ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Se lo dice il Papa!
di Roberto Giovanni Conti
Sovrapposizione, conflitto tra leggi diverse, antiche e recenti, nazionali e sovranazionali e vuoti legislativi richiedono al magistrato un’assunzione di responsabilità che va oltre le sue normali mansioni. La giustizia è tale se realmente ed autenticamente indipendente.
Quella resa alla presenza dell’Associazione Nazionale Magistrati è, forse, la riflessione più articolata di Papa Francesco sul tema della giustizia italiana.
Essa sembra il frutto di una meditata presa di posizione, propiziata da una sorta di risonanza magnetica alla quale è stato sottoposto il nostro ‘sistema giustizia’ per offrire alla Giunta esecutiva dell’ANM – e, si vedrà, non solo ad essa - indicazioni, auspici e moniti che, per la chiarezza con la quale sono stati esposti e pur nella mirabile sinteticità del messaggio, meritano massima considerazione.
Una premessa, credo, debba essere fatta ed è che la trama delle riflessioni del Pontefice è intrisa di una forte laicità, non ravvisandosi punti di caduta capaci di orientare (e ridurre) la riflessione verso il mondo cattolico.
Il Papa ha inteso parlare al mondo giudiziario italiano nel suo complesso e ad esso si è rivolto, offrendo il suo pensiero sul ruolo della giustizia nella società.
Tre i destinatari del messaggio l’ANM, quale organo rappresentativo di circa il 90 per cento dei magistrati, i giudici e la società.
Il Pontefice riconosce il ruolo proattivo svolto dall’ANM nel corso degli anni, lodandone il Codice etico e la capacità di vigilare sull’indipendenza dei magistrati, ma anche di fare memoria dei magistrati morti per mano criminale nell’esercizio delle funzioni.
Ma il messaggio va diritto verso i giudici, tutti i giudici, offrendo la visione della giustizia secondo la visuale di Papa Francesco.
Una giustizia che è, al contempo, garanzia indispensabile per il corretto funzionamento della vita pubblica e sociale, ma anche della serena convivenza dei singoli e, prima ancora, presidio ineludibile per conseguire e mantenere la pace.
Una dimensione tutta dinamica, in divenire, nella quale il corpo magistratuale al quale è affidata tale virtù cardinale ‘in modo del tutto speciale’ non può limitarsi a realizzarla nel caso singolo, ma deve aspirare ad ‘un traguardo verso il quale tendere ogni giorno’, mancando il quale ‘tutta la vita sociale rimane inceppata, come una porta che non può più aprirsi, o finisce per stridere e cigolare, in un movimento farraginoso’.
Al centro della giustizia sta l’uomo e la sua dignità o, meglio, la carne viva delle persone, soprattutto di quelle più indigenti. L’invito che Papa Francesco rivolge ai giudici, ricordando le parole contenute nell’art.9 dello Statuto dell’ANM, è dunque quello di essere capaci di garantire sempre, a qualunque persona, senza discriminazioni e pregiudizi di sesso, di cultura, di ideologia, di razza, di religione, la sua dignità non dimenticando che la peculiare condizione di chi versa in situazioni di estrema debolezza e di indigenza impone, a volte, di adottare dei correttivi al canone del suum cuique tribuere, in modo da offrire e garantire una giustizia ‘con uno sguardo di bontà’, ‘sempre più inclusiva, attenta agli ultimi e alla loro integrazione’.
Compito per niente agevole, anzi spinoso e complesso, anche perché ‘ostacolato nella sue efficacia dalla carenza di risorse per il mantenimento delle strutture e per l’assunzione del personale’ oltre che ‘per la crescente complessità delle situazioni giuridiche’.
Il discorso si fa, a questo punto, apparentemente tecnico senza perdersi tuttavia in tecnicismi o parabole. La magmatica proliferazione delle leggi può causare ‘una sovrapposizione o un conflitto tra leggi diverse, antiche e recenti, nazionali e sovranazionali’ al quale si contrappone, spesso, l’esistenza di ‘vuoti legislativi in alcune importanti questioni, tra le quali quelle relative all’inizio e alla fine della vita, al diritto familiare e alla complessa realtà degli immigrati’.
Che fare dunque? Ritirarsi dal conflitto, assecondare la complessità senza offrire risposte appaganti, attendere che il legislatore provveda a chiarire i dubbi o colmi le lacune?
La risposta è di tutt’altra fattura, netta ed univoca: Queste criticità richiedono al magistrato un’assunzione di responsabilità che va oltre le sue normali mansioni, ed esige che egli constati gli eventi e si pronunci su di essi con un’accuratezza ancora maggiore.
Questa, dunque, la mission che Papa Francesco affida ai giudici, caricandoli di un ‘continuo sforzo di aggiornamento’, capace non solo di favorire il ‘dialogo con i diversi saperi extra-giuridici, per comprendere meglio i cambiamenti in atto nella società e nella vita delle persone’, ma anche di ristabilire la realtà e verità dei fatti, in un’epoca assai proclive a valorizzare finte verità sulla base di ‘informazioni fugaci’.
Ma il messaggio, innervato da un principium cooperationis fra chi, dentro e fuori dalla giurisdizione, intende condividere quest’idea di giustizia non si ferma affatto a queste già straordinarie riflessioni, invitandosi i giudici ‘ad essere in grado di attuare con sapienza, ove necessario, un’interpretazione evolutiva delle leggi, sulla base dei principi fondamentali sanciti dalla Costituzione’. Sapienza alla quale viene poco prima accostata la necessità di perseguire la giustizia con ‘prudenza, che aiuta ad applicare i principi generali di giustizia alle situazioni concrete’ – corsivi aggiunti –.
Magistrati che, proprio in ragione della delicatezza delle funzioni attribuite e della centralità della persona, sono ‘ben più che funzionari, ma modelli di fronte a tutte la cittadinanza e in particolare nei confronti dei più giovani’.
Quale giudice può perseguire in maniera credibile gli ideali di giustizia che Papa Francesco tratteggia? Ancora una volta, viene scelta la via dei testi scritti e, in particolare, dello Statuto dell’ANM, più volte richiamato nei suoi articoli 1 e 2, per sottolineare che una giustizia credibile è tale se realmente ed autenticamente indipendente. Papa Francesco esorta a che ‘l’indipendenza esterna…tenga lontana da voi i favoritismi e le correnti, che inquinano scelte, relazioni e nomine’. Un giudice che può essere dunque percepito come giusto dalla società soltanto se non ricada nella ricerca di vantaggi personali e sia capace di respingere le pressioni destinate ad influire sui modi di amministrare la giustizia.
Ma qual è la società nella quale opera il giudice? Quanto essa persegue la virtù della giustizia? Anche su questo punto Papa Francesco è molto diretto, non nascondendo che le tensioni e lacerazioni dell’attuale contesto favoriscono un ‘ripiegamento nel privato che spesso genera disinteresse e diventa terreno di coltura dell’illegalità’ A questo si affianca un sentimento che istintivamente è rivolto a pretendere e rivendicare ‘una molteplicità di diritti, fino a quelli di terza e quarta generazione connessi alle nuove tecnologie’ senza alcuna percezione dei propri doveri. Dunque una proliferazione di diritti associata spesso ‘a una diffusa insensibilità per i diritti primari di molti, persino di moltitudini di persone’. Queste, dunque, le tragiche contraddizioni dell’oggi, rispetto alle quali il valore primario della giustizia può e deve costituire un argine invalicabile.
Fin qui il discorso del Pontefice.
Più che provare a commentare il messaggio ed i suoi contenuti sembra utile evidenziarne alcuni punti qualificanti.
Vi è, sopra tutto, la necessità di mettere al centro dell’azione giudiziaria la persona umana, soprattutto quando si trova in condizioni di fragilità e vulnerabilità. Il ruolo ed il fine ultimo del giudiziario non può che realizzarsi offrendo protezione e garanzia di tutela agli ultimi, ai più indigenti e per ciò stesso ai più indifesi e dimenticati.
Il canone dell’eguaglianza sostanziale permea il messaggio papale, superando l’idea di giustizia equa in quanto capace di garantire sempre e solo ‘ad ognuno ciò che è suo’. Una giustizia giusta deve quindi farsi parte attiva e militante per salvaguardare la dignità dei più deboli e per promuovere l’attuazione dei principi costituzionali in funzione evolutiva del sistema, in vista del perseguimento della massima tutela possibile dei diritti fondamentali dell’uomo.
Una giustizia che, dunque, si alimenta attraverso – e persegue – la convergenza fra le libertà individuali ed i diritti con il dovere di solidarietà, cogliendone in modo mirabile il suo fine costituzionale.
Per altro verso, l’accento dedicato alla dignità delle persone ed alla carnalità delle vicende umane che scorrono in vivo davanti ai giudici (soprattutto di merito), oltre ad evocare le riflessioni di Paolo Grossi sulla dimensione fattuale del diritto è, ancora una volta, testimonianza autorevole di una ‘fame di dignità’ che, come già abbiamo provato a rappresentare in altra sede (v. Bioetica e biodiritto. Nuove), si delinea soprattutto rispetto ai temi eticamente sensibili come autentico baricentro sul quale fare convergere le migliori energie del sistema giudiziario.
Accanto a questo, un messaggio che rende indissolubile la centralità ed indispensabilità della giurisdizione – capace di muoversi sui fronti plurimi nei quali essa è chiamata ad operare, a contatto con variegate e multiformi fonti scritte e viventi – e con essa la moralità ed eticità del suo essere ed apparire linda, trasparente, apolitica, non opaca, non parziale, non orientata a logiche ‘di parte’ o ‘di corrente’.
Non basta – recte, non serve –, dunque, amministrare la giustizia in modo accurato ed approfondito se non si sa essere giusti nel proporsi all’esterno come istituzione innervata da quegli stessi valori che il giudiziario promuove.
Resta solo da chiedersi se la chiarezza e semplicità del discorso papale potrà fare da volano ad una rinnovata attenzione e riflessione su temi spesso sminuiti e sottovalutati o, peggio, trattati con sufficienza, erodendo occasioni preziose di crescita culturale e professionale per quelle nuove generazioni dei magistrati, ai quali occorre spiegare quanti essi dovranno essere sempre meno funzionari e sempre più giudici.
DA ‘SUD FONDI’ A ‘GIEM’, PASSANDO PER ‘VARVARA’: CONTINUA L’ODISSEA DELLA CONFISCA URBANISTICA
La sentenza ‘Giem’ contro Italia, del 28 giugno 2018, della Corte europea dei diritti dell’uomo ha riconosciuto la compatibilità con i principi della convenzione europea della confisca urbanistica disposta con sentenza di proscioglimento per prescrizione del reato. Essa solo apparentemente pone fine ad un tormentato decennio nei rapporti tra Cedu e Giudice interno, in quanto le indicazioni fornite dalla Corte con riferimento alla tutela del terzo e ai presupposti di ‘proporzionalità’ e ‘strumentalità’ della confisca, evidenziano il rischio di possibili disarmonie nell’ambito del contesto normativo nazionale.
Sommario: 1. Premessa - 2. Compatibilità della lottizzazione abusiva con l’art. 1 Prot. Add. CEDU - 3. La differente tutela del terzo in confisca ed ordine di demolizione
1.Premessa
Nel firmamento giuridico esiste la confisca da lottizzazione abusiva che può essere disposta anche con sentenze diverse da quelle di condanna (art. 44 D.P.R. n. 380/01, secondo comma, già art. 19 L. 47/85) ma è una stella che ha avuto una vita travagliatissima e che, da oltre trent’anni, vaga alla ricerca di una stabile collocazione.
In origine e per lungo tempo, la confisca ha gravitato nell’orbita della sanzione amministrativa ‘reale’ - applicabile nei confronti di tutti i proprietari dei terreni lottizzati e delle opere ivi esistenti, ancorché imputati prosciolti o terzi in buona fede - e le posizioni più garantiste che ne mettevano in discussione persino i natali, ritenendo che la norma fosse la conseguenza di un malinteso avvenuto nelle fasi della promulgazione[1], si sono infrante contro le sentenze della Corte di Cassazione che avevano escluso ogni incompatibilità con i principi della Costituzione[2].
Poi, nel 2008, la sentenza della Corte europea ‘Sud Fondi contro Italia’, che ha riscontrato nella confisca i tratti tipici della sanzione penale, ha dato la stura ad un dibattito che si è riversato a cascata in plurime direzioni. La Corte ha censurato la rigorosa impostazione tradizionale della Cassazione, per contrasto con l’art. 7 della CEDU e con l’art. 1 del Protocollo 1 della CEDU, ponendola, di fatto, in rotta di collisione con l’art. 117, 1° comma, della Costituzione che prevede il rispetto delle norme internazionali pattizie ed ha indotto il Giudice interno a riposizionare le tessere del mosaico dirottando la confisca verso la categoria della sanzione amministrativa tuot court, con il fine di recuperarne la dimensione personalistica, senza, tuttavia, spostarla nel terreno della sanzione penale del cui perimetro rimaneva e rimane geloso custode[3].
La mossa non ha convinto la Corte europea che, nel 2013, con la sentenza ‘Varvara contro Italia’, sembrava avere escluso ogni possibilità di mediazione con il Giudice interno, in quanto, richiamando gli stessi articoli della convenzione, aveva escluso la possibilità che la confisca fosse abbinata ad una sentenza diversa da quella di condanna.
A giugno del 2018, a dieci anni dalla sentenza ‘Sud Fondi’, con l’attesa sentenza ‘Giem’ contro Italia, la Grande Camera ha definitivamente certificato la compatibilità con i principi della convenzione, della misura ablatoria disposta con sentenza di proscioglimento, limitando l’apertura della forbice alle ipotesi di prescrizione, e solo all’esito di un giudizio di merito che avesse accertato i profili di responsabilità dell’imputato.
Il “dialogo tra le Corti”, costituito dalla reciproca cessione di spazi nella interpretazione dei diritti fondamentali, ha così consentito di comporre il contrasto, tuttavia l’odissea della confisca - che continua ad essere collocata nell’ambito della sanzione penale dalla Corte europea ed in quello della sanzione amministrativa dal Giudice interno - sembra destinata a proseguire e gli aspetti problematici che ‘Giem’ lascia in eredità, chiamano la Suprema Corte, nel prossimo futuro, a prendere posizioni impegnative.
2.Compatibilità della lottizzazione abusiva con l’art. 1 Prot. Add. CEDU
Le criticità maggiori derivano dalla trasposizione delle garanzie che presidiano il diritto di proprietà, previste dall’art.1 del Protocollo Addizionale della CEDU, nel nostro ordinamento, saldamente ancorato al principio della funzione sociale della proprietà.
Secondo la ‘Giem’ la confisca è una sanzione particolarmente afflittiva che non rispetta il rapporto di proporzionalità tra il pregiudizio arrecato al titolare dalla privazione del diritto di proprietà e le finalità pubbliche perseguite, in quanto non può essere graduata in ragione della intensità dell’elemento psicologico o delle modalità della condotta e, soprattutto, non differenzia le aree edificate da quelle non edificate.
La Corte europea aveva rimarcato con forza questo aspetto di criticità già in ‘Sud Fondi’, rilevando che, nel caso sottoposto al suo esame (la nota vicenda della lottizzazione ‘Punta Perotti’ a Bari, di cui la vertenza ‘Giem’ è una costola), il carattere punitivo della misura ablativa non era giustificato da un reale danno al paesaggio, essendo rimasto inedificato l’85% dei terreni e che rimedio più ‘proporzionato’ doveva ritenersi la demolizione dei manufatti abusivi.
Questi parametri di valutazione, però, non appaiono compatibili con la fattispecie lottizzatoria che può riguardare anche terreni rimasti inedificati e che non va confusa con l’edificazione del manufatto abusivo.
La lottizzazione abusiva è un istituto di lunga e, talvolta, controversa elaborazione giurisprudenziale che costituisce una sorta di microcosmo dal quale la confisca non può essere stralciata, pena l’impossibilità di apprezzarne i tratti che la caratterizzano rispetto a tutte le altre (molteplici) misure ablatorie presenti nel nostro ordinamento. Il requisito della ‘proporzionalità’ della confisca rispetto agli interessi perseguiti, pertanto, deve essere filtrato attraverso i principi che scolpiscono la fattispecie criminosa della lottizzazione abusiva, di cui la confisca costituisce una propaggine.
Occorre premettere che, nella materia urbanistica, il terreno rileva sotto il profilo della sua naturale vocazione a costituire un’area ‘urbana’ poichè la destinazione ad un certo tipo di fruizione (agricola, residenziale ecc.) lo connota, detta il suo statuto e ne condiziona la oggettiva liceità; ne consegue che solo se non sono intraprese opere di trasformazione, è possibile isolare concettualmente il terreno, nella sua ‘materialità’, dal tipo di destinazione che potrebbe acquisire, in quanto il terreno rimane una res indifferente dal punto di vista della sua liceità, allo stesso modo di una materia prima, dalla quale potrà ricavarsi un oggetto lecito o illecito. Ma se una porzione di territorio è oggetto di trasformazione effettiva, la specifica destinazione assunta in concreto dal terreno sarà da ritenersi lecita o illecita a seconda della sua rispondenza alle previsioni della pianificazione urbanistica. In tal caso, nell’ambito di quella porzione di territorio, anche i terreni rimasti inedificati saranno funzionali alla lottizzazione in termini di indice volumetrico, di strade, di spazi che segnano le distanze tra gli edifici, di servizi, di altre opere di urbanizzazione, ecc..
L’equilibrio urbanistico è paragonabile ad un mosaico in cui ogni tessera deve essere collocata al suo posto, sicchè se un terreno è destinato ai servizi per le residenze limitrofe (scuole, chiese, spazi verdi ecc.), la lottizzazione che gravasse con altre residenze quel terreno, avrà privato dei servizi le residenze limitrofe ed avrà realizzato altre abitazioni che, a loro volta, avranno necessità di altre aree destinate a servizi, così determinando uno sconvolgimento difficile da ricomporre. Al netto della percentuale di ‘terreni costruiti’, la lottizzazione avrà impresso una destinazione, alla tessera, tale, da compromettere la realizzazione dell’intero mosaico, così arrecando un danno all’ambiente che trascende l’ atteinte rèelle au paysage inteso, evidentemente, dalla Corte europea, quale edificazione del manufatto abusivo. In questo quadro la confisca costituisce rimedio consono e ‘proporzionato’, poiché solo il passaggio in mano pubblica dell’intera porzione del territorio lottizzato abusivamente, permette di garantirne la destinazione secondo le previsioni di piano. La casistica giudiziaria consente di apprezzare la peculiarità dell’illecito lottizzatorio che, evidentemente, non può rimanere ingabbiato nel binomio manufatto abusivo/demolizione. Si pensi al caso delle residenze turistico alberghiere (R.T.A.), in cui il diverso assetto urbanistico è impresso all’area non con la realizzazione di nuovi complessi di edifici, ma con la modifica della destinazione d’uso di un complesso immobiliare già edificato, da turistico alberghiera a residenziale per uso abitativo privato. In tal caso appare evidente l’inadeguatezza della sanzione della demolizione del manufatto abusivo in quanto l’unico modo per ripristinare la destinazione lecita dei manufatti è quello di sottrarli a chi li utilizza indebitamente per fini di lucro. D’altra parte, la stessa Corte europea, dopo avere salvaguardato il principio personalistico, escludendo la possibilità di applicare la misura ablatoria senza un accertamento di responsabilità di chi la subisce, non ha potuto disconoscere la dimensione ripristinatoria della confisca che solo giustifica il suo abbinamento ad una sentenza di proscioglimento.
Altro discorso è, evidentemente, quello che riguarda i limiti culturali che storicamente caratterizzano la gestione della cosa pubblica da parte di molti Comuni italiani e che inducono la Corte europea ad avanzare dubbi sulla ‘strumentalità’ della confisca rispetto all’interesse perseguito. Nella parte della sentenza ‘Giem’ che ha riguardato le società Hotel Promotion s.r.l. e R.I.T.A. Sarda s.r.l., la Corte si chiede, infatti, “in che misura la confisca della proprietà dei beni abbia effettivamente contribuito alla tutela dell’ambiente”, avendo il Comune deciso di utilizzare gli alloggi abusivi piuttosto che demolirli. E’ noto che spesso le grandi speculazioni edilizie beneficiano del contributo determinante delle Pubbliche amministrazioni che rilasciano i titoli abilitativi, senza i quali difficilmente gli imprenditori investirebbero cospicue somme di danaro per edificare imponenti complessi edilizi. In questi casi l’acquisizione in mano pubblica dei suoli e delle opere abusive, in forza di una decisione giudiziaria, spesso dà luogo ad inerzie imbarazzanti da parte dell’Autorità pubblica o a soluzioni discutibili come quelle che sono entrate nel mirino della Corte europea. Questo cortocircuito istituzionale è determinato da una gestione del territorio finalizzata a calamitare consenso elettorale piuttosto che a perseguire l’interesse pubblico ed implementare la qualità della vita della comunità e, in questo senso, la Corte offre uno spunto di riflessione che merita senz’altro di essere coltivato. La confisca, infatti, presuppone che i Comuni siano attrezzati sotto il profilo culturale, prima ancora che operativo, nella difficile gestione di situazioni che impongono decisioni impopolari come quelle di demolire o convertire manufatti, destinati a civile abitazione, talvolta imponenti e persino esteticamente apprezzabili.
In ogni caso, l’incapacità di utilizzare la confisca secondo lo spirito della norma, non può avere ricadute sull’impianto normativo, nel senso di depotenziare uno strumento concepito dal legislatore come un’arma indispensabile per dare scacco alle forme più gravi di abusivismo che pregiudicano il corretto sviluppo del territorio.
3.La differente tutela del terzo in confisca ed ordine di demolizione
Quanto alla tutela dei terzi, la Corte europea ha evidentemente escluso la possibilità di disporre la confisca a loro carico, diversamente configurandosi, in aperta violazione dell’art. 7 della Convenzione, una sanzione irrogata per responsabilità altrui e senza avere dato la possibilità di prendere parte al processo.
La posizione del terzo, però, induce ad un confronto con l’ordine di demolizione.
La Corte di Cassazione ha, sino ad oggi, respinto le numerose istanze di estendere i principi del sistema sanzionatorio penale alla demolizione del manufatto abusivo rappresentandone la natura di sanzione amministrativa ‘reale’ applicabile, in seguito a sentenza di condanna, anche a carico di persona diversa dall’autore dell’illecito. La funzione meramente ripristinatoria della demolizione esclude che possa configurarsi una ‘pena’ ai sensi dell’art. 7 della Convenzione europea e che, sotto questo profilo, possa ipotizzarsi un percorso analogo a quello della confisca.
Tale differenziazione, però, evidenzia una possibile disarmonia sul versante del bene giuridico compromesso dai reati che costituiscono il presupposto delle due misure poste a confronto. Gli interessi urbanistici compromessi dal reato cui consegue l’ordine di demolizione (esecuzione dei lavori in totale difformità o assenza del permesso di costruire di cui alla lett. b, art. 44 DPR 380/01), infatti, sono meno pregnanti rispetto a quelli coinvolti dal reato di lottizzazione abusiva che attiene ad una forma di intervento ben più incisiva, in quanto idonea a compromettere la programmazione edificatoria del territorio. La diversa gravità delle due fattispecie spiega, secondo la stessa Corte Costituzionale (ordinanze n. 148 del 21/4/94 e n. 107 del 16/3/89), la disciplina normativa delle cause di estinzione del reato, previste solo per il reato meno grave, di cui alla lett. b art. 44 DPR 380/01, come effetto del rilascio in sanatoria del permesso di costruire, in senso stretto (art. 36 DPR 380/01) o mediante oblazione (condoni edilizi di cui agli artt. 31 L.47/85, 39 L.n.724/94 e 32 D.L.269/03). Soprattutto spiega perché il legislatore aggancia alla sentenza di condanna solo l’ordine di demolizione e non la confisca che, invece, è prevista per la mera sussistenza del fatto. Nel primo caso, infatti, quando l’imputato è prosciolto pur sussistendo il fatto, l’abuso edilizio, potrà, comunque, essere ‘assorbito’ nell’ambito della programmazione edificatoria della P.A. che non ne rimane irrimediabilmente pregiudicata; nel secondo, invece, il fatto consiste proprio nel pregiudizio della pianificazione del territorio e, pertanto, la sua gravità non consente di limitare la misura ripristinatoria alle pronunce di condanna.
In tale contesto risulta, allora, distonica la tutela del terzo in buona fede che risulta garantita nell’ipotesi criminosa con un elevato indice di offensività (la lottizzazione abusiva accertata, indifferentemente, con sentenza di condanna o di proscioglimento) ed a costo della definitiva rinuncia alla corretta programmazione edificatoria del territorio, e non per il reato che consegue alla realizzazione di un singolo manufatto abusivo (accertato con sentenza di condanna), inidoneo a pregiudicare, allo stesso modo, la pianificazione del territorio.
[1] La tesi è riportata nella ordinanza del 9/4/2008 con cui la Corte di Appello di Bari ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 44 dor 380/01, in Cass Pen 2008, n. 11 p. 4326.
[2] Cass. pen., Sez. III, 27/01/2005, n.10037, Vitone, .; Cass. pen., Sez. III, 15/02/07, n. 6396, Cieri, Cass. N. 236076; Cass., sez. III, 29 maggio 2007, n. 21125, Licciardello, Cass. pen., Sez. III, 2/10/2008, n. 37472, Belloi,.
[3] L’inversione di rotta è avvenuta ad opera di Cass Sez. III n. 42741/08, Silvioli, in Cass pen 2009 n. 6 p. 2553
IL cinema: un ausilio intelligente alla formazione dei magistrati (storia di un esperimento riuscito a Scandicci)
di Andrea Apollonio
Spesso, troppo spesso e forse ingiustamente, si imputa alla classe magistratuale tutta di essere autoreferenziale, priva di capacità autocritica, e per ciò ermeticamente chiusa alle istanze e alle effettive esigenze della società. Nell'immaginario comune questo stato di cose lo si deriva, per lo più, dallo stesso percorso formativo del magistrato, che prevede una puntigliosa conoscenza delle norme e delle leggi, del sistema giuridico nel suo complesso, senza tuttavia interessarsi ad attività di più ampio respiro, di carattere culturale o intellettuale. Lo stesso concorso, d'altro canto, presenta un elevato coefficiente di complessità proprio perché comporta l'avere - solo e soltanto - un bagaglio di conoscenze teorico-giuridiche vasto se non sconfinato, su cui applicare le proprie tecniche di ragionamento inferenziale.
Per il vero, la gran parte dei magistrati ha un sostrato intellettuale spesso almeno quanto quello, tecnico-giuridico, adoperato quotidianamente. Eppure queste critiche colgono il segno tutte le volte in cui non si registrano, nei programmi di formazione, attività che vadano oltre la conoscenza e l'interpretazione del dato di legge, e tocchino magari più generali problemi della società, oppure approfondiscano con altri linguaggi il proprio ruolo.
Di tutto questo i giovani magistrati requirenti nominati con D.M. del 7 febbraio 2018 (la cui attività di formazione iniziale, a Scandicci, si è appena conclusa) erano consapevoli, quando hanno proposto al comitato direttivo della Scuola Superiore della Magistratura di inserire tra le attività didattiche a loro rivolte anche la proiezione di un film, che spingesse gli studenti ad interrogarsi sulla natura della propria funzione, spesso esposta al rischio del pre-giudizio di chi la esercita. Una proposta infine accolta, ed in maniera molto favorevole, dal Direttivo: così, per la prima volta nella recente storia della formazione di quelli che un tempo erano gli "uditori" giudiziari - ed oggi m.o.t., terribile acronimo di magistrato ordinario in tirocinio -, a Scandicci, dopo l'orario delle lezioni frontali "tradizionali", è stato proiettato l'immortale film di Dino Risi, "In nome del popolo italiano", al quale è seguito un intenso e partecipato dibattito coordinato proprio da un membro del Direttivo, il prof. Riccardo Ferrante.
Uno dei film migliori e più intelligenti mai prodotti sulla magistratura, un film in questo senso necessario, che già nel 1971 si interrogava sull'uso distorto della funzione giudiziaria (celebre la scena in cui l'indagato Vittorio Gassman urla a Ugo Tognazzi: "Lei mi odia a livello ideologico, lei è prevenuto contro di me, lei non è un buon giudice!"; e purtroppo, la storia raccontata nel film gli darà ragione). Un'opera che gli stessi studenti, magistrati in procinto di prendere le funzioni nelle rispettive sedi, hanno voluto dibattire, approfondendo - in un momento di formazione intellettuale "collettiva" - i rischi che un approccio eccessivamente ideologizzato alla giurisdizione, in qualsiasi senso esso sia rivolto, produce nei casi concreti.
L'auspicio, quindi, è che un'attività didattica di questa natura possa essere organicamente inserita nei programmi di formazione, almeno della formazione iniziale dei m.o.t., che tornerà presto ad essere di ben diciotto mesi; giacché vedersi rivolgere domande cruciali sulla propria funzione, per mezzo di espressioni artistiche, quale quella cinematografica, che lasciano sempre un solco profondo nella coscienza di ciascuno, vuol dire incarnare il ruolo giudiziario con maggiore consapevolezza; meglio "attrezzati". La premessa (l'attenzione alla tematica da parte della Scuola Superiore) è nei fatti: l'auspicio è che l'esperimento ben riuscito a Scandicci qualche settimana fa non sia un esempio virtuoso ma isolato, bensì il punto d'avvio di un nuovo modo di concepire la formazione, che faccia leva anche sui linguaggi diversi da quello giuridico per preparare meglio - e a tutto tondo - il magistrato di domani alle sfide della modernità; che già oggi appaiono ciclopiche.
L’EQUIVOCO TRA GIURISTA E MEDICO LEGALE IN TEMA DI PARAMETRAZIONE DEL DANNO BIOLOGICO di Enrico Pedoja
L’evoluzione dottrinaria medico legale sui presupposti accertativi tecnici del danno alla persona, ora unitariamente confluiti nel danno non patrimoniale, ha fatto emergere, in seno alla Società italiana di Medicina legale e delle Assicurazioni, alcune criticità circa la valenza probatoria del concetto di danno biologico rispetto alle effettive esigenze di parametrazione liquidativa della componente base del danno non patrimoniale. In tal senso vi è stato un arresto della Medicina Legale in contrapposizione alle attuali modulazioni risarcitorie della componente base del danno non patrimoniale , non potendo sussistere – sotto il profilo strettamente “tecnico”- alcuna corrispondenza automatica tra il parametro di disfunzionalità biologica (inabilità temporanea e invalidità permanente biologica) ed il grado di sofferenza ad esse correlato. Ne deriva la necessità di una nuova rivisitazione medico giuridica della materia che consenta una migliore specificazione tecnica dei parametri di accertamento medico legale, onde pervenire ad una più equilibrata e perequativa definizione monetaria di quelli posti a base per la liquidazione delle componenti biologiche del danno non patrimoniale.
(documento SIMLA maggio 2018 -v. Sito SIMLA –org-, il danno biologico nel danno non patrimoniale. Indagine casistica Società Medicolegale Triveneta 2015 Articolo pubblicato su RI.DA.RE.- vedi sito www.smlt.it-.
Sommario: 1.Premessa - 2. La parametrazione tecnica medicolegale - 3. Il sofismo tecnico medico legale 4. Cosa emerge nella pratica applicativa – I conseguenti paralogismi giuridici e liquidativi - 5. Conclusioni e proposte
1. Premessa
La lettura della Sentenza n. 901/2001 ed in particolare quella n. 7513 del 27.3.2018 della Cassazione Civile pone attualmente serie criticità interpretative medico legali e medico giuridiche sulla intrinseca nozione e contenuto del concetto di danno biologico, quale emerge dagli art. 138 e 139 del Codice delle Assicurazioni, in relazione all'acquisizione di una definizione tecnica medico legale di “danno biologico”, definita dalla Società Italiana di Medicina Legale nel lontano 2001, divenuta ora di difficile inquadramento nel contesto della più estensiva nozione di danno non patrimoniale.
2. La parametrazione tecnica medicolegale
E’ nozione comune per qualsiasi specialista medico legale che la parametrazione dell’invalidità permanente biologica segue l’integrazione di parametri di riferimento tecnici contenuti nei cosiddetti Barèmes ove il presupposto valutativo è costituito esclusivamente e sostanzialmente da riferimenti di esclusiva disfunzionalità anatomica e/o psichica che integrano l’incidenza della menomazione accertata rispetto alle attività quotidiane comuni a tutti, con le uniche variabili connesse necessariamente all’età e sesso del danneggiato. Parametri tecnici che, in vero, non hanno subito alcuna modifica sostanziale allorché la valutazione della disfunzionalità anatomica e/o psichica passò – con l’avvento del danno biologico – dal concetto di danno alla capacità lavorativa generica a quello di invalidità permanente biologica, nonostante fosse mutato il presupposto valutativo dell’incidenza della menomazione : dalla ricaduta negativa sul “non fare reddituale” rispetto alla stima sul “ non fare areddittuale”.
3. Il sofismo tecnico medico legale
A prescindere da tale “iniziale peccato veniale”, quali specialisti medico legali, accertatori della componente base del danno, dobbiamo necessariamente prendere atto che l’errore “concettuale” espresso nel c.d. “decalogo SIMLA” del 2001 fu quello di inserire in una parametrazione di natura disfunzionale, ovvero la ricaduta negativa sul fare quotidiano del danneggiato, anche una proporzionale ed automatica ricaduta negativa sul sentire del soggetto, portatore di una determinata percentuale di invalidità permanente (i c.d. aspetti dinamico relazionali), senza che la Ns. valutazione consentisse di differenziare, rispetto alla invalidità quantificata, quali fossero effettivamente le conseguenze medie della menomazione sul comune “sentire” di ogni danneggiato che non sempre possono coincidere con la “ realtà del danno non patrimoniale” quale appare dalla sola invalidità permanente biologica.
In altri termini il ricomprendere i comuni “aspetti dinamico relazionali” nel concetto di inabilità ed invalidità permanente biologica è un sostanziale “errore interpretativo tecnico” , non avendo tali parametri alcuna valenza probatoria automatica sul sentire di qualsiasi soggetto che ha patito una documentata lesione e che nella sua quotidianità convive con un’accertata e specifica condizione menomativa.
Ricomprendere gli “aspetti dinamico relazionali” nella componente di inabilità temporanea ed invalidità permanente biologica (parametri che incidono esclusivamente sul “non fare” del danneggiato) ha un significato solo nel senso di valutare quantitativamente gli “impedimenti” o difficoltà del danneggiato nel partecipare al contesto sociale, famigliare o relazionale (quindi un “ generico non fare dinamico relazionale), ma non può in sé ricomprendere la sofferenza del soggetto per il “non poter fare come prima” in conseguenza del mutamento peggiorativo della propria integrità psicofisica né tantomeno la sofferenza del danneggiato nel sentirsi “svalutato” né tantomeno la percezione intrinseca della componente di dolore nocicettivo (ove questo sussista).
In sostanza il parametro “ quantitativo “ del danno biologico “ ( cioè la IT e la IP ) non ha alcun rapporto con i generici aspetti “ qualitativi “ della lesione e della menomazione
La sofferenza intima connessa al vissuto della lesione ed alla convivenza con la menomazione è una componente sempre presente nel danno alla persona accertabile dallo specialista medico legale: componente distinta da quella connessa ad altre peculiari condizioni “esistenziali” o conseguente ad altri diritti violati , non direttamente riconducibili all’evento lesivo psicofisico
Ad ogni disfunzionalità umana, conseguente a lesione psichica o fisica, corrisponde sempre un grado di sofferenza ad essa correlabile e definibile con differenti parametri “qualitativi”, accertabili anch’essi – in via convenzionale / presuntiva – dallo specialista medico legale (dolore, disagio e degrado *) : unico soggetto idoneo a qualificare l’effettiva corrispondenza quali-quantitativa del danno: parametri che – si ribadisce- non son tecnicamente rapportabili in via “automatica” al grado di generica disfunzionalità accertata (inabilità temporanea biologica ed invalidità permanente biologica)**
In tale ottica - onde chiarire equivoci interpretativi tecnici- è bene ricordare che l’apprezzamento del “ dolore nocicettivo” non fa parte in se’ della stima dell’invalidità permanente biologica , ma – ove presente e oggettivamente valutabile – serve a motivare una maggior disfunzionalità , in genere di tipo articolare e quindi una maggiore quota di invalidità permanente biologica , ma non riguarda l’apprezzamento qualitativo della “ sofferenza “ da parte di quello specifico danneggiato ( in termini di “ sentire “ , oltre al relativo “ disagio nel non poter fare quotidiano” , e alla ammissibile “ percezione del mutamento peggiorativo della propria integrità fisica ) rispetto ad altro soggetto che ha analoga percentuale di invalidità , senza manifestazioni di dolore nocicettivo.
4. Cosa emerge nella pratica applicativa – I conseguenti paralogismi giuridici e liquidativi
Per fare un semplice esempio ( vedasi il caso citato nella Sentenza n. 901/2001 della Cassazione e sostanzialmente ripreso nella Sentenza n 7513/2018), è sufficiente considerare che il riconoscimento di un 8% di invalidità permanente biologica per riduzione della capacità genitoriale, è totalmente differente da un 8% riconosciuto per gli esiti medi disfunzionale di una qualsiasi lesione fratturativa di un arto inferiore, ovvero da un 8% conseguente ad una perdita della funzione olfattiva ovvero – come spesso avviene nella comune pratica professionale - da un 8% derivante dalla somma di plurime microlesioni. Trattasi chiaramente di condizioni menomative quantitativamente analoghe, sotto il profilo di una parametrazione derivante dall’applicazione dei comuni Barèmes medico legali , ma totalmente differenti ,per quanto riguarda le ricadute della menomazione ,in sé distintamente considerata sotto il profilo qualitativo, relativamente alle ripercussioni sugli aspetti “dinamico relazionali” e quindi alla condizione di “sofferenza intrinsecamente correlabile a quella determinata e qualificata menomazione”.
Il problema interpretativo tecnico medicolegale – e di conseguenza risarcitorio- assume particolare rilevanza , con evidente possibilità di sperequazione risarcitoria , in relazione alla sussistenza del limite normativo ( il 9% di IP ) posto che , stante l’attuale Baréme di legge , alcune menomazioni , pur definite “ quantitativamente “ al di sotto del 9% presentano aspetti “ qualitativi “oggettivamente significati in rapporto alle ricadute personali e dinamico relazionali di qualsiasi soggetto ( vedasi ad esempio la perdita del testicolo o dell’ovaio , esisti disestetici di moderata entità in donne di giovane età, perdita della funzione olfattiva, disturbi da adattamento post traumatico di moderata entità ecc) col risultato che le stesse trovano minor riscontro risarcitorio rispetto ad invalidità biologiche ,stimate con danni pur di poco superiore al limite di legge , ma costituiti da plurime condizioni menomative che – valutate singolarmente – hanno minor o quasi assente ricaduta su comuni aspetti dinamico relazionali e quindi sulla “ sofferenza “ del danneggiato
Per fare un altro esempio si può arrivare a stimare un danno biologico superiore al 9% a seguito del complessivo apprezzamento tecnico conseguente alla perdita della milza, senza residue complicanze sulla crasi ematica ( invalidità che viene stimata nella misura dell‘8’ % con ricaduta dinamico relazionale pressoché nulla ), assieme a coesistenti esiti di un trauma minore del collo ed esiti dolorosi di singola frattura costale : complesso menomativo biologico che troverebbe paradossalmente maggior presupposto risarcitorio ( con applicazione delle Tabelle di Milano ) rispetto – ad esempio - alla già considerata perdita dell’ovaio in età’ fertile o del testicolo in età post-puberale o per un danno estetico di moderata entità in soggetto femminile o di altre condizioni menomative individuate nel Baréme di legge come “ lesioni di lieve entità’”, ma , al contrario, fonti di rilevante “ sofferenza correlata” per qualsiasi danneggiato/a.
Ciò senza voler entrare nel merito della proporzionale “disparità di liquidazione delle relative componenti di Inabilità temporanea biologica e della conseguente disparità liquidativa allorché sussistano ulteriori ricadute della menomazione su peculiari o particolari aspetti dinamico relazionali dello specifico danneggiato.
5. Conclusioni e proposte
In conclusione – dovendosi inquadrare il danno biologico nel contesto del danno non patrimoniale – emerge l’evidente necessità di una parametrazione aggiuntiva alla Inabilità ed invalidità biologica, di natura “ qualitativa” che non rappresenta “duplicazione di danno”, bensì specificazione degli aspetti di sofferenza connessi alla lesione ed alla menomazione accertata: condizione definibile in via presuntiva dallo specialista medico legale, che è l’unico soggetto in grado di apprezzare l’elemento di prova fondamentale ai fini del danno, cioè la realtà clinica della lesione e della menomazione.
Il problema, se mai, è solo di quello di un adeguamento della parametrazione risarcitoria del “ danno base” individuato nelle Tabelle di Milano , ovvero in quella proposte dal Tribunale di Roma , tramite l’applicazione di suppletive “percentuali “ integrative IP correlate secondo graduazione valutativa espressa in forma “ qualitativa o numerica” da parte dello Specialista Medicolegale , come tale suscettibile anch’essa di Contraddittorio tra le Parti in sede tecnica ( anche in fase extragiudiziaria -) Modulazione che potrebbe prendere a riferimento – in via analogica – il limite massimo del 67% del danno biologico quale previsto ad esempio dell’art. 6 della Legge 3.8.2004 n. 206 in tema di liquidazione della cosiddetta “ invalidità complessiva” (anch’essa costituita dal danno biologico e danno morale correlato)
Ciò ferma restando l’autonoma possibilità risarcitoria aggiuntiva al danno biologico “ base” per ulteriori allegazioni , suffragate da adeguato riscontro probatorio , conseguenti ad eventuali interferenze della lesione o della menomazione su peculiari aspetti dinamico relazionali dello specifico danneggiato, la cui definizione quantitativa , ovviamente , non compete allo specialista medicolegale (cui spetta, semmai, il parere di compatibilità con la menomazione accertata), così come non compete allo stesso la valutazione di possibili differenti componenti “ non biologiche “ di danno non patrimoniale conseguenti a violazione di altri Interessi Costituzionalmente tutelati
Peraltro, si deve considerare che aspetti quali “la disistima, la vergogna , la percezione del peggioramento della propria integrità” – ove autonoma conseguenza di lesione o menomazione, rappresentano comunque sempre aspetti “ qualitativi” di un determinato danno biologico e come tali suscettibili di “ equilibrato e motivato “ apprezzamento medicolegale nel contesto del proprio “ accertamento tecnico “ .
*Documento SIMLA maggio 2018 ( vedi Sito SIMLA –org)
** il danno biologico nel danno non patrimoniale. Indagine casistica Società Medicolegale Triveneta 2015 Articolo pubblicato su RI.DA.RE.- ( vedi sito www.smlt.it)
Sulla commerciabilità della cannabis sativa
La sesta Sezione della corte di Cassazione, con la sentenza n. 4920 del 2019, motiva la decisione assunta in tema di commerciabilità della cannabis light.
La liceità della commerciabilità è corollario logico giuridico della liceità della coltivazione come introdotta della legge n. 242 del 2016, come peraltro già affermato dalla giurisprudenza di merito (Tribunale di Ancona 27.7.2018; Tribunale di Rieti 26.7.2018; Tribunale Macerata 11.7.2018; Tribunale Asti 4.7.2018).
La liceità della coltivazione della cannabis sativa contenente principio di thc inferiore allo 0,6% determina l’effetto che detta sostanza non è soggetta alla disciplina di cui al d.p.r. n 309 del 1990, al pari di altre varietà vegetali che non rientrano nelle tabelle allegate al predetto d.p.r., vale dunque il principio generale secondo il quale la commercializzazione di un bene che non presenti specifici divieti o controlli preventivi previsti dalla legge deve ritenersi consentita.
Decisioni difformi sono state assunte dalla III e dalla IV sezione della Corte di Cassazione per cui si attende la remissione alle Sezioni Unite.
Nota redazionale
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