ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
di Franco De Stefano[2]
sommario: 1. Il plesso giurisdizionale delle acque pubbliche.- 2. La giurisdizione delle acque pubbliche: qualità dell’acqua e giurisdizione del giudice ordinario; il plesso TSAP-TRAP come giudice specializzato, privo di giurisdizione esclusiva. -3. Cenni alle particolarità del rito. - 4. La tipologia delle controversie in tema di diritti soggettivi.- 5. Attualità dei tribunali delle acque. - 6. Appendice. Indicazioni bibliografiche essenziali.
1. Il plesso giurisdizionale delle acque pubbliche.
La specialità e la complessità tecnica della legislazione in materia di acqua pubblica hanno, fin dall’epoca repubblicana di Roma, esaltato la centralità di quella risorsa nella gestione dell’economia e spesso giustificato l’istituzione di organismi amministrativi e pure di giurisdizioni ad hoc, dotati di particolare competenza e in grado di assicurare una tutela più rapida e specialistica.
Il tribunale superiore e gli otto tribunali regionali delle acque pubbliche[3] sono stati regolamentati dal r.d. 11 dicembre 1933, n. 1775 (d’ora in avanti, anche solo t.u. o t.u. acque). Si tratta di un plesso giurisdizionale sui generis, articolato su di una struttura in due gradi di merito in materia di diritti soggettivi ed un unico grado di legittimità in materia di interessi legittimi, con l’ulteriore peculiarità che il suo organo di vertice giudica ora appunto in grado di appello ed ora in unico grado e per di più a composizione variabile (rispettivamente con tre consiglieri di Cassazione ed un consigliere di Stato e con tre consiglieri di Cassazione e tre di Stato), sia pure sempre con l’intervento di un esperto esterno all’ordine giudiziario.
Se il singolo tribunale regionale delle acque pubbliche è sostanzialmente riconducibile ad una sezione specializzata della corte di appello presso cui è istituito[4] (con caratteristiche analoghe alla sezione specializzata agraria quanto ad istituzionale non riconducibilità all’ufficio, almeno a fini di competenza; e con la peculiarità di una circoscrizione territoriale pluridistrettuale specifica), il tribunale superiore è un autentico ibrido: una giurisdizione superiore a giurisdizione nazionale, che resta però giudice specializzato in entrambi i casi[5] e le cui decisioni sono soggette al controllo ordinario in sede di legittimità dinanzi alle Sezioni Unite della Corte suprema di cassazione.
La singolarità del plesso sta poi in ciò, che, mentre i tribunali regionali sono incardinati presso le corti di appello corrispondenti (di cui costituiscono una sezione, benché specializzata, con l’intervento di un tecnico iscritto all’albo degli Ingegneri nominato con decreto del Ministro della giustizia in conformità alla deliberazione del Consiglio superiore della magistratura adottata su proposta del presidente della Corte di appello), quello superiore è ufficio a sé stante, ma con un solo magistrato di carriera in pianta organica, cioè il suo presidente, mentre i consiglieri di Cassazione e quelli di Stato che lo compongono, effettivi e supplenti, sono destinati a tali funzioni con provvedimenti di durata quinquennale e l’esperto che integra ogni collegio (a seguito della riforma di cui al d.l. 24 dicembre 2003, n. 354, convertito con modificazioni dalla L. 26 febbraio 2004, n. 45) è un iscritto all’albo degli Ingegneri, nominato dal Ministro della Giustizia su delibera del Consiglio Superiore della Magistratura a seguito di proposta del Presidente del tribunale stesso.
Il collegio giudicante del tribunale regionale si articola in tre componenti, di cui uno è il tecnico esperto; il tribunale superiore giudica in collegio di sette componenti nelle controversie di cui all’art. 143 t.u. (in materia di interessi legittimi; di cui tre consiglieri di Cassazione, compreso il presidente, tre consiglieri di Stato e il tecnico esperto) e di cinque in quelle di cui all’art. 140 t.u. (in materia di diritti soggettivi; di cui tre consiglieri di Cassazione, compreso il presidente, un consigliere di Stato e il tecnico esperto).
Per concludere, due notazioni. In primo luogo, il tribunale superiore realizza un interessante e finora unico esempio di giurisdizione soggettivamente esclusiva, in cui cioè – a differenza delle ipotesi ordinarie di giurisdizione esclusiva, in cui ogni controversia è devoluta ad un organo giurisdizionale istituzionalmente deputato a conoscere o soltanto di diritti soggettivi o soltanto di interessi legittimi – la controversia può avere ad oggetto indifferentemente un diritto soggettivo o un interesse legittimo ed è trattata però non da due organi giurisdizionali differenti, bensì da un organo formalmente e sostanzialmente unitario, in cui la differenziazione è data dalla diversa provenienza dei suoi componenti.
Infine, il processo civile telematico non opera presso il tribunale superiore, mentre in quelli regionali segue le sorti dell’introduzione presso le rispettive corti d’appello: i tentativi di informatizzazione sono ancora embrionali e, nonostante gli sforzi ripetuti degli ultimi presidenti e del dirigente e del personale di cancelleria, non è riuscito l’inserimento dell’ufficio, verosimilmente per le sue modeste dimensioni a dispetto della centralità e dell’importanza economica del contenzioso, nei relativi programmi ministeriali. Tuttora non è possibile applicare, presso il TSAP, alcuna delle norme su quel processo, salva ovviamente la possibilità delle notifiche telematiche di atti ad opera delle parti (e, vista la natura di giurisdizione superiore, la teorica possibilità di estendere al rito davanti a tale ufficio la ricchissima problematica sulle ritualità delle notifiche elaborata per il giudizio di legittimità[6]).
2. La giurisdizione delle acque pubbliche: qualità dell’acqua e giurisdizione del giudice ordinario; il plesso TSAP-TRAP come giudice specializzato, privo di giurisdizione esclusiva.
Al plesso dei tribunali delle acque pubbliche è devoluta la giurisdizione:
A) in materia di diritti soggettivi (art. 140 t.u.):
a) le controversie intorno alla demanialità delle acque;
b) le controversie circa i limiti dei corsi o bacini, loro alveo e sponde;
c) le controversie, aventi ad oggetto qualunque diritto relativo alle derivazioni e utilizzazioni di acqua pubblica;
d) le controversie di qualunque natura, riguardanti l’occupazione totale o parziale, permanente o temporanea di fondi e le indennità previste dall’articolo 46 della legge 25 giugno 1865, n. 2359, in conseguenza dell’esecuzione o manutenzione di opere idrauliche, di bonifica e derivazione e utilizzazione di acque; per quanto riguarda la determinazione peritale dell’indennità prima dell’emissione del decreto della espropriazione resta fermo il disposto dell’articolo 33 della presente legge;
e) le controversie per risarcimenti di danni dipendenti da qualunque opera eseguita dalla pubblica amministrazione e da qualunque provvedimento emesso dall’autorità amministrativa a termini dell’articolo 2 del testo unico delle leggi 25 luglio 1904, n. 523, modificato con l’articolo 22 della legge 13 luglio 1911, n. 774[7];
f) i ricorsi previsti dagli articoli 25 e 29 del testo unico delle leggi sulla pesca, approvato con r.d. 8 ottobre 1931, n. 1604 (espropriazione per non uso od uso inadeguato o contrarietà agli interessi pubblici dei diritti esclusivi di pesca in mare e negli altri corsi d’acqua).
B) in materia di interessi legittimi (art. 143 t.u., “cognizione diretta”):
a) i ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere e per violazione di legge avverso i provvedimenti definitivi presi dall’Amministrazione in materia di acque pubbliche;
b) i ricorsi, anche per il merito, contro i provvedimenti definitivi dell’autorità amministrativa adottati ai sensi degli articoli 217 e 221 della presente legge; nonché contro i provvedimenti definitivi adottati dall’autorità amministrativa in materia di regime delle acque pubbliche ai sensi dell’articolo 2 del testo unico delle leggi sulle opere idrauliche approvato con R. decreto 25 luglio 1904, n. 523, modificato con l’art. 22 della legge 13 luglio 1911, n. 774, del R. decreto 19 novembre 1921, n. 1688, e degli art. 378 e 379 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. F;
c) i ricorsi la cui cognizione è attribuita al Tribunale Superiore delle acque dalla presente legge e dagli articoli 23, 24, 26 e 28 del testo unico delle leggi sulla pesca, approvato con R. decreto 8 ottobre 1931, n. 1604.
Sul presupposto che pubbliche sono soltanto le acque che possono rivestire una utilità per la collettività, sia pure poi variamente intesa e disciplinata, l’intero sistema giurisdizionale si riferisce al bene acqua inteso come suscettibile di sfruttamento in senso esclusivamente economico e si preoccupa di consentirlo ai singoli in modo da preservarne la destinazione a fini di utilità collettiva.
L’impostazione originaria del t.u. è caratterizzata pertanto da una visione strettamente patrimonialistica delle acque pubbliche, in conformità del resto alle nozioni ordinamentali del tardo Ottocento, di cui quel testo normativo, già di per sé ricognitivo di una legislazione disorganica e rudimentale, è espressione: in un’epoca in cui i diritti fondamentali cosiddetti di terza generazione non erano neppure ancora ipotizzati.
Non vi è traccia, quindi, nell’impostazione tradizionale del t.u. di un diritto all’acqua inteso come tale, né di alcuna prospettiva di un diritto di accesso all’acqua come bene fondamentale per la vita e l’esistenza quotidiana e quindi connesso alla salute od all’esistenza libera e dignitosa.
Anche sulle prime controversie in materia di qualità dell’acqua potabile non si è mai neppure ipotizzata una devoluzione al plesso giurisdizionale delle acque, sol che la causa sia impostata come diritto a ricevere l’acqua in condizioni corrispondenti a quelle fissate dalla legge quale oggetto del contratto di somministrazione[8]. Quanto poi alla condotta dello Stato italiano di imprecisa o mancata ottemperanza alla normativa eurounitaria, la giurisdizione è a maggior ragione del giudice ordinario[9]. E sono rimaste avvinte nella tradizionale impostazione patrimonialistica, regolate da ordinari criteri di equiordinazione tra diritti dello stesso rango, le cause per danni promosse dalle concessionarie di derivazioni idroelettriche rispetto agli enti locali per il prelievo di acqua a fini potabili o di consumo umano, se successivo al diritto soggettivo di attingimento delle prime[10].
È piuttosto in sede di delimitazione dei confini con la giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria e del giudice amministrativo che il contenuto di quella devoluta al plesso delle acque ha trovato più puntuale definizione, finendo con il coincidere con il governo delle acque pubbliche e del territorio e delle opere ad esse connesse e restando quindi esclusa in caso di mere condotte della pubblica amministrazione[11] o di atti amministrativi involgenti solo in via mediata o riflessa il governo delle acque[12].
In conformità alla nettezza della ripartizione imperante all’epoca di redazione del testo normativo di riferimento, può rilevarsi che non potevano ritenersi sussistenti, in difetto di esplicite e testuali previsioni di legge (quali però potrebbero rilevarsi in tema di espropriazione per pubblica utilità quando sia coinvolto il governo delle acque), ipotesi di giurisdizione esclusiva devolute al TSAP in unico grado.
Resta questione di giurisdizione, soggetta ai particolari regimi di rilievo e di conseguente ammissibilità (come pure a quelli di proponibilità del regolamento di ufficio previsto dai rispettivi ordinamenti codicistici), quella del riparto tra TSAP in unico grado e TRAP (cioè il medesimo plesso, ma in duplice grado); e si ripropone in modo particolare, indotta dal carattere ibrido del plesso giurisdizionale, la problematica in tema di riparto della giurisdizione in caso di espropriazione: con la devoluzione alla giurisdizione del TSAP in unico grado di tutte le controversie diverse da quelle in materia di congruità dell’indennità, che restano devolute invece a quella del TRAP in primo grado (con l’ulteriore peculiarità che tali ultime controversie sono assoggettate ad un duplice grado di merito, mentre all’infuori del diritto delle acque esse, come è noto, sono devolute alla corte d’appello in unico grado di merito).
Va peraltro conclusivamente notato che, in materia di tutela di interessi legittimi (e quindi nella giurisdizione del tribunale superiore in unico grado), la visione eminentemente patrimonialistica del bene acqua è stata fortemente ridimensionata: la cura di interessi pubblici anche sensibilmente diversi, soprattutto in materia ambientale, ha consentito un controllo accurato dell’adeguatezza dell’azione amministrativa del governo delle acque orientandola anche al contemperamento di esigenze pubblicistiche importanti e via via assurte ad autentica centralità.
Tuttavia, l’analisi sarà qui condotta limitatamente al contenzioso in materia di diritti, che da quell’impostazione patrimonialistica continua ad essere caratterizzato ancor oggi.
3. Cenni alla particolarità del rito.
Non è questa la sede per una compiuta trattazione del rito davanti ai tribunali delle acque. Basti comunque rinviare alla disciplina contenuta negli artt. 140 ss. del r.d. 1775 del 1933, con alcune importanti specificazioni:
- il rito speciale prevede l’impostazione tardo ottocentesca della suddivisione dei compiti tra giudice istruttore (qui chiamato delegato) e collegio, con riserva però a quest’ultimo di ogni potere decisionale finale[13]: e, quindi, con similitudine rispetto al rito civile collegiale (o di appello) anteriore alla riforma del 1990/95, ma con una sensibile accentuazione dei poteri monocratici del presidente del TSAP, tra cui quello di dirimere le questioni di competenza interne al plesso;
- vi è una norma generale di rinvio (l’art. 208) ai rispettivi sistemi processuali civile (per le controversie in materia di diritti soggettivi, o in doppio grado di merito) ed amministrativo (per quelle in materia di interessi legittimi, o in unico grado), che va inteso a quelli via via vigenti, a meno di un’espressa previsione incompatibile;
- il rito è caratterizzato da una straordinaria agilità, a partire dalla forma del ricorso da notificarsi a controparte quale atto introduttivo e dalla sostanziale carenza di preclusioni (assertive, ma anche istruttorie), almeno in primo grado, fino all’udienza di precisazione delle conclusioni dinanzi al giudice delegato[14], per connotarsi della tendenziale sanabilità di qualunque nullità; tuttavia, le preclusioni derivanti dal sistema delle impugnazioni devono intendersi comunque operanti (tra cui quelle degli artt. 342 e 343 cod. proc. civ., coi conseguenti oneri di specificità dei motivi di appello[15], di proposizione dell’appello incidentale entro il termine perentorio di venti giorni prima dell’udienza di comparizione fissata nel ricorso[16]; ma ne discende analoga estensione dell’onere di riproposizione delle domande ed eccezioni non esaminate, nonché del divieto di domande ed eccezioni nuove e di prove nuove);
- la sentenza di primo grado del tribunale regionale non è provvisoriamente esecutiva ope legis, salvo che quel giudice non la abbia dichiarata tale (e solo in tale ultima evenienza sussistendo la competenza del giudice di appello a sospenderla[17]);
- i termini per l’impugnazione decorrono dalla comunicazione del dispositivo anche se effettuata a mezzo p.e.c. ed in uno all’intero testo della sentenza[18];
- l’impugnazione è data alle Sezioni Unite della Corte di cassazione[19] coi consueti limiti (tra cui quelli elaborati sul vizio motivazionale da Cass. Sez. U. nn. 8053 e 8054 del 2014[20]), ma rimane operativo l’istituto della rettificazione prevista dal codice di rito civile del 1865 per i casi di ultrapetizione od infrapetizione e di contraddittorietà della motivazione[21], mentre la revocazione è data per motivi corrispondenti a quelli regolati dall’attuale art. 395 cod. proc. civ.[22];
- poiché si tratta di una giurisdizione superiore e poiché la normativa che regola il patrocinio dinanzi a queste prevale su quella speciale, mentre in primo grado dinanzi ai tribunali regionali è di norma ammessa anche la difesa personale in giudizio, dinanzi al tribunale superiore è sempre necessario il ministero di avvocato iscritto agli albi speciali per il patrocinio dinanzi alle giurisdizioni superiori[23].
4. La tipologia di contenzioso in materia di diritti soggettivi.
In materia di diritti soggettivi, vale a dire di controversie riconducibili all’art. 140 del t.u., il contenzioso – fermo il riconoscimento dell’inammissibilità di una condanna ad un facere da parte del giudice specializzato nei confronti delle autorità amministrative[24] – può grosso modo suddividersi in due grandi categorie: cause relative allo sfruttamento complessivo della risorsa idrica (canoni, sovracanoni, altre prestazioni patrimoniali, concessioni e altre modalità di intervento pubblicistico; ma pure tendenziale esclusione di prestazioni a carico di operatori del settore delle telecomunicazioni[25]) e cause relative alla regimentazione della risorsa idrica ed ai danni conseguenti (espropriazioni, acquisizioni sananti, delimitazioni del demanio, danni da esondazioni o disastri analoghi).
Le due grandi tipologie di controversie corrispondono poi, singolarmente, grosso modo a due macroaree geografiche: concentrandosi soprattutto le prime nell’Italia settentrionale e le seconde in quella centromeridionale. Tanto può ascriversi verosimilmente al fatto che la non limitatezza della risorsa idrica – soprattutto a fini di sfruttamento economico e di produzione di energia da fonte evidentemente rinnovabile – nel primo contesto socio-geografico implica dispute sul suo fisiologico utilizzo e di conseguenza sulle necessità di contemperare gli interessi in conflitto tra aspiranti utilizzatori o tra costoro e titolari dei poteri in materia di governo, mentre la fragilità geologica del secondo contesto sposta l’accento sulla verifica dell’adeguatezza dell’ordito infrastrutturale finalizzato a contemperare quelle caratteristiche intrinseche con le esigenze di sviluppo o di fruizione ordinaria del bene ambiente.
Quanto allo sfruttamento delle risorse idriche, la stessa morfologica diversità di queste ultime e del territorio nel suo complesso rende più frequenti nelle regioni settentrionali le controversie sull’esatta delimitazione tra demanio e proprietà privata, soprattutto in prossimità di rive di laghi o di fiumi (suscettibili, particolarmente le prime, di intenso sfruttamento economico: si tratta di porzioni di demanio sostanzialmente appropriate a fini abitativi o residenziali, ma pure di svolgimento di attività economiche, soprattutto turistiche[26]), ma pure quelle in tema di prestazioni patrimoniali imposte, variamente denominate (soprattutto i sovracanoni, tra cui particolare rilievo hanno quelli dovuti ai Consorzi dei bacini imbriferi montani o b.i.m.), connesse allo sfruttamento della risorsa idrica e finalizzate ad una sorta di compensazione delle comunità locali[27]. Le cause risarcitorie attengono soprattutto, in questo contesto geografico, agli ostacoli all’accesso alle acque quali beni produttivi[28] o, talvolta, alla compensazione di un loro sfruttamento al di là o senza specifici titoli e corrispettivi[29], ivi compresi i danni da sottensioni - o simili condotte - illegittime.
Comune a tutto il territorio nazionale, ma con prevalenza nelle regioni centromeridionali, è il contenzioso in materia di interventi ablatori per pubblica utilità, ovviamente – trattandosi di controversie in materia di diritti soggettivi; in materia di acque, gli interventi sostanzialmente espropriativi spesso riguardano l’imposizione di specifiche servitù, soprattutto di acquedotto, ma sono sempre più frequenti quelle finalizzate a specifiche modalità di regolazione del regime delle acque (destinazione a cassa di espansione). Alcune zone della Campania e della Puglia sono accomunate da tematiche connesse alla realizzazione di importanti opere di somministrazione di acqua a scopo umano o irriguo, a servizio rispettivamente di grandi centri urbani o di notevoli estensioni territoriali sfruttate a fini agricoli.
Praticamente tipico delle regioni centromeridionali – ma pure dell’area ligure, accomunata da un analogo sostrato geologico di precarietà – è poi il contenzioso risarcitorio da malgoverno delle opere idrauliche e soprattutto in tema di danni ascritti ad allagamenti, inondazioni, esondazioni, frane, dissesti, il tutto prospettato come inadeguatezza delle opere che avrebbero dovuto prevenirli ed in relazione alle scelte di pianificazione dei relativi interventi. Questi sono talvolta stati posti in discussione in caso di istituzione di oasi[30] o riserve naturali o di opzioni in caso di gestione di emergenze, ma soprattutto ai fini della concreta determinazione della soglia di prevedibilità degli eventi da prevenire in rapporto al cosiddetto tempo di ritorno ed all’entità ed al costo delle opere[31]; ma grande attenzione, evidentemente per le ricadute pratiche quanto a concreta e pratica eseguibilità forzata delle eventuali condanne, è stata dedicata all’individuazione dei soggetti pubblici responsabili.
A questo riguardo, la giurisprudenza in tema di diritti soggettivi ha potuto ribadire concetti generali elaborati nella teoria generale del danno e soprattutto di responsabilità oggettiva da danni da cose in custodia, individuando - parallelamente all’elaborazione messa a punto dalla Corte di cassazione[32] - di norma quale prima responsabile la titolare attuale della proprietà e delle potestà amministrative in materia di corsi d’acqua e cioè la Regione[33], aggiungendovi però, a titolo di concorso (ai sensi dell’art. 2055 cod. civ.), quella degli altri Enti a vario titolo coinvolti nella gestione o manutenzione di quelli e quindi, ove sussistessero peculiarità delle singole legislazioni anche regionali e vi fosse stata la loro effettiva attuazione con traslazione del potere di signoria di fatto sui beni (a sua volta presupposto della responsabilità ai sensi dell’art. 2051 cod. civ.), dei Consorzi di Bonifica o degli altri enti territoriali intermedi, a rafforzamento della tutela del danneggiato.
5. Attualità dei tribunali delle acque.
Il contenzioso odierno dinanzi al plesso giurisdizionale delle acque pubbliche è tuttavia quantitativamente modesto, a dispetto della rilevanza economica delle controversie e del loro impatto sul complessivo assetto di intere comunità e delle ricadute appunto sul bene fondamentale costituito dall’acqua e nel settore della principale fonte di energia rinnovabile di cui naturalmente può fruire il nostro Paese.
È un contenzioso di poche centinaia di controversie annue, per di più, soprattutto negli ultimi anni, in gran prevalenza in tema di interessi legittimi: trovando le questioni in materia di diritti evidentemente adeguata risoluzione in pronunce di principio, idonee ad assumere la natura di decisioni-pilota. Da un lato, il contenzioso risarcitorio vero e proprio tende a trasferirsi dinanzi al giudice ordinario; dall’altro lato, quello sui diritti demaniali riveste caratteri di spiccata marginalità soggettiva e territoriale.
Ancora, la tematica sulle prestazioni patrimoniali comunque imposte ai privati concessionari di acque pubbliche è sempre più puntualmente disciplinata dalla legge, con progressive specificazioni dei presupposti ed individuazione di limiti temporali più chiari, generalmente in favore dei concessionari ed al fine di rendere meno imprevedibili i costi economici dei progetti di sfruttamento della risorsa pubblica.
Né può dirsi che il rito delle acque in materia di diritti possa offrire, tranne che per la presenza di un componente tecnico di particolare preparazione, spunti di riflessione utili per il rito civile: il primo è restato quasi un fossile vivente ibridato, quasi un Celacanto giuridico, legato com’è ancora ad istituti tempi e concetti propri del tardo Ottocento ed al contempo vivificato dall’innesto del tessuto vitale di un processo civile radicalmente mutato e caratterizzato da scansioni temporali e decadenziali prima sconosciute, ma al contempo teso ad una incontenibile, benché poco convincente, sommarizzazione. Ed è proprio questa ibridazione a legittimarlo, senza neppure bisogno di una formale riconduzione ad unità almeno al rito sommario del processo civile ordinario: la quale potrebbe, tutt’al più, giustificarsi per esigenze di uniformità sistematica e, comunque, al pur sempre pregevole scopo della certezza del diritto a garanzia dell’effettività della tutela delle posizioni giuridiche del giustiziabile.
Nondimeno, l’esiguità quantitativa del contenzioso non fa venir meno la sua peculiare rilevanza qualitativa già soltanto nell’impostazione tradizionale dell’acqua pubblica come risorsa economica suscettibile di sfruttamento da razionalizzare e regolare, né scalza la singolare importanza, ai fini della correttezza e ponderatezza della decisione, dell’apporto della professionalità tecnica esterna e della contaminazione interattiva tra Consiglieri di Cassazione e Consiglieri di Stato; e tanto, in uno verosimilmente alla complessità delle conseguenze tecniche della scarsa ponderazione del relativo intervento, è valso il fallimento dei conati di soppressione dell’ordinamento delle acque ai primi anni del millennio e, neppure giunto a vedere la luce in un testo normativo, alla metà del 2016[34].
Nuovi orizzonti potrebbero utilmente aprirsi ove l’idea ed il concetto stessi di acqua pubblica fossero rivisti nel senso contemporaneo di diritto fondamentale della persona, anziché di oggetto di diritti di sfruttamento economico.
Tanto è reso evidente già nella giurisdizione in tema di interessi ed a legislazione invariata, come si è visto in occasione dell’emergenza idrica della Capitale; ma nulla vieta che, sia pure a prezzo di un intervento legislativo chiaro ed univoco, la cognizione dei tribunali delle acque sia estesa al diritto del singolo all’accesso all’acqua salubre.
Anzi, l’esperienza finora maturata nel settore tradizionale costituisce un titolo di merito per presentare i tribunali delle acque come attrezzati tutori dei diritti dei singoli in un settore che, da vitale per l’economia, si è oggi compreso vitale per l’esistenza stessa, per la dignitosa e libera quotidiana esistenza di ogni individuo quale Persona.
6. Appendice. Indicazioni bibliografiche essenziali
6.A. In generale sul sistema dei tribunali delle acque
G. Mastrangelo, I tribunali delle acque pubbliche, Corr. giur., monografie, Milano (IPSOA) 2009 (anche per un compiuto sistema di ulteriori riferimenti)
H. Simonetti, Passato e presente del tribunale superiore delle acque pubbliche: la ricerca di un modello oltre la specialità, in Foro Amministrativo (Il), fasc. 4, 1 giugno 2019, pag. 739
V. Giomi, Giusto processo, effettività della giurisdizione e concentrazione dei giudizi: la Corte di Cassazione riforma in via interpretativa la specialità della giurisdizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche, in Dir. proc. amm., 2013, fasc. 4, p. 1153
V. Parisio, I tribunali delle acque: un modello giurisdizionale tutto italiano, in Foro amm. TAR, fasc. 12, 2009, pag. 3679
G. Fuochi Tinarelli, Il ricorso contro i provvedimenti del tribunale superiore delle acque pubbliche, in G. Ianniruberto, U. Morcavallo (a cura di), Il nuovo giudizio di Cassazione, 2010, pp. 67 ss.
G. Conte, Tribunali delle acque pubbliche, in Enc. dir. XLV, Milano, 1992, pp. 51 ss.
P.F. Pratis, Tribunale superiore delle acque pubbliche, in NSS Dig. it., XIX, Torino, 1973, p. 719
6.B. In generale sul diritto all’acqua
A. Di Lieto, Il diritto all’acqua nel diritto internazionale, in Riv. giur. ambiente, fasc. 5, 2004, pag. 749
F. Di Dio, Acqua, derivazioni e conflitti d’uso: per la prima volta un Tribunale riconosce che bere è un diritto primario rispetto alle concessioni per produrre energia elettrica, in Riv. giur. ambiente, fasc. 6, 2008, pag. 1018 (nota a Trib. reg. acque, 04 febbraio 2008, n. 12)
F. Castoldi, La riforma dei servizi pubblici locali a rilevanza economica al vaglio della Corte Costituzionale: i riflessi di alcune delle questioni trattate dalla sentenza sul servizio idrico integrato nazionale, in Riv. giur. ambiente, fasc. 2, 2011, pag. 0260B (nota a Corte Cost., 17 novembre 2010, n. 325)
A. Sandulli, L’acquedotto pugliese e la gestione del servizio idrico: slapstick comedy del legislatore regionale e carattere pervasivo della tutela della concorrenza, in Giur. Cost., fasc. 2, 2012, pag. 828 (nota a Corte Cost., 21 marzo 2012, n. 62)
F. Staiano, La progressiva emersione di un diritto umano e fondamentale all’acqua in sistemi di diritto internazionale e costituzionale: principi generali e prospettive di implementazione, in www.federalismi.it, 13/02/2013, ultimo accesso 26/08/2019
R. Palladino, Iniziativa legislativa dei cittadini dell’Unione europea e democrazia partecipativa: a proposito dell’iniziativa Right2Water, in Diritto dell’Unione Europea (Il), fasc. 3, 2014, pag. 493
S. De Vido, Tutela della biodiversità e rispetto dei diritti umani. Le sentenze CGUE nei casi Cascina Tre Pini e deviazione del fiume Acheloo, in Riv. Giur. dell’Ambiente, fasc. 6, 2014, pag. 803
F. Nicotra, Un “diritto nuovo”: il diritto all’acqua, in www.federalismi.it, n. 14/2016, ultimo accesso 26/08/2019
A. Crismani, La protezione costituzionale del diritto all’acqua pubblica tra crisi finanziaria e diritti umani. L’art. 70.a della Costituzione slovena sul “Diritto all’acqua potabile”, 30 dicembre 2016, in Amministrazione in cammino, ultimo accesso 27/08/2019
A. Cauduro, La fornitura del quantitativo minimo vitale di acqua, in Dir. amm., fasc. 4, 1 dicembre 2017, pag. 837
F. Spagnuolo, L’accesso universale all acqua potabile di qualità come Obiettivo di sviluppo sostenibile e diritto umano fondamentale: sviluppi recenti e possibili evoluzioni future in ambito UE, in Dir. e giur. agraria alimentare e dell’ambiente, n. 3/18
R. Cavallo Perin, Proprietà pubblica e uso comune dei beni tra diritti di libertà e doveri di solidarietà, in Dir. amm., fasc. 4, 1 dicembre 2018, pag. 839
C. Toresini, Il diritto all’acqua nelle regioni: water, water, every where, nor any drop to drink, in Riv. giur. ambientediritto.it, fasc. 1/19
[1] Intervento al Corso "Il diritto all’acqua come diritto fondamentale" organizzato dalla Struttura di formazione decentrata della Corte di Cassazione della Scuola Superiore della Magistratura e tenutosi a Roma il 19 settembre 2019. Articolo sottoposto a referaggio anonimo.
[2] Consigliere della Corte Suprema di Cassazione e Componente titolare del Tribunale Superiore delle Acque pubbliche.
[3] Istituiti, rispettivamente, presso le corti di appello di:
- Torino: per le circoscrizioni delle Corti di Appello di Torino e Genova;
- Milano: per le circoscrizioni delle Corti di Appello di Milano e Brescia;
- Venezia: per le circoscrizioni delle Corti di Appello di Venezia (, Trento) e Trieste;
- Firenze: per le circoscrizioni delle Corti di Appello di Bologna e Firenze;
- Roma: per le circoscrizioni delle Corti di Appello di Roma, Aquila ed Ancona;
- Napoli: per le circoscrizioni delle Corti di Appello di Napoli (, Campobasso, Salerno), Bari (,Lecce, s.d. Taranto, Potenza) e Catanzaro;
- Palermo: per le circoscrizioni delle Corti di Appello di Palermo (, Caltanissetta), Catania e Messina;
- Cagliari: per la circoscrizione della Corte di Appello di Cagliari (e la s.d. di Sassari).
[4] Sulla natura di giudice specializzato dei tribunali regionali, nella giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, tra le ultime, v. Cass. Sez. U. ord. 12/07/2019, n. 18827; in generale, v. pure Cass. Sez. U. ord. 19/04/2013, n. 9534.
[5] Tra le ultime, v. Cons. St., sez. V, 19/10/2017, n. 4839: “è ormai non più dubitabile che, come in giurisprudenza è recepito da tempo risalente (cfr. Cass., 18 febbraio 1955, n. 475; 10 giugno 1955, n. 1786; 16 giugno 1973, n. 1776; Cass., SS.UU., 30 luglio 2007, n. 16798; 2 dicembre 2008, n. 28535; cfr. anche Cons. Stato, Ad. gen., 6 febbraio 1958, n. 5) e come in dottrina è stato da tempo sottolineato con attenzione alla sua composizione, che il Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche sia un organo giudiziario ordinario, seppure specializzato. Il che è confermato da vari altri indici, che sono stati essenzialmente ravvisati nella nomina dei componenti con decreto del presidente della Repubblica su proposta del Ministro della giustizia; nella circostanza che dal 1947 sia previsto per il presidente del TSAP un apposito posto nel ruolo organico della magistratura ordinaria; nel dato normativo storico che per il d.lgs. C.p.S. 1° ottobre 1947, n. 1696, il presidente del TSAP ha il «grado secondo, corrispondente a quello di procuratore generale della Corte di cassazione»; nel dato normativo che l’art. 6 (Conferimento di uffici direttivi a magistrati di Corte di cassazione) l. 24 maggio 1951, n 392 (Distinzione dei magistrati secondo le funzioni. Trattamento economico della Magistratura nonché dei magistrati del Consiglio di Stato, della Corte dei conti, della Giustizia militare e degli avvocati e procuratori dello Stato) affermi che l’“ufficio direttivo” di presidente del TSAP è conferito, analogamente agli altri, «per anzianità e per merito a magistrati di Corte di cassazione»; nel dato normativo che l’art. 10 (sulle funzioni dei magistrati ordinari), comma 15, d.lgs. 5 aprile 2006, n. 160 (Nuova disciplina dell’accesso in magistratura, nonché in materia di progressione economica e di funzioni dei magistrati) dispone che «le funzioni direttive superiori giudicanti di legittimità sono quelle di presidente aggiunto della Corte di cassazione e di presidente del Tribunale superiore delle acque pubbliche»; nel fatto che l’ammissione al gratuito patrocinio è di competenza dell’apposita commissione la Corte di cassazione (art. 209 r.d. 11 dicembre 1933, n. 1775 - Testo unico delle disposizioni di legge sulle acque e impianti elettrici)”.
Va segnalato però che, in origine, era diversa l’impostazione quanto al tribunale superiore: per Cass. Sez. U. 18/02/1955, n. 475, in Rass. dir. pubbl., 1956, II, 586, quel tribunale superiore era invece giudice speciale (preesistente alla Costituzione e quindi immune dal divieto di cui all’art. 102, ma pur sempre in teoria soggetto alla VI disposizione transitoria e al disegno di riordino in essa previsto), soprattutto perché i giudici ordinari vi decidono – nelle controversie su interessi legittimi – in minoranza.
[6] Per una ricognizione, senza pretesa di completezza, può farsi riferimento a Cass. Sez. U. 24/09/2018, n. 22438, ove ulteriori riferimenti.
[7] E così in materia di opere di qualunque natura e pure sugli usi, atti o fatti, anche consuetudinari, che possono aver relazione col buon regime delle acque pubbliche, con la difesa e conservazione delle sponde, con l’esercizio della navigazione, con quello delle derivazioni legalmente stabilite e con l’animazione dei molini ed opifici sovra le dette acque esistenti; inoltre, in materia di condizioni di regolarità dei ripari ed argini od altra opera qualunque fatta entro gli alvei o contro le sponde.
[8] L’alternativa poteva infatti, tutt’al più, porsi non con i tribunali delle acque, ma col giudice amministrativo. È il caso di recente deciso da Cass. Sez. U. 19/12/2018, n. 32780, a mente della quale “l’azione risarcitoria proposta dall’utente nei confronti del gestore del servizio idrico integrato - qualora si controverta soltanto del risarcimento del danno cagionato all’utente dalla fornitura di acqua in violazione dei limiti ai contenuti di sostanze tossiche (nella specie, arsenico e floruri) imposti da disposizioni anche di rango eurounitario, ovvero del diritto alla riduzione del corrispettivo della fornitura stessa per i vizi del bene somministrato - rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, atteso che in tale ipotesi l’attività di programmazione o di organizzazione del servizio complessivo di fornitura di acqua posta in essere dalla P.A. costituisce solo il presupposto del non esatto adempimento delle obbligazioni gravanti sul gestore in forza del rapporto individuale di utenza.”
[9] Per tutte, Cass. ord. 28/06/2018, n. 17058, ovvero Cass. ord. 20/06/2019, n. 16633 (che hanno peraltro escluso, per la peculiarità della normativa, una sua concreta violazione da parte dello Stato).
[10] Tra le ultime, Cass. Sez. U. 25/05/2018, n. 13195.
[11] Ricorrente è l’interrogativo del riparto in caso di controversie risarcitorie, anche se la giurisprudenza della Corte di cassazione pare ormai saldamente basata sulla devoluzione al plesso specializzato di quelle in cui la causa petendi sia ascritta a vizi di progettazione o realizzazione delle opere idrauliche e non soltanto a difetti di manutenzione ordinaria o condotte meramente inerti. Da ultimo, v. Cass. ord. 20/06/2019, n. 16636, a mente della quale “nelle controversie aventi per oggetto il risarcimento dei danni derivanti dallo straripamento di un corso d’acqua pubblico per omessa cura o manutenzione dello stesso, ex art. 140, lett. e), del r.d. n. 1775 del 1933, spettano alla competenza dei tribunali regionali delle acque le domande in relazione alle quali l’esistenza dei danni dipenda dall’esecuzione, dalla manutenzione o dal funzionamento di un’opera idraulica, mentre restano riservate alla cognizione del giudice in sede ordinaria quelle aventi per oggetto pretese che si ricollegano solo indirettamente e occasionalmente alle vicende relative al governo delle acque, atteso che la competenza del giudice specializzato si giustifica in presenza di comportamenti, commissivi o omissivi, che implichino apprezzamenti circa la deliberazione, la progettazione e l’attuazione di opere idrauliche o comunque scelte della P.A. dirette alla tutela di interessi generali correlati al regime delle acque pubbliche.”
[12] Per Cons. Stato, IV sez., 05/08/2019, n. 5555 (che richiama anche Cass. Sez. U. 26/02/2019, n. 5641), “sono devoluti alla giurisdizione in unico grado del Tribunale superiore delle acque pubbliche, ai sensi dell’art. 143, comma 1, lett. a, r.d. 11 dicembre 1933 n. 1775, anche i ricorsi avverso provvedimenti amministrativi che, sebbene non costituiscano esercizio di un potere propriamente attinente alla materia delle acque pubbliche, riguardino comunque l’utilizzazione del demanio idrico, incidendo in maniera diretta e immediata sul regime delle acque”. Ad esempio, sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo sulla causa avente ad oggetto l’annullamento del provvedimento emesso dal gestore dei servizi energetici con riguardo agli incentivi economici per la produzione di energia da fonte rinnovabile, poiché viene in rilievo un atto che non ha incidenza diretta sulla materia delle acque pubbliche, ma concerne l’indirizzo della produzione energetica nazionale (Cass. Sez. U. ord. 03/11/2017, n. 26150); ancora, ai sensi dell’art. 143, comma 1, lett. a), del r.d. n. 1775 del 1933, i provvedimenti riguardanti gli ambiti territoriali ottimali rientrano tra quelli riservati alla cognizione del Tribunale superiore delle acque pubbliche, in unico grado di legittimità, quando da essi discendano ricadute sulla organizzazione e sulla conduzione del sistema idrico integrato che, mirando a garantire la gestione di tale servizio in termini di efficienza, efficacia ed economicità, abbiano incidenza diretta sul regime delle acque pubbliche e del loro utilizzo (Cass. Sez. U. ord. 11/06/2018, n. 15105). Per Trib. sup. Acque 28/02/2019, n. 90, la giurisdizione del TSAP sussiste anche in tema di opere dirette a scongiurare il rischio di esondazione.
[13] Tuttavia, compete al g.d. l’immediato rilievo delle eventuali questioni di giurisdizione, a pena di inammissibilità del successivo regolamento d’ufficio: Cass. Sez. U. ord. 08/05/2017, n. 11143.
[14] Cass. Sez. U. 20/06/2017, n. 15279.
[15] Cass. Sez. U. 28/12/2017, n. 31113; Trib. sup. Acque 17/02/2016, n. 55.
[16] Trib. sup. Acque 15/07/2016, n. 237; Cass. Sez. U. 25/06/2019, n. 16979.
[17] Trib. sup. Acque, ord. 19/12/2016, n. 1097 cron.; Trib. sup. Acque 12/02/2019, n. 60; Trib. sup. Acque 11/07/2018, n. 113.
[18] Tra le ultime, Trib. sup. Acque 23/11/2018, n. 193: la comunicazione a mezzo posta elettronica certificata della sentenza, in quanto ne contenga anche il dispositivo per intero, è idonea a fare decorrere il termine per l’impugnazione previsto dal primo comma dell’art. 189 del r.d. 1775/1933 in relazione alla notificazione prevista dal terzo comma del precedente art. 183 (Trib. sup. Acque 16/02/2016, n. 53, seguita poi dalle sentenze nn.: 70, 270, 311 e 333 del 2016; 143, 166, 176, 181, 219, 231 del 2017; 16, 18, 32 del 2018). Il principio è stato confermato anche da Cass. Sez. U. 26/02/2019, n. 5642 (seguita già da Cass. Sez. U. 13/06/2019, n. 15900), che ha rigettato il ricorso avverso Trib. sup. Acque n. 176/17.
[19] Entro i termini previsti espressamente a tal fine. Al riguardo, i termini per proporre ricorso per cassazione contro le sentenze del Tribunale Superiore delle acque pubbliche in unico grado, ai sensi degli artt. 201 e 202 del r.d. n. 1775 del 1933, sono quelli indicati nell’art. 518 c.p.c. del 1865, ridotti alla metà (quarantacinque giorni): da ultimo, Cass. Sez. U. 30/03/2018, n. 8048.
[20] Cass. Sez. U. 07/01/2016, n. 67.
[21] Per tutte, v. Trib. sup. Acque 01/10/2018, n. 128, oppure Cass. Sez. U. 25/06/2019, n. 16979.
[22] Trib. sup. Acque n. 128/18, cit.; in particolare: in materia di impugnazioni di sentenze rese dal Tribunale superiore delle acque pubbliche in grado di appello, la rettificazione prevista dall’art. 517, nn. da 4 a 6, del cod. proc. civ. 1865, richiamata dall'art. 204 cpv. r.d. 11 dicembre 1933, n. 1775 (rimedio concesso quando la sentenza «abbia pronunciato su cosa non domandata» - n. 4 dell’art. 517 cod. proc. civ. del 1865, «abbia aggiudicato più di quello ch'era domandato» - n. 5 del medesimo art. 517 - ovvero «abbia omesso di pronunciare sopra alcuno dei capi della domanda stati dedotti per conclusione speciale …» - n. 6 di detta disposizione -), comporta l’identificazione dell’oggetto dell'impugnazione nel vizio di ultra-, infra- od extrapetizione come elaborato anche successivamente nel vigore dell'art. 112 cod. proc. civ. del 1942; peraltro, poiché la rettificazione è ammessa in via alternativa e mutuamente esclusiva col ricorso per cassazione, essa non è ammissibile se non nel caso in cui l’omissione lamentata integri una totale pretermissione della domanda o dell’eccezione, derivante dalla radicale carenza di considerazione di argomenti anche con l’una o con l’altra incompatibile ed alla stregua dei quali ricostruire appunto una pronuncia implicita o per assorbimento: dovendo, in mancanza di tali caratteristiche, risolversi in altro dei vizi di ricorso per cassazione.
Infine, la rettificazione ai sensi del n. 7 dell’art. 517 cod. proc. civ. del previgente codice di rito, anch’essa richiamata dal citato art. 207, co. 2, r.d. 11 dicembre 1933, n. 1775, è ammessa dinanzi alla totale ed assoluta, cioè non riducibile in via interpretativa neppure sistematica, contraddittorietà tra parti essenziali della sentenza da gravare, in applicazione della giurisprudenza consolidatasi in ordine al vizio di violazione di legge ai sensi del previgente testo dell’art. 360 cod. proc. civ. del 1942 sul ricorso straordinario per cassazione, nuovamente attuale dopo la riforma del 2012 di quella norma, come interpretata dalle Sezioni Unite della Corte di legittimità.
[23] Trib. sup. Acque 19/04/2017, n. 75; Cass. Sez. U. ord. 22/05/2019, n. 13903, ove altri riferimenti.
[24] Per tutte: Trib. sup. Acque 23/08/2018, n. 107; Trib. sup. Acque 21/06/2016, n. 210. Non può trovare infatti applicazione, nel regime delle acque ed in forza dell’art. 2 del r.d. 25 luglio 1904, n. 523, la regola generale elaborata dalla giurisprudenza di legittimità per la quale l’inosservanza, da parte della P.A., nella gestione (e manutenzione) dei beni che ad essa appartengono, delle regole tecniche, ovvero dei comuni canoni di diligenza e prudenza, può essere denunciata dal privato davanti al giudice ordinario sia quando tenda a conseguire la condanna ad un facere, sia quando abbia per oggetto la richiesta del risarcimento del danno patrimoniale, giacché una siffatta domanda non investe scelte ed atti autoritativi dell’amministrazione, ma un’attività soggetta al rispetto del principio del neminem laedere (Cass. Sez. U. 06/09/2013, n. 13571; Cass. Sez. U. 20/10/2014, n. 22116; Cass. 12/07/2016, n. 14180).
[25] Su tale ultimo punto, v. ad es. Trib. sup. Acque 16/05/2019, n. 129, ove ulteriori riferimenti anche alla giurisprudenza di legittimità.
[26] È il caso dei laghi principali, soprattutto di quello di Garda. In generale, la controversia ha ad oggetto la demanialità di un terreno, in genere quando la competente amministrazione pubblica agisce per conseguirne il rilascio o, più di frequente, la sottoposizione ad un canone od altra indennità di occupazione senza titolo. È sempre esclusa la sdemanializzazione di fatto (tranne che per le fattispecie anteriori al 1994, ma pur sempre a rigorose condizioni), per la peculiare connotazione del demanio idrico: per tutte, ove riferimenti, Trib. sup. Acque 22/11/2018, n. 189.
[27] Non sono mancate cause in materia di validità di convenzioni tra enti locali e concessionarie in merito a corrispettivi, variamente denominati, dell’utilizzo del suolo a fini produttivi, anche se di recente la Corte di cassazione ha escluso la loro devoluzione alla giurisdizione del plesso delle acque. Per Cass. ord. 23/02/2017, n. 4699, “in tema di riparto di competenza fra giudice ordinario e tribunale regionale delle acque pubbliche, non rientrano nella cognizione del giudice specializzato le controversie che, pur ricollegandosi al presupposto della sussistenza di una concessione di acqua pubblica, non investano la legittimità o la portata di quest’ultima e non tocchino, quindi, i relativi interessi pubblici, ma riguardino esclusivamente reciproci obblighi negoziali tra le parti, previsti da fonti contrattuali che semplicemente presuppongano l’attuazione e l’esercizio dei diritti di uso delle acque, di modo che non sia necessaria un’indagine sul contenuto e sui limiti della concessione al fine di individuarne la portata e gli effetti e di stabilire se essa abbia, o meno, l’attitudine ad incidere, modificandoli, sui rapporti tra le parti. (Nella specie, la S.C., sul presupposto dall’assenza di competenza diretta in capo ai comuni sul rilascio delle concessioni in materia di acque pubbliche, ha ritenuto competente il giudice ordinario in merito ad un’azione di nullità di clausola di una convenzione-quadro, che prevedeva la realizzazione di un impianto idroelettrico con derivazione delle acque di un canale pubblico ed in base alla quale la società contraente si era impegnata a corrispondere al comune una royalty sul ricavato della vendita dell’energia prodotta).”. In casi analoghi, ma evidentemente perché la relativa questione non era mai tempestivamente stata posta, era stata rilevata la nullità delle clausole che imponevano la corresponsione di somme aggiuntive rispetto ai canoni ed ai sovracanoni espressamente previste: Trib. sup. Acque 02/02/2016, n. 23.
[28] V. ad es. Trib. sup. Acque 11/11/2016, n. 309.
[29] Per l’interferenza di manufatti su opere idrauliche, v. Trib. sup. Acque 11/04/2016, n. 111.
[30] Trib. sup. Acque 16/02/2016, n. 54.
[31] Trib. sup. Acque 11/04/2016, n. 109.
[32] Soprattutto Cass. ordd. 01/02/2018, n.. 2478, 2480 e 2482.
[33] Tra molte: Trib. sup. Acque nn. 198 e 199 del 15/06/2016; n. 219 del 04/07/2016; n. 60 del 23/02/2016; n. 21 del dì 08/02/2017.
[34] Com’è noto, il d.d.l. 1075 Senato della corrente Legislatura prevede la soppressione dell’intero plesso giurisdizionale delle acque con devoluzione della relativa giurisdizione al giudice amministrativo (eccettuate le sole controversie sulle misure delle indennità di espropriazione).
IL DIRITTO PENALE DELL'EMERGENZA DALLA LEGGE REALE AI DECRETI SICUREZZA
Una riflessione sulla recenti misure emergenziali non può esaurirsi solo nell'attualità come se i "decreti sicurezza" e le varie riforme ( intercettazioni prescrizione, codice rosso) fossero frutto di un particolare governo o momento storico.
Il ricorso allo stato di eccezione, la compressione in nome di esigenze di volta in volta scelte secondo l'interesse politico e raramente per quello generale è una triste e ricorrente caratteristica della storia italiana.
Dunque è lecito chiedersi se l'emergenza di oggi, basata su false percezioni della realtà, sia figlia di quella proclamata ad intervalli ricorrenti dai vari governi e quale sia il limite entro il quale la libertà del singolo può essere sacrificata all'emergenza di turno.
Ne parliamo con alcuni dei protagonisti più importanti della recente storia giudiziaria, con studiosi e politici.
Iscrizione su:
CONVEGNO LAPEC AULA FACOLTA' VALDESE via P. Cossa (piazza Cavour) mercoledì 25 settembre ore 15 -19
I VIAGGI IN MARE NELLA ROTTA DEL MEDITERRANEO CENTRALE di Salvatore Vella
“Information-sharing on the smuggling of migrants as a form of transnational organized crime, consistent with article 10 of the Protocol against the Smuggling of Migrants by Land, Sea and Air, supplementing the United Nations Convention against Transnational Organized Crime, and article 28 of the United Nations Convention against Transnational Organized Crime”
di Salvatore Vella
Sono in servizio come Pubblico Ministero in Italia. Il mio Ufficio ha la competenza territoriale sull’isola di Lampedusa, un’isola di 6.000 abitanti che si trova tra l’Europa e il continente africano, sul 35 esimo parallelo Nord, cioè più a sud di Tunisi e di Algeri.
Negli ultimi decenni l’Italia è diventata un Paese di destinazione di migranti. Nel 2014 sono arrivati via mare in Italia poco più di 170.000 migranti, nel 2019 sono arrivati poco più di 5.600 migranti, di questi il 42% sono sbarcati a Lampedusa.
L’Italia ha conosciuto sia il fenomeno dell’immigrazione che quello dell’emigrazione. Oggi i cittadini italiani residenti all’estero sono circa 4 milioni e 500.000, gli stranieri residenti in Italia sono invece poco più di 5 milioni, circa il 9% della popolazione.
L’Italia è un esempio di come la Storia sia caratterizzata dalla ciclicità: vi sono Paesi che in un certo periodo sono luoghi di partenza di migranti e in altre stagioni diventano luogo di destinazione e di arrivo.
Posso affermare che non esiste un “viaggio in mare standard”, una modalità standard di trasporto illegale di migranti nella rotta del Mediterraneo centrale. Per semplificare descriverò i 4 metodi principali utilizzati da trafficanti, consapevole però che ve ne possono essere altri.
Sommario: 1. I “barconi”, vecchi pescherecci trasformati - 2. I gommoni, i “rubber boat” - 3. Il sistema della “mother boat” - 4. I “viaggi in business class”, con imbarcazioni veloci 5. Conclusioni 6. Recommendations
1. I barconi
Fino a qualche anno fa, fino al 2016 circa, i viaggi illegali più diffusi erano quelli fatti con vecchi motopesca carichi di migranti fino al tetto della cabina di guida. Era il metodo con il quale i trafficanti di esseri umani facevano i numeri maggiori nella rotta del Mediterraneo centrale.
Un caso di cui mi sono occupato fu quello che si concluse con l’affondamento di uno di questi motopesca avvenuto il 25 maggio 2016 e l’arresto due trafficanti, 2 marinai egiziani. Un viaggio da Sabratha (Libia) verso Lampedusa, su un vecchio peschereccio di 21 metri, modificato per l’occasione nel porto libico di Zuara. Un viaggio che terminò appena 6 ore dopo la partenza. Morirono circa 283 migranti, tutti quelli che erano stati rinchiusi sotto bordo. Morirono annegati nei 40 minuti che ci mise lo scafo ribaltato ad andare a fondo.
Le modalità del viaggio, accertate attraverso le testimonianze dei migranti, erano simile a quelle accertate in decine e decine di altri casi, ed erano le seguenti:
L’organizzazione criminale utilizza un vecchio peschereccio in legno, barche a fine carriera acquistate dai trafficanti nei porti della Libia, della Tunisia o dell’Egitto;
L’organizzazione prepara il motopesca in un cantiere navale, trasformandolo in una specie grosso pullman galleggiante. Toglie di bordo tutte le attrezzature da pesca (che diventavano inutili per la nuova funzione della barca); crea dei ponti sotto coperta (lì dove normalmente vi erano depositi per le reti e il frigo per il pescato), per ospitare più gente possibile; fa dei buchi sullo scafo per permettere di respirare alle gran massa di gente che viaggia sotto coperta.
Il viaggio viene pagato dai migranti interamente prima della partenza.
L’imbarco avviene con piccoli gommoni da una spiaggia, ove vengono radunati i migranti, sotto il controllo di uomini armati, fino al motopesca ormeggiato in mare, poco lontano;
I trafficanti mettono alla guida della barca due loro marinai esperti e prevedono un servizio d’ordine a bordo, 4 o 5 dei loro uomini, armati di bastoni o di tubi di gomma rigida, che picchiano i migranti se creano problemi durante il viaggio. A volte queste persone del servizio d’ordine lanciano in mare i migranti che si lamentano durante il viaggio, che annegano.
In acque internazionali, nei pressi delle coste italiane, lo skipper fa una chiamata alle Guardia Costiera Italiana con un telefono satellitare “thuraya”, chiedendo soccorso e fornendo le propria posizione tramite i dati GPS.
All’arrivo delle navi di soccorso, i membri dell’organizzazione tentano di mimetizzarsi tra i migranti, per non essere arrestati. A volte ci riescono e ritornano in Nord Africa per incassare il resto del loro compenso e magari per fare altri viaggi, altre volte no. Ne abbiamo arrestati a centinaia, aiutati dalle testimonianze dei migranti trasportati a bordo.
Sono viaggi pericolosi, vi è sempre il rischio che i barconi si ribaltano per il pesante carico. Il pericolo è dato soprattutto dalla “mobilità” del carico. I migranti sono impauriti, stanchi, nervosi, basta che la maggior parte dei passeggeri si sposti su un lato della barca, magari felici alla vista della nave dei soccorsi, per far ribaltare l’imbarcazione e causarne l’affondamento.
Ricordo il racconto di un migrante siriano Rashid, sopravvissuto all’affondamento del 25 maggio 2016, che aveva fatto quel viaggio con la moglie, la figlioletta piccola e i suoi due figli maschi. Rashid aveva pagato 7.500 dinari libici ai trafficanti per far viaggiare la sua famiglia. In quel viaggio Rashid ha perso Mohamed, uno dei suoi due figli, morto annegato.
Rashid mi ha raccontato che sulla spiaggia in Libia di notte, sei ore prima dell’affondamento, ha ascoltato un trafficante libico che diceva all’altro “dobbiamo imbarcare ancora merce”, “merce” non “uomini”. Il peschereccio era già pieno oltre il consentito, poteva trasportare 20 persone in sicurezza, i trafficanti riuscirono a imbarcarne 725.
E’ successo qualcosa di simile nella strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013. In quel caso il motopesca partito da Misurata (Libia) con a bordo almeno 545 migranti, per la maggior parte eritrei, era giunto a meno di un miglio da Lampedusa quando ebbe un avaria al motore. I migranti a bordo nel motopesca diedero fuoco a una coperta, per attirare l’attenzione di altre barche, che al buio della notte non li vedevano. Ciò causò un incendio a bordo, il panico dei migranti e infine il ribaltamento dell’imbarcazione. Morirono in 366, tra cui almeno 9 bambini.
In quel caso arrestammo subito lo “skipper”, un tunisino accusato da alcuni sopravvissuti. Le indagini successive, grazie anche all’uso di intercettazioni telefoniche, portarono all’arresto di altri trafficanti di esseri umani.
2. I gommoni, i “rubber boat”
I Gruppi criminali tendono naturalmente a incrementare i guadagni, riducendo il più possibile i costi e i rischi della loro attività criminale.
Da qualche anno i vecchi pescherecci da utilizzare per i viaggi sono diventati sempre più rari in Nord Africa e, quindi, più costosi. Inoltre sono imbarcazioni che richiedono marinai esperti e uomini a bordo per tenere l’ordine, uomini che sono un costo per l’organizzazione. Per questo motivo i trafficanti hanno scelto, sempre di più, di utilizzare altri metodi di trasporto in mare, metodi che consentono di abbattere i costi e di incrementare i guadagni.
Un carico di droga o di armi non può condurre da solo l’imbarcazione su cui viaggia, ha bisogno di uomini dell’organizzazione criminale che conducano la nave. La “merce” ha bisogno degli “uomini” per spostarsi in mare. I trafficanti di esseri umani hanno scoperto che il loro carico illegale poteva, invece, condurre da solo l’imbarcazione su cui viaggiava, che non avevano bisogno di mettere uomini della loro organizzazione sulle barche, uomini che andavano pagati e che rischiavano di essere arrestati o di morire in un naufragio; hanno addossato questi rischi sulle spalle delle loro vittime.
Per questi motivi i trafficanti di migranti sulla rotta del mediterraneo centrale hanno cominciato a usare i rubber boat. Oggi, sempre più spesso, sono gli stessi migranti a condurre le imbarcazioni su cui attraversano il canale di Sicilia.
I gommoni costano molto meno rispetto a un motopesca; possono essere condotti da due uomini inesperti scelti tra gli stessi migranti: uno “skipper” che regge il timone e un “compass man” che indica la rotta. I rischi per l’organizzazione si azzerano, non vi sono più loro uomini a bordo e le imbarcazioni sono destinate in partenza ad essere perse nel viaggio. I costi si abbassano e i profitti crescono.
Cresce purtroppo il rischio per i migranti, aumentano le morti in mare, perché difficilmente queste imbarcazioni raggiungono autonomamente la costa italiana, senza essere soccorse.
Le modalità di questo tipo di viaggio si possono schematicamente riassumere nelle seguenti:
I gommoni di circa 11 metri vengono acquistati dai trafficanti a poco prezzo, dai 500 ai 2000 dollari americani, attraverso transazioni internazionali, spesso in mercati asiatici, trasportati in Libia tramite container su navi cargo, che a volte transitano anche da Paesi Europei. Questo tipo di imbarcazioni vengono vendute su internet a volte col nome di “refugee boat”, che lascia poco spazio all’immaginazione.
I gommoni potrebbero trasportare circa 15 passeggeri in sicurezza, i trafficanti riescono a imbarcare fino a un centinaio di migranti, senza giubbotti di salvataggio, per non rubare spazio a bordo, con pochi viveri e acqua.
Il viaggio parte direttamente da una spiaggia, il gommone viene accompagnato in mare per poche miglia da un’imbarcazione dei trafficanti, l’indicazione per i migranti è di seguire una rotta con direzione nord e di chiamare i soccorsi prima di giungere nelle acque territoriali italiane, con il telefono satellitare fornito dall’organizzazione.
Il gommone viene condotto da due migranti scelti dai trafficanti, spesso in cambio del costo del viaggio. A volte i trafficanti spiegano soltanto il giorno prima ai due migranti scelti come si conduce il gommone e come funzione il GPS. A volte sono migranti che non hanno mai visto il mare prima. Questo è un problema serio per tutti quelli che si trovano sul gommone, perché il Canale di Sicilia è un mare pericoloso, è un mare chiuso con onde corte, ravvicinate e ripide, più insidiose per la navigazione rispetto a quelle oceaniche.
I gommoni, costruiti con materiali scadenti, cominciano a sgonfiarsi già dopo poche ore di navigazione, via via cedono tutte le camere d’aria di cui costituito il gommone e i migranti a bordo cominciano ad annegare, uno ad uno. A volte si rompe il piccolo motore, ma la scena non cambia, questi gommoni si sgonfiano anche da fermi, con mare calmo.
A volte, a bordo di questi gommoni, i migranti vengono ustionati dalla benzina che fuoriesce dal serbatoio, che deve essere riempito più volte lungo il viaggio. La benzina si mischia all’acqua di mare presente sul fondo del gommone, quella miscela di benzina e acqua di mare inzuppa gli abiti di chi viaggia al centro del gommone, di solito le donne, e gli ustiona la pelle come fosse acido, gliela brucia letteralmente.
Se i migranti non riescono a mettersi in contatto con imbarcazioni di soccorso o se i soccorsi in mare arrivano tardi, muoiono annegati. Come traccia della tragedia resta in mare il gommone semi sommerso, sgonfio, senza vita.
Il gruppo criminale che ha organizzato il viaggio ha comunque fatto il proprio business, tutti hanno pagato il biglietto prima di partire.
3. Il sistema della “mother boat”
Un altro metodo che i trafficanti stanno utilizzando, sempre di più, è quello della “mother boat”.
Come esempio faccio riferimento a un caso di cui mi sono occupato conclusosi il 23 novembre 2018. In quel caso i trafficanti trasportarono 68 migranti da Sabratha (Libia) a Lampedusa, utilizzando un motopesca di circa 21 metri (nave madre) e una imbarcazione più piccola (nave figlia), costituita da una barca di circa 10 metri con un piccolo motore fuoribordo da 40cv. Arrestammo tutti i sei membri dell’equipaggio, dopo un lungo inseguimento in mare fatto con i mezzi della Guardia di Finanza Italiana.
Le modalità di questo tipo di viaggio si possono schematicamente riassumere nelle seguenti:
L’organizzazione criminale si fa pagare dai migranti il viaggio in anticipo;
I migranti vengono custoditi in diverse “safe house” poste nella vicinanza della costa, la notte della partenza i migranti vengono spostati sulla spiaggia e caricati su piccole imbarcazioni che, con diversi viaggi, li portano a bordo della mother boat ormeggiato al largo delle coste libiche, di solito sotto la vigilanza di uomini armati;
A bordo della mother boat vi sono 5 o 6 uomini di equipaggio, marinai esperti. Il motopesca affronta il viaggio vero nord, verso le coste siciliane come se fosse una normale imbarcazione da pesca, tutti i migranti nascosti dentro la mother boat. Legata al traino del motopesca la “barca figlia”;
Ai migranti vengono soltanto fornite acqua e viveri per il viaggio, chi si lamenta troppo e fa problemi viene picchiato;
Dopo circa 15 ore di navigazione, al largo delle coste italiane, i trafficanti fermano il motopesca, fanno salire tutti i migranti a bordo della “barca figlia” che avevano al traino, e indicano loro la rotta da seguire verso Lampedusa.
I trafficanti, dopo aver scaricato i migranti, fanno ritorno con la nave madre verso la costa libica. Nessun trafficante resta a bordo della “barca figlia”;
I migranti raggiungono il porto di Lampedusa con la “barca figlia”;
Il costo per l’organizzazione criminale è costituito soltanto dalla perdita secca della piccola imbarcazione di 10 metri.
Il metodo della “mother boat” mette, comunque, in pericolo la vita dei migranti, soprattutto nella fase in cui gli stessi vengono accalcati sulla “barca figlia” in condizioni di grave instabilità (70 persone su una piccola imbarcazione di 10 metri), senza viveri e mezzi di salvataggio individuali, fase che prevede ancora circa 8 ore di navigazione, prima di giungere sulla costa siciliana.
Questo metodo di viaggio rende, inoltre, più difficile il contrasto alle organizzazioni dei trafficanti, i migranti nascosti dentro la nave non sono visibili ad una osservazione esterna e le mother boat si fermano in acque internazionali, a grande distanza dalla costa del Paese di destinazione.
E’ difficile distinguere in mare le “mother boat” dai normali motopesca che affollano il mediterraneo centrale, uno dei metodi che usano gli equipaggi dei velivoli militari o di polizia, che presidiano questa ampia zona di mare, è quello di cercare i gabbiani, le “mother boat” infatti sono gli unici motopesca che in navigazione non hanno stormi di gabbiani intorno. Il perché è presto detto: sono gli unici motopesca che non pescano. Niente pesci a bordo, niente gabbiani.
Le imbarcazioni figlie, molto più piccole, sono le uniche che entrano nelle acque nazionali del Paese di destinazione e sono comunque difficilmente individuabili dai radar delle navi militari che controllano il mare.
4. I “viaggi in business class”, con imbarcazioni veloci
Infine vi sono trafficanti di migranti che offrono viaggi fatti con mezzi veloci, non facilmente individuabili dalle Forze dell’ordine, in genere organizzati da trafficanti tunisini o egiziani, non libici. Sono stati ribattezzati “sbarchi fantasma”, perché con questa modalità i migranti entrano nel territorio dello Stato di destinazione senza transitare dai centri di identificazione della Polizia, senza lasciare traccia, come dei fantasmi appunto. Non vi sono statistiche affidabili sui numeri di migranti trasportati in questo modo.
Si tratta di viaggi per mare che, per i servizi che offrono ai migranti, costano di più rispetto agli altri metodi, perché garantiscono sia una maggiore sicurezza per i migranti (che in questi casi non rischiano quasi mai la vita) che l’arrivo di nascosto sulla terraferma, con possibilità per i migranti di muoversi in autonomia sul territorio europeo, senza essere identificati allo sbarco.
Dal punto di vista dei trafficanti questi viaggi prevedono il ritorno del mezzo navale utilizzato nel Paese di partenza, insieme ai trafficanti che vi sono a bordo.
Vi porto un caso concreto di cui mi sono occupato, risale al 10 ottobre 2017. In quel caso arrestammo un cittadino tunisino che aveva appena fatto un viaggio con un gommone di ottima qualità, dotata di motore fuoribordo da 115cv, lungo poco più di 5 metri, con il quale aveva trasportato 10 migranti da Monastir (Tunisia) alla Sicilia, in poco meno di dodici ore. Per il trasporto si era fatto pagare un compenso di 7.000.000 dinari tunisini (corrispondenti a circa € 2.250 a persona).
Sul suo cellulare abbiamo trovato il filmato della traversata e il percorso GPS del viaggio in mare, che aveva avuto come destinazione finale un punto ben scelto della costa siciliana, lontano da abitazioni e strade, che aveva permesso uno sbarco senza destare allarme.
5. Conclusioni
La continua modifica dei modelli di business delle organizzazioni dei trafficanti di migranti deve portare necessariamente a una conseguente modifica delle modalità di contrasto da parte delle Forze di polizia.
Con i “barconi” le Forze di Polizia potevano tentare di fare una attività di contrasto in mare che avesse una qualche efficacia, lotta che poteva portare all’arresto dei marinai (professionisti pagati dall’organizzazione) e alla confisca o alla distruzione delle navi dell’organizzazione.
Oggi i numeri maggiori i trafficanti li fanno con i “rubber boat”, per i quali un’attività di contrasto in mare è poco efficace. Le organizzazioni dei trafficanti non hanno più in mare i loro uomini e la flotta di rubber boat è una flotta di imbarcazioni destinate a essere utilizzate per un solo viaggio, destinate ad essere costantemente sostituite a poco prezzo. Il sequestro di questi mezzi è inefficace, perché sono mezzi non utilizzabili per un nuovo viaggio.
Oggi sempre di più un efficace contrasto alle organizzazioni di trafficanti di migranti presuppone una lotta da svolgere sulla terra ferma non in mare, soprattutto nei Paesi di partenza con la necessaria collaborazione dei Paesi di destinazione. Sono poco utili e difficilmente attuabili i blocchi navali, cioè i tentativi di bloccare in mare l’arrivo delle imbarcazioni cariche di migranti.
Il Paese di destinazione è il luogo in cui arrivano le vittime dei traffici, portando con se il peso delle violenze subite, delle torture, degli abusi sessuali, delle uccisioni di familiari o di amici.
I Paesi di partenza sono i luoghi in cui si trovano i trafficanti, le loro armi da fuoco, i loro mezzi, le loro basi, le prigioni in cui tengono i migranti, e, soprattutto, i loro soldi.
Spesso le informazioni acquisite dai migranti, che debbono essere considerate vittime del reato di smuggling, permetterebbero una seria attività d’indagine nei Paesi di partenza sulla costa africana. I migranti, pur tra grandi difficoltà, ci forniscono numeri di cellulare, descrizione dei trafficanti, l’indirizzo dei luoghi di incontro tra migranti e trafficanti, l’indicazione dei luoghi ove si trovano le grandi “house” dove vengono radunati i migranti prima della partenza, alcune delle quali sono diventati veri propri campi di concentramento e luoghi di tortura, spesso ex basi militari o caserme. A volte i migranti ci riferiscono di appartenenti a Forze di Polizia che utilizzano la loro posizione e i loro mezzi per aiutare i trafficanti di migranti. Sono informazioni che debbono essere condivise.
6. Recommendations
Gli Stati parte dovrebbero considerare di creare Network regionali di Prosecutors specializzati nel contrasto allo smuggling of migrants, per condividere informazioni utili e strategie di contrasto, utilizzando ove possibile banche dati comuni, contenenti informazioni standard quali numeri di cellulare utilizzati dai trafficanti per mettersi in contatto con i migranti, dati sui possessori dei numeri di cellulare, generalità e precedenti penali dei trafficanti, in accordo con le singole legislazioni nazionali;
Gli Stati di una regione e in particolare gli Stati di partenza, di transito e di arrivo dei migranti dovrebbero considerare di creare una banca dati comune a disposizione delle Forze di Polizia contenente le impronte digitali o altri dati biometrici dei soggetti sospettati di appartenere alle organizzazioni di trafficanti di migranti, attribuendo un codice unico identificativo per ogni soggetto registrato nella banca dati, in aggiunta al nome dichiarato. Questa banca dati condivisa dovrebbe poter dialogare con eventuali banche dati nazionali di dati biometrici, in modo da consentire una corretta identificazione dei trafficanti, in accordo con le singole legislazioni nazionali;.
Gli Stati di partenza, di transito e di arrivo dei migranti dovrebbero considerare di creare corpi di interpreti delle diverse lingue parlate dai migranti trasportati dai trafficanti, da mettere stabilmente a disposizione di Polizia e Prosecutors specializzati nel contrasto allo smuggling of migrants.
Gli Stati di partenza e gli Stati di arrivo dei migranti dovrebbero considerare di prevedere lo scambio di propri Ufficiali di Polizia di collegamento, in modo da rendere più veloce e diretto la condivisione di informazioni utili tra i Paesi della rotta dei migranti.
Per rendere più efficaci le strategie di contrasto contro lo smuggling of migrants, ciascun Stato parte dovrebbe condividere con gli altri Stati parte della medesima regione informazioni sulle NGO che trasportano migranti sul proprio territorio o all’interno delle proprie acque territoriali, informando gli altri Stati se tratta di organizzazioni che svolgono un’attività diretta a salvare i migranti, in attuazione alle norme internazionali sulla tutela della vita in mare (Convenzione Internazionale SOLAS Safety Of Life At Sea del 1974; Convenzione Internazionale di Amburgo SAR Search And Rescue del 1979) o se si tratta di organizzazioni che hanno accordi illegali con i trafficanti di migranti.
Gli Stati parte dovrebbero considerare di prevedere canali di accesso legali per i migranti, in modo da ridurrebbe sensibilmente il potere di ricatto che i trafficanti hanno nei confronti dei migranti, offrendosi come unico canale di accesso ai Paesi di destinazione. Ciò ridurrebbe il volume dei traffici illegali di esseri umani e consentirebbe un più efficace contrasto alle organizzazioni dei trafficanti.
Sommario : 1. Inquadramento del problema - 2. La fattispecie all’esame delle Sezioni Unite - 3. La soluzione delle Sezioni Unite - 4. Le molte luci delle sentenze del 2019 -5. Qualche considerazione conclusiva.
1. Inquadramento del problema.
Ancora una volta, come un ulteriore capitolo di una vera e propria saga giudiziaria, i giudici devono intervenire nel sistema dei rimedi ai tempi della Giustizia in Italia, con una pronuncia molto articolata e che si sforza di adeguare il variegato e complesso quadro nazionale ai principi generali costantemente elaborati dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo.
Gli interventi normativi e giurisprudenziali sul tema denotano una linea di tendenza propria del nostro Paese: poiché era divenuto insostenibile un sistema che lo esponeva al triste primato di trasgressore cronico del diritto fondamentale alla ragionevolezza dei tempi del processo (pure solennemente consacrato tra i pilastri di una moderna società democratica all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo ed ora pure dalla Costituzione nazionale e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea), si è adottata dapprima una normativa (la legge c.d. Pinto, 24 marzo 2001, n. 89) che, in linea con la stessa giurisprudenza convenzionale, almeno tentasse di offrire una riparazione pecuniaria alla violazione di quel diritto, quale livello minimale di tutela di quello.
Negli anni successivi, diventata sempre più gravosa l’entità degli esborsi richiesti per l’incapacità di intervenire sulla struttura del sistema e quindi sulle cause della sua sinistrosità, sono poi intervenuti un incessante lavorio di elaborazione giurisprudenziale ed alcuni rilevanti correttivi normativi, tali da rendere estremamente complesso l’effettivo conseguimento di quella riparazione pecuniaria, perfino introducendo modalità di esecuzione od ottemperanza delle relative condanne che si risolvono in autentici privilegi dello Stato-debitore.
Nel settore si è assistito allora, per una infelice Heterogonie des Zwecke, la proliferazione delle azioni giudiziarie dovute al ritardo: la maggior parte degli sforzi per tentare di ovviare ai ritardi nella Giustizia ha causato un incremento del contenzioso e quindi dei tempi, visto che l’Italia ha generato le cause per ritardi … sulle cause per ritardi, spesso non essendo riuscita a contenere i tempi neppure di queste ultime, a dispetto della chiarezza quasi aritmetica dei relativi presupposti e della semplicità della condotta di adempimento delle conseguenti condanne.
A dimostrazione poi che al peggio non c’è mai limite, al “Pinto-bis” (un … Pinto al quadrato) si è aggiunto oramai il “Pinto-ter” (per insistere nell’analogia con l’elevazione a potenza: un … Pinto al cubo): cioè le cause per ritardi nei procedimenti per conseguire la riparazione sul ritardo nella definizione dei procedimenti per l’irragionevole durata del processo – civile o penale o amministrativo – per così dire di merito od originario. In questo complessivo desolante contesto, la fatica degli interpreti è chiamata a dedicarsi ad individuare gli effetti, sovente distorti, della persistente condizione di inadempienza dello Stato italiano.
2. La fattispecie all’esame delle Sezioni Unite.
È quanto è accaduto nella fattispecie portata all’esame delle Sezioni Unite, in dottrina individuata come ipotesi di “Pinto-ter”, siccome riferita ad un procedimento ex lege Pinto per l’irragionevole durata di un precedente procedimento (il c.d. “Pinto-bis”) ai sensi della stessa legge relativo ad un originario procedimento sempre per irragionevole durata del processo originario. È evidente come quest’ultimo resti ormai sullo sfondo, perduto nelle nebbie del tempo, quale causa ultima o peccato originale ancora inespiato.
In particolare:
a) la ricorrente propone, in uno ad altri, un primo ricorso ex lege Pinto nell’ottobre del 2005 alla Corte d’appello di Roma: che è definito con decreto di parziale accoglimento del giugno del 2007, seguito da sentenza della Corte di cassazione del luglio 2008 (tanto rilevandosi da Cass. 19/12/2012, n. 23453);
b) la ricorrente propone poi, il 29/09/2010, alla Corte d’appello di Perugia altro ricorso ex lege Pinto per fare valere l’eccessiva durata del primo procedimento Pinto: il quale è dapprima dichiarato inammissibile dalla corte territoriale (con provvedimento 19/12/2011, secondo quanto risulta dalla stessa Cass. n. 23453/12) e poi accolto, con decisione nel merito, dalla Corte di cassazione con sentenza 19/12/2012, n. 23453 (e condanna del Ministero a pagare € 1.125, oltre interessi dalla domanda e spese di lite);
c) invano notificato (il 03/03/2013) il titolo esecutivo al Ministero, la ricorrente intima (in data 11/12/2013) precetto, cui fa seguire procedimento di esecuzione mobiliare presso il Tribunale capitolino, conclusosi con ordinanza di assegnazione divenuta definitiva il 17/07/2014;
d) sul presupposto che tale secondo procedimento ex lege Pinto si fosse protratto ininterrottamente dal 29/09/2010 al 17/07/2014 (e quindi per oltre tre anni), nel febbraio del 2015 la ricorrente adisce di bel nuovo la Corte d’appello, ora di Firenze, per fare valere l’irragionevole durata di quello;
e) la corte fiorentina, dapprima con decreto e poi all’esito dell’opposizione, rigetta la domanda, sostanzialmente perché, pur considerando unitariamente le fasi di cognizione ed esecuzione, dal computo della durata del processo doveva essere espunto il periodo in cui il privato, vittorioso nel giudizio di cognizione, era rimasto inerte senza notificare il precetto (cioè, nella specie, il periodo tra la pronuncia della condanna, del 19/12/2012, fino al dì 11/11/2013, data di notificazione dell’intimazione); in tal modo, il processo doveva qualificarsi durato anni due, mesi nove e giorni 28, ma l’eccedenza rispetto al periodo da considerare ragionevole (due anni, mesi sei e cinque giorni) era di soli mesi tre e giorni 23 e, così, non indennizzabile, escludendo l’art. 2 bis della L. n. 89/2001 l’indennizzabilità delle frazioni di anno non superiori a sei mesi;
f) la ricorrente chiede la cassazione del relativo decreto, pubblicato il 19/10/2015, con il primo dei cui due motivi sostenendo la necessità di considerare, per il computo della durata complessiva del processo ed a carico della convenuta Amministrazione, unitariamente tutto l’intervallo tra l’inizio del procedimento ex lege Pinto e la conclusione del procedimento di esecuzione reso necessario dall’inadempimento, ivi compreso il termine di 120 giorni (di 120 gg. dalla notifica del titolo esecutivo di cui all’art. 14 d.l. n. 669/1996, conv. dalla l. n. 30/1997, nel corso del quale il danneggiato non poteva notificare l’atto di precetto).
Alle Sezioni Unite l’ordinanza interlocutoria 15/01/2019, n. 802, seguita a precedente di rimessione alla pubblica udienza (Cass. ord. 06/09/2017, n. 20835), ha rimesso un’articolata questione di massima di particolare importanza relativa al rapporto fra fase di cognizione e di esecuzione ai fini del riconoscimento dell’indennizzo ex lege Pinto: e cioè se, alla luce - da un lato - della sentenza delle S.U. n. 27365 del 2009 e - dall’altro - della giurisprudenza della Corte EDU e della Corte costituzionale, la durata del processo esecutivo, promosso in ragione del ritardo dell’Amministrazione nel pagamento dell’indennizzo dovuto in forza del titolo esecutivo, costituito dal decreto di condanna pronunziato dalla Corte di Appello ai sensi dell’art. 3 della legge n. 89 del 2001 ed azionato appunto nelle forme del processo esecutivo, debba o no essere calcolata ai fini del computo della durata irragionevole del processo per equa riparazione e, più in generale, se la durata del processo esecutivo, promosso per la realizzazione della situazione giuridica soggettiva di vantaggio fatta valere nel processo presupposto con esito positivo, debba o no essere calcolata ai fini del computo della durata ragionevole dello stesso processo presupposto.
Dagli snodi argomentativi dell’ordinanza di rimessione si ricava come siano stati coinvolti differenti problemi ricostruttivi: a) se il ritardo da parte dello Stato nel pagamento dell’indennizzo ex lege Pinto costituisce un autonomo diritto azionabile unicamente innanzi alla CTEDU ove eccedente i sei mesi e cinque giorni o esso può essere fatto valere anche ai sensi della Legge Pinto; b) se, quando il debitore è lo Stato, il processo di cognizione e quello di esecuzione possono essere valutati come un unico processo ai fini della ragionevole durata senza il rispetto di alcun termine; c) se e quale rilevanza abbia, ai fini del termine di sei mesi e cinque giorni concesso alla P.A. per l’adempimento spontaneo, quello di 120 gg. di cui dall’art. 14 del d.l. n. 669 del 31 dicembre 1996, conv. dalla legge n. 30 del 28 febbraio 1997; d) il momento temporale in cui il processo esecutivo può considerarsi introdotto (dalla notifica del titolo esecutivo, del precetto o del pignoramento); e) l’equiparabilità del processo di ottemperanza a quello esecutivo e la valutabilità unitaria ai fini della ragionevole durata.
Le questioni, al di là dell’apparente aridità del suo tecnicismo, involgono diversi principi fondamentali dell’ordinamento, affrontati dalle Sezioni Unite con ampiezza e ricchezza di argomentazioni: quale premessa di grande momento, l’esigenza di interpretazione della normativa nazionale in senso convenzionalmente orientato; un primo, sui rapporti tra giudizio di cognizione e processo di esecuzione in generale quali presupposti indefettibili dell’effettività della tutela dei diritti; un secondo, sulla peculiare responsabilità dello Stato debitore; un terzo, sulla legittimità del sistema di indennizzi Pinto in relazione ai tempi di adempimento.
3. La soluzione delle Sezioni Unite.
La sentenza 23/07/2019, n. 19883 (in uno ad altre coeve su ricorsi analoghi: nn. 19884, 19885, 19886, 19887 e 19888 della stessa data, nonché 20404 del 26/07/2019), che è intervenuta sulla materia a definire la questione di massima di particolare importanza appena ricordata, si preoccupa di ricostruire il quadro giurisprudenziale, riferito sia alle Corti nazionali che a quella europea dei diritti dell’Uomo.
3.1. L’interpretazione convenzionalmente orientata.
La premessa, quanto meno in tema di violazione del diritto fondamentale espressamente codificato nell’art. 6 della Convenzione, è l’esigenza di una puntuale trasposizione dei principi elaborati a sua interpretazione dalla Corte di Strasburgo, sia pure senza un’automatica valutazione di recessività delle peculiarità nazionali: risultando appunto obiettivo della nomofilachia nazionale la conformazione di un sistema di protezione del diritto alla ragionevole durata del processo destinato progressivamente ad armonizzarsi con la disciplina concretamente declinata dall’art. 6 CEDU e dal diritto vivente della Corte EDU. Infatti, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo s’impone ai giudici italiani per quanto riguarda l’applicazione della legge n. 89/2001, sia pur senza considerare sempre subalterne e recessive le caratteristiche e peculiarità del rimedio interno, adottato nell’ambito del margine di apprezzamento riservato allo Stato che decida di approntare un rimedio di ordine generale volto all’eliminazione di una violazione convenzionale di natura strutturale; margine di apprezzamento che, tuttavia, non può mai andare a detrimento dell’effettività del rimedio. Ancora, il carattere vincolante per l’interprete nazionale è riconosciuto alle pronunce della Corte di Strasburgo anche in caso di cancellazione dal ruolo, se non altro quando questa ha avuto luogo a seguito di dichiarazione di riconoscimento della violazione da parte dello Stato convenuto.
Infatti, per la stessa Corte di legittimità e per la Corte costituzionale, la funzione del giudice nazionale è quella di cooperare attivamente, anche attraverso l’interpretazione convenzionalmente orientata, alla protezione dei diritti fondamentali, dialogando con la giurisprudenza delle Corti costituzionali e sovranazionali in modo da offrire il livello più elevato possibile di protezione dei diritti fondamentali.
3.2. L’unitarietà del processo.
Quanto alla fattispecie in esame, si fa allora espresso riferimento all’elaborazione come finalmente consolidata dalla Corte europea con la sua sentenza 14/09/2017 in causa Bozza c. Italia, resa il 14 settembre 2017, la quale ha ribadito con forza, quasi richiamando all’ordine le corti italiane che si erano discostate dalle precedenti conclusioni convenzionali, la necessaria unitarietà del processo nelle sue fasi di cognizione ed esecuzione: e tanto, in estrema sintesi, in base all’indefettibilità della seconda a garanzia dell’effettività della tutela giurisdizionale.
Al riguardo, le Sezioni Unite ricostruiscono un iter articolato. Con le pronunce del 2009 si era fatta leva sull’autonomia strutturale e funzionale del giudizio di cognizione rispetto al processo di esecuzione ed a quello di ottemperanza per sancirne una distinta rilevanza ai fini del sistema Pinto; ma, all’esito della successiva evoluzione interpretativa, nel 2014 ci si è fatti carico della contraria impostazione della Corte europea, per giungere ad una diversa conclusione, sull’unitarietà delle due “fasi” della cognizione e dell’esecuzione (od ottemperanza) in quanto consequenziali e complementari in un unitario, benché articolato e complesso, processo volto a garantire l’effettività della tutela giurisdizionale: con la conseguenza che, in caso di ritardo della P.A. nel pagamento delle somme riconosciute in forza di decreto di condanna “Pinto” definitivo, l’interessato, mancato il versamento delle somme spettanti entro il termine dilatorio di mesi sei e giorni cinque dalla data in cui il provvedimento è divenuto esecutivo, ha diritto - sia che abbia esperito azione esecutiva per il conseguimento delle somme a lui spettanti, sia che si sia limitato ad attendere l’adempimento spontaneo della P.A. - ad un ulteriore indennizzo commisurato al ritardo nel soddisfacimento della sua pretesa eccedente al suddetto termine nonché, ove intrapresa, all’intervenuta promozione dell’azione esecutiva; indennizzo, che, tuttavia, può essere fatto valere esclusivamente con ricorso diretto alla CTEDU (in relazione all’art. 41 della Convenzione EDU) e non con le forme e i termini dell’art. 2, comma 1, della legge n. 89 del 2001, la cui portata non si estende alla tutela del diritto all’esecuzione delle decisioni interne esecutive.
E tuttavia, nel 2016 le stesse Sezioni Unite intervennero nuovamente, introducendo, quale condizione per la considerazione unitaria del processo di esecuzione e del retrostante giudizio di cognizione, l’avvio del primo entro il termine decadenziale di sei mesi dalla definitività del provvedimento che aveva concluso il secondo: in mancanza di attivazione della fase esecutiva nel termine di decadenza previsto dall’art. 4 l. 89/2001 non era quindi possibile sommare, ai fini dell’individuazione della ragionevole durata del processo, il tempo occorso per la definizione della fase di cognizione, potendosi invece profilare un’irragionevole durata del processo unicamente per la durata della fase esecutiva. E tanto per la necessità di preservare la certezza delle situazioni giuridiche e di evitare l’esercizio del credito indennitario in maniera abusiva.
La peculiarità dell’ultimo intervento, quello del 2019, sta allora in ciò, che esso intende porsi in continuità col precedente del 2014 e correggere o ridefinire quello del 2016: visto che, quanto meno nel sistema degli indennizzi Pinto, dove a rivestire la qualità di debitore è lo Stato medesimo, si afferma ora – al contempo – che l’unitarietà del processo sempre sussiste, ma che comunque che non è indennizzabile ai fini della legge Pinto, bensì soltanto in sede convenzionale e quindi con separato ricorso alla Corte di Strasburgo, il ritardo tra la conclusione del giudizio di cognizione e l’inizio del processo esecutivo (correttamente individuato nel pignoramento, a differenza del decreto impugnato, che lo collocava all’atto del precetto).
3.3. L’inadempienza dello Stato debitore.
Di grande rilievo è l’adesione ai passaggi argomentativi della già richiamata sentenza CtEDU in caso Bozza, in convinto e sostanziale loro recepimento:
- sulla sussistenza di un obbligo incondizionato, per gli Stati contraenti, di assicurare che ciascun diritto rivendicato trovi la sua effettiva realizzazione, pur variando la portata di tale obbligo in funzione della qualità della parte debitrice; sulla differenza tra debitore-privato e debitore-pubblica amministrazione;
- sulla responsabilità dello Stato contraente, nel primo caso e cioè in ipotesi di privato debitore, soltanto per difetto di diligenza richiesta od ostruzionismo nell’apprestamento dell’assistenza necessaria affinché il diritto rivendicato trovi la sua effettiva realizzazione;
- sulla ben più pregnante responsabilità nel secondo caso, in ipotesi cioè in cui ad essere condannato o identificato come debitore sia lo Stato (o comunque una pubblica amministrazione ad esso riconducibile, soggettivamente od oggettivamente in ragione della funzione concretamente svolta), visto che il privato creditore non dovrebbe essere costretto ad avviare un procedimento distinto per ottenerne l’esecuzione forzata, potendo anzi essere sufficiente la notifica regolare all’autorità nazionale interessata o che siano espletati alcuni adempimenti processuali di natura però meramente formale.
Del resto, la stessa giurisprudenza di Strasburgo esclude la legittimità di una giustificazione della non esecuzione di una sentenza contro un ente pubblico con la carenza di fondi; ammette un ritardo nell’esecuzione, purché non vanifichi l’essenza del diritto protetto; ancora, la più appropriata forma di ristoro nel caso di inesecuzione è che lo Stato garantisca la piena esecuzione delle sentenze ineseguite, mentre causa disagio, ansietà e frustrazione la protratta inesecuzione di una sentenza definitiva.
Quale principio di civiltà di grande importanza si rileva quindi che lo Stato deve sempre e comunque adempiere le proprie obbligazioni, senza costringere il privato pure ad azioni esecutive una volta conseguito il titolo in sede di cognizione. I debiti dello Stato (e della pubblica amministrazione a quello riconducibile) vanno (o andrebbero …) quindi sempre pagati e per di più in modo automatico.
3.4. Legittimità del sistema di indennizzi Pinto in relazione ai tempi di adempimento.
Nonostante il carattere generale delle affermazioni della sentenza CtEDU Bozza in punto di unitarietà delle fasi di cognizione e di esecuzione, con conseguente sconfessione del diverso approdo delle Sezioni Unite del 2016, la pronuncia del 2019 applica quelle conclusioni, rivedendo quest’ultimo precedente, esclusivamente per il sistema di indennizzi Pinto. Fermo quindi l’approdo del 2016 – di per sé contrario alla giurisprudenza di Strasburgo – sulla ricostruzione secundum eventum (ovvero voluntatem actoris, con istituzionalizzazione in sede processuale di una sorta di condizione si voluero che desta qualche perplessità) della unitarietà o meno delle due fasi, almeno quando debitore condannato è lo Stato ed almeno quando il titolo della condanna è un decreto ex lege Pinto l’unitarietà non può essere messa in discussione.
L’unitarietà delle due fasi non esclude però la necessità di isolare, dal contesto dell’indennizzo ex lege Pinto ed in relazione al concreto contenuto della disciplina nazionale da questa posta, il periodo tra la definitività del provvedimento di condanna e l’inizio del procedimento esecutivo: periodo che fonda sì un diritto della parte vittoriosa ad un indennizzo, ma per la condotta renitente della controparte e non per la pendenza in sé del procedimento giurisdizionale e quindi per una mancanza dello Stato nell’approntamento di una tutela efficace, tanto che, per tale intervallo, in difetto di previsioni normative specifiche nella l. 89/2001, ogni ragione è rimessa esclusivamente alla cognizione della Corte europea (si vedano le sette sentenze delle SS.UU. del 2014, riprese e confermate al punto 9.37 della sentenza del 2019, in richiamo di CtEDU 21/12/2010, Gaglione e a. c. Italia, che ne ha riconosciuto la ricorribilità immediata innanzi alla Corte di Strasburgo in ragione di € 200 à forfait, senza dovere proporre un autonomo giudizio in ambito interno).
Pertanto, unitario è il procedimento, ma non tutto il tempo dal suo inizio alla sua conclusione rileva ai fini dell’indennizzo ex lege Pinto, dovendo, dalla durata indennizzabile, detrarsi quello tra la conclusione del giudizio di conclusione e l’inizio del processo esecutivo (o del giudizio di ottemperanza): ciò che, una volta correttamente individuato quest’ultimo ai sensi dell’art. 491 cod. proc. civ. con il pignoramento, esclude la rilevanza, sempre ai fini della legge Pinto, sia del termine dilatorio normalmente riconosciuto al debitore pubblico per pagare (di sei mesi e cinque giorni), sia di quello di 120 giorni imposto dalla disciplina speciale (di cui all’art. 14 d.l. 669/1996 cit.).
4. Le molte luci delle sentenze del 2019.
Con amarezza si constata quante risorse vanno profuse nell’elaborazione di un sistema assai complesso di tutela dai ritardi nella Giustizia, che si fa sempre più intricato e complicato, ad allontanare o rendere sempre più difficile il conseguimento di quella tutela, pure limitata al solo ed insufficiente momento risarcitorio: e va riconosciuto alle pronunce delle Sezioni Unite 19883 e ss. del 2019 di avere contribuito in direzione di una maggiore effettività di quella tutela, con la riaffermazione di importanti principi generali, che pure non si sarebbero mai voluti rimessi in discussione.
Alla tendenziale linea di continuità con le pronunce del 2014, quelle del 2019 affiancano la peculiarità di discostarsi almeno in parte dall’arretramento del 2016 e di ripristinare così la conclusione sull’unitarietà delle due fasi, di cognizione ed esecuzione in ragione della reciproca interdipendenza ed indefettibilità, sia pure con riguardo allo speciale caso di creditore nei confronti dello Stato per ottenere l’indennizzo per irragionevole durata di altro precedente processo, ai sensi della legge Pinto.
La conclusione ha l’indubbio pregio di riallineare, quanto meno nella tematica dell’equa riparazione ex lege Pinto, la giurisprudenza nazionale a quella convenzionale, come pure quello di ribadire la missione della prima di comprimaria consapevole però della tendenziale sovraordinazione della seconda in tema di tutela di diritti fondamentali oggetto della Convenzione.
Ma ha, ancora, l’indubbio pregio di ribadire concetti importanti, che nell’attuale contesto storico paiono perfino rimessi in discussione, cioè l’assoluta indefettibilità della tutela esecutiva (con la preziosa precisazione dell’equiparazione, ai fini dell’effettività della tutela del diritto, al processo esecutivo pure del giudizio di ottemperanza) e l’insostenibilità dell’inottemperanza dello Stato alle proprie obbligazioni.
È bene che sia stato ribadito come tale soggetto (ad esso ricondotto ogni ente definibile come amministrazione pubblica e cioè partecipe dell’esercizio di pubblici poteri), proprio per la sua posizione nell’ordinamento giuridico, sia più di ogni altro tenuto ad adempiere puntualmente le proprie obbligazioni, ad evitare l’insanabile contraddizione della violazione delle regole da parte di quei soggetti investiti della potestà – e quindi del potere, ma anche del dovere, istituzionale – di farle rispettare.
Va quindi salutato con estremo favore l’intervento del 2019: dal quale non ci si poteva attendere di più, per il concreto ambito della controversia devoluta alle Sezioni Unite.
Del resto, critiche molto più radicali potevano essere mosse al precedente approdo del 2016, di rimessione dell’unitarietà delle due fasi alla volontà della parte: approdo in forza del quale finiva elusa la limpida nettezza del principio, per il quale non solo le obbligazioni si rispettano ma soprattutto lo Stato le rispetta senza bisogno di altri oneri per il malcapitato suo creditore; approdo giustificato in nome della preponderante necessità di ovviare a timori evidentemente inveterati e radicati in un autentico malcostume nazionale, essendo state invocate le esigenze della certezza del diritto e del contrasto agli abusi.
Eppure, probabilmente già in quella sede la cristallina chiarezza della conclusione convenzionale sulla necessaria unitarietà delle fasi di cognizione e di esecuzione avrebbe potuto essere mantenuta, visto che gli abusi o i ritardi nell’attivazione della tutela esecutiva (o di ottemperanza) avrebbero potuto trovare adeguata prevenzione, con l’esclusione dei relativi periodi, in applicazione dei principi generali di non riconoscimento del danno ascrivibile alla condotta del danneggiato o di limitazione di quello in caso di concorso della sua condotta colposa.
5. Qualche considerazione conclusiva.
Un passo in avanti importante, dunque, ad opera delle pronunce del 2019, sulla strada del superamento dell’arretramento del 2016 rispetto alle conclusioni della giurisprudenza di Strasburgo.
Anche i primi commenti, dando doverosamente atto alle pronunce del 2019 di essersi mantenute entro i limiti della giurisprudenza convenzionale e del pregresso quadro normativo e giurisprudenziale nazionale, hanno auspicato, ma appunto de iure condendo, sanzioni più stringenti ed efficaci di quella, irrisoria perché contenuta nella forfetaria liquidazione in 200 euro e per di più dinanzi alla Corte di Strasburgo, che attualmente ne risulta applicabile in caso di protrazione dell’inerzia dello Stato inadempiente oltre il termine di sei mesi e cinque giorni per l’esecuzione spontanea del decreto in tema di indennizzo ex lege Pinto.
La conclusione è, comunque, non precisamente consolante: nella perdurante attesa di un Godot inteso quale efficace intervento sulle ragioni del fenomeno, ingentissime risorse – normative ed interpretative e quindi processuali – sono profuse nell’elaborazione sempre più intricata e complessa – quando non propriamente contorta – di un sistema volto a ristorarne almeno in parte le conseguenze negative, per di più afflitto da una cronica insufficienza di risorse finanziarie.
Anziché intervenire sulla struttura del sistema per tentare di impedire gli effetti del dissesto, si agisce quindi per contingentare e limitare quanto dovuto dallo Stato, incapace di realizzare un sistema Giustizia adeguato, per indennizzarli.
Se si concede il parallelo, è come se, dinanzi ad una rete stradale accidentata e fonte di innumerevoli gravi incidenti, la maggior parte degli sforzi sia dedicata non a rifare la rete stradale in modo che gli incidenti più non si verifichino, ma a regolare i risarcimenti, predeterminandoli e contenendoli, ma pure rendendo sempre più arduo, per il danneggiato loro creditore, conseguire effettivamente quel solo pecuniario ristoro.
È come preferire all’impegno di una riforma strutturale del sistema, probabilmente ritenuta fuori portata, la rassegnata accettazione della necessità di fronteggiare alla meno peggio il risarcimento talvolta poco più che simbolico delle sue inefficienze.
È tipica della realtà nazionale un’elaborazione raffinatissima, quasi sterminata, di casistiche e fattispecie, l’introduzione di termini decadenziali, impedimenti e cautele, di distinguo, di caveat, di eccezioni, di precisazioni, che rendono il soggetto creditore, danneggiato dalla violazione da parte dello Stato del suo diritto fondamentale alla ragionevole durata del processo, protagonista di un’autentica avventura giudiziaria – verrebbe da dire quasi un “Camel Trophy®” giudiziario – al cui esito sperare di imbattersi nella favolosa Arca o nel Vello d’Oro di un obolo ottriato a compensazione di ogni danno derivato dalla stessa cronica ed insanabile inadempienza dello Stato.
Eppure, nonostante tutto, la ricchezza delle elaborazioni e la sensibilità di tanti tra gli operatori e gli interpreti ancora consentono di confidare nello Stato di diritto e nella loro capacità di impegnarsi efficacemente per esigerne e conseguirne la realizzazione, nel quadro dell’effettività di una tutela multilivello dei diritti fondamentali affidata sempre più ad un proficuo dialogo tra le Corti di volta in volta coinvolte. In questa consapevolezza e con questo impegno, da rinnovare giorno dopo giorno, occorre mantenere costante l’attenzione di ognuno.
Quest’articolo è una fotografia in una libera cornice.
Ed è scritto per Catanzaro e per i magistrati del Tribunale di Catanzaro.
Colleghi, amici e bravissimi magistrati di un’altra Italia.
Sommario: 1. Catanzaro. Città vertiginosa - 2. Catanzaro “non è bella” - 3. Il Tribunale - 4. Un Tribunale distrettuale in strutturale difficoltà - 5. Litigiosità, criminalità, bisogno di giustizia - 6. Il Tribunale distrettuale più giovane d’Italia - 7. Un Tribunale dalla pianta organica non distrettuale- 8. Un Tribunale debole - 9. Un Tribunale in fuga - 10. Un Tribunale senza aspiranti - 11. Un Tribunale in movimentazione. – 12. Tribunale di un’altra Italia
1. Catanzaro. Città vertiginosa
Catanzaro. Città vertiginosa. Ha scritto François Lenormant.
L’archeologo – studioso delle antichità nell’Italia meridionale – è stato uno dei pochi viaggiatori del passato, giunti in città, a lasciare un significativo segno del passaggio.
Città particolare, Catanzaro. Come particolare è il rapporto con quei viaggiatori che con spirito diverso, in qualche modo, l’hanno affrontata.
C’è stato il viaggiatore tradizionale che davvero si è fermato a Eboli. Goethe, Dickens, Montesquieu, per citarne solo alcuni, per cui il Grand Tour vedeva nelle terre campane il limite del Mezzogiorno, anche come punto d’imbarco per la Sicilia, senza alcuna considerazione dell’altrove meridionale.
C’è stato il viaggiatore eccentrico, pur arrivato nelle Calabrie, ma non così eccentrico da raggiungere Catanzaro. Escher, Dumas padre, ad esempio.
C’è stato il viaggiatore realista – Douglas, Piovene, Swinburne, Strutt, Saint-Non, ad esempio – che, ancor più eccentrico, a Catanzaro è arrivato, portando con sé il proprio realismo e non sempre troppe lusinghe.
E c’è stato il viaggiatore immaginario che Catanzaro, e la Calabria, ha solo immaginato. È Stendhal che ha pur scritto di un viaggio mai compiuto e citato Catanzaro – il cui nome pare lo affascinasse – in un episodio della Certosa di Parma (cap. XXVI).
E poi c’è il magistrato, contemporaneo viaggiatore nella giurisdizione.
Immaginario nell’immaginare Catanzaro dopo averla scelta, per caso o necessità, nella grande sala di un hotel di Roma. Tradizionale nell’immaginarla come una sventura. Realista nel giudicarla, senza indulgenza, una volta arrivato e tutte le volte in cui deve tornarci. Eccentrico, alla fine, nel giudicarla con affetto quando va via.
2. Catanzaro “non è bella”
“Non è bella” ha scritto, di Catanzaro, Dominique Vivant Denon, aggiungendo che “non ha niente che possa destare curiosità”. Lo scrittore e diplomatico francese – era il 1778 – ha lasciato la traccia di un leggero pregiudizio estetico che, seppur in senso diverso, accompagna ancor oggi la fama della città.
Dall’alto dei suoi colli, con l’aria sempre battuta da un vento incessante e la bella vista sullo Jonio e sulla Sila, Catanzaro è davvero una vertigine. Di cemento, disordine architettonico e urbanistico. È un labirinto di strade colme di auto, di molti avvocati e pochi giovani. Da una parte la marina, dall’altra la città storica, nel mezzo – non i Giardini delle Esperidi, immaginati da Gissing – i quartieri dell’abbandono e un’isola costituita dalla Regione e dal Polo Universitario. E poi, ancora, altre propaggini e isole edilizie. È una città divisa, scomposta e ricomposta come in un singolare décollage, che ha cancellato le tracce migliori del suo passato completando l’opera iniziata dai terremoti e cesellata dalla guerra.
“Sono stato più volte a Catanzaro e ho avuto sempre la stessa sensazione. Catanzaro, come tutte le città burocratiche, è una città un po’ triste e deprimente. Infatti, malgrado si trovi in un posto molto bello e piacevole, la carenza di uno sviluppo urbanistico organico, per la mancanza di un piano regolatore, le conferisce un aspetto un po’ caotico e confusionario, ma sempre grigio ed amorfo, cosa che del resto avviene in moltissime altre città italiane”. Ha detto Pasolini.
“Et voilà Catanzaro!, c’est extraordinaire!” ha detto invece Marc Augé, il celebre antropologo dei “non luoghi”, in visita in città.
Perché Catanzaro non è così male come la prima impressione afferma e l’ultimo pensiero suggerisce. Ha il bizzarro fascino di quell’altra bellezza.
Un ponte audace e maestoso nella sua unica arcata, un tunnel che rompe la rupe e subito dopo una gigante rotatoria a forma di occhio che sovrasta una vallata. Sono le immagini che accompagnano l’ingresso in una città intrisa di altri ponti, altri palazzi, altri tunnel, altre rampe. Catanzaro ha il senso delle impalcature, si sale sempre e verso qualcosa che non è evidente ma che è evidentemente incompiuto. Frequentate chiese barocche, palazzi decadenti e i pochi resti delle antiche porte, viuzze e piazzette strette e nascoste, il Convitto Galluppi, la cucina di Salvatore, l’Arcivescovado, Bellavista, Case Arse e il complesso di San Giovanni, sono l’anima storica di una città che ha un corpo d’arte contemporanea la cui fisionomia unisce Mimmo Rotella, Altrove Festival, “U Ciaciu”, il lungomare mosaicato di Mendini, i piatti di Abbruzzino, il Politeama di Portoghesi, l’arte pubblica di decine di muri dipinti da grandi artisti, l’Aria dei vetri di Borondo, il Marca e le sculture del Parco della Biodiversità.
E poi c’è quel che resta del paesaggio. "…La città è sita sovra un monte in mezzo della Calabria: dietro le spalle le van sorgendo altri monti sino alla gran giogaia della Sila, che di verno si vede coperta di neve, e su la neve sorgono nereggianti i pini: dinanzi le sta un vastissimo terreno ondulato di colline che sono sparse di giardini, di orti, di case, di vigne, di oliveti, d’aranceti, e di pascoli dove biancheggiano armenti: e tutto quel terreno si curva in arco sul mare Ionio che tra i capi Rizzuto e Badolato forma il golfo di Squillace. Il mare è distante da la città sei miglia, ma ti pare di averlo sotto la mano, e ne odi il fragore...". Ha scritto Settembrini.
3. Il Tribunale
Arrampicato su uno dei tanti costoni della città, il Tribunale lo scorgi immediatamente, appena giunto sull’occhiuta rotatoria. Il color ocra pallido dell’alto edificio originario è accompagnato dal grigio e dal vetro dell’edificio nuovo, sorta di architettonico container, che ormai da molti anni sta per aprire, senza aprire mai.
Rampe stradali e la linea di una ferrovia cingono l’edificio fino quasi a toccarlo mentre due logore bandiere campeggiano nel piazzale d’ingresso – anticipato dall’azzurro stinto dei piloni dell’ennesima sopraelevata – dove una grigia intitolazione prova a ricordare Francesco Ferlaino.
Il frequentato interno non è dei peggiori, anche se gli spazi non abbondano, così come i servizi. Per quasi un anno senza un servizio bar, per oltre un anno senza riscaldamento né aria condizionata. Mancano aule adeguate e attrezzate per la trattazione dei numerosi maxiprocessi e dei processi che richiedono la video conferenza (ve ne sono sole due, una delle quali posizionata in luogo diverso dalla sede del Tribunale) e mancano gli spazi per la conservazione della documentazione. Non ci sono stanze per tutti i magistrati, la maggior parte sono condivise, anche nell’innovativa formula “per giorni alterni” o nella tradizionale, ma rivisitata, formula dell’open space. Poco più in là del Tribunale c’è la Corte d’Appello, che ospita anche i locali della Procura.
Antica realtà giurisdizionale, già nel Seicento luogo della Regia Udienza, Catanzaro è stata la sede d’importanti processi – Piazza Fontana, “il processo dei 117” – di fragorosi scandali – come la “guerra tra le Procure” o l’affare degli esami per avvocato – di una classe forense storica e signorile, di moltissimi magistrati, alcuni dei quali sufficientemente noti anche al grande pubblico.
4. Un Tribunale distrettuale in strutturale difficoltà
Alla domanda su quale sia il capoluogo della Calabria non sempre si risponde, almeno immediatamente, “Catanzaro”.
Altrettanto spesso qualcuno dimentica che Catanzaro è sede distrettuale.
Distretto, estesissimo, che include sette circondari per quattro province (Vibo Valentia, Paola, Cosenza, Crotone, Castrovillari, Lamezia Terme), oltre trecentotrenta Comuni e un bacino d’utenza di oltre un milione e centomila soggetti (superiore a quello di Distretti come Bari, Catania, Reggio Calabria, Salerno e Messina)[1]. Realtà difficili per contenzioso e situazione socio-economica e con scoperture importanti che vanificano l’esistenza di qualsiasi rimedio endodistrettuale.
Il Tribunale è strutturato in tre sezioni penali (Dibattimento, Riesame, GIP, GUP) e in due sezioni civili (una delle quali inclusiva del settore lavoro e previdenza).
Catanzaro è, ad oggi, il Tribunale distrettuale con la maggiore scopertura di organico.
Il dato formale, in disparte il posto vacante da Presidente, conta una scopertura del 24% per la presenza giuridica di 32 giudici sui 42 previsti dalla pianta organica (che prevede anche 5 semidirettivi e due giudici del lavoro). Il dato, estratto da Cosmag, include la fittizia presenza di un collega trasferito d’ufficio (e contestualmente sospeso) dal CSM, proprio a Catanzaro, dove mai ha messo piede e che, dopo aver subito una condanna per corruzione, ragionevolmente non farà più parte, e nemmeno fittiziamente, della pianta organica catanzarese.
La scopertura, quindi, senza contare i magistrati in congedo per maternità o assenti per altri motivi, è del 26% (contando i 31 magistrati in servizio).
La difficoltà del Tribunale di Catanzaro è strutturale, non contingente, e si ripete nel tempo. Difficoltà, non confinata al solo dato della pianta organica, riflessa nell’affanno della giurisdizione e della popolazione, basata su più fattori che – sebbene comuni a molte realtà giudiziarie – interpretati nel contesto socio-economico di riferimento rilevano una consistenza che non è solo numerica.
5. Litigiosità, criminalità, bisogno di giustizia
Il tasso di litigiosità del territorio è elevato e colloca Catanzaro tra i Tribunali più gravati d’Italia.
Per quanto riguarda la giustizia civile, i più recenti dati tratti dal sistema DWGC (datawarehouse della giustizia civile) del Ministero dello Giustizia, relativi al 2018, indicano oltre 21mila sopravvenienze, oltre 24mila pendenze finali e un clearance rate in tendenza negativa. Catanzaro, deve esser inoltre rilevato, assorbe il numeroso contenzioso connesso alla presenza del governo dell'ente regionale e delle numerose aziende regionali. L’indice di litigiosità elaborato dal Sole24 ore (e fondato sul rapporto tra cause iscritte e abitanti) colloca la zona catanzarese, negativamente, al quarto posto in Italia. Medesima posizione negativa occupa per quanto riguarda la durata media dei procedimenti civili. La percentuale delle cause pendenti ultratriennali sul totale delle pendenze vede la provincia catanzarese, sempre negativamente, al sesto posto.
Il Tribunale di Catanzaro esercita la giurisdizione, naturalmente anche con competenza distrettuale, su un territorio caratterizzato dalla forte presenza della criminalità organizzata.
Per quanto riguarda la giustizia penale quindi – la cui particolarità sul territorio calabrese è tanto nota quanto ovvia – è sufficiente evidenziare un solo e significativo dato, tratto dalla Relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno delle mafie (2016), in cui si sottolinea la presenza in Calabria di circa 160 organizzazioni mafiose per quasi 4.400 affiliati di cui oltre la metà (circa 2.300) concentrati nel distretto di Catanzaro. E il Distretto catanzarese è il più grande per bacino di utenza (e affiliazione criminale) dopo quello di Napoli e Palermo.
I numeri della giustizia catanzarese sono solo in parte un peso da smaltire. Sono la manifestazione di un disagio sociale da comprendere e di un intenso bisogno di giustizia e legalità, per moltissimi versi inespresso[2], da soddisfare, per questo, nel migliore dei modi possibili. “Sono pochi i paesi d’Italia che abbiano conosciuto meglio della Calabria l’ingiustizia, il sopruso, la violenza: eppure, forse per ciò, questa regione tiene al sommo del suo carattere il senso del diritto e del torto”, ha scritto Alvaro.
6. Il Tribunale distrettuale più giovane d’Italia
Catanzaro è in proporzione all’organico – e considerando come parametro la valutazione di professionalità – il Tribunale distrettuale più giovane d’Italia.
Il Tribunale, come detto, conta una pianta organica di 42 giudici (più 2 giudici del lavoro). Al settembre 2019 conta 31 magistrati (oltre i due giudici del lavoro) di cui: quindici sono in attesa della I valutazione di professionalità; dieci hanno la I valutazione di professionalità; tre hanno la II valutazione di professionalità; uno la III e due la IV valutazione. Circa l’80% dei magistrati hanno la I valutazione o ne sono in attesa (a Reggio Calabria il dato si “ferma”, per così dire, a circa il 70%). Cinque giudici con la I valutazione di professionalità hanno ottenuto il trasferimento in altri uffici nel corso del 2019.
I giudici in attesa della I valutazione costituiscono l’intera Sezione Riesame e – salvo un giudice di I valutazione – l’intera Sezione Dibattimento. La Sezione GIP-GUP conta magistrati in attesa della I valutazione e con la I e II valutazione. I giudici di prima nomina provengono da diverse regioni: Lazio, Puglia, Lombardia, Emilia-Romagna, Campania, Piemonte.
La “giovinezza” che connota il Tribunale di Catanzaro è la sua debolezza e la sua forza. È debolezza perché è causa di un incessante e instabile andirivieni mai oggetto di programmazione né generale, né specifica. È forza perché nel Tribunale, fino all’orario di chiusura e anche fuori dalle sue mura, c’è l’intensità e la freschezza di un gruppo di colleghi che danno il meglio per la loro giurisdizione.
7. Un Tribunale dalla pianta organica non distrettuale
Catanzaro continua ad avere una pianta organica inadeguata.
Il recente allargamento di dieci unità, andato a colmare un’inadeguatezza da anni nota e manifesta, è stato totalmente vanificato, e in brevissimo tempo, dall’accentramento in sede distrettuale delle misure di prevenzione (per cui non vi è un numero di magistrati adeguato per comporre un collegio specializzato, nonostante nel corso del periodo 2017-2018 vi sia stato un incremento del 84% delle richieste di misure di prevenzione e del 168% dei controlli giudiziari) e di quello della protezione internazionale (per cui ad oggi non c’è stata neppure la rinnovazione dell’interpello per il posto extradistrettuale). Accentramento che si è aggiunto alle competenze distrettuali del tribunale delle imprese, all’aumento del carico di lavoro della Corte d’Assise (inclusiva dei distretti anche di Lamezia, Crotone, Vibo Valentia) e che è stato accompagnato al contestuale rafforzamento dell’Ufficio di Procura. Un allargamento numerico della pianta organica reso comunque inefficace dagli incessanti trasferimenti in uscita e dalla scarsa attrattività dell’ufficio per i trasferimenti in entrata.
8. Un Tribunale debole
Catanzaro è un Tribunale che poggia su un’amministrazione fragile di personale e risorse e che si rapporta sia con un’Avvocatura numerosa e con scarso reddito, sia con una Procura della Repubblica strutturata e attiva.
Per quanto riguarda il contrappeso costituito dall’Avvocatura, un dato appare significativo. La Calabria[3] conta 6,8 avvocati ogni mille abitanti[4] (5,9 ne conta la Campania, 4 è la media nazionale), il numero più alto tra le regioni italiane. Avvocati il cui reddito medio è inferiore del 56% alla media nazionale, ovvero il dato più basso tra le regioni italiane. Un altro dato, tratto dal sistema statico ministeriale, aiuta a cogliere ancora meglio la situazione. Gli onorari ai difensori nel Distretto di Catanzaro, a carico dell’erario e per il 2018, hanno superato i 20milioni di euro collocando lo stesso per spesa al sesto posto in Italia dopo Milano, Roma, Catania, Torino, Palermo.
La Procura della Repubblica di Catanzaro – dopo l’arrivo dell’attuale Procuratore, vero e proprio attrattore giurisdizionale di personale e mezzi – conta 22 sostituti procuratori sui 24 previsti dalla pianta organica (oltre tre aggiunti), di cui quasi la metà destinati alla Direzione Distrettuale Antimafia. Una scopertura, ad oggi relativa, a fronte di un passato recente che ha visto l’ufficio in grande sofferenza. Una Procura giovane – il cui settore ordinario è strutturato essenzialmente sui magistrati di prima nomina – che ultimamente ha visto plurimi trasferimenti in entrata dopo che, per tanti anni, al pari del Tribunale, i bandi sono andati deserti. La Procura di Catanzaro può dirsi debole se raffrontata con altre Procure Distrettuali, anche della medesima Regione, ma costituisce una struttura comunque solida rispetto al Tribunale.
L’organico amministrativo del Tribunale di Catanzaro – la cui professionalità sfata il pregiudizio, ricorrente e negativo, del pubblico impiegato meridionale – sconta, al pari dell’organico giudiziario, gravi carenze connesse all’atavico sottodimensionamento della giurisdizione catanzarese. Gli ultimi dati a disposizione, estratti dal programma di gestione e sempre mobili, indicano una carenza del personale di cancelleria superiore al 50%, oltre alla carenza del 17% per la figura di funzionario giudiziario.
9. Un Tribunale in fuga
Dal Tribunale di Catanzaro in molti vanno via, costantemente.
I magistrati di prima nomina, che non appartengono al territorio catanzarese, vanno via perché, stanchi di un pendolarismo scomodo e a lungo raggio, si riavvicinano ai propri affetti lontani da tempo. Vanno via perché stufi, dopo aver vissuto il disagio, di un Tribunale che dal disagio non riesce a liberarsi. Vanno via perché avere una parte di vita, in un altro e lontano luogo, significa destinare un terzo dello stipendio per questo. Vanno via perché l’incentivo “a restare” esistente – ovvero il punteggio per la sede a copertura necessaria, non previsto nemmeno per tutti – è una misura fallimentare, in alcun modo compensativa. E per comprendere meglio l’incentivo “alla fuga” basta la semplice notazione che i magistrati che lasciano Catanzaro raramente ottengono, in sede di trasferimento, la sede realmente ambita[5] e si accontentano, comunque, della sede a questa più vicina.
I magistrati che appartengono al territorio, al di fuori di scelte legate ad aspirazioni professionali, vanno via per le condizioni lavorative disagevoli e perché la continua fuoriuscita di magistrati conduce a costanti vuoti d’organico, e quindi a costanti spostamenti interni che tentano di rattoppare una coperta che non solo è troppo corta ma anche troppo bucata. Vanno via in Tribunali limitrofi o della stessa città, in sedi disagiate della Calabria, in Corte d’Appello (per cui basta davvero poca anzianità).
Alcuni dati aiutano meglio ad inquadrare la situazione. Nel solo corso del 2019 hanno ottenuto il trasferimento da Catanzaro 7 giudici, di cui 5 con la I valutazione di professionalità; dal 2015 al 2019 sono stati assegnati al Tribunale 28 giudici di prima nomina (con la considerazione che la pianta organica, in precedenza, contava trentadue giudici) e nello stesso periodo almeno dieci giudici del Tribunale sono passati in Corte d’Appello o in uffici limitrofi.
10. Un Tribunale senza aspiranti
Al Tribunale di Catanzaro nessuno vuole andare.
E nessuno vuole andare perché se il giudice non appartiene al territorio non ha motivo di andare in una realtà lavorativa disagiata. Perché se appartiene al territorio, Catanzaro l’ha ottenuta, subito, in sede di prima scelta. E perché vi è un lungo elenco di ragioni che richiederebbero un altro tipo di scritto.
Un dato aiuta a capire. Dal 2010 al 2019, con i bandi di tramutamento ordinario, sono stati pubblicati oltre 35 posti ordinari per il Tribunale di Catanzaro e, sempre nel corso di tale periodo, i tramutamenti in entrata sono stati solo 3 (uno nel 2011, uno del 2013, uno nel 2017 che ha interessato un giudice del lavoro, sempre del Tribunale di Catanzaro, che è passato all’ordinario).
Le applicazioni extradistrettuali difficilmente sono coperte, perché a causa della situazione effettivamente disagiata del Tribunale, della posizione geografica della città e della situazione logistica che non consente un pendolarismo agevole, i vantaggi economici dell’applicazione sono neutralizzati dai costi e dal peso tangibile del lavoro (in particolare se l’applicazione ha ad oggetto posti come quelli dell’Ufficio GIP-GUP o del Riesame in cui, a differenza di altri settori, l’attività anche solo per sei mesi è davvero effettiva e consistente).
11. Un Tribunale in movimentazione
Catanzaro conosce una continua, e necessitata, rotazione sui ruoli che determina rallentamento e confusione nella gestione dei procedimenti, sia frustrazione per la professionalità dei magistrati.
Il movimento segue sempre la medesima intonazione ed ha cadenza quasi annuale.
La Sezione GIP-GUP (composta astrattamente da undici magistrati) manifesta le scoperture più frequenti e importanti dovute ai trasferimenti dei colleghi verso altri tribunali o verso la Corte d’Appello (ad esempio, solo nel corso del 2019, si sono trasferiti ad altra sede quattro magistrati assegnati alla Sezione). L’immediata necessità della copertura – anche per mantenere il necessario rapporto di proporzionalità con la Procura – porta ai primi tramutamenti interni che, volente o nolente, in base alla normativa vigente, coinvolgono i magistrati del Dibattimento e del Riesame. Sezioni che, a loro volta in difficoltà (a causa dei tramutamenti al GIP-GUP, ad esempio, il Dibattimento è stato costretto a mutare nell’ultimo biennio plurime volte i due collegi esistenti e quello d’assise), vedono l’assegnazione dei magistrati del settore civile, che quindi rimane inevitabilmente scoperto, salvo la fortunata coincidenza dell’ingresso di magistrati di prima nomina.
12. Tribunale di un’altra Italia
“Qui nacque il nome Italia”. È scritto su un cartellone di benvenuto, sufficientemente consumato da passare inosservato, all’ingresso della città. Un’interpretazione leggendaria, in tante versioni narrata, ne vuole l’origine in un vocabolo con il quale i greci designavano la popolazione stanziata nei pressi dell’odierno abitato.
Una volta vista e confrontata la realtà giurisdizionale catanzarese, dell’Italia, al Tribunale di Catanzaro, sembra rimasto a mala pena il nome. Senza troppe parole, basterebbe ricordarne la collocazione geografica. Perché Catanzaro non è un tribunale del sud Italia, ma un tribunale che sta nel meridione del sud Italia, in Calabria.
I problemi del meridione si riflettono sulla giurisdizione, certo. La giurisdizione è, in modo biunivoco, parte del problema del meridione. Debole e claudicante, è sia componente del problema, sia ostacolo alla soluzione delle altre sue parti. E tanto perché, in modo forse più intenso che da altre parti, c’è bisogno di vedere, di sentire, la legalità e la giustizia, oltre i proclami e soliti stilemi. Una giustizia che è pure civile, e non solo penale, anche se si parla di Calabria e anche se si parla di ‘ndrangheta. Perché la disperazione più grave che possa impadronirsi di una società – ha scritto Alvaro, che a Catanzaro ha vissuto e studiato – è il dubbio che vivere rettamente sia inutile.
Soluzioni immediate alle problematiche che affliggono il Tribunale di Catanzaro non sono facili da immaginare. Tre desideri si possono però pur sempre esprimere.
Il primo è un desiderio di continuità.
La soluzione ai mali del Tribunale di Catanzaro è da sempre l’iniezione, massiva e consistente, di magistrati di prima nomina. Palliativo con effetti limitati che manifesta la sua fragilità non appena i magistrati maturano la legittimazione al trasferimento[6]. Il turn over è tale se vi è effettivo avvicendamento e quindi contestualità tra entrate e uscite. E nel caso del Tribunale di Catanzaro, dove tra uscite ed entrate vi è asimmetria numerica e temporale, non è possibile parlare di turn over. Il desiderio è quello che a Catanzaro si possa parlare effettivamente di turn over. E questo appare possibile solo creando dei nuovi incentivi “a restare” effettivamente compensativi ovvero applicazioni dotate di flessibilità temporale, determinate per il caso specifico, al fine di consentire il passaggio di consegne tra magistrati di prima nomina che vanno via e magistrati di prima nomina che arrivano.
Il secondo è un desiderio di trasparenza e diversificazione delle tutele.
Il Tribunale di Catanzaro, al pari delle altre sedi problematiche, richiede una tutela diversificata. I tribunali non in difficoltà sono tutti uguali, i tribunali in difficoltà sono tutti diversi, sono più fragili e richiedono una specifica attenzione e programmazione – a livello centrale e locale – che non può limitarsi al manifesto dei programmi di gestione. Il desiderio è la creazione di una banca data accessibile a tutti in cui vi sia una scheda per ogni ufficio, aggiornata con costanza, contenente i dati volti a chiarirne la situazione (scopertura, flussi di procedimenti, flussi di personale, statistiche, tabelle provvedimenti adottati, misure attuate dal Consiglio, programma di gestione, documento organizzativo generale, ecc.). Il desiderio è che il Csm esprima, motivatamente, le sue decisioni su tali basi – non su logiche di forza dei differenti uffici, come spesso accade – e che decida le azioni di ridistribuzione e collocazione delle forze anche sulla effettiva considerazione della serie storica dei flussi dei magistrati in entrata e uscita. Il desiderio è la previsione di canali procedimentali accelerati e privilegiati, di una valutazione dei dirigenti, in sede di conferimento e riconferma, che focalizzi l’attenzione sulle problematiche endemiche del singolo Tribunale e sulla loro gestione.
L’ultimo è un desiderio lessicale.
Il Tribunale di Catanzaro, assieme ai suoi sfortunati pari, è spesso definito di “frontiera”, per edulcorare con termine vagamente eroico, vagamente western, vagamente epico quello che è un reale problema di norme, organizzazione e risorse e non un immaginifico problema di confine fra realtà. Il desiderio è quello che non si parli più di Tribunale di frontiera, badando al concreto delle cose.
[1] Secondo i (non recenti) dati presenti su Cosmag. È interessante notare come, dai dati ministeriali relativi al 2018, il Distretto di Catanzaro risulti essere il sesto per peso delle spese di giustizia a carico dell’erario dopo Catania, Napoli, Palermo, Milano, Roma e Torino.
[2] Un dato è significativo e riguarda il lavoro sommerso, ovvero i diritti sommersi. La Calabria, secondo gli ultimi dati Istat elaborati dalla Ciga Mestre, presenta uno dei rapporti più alti in Italia tra popolazione residente e lavoratori in “nero” (146 mila per nemmeno 2 milioni di abitanti) e la più alta un’incidenza del valore aggiunto da lavoro irregolare sul Pil regionale (9,9%, quasi doppio rispetto al dato medio nazionale).
[3] Secondo i dati del Rapporto Censis 2018 “Percorsi e scenari dell’Avvocatura italiana”.
[4] L’Ordine degli Avvocati di Catanzaro conta 1735 avvocati e l’ultimo bacino d’utenza stimato conta circa 260mila soggetti. Si consideri inoltre che il limitrofo Ordine di Lamezia Terme conta 783 avvocati.
[5] Anche perché di base collocati nella parte bassa della graduatoria concorsuale e quindi sopravanzati, anche in sede di trasferimento, dai propri colleghi di concorso.
[6] Quattro dei cinque giudici (salvo l’unico giudice, che è calabrese) che hanno assunto le funzioni nel 2015 hanno ottenuto il trasferimento appena legittimati, lasciando un vuoto d’organico che, sommato agli altri trasferimenti subiti dal Tribunale nel corso del 2019, sarà probabilmente colmato solo nell’autunno 2020 con l’arrivo dei magistrati di prima nomina del d.m. 12 febbraio 2019 (che sceglieranno la sede di destinazione nella primavera 2020). Nell’autunno 2020 otterranno la legittimazione dodici magistrati del d.m. 18 gennaio 2016 il cui (ipotetico e per molti concreto) trasferimento verrà colmato solo dai m.o.t. dell’ultimo concorso che ancora debbono iniziare il tirocinio.
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