Babu
di Marco Guida
È alto oltre un metro e novanta, peserà al massimo 60 chili. Quando le guardie penitenziarie lo portano in aula e lo fanno accomodare nella piccola cella, è costretto a piegare la testa per passare sotto l’uscio della porta. È nero, nerissimo di carnagione: il bianco degli occhi impressiona per il contrasto con la sua pelle; ha i capelli con riccioli raccolti alla “rasta”, sguardo basso, le mani in avanti, quasi costrette in preghiera dalle manette.
Non sappiamo quanti anni abbia con esattezza, né dove sia nato: in Italia è già approdato diverse volte ed ogni volta ha dato un nome, una data di nascita, un luogo di provenienza differente. Non hanno fantasia gli immigrati, oppure i funzionari che raccolgono per primi le loro generalità e che, forse, non comprendendo la loro lingua cercano di esemplificare: moltissimi cittadini extracomunitari sono nati il primo gennaio, di un qualche approssimativo anno.
Il nostro Babu forse ha 19 anni, forse ne ha 25; forse è nato in Gambia, forse in Gabon; non sappiamo quando è arrivato, sappiamo con certezza quello che non ha: non ha niente, neanche un posto dove dormire.
Lo hanno beccato per la terza volta in pochi giorni a vendere hashish insieme ad un suo connazionale: la prima volta è stato processato per direttissima, ha preso dieci mesi di reclusione con la sospensione condizionale della pena, è stato subito scarcerato.
Dopo due giorni ci è ricascato, ma è stato denunciato a piede libero, un colpo di fortuna, ma quattro giorni dopo è stato nuovamente colto in flagranza di reato, mentre vendeva marijuana ad un ragazzo; gli hanno trovato altri venti grammi di marijuana; ha cercato di nascondere i soldi che aveva ricevuto, anzi si è mangiato una banconota da venti euro e lo hanno fermato mentre se ne stava mangiando un’altra.
Durante i primi giorni di detenzione ha tentato un gesto lesionistico.
Per quasi tutto il tempo se ne sta in un angolo della cella tenendo gli occhi bassi; quando solleva qualche volta la testa ha uno sguardo tristissimo, senza speranza: a 19 o a 25 anni quello sguardo è una sconfitta per il genere umano.
Noi non siamo la Croce Rossa, non siamo i servizi sociali, noi non possiamo aiutare, noi dobbiamo solo decidere se è pericoloso per la comunità, se è necessario che rimanga in prigione per evitare che torni a commettere altri reati, a vendere di nuovo droga.
Non puoi, però, evitare di pensare a quella oceanica tristezza: lo sappiamo bene, è il prezzo che dobbiamo pagare per avere scelto una professione che produce “decisioni”.
Non ha una casa. Se avesse una casa, se avesse un posto dove stare, ma non da solo, aiutato da qualcuno, probabilmente potremmo prendere un’altra decisione. Ma è solo, disperatamente, dannatamente solo e senza uno straccio di abitazione. Rimetterlo in libertà vorrebbe dire riconsegnarlo ai suoi aguzzini, a quelli che usano i disperati come manovalanza, per un piatto di pasta; vorrebbe dire rispedirlo alla sua disperazione. Il carcere purtroppo è l’unica alternativa.
Rigettiamo la sua richiesta di scarcerazione, invitando il suo attento e volenteroso difensore di ufficio a rivolgersi ai servizi sociali per cercare una collocazione alternativa.
L’interprete di lingua inglese, unica lingua che comprende un poco in alternativa alla sua lingua madre originale che non sappiamo quale sia, gli traduce la nostra decisione.
Babu, quel gigante nero, nerissimo, lungo e magro, si piega su se stesso e comincia a piangere.
Lacrime, senza singhiozzi o gemiti, scendono lungo le guance nere, dignitosamente, in silenzio.
L’aula in quel momento è gremita di gente, di avvocati ma il pianto dell’uomo invoca rispetto e tutti comprendiamo il dolore e la sofferenza.
Il silenzio, un angosciato e rispettoso silenzio, accompagna i passi stanchi dell’uomo nero venuto dall’Africa, passato per chissà quali e quanti mondi prima di approdare in quest’aula di tribunale dove gente bianca, sconosciuta, che parla una lingua per lui incomprensibile, ha deciso di togliergli l’unica cosa che gli rimaneva: la libertà.
FB 20.10.14