Joker
di Dino Petralia
Lacrime sul trucco allo specchio di uno squallido camerino di periferia. Sangue sul trucco in un pulpito urbano, re per una notte per un’orda umana solidale e inneggiante. Inizio e fine di una parodia filmica per un Joker che poco ha di burlesco e tanto invece di dolorosamente reale. Arthur Fleck, figlio psicotico di una madre psicotica che assiste e alimenta, sopravvive mutandosi in clown per attrarre clienti dal marciapiede di un locale commerciale di Gotham City, bat-metropoli isolana e isolata, contaminata dal più becero convenzionalismo dell’accordo sociale tra ricchezza e successo, tra conformismo e morale, dove il rifiuto urbano e umano è ghettizzato perché non attrae; e ridere di perbenistiche banalità è purificante diluizione del brutto. In Arthur, afflitto da una malattia mentale che germoglia su una ferita esistenziale, collidono senza accordo l’onnipotente sogno del bambino e l’adulta realtà sfregiata da una disillusione sociale, cinica e implacabile. Speranza/spettanza, angeli custodi e protettori del sogno, cedono così alla frustrazione di Fleck, rapidamente conducendolo, col concorso miope di un servizio socio-sanitario che gli espropria i buoni farmaci, lungo un itinerario di follia attiva che consentirà solo a Joker di ascendere al podio di una notorietà negata. Un’ascesa, in un’acuta sequenza filmica, destinata a trasfigurarsi nel suo opposto: la discesa danzata dalle scale cittadine. Il miliardario Thomas Wayne e l’anchorman televisivo Murray Franklin, icone ambedue del successo sociale, irridono a loro modo la diversità di Arthur, che al primo aveva chiesto conferma della presunta paternità idealizzata dalla mamma, sua ex collaboratrice, e dal secondo, per un ticchio di risate improprie, era riuscito a strappare una comparsa nel programma della sera. E la canzonano con la violenza di uno sprezzante ripudio (Wayne) e l’egocentrica perfidia di un uso televisivo dell’escluso come occasione plateale di scherno irriverente e patetico (Franklin). Una risata, quella di Arthur, indotta da un male misterioso, fuori tempo e fuori luogo, scomposta e rantolosa, ai confini di una logica sociale infastidita e respingente; una risata capace di attrarre curiosità nei bambini ancora illesi dalle spire del conformismo (la scena nella metro della mamma e del suo bimbo e quella del figlioletto di Wayne al di qua e al di là del sontuoso cancello residenziale) e allo stesso tempo d’invogliare sdegnosa violenza verbale e fisica (l’infame aggressione sempre in metro ad opera di rampanti yuppies della city). Una risata che va ricondotta allora al suo ordine naturale, ad una maschera che la giustifichi discolpandola. Una maschera buona, dunque, su una respinta. E’ Joker adesso, autorizzato a ridere, correre e ballare, propiziando l’odio rancoroso che nasce dai sogni spezzati, a convertirlo in riscossa sociale che, senza conati anarchici, Phillips punteggia sul modello di Travis Bickle (Taxi Driver), senza però lo smalto dell’originalità eternamente consacrata a Scorsese. Maschera che ridendo sanguina dei corpi di Wayne e Franklin, sanzionati per tutti gli emarginati con l’omicidio dei simboli che essi incarnano; maschera che, con micidiale silenzio e danze ascetiche di salvazione universale, spiega rancori e ingiustizie di una società che sprofonda nell’evanescente ectoplasma dell’apparenza; maschera, ancora, che ripete se stessa in tutti i suoi fans, propagandando propositi di libertà ed uguaglianza piuttosto che di ribellione. La fisicità deformata, acutamente estenuata per esigenze di contrasti, nel grandioso Joaquin Pheonix (Il Gladiatore, A Beautiful Day, The Master ed altri), la magistrale padronanza di un De Niro eternamente perfetto e la fotografia di Lawrence Sher sui territori umani e urbani completano la responsabilità di un film che, più che turbare e disturbare, con delicato impeto invita a togliere, non a mettere, la nostra maschera invisibile.
The Joker: un film per la magistratura tutta
di Andrea Apollonio
Per grandi linee, e al di là delle ipotesi colpose, si può delinquere: per lucrare, per conseguire un profitto o una qualsiasi utilità; per invidia o gelosia, o amore "malato" (ipotesi che mi sembra combacino nel loro movente di fondo); per puro sadismo; per esasperazione. In quest'ultimo caso, chi delinque fa improvvisamente saltare il tappo delle proprie repressioni, e lo fa in modo plateale. Anche per questo, viene considerato folle, o almeno incapace a contenersi, e - molto linearmente, senza troppo pensarci - riconduciamo alla sua psicosi le ragioni del crimine. D'altronde, è indubbio che molti di coloro che delinquono in queste forme siano davvero affetti da disturbi della personalità, da nevrosi e paranoie che, pure se certificati, non bastano quasi mai affinché il pubblico ministero inquirente ritenga fin da subito scriminata la sua condotta.
Fatta questa premessa di "diritto vivente" - almeno per come osservato attraverso l'esperienza quotidiana di chi scrive - rimane sempre un sub-strato della persona del tutto inesplorato, in quelle vicende delittuose che abbiano come protagonista il delinquente "esasperato". Non tanto ci si chiede cosa lo abbia portato a maturare i suoi disturbi, quanto piuttosto: qual è il retroterra del fatto? Come e perché il personale vissuto si è d'improvviso trasformato in crimine plateale? A dire il vero, l'asettico fascicolo che viene presentato al pubblico ministero (ne parliamo perché egli è il primo magistrato a "valutare" il delitto) non stimola quasi mai questi interrogativi; fortuna che, tra le tante funzioni del cinema, vi è anche quella di stimolare i giuristi, a contatto ogni giorno con un'umanità dolente.
"The Joker" è un film che nulla c'entra con la saga di Batman, salvo essersi - molto liberamente - ispirato a quel personaggio; un film che ci tocca molto più da vicino di quanto si pensi. Fa il paio con un altro grande capolavoro del cinema americano, che maggiormente ci disarma di fronte alla complessità del disturbo mentale che sfocia nell'esasperazione e nel crimine: "Qualcuno volò sul nido del cuculo" (1975), che di "The Joker" ricalca la storia e i messaggi. In entrambe le pellicole il protagonista è un emarginato che viene spinto a sopprimere l'altro per la cronica indifferenza con cui viene trattato, ed il tragico finale, in entrambi i film, certifica il fallimento della società nei confronti degli ultimi, che privi di reti sociali e terapeutiche adeguate, vanno fatalmente incontro al loro epilogo. Già il raffronto temporale tra i due film è impietoso, perché si può dire che a distanza di quarant'anni e oltre nulla sia davvero cambiato: gli ultimi, gli emarginati, magari con qualche disturbo di base, o qualche insuperabile paranoia od ossessione, sono lasciati a loro stessi: sono corpi fluttuanti in un ambiente senza gravità che prima o poi urteranno qualcosa con conseguenze imprevedibili.
Ma "The Joker" è un film anche più forte, anche più invasivo. Anzitutto perché le cose vengono dette con una tragica, cristallina chiarezza - ed in questo, si dimostra ben consapevole del messaggio principale di cui è portatore. Quando Joachin Phoenix si sente dire dalla psicologa che l'ha in cura: "Ho una brutta notizia, questo è l'ultimo incontro, il comune ha tagliato i fondi", il futuro "The Joker" risponde: "E adesso con chi parlo?"; e poi: "E adesso chi mi prescriverà le medicine?". Da lì a poco comincerà il suo percorso criminale. Forse ancora più eloquente la scena in cui lui commenta la sua terribile evoluzione (di cui pare sia consapevole - altro che malattia mentale): "Per tutta la vita, non ho mai saputo se esistevo veramente, ma esisto. E le persone iniziano a notarlo". Aveva appena ucciso (tre ragazzi ricchi e arroganti), per la prima volta, e per una distorsione mediatica, quel suo atto veniva acclamato, quasi come una forma di giustizia riparatrice, dalla fetta più arrabbiata e delusa di Gotham City.
Ed infatti Joker, l'assassino, il criminale, nasce dalla personale esasperazione di un soggetto disturbato, ma cresce e si sviluppa nel conflitto sociale: nella rabbia collettiva. A ben vedere, nulla poteva essere più vicino alla realtà: a Beirut, nelle manifestazioni in corso in questi giorni, i protestanti si sono dipinti la faccia come Joaquin Phoenix in "The Joker": e possiamo scommettere che questa trasposizione, dalla pellicola alla vita, non rimarrà un caso isolato.
Proprio perché il film non si colloca appieno nella Gotham di Batman (ma, piuttosto, in una New York anni Ottanta), non c'è alcun bilanciamento tra bene e male da mostrare, non essendoci un eroe ed un anti-eroe. Anzi, Joker è allo stesso tempo eroe ed anti-eroe, come tanti altri che, anche ai giorni nostri, nonostante il crimine sono esaltati dai media e sui social-network. L'indifferenza a monte ha paradossalmente prodotto un'indifferenza a valle ben più pericolosa anche perché collettiva: quella per il crimine, visto persino come crimine "giusto", inevitabile conseguenza dell'esasperazione.
Un film per gli arrabbiati, i delusi, gli esasperati; ed anche, un film che chiunque sia attaccato alla classica, vecchia, noiosa e polverosa idea di giustizia quale applicazione della legge, volta al superamento delle disparità e delle diseguaglianze - e degli ostacoli sociali: cfr. art. 3 Cost. - per evitare il prodursi di irreversibili conseguenze, dovrebbe vedere: un film per la magistratura tutta.