa di fallimento.
Anche tale procedura, come l’attuale concordato preventivo, presentava un diverso presupposto di accesso (difficoltà ad adempiere e non lo stato di insolvenza) rispetto a quella fallimentare e l’abrogato art. 189 L.F. , in caso di diniego dei creditori all’amministrazione controllata, non prevedeva l’automatica instaurazione della procedura fallimentare, come era una volta stabilito per il concordato preventivo.
Deve dunque ritenersi che il fondamento del rinvio operato dall’art. 236 comma 2° L.F. non risiedesse nella identità dei presupposti di accesso e nella continuità delle procedure , caratteristiche che possedeva solo il concordato preventivo pre riforma e non l’amministrazione controllata.
La giurisprudenza di legittimità più recente [13] , chiamata a pronunciarsi sull’applicabilità al concordato preventivo delle norme penali in materia di bancarotta e sulla sollevata questione di legittimità per violazione dell’art. 3 della Cost., in relazione alla differenza dei presupposti e caratteristiche delle due procedure, ha rigettato la questione di legittimità costituzionale osservando che “ rientra nei poteri discrezionali del legislatore equiparare quoad poenam situazioni concretamente diverse ma aventi la medesima finalità della tutela dei creditori a fronte dell’attività del debitore non ancora impossibilato del tutto alla fisiologica estinzione delle proprie obbligazioni” ed ha ribadito la parificazione del decreto di ammissione al concordato preventivo alla sentenza dichiarativa di fallimento, assumendo la stessa funzione e svolgendo la stessa efficacia nelle fattispecie di bancarotta fraudolenta.
6. Disciplina dell’art. 236 comma 2° L.F. e rapporto con la dichiarazione di fallimento
Una prima questione dibattuta in dottrina riguarda l’applicabilità al concordato delle norme di cui agli artt. 223 e 224 L.F. nella parte in cui puniscono a titolo di bancarotta fraudolenta o semplice condotte che abbiano cagionato o concorso a cagionare il dissesto della società.
Essendo la nozione di dissesto difficilmente compatibile con lo stato di crisi se questo non ha assunto la forma dell’insolvenza, si è ritenuto[14] che in queste ipotesi la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 236 comma 2° L.F. “abbia vigenza soltanto quando la commissione dei fatti sottesi dalle norme penali ad opera del debitore concordatario abbia determinato non già la impalpabile (sia in termini economici sia nel profilo giuridico) soglia della crisi bensì il più <
Altra questione di maggiore caratura è se la penale responsabilità prevista dall’art. 236 comma 2° L.F. sia comunque ascrivibile ai soggetti titolari di funzioni gestorie sociali, che siano resi responsabili dei fatti di bancarotta, indipendentemente dal verificarsi della successiva dichiarazione di fallimento della società, in un primo momento ammessa alla procedura concordataria.
La dottrina, orientata in senso negativo [15] in periodo più risalente, si è in tempi più recenti espressa in termini affermativi[16].
La Suprema Corte [17] ha affermato che le condotte distrattive poste in essere prima dell'ammissione al concordato preventivo rientrano, anche nel caso in cui la società non sia poi stata dichiarata fallita, nell'ambito previsionale dell'art. 236, comma secondo, L.F. il quale, in virtù dell'espresso richiamo all'art. 223 L.F., punisce i fatti di bancarotta previsti dall'art. 216 L.F., commessi da amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori di società fallite.
L’art. 236 comma 2° L.F. quindi punisce i titolari di cariche sociali che si siano resi responsabili di condotte di bancarotta commesse nella gestione di società ammesse al concordato preventivo, anche se poi non sfociato nel fallimento.
Il giudice di legittimità ha precisato che ove si accogliesse la tesi secondo cui la punibilità della bancarotta nelle procedure concorsuali "minori" dipendesse dall'effettiva successiva instaurazione di quella fallimentare, si affermerebbe una interpretatio abrogans del dettato dell'art 236 L.F., il quale, invece, rivela la volontà del legislatore di punire, per l'appunto, in maniera autonoma, le condotte di bancarotta commesse nelle diverse procedure concorsuali, al fine di evitare che restino imputati gravi comportamenti verificatisi prima ed anche in assenza del fallimento.
In definitiva, l'autonomia della fattispecie in esame dalle altre ipotesi di bancarotta contemplate dalla legge fallimentare, con le quali sostanzialmente condivide l'oggetto giuridico, si caratterizza per il particolare disvalore della modalità d'offesa selezionata dalla norma incriminatrice, individuato nella consumazione delle tradizionali condotte di bancarotta nell'ambito delle singole procedure concorsuali pre fallimentari.
Peraltro, a tale conclusione la giurisprudenza di legittimità era già addivenuta prima dell’entrata in vigore della riforma del 2005[18] anche con riferimento all’istituto dell’amministrazione controllata, essendo stato ritenuto che ai fini della punibilità dei fatti di bancarotta commessi nell’ambito della procedura c.d. “minore” non occorresse che quest’ultima fosse sfociata nel fallimento.
7. Consumazione del delitto di bancarotta concordataria
Trasponendo al concordato preventivo gli approdi cui è pervenuta la Corte di Cassazione in materia di bancarotta pre-fallimentare, il momento consumativo del delitto di bancarotta concordataria coincide con la data di emissione del decreto che ammette l’imprenditore societario al concordato preventivo, determinando la dichiarazione giudiziale non soltanto il c.d. “tempus commissi delicti” ma anche la localizzazione dell’illecito ai fini processuali nel luogo in cui si trova il Tribunale che ha emesso tale dichiarazione [19], e ciò indipendentemente dal fatto che il provvedimento giudiziale ricognitivo dello stato di crisi venga configurato come elemento costitutivo del reato o, come in talune recenti sentenze del giudice di legittimità, come condizione obbiettiva di punibilità [20].
Ne consegue che ogni condotta penalmente rilevante[21] antecedente al provvedimento di ammissione della società alla procedura di concordato preventivo viene ricondotta alla pronuncia giudiziale.
8. Atti distrattivi compiuti dopo l’ammissione al concordato preventivo.
Va osservato che in virtù del rinvio dell’art. 223 L.F. ai tutti fatti disciplinati dall’art. 216 L.F., commessi quindi non solo prima dell’apertura della procedura fallimentare, ma anche in costanza della stessa (comma 2° della predetta norma), il rinvio dell’art. 236 comma 2° all’art. 223 L.F. consente la punizione degli atti distrattivi commessi anche durante la procedura concordataria.
Va premesso che il provvedimento ricognitivo dello stato di crisi – decreto di ammissione al concordato preventivo – certifica l’effettiva inidoneità del patrimonio dell’impresa a soddisfare le pretese dei creditori, rendendo potenzialmente pregiudizievole per il patrimonio sociale qualsiasi atto dispositivo dei beni patrimoniali, salvo che non sia stata verificata, tramite il provvedimento di autorizzazione del G.D. (richiesto dall’art. 167 comma 2° L.F. per gli atti di straordinaria amministrazione), l’inerenza all’attività di impresa.
Tale inerenza dell’atto dispositivo non può essere decisa autonomamente dall’imprenditore ammesso al concordato, ma deve essere sottoposta all’autorizzazione degli organi della procedura.
Si verifica, tuttavia, frequentemente nella prassi giudiziaria, che l’imprenditore in concordato, tenda a dimenticarsi che, pur conservando l’amministrazione dei suoi beni, l’esercizio della sua impresa è soggetto a dei limiti per effetto dell’ammissione alla procedura concordataria e così assume iniziative autonome che sfociano in condotte penalmente rilevanti.
La Suprema Corte [22] si è occupata di un caso in cui il legale rappresentante della società ammessa alla procedura concordataria aveva, senza l’autorizzazione del G.D., prelevato fondi dalla società per erogarli, a titolo di finanziamento, a terzi e, pur essendo la somma distratta stata successivamente restituita, il giudice di legittimità non ha potuto altro che affermare che la distrazione di somme da una società ammessa al concordato preventivo configura un'ipotesi di bancarotta fraudolenta postfallimentare in relazione alla quale la restituzione della somma distratta non realizza una forma di cosiddetta bancarotta "riparata". In proposito, affinchè il reato non sia configurabile sotto il profilo della materialità, l'attività di segno contrario che annulla la sottrazione deve reintegrare il patrimonio dell'impresa prima della dichiarazione di fallimento o del decreto che ammette il concordato preventivo, evitando che il pericolo della dispersione della garanzia dei creditori acquisisca effettiva concretezza.
9. Atti distrattivi commessi successivamente all’approvazione del concordato ed al provvedimento giudiziale di omologa.
In un recente arresto la Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi sulla questione di diritto se sia configurabile il delitto di bancarotta fraudolenta in caso di distrazione o dissipazione di beni la cui cessione sia stata espressamente prevista in un piano approvato dai creditori ed omologato dal Tribunale. Il giudice di legittimità, pur non ravvisando, nel caso concreto, la configurabilità del delitto di bancarotta, ha risposto, in linea teorica, affermativamente a tale quesito nell’ipotesi di indebito uso della procedura concordataria in frode al ceto creditorio per la realizzazione di un interesse illecito del proponente.
E’ quindi necessario che il soggetto proponente il piano di ristrutturazione dei debiti e di soddisfazione dei crediti abbia utilizzato la procedura concordataria in frode al ceto creditorio, mediante una chiara ed indiscutibile manipolazione della realtà aziendale, tale da falsare il giudizio dei creditori e orientarli in maniera presumibilmente diversa rispetto a quella che sarebbe conseguita ad una corretta rappresentazione.[23]
Il giudice di legittimità, partendo dalla premessa che l'art. 236 cit., nel prevedere l'applicazione degli artt. 223 e 224 legge fall. "nel caso di concordato preventivo", si riferisca non solo ai fatti commessi ante procedura, ma anche ai fatti commessi "attraverso la procedura", indebitamente piegata a fini illeciti, ha precisato che per configurare il delitto di bancarotta occorre che il piano sia congegnato in maniera frodatoria, per la realizzazione di interessi diversi da quelli sottesi alla normativa concordataria, pensata e voluta dal legislatore per favorire il risanamento delle imprese o la loro liquidazione.
Il carattere frodatorio del piano va accertato in concreto e, derivando da una chiara ed indiscutibile manipolazione della realtà aziendale, non può consistere in una diversa lettura dei dati esposti nel piano da parte dei soggetti cui è demandata la funzione di verifica; presuppone quindi una rappresentazione non veritiera della realtà aziendale, attuata attraverso la volontaria pretermissione - nel piano - di cespiti rilevanti (beni strumentali, crediti, ecc.), attraverso l'indicazione di attività o l'esposizione di passività inesistenti, ovvero in presenza di qualunque altro comportamento obbiettivamente idoneo ad ingannare i creditori e che legittimerebbe la revoca del concordato, ex art. 173 legge fall..
L'indicazione legislativa contenuta nella norma suddetta costituisce, infatti, valido riferimento per giungere non solo alla risoluzione del concordato preventivo, ma anche per punire, sub specie di distrazione o dissipazione, condotte che tradiscono, in modo indiscutibile e non congetturale, lo spirito e la funzione degli istituti di "risoluzione della crisi d'impresa", pensati dal legislatore per favorire la salvaguardia di valori aziendali inevitabilmente compromessi dal fallimento e non certo per consentire all'imprenditore di avvantaggiarsi, a danno dei creditori, delle "crisi" cui ha dato luogo; sempreché, ovviamente, le condotte censurate determinino una distrazione o dissipazione di attività aziendali.
La Suprema Corte ha risposto, inoltre, affermativamente alla questione, comportante notevoli ricadute sul piano pratico, se la giurisdizione penale possa attivarsi prima che sia disposta, da parte degli organi fallimentari, la "revoca" del concordato, ex art. 173 cit. , e ciò in relazione alla tendenziale autosufficienza della giurisdizione penale, che consente di risolvere ogni questione da cui dipenda la decisione (art. 2 cod. proc. pen.). E poiché nello specifico del concordato preventivo l'art. 236 legge fall. fa salva espressamente l'applicabilità degli artt. 223 e 224, ne consegue che ogni condotta rivolta a commettere i reati previsti dalle norme suddette, in qualunque momento posta in essere (prima dell'ammissione alla procedura concordataria, durante lo svolgimento della procedura o dopo la revoca del provvedimento di ammissione), diviene perseguibile dal giudice penale.
10. Atti distrattivi compiuti prima dell’ammissione al concordato preventivo da amministratore di società poi fallita.
Nell’ipotesi in cui, a seguito dell’esito infausto della procedura concordataria, venga successivamente pronunciata la sentenza dichiarativa di fallimento, la Suprema Corte ha statuito che il concorso di norme tra l’art. 236 comma 2° n. 1 L.F. e l’art. 223 L.F. va risolto utilizzando il principio di specificità con l’applicazione delle fattispecie di bancarotta fallimentare [24].
In tale eventualità, è orientamento consolidato del giudice di legittimità [25] che la prescrizione decorra dalla sentenza dichiarativa di fallimento e non dalla ammissione al concordato preventivo, stante la diversità tra le due procedure che non consente di intravvedere nella successione delle vicende concorsuali la medesima connotazione e quella uniformità che può consentire l'assorbimento cronologico della seconda procedura nella prima.
Un tema degno di nota di cui si è occupato il giudice di legittimità, in ipotesi di procedura concordataria poi sfociata in fallimento, è la configurabilità dell’elemento soggettivo del delitto di bancarotta patrimoniale nel caso in cui la procedura di concordato non sia andata a buon fine per fatti indipendenti dalla volontà del debitore.
La Suprema Corte ha affermato che le condotte distrattive compiute prima dell'ammissione al concordato preventivo di una società poi dichiarata fallita integrano il delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale anche nel caso in cui l'agente abbia ottenuto l'ammissione al concordato preventivo, si sia adoperato per il buon esito della procedura, e questo non sia stato conseguito per fatti indipendenti dalla sua volontà, in quanto, laddove si verifichi il fallimento, ai fini della configurabilità del dolo, è sufficiente la consapevole volontà di aver dato (al momento del compimento dell’atto distrattivo) al patrimonio sociale una destinazione diversa da quella di garanzia delle obbligazioni contratte[26].
Atteso che l’atto distrattivo si caratterizza, sotto il profilo oggettivo, per la sua idoneità a porre in pericolo il patrimonio sociale, costituente la garanzia dei creditori, e sotto il profilo soggettivo, per la mera consapevolezza di dare al patrimonio una destinazione diversa dal perseguimento degli scopi della società, il successivo fallimento, per quanto non voluto, vale a connotare le precedenti condotte depauperative , in qualunque tempo verificatesi, attualizzando la lesione del bene giuridico tutelato, ovvero l’interesse del ceto creditorio alla conservazione della garanzia patrimoniale rappresentata dai beni sociali[i].
[i] Relazione depositata in occasione dell’incontro di studi sul tema “Concordato preventivo e fallimento: una prospettiva interdisciplinare su prassi applicative, opzioni interpretative e prospettive di riforma”, tenutosi a Bologna nei giorni 7-9/05/2018 a cura della struttura territoriale di Bologna della scuola superiore di Magistratura.
[1] Sez V n. 31451 del 20/01/2017, depositata il 23/96/2017, non mass.
[2] Sez. V n. 9392 del 3 luglio 1991, D’amico, Rv. 188188; in “Cassazione Penale” 1992, pag. 166.
[3] Sez V n. 3736 del 23 marzo 2000, Simoncelli, Rv. 188188 in “Rivista Penale” , pag. 694,
[4] In termini negativi si esprime sul punto D. Pasquariello, in “La responsabilità penale dei protagonisti delle procedure di composizione negoziale delle crisi di impresa”, relazione all’incontro di studi della formazione decentrata presso la Corte di Appello di Bologna, Bologna, 24 gennaio 2011, pag. 10.
L’autore evidenzia che le comunicazioni fornite per l’ammissione al concordato preventivo non sono dirette al pubblico ma al ceto predeterminato e circoscritto dei soggetti creditori.
Anche per G. Termini il richiamo alle norme societarie ex art. 2621 e 2622 c.c. appare meramente teorico date le difficoltà applicative che tali figure criminose trovano nella pratica giudiziaria, in “Il Mancato rispetto degli obblighi del fallito. La riforma del concordato preventivo”, relazione tenuta nel Convegno di Torino del 10 e 11 novembre 2006 sui Profili penali della riforma del fallimento, pag. 9.
[5] Sez V n. 4073 del 26/09/1994, Rv. 200191. La citata pronuncia ne ha tratto la conseguenza che al creditore spettasse la qualifica di persona offesa dal reato e come tale legittimata a proporre opposizione alla richiesta di archiviazione. In termini analoghi si è espressa Sez V n. 3949 del 28/02/1991, Rv. 186896, che ha affermato che la tutela sancita dalla legge riguardi non soltanto la società, i soci uti singuli, i futuri soci, i possibili creditori e terzi interessati ma si estende all’interesse generale al regolare funzionamento delle società commerciali nell’ambito dell’economia nazionale.
[6] S.U. n. 22474 del 31/03/2016, Passarelli, Rv. 266802.
[7] Soluzione avvalorata dalla Sez. V n. 31451 del 20/01/2017, sopra citata.
[8] Sez V 29/09/1983 n. 10517, Totaro, Rv. 161588; Sez. V 6/10/1999 n. 12897, Tassan Din, non massim. sul punto.
[9] Nuvolone, Il diritto penale del fallimento e delle altre procedure concorsuali, Milano, 1955, 232
[10] Rossi, Manuale di diritto penale , Leggi Complementari, vol II, I reati fallimentari, tributari, ambientali e dell’Urbanistica. F. Antolisei , a cura di C.F. Grosso, Milano 2008, pag. 326.
[11] La Legge 19 ottobre 2017, n. 155, recante "Delega al Governo per la riforma delle discipline della crisi di impresa e dell'insolvenza" dispone all’art. 2 lett. c) che il legislatore delegato dovrà introdurre una definizione dello stato di crisi, intesa come probabilita' di futura insolvenza, anche tenendo conto delle elaborazioni della scienza aziendalistica, mantenendo l'attuale nozione di insolvenza di cui all'articolo 5 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267.
[12] Sez. V n. 12897 del 6 ottobre 1999, Tassan Din, Rv. 214859;
[13] Sez. V n. 33320 del 18 maggio 2012, Valsecchi, non massim.
[14] R. Bricchetti, F. Mucciarelli, G. Sandrelli, Commento agli artt. 216-241 L.F. in Il nuovo diritto fallimentare, Commentario diretto da Jorio, Bologna, 2006, pag. 2744.
[15] G. Ferri, Sull’interpretazione dell’art. 236 L.F., in Rivista Italiana di Diritto Penale, 1952, pag. 725.
[16] C. Pedrazzi, I reati Fallimentari, In Manuale di diritto penale dell’impresa, Bologna, 2003, pag. 208.
[17] Sez. 5, n. 26444 del 28/05/2014 - dep. 18/06/2014, Denaro e altro, Rv. 259849.
[18] Sez. V n. 12897 del 6 ottobre 1999 cit.
[19] G.G. Sandrelli in “La riforma penale della legge fallimentare: i rimedi per la crisi di impresa, il concordato preventivo e le nuove fattispecie (art. 217 bis e 236 bis L. fall.), in Archivio Penale 2015, n. 2, pag. 24.
[20] Sez. V, n. 13910 del 08/02/2017, Santoro, Rv. 269389 che, nel qualificare la dichiarazione di fallimento quale condizione obiettiva di punibilità, ha precisato che tale approdo non è suscettibile di determinare alcun significativo mutamento nelle regole operative di individuazione del tempo e del luogo di consumazione del delitto di bancarotta. “………. Ciò è senz'altro vero, con riferimento alla disciplina della prescrizione, alla luce dell'art. 158, comma secondo, cod. pen., a mente del quale, quando la legge fa dipendere la punibilità del reato dal verificarsi di una condizione, il termine della prescrizione decorre dal giorno in cui la condizione si è verificata………. Tuttavia, lo stesso art. 158, comma secondo, cod. pen. dimostra che, nel dettare la disciplina delle questioni che presuppongono la consumazione del reato, è proprio il verificarsi della condizione che assume rilievo determinante. Siffatta considerazione consente di affermare che il concetto di consumazione del reato di cui all'art. 8 cod. proc. pen., in assenza di vincolanti e diverse prescrizioni normative, deve appunto essere ricostruito nei termini di completa realizzazione della fattispecie incriminatrice (e si è sopra visto, come anche per Corte cost. n. 247 del 1989, la condizione obiettiva di punibilità rientri nella fattispecie). La conclusione, oltre a garantire una piena equiparazione delle soluzioni in tema di tempus e di locus commissi delicti, la cui diversificazione non avrebbe senso alcuno, è coerente con le finalità delle norme che assumono la consumazione del reato a presupposto della loro applicabilità, giacché la condizione di punibilità, pur estranea, nella accezione che qui assume rilievo, all'offesa, comunque rappresenta il dato che giustifica l'intervento sanzionatorio dello Stato….……”.
- Sez. 5, n. 12365 del 12/02/2018, Cesati Cassin richiama la sentenza Santoro con riferimento al tempus e al locus commissi delicti.
- Sez. 5, n. 45288 del 11/05/2017, Gianesini, Rv. 271114, sottolinea l’indifferenza, ai fini dell’individuazione del dies a quo per la decorrenza del termine di prescrizione, della configurazione della sentenza di fallimento come elemento costitutivo o condizione di punibilità.
[21] Si devono segnalare due recenti pronunce, in tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale della sezione V Penale della Corte di Cassazione, la n. 13910 del 8.2.2017, Santoro, Rv. 269389, e la n. 17819 del 24/03/2017, Palitta, che presentano entrambe profili di assoluta novità e che elaborano soluzioni che si muovono in una diversa direzione in ordine alla stessa nozione di atti distrattivi ed alla qualificazione della sentenza di dichiarativa di fallimento nell’ambito del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale.
La prima sentenza Santoro, dal nome dell’imputato, n. 13910 del 8.2.2017, ha configurato la sentenza dichiarativa di fallimento come una condizione obiettiva di punibilità.
Questa sentenza muove dall’esigenza di superare le criticità emergenti dalla tradizionale classificazione della sentenza dichiarativa di fallimento come elemento costitutivo del reato c.d. “improprio” , non coincidente con l’evento del reato - ciò si evince dal chiaro dato normativo per il quale la rilevanza del rapporto causale tra condotta e dissesto è previsto per le sole fattispecie di bancarotta impropria ex art. 223 comma 2° L.F. - , non legato dalla condotta distrattiva da un nesso di causalità ed estraneo all’atteggiamento psichico dell’agente.
Tale qualificazione giuridica è stata ritenuta da una parte dei commentatori scarsamente compatibile con i principi costituzionali in materia di personalità della responsabilità penale.
Orbene, la diversa qualificazione giuridica della sentenza dichiarativa di fallimento quale condizione obiettiva di punibilità muove, in primo luogo, dagli approdi cui è giunta la giurisprudenza della Corte di Cassazione nella elaborazione del concetto di atto distrattivo integrante il delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale.
Partendo dal presupposto che l’oggetto giuridico del reato di bancarotta fraudolenta, tutelato dall’art. 216 comma 1° n. 1 L.F., è l’interesse dei creditori alla conservazione dell’integrità del patrimonio dell’impresa a garanzia dei loro crediti (Corte Cost. ord. N. 268 del 1989; S.U. n. 21039 del 2011, Loy), nozione che consente di configurare la bancarotta fraudolenta patrimoniale come reato di pericolo, integra l’atto distrattivo, sotto il profilo dell’elemento oggettivo, qualunque condotta che determini un depauperamento del patrimonio dell’impresa o che sia anche solo potenzialmente idonea a porre in pericolo le ragioni dei creditori. Essendo quindi sufficiente ai fini della configurabilità del delitto in oggetto che l’agente abbia cagionato il depauperamento del patrimonio dell’impresa (o lo abbia solo messo in pericolo), destinandone le risorse ad impieghi estranei all’attività d’impresa, si è ritenuto ed è stato recentemente ribadito dalla sentenza delle S.U. Passarelli, Rv. 266804, sopra citata, che, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, i fatti distrattivi assumono rilevanza in qualsiasi tempo siano stati commessi e quindi anche se la condotta è stata realizzata quando l’impresa non versava ancora in condizioni di insolvenza.
La sentenza Santoro quindi evidenzia, alla luce di tale ricostruzione, che l’offesa agli interessi dei creditori si realizza già nella sua massima gravità con l’atto depauperativo, indipendentemente da quanto lo stesso è stato commesso, e a prescindere dalla successiva dichiarazione di fallimento, con la conseguenza che il reato deve considerarsi pienamente integrato in tutti i suoi elementi costitutivi già con il compimento dell’atto distrattivo, incidendo la sentenza dichiarativa di fallimento solo sulla sua punibilità. Tale ricostruzione giuridica elimina l’anomalia di considerare come elemento costitutivo di una fattispecie criminosa un elemento estraneo alla condotta dell’agente ed all’offesa al bene giuridico protetto, quale un provvedimento del giudice (la dichiarazione di fallimento) ed è peraltro pienamente conforme a quanto ritenuto dalle S.U. del 2016 nella sentenza Passarelli, che, pur non qualificando la sentenza dichiarativa di fallimento quale condizione di punibilità, tale ruolo in concreto le ha inequivocabilmente assegnato, avendola definita come evento successivo ed estraneo alla condotta di distrazione cui è subordinata la punibilità.
La seconda sentenza n. 17819 del 24/03/2017, Palitta, muove dalla diversa impostazione che affinchè il delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale sia realmente un reato di pericolo concreto, l’interesse giuridico tutelato dalla norma incriminatrice deve essere individuato non tanto nell’interesse tout court dei creditori alla conservazione dell’integrità del patrimonio, ma in una prospettiva di soddisfacimento concorsuale, quindi in caso di apertura della procedura concorsuale. E’ quindi atto distrattivo non una qualsiasi condotta che determini un impoverimento dell’asse patrimoniale dell’impresa, non ogni distacco del bene dal patrimonio della società, ma quello che ponga in pericolo la garanzia che la massa dei creditori, al momento del fallimento, sarà in grado di escutere.
In questa prospettiva, la sentenza Palitta ha valorizzato quelle pronunce della Suprema Corte che hanno ritenuto che, ai fini della configurabilità del reato di bancarotta fraudolenta, il pregiudizio ai creditori deve sussistere non già al momento della commissione dell'atto antidoveroso, ma al momento della dichiarazione giudiziale di fallimento che sola rileva ai fini dell’individuazione del momento consumativo del reato.
Se la dichiarazione di fallimento rappresenta il momento in cui si verifica la consumazione del reato di bancarotta, tale provvedimento non può costituire una condizione obiettiva di punibilità.
Pertanto, non integra fatto punibile come bancarotta per distrazione la condotta, ancorché fraudolenta, la cui portata pregiudizievole risulti annullata per effetto di un atto o di un'attività di segno inverso, capace di reintegrare il patrimonio della fallita prima della soglia cronologica costituita dall'apertura della procedura, quantomeno, prima dell'insorgenza della situazione di dissesto produttiva del fallimento. (Sez. 5, n. 8402 del 03/02/2011 - dep. 02/03/2011, Cannavale, Rv. 24972101). Questa è la classica situazione della c.d. bancarotta riparata.
La sentenza, nel cercare di individuare le ipotesi in cui la condotta dell’imprenditore ponga concretamente in pericolo le ragioni dei creditori, evidenzia che, laddove vi sia uno stretto rapporto cronologico tra l’atto dispositivo che diminuisce la garanzia dei creditori della futura procedura concorsuale e la manifestazione dei segnali indicatori di una crisi di impresa o addirittura dell’insolvenza, è agevole la ricostruzione in concreto della condotta distrattiva, essendo evidente non solo la natura pericolosa ma anche depauperativa dell’azione.
L’atto distrattivo compiuto in prossimità dello stato di insolvenza può ritenersi quindi idoneo a creare un pericolo concreto per i creditori .
Per quanto concerne l’atto distrattivo o dissipativo compiuto in una fase antecedente alla manifestazione dello stato di insolvenza, pur non occorrendo, come nell’ipotesi di cui all’art. 223 comma 2 n. 1 c.c. che tale atto avesse cagionato o concorso a cagionare il dissesto della società, occorre che al momento del compimento dell’atto il dissesto ed il successivo fallimento fosse almeno prevedibile. Tale situazione ricorre in presenza di situazioni che presentino caratteristiche obiettive che, di regola, non richiedono particolari accertamenti per provare l’esposizione al pericolo del bene patrimonio (cessione a prezzo vile dell’azienda che determina l’impossibilità dell’impresa di realizzare l’oggetto sociale).
-Sez. 5, n. 38396 del 23/06/2017, Sgaramella, Rv. 270763 considera la questione “elemento costitutivo/condizione obiettiva di punibilità” non decisiva ai fini della tenuta costituzionale della norma incriminatrice, ritenendo, invece, centrali – in linea con la sentenza Palitta ed anche con riguardo al problema della distanza temporale del fatto distrattivo dalla sentenza di fallimento – la configurazione della fattispecie incriminatrice come reato di pericolo concreto e la correlata configurazione del dolo (con i connessi oneri motivazionali del giudice di merito), elaborando dei c.d. “principi di fraudolenza” nella valutazione del dolo.
[22] Sez. V n. 50289 del 07/07/2015, Rv. 265903. Nel caso esaminato il legale rappresentante di una società consortile ammessa al concordato preventivo, aveva , con due bonifici effettuati dai conti della società, senza la preventiva autorizzazione del giudice delegato, imposta dall’art. 167 comma 2° L.F., erogato un finanziamento a favore di una propria consorziata che lo impiegava per l’avvio di lavori edili, ed in occasione del primo stato di avanzamento il relativo pagamento veniva versato nelle casse consortili.
[23] Sez. V n. 50675 del 06/10/2016, Rv. 268595.
Nel caso esaminato dalla suprema Corte il G.I.P. aveva disposto il sequestro preventivo della somma di circa € 2.000.000 ( ed il Tribunale del Riesame confermato il provvedimento) ad una società che aveva acquistato l’azienda dalla società fallita, riferibile sempre al legale rappresentante della fallita, dopo che il P.M. aveva contestato a quest’ultimo, proponente il concordato preventivo in continuità, successivamente omologato, una condotta distrattiva pari alla differenza di valore (di importo di circa due milioni di euro) tra il prezzo di cessione dell’azienda indicato nella domanda concordataria ed il valore effettivo ritenuto dal Commissario Giudiziale, che aveva espresso parere negativo all’omologa del concordato.
La proposta prevedeva altresì l’azzeramento di due importanti posizione creditorie verso società collegate di diritto straniero. La Suprema Corte, nell’affermare il principio di cui alla massima, ha accolto il ricorso della società terza sul rilievo che in concreto non era stata fornita dell’azienda che la procedura concordataria fosse stata utilizzata in frode ai creditori - non potendosi di per sé attribuire carattere fraudolento alla diversa valutazione del valore dell’azienda operata dal debitore concordatario in relazione ai diversi metodi di valutazione dei cespiti - non essendo stato dimostrato che l’attribuzione all’azienda di un valore incongruo fosse da attribuire alle manovre decettive del proponente che aveva “montato “ una realtà aziendale diversa da quella effettiva, celando valori aziendali e ed enfatizzando passività inesistenti.
[24] Sez V n. 39307 del 28/9/2007, Rv. 238183.
[25] Sez. V n. 31117 del 30/06/2011 , Rv. 250588; Sez. 5, n. 15712 del 12/03/2014, Rv. 260220.
[26] Sez. V n. 33268 del 08/04/2015, Rv. 264354. Nel caso esaminato dalla predetta pronuncia, il legale rappresentante della società in un primo tempo ammessa al concordato preventivo, e poi fallita, aveva, prima dell’ammissione alla procedura, distratto beni e risorse finanziarie della società verso società dello stesso gruppo poi anch'esse fallite attraverso vendite senza corrispettivo, in assenza della prospettiva di ogni ipotizzabile vantaggio compensativo, in danno dei creditori, sottraendole risorse economiche e finanziarie. L’imputato si era difeso sostenendo l’assenza di dolo sul rilievo che si era adoperato per il buon esito del concordato preventivo non andato a buon fine per motivi indipendenti dalla sua volontà (fallimento di un grosso debitore, sopravvenuta incommerciabilità del magazzino).
Appare utile, a beneficio non solo degli operatori del settore ma anche delle persone assoggettate a procedura fallimentare, effettuare uno schematico riepilogo dei principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità e di merito in ordine ai beni non compresi nel fallimento e al sussidio alimentare che può essere concesso al fallito quando a quest’ultimo e alla sua famiglia vengano a mancare i mezzi di sussistenza.
Va anzitutto chiarito che la problematica concerne esclusivamente le ipotesi di fallimento di persone fisiche, sia pure, eventualmente, in qualità di soci illimitatamente responsabili di società.
La disciplina vigente in materia, contenuta negli artt. 46 e 47 l.f., persegue la finalità di riservare al fallito una condizione di vita dignitosa, liberandolo da ogni misura di carattere inutilmente afflittivo e incentivandolo alla continuazione o alla ripresa dell’attività lavorativa già nel corso della procedura fallimentare.
Ciò premesso, si riportano di seguito le risposte fornite dalla giurisprudenza agli interrogativi che si sono posti in materia, nel tentativo di fornire una sorta di “prontuario” per curatori fallimentari e ai giudici delegati e, al contempo, uno strumento utile alle persone “colpite” dalla dichiarazione di fallimento e alle loro famiglie.
QUAL È, NEL CORSO DELLA PROCEDURA FALLIMENTARE, LA SORTE DEGLI STIPENDI E DELLE PENSIONI PERCEPITI DAL FALLITO?
In base al combinato disposto dei commi 1 n. 2) e 2 dell’art. 46 l.f., i limiti entro i quali gli stipendi e le pensioni del fallito non sono compresi nel fallimento, in quanto necessari per il mantenimento del fallito e della sua famiglia, sono fissati con decreto motivato dal giudice delegato tenendo conto della condizione personale del fallito e di quella della sua famiglia.
Ciò significa, evidentemente, che non può mai essere acquisita alla procedura fallimentare l’integralità delle somme che il fallito ricava dalla sua attività lavorativa (anche, eventualmente, quale lavoratore autonomo: v. Trib. Padova, 26 aprile 2002, in Il fallimento, 2003, 1375) o percepisce a titolo di pensione, e che almeno una parte di tali somme deve essere quindi lasciata nella piena disponibilità del fallito (v. Cass. 26201/2016).
Il diritto del fallito di percepire e trattenere gli emolumenti necessari al mantenimento suo e della sua famiglia sussiste già prima che intervenga il decreto del giudice delegato che ne fissi la misura ed indipendentemente da esso, sicché, da un lato, l’acquisizione della pensione o dello stipendio all’attivo fallimentare non può essere totale neppure per il periodo precedente l’emissione di tale decreto, e, dall’altro, il decreto in questione ha natura dichiarativa ed efficacia retroattiva, comportando l’inefficacia ex art. 44 l.f., per la parte eccedente il limite fissato, dei pagamenti – relativi a stipendi e pensioni maturati dopo la dichiarazione di fallimento – già effettuati direttamente al fallito dal datore di lavoro o dall’Ente previdenziale (v. Cass. 6999/2015, Cass. 18598/2014, Cass. 18843/2012, Cass. 17751/09 e Cass. 20325/07).
LA DISCIPLINA IN QUESTIONE SI APPLICA ANCHE AL TRATTAMENTO DI FINE RAPPORTO? E VALE ANCHE PER GLI STIPENDI ARRETRATI (RELATIVI CIOÈ A MENSILITÀ PRECEDENTI LA DICHIARAZIONE DI FALLIMENTO) E PER I RATEI ATTETRATI DI PENSIONE NON ANCORA CORRISPOSTI?
La risposta è affermativa, pur dovendo sul punto effettuarsi una precisazione.
Stante la sua connotazione retributiva (sia pure sotto forma di “risparmio forzoso”: v. Cass. 4261/01), anche il trattamento di fine rapporto è soggetto al regime stabilito dai commi 1 n. 2) e 2 dell’art. 46 l.f., ed è dunque escluso dall’attivo fallimentare nei soli limiti di quanto occorre per il mantenimento del fallito e della sua famiglia (v. Cass. 17751/09 e Cass. 2591/99, nonché, con specifico riguardo all’indennità di fine rapporto spettante agli agenti di commercio, Cass. 5787/79).
Peraltro, poiché di regola ciò che rileva sono le esigenze attuali di mantenimento, laddove tali esigenze siano già “coperte” da altri emolumenti percepiti a titolo di stipendio o pensione può essere disposta anche la totale acquisizione del trattamento di fine rapporto all’attivo fallimentare (v. (Cass. 17751/09), e solo in caso di mancanza di tali emolumenti il fallito può ottenere una sorta di capitalizzazione mensile della parte del t.f.r. necessaria al mantenimento suo e della sua famiglia durante la procedura fallimentare (in tal caso cioè il curatore fallimentare, una volta acquisito integralmente il trattamento di fine rapporto, dovrà utilizzarlo almeno in parte per erogare al fallito quanto necessario per il predetto mantenimento, nella misura e con la periodicità stabiliti dal giudice delegato con il decreto di cui all’art. 46, co. 2, l.f.).
Le esigenze di mantenimento relative al periodo precedente l’apertura della procedura fallimentare vengono in rilievo solo laddove il fallito dimostri di avervi fatto fronte facendo ricorso al credito: in tal caso egli potrà percepire anche la quota di t.f.r. necessaria ad adempiere agli obblighi di restituzione dei prestiti a tal fine ottenuti (v. Cass. 18598/2014 e Cass. 9268/95).
Le considerazioni che precedono valgono anche per gli stipendi arretrati (v. Cass. 2072/03 e Cass. 2738/64) e per i ratei arretrati di pensione (v. Cass. 3373/98).
QUID IURIS PER I RIMBORSI SPESE?
Poiché ai sensi dell’art. 42, co. 2, l.f. i beni che pervengono al fallito durante la procedura fallimentare sono compresi nel fallimento “dedotte le passività incontrate per l'acquisto e la conservazione dei beni medesimi”, il fallito ha sempre diritto a percepire integralmente le somme che il datore di lavoro gli corrisponde a titolo di rimborso spese (v. Cass. 1724/2015).
E PER LA PENSIONE DI INVALIDITÀ?
Tra le “pensioni” di cui all’art. 46, co. 1, n. 2), che sono escluse dal fallimento (e possono essere quindi percepite dal fallito) nei soli limiti fissati dal giudice delegato entro quanto occorre per il mantenimento del fallito e della sua famiglia, vanno annoverate anche quelle di invalidità (v. Cass. 2939/08, Cass. 2719/07, Cass. 17839/02 e Cass. 9268/95).
E PER L’INDENNITÀ DI ACCOMPAGNAMENTO?
L’indennità di accompagnamento, stante la sua funzione assistenziale, non può essere acquisita neppure in parte all’attivo fallimentare, e il fallito ha quindi diritto a trattenerla nella sua totalità (v. Trib. Napoli, 11 marzo 2014, in www.expartecreditoris.it).
E PER LE INDENNITÀ DI DISOCCUPAZIONE E DI MOBILITÀ?
Le indennità di disoccupazione e di mobilità hanno invece una funzione previdenziale (v. Corte Cost. 234/2011), per cui devono ritenersi soggette al regime stabilito dai commi 1 n. 2) e 2 dell’art. 46 l.f.;
CHI DEVE ATTIVARSI PER LA FISSAZIONE DEL LIMITE EX ART. 46, CO. 2, L.F. DA PARTE DEL GIUDICE DELEGATO?
Non è necessaria un’istanza del fallito (v. Cass. 26201/2016), ben potendo la richiesta provenire dal curatore fallimentare o da chiunque altro vi abbia interesse, come gli stessi familiari del fallito o il suo datore di lavoro.
Giova peraltro evidenziare come la tempestiva emissione del decreto di fissazione del limite da parte del giudice delegato sia nell’interesse di tutti i soggetti coinvolti: del datore di lavoro o l’Ente previdenziale erogatore del trattamento pensionistico, per non rischiare la parziale inefficacia del pagamento effettuato direttamente in favore del fallito; del fallito, per non vedersi opporre da parte del datore di lavoro o dell’Ente previdenziale il legittimo rifiuto del pagamento in attesa della fissazione del limite; del curatore fallimentare, per acquisire all’attivo fallimentare le somme eccedenti il limite fissato dal giudice delegato e recuperare i pagamenti eventualmente effettuati in favore del fallito in eccedenza rispetto a tale limite.
PRIMA DI EMETTERE IL DECRETO DI FISSAZIONE DEL LIMITE, IL GIUDICE DELEGATO DEVE SENTIRE IL CURATORE E IL COMITATO DEI CREDITORI? E SE LA RICHIESTA PROVIENE DAL CURATORE, VA SEMPRE SENTITO PREVENTIVAMENTE IL FALLITO?
Sebbene – diversamente dall’art. 47 l.f. – l’art. 46, co. 2, l.f. non menzioni espressamente la necessità di sentire il curatore e il comitato dei creditori, l’acquisizione dei relativi pareri appare opportuna: il coinvolgimento preventivo del curatore è necessario affinché egli compia le doverose verifiche in merito all’effettiva sussistenza delle esigenze di mantenimento dedotte dal fallito e alle reali condizioni economiche e personali di quest’ultimo e della sua famiglia, la partecipazione del comitato dei creditori è opportuna per consentire a tale organo, espressione degli interessi della massa dei creditori sui quali il provvedimento è destinato ad incidere, le proprie osservazioni.
Il fallito, ove ciò sia concretamente possibile (salvo, cioè, il caso di sua irreperibilità), va sempre preventivamente sentito e messo in condizione di esporre adeguatamente e di documentare le esigenze di mantenimento sue e del suo nucleo familiare.
QUALI SONO I PARAMETRI CUI IL GIUDICE DELEGATO DEVE ATTENERSI NELLA FISSAZIONE DEL LIMITE?
Premesso che la determinazione della parte di pensione o stipendio necessaria per assicurare al fallito mezzi adeguati al mantenimento è rimessa alla valutazione in fatto del giudice delegato e deve essere da quest’ultimo sempre adeguatamente motivata (v. Cass. 6548/2011), e che non operano della procedura fallimentare i limiti di pignorabilità posti dall’art. 545, co. 3 e 4, c.p.c. (ben potendo quindi gli stipendi e le pensioni acquisirsi all’attivo fallimentare oltre il limite del quinto: v. Cass. 17751/09, Cass. 2939/08, Cass. 2719/07, Cass. 4740/99 e Cass. 971/95), il reddito da lavoro o pensione da destinare al mantenimento del fallito e della sua famiglia non deve essere ridotto a coprire le sole esigenze puramente alimentari (poiché altrimenti il fallito non sarebbe incentivato a svolgere attività lavorativa o comunque giustamente premiato per averla svolta, liberando la procedura fallimentare dal “peso” del sussidio alimentare che gli spetterebbe ai sensi dell’art. 47 l.f.), ma non può neppure arrivare a soddisfare il parametro costituzionale della retribuzione socialmente adeguata ex art. 36 Cost., dovendo pur sempre considerarsi che nella condizione sociale del fallito assume rilievo la sua posizione di debitore verso una collettività di creditori concorrenti (v. Cass. 2939/08, Cass. 17235/02, Cass. 9391/02, Cass. 13171/99, Cass. 10736/94).
Il limite va dunque fissato in una misura intermedia fra il minimo alimentare, rappresentato dalla pensione sociale minima, e il livello di retribuzione – cui fa riferimento l’art. 36 Cost. – sufficiente ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa (v. Trib. Udine, 21 maggio 2010, in www.ilcaso.it, Trib. Locri, 4 gennaio 2003, in Il fallimento, 2003, 897, e Trib. Sulmona, 14 marzo 2000, in Il fallimento, 2000, 682).
In definitiva, al di là di ogni considerazione sulla funzione del lavoro come strumento per consentire all’individuo una piena espressione della sua dignità e personalità concorrendo allo sviluppo materiale e spirituale della società, lo svolgimento di un’attività lavorativa da parte del fallito nel corso della procedura fallimentare giova sia alla massa dei creditori (sulla quale graverebbe, altrimenti, il rischio di dover subire il peso del sussidio alimentare di cui all’art. 47 l.f.) sia allo stesso fallito, il quale, oltre a percepire una somma superiore a quella conseguibile con il predetto sussidio, può contribuire alla parziale soddisfazione dei suoi creditori anche nell’ottica di una sua esdebitazione ex art. 142 l.f. al termine della procedura.
DI QUALI RIMEDI PUÒ AVVALERSI IL FALLITO (O LO STESSO CURATORE, IN RAPPRESENTANZA DELLA MASSA DEI CREDITORI) PER CONTESTARE LA DECISIONE DEL GIUDICE DELEGATO OVE RITENUTA INGIUSTA?
Il decreto di fissazione del limite è impugnabile con reclamo ex art. 26 l.f. al Tribunale, la cui decisione, incidendo sui diritti del fallito e dei creditori, è a sua volta ricorribile per Cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost. (v. Cass. 26956/2016, Cass. 2939/08, Cass. 13171/99, Cass. 4740/99 e Cass. 10736/94).
IL FALLITO È TENUTO A DOCUMENTARE L’EFFETTIVA DESTINAZIONE DELLE SOMME PERCEPITE AL SODDISFACIMENTO DELLE ESIGENZE DI MANTENIMENTO?
L’imposizione al fallito di una rendicontazione periodica circa l’utilizzo delle somme percepite a titolo di stipendio, pensione o proventi di attività di lavoro autonomo è rimessa alla discrezionalità del giudice delegato, avuto riguardo alla particolarità dei singoli casi, sicché non sussiste alcun obbligo di rendicontazione ove ciò non sia espressamente stabilito dal giudice (v. Cass. 26206/2013).
COSA ACCADE SE IL FALLITO, PERCETTORE DI PENSIONE, MUORE NEL CORSO DELLA PROCEDURA FALLIMENTARE?
In tal caso il decreto di fissazione del limite emesso dal giudice delegato perde immediatamente efficacia, ferma l’acquisizione all’attivo degli eventuali ratei arretrati di pensione, non potendo prospettarsi con riguardo a tali ratei un trasferimento del diritto in favore del coniuge superstite sotto forma di pensione di reversibilità (v. Cass. 2658/2015).
E SE AL FALLITO, NON PERCETTORE DI REDDITI DA LAVORO O DI PENSIONE, VENGONO A MANCARE I MEZZI DI SUSSISTENZA?
L’art. 47, co. 1, l.f. stabilisce che in tal caso il giudice delegato, sentiti il curatore ed il comitato dei creditori, può concedere al fallito un sussidio a titolo di alimenti per lui e per la famiglia.
Deve tuttavia escludersi che il fallito vanti un diritto soggettivo agli alimenti, essendone rimessa la concessione alla decisione discrezionale del giudice delegato anche in ordine alla relativa entità e durata nel tempo, ed essendo possibile l’ottenimento del sussidio solo se al fallito vengano effettivamente a mancare i mezzi di sussistenza (il che non accade, ad esempio, quando vi siano persone obbligate a prestagli gli alimenti ai sensi dell’art. 433 c.c.: v. Trib. Torino, 27 maggio 1988, in Dir. fall., 1989, II, 899) e nella massa attiva del fallimento vi siano disponibilità economiche sufficienti a farvi fronte (v. Cass. 9790/2013, nonché Trib. Sulmona, 18 agosto 2000, in Gius, 2000, 22, 2648; contra, per la qualificazione del sussidio come situazione giuridica direttamente tutelata dall’ordinamento e qualificabile come diritto soggettivo radicato nel principio solidaristico dell’art. 2 Cost., sia pure subordinato all’effettiva mancanza dei mezzi di sussistenza e alla presenza nella massa attiva delle necessarie disponibilità economiche, Cass. 3518/99).
Tra i mezzi di sussistenza devono ritenersi incluse anche le somme occorrenti per le cure mediche essenziali (v. Trib. Napoli, 22 ottobre 1982, in Il fallimento, 1983, 698, e in Dir. fall., 1983, II, 995), ma non quelle necessarie per l’esercizio del diritto di difesa in giudizio, comunque garantite, in presenza dei relativi presupposti, dall’istituto del patrocinio a spese dello Stato (v. Cass. 5787/79, nonché Trib. Torino, 27 maggio 1988, in Dir. fall., 1989, II, 899, e Trib. Ravenna, 4 gennaio 1967, in Dir. fall., 1967, II, 218).
Nella valutazione del giudice delegato non assume alcun rilievo la meritevolezza del soggetto richiedente (v. Trib. Torino, 27 maggio 1988, in Dir. fall., 1989, II, 899; contra Trib. Verona, 15 maggio 2015, in Il fallimento, 2015, 12, 1350, secondo cui rileverebbero anche le ragioni dell'indisponibilità o dell'insufficienza dei redditi del fallito).
L’istanza è legittimamente reiterabile dal fallito, sicché l’eventuale provvedimento di diniego emesso dal giudice delegato, non pregiudicando definitivamente e irreversibilmente la posizione dell’interessato, è reclamabile ai sensi dell’art. 26 l.f. ma la decisione del Tribunale sul reclamo non è ricorribile in Cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost. (v. Cass. 9790/2013, Cass. 2755/02, Cass. 3664/01, Cass. 7564/96, Cass. 1589/62 e Cass. 2070/59).
QUAL È LA SORTE DELL’ASSEGNO DI MANTENIMENTO EVENTUALMENTE DETERMINATO PRIMA DELL’APERTURA DEL FALLIMENTO IN FAVORE DEL CONIUGE SEPARATO E DELL’ASSEGNO DI DIVORZIO?
Il credito maturato dal coniuge separato del fallito dopo la dichiarazione di fallimento non può essere fatto valere direttamente nei confronti del fallito, e il provvedimento di fissazione dell’assegno di mantenimento non è opponibile alla procedura fallimentare. L’interessato può ottenere un assegno alimentare sostitutivo con provvedimento del giudice delegato solo qualora ricorrano i presupposti di cui all’art. 47 l.f. (v. Cass. 1589/62, nonché Trib. Napoli, 8 luglio 2009, in Corr. mer., 2009, 10, 947).
Lo stesso principio è stato affermato per l’assegno di divorzio (Cass. 268/82), ma in dottrina si è giustamente rimarcato che al coniuge divorziato non dovrebbe potersi attribuire il sussidio in questione, essendo venuto meno il vincolo familiare con il fallito.
IL FALLITO PUÒ CONTINUARE AD ABITARE NELLA CASA DI PROPRIETÀ O CONDOTTA IN LOCAZIONE? E COME INCIDE IL FALLIMENTO SUI RAPPORTI DI UTENZA DI LUCE, ACQUA, GAS E TELEFONO?
La casa di proprietà del fallito (che ivi risieda sin dal momento della dichiarazione di fallimento: v. Cass. 869/58), ai sensi dell’art. 47, co. 2, l.f., nei limiti in cui è necessaria all'abitazione di lui e della sua famiglia, non può essere distratta da tale uso fino alla liquidazione delle attività.
Va chiarito, tuttavia, che la norma non impone che la casa del fallito sia venduta solo dopo che siano stati liquidati tutti gli altri beni (v. Cass. 869/58, nonché Trib. Ferrara, 2 ottobre 2000, in Il fallimento, 2001, 834, Trib. Messina, 6 giugno 2000, in Dir. Fall., 2000, 2, 1050, e Trib. Velletri, 6 settembre 1991, in Il fallimento, 1992, 406), e che l’ordine di liberazione della stessa ben può essere emesso dal giudice delegato anche prima dell’aggiudicazione al miglior offerente, purché dopo l’avvio della procedura competitiva di vendita o contestualmente all’inizio di tale procedura (v. Trib. Pescara, 3 giugno 2016, in Leggi d’Italia, e Trib. Reggio Emilia, 26 ottobre 2013, in www.ilcaso.it).
Quanto alla casa condotta in locazione, la locazione immobiliare avente ad oggetto la casa di abitazione del fallito e della sua famiglia non integra un rapporto patrimoniale compreso nella massa attiva fallimentare ma un rapporto di natura personale sottratto al fallimento, al quale non si applica l’art. 80 l.f.. per cui il curatore non può subentrare nel rapporto o recedere dallo stesso e il fallito può proseguire il rapporto per soddisfare la sua primaria esigenza di abitazione (v. Cass. 20804/09, Cass. 16668/08, Cass. 7142/2000, Cass. 6424/93 e Cass. 5397/82, nonché Trib. Nocera Inferiore, 28 aprile 2010, in Leggi d’Italia).
Parimenti esclusi dal fallimento, in ogni caso, sono i rapporti derivanti dai contratti per la fornitura di luce, gas, acqua e telefono alla casa di abitazione del fallito (v. Trib. Ascoli Piceno, 3 aprile 1984, in Dir. fall., 1984, II, 861).
LE SOMME SPETTANTI AL FALLITO A TITOLO DI RISARCIMENTO DEL DANNO NON PATRIMONIALE SONO ESCLUSE DAL FALLIMENTO?
La risposa è affermativa, trattandosi di un diritto di natura strettamente personale (v. Cass. 25618/2018, Cass. 2719/07, Cass. 392/06, Cass. 8022/2000 e Cass. 5539/97). Deve considerarsi superato il precedente orientamento secondo cui la quantificazione dell’ammontare del risarcimento determina la trasformazione del diritto personale all’integrità fisica o psichica in diritto patrimoniale sulla somma, con conseguente acquisizione di quest’ultima all’attivo fallimentare (v. in tal senso Cass. 1210/92 e Cass. 1123/63, nonché Trib. Roma, 19 febbraio 2002, in Il fallimento, 2002, 900, e Trib. Milano, 28 febbraio 2000, in Il fallimento, 2001, 433, secondo cui il risarcimento del danno morale e biologico per morte del fallito in sinistro stradale può essere acquisito al fallimento).
E L’INDENNIZZO A TITOLO DI EQUA RIPARAZIONE PER ECCESSIVA DURATA DEL PROCESSO?
Sebbene la Suprema Corte abbia affermato che il diritto all’indennizzo va acquisito al fallimento nel momento in cui, con la liquidazione del danno subito, si trasforma in diritto patrimoniale all’adempimento dell’obbligazione risarcitoria (v. Cass. 3117/05), tale affermazione va rivista in virtù del summenzionato revirement giurisprudenziale sul tema del danno non patrimoniale.
E GLI INDENNIZZI PER PERDITA DI CAPACITÀ LAVORATIVA SPECIFICA?
Le somme spettanti al fallito a titolo di danno da perdita di capacità lavorativa specifica, configurando un pregiudizio patrimoniale connesso alla perdita di guadagni futuri, sono comprese nel fallimento (v. Cass. 1879/2011 e Cass. 15493/05).
E IL RISARCIMENTO DEL DANNO PER PERDITA DI UN CONGIUNTO?
Sul punto bisogna distinguere i pregiudizi di carattere patrimoniale, il cui risarcimento è senz’altro avocabile al fallimento (v. Cass. 1652/71), dal c.d. “danno da perdita del rapporto parentale”, che costituisce un pregiudizio di natura non patrimoniale il cui ristoro è escluso dal fallimento.
E I CONTRIBUTI PER LA RICOSTRUZIONE O RIPARAZIONE DI IMMOBILI DANNEGGIATI DA EVENTI SISMICI?
Si tratta, evidentemente, di contributi funzionali al ristoro di un danno non patrimoniale, come tali non esclusi dal fallimento. La Suprema Corte ha tuttavia precisato che il pagamento delle somme effettuato direttamente in favore del fallito non può considerarsi inefficace nel caso in cui le stesse siano state effettivamente utilizzate per la ricostruzione o la riparazione degli immobili danneggiati (v. Cass. 16995/04).
E L’ASSEGNO DI MANTENIMENTO CONCESSO AL COLLABORATORE DI GIUSTIZIA?
In caso di fallimento del collaboratore di giustizia, l’assegno di mantenimento erogato in suo favore a norma dell'art. 13 d.l. 13/91 non può essere acquisito neppure parzialmente all’attivo fallimentare, né il giudice delegato può rideterminarne l’importo (v. Cass. 22145/2010 e Cass. 24416/09).
COME INCIDE LA DICHIARAZIONE DI FALLIMENTO SUL CONTRATTO DI ASSICURAZION SULLA VITA?
Alla dichiarazione di fallimento del beneficiario non consegue lo scioglimento del contratto, né il curatore può agire nei confronti dell’assicuratore per ottenere il valore di riscatto della relativa polizza stipulata dal fallito quando era in bonis, atteso che, ai sensi dell’art. 46, co. 1, n. 5, l.f., tale cespite non rientra tra i beni compresi nell’attivo fallimentare e il valore di riscatto anticipato della polizza deve essere quindi corrisposto direttamente al fallito (v. Cass., SS.UU., 8271/08, Cass. 12261/2016, Cass. 11975/99, Cass. 2802/72, Cass. 1811/65 e Trib. Napoli, 16 marzo 2004, in Il fallimento, 2005, 309; tra le pronunce di segno contrario, v. Cass. 2256/2015 e Cass. 8676/2000, nonché Trib. Roma, 4 ottobre 2003, in Giur. mer., 2004, 683, e Trib. Verona, 23 dicembre 2000, in Il fallimento, 2001, 1140).
Il principio è altresì applicabile all’assicurazione contro gli infortuni con riferimento alle indennità dovute per un infortunio mortale, ma non anche alle indennità dovute per un infortunio che abbia cagionato un’invalidità permanente (v. Cass. 13342/04).
LA MODIFICA DELL’ART. 18 ORDINAMENTO PENITENZIARIO -decreto legislativo 2 ottobre 2018, n.123-
IL DIRITTO DI COLLOQUIO DEI DETENUTI SOTTOPOSTI AL 41 BIS O.P. CON I GARANTI TERRITORIALI
Il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, istituito con decreto legge n.146/2013 conv. in legge n.10/2014, è un' Autorità di garanzia, collegiale e indipendente, non giurisdizionale che vigila su tutte le forme di privazione della libertà, dagli istituti di pena, alla custodia nei luoghi di polizia, alla permanenza nei Centri di identificazione ed espulsione, alle residenze di esecuzione delle misure di sicurezza psichiatriche (Rems), ai trattamenti sanitari obbligatori. Con l’istituzione del Garante Nazionale, sul modello del cd Ombudsman di matrice svedese, sono state recepite le reiterate sollecitazioni formulate in ambito sovranazionale[1], sulla necessità di predisporre efficaci strumenti di tutela dei diritti delle persone private della libertà personale.
Il Garante regionale dei diritti dei detenuti è stato introdotto nel nostro ordinamento dall’art. 12-bis del d.l. 30 dicembre 2008, n. 207, (convertito in legge 27 febbraio 2009, n. 14), che ha modificato gli articoli 18 e 67 O.P. al fine di accordare una forma di tutela extra-giurisdizionale alle persone in vinculis, per promuovere l’esercizio dei diritti, verificare le condizioni detentive e il trattamento operato dall’amministrazione e segnalare eventuali abusi. Il Garante, oltre a ricevere istanze o reclami in forma orale o scritta, anche in busta chiusa (art. 35 ord. penit.), può far visita agli istituti penitenziari senza il bisogno di autorizzazione (art. 67, lett. l-bis, ord. penit.) ed interloquire con i detenuti e gli internati.
I Garanti provinciali e i Garanti comunali operano nei limiti fissati dai relativi atti istitutivi. I Garanti territoriali ricevono segnalazioni sul mancato rispetto della normativa penitenziaria, sulle violazioni o sulla parziale attuazione dei diritti dei detenuti e si rivolgono all’autorità competente per chiedere chiarimenti o spiegazioni, sollecitando gli adempimenti o le azioni necessarie. Il loro operato si colloca su un piano diverso, per natura e funzione, da quello degli organi di ispezione amministrativa interna e della stessa magistratura di sorveglianza.
Il decreto legislativo 2 ottobre 2018, n.123, entrato in vigore il 10 novembre 2018, ha modificato il comma I dell’articolo 18 O.P., che disciplina i colloqui dei detenuti, sopprimendo le parole:” nonché con il garante dei diritti dei detenuti” ed introducendo, dopo il primo comma, al comma 1 bis la previsione:” I detenuti e gli internati hanno diritto di conferire con il difensore, fermo quanto previsto dall’art. 104 del codice di procedura penale, sin dall’inizio dell’esecuzione della misura o della pena. Hanno, altresì, diritto di avere colloqui e corrispondenza con i garanti dei diritti dei detenuti”.
Il diritto di colloquio con i Garanti non è più previsto dal comma I dell’art. 18 O.P., relativo ai colloqui con i congiunti e con altre persone, ma è stato inserito in un comma autonomo, concernente i colloqui con i difensori e con i garanti.
La nuova previsione normativa fa riferimento a tutti i Garanti, senza alcuna distinzione. Ciò trova conferma nella relazione illustrativa dell’intervento di modifica che nel richiamare le modifiche all’art. 18 O.P. con l’introduzione del comma 1 bis, pone in evidenza - ff. 50 e 61- la facoltà del detenuto di “ conferire con i Garanti dei diritti dei detenuti comunque denominati, in vista della complessiva tutela dei diritti primari della persona detenuta, che non può subire alcuna limitazione di natura temporale”.
Con la modifica apportata all’art. 18 O.P. il legislatore ha inteso differenziare i colloqui con i familiari da quelli con i Garanti. I colloqui con i Garanti risultano fruibili indipendentemente dai limiti previsti per i colloqui con i familiari. La stessa Corte di legittimità ha ritenuto irragionevole porre il detenuto di fronte all’alternativa tra esercitare il suo diritto al mantenimento delle relazioni familiari ovvero quello di accedere a una forma di tutela extragiudiziaria di particolare rilevanza ( in tal senso Cass. Sez. 1, n.46169/18 e Cass. Sez.1, n.53006/2018).
Sul sito del Ministero della Giustizia nella scheda relativa al Garante Nazionale e ai Garanti territoriali, aggiornata al 9/11/2018, si legge:” I garanti possono effettuare colloqui con i detenuti e possono visitare gli istituti penitenziari senza autorizzazione, secondo quanto disposto dagli artt.18 e 67 dell’ordinamento penitenziario. Inoltre detenuti ed internati hanno diritto ad avere colloqui e corrispondenza con i garanti come previsto dall'art.18 riformulato dal d.lgs. 123/2018.”
La novella legislativa non ha, tuttavia, modificato l’articolo 41 bis O.P. escludendo i Garanti territoriali, al pari dei difensori, dal controllo auditivo e dalla video registrazione prevista per i colloqui effettuati dai detenuti inseriti nel circuito dell’alta sorveglianza.
Va evidenziato che il regime differenziato di cui all'art. 41 bis O.P., ha carattere di previsione normativa "speciale" che trova giustificazione nel più elevato livello di pericolosità soggettiva espresso dal provvedimento ministeriale di adozione ed oggetto di controllo giurisdizionale ai sensi dell'art. 41 bis, comma 2 sexies O.P.. I più stringenti presidi di sicurezza rispondono all’esigenza di salvaguardia dell’ordine e della sicurezza pubblica, alla necessità di recidere il vincolo associativo che lega i membri delle organizzazioni criminali e i collegamenti tra i detenuti collocati in posizione verticistica all’interno delle stesse e le consorterie operanti all’esterno del carcere.
Quanto alle modalità di svolgimento dei colloqui dei detenuti sottoposti al 41 bis O.P. con i Garanti va sottolineato che lo strumento del colloquio previsto dall’art. 18 O.P. è diverso da quello del “colloquio riservato”, prerogativa esclusiva del Garante Nazionale, istituito in attuazione di un sistema interno e indipendente di monitoraggio sui luoghi di privazione della libertà personale e in ottemperanza alla ratifica del Protocollo Opzionale alla convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti (OPCAT).[2] La possibilità di svolgere colloqui riservati diretti e senza testimoni con persone private della libertà è espressione del Meccanismo nazionale di prevenzione realizzato attraverso il Garante nazionale, organo collegiale costituito dal presidente e da due membri che restano in carica per cinque anni non prorogabili. La legge istitutiva - n.146/2013 conv. in L. n.10/2014 - ha previsto peculiari requisiti di indipendenza ed imparzialità del Garante nazionale e disciplinato la procedura di individuazione e nomina dei componenti: ”Essi sono scelti tra persone, non dipendenti delle pubbliche amministrazioni, che assicurano indipendenza e competenza nelle discipline afferenti la tutela dei diritti umani, e sono nominati, previa delibera del Consiglio dei ministri, con decreto del presidente del Consiglio dei ministri, sentite le competenti commissioni parlamentari”.
La possibilità di avere colloqui riservati con i detenuti non è estesa ai Garanti territoriali.
Le prioritarie esigenze di sicurezza non permettono di escludere i Garanti territoriali dalla disciplina dettata dall’art. 41-bis, comma 2-quater, lett. b), ord. penit.. L’esercizio del diritto del detenuto al confronto con il Garante va necessariamente contemperato con quello, di rango costituzionale ed oggetto di riserva di legge statale ex art. 117 Cost., dell’ordine e della sicurezza dei consociati, garantendo i beni della libertà e della stessa vita, ferma restando la possibilità per il detenuto di rivolgere istanze o reclami, in forma orale o scritta, «anche in busta chiusa», al Garante (art. 35, n. 3, ord. penit.), corroborata dal divieto di sottoporre a limitazioni e controlli la corrispondenza epistolare o telegrafica ad esso indirizzata o da esso inoltrata (art. 18-ter, comma 2, ord. penit.).
Né il ruolo del Garante territoriale, quale difensore civico dei diritti del detenuto, può parificarsi a quello di chi garantisce ai soggetti in vinculis il diritto di difesa tecnica, a cui non si applicano le disposizioni della lett. b), comma 2, dell’art. 41 bis e neanche il limite numerico di cui all’ultimo periodo della medesima previsione, attinto da declaratoria di incostituzionalità con sentenza C.Cost. nr. 143 del 2013. Depongono in tal senso anche il recentissimo intervento normativo che distingue il diritto ai colloqui con i difensori da quello con i Garanti e l’assenza di modifiche alla previsione di cui all’art. 41 bis comma 2, lett.b) ultimo periodo, che esclude i colloqui con i soli difensori dai presidi di sicurezza dalla stessa norma disciplinati.
Il giudice delle leggi, con sentenza nr.122/2017 nel dichiarare non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, co. 2-quater, lett. a) e c), l. 26 luglio 1975, n. 354, sollevate, in riferimento agli artt. 15, 21, 33, 34 e 117, co. 1, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 3 e 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, in relazione al divieto di ricevere dall’esterno e di spedire all’esterno libri e riviste a stampa, ha ribadito che il regime di alta sorveglianza mira a far fronte ad esigenze di tutela dell'ordine e della sicurezza esterne al carcere e connesse alla lotta alla criminalità organizzata, terroristica ed eversiva, impedendo, in particolare, i collegamenti dei detenuti appartenenti alle organizzazioni criminali tra loro e con i membri di queste che si trovino in libertà: collegamenti che potrebbero realizzarsi attraverso i contatti con il mondo esterno, che lo stesso ordinamento penitenziario pure favorisce, quali strumenti di reinserimento sociale (sentenza n. 376 del 1997; ordinanze n. 417 del 2004 e n. 192 del 1998). Si intende evitare, soprattutto, che gli esponenti dell'organizzazione in stato di detenzione, sfruttando il normale regime penitenziario, «possano continuare ad impartire direttive agli affiliati in stato di libertà, e così mantenere, anche dal carcere, il controllo sulle attività delittuose dell'organizzazione stessa» (sentenza n. 143 del 2013). In questa prospettiva, il comma 2-quater dell'art. 41-bis ord. pen. - nel testo novellato dalla legge 15 luglio 2009, n. 94 - disposizioni in materia di sicurezza pubblica - dopo aver previsto, in termini generali, che il regime speciale comporta «l'adozione di misure di elevata sicurezza interna ed esterna», finalizzate principalmente a «prevenire contatti con l'organizzazione criminale di appartenenza o di attuale riferimento» del detenuto o dell'internato, oltre che «contrasti con elementi di organizzazioni contrapposte, interazione con altri detenuti o internati appartenenti alla medesima organizzazione ovvero ad altre ad essa alleate» (lettera a), elenca una serie di misure specifiche costituenti il contenuto tipico e necessario del regime stesso. Figurano nell'elenco, in particolare, la drastica limitazione dei colloqui personali (uno al mese, con i soli familiari e conviventi, salvo casi eccezionali, in locali attrezzati in modo da impedire il passaggio di oggetti) e dei colloqui telefonici (uno al mese con i familiari e conviventi della durata massima di dieci minuti, per i soli detenuti che non effettuino colloqui visivi), con previsione, in entrambi i casi, del controllo auditivo e della videoregistrazione (lettera b); la «limitazione delle somme, dei beni e degli oggetti che possono essere ricevuti dall'esterno» (lettera c); la sottoposizione a visto di censura della corrispondenza (lettera e); l'adozione di misure che assicurino «la assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità» (lettera f).
La Corte di legittimità, pronunciandosi sul tema dei colloqui dei detenuti sottoposti al 41 bis O.P. con i Garanti territoriali ha ritenuto che in assenza di una specifica disciplina debba trovare applicazione, sia sul piano della quantità, che dei soggetti ammessi alla fruizione e delle modalità di svolgimento, il regime di particolare rigore previsto per i colloqui; le disposizioni derogatorie investono tutti i colloqui ex art. 18 O.P., ivi compresi quelli con il Garante locale, con la sola espressa esclusione dei difensori, atteso il carattere generale della previsione normativa e stante la necessità di documentare i contatti con il mondo esterno, previsione che in quanto disciplinata con norma primaria, non è suscettibile di disapplicazione.( Cass., Sez. 1, n.46169/2018)
Con un arresto coevo (Sez.1 n. 53006/2018) la Corte di Cassazione ha, altresì, sottolineato che lo status dei detenuti sottoposti al regime del carcere duro impone il rispetto di maggiori cautele in ragione della pericolosità loro riconosciuta che potrebbe indurli a strumentalizzare la diretta interlocuzione con i Garanti anche per esercitare forme di coercizione volte ad attuare all’esterno finalità illecite. Secondo la Corte ciò non va letto come manifestazione di sospetto verso la persona e il ruolo del Garante locale quanto piuttosto come misura necessaria a prevenire l’elusione delle finalità del regime di alta sorveglianza e la possibilità che i Garanti territoriali si trovino esposti a forme di condizionamento nei confronti di detenuti portatori di elevatissima pericolosità.
Alla luce delle considerazioni che precedono non può escludersi la necessità che i colloqui dei detenuti sottoposti al 41 bis o.p. con i Garanti territoriali debbano essere autorizzati. Il parametro di riferimento per l’amministrazione è quello tracciato dalla Corte di legittimità con la sentenza sez. 1, n. 46168/18) secondo cui la possibilità, per l’amministrazione penitenziaria, di limitare l’accesso del garante è affievolita, posto che, in caso contrario, si ridurrebbero le occasioni di contatto e di comunicazione dei detenuti con il Garante. La Corte ritiene che “ i ragionevoli motivi sono immanenti alla funzione svolta dal Garante e, come tali, sempre sussistenti, in ogni caso l’autorizzazione ai colloqui non potrebbe essere, almeno tendenzialmente, negata, salva la ricorrenza di situazioni eccezionali”.
I colloqui con i garanti territoriali sottostanno, pertanto, alle modalità di maggior rigore previste dal medesimo articolo per tutti i colloqui dei detenuti e degli internati sottoposti al regime del 41 bis O.P., fatta eccezione per quelli con i difensori. Trattasi di restrizioni proporzionali agli scopi di prevenzione cui il regime detentivo speciale è finalizzato e che non obliterano l’equo bilanciamento tra i diversi valori di rango costituzionale coinvolti.
[1] Si fa riferimento alla Raccomandazione R (1975) 757 dell’assemblea Parlamentare, adottata il 29/1/1975, alla Raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa R. (1985) 13, adottata il 23/9/1985, alla Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, adottata il 26/6/1987 e aperta alla firma il 26/11/1987, alle Regole penitenziarie europee del 1987, adottate con Raccomandazione R 1987-3 dal Comitato del Ministri del Consiglio d’Europa il 12 febbraio 1987, alle Regole del 2006 adottate dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa con Raccomandazione R ( 2006) 2 e, ancora, al Protocollo Opzionale della Convenzione ONU contro la tortura, adottato dall’assemblea Generale delle nazioni Unite con Risoluzione 9/1/2003 n.57/1999, ratificato dall’Italia con legge n.195/2012 (cfr. Cass. Sez.1, n.46169 del 27/6/2018, dep.11/10/2018).
[2] In tal senso il DM 11 marzo 2015, n.36, recante il “ Regolamento sulla struttura e composizione del Garante e la Circolare DAP del 18/5/2016 sul garante nazionale”.
I provvedimenti emessi dal pubblico ministero nella fase esecutiva, anche se incidenti sulla libertà del condannato, non avendo contenuto decisorio e attitudine a definire il rapporto processuale, non hanno natura giurisdizionale ma amministrativa, promanando da un organo le cui funzioni sono eminentemente di carattere esecutivo e amministrativo.
Ne consegue che tali provvedimenti non sono suscettibili di autonoma e diretta impugnazione con il ricorso per cassazione, mentre, per ottenere una pronuncia ablativa o modificativa, è esperibile lo specifico rimedio dell'incidente di esecuzione. Nondimeno va ricordato che la natura di atto amministrativo dell’ordine di esecuzione consente al PM di revocare o modificare il provvedimento esecutivo che non è suscettibile di incorrere nell’intangibilità del giudicato.
Se un ordine di esecuzione quindi contiene un vizio o un errore del PM in danno del condannato questi può chiederne la correzione allo stesso PM ovvero promuovere incidente di esecuzione.
La giurisprudenza più recente ricorda che il procedimento di esecuzione non ha natura di giudizio di impugnazione e perciò non soggiace al principio devolutivo, volto a delimitare il concreto contenuto dell'esecuzione; conseguentemente sussiste il dovere del giudice di decidere anche in ordine alle domande nuove formulate dalla parte privata solo con memoria in corso di procedimento, fatta salva la necessità che, a salvaguardia del principio del contraddittorio, sia garantito alla parte pubblica un termine per controdedurre.
Un caso di grave imbarazzo per il PM, all’atto di emissione dell’ordine esecutivo, è stato ormai eliminato dalla Corte Costituzionale con la sentenza. N. 41/2018 della Corte Cost., che ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 656 comma 5 c.p.p. nella parte in cui non consente la sospensione dell’esecuzione per le pene non superiori a 4 anni di detenzione. Fin dall’entrata in vigore dell’art. 47 comma 3 bis OP gli operatori del diritto si erano resi conto della grave distonia tra una norma che consente la concessione dell’affidamento in prova al servizio sociale per pene non superiori a 4 anni e la regola, generale, rispetto alle varie eccezioni previste dalla norma in esame, che prevedeva la sospensione dell’ordine dell’esecuzione per pene non superiori a tre anni.
Tale distonia sembrava essere stata risolta dalla Suprema Corte (con Sentenza Sez. 1, Sentenza n. 51864 del 31/05/2016 Cc. -dep. 05/12/2016 -Rv. 270007), secondo cui in tema di esecuzione di pene brevi, in considerazione del richiamo operato dall'art. 656, comma quinto, cod. proc. pen. all'art. 47 ord. pen., ai fini della sospensione dell'ordine di esecuzione correlata ad una istanza di affidamento in prova ai sensi dell'art. 47, comma terzo bis, ord. pen., il limite edittale non è quello di tre anni, ma di una pena da espiare, anche residua, non superiore a quattro anni.
Successivamente però la giurisprudenza è tornata sui suoi passi affermando (con Sentenza Sez. 1, Sentenza n. 46562 del 21/09/2017 Cc. - dep. 10/10/2017- Rv. 270923) che in tema di esecuzione di pene detentive brevi, ai fini della sospensione dell'ordine di esecuzione correlata ad un'istanza di affidamento in prova ai servizi sociali ai sensi dell'art. 47, comma 3-bis, ord. pen., il limite edittale cui il pubblico ministero deve fare riferimento per l'emissione dell'ordine di carcerazione ex art. 656, commi 5 e 10, cod. proc. pen. è quello di tre anni, essendo rimessa al Tribunale di Sorveglianza ogni valutazione circa l'istanza di affidamento in prova nel caso di pena espianda, anche residua, non superiore ad anni quattro.
Nel suo ribaltamento ermeneutico la Suprema Corte ha specificato che il precedente indirizzo interpretativo “fa dichiarata applicazione del criterio di interpretazione evolutiva dell'art. 656, comma 5, secondo periodo, cod. proc. pen., estendendone l'applicazione a tutti i casi previsti dall'art. 47 ord. pen., «pur in mancanza del dato formale di una sua esplicita modifica che, tenendo conto del recente inserimento del comma 3-bis nell'art. 47 ord. pen., introduca il richiamo specifico dell'ipotesi prevista da tale nuovo comma nel testo letterale della disposizione del codice di rito». Il canone dell'interpretazione evolutiva, che affida al giudice la capacità di creare diritto seguendo il passo dello sviluppo della società, è, di per sé, controverso in ambito civile (è escluso in ambito processuale: Sez. U, n. 15144 del 11/07/2011, Rv. 617905; è ammesso nel settore delle controversie tributarie da Sez. 5, n. 30722 del 30/12/2011, Rv. 621046; è ammesso in quello della tutela dei soggetti deboli: Sez. 6, n. 19017 del 16/09/2011, Rv. 620058 e di promozione di categorie svantaggiate. Sez. U, n. 8486 del 14/04/2011 Rv. 616792), mentre è tradizionalmente escluso nel settore penale poiché si scontra sia con il principio costituzionale della riserva di legge, sia con quello della separazione dei poteri (in questo senso si vedano i paragrafi n. 11 e n. 12 della sentenza n. 230 del 2012 della Corte Costituzionale). Nella giurisprudenza di legittimità, il detto canone interpretativo è stato, infatti, sempre escluso sulla base del rilievo che «l'interpretazione estensiva della legge è consentita perché non amplia, ma discopre l'intero contenuto della norma; l'interpretazione evolutiva è invece vietata perché snatura la funzione del giudice da organo di applicazione in quello di formazione della legge» (Sez. 3, n. 2230 del 11/01/1980, Pasculli, Rv. 144357; a proposito dell'art. 54 cod. pen.: Sez. 3, n. 10772 del 07/10/1981, Potenziani, Rv. 151195), fatta salva la necessità di interpretare secondo il criterio storico-evolutivo determinate clausole a contenuto etico-sociale”.
Va segnalato che tale orientamento, che limita la sospensione ai casi di pena non superiore a tre anni, e quindi apparentemente confermativo della distonia con la normativa in tema di affidamento in prova al servizio sociale, è stato poi confermato dalla Suprema Corte, pochi giorni antecedentemente alla pronuncia della Consulta n.41/2018, respingendo una richiesta della Procura Generale presso la Suprema Corte della Cassazione di rimettere la decisione alle Sezioni Unite.
La Corte Costituzionale, come anticipato, ha risolto la difficoltà ermeneutica di sistema. Evidenzia la Consulta che “non può non osservarsi che nel caso di specie la rottura del parallelismo, imputabile al mancato adeguamento della disposizione censurata, appare di particolare gravità, perché è proprio il modo con cui la legge ha configurato l’affidamento in prova allargato che reclama, quale corollario, la corrispondente sospensione dell’ordine di esecuzione. In proposito va in primo luogo osservato che non ha pregio l’argomento dell’Avvocatura dello Stato secondo cui l’affidamento allargato sarebbe precipuamente indirizzato a chi è già detenuto, al fine di ridurre la popolazione carceraria per ottemperare a quanto deciso dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con la sentenza 8 gennaio 2013, Torreggiani e altri contro Italia. In senso contrario è sufficiente osservare che l’art. 47, comma 3-bis, della legge n. 354 del 1975 si rivolge espressamente anche ai condannati che si trovano in stato di libertà, senza alcuna distinzione di rilevanza rispetto ai detenuti, come è riconosciuto anche dall’Avvocatura dello Stato e si desume dalla destinazione dell’affidamento in prova allargato «al condannato che deve espiare una pena, anche residua, non superiore a quattro anni di detenzione». L’inciso «anche residua» dimostra che la misura è destinata pure a chi non deve espiare una pena residua e cioè a chi non è detenuto. È per questa ragione che la disposizione in questione, ai fini dell’applicazione della misura, richiede una valutazione del comportamento del condannato «quantomeno nell’anno precedente alla presentazione della richiesta, trascorso in espiazione di pena, in esecuzione di una misura cautelare ovvero in libertà». È vero che in linea di principio non è fatto divieto al legislatore di dare vita a forme alternative alla detenzione riservate ai soli detenuti, ma nel caso dell’affidamento allargato la legge non si è valsa di tale spazio di discrezionalità perché ha esplicitamente optato per l’equiparazione tra detenuti e liberi ai fini dell’accesso alla misura alternativa. Del resto si è trattato di una scelta del tutto coerente con lo scopo di deflazionare le carceri, visto che esso si persegue non solo liberando chi le occupa ma anche evitando che vi faccia ingresso chi è libero. Bisogna allora considerare che è espressamente prevista la concessione dell’affidamento allargato al condannato in stato di libertà, ma, se l’ordine di esecuzione di una pena detentiva tra tre anni e un giorno e quattro anni non potesse essere sospeso, si tratterebbe di una previsione in concreto irrealizzabile, per quanto normativamente stabilita e voluta. Infatti l’esecuzione dell’ordine di carcerazione, avvenuta senza aver dato al condannato il tempo di chiedere l’affidamento in prova allargato e comunque senza attendere una decisione al riguardo, renderebbe impossibile la concessione della misura alternativa prima dell’ingresso in carcere. Tale è appunto la situazione normativa che si è realizzata a causa del mancato adeguamento dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen. Omettendo di intervenire sulla normativa ancillare, il legislatore smentisce sé stesso, insinuando nell’ordinamento una incongruità sistematica capace di ridurre gran parte dello spazio applicativo riservato alla normativa principale”. La Corte Costituzionale ha conseguentemente statuito che l’art. 656, comma 5, cod. proc. pen. va perciò dichiarato costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui si prevede che il pubblico ministero sospende l’esecuzione della pena detentiva, anche se costituente residuo di maggiore pena, non superiore a tre anni, anziché a quattro anni.
Se ciò risolve la problematica per il futuro, quid iuris in relazione all’ordine di esecuzione non sospeso già emesso, precedentemente alla sentenza della Corte Costituzionale citata, per una pena superiore al limite edittale di tre anni ma inferiore a quattro anni?
La questione è giunta all’attenzione della Suprema Corte su ricorso del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Reggio Calabria.
Con l’ordinanza impugnata il GIP presso il Tribunale di Reggio Calabria, in funzione di Giudice dell’esecuzione, aveva annullato l’ordine di esecuzione emesso nei confronti del condannato per una pena detentiva di anni 3 e mesi 8 di reclusione, sospendendo l’esecuzione e trasmettendo gli atti al Tribunale di Sorveglianza di Reggio Calabria per l’eventuale applicazione di misura alternativa alla detenzione, in quanto, per effetto della Sentenza n. 41/2018 della Corte Costituzionale, il limite di pena in riferimento al quale il PM deve sospendere l’esecuzione ai sensi dell’art. 656 comma 5 c.p.p. è da ritenersi elevato a quattro anni, non potendosi considerare esaurito l’effetto dell’ordine di esecuzione emesso in epoca antecedente alla pronuncia del Giudice delle Leggi.
E’ insorto avverso tale decisione il PM ravvisando violazione di Legge e vizio della motivazione poiché il Giudice dell’esecuzione non si sarebbe avveduto che nel caso in esame la pronuncia della Corte Costituzionale non poteva trovare applicazione in quanto l’ordine di esecuzione era stato legittimamente emesso con riferimento alla normativa vigente illo tempore (con conseguente “esaurimento” del relativo rapporto giuridico) e quindi dovendosi applicare il principio tempus regit actum.
Il PG presso la Suprema Corte ha invece ritenuto diversamente, rilevando che l'approdo della giurisprudenza di legittimità appare assolutamente prevalente nel ritenere che la sentenza con la quale viene dichiarata l'illegittimità costituzionale di una norma di legge ha efficacia erga omnes - con l'effetto che il giudice ha l'obbligo di non applicare la norma illegittima dal giorno successivo a quello in cui la decisione è pubblicata nella Gazzetta ufficiale della Repubblica – e forza invalidante, con conseguenze simili a quelle dell'annullamento, nel senso che essa incide anche sulle situazioni pregresse verificatesi nel corso del giudizio in cui è consentito sollevare, in via incidentale, la questione di costituzionalità, spiegando, così, effetti non soltanto per il futuro, ma anche retroattivamente in relazione a fatti o a rapporti instauratisi nel periodo in cui la norma incostituzionale era vigente, sempre, però, che non si tratti di situazioni giuridiche "esaurite", coinvolgendo, peraltro, a determinate condizioni, anche quelle determinate dalla formazione del giudicato (Cass. Sez. U, Sentenza n. 44895 del 17/07/2014 Cc. -dep. 28/10/2014- Rv. 260927).
Appare quindi errato, secondo il PG, ritenere che l’ordine di esecuzione, legittimamente emesso secondo la normativa “illo tempore” vigente, abbia esaurito “il rapporto giuridico”: i provvedimenti emessi dal pubblico ministero nella fase esecutiva, anche se incidenti sulla libertà del condannato, non avendo contenuto decisorio e attitudine a definire il rapporto processuale, non hanno natura giurisdizionale ma amministrativa, promanando da un organo le cui funzioni sono eminentemente di carattere esecutivo e amministrativo.
Per il PG presso la Suprema Corte quindi la pronuncia di illegittimità costituzionale dell’art. 656 comma 5 c.p.p. riverbera immediatamente i suoi effetti su tutti i rapporti esecutivi ancora in essere.
La consequenziale decisione della Suprema Corte (Cass. Pen. Sez. 1 N. 34428/2018 udienza 02.07.2018) ha confermato sostanzialmente la lettura interpretativa del PG, rigettando il ricorso del PM territoriale.
Ha precisato ulteriormente la Cassazione che “ nelle ipotesi in cui sia stata posta in esecuzione una condanna 'sospendibile' in virtù della lettura del sistema costituzionalmente valida (a pena residua superiore ad anni tre ed inferiore ad anni quattro) e tale valutazione - in punto di applicazione della misura alternativa - sia mancata (non rileva, sul punto, se per l'assenza di domanda o per il ritardo nella decisione) il rapporto (o, per meglio dire, il segmento del rapporto esecutivo qui in rilievo) non può dirsi esaurito, atteso che il condannato ha il diritto, ora per allora, di ottenere (in concorrenza degli ulteriori presupposti) la restituzione nella facoltà a lui spettante, preclusa al momento della emissione dell'ordine di esecuzione da una norma di legge contrastante con la Costituzione ed espunta dall'ordinamento. In tale ottica, peraltro, non rileva il fatto che il condannato, raggiunto da ordine di esecuzione oggi sospendibile (ma non sospeso all'epoca) non abbia - per ipotesi - proposto la domanda di applicazione della misura alternativa alla detenzione in epoca antecedente al 2 marzo 2018, posto che la decadenza prevista dalla legge (giorni trenta in regime di sospensione) ha un preciso dies a quo, rappresentato dall'avvenuta emissione del provvedimento di sospensione temporanea. Lì dove tale provvedimento non si stato emesso, è del tutto evidente che non può ipotizzarsi decadenza alcuna”.
Da qui l’enunciazione del principio di diritto secondo cui “in riferimento alla declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art.656 co.5 cod.proc.pen. (affermata da C. Cost. n.41 del 2018) il giudice dell'esecuzione, lì dove il condannato, da detenuto in espiazione per reati non ostativi, formuli domanda di sospensione temporanea dell'ordine di esecuzione (relativo a pena superiore a tre anni ed inferiore a quattro anni) ha il dovere di valutare la domanda e di provvedere, in presenza degli ulteriori presupposti di legge, al ripristino della facoltà di proposizione - da libero - della domanda di misura alternativa, con temporanea sospensione della esecuzione, salva l'ipotesi di avvenuta decisione da parte del Tribunale di Sorveglianza di una analoga domanda proposta dopo l'inizio della esecuzione cui la richiesta si riferisce” (Cass. Pen. Sez. 1 n. 34428/2018 udienza 02.07.2018).
Quanto alle determinazioni del PM, alla luce di quanto sopra evidenziato e della natura amministrativa del suo ruolo nella fase esecutiva, può pertanto ritenersi doverosa la revoca anche d’ufficio dell’ordine di esecuzione non sospeso emesso, in epoca antecedente alla pronuncia della Consulta, per una pena superiore al limite edittale di tre anni ma inferiore a quattro anni, con consequenziale nuova emissione dell’ordine ma stavolta sospeso.
L’espunzione dall’ordinamento ex tunc del limite edittale di tre anni attribuisce infatti al condannato, “ora per allora”, il diritto di attendere la decisione della Magistratura di Sorveglianza, circa l’accessibilità ad un regime esecutivo in misura alternativa alla detenzione, in condizione libera, e tocca al PM, ancor prima dell’intervento del Giudice dell’esecuzione se è il caso, restituire l’interessato allo status libertatis se previamente posto in vinculis in virtù di una norma dichiarata incostituzionale.
Il limite all’esercizio di tale potere/dovere, da parte del PM o del Giudice dell’esecuzione, è costituito dall’esaurimento del rapporto esecutivo: quando cioè – ovviamente - la pena sia già stata del tutto espiata, ovvero dal pronunciamento della Magistratura di Sorveglianza sul regime esecutivo; la decisione del Magistrato di Sorveglianza in fase cautelare ovvero del Tribunale di Sorveglianza in via definitiva esauriscono infatti quel segmento di fase esecutiva provvisoria scandito dall’art. 656 comma 5 – 10 c.p.p. per cui, una volta concessa la misura alternativa alla detenzione ovvero rigettata la relativa istanza, la posizione giuridica del condannato è ormai definita da un provvedimento giurisdizionale diretto a regolare lo svolgimento del rapporto esecutivo - ben lungi dall’essersi esaurito con l’emissione del provvedimento ex art. 656 comma 5 c.p.p. - fino all’espiazione della pena.
Nel 2011, con la nomina di Giovanni Tamburino a capo del Dipartimento, l'Amministrazione Penitenziaria aveva avviato un processo di cambiamento profondo, poi recepito nei lavori degli “Stati Generali sull’Esecuzione della Pena”, avviati nell’aprile del 2015, il cui prodotto ha rappresentato la base della proposta formulata dalla Commissione per la riforma dell’Ordinamento penitenziario nominata con decreto ministeriale 19 luglio 2017, solo in minima parte recepita negli schemi di decreto legislativo nn. 121, 123 e 124 del 2 ottobre 2018.
Il percorso di riforma legislativa si è sostanzialmente arrestato ma soprattutto si è arrestato il processo di mutamento dell’azione amministrativa e così, a più di quarant’anni di distanza, si può amaramente constatare che i principi scritti nell’Ordinamento Penitenziario del 1975 e nel Regolamento di esecuzione che seguì nel 2000 non sono ancora completamente attuati.
L’impegno avviato nel 2011, che allora fu definito “rivoluzione normale”, era infatti semplicemente quello di dare attuazione alla legge del 26 luglio 1975, n. 354 e al Regolamento realizzando per ciascun detenuto condizioni detentive dignitose e soprattutto facendo in modo che, attraverso tali condizioni, il periodo di detenzione restituisca alla società un cittadino migliore. Questa è infatti la funzione che la Costituzione assegna alla pena (art. 27 comma 3) quando prescrive che essa "non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e deve tendere alla rieducazione del condannato".
Il fine della pena è quello di promuovere, sostenere, incoraggiare un percorso di vita facendo affidamento sulla responsabilità della persona.
La rieducazione, il trattamento e la valutazione del percorso in carcere del detenuto dipendono innanzitutto dalle condizioni detentive e dal rispetto dato alle specificità di ognuno.
Parlare di trattamento significa parlare innanzitutto di condizioni detentive e condizioni migliori per tutti vuol dire innanzitutto differenziare il trattamento in ragione della specificità di ciascuno: detenuti definitivi/in attesa di giudizio, italiani/stranieri, nuovi giunti/dimettendi, sani/ammalati, condannati a pene lunghe/condannati a pene brevi….
Il nucleo fondamentale del modello detentivo che era alla base della riforma avviata è la differenziazione degli istituti penitenziari e l’individuazione di obiettivi diversi per ciascuno di essi, così da indirizzare l’azione amministrativa in ragione della specificità delle singole strutture, anche attraverso una specifica formazione del personale.
Allocare i detenuti in istituti e sezioni distinti per gruppi omogenei e creare le condizioni affinché ogni detenuto possa trascorrere la maggior parte del proprio tempo al di fuori della camera detentiva in refettori e spazi dedicati alle attività comuni ove sono favorite la responsabilizzazione e una osservazione davvero efficace, con l’intervento di operatori e volontari appartenenti a professionalità diverse varie professionalità, dell’interazione del singolo nel gruppo.
Nel mondo penitenziario lavorano singole professionalità che, con importanti contributi di energie e idee, hanno saputo costruire realtà considerate all’estero come modello. Molte lavorazioni di eccellenza, progetti culturali importanti, scuole di teatro, esperienze numerosissime portate avanti anche con il lavoro prezioso e insostituibile del volontariato e delle tante associazioni che operano all’interno del carcere. Purtroppo però queste sono ancora opportunità destinate a pochi.
Non soltanto il lavoro, l’istruzione, le attività culturali o sportive però hanno una finalità di risocializzazione.
In effetti tutto nell’organizzazione della vita carceraria, dalle regole dello stare insieme, alle modalità con cui si rendono possibili i rapporti con i familiari e con la “società esterna'”, deve essere pensato e realizzato in funzione di questo scopo. Di per sé partecipare alla vita carceraria e accettarne in concreto le regole, consente di sviluppare una prospettiva di vita e di condotta in armonia con i diritti degli altri e con le esigenze della società.
Le donne detenute, che sono solo una piccola percentuale della popolazione carceraria nazionale, rappresentano certamente una specificità. Riconoscere appieno i diritti delle donne vuol dire innanzitutto riconoscere la diversità di sesso e la loro specificità, perché uomini e donne hanno caratteristiche proprie ed esigenze diverse, e perché per i gruppi minoritari quali le giovani e le cittadine straniere, si aggiungono specificità ulteriori per le quali è particolarmente difficile poter avere adeguate risposte.
Il dato statistico ci porta a riflettere. La popolazione femminile rappresenta circa il 4% della popolazione detenuta.
Nel passato, questa differenza era correlata al diverso ruolo rivestito dalla donna nella società: la donna non era nelle condizioni di delinquere perché relegata nel ruolo di madre e moglie, ma in realtà per quanto riguarda l’Italia le cifre delle donne che delinquono rimangono abbastanza stabili e la percentuale di donne su tutti i denunciati negli ultimi anni è rimasto pressocchè costante (circa il 17/18%).
Le Regole Minime per il trattamento dei detenuti delle Nazioni Unite, approvate per la prima volta il 30 agosto 1955 e periodicamente aggiornate, affermano (Regola 8) che “uomini e donne, per quanto possibile, devono essere ristretti in istituti separati, o in sezioni completamente separate dello stesso istituto”; le Regole penitenziarie europee del 2006 (regola 18.8b) affermano che deve essere dato rilievo alla necessità di tenere separati uomini e donne, e il 21 dicembre 2010, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato un nuovo testo di disposizioni volte a colmare una lacuna negli standard internazionali riguardanti le esigenze specifiche delle donne in conflitto con la legge penale.
Sono le Regole delle Nazioni Unite per il trattamento delle donne detenute e le misure non detentive per le donne autrici di reati, note come le “Regole di Bangkok” a riconoscimento del ruolo determinante svolto dal Regno di Tailandia nella loro elaborazione. Seppure sprovviste di efficacia vincolante, le 70 Regole di Bangkok fanno parte dell’ampia raccolta di principi e linee guida, standard e norme, sviluppate dalle Nazioni Unite nel corso di più di 50 anni.
Esse sono divise in due sezioni, una contenente le disposizioni di applicazione generale e l’altra le regole dedicate a categorie speciali quali le madri, le straniere, le giovani . E’ interessante sottolineare che nella parte relativa alla valutazione del rischio le Regole considerano che generalmente le detenute presentano una pericolosità relativamente debole e che le misure di alta sicurezza su di loro hanno un effetto particolarmente negativo.
La regola n. l fissa il principio di individualizzazione del trattamento (“bisogna tenere conto delle esigenze peculiari delle donne detenute per l'attuazione delle presenti regole. Le misure adottate per soddisfare tali necessità non devono essere considerate discriminatorie”). E’ necessario prendere in considerazione le esigenze diverse delle donne rispetto a quelle degli uomini: l’attenzione a queste esigenze non è discriminatoria “il concetto di eguaglianza significa ben più che trattare tutte le persone allo stesso modo. Il trattamento uguale di persone in situazioni diseguali contribuirà a perpetuare l’ingiustizia e non a eradicarla”.
Proprio perché le donne costituiscono una minoranza nell’ambito penitenziario i loro bisogni specifici sono spesso disattesi .
Tradizionalmente le carceri sono progettate e costruite da uomini per ospitare uomini, quindi secondo un modello che mal si adatta alle necessità emotive, familiari, sociali e sanitarie femminili. In molti Paesi le donne sono ospitate in sezioni sommariamente separate dalle sezioni maschili, per evitare situazioni di promiscuità ad esse è negato l’accesso alle strutture comuni per le attività sportive, lavorative e formative. Spesso sono ristrette in carceri che si trovano molto lontano dalle loro famiglie e comunità di riferimento, rendendosi così difficili e onerosi i contatti con le loro famiglie.
Le detenute sono spesso madri. La lontananza dai figli aggiunge sofferenza alla pena detentiva e i locali per le visite raramente offrono uno spazio adatto per ritrovare la vicinanza tra madre e figlio. In genere, la mancanza di affetti e i ritmi del carcere sono più difficili da accettare per le donne che per gli uomini e ciò si traduce in un numero maggiore di suicidi e di atti di autolesionismo.
In Italia gli istituti penitenziari destinati in modo esclusivo alle donne sono cinque (Trani, Pozzuoli, Roma Rebibbia, Empoli, Venezia Giudecca) e per il resto le donne sono collocate in 52 piccoli reparti all’interno di penitenziari maschili. Quindi nella maggior parte dei casi la donna detenuta si trova a vivere una realtà fatta e pensata dagli uomini e per gli uomini, nella struttura, nelle regole e nelle relazioni, senza cogliere gli aspetti di specificità e tipicità proprie delle donne, che la detenzione non cancella, ma anzi rafforza.
Le donne hanno una minore possibilità di accesso alle attività trattamentali. E’ una discriminazione involontaria dovuta al loro numero limitato e all’impossibilità di condividere con gli uomini le strutture.
La detenzione di coloro che sono in attesa di giudizio è molto meno tutelata dal punto di vista del trattamento. Differenziare detenuti definitivi da quelli in attesa di giudizio è già difficile, differenziare ulteriormente all’interno di queste categorie tra uomini e donne è quasi impossibile, così le donne detenute definitive e non definitive si trovano sempre assieme.
Le donne mediamente hanno condanne più brevi di quelle degli uomini e hanno maggiori probabilità di essere single e meno probabilità di avere qualcuno cui affidare la casa e la famiglia. Così anche una breve condanna per una donna arreca danni e conseguenze a lungo termine. Se le pene detentive brevi, in generale rappresentano una punizione scarsamente efficace, esse lo sono ancora meno per le donne. Molto più efficace le alternative al carcere, misure di probation e di giustizia ripartiva, diffuse in altri Paesi e quali assenti nel nostro.
In effetti concordare il modo migliore per riparare il danno e reintegrare le donne nella società vuol dire sostenere i loro figli, con risultati doppi in termini di abbattimento di recidiva per l’ulteriore effetto di ridurre la possibilità che i figli a loro volta delinquano.
Sempre nella stessa stagione del 2011 è stata approvata la legge 21 aprile 2011, n. 62, che offre alle madri detenute nuove possibilità di assistere ed accudire il figlio minore fuori dall’istituto di pena inteso in senso stretto. Ma anche questa legge non è ha trovato ancora piena attuazione.
Il legislatore, per rafforzare la tutela del rapporto tra i minori e le madri che si trovino in stato di privazione della libertà personale, ha previsto la collocazione delle madri negli ICAM istituti a custodia attenuata (sul modello di quello che fu attuato a Milano nel 2007), dotati di caratteristiche strutturali diverse rispetto alle carceri tradizionali ed ispirate a quelle di una casa di civile abitazione. In queste strutture è attuato un regime penitenziario di tipo familiare-comunitario incentrato sulla responsabilizzazione al ruolo genitoriale per garantire una adeguata tutela della genitorialità e dell’infanzia nel corso dell’esecuzione penale assicurando una crescita armoniosa e senza traumi dei minori.
Per quanto riguarda gli arresti domiciliari la stessa legge ha introdotto la specifica figura della casa-famiglia protetta previste anche per le ipotesi di detenzione domiciliare cd. per fini umanitari (ex art. 47-ter comma 1 lett. a l.354/75), previste nei confronti di donna incinta, o madre di prole convivente di età inferiore ai dieci anni, per l’espiazione delle pene detentive non superiore a quattro anni (anche se costituenti parte residua di maggior pena). La stessa legge ha modificato la disciplina della cd detenzione domiciliare speciale disciplinata (art. 47-quinquies l.354 del 1975) e destinata alle madri con prole non superiore ad anni dieci anche nel caso di esecuzione di pene di lunga durata. E’ stata introdotta infatti la possibilità di espiare la parte di pena prodromica all’ammissione del beneficio (almeno un terzo della pena o 15 anni nel caso di condanna all’ergastolo) presso gli ICAM (solo cinque, a Milano, Venezia, Torino, Avellino e Cagliari) e, se non vi è pericolo di fuga o di reiterazione del reato, presso il proprio domicilio e, in assenza di quest’ultimo, presso le case famiglia protette. Queste strutture consentono quindi a soggetti sprovvisti di riferimenti familiari e abitativi di accedere alla misura cautelare degli arresti domiciliari e alla misura alternativa della detenzione domiciliare e in questo senso rappresentano uno snodo essenziale per l’attuazione pratica della legge.
Per consentire l’attuazione della legge del 2011 alcune Associazioni di volontariato sul territorio nazionale si sono attivate per mettere a disposizione numerose strutture aventi i requisiti previsti e predisponendo percorsi personalizzati in grado di garantire il reinserimento nella società.
La presenza in carcere di detenute madri con prole negli ultimi anni è oscillata tra le 60 e le 40 unità e, dopo il dato più basso registrato il 31.12.2014 (28 bambini presenti negli istituti italiani), il 30.11.2018 i figli di detenute presenti in carcere erano 55.
Se il legislatore si è occupato dei bambini (fino a tre o dieci anni d’età) che vivono in carcere con la madre, molte però sono le madri detenute che non vedono mai i loro figli o li vedono saltuariamente durante le ore di colloquio perché troppo spesso i colloqui con i figli avvengono in situazioni logistiche che per questi ultimi sono raccapriccianti, mancano ambienti idonei, pochi istituti hanno la ludoteca e a volte le procedure di ingresso sono traumatiche (anche i bambini vengono perquisiti e addirittura i neonati, perché potrebbe esserci droga nascosta nel pannolino). Queste situazioni creano vuoti affettivi inammissibili e spesso i genitori tengono nascosta ai figli la loro detenzione perché non sanno con quali parole spiegarla o perché temono che i servizi per minori intervengano e spesso è impossibile intervenire nelle situazioni di crisi familiare. Con una separazione forzata, il rapporto madre-figlio può essere facilmente compromesso; il distacco, le difficoltà oggettive di mantenere rapporti continuativi e regolari, la distanza del luogo di detenzione fanno sì che spesso i figli subiscono la situazione più come una sparizione che non come un allontanamento momentaneo e quando la mamma detenuta è stata l’unica a prendersi cura di loro, il distacco è intollerabile. Spesso per i figli minori andare a colloquio (anche nella stessa città) è difficile perché banalmente può significare dover perdere un giorno di scuola (è ancora limitata la possibilità di effettuare colloqui nel pomeriggio o nel fine settimana).
Tanti sono gli interventi che volontari e associazioni realizzano in molti istituti italiani: accompagnano i bambini ai colloqui in carcere, rendono più brevi le attese e sostengono i bambini durante le perquisizioni, rendono più gradevoli i locali adibiti al colloquio; danno sostegno al genitore che si rifiuta di condurre il figlio in carcere a visitare il padre o la madre; aiutano ai bambini a mantenere rapporti costanti con il genitore detenuto; danno modo agli stranieri di mettersi in contatto telefonico con la propria famiglia in modo che chi ha problemi di fuso orario possa comunque interloquire con i figli lontani.
C’è una sostanziale differenza di genere nel modo di vivere il carcere. Gli uomini hanno una maggiore capacità di adattarsi all’ambiente o di accettare la carcerazione come conseguenza di comportamenti devianti.
Gli uomini surrogano la privazione del ruolo di sostegno alla propria famiglia lavorando e mandando soldi a casa. Per le detenute invece essere private di questo ruolo è una sofferenza enorme. Gli uomini hanno sempre una donna che porta il pacco e lava i panni, non si vede mai il contrario. Ma questo non sembra essere un motivo di disagio per le detenute le quali vorrebbero poter lavare e stirare i panni del marito in stato di libertà.
Le donne subiscono con sofferenza il carcere e per esse il bisogno di aggregazione e socialità è molto più forte che per gli uomini e i loro rapporti interpersonali rispondono più a logiche di espressione di affettività, che a quelle di comparazione della forza, sia essa forza fisica o forza del prestigio criminale.
Generalmente le donne considerano i reati che le hanno portate in carcere come incidenti di percorso e non scelte di vita consapevoli. Hanno un senso di vergogna e la preoccupazione per il dopo, legata non soltanto alla possibilità di reinserimento lavorativo, ma anche a quella di essere accettate in società e di poter tornare a vivere un’esistenza normale (esse spesso hanno avuto una vita normale e non hanno solide carriere criminali alle spalle).
Le celle e gli spazi individuali vengono curati dalle donne con attenzione particolare: le stanze sono ordinate e pulite, tenute meglio di quelle maschili ; le donne tendono a riprodurre nella loro stanza l'ambiente familiare e i gesti consuetudinari compresa l’attenzione al proprio corpo.
Nel 2013 è stato diffuso dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria uno schema di Regolamento interno predisposto per le sezioni femminili che tiene conto della dimensione affettiva, delle specifiche necessità sanitarie, del diverso rapporto con le esigenze della propria fisicità, della necessità di offrire pari opportunità di reinserimento sociale e in cui sono valorizzati i momenti di compresenza con i detenuti maschi (scuola e formazione in genere, iniziative culturali, ricreative e sportive, partecipazioni alle commissioni di rappresentanza previste dall’Ordinamento penitenziario, ecc.). In alcuni Regolamenti di istituto è previsto espressamente che la detenuta possa tenere con sé la fede, catenine, orecchini e oggetti di bigiotteria (di modico valore); creme depilatorie, deodoranti, creme, smalto, cosmetici, pinze per le ciglia, depilatore elettrico, extention, tinta per i capelli , crema lisciante per capelli crespi; lenti a contatto, ferri per lana con punta arrotondata, kit per cucito. All’atto dell’ingresso la detenuta riceve anche un kit per l’igiene personale tra cui assorbenti igienici. L’arredo della cella comprende uno specchio, infine sono disponibili una lavatrice e un servizio di parrucchiera.
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