ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Ruggeri, i giudici comuni e l’interpretazione di Roberto Giovanni Conti*
Sommario 1. Il Ruggeri giurista e il suo rapporto con la giurisdizione. 2. Il giudice comune e la CEDU. 3. La scrivania del giudice, affollata da Carte dei diritti e da diritti. 4. Dalle prime sentenze gemelle della Corte costituzionale alle pronunzie del giudice costituzionale del 2009 sul ruolo dell’interpretazione convenzionalmente orientata. 5. Gli ulteriori svolgimenti della giurisprudenza costituzionale sul vincolo derivante dalle sentenze della Corte edu. La “dolorosa” presa di posizione della sentenza n.49/2015 della Corte costituzionale. 6. La necessità di un’interpretazione convenzionalmente orientata anche in assenza di precedenti della Corte edu. 7.Le sentenze nn.24 e 25/2019 della Corte costituzionale. Ancora a proposito dell’interpretazione convenzionalmente orientata. 8. Il dissidio irrisolto fra law in books e law in action. 9.Il carattere elastico della CEDU ed il ruolo dell’interpretazione da parte dei suoi vari interpreti. Ancora accresciuto il livello di difficoltà sulla strada dell’effettività dei diritti. 10. L’interpretazione convenzionalmente orientata e l’obbligo del giudice di fedeltà alla Repubblica. 11. Conclusioni.
1. Il Ruggeri giurista e il suo rapporto con la giurisdizione.
Non ho alcuna difficoltà a riconoscere di avere un debito di riconoscenza assai marcato nei confronti di Antonio Ruggeri.
L’occasione, assai lusinghiera, che mi è stata qui offerta di partecipare agli scritti in suo onore curati dai suoi allievi vorrei dedicarla, dunque, nella sua prima parte a tratteggiare il ruolo che Antonio ha giocato nella mia formazione, invece dedicando la seconda parte ad alcune riflessioni sulle quali, invero, lo stesso Ruggeri, nel corso degli anni, ha già praticamente dissodato l’intero campo del ruolo dell’interpretazione alla luce dei parametri costituzionali e sovranazionali. Va beninteso chiarito fin dall’inizio che la prima parte non vuole essere soltanto la descrizione di un’esperienza individuale maturata da un giudice professionalmente cresciuto spesso attingendo agli studi di Ruggeri, quanto l’attestazione che più di una generazione di giudici nazionali ha avvertito, nel corso dell’ultimo decennio, un crescente bisogno delle riflessioni di Antonio. Proverò ora a dimostrare il perché di questo “effetto”.
Un giurista, in definitiva, che ai miei occhi è parso, da quando ho avuto il privilegio di conoscerlo un po’ più da vicino, sui generis.
È infatti il modo di fare “dottrina” di Ruggeri che continua ad affascinarmi. Una prospettiva, la sua, di perenne servizio in favore delle persone e degli operatori di giustizia, aperta ad offrire contributi con un impeto, una costanza ed una precisione che lasciano trasparire il vero fine e l’autentico valore della produzione scientifica vorticosa di Antonio.
Un qualcosa di totalmente estraneo a logiche di potere, di casta, di potentati accademici, di dominio intellettuale o, ancora, di sopraffazione culturale, tutto al contrario rivolto ad offrire chiavi di riflessione, suggestioni, orizzonti sempre aggiornati e alimentati incessantemente dal diritto vivente e dalla stessa dottrina alla quale lui appartiene.
Un giurista dunque che a me pare abbia continuato ad insistere sui temi che ruotano attorno ai diritti fondamentali unicamente per la necessità di rispondere continuamente alle domande che quei diritti agitano, nelle loro multiformi proiezioni.
Anzi, proprio la consapevolezza che all’interno dei diritti vi sia, inscindibilmente, una componente di doverosità che si salda poi con il tema, ricorrente, nel pensiero di Antonio, della solidarietà[1], fa trasparire il vero obiettivo di Antonio, orientato a garantire nella massima misura possibile la salvaguardia della persona alla quale sono riconducibili i canoni di libertà eguaglianza e dignità, declinati senza virgole, come a lui è piaciuto scrivere nell’intervista a due voci con Roberto Bin concessa a Giustizia Insieme, proprio perché “inseparabili e bisognosi di darsi costante e mutuo sostegno.”
Cosa si cela, dunque, dietro queste espressioni se non una autentica venerazione per l’uomo[2] in quanto portatore di un bagaglio di valori unico e ogni volta irripetibile, sempre cangiante, sempre destinatario di tutela sagomate sui diritti in un continuo gioco di bilanciamenti che, caso per caso, è chiamato a svolgere il giudice comune?
Sembra emergere dal pensiero ruggeriano la forte consapevolezza che, in un periodo storico in cui l’incultura e le derive autoritarie sono meno lontane di quanto possa sembrare, occorre perseguire con forza ed incessantemente una cultura fondata su un nuovo umanesimo, ricostruito attorno alla dimensione poliedrica dei diritti ed alla loro carica di doverosità e, quindi, di solidarietà[3]. Un umanesimo che Ruggeri riconduce con fermezza e certezza alla Carta costituzionale ed al valore personalistico che essa stessa irradia, anche per il tramite delle fonti sovranazionali alle quali la stessa si apre totalmente, attribuendo alle Carte dei diritti quella natura materialmente costituzionale che ne consente una continua ed incessante rigenerazione.
A ben considerare, un pratico che si accosta a Ruggeri non può non notare la semplicità della sua dottrina che, nel ricostruire il modello costituzionale, la tipicità dei ruoli dei suoi protagonisti ed i contenuti della nostra democrazia ha come punto cardinale la persona, anzi le persone, per modo che le funzioni a ciascuno riservate in quel modello non possono che coordinarsi e cooperare verso un unico obiettivo, appunto dato dalla protezione e salvaguardia dell’uomo, visto in tutta la sua complessità.
L’uomo destinato a mettersi al servizio di sé e della collettività nella quale è chiamato ad operare in una missione in cui gli onori sono bilanciati dagli oneri e dai doveri. Bellissima, solo per fare un esempio, l’immagine complessa del diritto alla salubrità dell’ambiente come dovere che ciascuno ha necessità di salvaguardarlo per sé e le generazioni future che Antonio ha tratteggiato nel suo scritto sulla dignità[4].
Non diversa la figura di “uomo giudice” sulla quale ripetutamente Ruggeri ritorna per confermarne l’indispensabilità non solo e tanto perché per funzione destinata a proteggere la persona ed i diritti che ad essa fanno capo, quanto per sottolinearne il carico di responsabilità.
Il giudice che, chiamato a far vivere le Carte dei diritti nazionali e sovranazionali, deve essere sì coraggioso al punto che, per usare le sue stesse parole, “se privo del coraggio di mettersi in gioco anche – laddove necessario – esponendosi in prima persona farebbe bene a cambiare mestiere”. Ma un giudice che, al contempo, non può non avere una “mentalità ispirata al senso del limite e alla consapevolezza delle risorse di mente e di cuore di cui ciascuno operatore può e deve essere dotato e che vanno fino in fondo portate a frutto”. Esortazione che Ruggeri non incontra alcuna remora ad indirizzare non solo ai giudici nazionali comuni, ma anche ai giudici costituzionali e a quelli delle altre Corti sovranazionali, esortandoli a sperimentare con autentico spirito di apertura, i vantaggi e le potenzialità di quel principium cooperationis che deve animarli costantemente. Quasi naturale risulta l’accostamento di Ruggeri all’ultimo Calamandrei, quando il grande accademico e avvocato fiorentino ricordava che “nel sistema di legalità, la stessa legge offre al giudice i mezzi per non perderla mai di vista, per mantenersi sempre in contatto con essa, anche quandoå i tempi cambiano più velocemente delle leggi: l’interpretazione evolutiva, l’analogia, i principi generali, finestre aperte sul mondo, dalle quali, se il giudice sa affacciarsi a tempo, può entrare l’aria ossigenata della società che si rinnova”[5].
Un invito, quest’ultimo che Ruggeri sente particolarmente avvertendo il rischio che le esondazioni che possono pur verificarsi fra l’un potere ed e l’altro o fra un plesso giurisdizionale ed un altro rischiano di determinare, se istituzionalizzate, lo smarrimento dello Stato costituzionale. Invito che si fa, dunque, più incisivo quando Ruggeri tocca il tema, centrale, dell’interpretazione.
Il rapporto fra i giudici e Ruggeri a me pare possa definirsi di mutuo e reciproco scambio, poiché senza il lavoro dei primi il pensiero di Ruggeri non sarebbe maturato per come esso si è andato sviluppando nel corso degli anni e senza l’instancabile opera di Antonio il diritto vivente non avrebbe potuto disporre di quegli stimoli, anche critici, che hanno, in definitiva, contribuito al “successo”, se così si può definire, delle giurisdizioni o meglio dei diritti in termini di riconoscimento di tutele sempre più approfondite ed efficaci.
Dunque, un do ut des assolutamente salutare, alimentato dal diritto vivente e in un numero straordinario di volte immediatamente studiato, decodificato, inquadrato e commentato da Ruggeri, al fine di verificarne la ragionevolezza di cui parla a più riprese Nicolò Lipari e di cui in seguito ancora si dirà.
In definitiva, ai miei occhi l’esperienza scientifica di Ruggeri vista da un pratico costituisce la riprova autentica del carattere vincente dell’idea che a più riprese ha connotato i suoi scritti. Un’idea che ha radici profonde e che torna a prendere corpo da quella concezione che vede al centro dell’universo la persona, tutta protesa ad offrire di sé i frutti migliori ma al contempo a recepire quelli che arrivano da chi partecipa alla comunità e che, per ciò stesso, va considerato e ponderato attentamente, anche magari per farne oggetto di critica aspra e ferma. Insomma un modo estremamente virtuoso di rappresentare la comunità scientifica che i pratici del diritto non hanno potuto non apprezzare.
2. Il giudice comune e la CEDU.
È dunque in questa prospettiva che ho scelto di dedicare la seconda parte di queste riflessioni alla risposta al seguente quesito: qual è il ruolo del giudice nazionale nel processo di progressiva attuazione della CEDU?
Questo è l’interrogativo al quale proverò a rispondere procedendo, dunque, per gradi.
Una parte delle mie riflessioni proveranno qui ad essere meramente informative, riproponendo i passaggi principali della giurisprudenza costituzionale che hanno segnato, a partire delle note sentenze gemelle del 2007 per giungere ai più recenti arresti del 2019, non tanto il tema dei rapporti fra ordinamento interno e Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, quanto quello dell’interpretazione della CEDU che al giudice comune viene “delegata”, orientando questa indagine al “che cosa” e “al come” il giudice comune deve procedere ed a quali rischi espone l’attività ermeneutica giudiziaria.
I profili d’indagine saranno dunque orientati al piano della giurisprudenza costituzionale ma, inevitabilmente, anche a quello della Corte europea dei diritti dell’uomo, quanto meno per la parte che riguarda il ruolo del giudice nazionale nell’interpretazione della Convenzione.
3. La scrivania del giudice, affollata da Carte dei diritti e da diritti.
Comincerò con l’immagine della scrivania del giudice sulla quale egli lavora per decidere i casi posti alla sua attenzione.
Un tempo avevamo i codici, le leggi e la Costituzione- l’ordine appena esposto non è casuale ma voluto -, oggi abbiamo il computer, le banche dati normative e giurisprudenziali ma un ambito sempre più vasto è occupato dalla Costituzione, dalle Carte dei diritti fondamentali e dalle giurisprudenze delle corti nazionali e sovranazionali.
Oggi siamo tutti più o meno consapevoli che il nostro modo di lavorare non può prescindere dall’uso di queste fonti e dei rispettivi diritti viventi.
Lì devono esserci le Carte dei diritti e le sentenze delle Corti europee – edu ( per quel che qui direttamente rileva) e di giustizia –. Lì tali strumenti stazionano anche solo in modo virtuale se non le conosciamo e non ne abbiamo conoscenza diretta. E lì stanno per essere applicati dal giudice comune, non certo per scelta opportunistica o per un’opzione ideologica o per mera soddisfazione edonistico-individuale, ma per un preciso obbligo che ha il giudice e che proviene dalla Costituzione, dall’apertura da essa stessa data alle fonti sovranazionali, al rango che esse hanno nell’impianto costituzionale (artt.2,3,10,11 e 117 1^ comma Cost.) e dal significato ad esso dato.
Come maneggiarle dunque, quale peso ad esse riconoscere, quale rilevanza, quale vincolatività esse hanno nel sistema, se si parte dalle affermazioni esposte dalla Corte costituzionale tese a via via revisionare, addolcire, superare e alla fine recuperare i postulati affermati nelle sentenze c.d. gemelle del 2007?
Questo, in estrema sintesi, il contenuto delle riflessioni che seguono, maturate anche grazie al pensiero a più riprese espresso da Ruggeri sul tema[6].
4. Dalle prime sentenze gemelle della Corte costituzionale alle pronunzie del giudice costituzionale del 2009 sul ruolo dell’interpretazione convenzionalmente orientata.
Con le note sentenze gemelle del 2007 – nn.348 e 349 – la Corte costituzionale affermò che il primo artefice dell’applicazione della Convenzione edu è "il giudice". In quell’occasione fu parimenti confermato che "il giudice" è tenuto ad interpretare in modo conforme il diritto interno alla Convenzione-".... Ne consegue che al giudice comune spetta interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali ciò sia permesso dai testi delle norme."-p.6.2 cons. in diritto sent.n.349/2007-. Passaggio ulteriormente ribadito quando la Corte riconosce che "....L'applicazione e l'interpretazione del sistema di norme è attribuito beninteso in prima battuta ai giudici degli Stati membri, cui compete il ruolo di giudici comuni della Convenzione….” – cfr. sent. ult. cit. –.
Il ruolo del giudice comune rispetto alla CEDU ritorna nelle sentenze del 2009.
Ed in effetti, la Corte costituzionale, con le seconde sentenze gemelle del 2009- nn.311 e 317- non aveva mancato di rimarcare il ruolo centrale del giudice comune nel processo di progressiva attuazione della CEDU, allo stesso imponendo l’obbligo di procedere ad operazioni di interpretazione conforme dell’ordinamento interno alla Convenzione sui diritti umani-cfr.p.6 sent.n.311/09: “…al giudice nazionale, in quanto giudice comune della Convenzione, spetta il compito di applicare le relative norme”-.
Al contempo, la Consulta, sulla scia di quanto esternato nelle sentenze dell’ottobre 2007, ribadiva che al giudice spetta il compito di applicare le relative norme, nell’interpretazione offertane dalla Corte di Strasburgo, alla quale questa competenza è stata espressamente attribuita dagli Stati contraenti con efficacia vincolante per tutte le autorità statali – legislatore, Corte costituzionale e giudici comuni –.
Ed infatti, la sentenza.n.311/09 (p.6) cominciava col dire che “Questa Corte ha, inoltre, precisato nelle predette pronunce che al giudice nazionale, in quanto giudice comune della Convenzione, spetta il compito di applicare le relative norme, nell’interpretazione offertane dalla Corte di Strasburgo – enfasi aggiunta n.d.r. –, alla quale questa competenza è stata espressamente attribuita dagli Stati contraenti.”
Sempre al punto 6 la stessa pronunzia aggiungeva che “Questa Corte ha anche affermato, e qui intende ribadirlo, che ad essa è precluso di sindacare l’interpretazione della Convenzione europea fornita dalla Corte di Strasburgo, cui tale funzione è stata attribuita dal nostro Paese senza apporre riserve; ma alla Corte costituzionale compete, questo sì, di verificare se la norma della CEDU, nell’interpretazione data dalla Corte europea, non si ponga in conflitto con altre norme conferenti della nostra Costituzione.”
Sempre nella sent.n.311/09 si era ulteriormente precisato che tale vincolo si estende anche al giudice costituzionale, se è vero che nella verifica di costituzionalità “spetta a questa Corte il compito anzitutto di verificare che il contrasto sussista e che sia effettivamente insanabile attraverso un'interpretazione plausibile, anche sistematica, della norma interna rispetto alla norma convenzionale, nella lettura datane dalla Corte di Strasburgo.
Pertanto, “Sollevata la questione di legittimità costituzionale, spetta a questa Corte il compito anzitutto di verificare che il contrasto sussista e che sia effettivamente insanabile attraverso una interpretazione plausibile, anche sistematica, della norma interna rispetto alla norma convenzionale, nella lettura datane dalla Corte di Strasburgo. …In caso di contrasto, dovrà essere dichiarata l’illegittimità costituzionale della disposizione interna per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione alla invocata norma della CEDU.”
Rispetto a siffatto obbligo, in parte diverso risultò l’approccio di Corte cost.n.317/09.
Ed infatti, in tale decisione il riferimento alla vincolatività risulta più sfuggente, dapprima ristretto all’interno di una proposizione incidentale (p.8 cons.in diritto): “…Se si assume questo punto di partenza nella considerazione delle interrelazioni normative tra i vari livelli delle garanzie, si arriva facilmente alla conclusione che la valutazione finale circa la consistenza effettiva della tutela in singole fattispecie è frutto di una combinazione virtuosa tra l’obbligo che incombe sul legislatore nazionale di adeguarsi ai principi posti dalla CEDU” – nella sua interpretazione giudiziale, istituzionalmente attribuita alla Corte europea ai sensi dell’art. 32 della Convenzione – e poi nella stessa richiamato per relationem- (p.8):”…Questa Corte non può sostituire la propria interpretazione di una disposizione della CEDU a quella della Corte di Strasburgo, con ciò uscendo dai confini delle proprie competenze, in violazione di un preciso impegno assunto dallo Stato italiano con la sottoscrizione e la ratifica, senza l’apposizione di riserve, della Convenzione (sentenza n. 311 del 2009)…”
Il punto di novità più rilevante delle sentenze del 2009 rispetto alle gemelle del 2007 è rappresentato da un inciso espresso da Corte cost.n.311/09 che, pur ribadendo la forza dei principi appena evocati, ritenne di dover precisare che “Beninteso, l’apprezzamento della giurisprudenza europea consolidatasi (enfasi aggiunta n.d.r.) sulla norma conferente va operato in modo da rispettare la sostanza di quella giurisprudenza, secondo un criterio già adottato dal giudice comune e dalla Corte europea.”
Quest’ulteriore affermazione veniva completata da un rinvio a due precedenti, l’uno della Corte di Cassazione – Cass. 20 maggio 2009, n. 10415 – e l’altro della Corte di Strasburgo – Corte dir. uomo, 31 marzo 2009, Simaldone c. Italia, ric. n. 22644/03 –, che vorrebbero confermare la piena compatibilità della prospettiva appena indicata con i principi affermati dal giudice comune e dalla Corte dei diritti umani sul ruolo della giurisprudenza della Corte europea.
In effetti, le due sentenze evocate da Corte cost. n.311/09 sembravano voler fornire chiarimenti a chi, autorevolmente, aveva posto in discussione la correttezza dell’affermazione circa la vincolatività della giurisprudenza CEDU per come prospettata dalla Consulta[7].
Conferma autentica a quanto si è appena detto la si trova, del resto, in uno scritto dell’estensore della sentenza n.311/09[8], nel quale veniva per l’appunto menzionata Cass.10415/2009 come esempio di giurisprudenza che aveva, questa sì, giustamente inteso il messaggio espresso dalle sentenze dell’ottobre 2007.
5. Gli ulteriori svolgimenti della giurisprudenza costituzionale sul vincolo derivante dalle sentenze della Corte edu. La “dolorosa” presa di posizione della sentenza n.49/2015 della Corte costituzionale.
Tutto (o quasi) all’interno della sentenza n.49/15 della Corte costituzionale[9] ruota attorno al tema della giurisprudenza consolidata, sul quale la stessa si sforza di costruire un quadro di principia che dovrebbero valere per il giudice comune, impedendo alla radice il pericolo (duplice) di diventare entusiasta propagatore del verbo delle Corti internazionali e di rimanere attratto dal fascino ipnotico proveniente dalla CEDU (Bignami).
Secondo la sentenza n.49/15 i giudici comuni non devono interpretare la legge interna in modo convenzionalmente orientato se la giurisprudenza della Corte europea non si è consolidata in una certa direzione. In tali circostanze l’eventuale dubbio di compatibilità della norma convenzionale, arricchita da una giurisprudenza non consolidata, con la Costituzione, renderebbe immediatamente inoperante la prima[10].
Si tratta di affermazioni assolutamente nuove, almeno per i tratti di approfondimento che ad esse si affiancano e che non sembra avere eguali nella pregressa giurisprudenza della Corte costituzionale – pure ricordata dalla pronunzia in esame (sentenze n. 236 del 2011 e n. 311 del 2009) – ove l'uso di espressioni e termini singoli non poteva preconizzare l’esito alla quale giungono oggi i giudici della Consulta.
Vi è, a sostegno di questa affermazione, un'esigenza primaria di diritto costituzionale volta al conseguimento di uno stabile assetto interpretativo sui diritti fondamentali.
In questa prospettiva il ruolo di giudice di ultima istanza della Corte di Strasburgo troverebbe la sua giustificazione e dovrebbe coordinarsi con l'art.101, secondo comma, Cost. e, dunque, con il principio della soggezione del giudice soltanto alla legge, e non all’interpretazione (nel caso di specie riservata alla Corte Edu).
Il giudice comune, pertanto, non dovrebbe utilizzare la CEDU per come è espressa nei suoi articoli e/o nella giurisprudenza che non riguardano in modo specifico la vicenda posta al suo vaglio essendo chiamato, piuttosto, ad attendere che si formi un diritto vivente sul punto.
Questa libertà del giudice trova un duplice limite, secondo la Corte costituzionale.
Per un verso, “...il giudice comune non potrà negare di dar corso alla decisione promanante dalla Corte di Strasburgo che abbia definito la causa di cui tale giudice torna ad occuparsi, quando necessario, perché cessino, doverosamente, gli effetti lesivi della violazione accertata (sentenza n. 210 del 2013). In tale ipotesi, prosegue la Consulta, «la pronunzia giudiziaria si mantiene sotto l’imperio della legge anche se questa dispone che il giudice formi il suo convincimento avendo riguardo a ciò che ha deciso altra sentenza emessa nella stessa causa» (sentenza n. 50 del 1970). Dunque, qui la Corte costituzionale sembra scindere l’efficacia del dispositivo della sentenza della Corte edu, inteso come comando, dalla portata interpretativa che nasce dal contenuto delle motivazioni delle decisioni della Corte europea, destinata a spiegare un’efficacia che gli esperti chiamano efficacia di cosa “interpretata” delle sentenze anzidette.
Per altro verso, il giudice comune dovrà sempre sentirsi vincolato dalle c.d.sentenze pilota.
Quando la Corte edu ha accertato una violazione di natura sistemica il suo precedente conta di più ed è più vincolante, secondo la sentenza n.49/2015.
Andare poi a scrutinare le ragioni e le giustificazioni razionali sottese a tale affermazione potrebbe risultare difficoltoso ma, ai fini dell’indagine che qui si sta svolgendo, rimane ancora una volta a carico del giudice comune verificare se la Corte edu abbia adottato una sentenza pilota, con il sotteso onere di sapere, a monte, cosa sia, in effetti una simile decisione.
Fuori da tali ipotesi la CEDU non è obbligatoria né ad essa, in simili casi, dovrebbe obbedirsi. In questa direzione sembra orientarsi Corte cost. n. 49/2015[11].
Anche se con la recente ordinanza n.43/2018 la Corte costituzionale, nel restituire gli atti al giudice a quo per consentire una valutazione degli effetti della sentenza resa dalla Grande Camera della Corte edu nel caso A e B. c. Norvegia in tema di ne bis in diem, ha lasciato intendere che la pronunzia della Grande Camera della Corte europea, quando contiene un novum rispetto a precedenti arresti giurisprudenziali, è vincolante per il giudice nazionale, rappresentando il diritto vivente europeo.
Dacché secondo l’ormai consueto atteggiarsi della giurisprudenza costituzionale, disegnato dalla dottrina con il termine assai espressivo di oscillazioni del pendolo[12], il giudice comune è ancora una volta investito di un ruolo a fisarmonica, che lo vedrebbe a volte soggetto vincolato all’altrui interpretazione - il che avverrebbe, in definitiva quando la Costituzione è interpretata dalla Corte costituzionale - v.sent.n.6/2018-, altre volte artefice abbastanza libero dell’individuazione del diritto del caso concreto.
Ora, non è questa la sede per sottoporre ad analisi la decisione della Corte costituzionale e la sua contrarietà alla prospettiva invece espressa dalla Corte Edu sulla portata delle proprie sentenze - del resto, esternata ufficialmente nella sentenza Giem c. Italia della Grande Camera resa nel giugno 2018 (v. § 252)-.
Serve piuttosto evidenziare e valorizzare, ancora una volta, l’accresciuto ruolo del giudice e dell’interpretazione “convenzionalmente” orientata allo stesso affidata.
Un’interpretazione che alla luce della sentenza n.49/2015, risulterebbe inconvenzionale (e dunque non ammessa) in assenza del consolidamento della giurisprudenza di Strasburgo ma che, ancora una volta, passa per l’attività riservata al giudice comune, al quale viene confezionato il compito di stabilire quando la giurisprudenza della Corte edu sia o meno consolidata.
Tale situazione sarebbe, del resto, ulteriormente indotta dall’estrema genericità degli indici rivelatori del consolidamento indicati dalla sentenza n. 49/2015.
Come che sia – e salvo a ritornare alla fine sul ruolo del consolidamento –, un accresciuto livello di responsabilità in capo al giudice comune che fa il paio con il parimenti crescente livello di professionalità reclamato su un interprete sempre più proiettato verso un confronto, un dialogo, con altre giurisdizioni ed altre tecniche decisorie, non proprio sovrapponibili a quelle che governato il piano nazionale interno.
Si intende, in definitiva, sottolineare che la progressiva valorizzazione del diritto di accesso alla giustizia e l’implementazione di centri decisionali, nazionali e sovranazionali, chiamati ad esprimere il loro avviso su una stessa materia secondo un quadro giuridico di riferimento non sempre omogeneo rispetto alle singole giurisdizioni rappresenta, oggi, un ‘dato di certezza’ dal quale non è possibile prescindere per intavolare una riflessione onesta e seria sulla giustiziabilità dei diritti.
Non è senza significato, ancora una volta, il ricorso a vicende che hanno visto in campo i giudici comuni, i giudici costituzionali, quelli della Corte edu e, infine, il legislatore.
Mi riferisco al caso del sovraffollamento carcerario.
Le pressioni sul giudiziario che non avevano trovato largo riconoscimento a livello interno circa una condizione carceraria disumana, dopo avere trovato spazio innanzi alla Corte edu con la nota sentenza “pilota” Torreggiani c. Italia, hanno stimolato il legislatore ad intervenire, pressato dalla vigilanza del Comitato dei Ministri presso il Consiglio d’Europa sullo stato di attuazione della sentenza appena ricordata.
Ne è derivata l’introduzione di una novella alla legge sull’ordinamento penitenziario sfociata negli artt.35 bis e ter - per quel che qui importa-[13].
Orbene, con l’art. 35 ter o.p., è stato lo stesso legislatore a formalizzare l’obbligo di interpretazione conforme alla Corte dei diritti dell’uomo, quanto all’art. 3 CEDU.
Tale disposizione si apre, infatti, chiarendo che ‘Quando il pregiudizio di cui all'articolo 69, comma 6, lett. b), consiste, per un periodo di tempo non inferiore ai quindici giorni, in condizioni di detenzione tali da violare l'articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo’.
Ora, ci si deve chiedere se il dato normativo di riferimento si coniughi e in che misura con il principio della vincolatività della giurisprudenza della Corte Edu soltanto se consolidata, a stare a quanto espresso la sentenza n.49/2015.
La disposizione testuale dell’art. 35 ter cit. sembra, in effetti, una risposta a quelle possibili criticità avendo il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità politica, ben compreso come non fosse possibile realizzare un adeguamento del sistema alla protezione convenzionale limitando il ricorso alla giurisprudenza della Corte edu consolidata per come, invece, affermato dalla sentenza n. 49/2015. Ma è, ancora una volta, il giudice comune ad essere chiamato alla conoscenza della giurisprudenza convenzionale ed all’interpretazione conforme a CEDU.
6. La necessità di un’interpretazione convenzionalmente orientata anche in assenza di precedenti della Corte edu.
La vicenda appena ricordata rappresenta forse un passaggio non secondario che deve, anzi, essere adeguatamente valorizzato non soltanto per dare il giusto peso e portata alle affermazioni della Corte costituzionale con la sentenza n.49/2015 ma anche per favorire operazioni di contenimento della portata della sentenza n. 49 anzidetta alle quali, fortunatamente, non è risultata nemmeno estranea la stessa Corte costituzionale.
Ed infatti, in tempi più recenti, non sono mancate prese di posizione del giudice costituzionale rivolte ad attenuare l’idea di un’operatività della CEDU solo mediata da plurimi e costanti orientamenti.
In questa direzione si inscrive, con certezza, Corte cost.n.109/2017 (§ 3.1) ove si è, fra l’altro, affermato: “...[n]ell’attività interpretativa che gli spetta ai sensi dell’art. 101, secondo comma, Cost., il giudice comune ha il dovere di evitare violazioni della Convenzione europea e di applicarne le disposizioni, sulla base dei principi di diritto espressi dalla Corte EDU, specie (neretto aggiunto n.d.r.) quando il caso sia riconducibile a precedenti di quest’ultima”.
E poco tempo prima, la stessa Corte –sent. n.68/2017– non aveva mancato di sottolineare che ‘...è parimenti da respingere l’idea che l’interprete non possa applicare la CEDU, se non con riferimento ai casi che siano già stati oggetto di puntuali pronunce da parte della Corte di Strasburgo. Al contrario, «[l]’applicazione e l’interpretazione del sistema di norme è attribuito beninteso in prima battuta ai giudici degli Stati membri» (sentenze n. 49 del 2015 e n. 349 del 2007). Il dovere di questi ultimi di evitare violazioni della CEDU li obbliga ad applicarne le norme, sulla base dei principi di diritto espressi dalla Corte EDU, specie quando il caso sia riconducibile a precedenti della giurisprudenza del giudice europeo (sentenze n. 276 e n. 36 del 2016). In tale attività interpretativa, che gli compete istituzionalmente ai sensi dell’art. 101, secondo comma, Cost., il giudice comune incontra il solo limite costituito dalla presenza di una normativa nazionale di contenuto contrario alla CEDU. In tale caso, la disposizione interna va impugnata innanzi a questa Corte per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., ove non sia in alcun modo interpretabile in senso convenzionalmente orientato (sentenza n. 239 del 2009). Nel caso di specie, pertanto, non è risolutiva la circostanza che la Corte di Strasburgo, con la sentenza 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri c. Italia, abbia applicato l’art. 7 della CEDU alle sanzioni amministrative pecuniarie e interdittive previste in materia di abuso di informazioni privilegiate, senza occuparsi della confisca per equivalente, che non era oggetto di quel contenzioso. L’interprete nazionale è infatti tenuto a sviluppare i principi enunciati sulla base dell’art. 7 della CEDU per decidere se valgano anche con riferimento alla confisca di valore, e, come si è visto, la risposta al quesito deve essere affermativa.” Si tratta, a ben considerare, di posizioni che non si pongono in aperta distonia con la sentenza n.49/2015, anzi parimenti richiamata, ma che aiutano la Corte costituzionale a scrollarsi le critiche, a volte pesanti, che aveva suscitato la presa di posizione in tema di giurisprudenza consolidata[14].
La piena riconferma dei superiori principi da parte di Corte cost.n.63/2019 rende ormai pienamente consolidato il principio in forza del quale l’interprete è tenuto ad applicare la CEDU anche in assenza di pronunzie della Corte Edu.
Ne esce, così, confermata l’idea che è l’interprete, e primo fra tutti il giudice comune, a dovere fare vivere (o morire, seguendo le indicazioni di Corte cost.n.49/2015) la CEDU all’interno dei casi posti al suo vaglio in una prospettiva che guarda, a me pare in ogni caso, alla Convenzione come strumento di innalzamento di tutela dei diritti fondamentali.
Colpisce, nelle pronunzie da ultimo ricordate, come l’attività di interpretazione della legge sia essa stessa valorizzata e protetta sotto l’ombrello dell’art.101 Cost. che viene spesso individuato come elemento che i giudici violerebbero apertamente facendo ricorso ad interpretazioni creative, per l’appunto impedite dall’art.101 Cost.
Quando la Corte costituzione riconosce che “...[n]ell’attività interpretativa che gli spetta ai sensi dell’art. 101, secondo comma, Cost., il giudice comune ha il dovere di evitare violazioni della Convenzione europea e di applicarne le disposizioni, sulla base dei principi di diritto espressi dalla Corte EDU…-Corte cost.n.109/2017- essa dimostra, ancora una volta, quanto centrale sia il riferimento al canone ermeneutico nell’attività giudiziale.
Affermazione, quest’ultima, che potrebbe tornare utile per rispondere alle critiche, spesso aspre, mosse contro la deriva che sarebbe rappresentata da un ricorso senza controllo al canone ermeneutico per superare la legge e porre, dunque, il giudice, fuori dal perimetro delle sue attribuzioni.
7. Le sentenze nn.24 e 25/2019 della Corte costituzionale. Ancora a proposito dell’interpretazione convenzionalmente orientata.
Anche recentissimamente la Corte costituzionale ritorna a parlare di interpretazione convenzionalmente orientata e lo fa in ambito di misure di prevenzione, personali e patrimoniali, gestendo i “seguiti” prodotti dalla sentenza de Tommaso c. Italia della Grande Camera della Corte Edu.
Con la sentenza n.24/2019 la Corte costituzionale, esaminando il regime delle misure di sorveglianza personale e patrimoniale, esclusane la natura penale, dà atto che le stesse incidono comunque su beni di rilevanza costituzionale -libertà di circolazione, diritto di proprietà - e sono legittime purché abbiano una base legale e siano in linea con le garanzie apprestate dai canoni costituzionali e convenzionali rilevanti.
In questa prospettiva la Corte sottolinea i requisiti di precisione, determinatezza e prevedibilità individuati dalla Corte edu nella sentenza de Tommaso e dà espressamente atto alla giurisprudenza di legittimità di avere “compiuto un commendevole sforzo di conferire, in via ermeneutica, maggiore precisione alle due fattispecie di pericolosità generica” successivamente alla pronunzia della Corte edu, al dichiarato fine di porre rimedio al deficit di precisione in quella sede rilevato.” Riconoscono, in questa prospettiva, la lettura convenzionalmente orientata, talora indicata come tassativizzante e si proiettano in un’attività di verifica circa il grado di specificazione che tali interpretazioni, maturate per lo più all’indomani della sentenza de Tommaso, possono offrire per garantire l’esigenza minima di prevedibilità. Nel far ciò la Corte si premura di chiarire che in campo penale l’interpretazione[15] anche se costante “non vale a colmare l’eventuale originaria carenza di precisione del precetto penale, non potendosi surrogare integralmente alla praevia lex scripta, ma soltanto individuare “il significato corretto della disposizione nell’arco delle sole opzioni che il testo autorizza a che la persona può raffigurarsi leggendo”, ma aggiunge che, al di fuori della materia penale “…non può del tutto escludersi che l’esigenza di predeterminazione delle condizioni in presenza delle quali può legittimamente limitarsi un diritto costituzionalmente e convenzionalmente protetto possa essere soddisfatta anche sulla base dell’interpretazione, fornita da una giurisprudenza costante e uniforme, di disposizioni legislative pure caratterizzate dall’uso di clausole generali, o comunque da formule connotate in origine da un certo grado di imprecisione” Ed è proprio il piano costituzionale e quello convenzionale a giustificare che “tale interpretazione giurisprudenziale sia in grado di porre la persona potenzialmente destinataria delle misure limitative del diritto in condizioni di poter ragionevolmente prevedere l’applicazione della misura stessa”.
A tal punto la sentenza n.24/2019 dimostra quanto sia importante l’interpretazione giudiziale in funzione tasssativizzante, arrivando a ritenere che proprio l’interpretazione fornita dalla giurisprudenza di un precetto- quello di cui all’art.1 n.2 l.n.1423/1956 in cui si fa riferimento a “coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivano abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose”- è tale “da consentire ai consociati di prevedere ragionevolmente in anticipo in quali casi oltre che in quali modi essi potranno essere sottoposti alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale, nonché alle misure di prevenzione patrimoniali del sequestro e della confisca”.
A diverse conclusioni la stessa sentenza giunge con riferimento alla fattispecie di cui all’art.1 n.1 della legge ult.cit. – ove fa riferimento a «coloro che debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che sono abitualmente dediti a traffici delittuosi» (art. 1, numero 1, della legge n. 1423 del 1956, riprodotto in modo pressoché identico dall’art. 1, lettera a, del d.lgs. n. 159 del 2011) – che, secondo la Corte costituzionale, ”appare, invece, affetta da radicale imprecisione, non emendata dalla giurisprudenza successiva alla sentenza de Tommaso”. Alla giurisprudenza, prosegue la sentenza n.24/2019, “…non è stato possibile riempire di significato certo, e ragionevolmente prevedibile ex ante per l’interessato, il disposto normativo in esame”. Da qui il parziale accoglimento della questione di legittimità costituzionale. Non meno rilevante risulta la sentenza n.25/2019, parallela alla sentenza n.24.
Tralasciando qui gli aspetti specifici delle questioni che non competono minimamente a chi parla, è invece interessante riportare qualche passo della sentenza n.25/2019 per dimostrare quanto sia avvertito come centrale il tema dei rapporti fra giudice, legge e Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Una lettura complessiva di tale decisione dimostra il carattere dinamico dell’interpretazione ma, al contempo, i suoi limiti.
A passare al vaglio della Corte costituzionale, in questo caso, è stata la disciplina che punisce penalmente l’inosservanza degli obblighi di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi” connessi all’imposizione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo o divieto di dimora.
La questione assumeva particolare rilevanza per il fatto che a sollevarla era stata la Corte di Cassazione in sostanziale distonia con quanto affermato dalle sezioni unite penali, le quali avevano fornito una lettura “tassativizzante” del precetto inidonea, tuttavia, ad operare al pari di un’abolitio criminis sopravvenuta per successione della legge nel tempo. Da qui la necessità di sollevare questione di legittimità costituzionale
Ed è a questo punto che la Corte costituzionale, nel ponderare la rilevanza della questione, offre importanti affermazioni di principio sul ruolo dell’interpretazione giudiziale. Ricorda, infatti che in un ordinamento in cui il giudice è soggetto soltanto alla legge e solo alla legge (art.101, secondo comma, Cost.) la giurisprudenza ha un contenuto dichiarativo e nella materia penale deve conformarsi al principio di legalità di cui all’art.25, secondo comma, Cost. che vuole sia la legge a prevedere che il fatto commesso è punito come reato.
Se, dunque, “l’attività interpretativa del giudice, anche nella forza dell’interpretazione adeguatrice costituzionalmente orientata, può sì parametrare i confini della fattispecie penale, circoscrivendo l’area della condotta penalmente rilevante” essa è pur sempre un’attività dichiarativa” inidonea ad operare come se fosse un precetto normativo sopravvenuto- richiamandosi, specificamente, a quanto già ritenuto con la sentenza n.230/2012 -. In questa prospettiva la Corte costituzionale ricorda l’attività di ricostruzione del significato del precetto penale offerta dalle Sezioni Unite penali nella sentenza Paternò n.40076/2017, ispirata dalla sentenza de Tommaso c. Italia della Corte edu.
In quella circostanza, il giudice di legittimità, nella sua più autorevole composizione, aveva precisato che l’esistenza di vocaboli polisensi, ovvero di clausole generali o concetti elastici, non comporta un vulnus del parametro costituzionale evocato, quando la descrizione complessiva del fatto incriminato consenta comunque al giudice… di stabilire il significato di tale elemento mediante un’operazione interpretativa non esorbitante dall’ordinario compito a lui affidato. Seguendo tale prospettiva le Sezioni Unite procedettero ad una “rilettura del diritto interno che sia aderente alla CEDU” concludendo che il richiamo agli obblighi e alle prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno può essere riferito a quegli obblighi o a quelle prescrizioni che hanno un contenuto determinato e specifico, a cui potere attribuire valore precettivo. Emergenze non riscontrabili rispetto alle prescrizioni del vivere onestamente e del rispettare le leggi. Una prospettiva tassativizzante che le Sezioni Unite avevano già in precedenza esplicitamente caldeggiato sul versante dell’interpretazione costituzionalmente orientata, apertamente circoscrivendo la portata precettiva dell’art.12, comma primo, delle preleggi (Cass. S.U. 22 febbraio 2018 n.8770, cit.).
Quest’attività interpretativa operata dalle Sezioni Unite che testimonia il già “compiuto processo di adeguamento e maggiore conformità ai principi della CEDU” segna, secondo la sentenza n.25/2019, l’arresto ultimo del diritto vivente, tuttavia inidoneo ad operare come abolitio criminis, per le considerazioni sopra ricordate. A tal punto la Corte ritorna sul valore della giurisprudenza della Corte edu e sui concetti di giurisprudenza stabile e di diritto consolidato utilizzati in passato per indicare i connotati che deve avere il diritto vivente della Corte edu per operare nell’ordinamento interno e giunge alla conclusione che il caso ad essa sottoposto consente di “completare, con riferimento alle norme oggetto delle questioni di costituzionalità, l’adeguamento della CEDU in concordanza con quello già operato, in via interpretativa, dalla sentenza delle Sezioni Unite.”
Ed è estremamente importante che la prospettiva segnata dalla Corte costituzionale sia stata pienamente recepita proprio dal giudice di legittimità.
È infatti interessante notare come, a titolo meramente esemplificativo, Cass. n. 2438/2018 offra una lettura accorta del canone dell’interpretazione consolidata, recuperando la linea fondamentale dei principia espressi dalla Corte EDU in materia di ragionevole durata del processo e di effettività dei rimedi per poi applicarli a vicenda non espressamente esaminata dallo stesso giudice della Convenzione, senza che ciò impedisca di ritenere il parametro convenzionale non operativo benché non interpretato dal suo giudice naturale con riferimento specifico alla questione esaminata dal giudice nazionale.
8. Il dissidio irrisolto fra law in books e law in action
Insomma e a mo’ di prime conclusioni un affresco, quello qui abbozzato, che collega il tema delle fonti e del loro pluralismo, ormai pienamente espresso dagli artt.2,3,10,11 e 117 della Costituzione, con la necessità che la possibile disomogeneità astratta fra le stesse – che può emergere nella decisione del caso – trovi la sua ‘cura’ nell’interpretazione affidata a chi è chiamato ad affrontare il caso come avvocato o a risolverlo, come giudice.
Fonti che la dottrina civilistica, del resto (Lipari) non coglie più come sacrario da venerare intatto, quanto come realtà plastica da verificare volta per volta nell’interpretazione che si proietta nella vita e diventa vita, storia della società nel tempo e nello spazio[16].
Tutto questo induce quasi naturalmente a ricostruire il sistema attraverso un lento, ma ineluttabile passaggio dalla centralità delle fonti alla centralità dell’interpretazione (Lipari).
Che poi, a me pare, diventi realmente centralità delle interpretazioni, se si guarda alla naturale vocazione del giudice ad essere all’un tempo chiamato a rileggere i dati normativi in chiave costituzionale, convenzionale (sulla quale qui abbiamo discusso) e del diritto dell’Unione Europea, egli vestendo insieme, fuori da pianificazioni gerarchiche, questi ‘tre cappelli’ quando maneggia il caso posto alla sua attenzione[17].
Un interpretare, un trovare, un reperire[18] (come pure afferma Cass.S.U. n.1946/2017), un ricercare (Cass.S.U.n.22784/2012), un individuare il significato della legge attraverso la confluenza della giurisprudenza e le puntualizzazioni giurisprudenziali – Corte cost. n.25/2019 – che conducono, dunque, il giudice a trarre linfa dai principi[19], non più visti come ricavabili da norme particolari, ma nella loro dimensione elastica e potenziale, direttamente proveniente dal complesso e variegato sistema che va individuato attraverso operazioni ermeneutiche ben lontane dall’angusto piano dell’art.12 delle preleggi al codice civile[20]. Una visione, quest’ultima che, dì’altra parte costituisce la naturale proiezione di quant andava dicendo Piero Calamandrei sessant’anni fa, quando ricordava che l’infinita ricchezza del casellario rappresentato dal sistema delle fonti scritte lascia spesso spazio al vuoto ed ala necessità di aggiungere una casella supplementare da parte del giudice attraverso l’interpretazione senza che ciò integri opera di creazione, essendo piuttosto “ricerca, nella legge generale e astratta, di qualche cosa che c’è già per volontà del legislatore, e che si tratta non di creare ex novo, ma di scoprire e riconoscere”[21]
Ad analoghe considerazioni si giunge con riguardo alla valutazione operata n.24 e n.25 della Corte costituzionale.
Dimensione che traghetta il mondo al quale apparteniamo dallo jus positum allo jus in fieri e rende il processo il luogo elettivo nel quale individuare il principio capace di realizzare ed appagare al meglio i bisogni delle persone che chiedono giustizia, attraverso un’attività che impone al giudice[22] di coniugare la tendenziale universalità dei diritti con la specificità delle situazioni storiche sempre mutevoli[23]. Il tutto attraverso le quotidiane operazioni di bilanciamento fra i diritti[24], che assumono tratti e complessità sempre crescenti[25] e che a, volte, vedono il giudice colmare lacune[26].
Quanto intrise di realismo risultano le espressioni di Lipari quando evoca l’immagine del diritto che va progressivamente spostandosi dal momento potestativo e autoritario a quello applicativo[27], al punto che è il principio interpretativo a determinare la vincolatività del precetto interno al concreto modo di svolgersi dell’esperienza giuridica[28].
Il fenomeno giuridico, o la situazione normativa[29], non può, continua Lipari, mai essere definito in una individuata oggettività perché va considerato ‘...stimolo e insieme esito, padre e ambiguamente figlio dell’attività precettiva e valutativa del soggetto.’
Ora, tutto questo affresco è contrario alla Costituzione? Questo è l’interrogativo al quale i giudici sono chiamati a dare risposta? Lede le garanzie che il cittadino trae dalla stessa Costituzione e, prima fra tutte, quella della soggezione del giudice soltanto alla legge? Mette in crisi lo Stato democratico? Vulnera le fondamenta dello Stato facendo trasmodare il ruolo del giudice in quello del legislatore? Porta il giudice a smantellare le fondamenta contemplate dalla Costituzione?
Rispondere a tali quesiti non è compito di chi scrive, ma dell’ordine giudiziario quando esercita le sue funzioni. Conta dunque poco la consapevolezza personale circa il fatto che per rispondere a tali quesiti sia sufficiente rinviare alla Costituzione ed alla sua apertura verso i diritti fondamentali e le fonti sovranazionali che ad essi si rifanno. Servo davvero, piuttosto, una presa di coscienza di queste tematiche non epidermica, non raffazzonata, non povera di contenuti da parte della magistratura.
9. Il carattere elastico della CEDU ed il ruolo dell’interpretazione da parte dei suoi vari interpreti. Ancora accresciuto il livello di difficoltà sulla strada dell’effettività dei diritti.
Avviciniamoci ora all’interpretazione della CEDU, per scoprire quanto si accresca, anche in questo contesto, il ruolo del giudice.
La Corte dei diritti umani ha riconosciuto come la CEDU sia uno strumento che si presta ad essere interpretato alla luce di trattati internazionali, documenti di organizzazioni internazionali e delle stesse disposizioni di diritto nazionale ed internazionale.
Il punto di partenza dell’indagine è rappresentato dagli artt.31,32 e 33 della Convenzione di Vienna sulla legge dei Trattati 65, secondo i quali è necessario ricercare il significato delle parole utilizzate nel contesto ed alla luce dell’oggetto e dello scopo della disposizione esaminata[30].
Frequente è pure il richiamo al fatto che la Convenzione europea dei diritti umani impone che la stessa sia interpretata ed applicata in modo da salvaguardare e perseguire l’effettività dei diritti ivi tutelati, rifuggendo da prospettive astratte o teoriche.
Non è stata nemmeno sottovalutata la necessità di un’interpretazione sistematica delle varie disposizioni contemplate dalla CEDU[31].
La Corte di Strasburgo ha tenuto a precisare che la CEDU non può essere considerata come l’unico elemento portante rispetto ai diritti fondamentali che pure tutela, dovendosi tenere in considerazione regole e principi del diritto internazionale applicabili ai Paesi contraenti[32]. In questo contesto, la Corte europea ha più volte sottolineato la natura vivente della CEDU in ragione della quale l’opera interpretativa va compiuta alla luce delle attuali condizioni sociali, senza peraltro tralasciare l’evoluzione delle norme nazionali ed internazionali.
Anzi, proprio Corte dir. Uomo, 12 novembre 2008, Demir e Baykara c.Turchia[33] contiene un inciso dal quale si comprende bene che il ruolo interpretativo riconosciuto anche alle autorità giudiziarie statali sull’interpretazione della norma convenzionale assume peculiare rilevanza nei giudizi svolti a Strasburgo[34].
Infine, secondo la giurisprudenza di Strasburgo gli obblighi nascenti dalla Convenzione possono essere interpretati alla luce: a) dei principi generali del diritto riconosciuti dalle nazioni civili – cfr.art. 38 § 1 dello Statuto internazione della Corte di Giustizia –; b) di strumenti resi dalle Istituzioni del Consiglio d’Europa anche se privi di giuridica vincolatività-raccomandazioni e risoluzioni del Comitato dei Ministri e dell’Assemblea Parlamentare[35]- e ancora di documenti emananti da altri organi del Consiglio d’Europa anche se privi, questi ultimi, di capacità rappresentativa delle parti contraenti- Commissione di Venezia, Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza, Rapporti del Comitato europeo per la prevenzione delle torture e dei trattamenti disumani, punitivi o degradanti-.
Proprio nella sentenza Saadi c. Regno Unito – § 63 – la Corte non ha mancato di sottolineare che l’accettazione di certi principi di natura internazionale da parte di numerosi Stati contraenti impone di considerare, nel processo interpretativo della CEDU, gli standard internazionali e nazionali adottati al fine di chiarire lo scopo della CEDU.
In questa stessa prospettiva si è ritenuta rilevante la Carta sociale europea – risultato al quale la nostra Corte costituzionale è giunta solo di recente (Corte cost.nn.120 e 194/2018[36]) e la giurisprudenza resa dall’organo di vigilanza sulla sua applicazione[37] e, addirittura, strumenti internazionali anche se non ratificati dai Paesi aderenti[38].
La Corte di Strasburgo ha quindi riconosciuto particolare rilevanza nel processo interpretativo alla Carta dei diritti fondamentali proclamata a Nizza[39] ed alla Convenzione di Oviedo[40].
Orbene, esaurita questa sintetica carrellata sulla giurisprudenza sovranazionale, ci si rende immediatamente conto di come la Corte di Strasburgo abbia a più riprese affermato una visione mobile e vivente della CEDU, alla cui applicazione ed attuazione devono concorrere tutti coloro che sono tenuti a garantire la tutela dei diritti fondamentali, al di fuori di schematismi e formalismi- gerarchici - che non appartengono al DNA di quella giurisdizione.
Il ruolo del giudice nazionale - ed in genere delle autorità nazionali - è avvertito dalla Corte come essenziale proprio alla stregua del meccanismo di sussidiarietà che governa i rapporti fra ordinamento nazionale e CEDU.
Se questa è la prospettiva corretta emerge che anche nella visione della Corte Edu i giudici nazionali siano dotati di un ampio potere nell’ambito dell’interpretazione della Convenzione. Potere -dovere che, si è visto, si arricchisce di nuovi orizzonti, chiamando l’interprete a guardare la CEDU in una prospettiva aperta, viva, non in vitro, ma in vivo.
10. L’interpretazione convenzionalmente orientata e l’obbligo del giudice di fedeltà alla Repubblica.
Il tema qui esaminato del ruolo del giudice rispetto all’interpretazione convenzionalmente orientata e, più in generale, degli ambiti dell’interpretazione delle norme interne e sovranazionali, in relazione alla tutela multilivello disegna questioni nuove, tutt’altro che agevoli da dipanare. E non mancano, nella dottrina, critiche assai aspre all’utilizzo del canone ermeneutico da parte della giurisdizione, secondo alcuni utilizzato per mascherare operazioni di pura creazione del diritto, alle quali, come si diceva all’inizio, lo stesso Ruggeri non ha mancato di fare puntiglioso richiamo nei suoi scritti.
Quel che pare certo è, in ogni caso, che gli scenari sopra tratteggiati pretendono tanto dall'ordine giudiziario, quanto dal potere legislativo, il rispetto dell'obbligo di fedeltà alla Repubblica sancito dall'art.54 Cost.
Il riferimento alla fedeltà impone al legislatore ed al giudice un reciproco rispetto dei valori repubblicani consacrati nella Costituzione.
E non par dubbio che solo se i rapporti fra i poteri saranno improntati a correttezza e lealtà, nel senso dell'effettivo rispetto delle attribuzioni a ciascuno spettanti (Corte cost.n.110/98) può essere possibile superare l'atavico conflitto fra legislatore e potere giudiziario.
Il giudice e il legislatore, in definitiva, hanno l'obbligo di contribuire in modo solidale, nei contesti normativi e fattuali storicamente dati, alla salvaguardia dell'ordinamento nell'identità dei suoi principi fondamentali, vicendevolmente riconoscendosi come attori insostituibili al servizio dei diritti delle persone.
Per altro verso, non sembra nemmeno vero che in assenza dell'intervento del legislatore il giudice si dimostri infedele alla Repubblica allorché si mette al servizio delle domande di giustizia poste al suo vaglio, applicando al caso concreto il diritto, per come esso si sedimenta attraverso i principi-cardine della Costituzione e delle Carte dei diritti fondamentali[41].
Quest'obbligo di fedeltà, d'altra parte, non può non considerare la particolarità del ruolo attribuito al giudice comune nel nostro sistema e il processo di progressivo cambiamento dei rapporti del giudice con la legge positiva nazionale.
Tale cambiamento, ben lungi dall'essere frutto di arbitrio giudiziario[42] ha, all'evidenza, tratti diversi, ma univoci: a) la disapplicazione – senza mediazione alcuna con la Corte costituzionale – della legge interna contrastante con il diritto eurounitario, anche se esso contrasti a sua volta con la Costituzione (salvo i c.d. contro-limiti); b) l'interpretazione costituzionalmente, eurounitariamente e convenzionalmente conforme; c) la possibilità di attivare il sindacato costituzionale, ipotizzando la non manifesta infondatezza del contrasto con la Costituzione o con le norme convenzionali internazionali. Un compendio di attrezzi che contribuiscono a delineare la figura del giudice disobbediente[43], ma non ai sacri principio della persona che si sono andati sedimentando nella Carta costituzionale e nella sua vocazione ad aprirsi verso le fonti sovranazionali che si mettono al servizio dei medesimi diritti.
Si potrà certo dire che le oscillazioni cui la giurisprudenza nazionale è soggetta tra i vincoli discendenti dalla cooperazione coi giudici sovranazionali, considerato il dovere di fedeltà ai valori fondamentali del diritto interno possono alimentare contenzioso, incertezza ed imprevedibilità, rimettendo “nelle mani del singolo operatore di giustizia un potere enorme, di opzione tra l’obbedienza alle pronunzie delle Corti sovranazionali e la opposizione ad esse in nome dell’identità costituzionale.[44]”
Il sistema fondato sull’interpretazione favorirebbe così la frantumazione del precedente –anch'esso valore fondamentale del sistema – e farebbe da "anticamera" all’incertezza dei diritti alla quale, tuttavia, la stessa dottrina ha opportunamente affiancato il valore, parimenti essenziale per l'attuale contesto sociale, rappresentato dalla certezza dei diritti[45].
La questione è certo spinosa e crea un apparente disorientamento che si riesce a governare, tuttavia, tenendo come si diceva sul proprio scrittoio i contenuti della Costituzione ed i rimandi che essa stessa fa alle Carte sovranazionali.
Ancora una volta, torna ad essere di ausilio il pensiero di Ruggeri quando egli non solo mette in guardia dall’idea di ricercare una certezza tout court nel comando legislativo spesso intrinsecamente incerto, ma soprattutto allorché riconduce la certezza del diritto alla certezza dei diritti, senza la quale il primo canone è vuoto, insignificante, inutile.
Allora, rispetto ai possibili conflitti – ove questi dovessero porsi fra le fonti o fra le stesse giurisprudenza – quale arma sarebbe da prediligere, quella pugnace e belligerante, quella della ordinazione gerarchica fra i diversi attori, quella della scelta ideologica rivolta ad individuare a priori chi è nel giusto e chi nel torto, quella che opta per l’ottica nazional-sovranista e guarda a quella sovranazionale come aggressiva e pericolosa, oppure quella che tende a considerare la prospettiva sovranazionale sempre e comunque prevalente, perché portatrice di valori che, in quanto fondati su tradizioni diverse ma comuni meritano una protezione superiore per la loro forza attrattiva?
Nessuna di queste prospettive può e deve prevalere se si conviene sull’utilità di praticare e disseminare l’idea della cooperazione fra le fonti e fra gli interpreti, sul coinvolgimento piuttosto che sullo scontro.
Si tratta di una prospettiva che trae le sue origini dalla Costituzione[46] e dal principium cooperationis che si declina su diversi piani.
Essa, anzitutto, per dirla ancora con Antonio Ruggeri, suggerisce di considerare tutti i giudici come “orizzontali”, siccome distinti tra di loro unicamente per le funzioni esercitate o, se si preferisce, per la tipicità dei ruoli, comunque bisognosi di essere espressi al massimo rendimento possibile ad ogni livello istituzionale, senza dunque alcuna “graduatoria” tra di loro: siano giudici comuni e siano pure giudici costituzionali o materialmente costituzionali, quali ormai in modo sempre più marcato e vistoso vanno conformandosi le stesse Corti europee[47].
Tanto nel rapporto fra giudice di merito, giudice di legittimità e giudice costituzionale che in quello fra giudice nazionale e sovranazionale, la logica ispiratrice non può che essere quella della leale cooperazione, essa riuscendo a perseguire il miglior risultato possibile per le parti che sono davanti al giudice.
Proprio le sentenze da ultimo ricordate della Corte costituzionale (nn.24 e 25 del 2019) attestano con espressioni terminologiche inequivoche l’attuale contesto storico, nel quale si parla ormai abitualmente di “confluenza della giurisprudenza” delle tre Corti (per descrivere il fenomeno ricordato al punto 8 del considerato in diritto della sent.n.25/2019), di “confronto” fra la Corte di Cassazione e la sentenza de Tommaso – p.11 sent.n.25/2019 –, di rilettura del diritto interno aderente alla CEDU – ibidem – di attività interpretativa idonea a determinare un grado di precisione sufficiente del precetto non penale.
Nella medesima prospettiva l’ordinanza n.117/2019 della Corte costituzionale non manca di confermare l’esigenza di una leale cooperazione fra le giurisdizioni quando, chiamata a valutare la portata del principio nemo tenetur se detegere in ambito “coperto” dal diritto UE (abuso di informazioni riservate), ha mostrato di individuare i contenuti di tale “valore” sotto il profilo della Costituzione, della CEDU e della Carta UE, poi sollevando questione pregiudiziale innanzi alla Corte di giustizia proprio in relazione allo “spirito di leale cooperazione tra corti nazionali ed europee nella definizione di livelli comuni di tutela dei diritti fondamentali – obiettivo questo di primaria importanza in materie oggetto di armonizzazione normativa” – cfr. p.10 del cons. in diritto Corte cost.n.117/2019 –.
Insomma, pronunzie, queste ultime, che confermano quanto oggi “il diritto non è fatto, ma viene fatto”[48] dalle Corti attraverso il caso esaminato, l’interpretazione del quadro normativo di riferimento, la motivazione della decisione[49] e la sua argomentazione.
L’interpretazione, dunque, ritorna a campeggiare nel discorso giuridico, con i toni spesso pugnaci con i quali i sostenitori della necessità di un suo contenimento si confrontano con quelli che vedono, invece, in essa il luogo di naturale composizione dei conflitti tra norme.
In questa prospettiva cooperativa, del resto, si muovono i protocolli d’intesa conclusi fra le più alte giurisdizioni nazionali e la Corte Edu a partire dal dicembre 2015[50], ai quali anche il Consiglio Superiore della magistratura ha deciso di affiancarsi in una prospettiva di diffusione dei materiali provenienti dalle Corti all’intera giurisdizione nazionale[51]
In questo processo parimenti fondamentale è dunque la cooperazione dei giudici con la dottrina e con l’accademia.
La complessità del sistema conduce inevitabilmente a rendere l’una e gli altri assolutamente interdipendenti, non potendo svolgere nessuno dei due al meglio la propria funzione senza la cooperazione e l’aiuto dell’altro, in ragione della crescente complessità del sistema. Rimane essenziale, infatti, un controllo in chiave di ragione delle decisioni giudiziali da parte della comunità scientifica al fine di verificarne la razionabilità e accettabilità del ragionamento che ha condotto all’argomentazione della decisione[52].
Per questo occorre insistere sull’idea che il dialogo intergiurisprudenziale sia una risorsa davvero preziosa, da custodire e coltivare con la massima cura. Per dirla ancora con Ruggeri, “Per il suo tramite, infatti, si possono contenere i margini considerevoli d’incertezza ai quali va per sua natura incontro il “metaprincipio” della massimizzazione della tutela e far sì che quest’ultimo offra il servizio che è chiamato a prestare nei riguardi dei diritti in genere e, specificamente, della dignità. Il dialogo infatti – come si è tentato di mostrare – alla lunga sollecita naturalmente gli operatori a far convergere, piuttosto che a divergere, i loro orientamenti e, per ciò stesso, a consolidare e rendere palesi quelle consuetudini culturali di riconoscimento dei diritti sulle quali si è qui pure particolarmente insistito[53].
Se è nei termini appena esposti il rapporto fra giudice nazionale, Corte edu ed interpretazione/i emerge, imperiosa, l’esigenza di abbandonare le logiche del primato, del più forte, del superiormente ordinato ed invece perseguita, ad ogni livello, un bisogno di dialogo alla pari- affermazione quest’ultima, apparentemente tautologica se si considera che per esservi dialogo non potrebbe sussistere una sovraordinazione fra i dialoganti, senza che i partecipanti possano ritenersi sott’ordinati al potere interpretativo dell’uno o dell’altro ma, semmai, entrambi rivolti a cooperare per il raggiungimento di ottimali standard di protezione dei diritti umani o, meglio, per dirla con Antonio Ruggeri, di una massimizzazione delle tutele che costituisce l’autentica Grundnorm alla quale sono ispirate tutte le Carte dei diritti fondamentali.
11. Conclusioni.
Al termine di queste riflessioni ci si può legittimamente chiedere quale sia l’immagine che esce del giudice comune che si trova a dovere maneggiare le Carte dei diritti fondamentali e a doverle interpretare.
A me pare un'immagine in pieno movimento, in azione, in tensione, con tutto quello che di complesso ciò possa determinare.
Non può, in definitiva, porsi in alcun dubbio l’efficacia vincolante della CEDU e delle sentenze della Corte di Strasburgo, queste ultime tuttavia dovendosi necessariamente confrontare con le altre giurisdizioni nazionali.
È proprio da questo confronto-scontro che tende ad emergere il fenomeno del consolidamento della giurisprudenza, tanto nazionale che sovranazionale, come ha rilevato Ruggeri nell’intervista a Giustizia Insieme già sopra ricordata.
E, pur con le riserve già espresse a proposito della sentenza n.49 del 2015, non può disconoscersi che quello del consolidamento costituisca uno degli obiettivi di fondo al quale tutte le giurisdizioni più o meno consapevolmente tendono.
Resta il fatto che sul come possano e debbano entrare nel sistema interno la fonte di cui si è detto e la sua giurisprudenza non esistono formule magiche o matematiche, né è pensabile che siano trovate facendo ricorso all’intelligenza artificiale.
In questa prospettiva, la riflessione di Ruggeri risulta, ancora una volta, di rilievo muovendosi sulla continua ricerca, non in astratto ma in concreto, del limite che i soggetti istituzionali coinvolti devono sapere cogliere per perseguire una prospettiva di massimizzazione delle tutela alimentata, appunto, dal confronto, dalla conoscenza, dalla formazione degli operatori rispetto alle fonti sovranazionali, dalla intelligente e consapevole attenzione al perenne interscambio fra le Corti, capace di determinare, alla fine del confronto, un risultato che (quasi incredibilmente) attribuisce comunque notevole valore all’interpretazione fornita proprio dalle autorità interne che sono “di prossimità” rispetto alle spesso dolorose vicende della vita.
Il futuro, dunque, non è nello scontro, ma nell’incontro delle diversità. Un incontro sempre più qualificato, consapevole, incisivo che proprio nel ricordato principium cooperationis non potrà che vedere il suo inizio e la sua fine.
Questo principio consentirà, del resto, di fugare quell’immagine, invero ingenerosa, di una Corte Edu giudice dei ricchi che si sostituisce ai giudici nazionali diventando un quarto grado di giudizio, riproposta anche di recente[54]. Immagine sulla quale non mi sento di concordare ma che, in ogni caso, lascia – e lascerà sempre di più – quando il Protocollo n.16 sarà a pieno regime – prepotentemente il passo ai giudici nazionali che costituiscono l’autentico motore dei diritti fondamentali, ai quali spetta l’onore e l’onere di fare vivere i diritti fondamentali nella loro naturale proiezione nazionale e sovranazionale.
L’orizzonte a medio termine è difficile da immaginare, ancorché paia emergere la tendenza volta al superamento dei concetti di interpretazione costituzionalmente, convenzionalmente e eurounitariamente orientate, in favore di un’idea di autentica e perenne conformazione del sistema ai valori fondamentali che si alimentano incessantemente e continuamente attraverso le diverse fonti – Costituzione, Carte dei diritti – per il tramite di “un’interpretazione orientata al rispetto dei principi fondamentali” compiuta dal giudice che dà così vita al diritto giurisprudenziale. Quest’ultimo ha senz’altro un carattere sui generis, andando oltre la legge ordinaria e camminando insieme, accanto, tenendosi per mano con la Costituzione, assumendone dunque i tratti, anche in termini di forza di resistenza, come anche di recente hanno sottolineato Baldo Pastore e Giorgio Pino nell’intervista resa a Giustizia insieme su La retorica dei diritti fondamentali[55].
Un giudice, quello attuale, non più dunque mero lettore di un sistema di norme, ma autentico ingranaggio essenziale di un processo produttivo del diritto[56].
[1] A. Ruggeri, Il principio di solidarietà alla prova del fenomeno migratorio, in Consultaonline, 30 ottobre 2017, 2017, f. 3; id., Eguaglianza, solidarietà e tecniche decisorie nelle più salienti esperienze della giustizia costituzionale, in AA., I rapporti civilistici nell’interpretazione della Corte costituzionale nel decennio 2006-2016, Napoli 11-13 maggio 2017, a cura di P. Perlingieri e S. Giova, Napoli 2018, 241; id., Il principio di solidarietà alla prova del fenomeno migratorio, in Consulta OnLine,3/2017, 30 ottobre 2017, 445 ss.
[2] A. Ruggeri, Il principio personalista e le sue proiezioni, in www.federalismi.it, 17/2013, nonché in AA.VV., Principi costituzionali, a cura di L. Ventura e A. Morelli, Milano 2015, 167 ss..
[3] B. Forte, Il nuovo umanesimo significa solidarietà, Corriere della sera, 4 settembre 2019, 28.
[4] A. Ruggeri, La dignità dell’uomo e il diritto di avere diritti (profili problematici e ricostruttivi), in Consulta OnLine, 2/2018, 3 giugno 2018, 392 ss.
[5] P. Calamandrei, La funzione della giurisprudenza nel tempo presente, in Opere giuridiche – Volume I – Problemi generali del diritto e del processo, Roma 2019, 610. Per l’evoluzione del pensiero di Calamandrei sui temi della legalità e del ruolo del giudice v., M. Vogliotti, Legalità, in Enciclopedia del diritto, Annali, VI, Milano 2013, 393.
[6] A. Ruggeri, L’interpretazione conforme a CEDU: i lineamenti del modello costituzionale, i suoi più rilevanti scostamenti registratisi nell’esperienza, gli auspicabili rimedi, Itinerari di una ricerca sul sistema delle fonti, Torino, XIX, Studi dell’anno 2015, 277; id., In tema di interpretazione e di interpreti nello Stato costituzionale (a proposito di un libro recente), ib., 503; Giurisdizione e diritti: un rapporto complesso, ad oggi largamente inesplorato e bisognoso della sua opportuna chiarificazione, Itinerari di una ricerca sul sistema delle fonti, 2016, 353. Più di recente, v., id., Sistema integrato di fonti e sistema integrato di interpretazioni, nella prospettiva di un’Europa unita, Relazione all’incontro di studio su Il sistema integrato delle fonti, organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura, Reggio Calabria, 30 aprile 2010, ed al convegno su Corti costituzionali e Corti europee dopo il Trattato di Lisbona, Verona 24 giugno 2010, a cura di M. Pedrazza Gorlero, Napoli 2010, 25 ss.; id, Interpretazione conforme e tutela dei diritti fondamentali, tra internazionalizzazione (ed “europeizzazione”) della Costituzione e costituzionalizzazione del diritto internazionale e del diritto eurounitario, Relazione all’incontro di studio su L’interpretazione giudiziale fra certezza del diritto ed effettività delle tutele, Agrigento 17-18 settembre 2010, in www.associazionedeicostituzionalisti.it; id., L’interpretazione conforme e la ricerca del “sistema di sistemi” come problema, Relazione al Convegno su L’interpretazione conforme al diritto dell’Unione europea. Profili e limiti di un vincolo problematico, Rovigo 15-16 maggio 2014, a cura di A. Bernardi, Napoli 2015, 153 ss. d., Il futuro dei diritti fondamentali, sei paradossi emergenti in occasione della loro tutela e la ricerca dei modi con cui porvi almeno in parte rimedio, Consdultaonline, 1 febbraio 2019,2019, f.1.
[7] M. Luciani, Alcuni interrogativi sul nuovo corso della giurisprudenza costituzionale in ordine ai rapporti fra diritto italiano e diritto internazionale, in Corr. Giur., 2008, pp. 203 e 204, aveva sostenuto che il vincolo all’interpretazione del giudice internazionale integra un caso di limitazione della sovranità statale. Analogamente, per L. Condorelli, La Corte costituzionale e l’adattamento dell’ordinamento italiano alla CEDU o a qualsiasi obbligo internazionale?, in Diritti umani e diritto internazionale, 2008, p. 301 ss.
[8] Cfr.G.Tesauro, Costituzione e norme interne, in Dir.un.eur., 2009,2, 219-220.
[9] Oltre ai numerosissimi commenti alla sentenza ricordata nel testo, in calce alla pubblicazione della stessa su Consultaonline, v. di recente. A. Randazzo, La tutela dei diritti fondamentali tra CEDU e Costituzione, Milano 2017, 195.
[10] Sul punto, A. Ruggeri, Fissati nuovi paletti dalla Consulta a riguardo del rilievo della Cedu in ambito interno, in diritticomparati, 7 aprile 2015, ha sostenuto che il giudice può e deve far capo alla interpretazione della Corte EDU, anche se non consolidata, sempre che non entri in rotta di collisione con la Cost.; se, di contro, c'è il rischio del conflitto, può discostarsene in caso di mancato "consolidamento".
[11] Cfr.p.7 cons. diritto:”...Quando, invece, si tratta di operare al di fuori di un simile presupposto, resta fermo che «L’applicazione e l’interpretazione del sistema di norme è attribuito beninteso in prima battuta ai giudici degli Stati membri» (sentenza n. 349 del 2007). Ciò non vuol dire, però, che questi ultimi possano ignorare l’interpretazione della Corte EDU, una volta che essa si sia consolidata in una certa direzione.”
[12] A. Ruggeri, I rapporti tra Corti europee e giudici nazionali e l’oscillazione del pendolo, in Consultaonline, f.1/2019, 25 marzo 2019.
[13] V., volendo sul tema, R. Conti, La nuova frontiera dopo la “Torreggiani”: tracciati e prospettive per il giudice e il legislatore, in La tutela preventiva e compensativa per i diritti dei detenuti, a cura di F. Fiorentin e D. Galliani, Torino 2019, 599.
[14] Ciò si coglie in altri precedenti della Corte costituzionale, allorché quello stesso giudice ha ritenuto di potersi spingere sul terreno della verifica di convenzionalità di una norma interna anche in assenza di precedenti specifici del giudice europeo – cfr. Corte cost.n.276/2016 che, con riguardo al tema del diritto di elettorato passivo e alla protezione riconosciuta ad esso dalla Convenzione ed in assenza di precedenti specifici della Corte EDU relativi a normative che facciano derivare da condanne penali la perdita dei requisiti di candidabilità e di mantenimento della carica, si è spinta ad individuare in autonomia la linea di tutela offerta a livello convenzionale per valutare la compatibilità con l’art. 117, primo comma, Cost. della normativa oggetto del giudizio –.
[15] V. Manes, Metodo e limiti dell’interpretazione conforme alle fonti sovranazionali in materia penale, in Diritto Penale Contemporaneo, www.penalecontemporaneo.it, 2012; P. Gaeta, Dell’interpretazione conforme
alla C.E.D.U.: ovvero, la ricombinazione genica del processo penale, ib., 2012.
[16] N. Lipari, Il diritto civile tra legge e giudizio, Milano 2017, 77 e 100.
[17] Estremamente raffinata, di recente, l’analisi sul tema delle interpretazioni conformi di V. Sciarabba, Spunti di riflessione in tema di “interpretazione conforme”, in Il ruolo della CEDU tra Corte costituzionale, giudici comuni e Corte europea, Roma, 2019.
[18] Su tale espressione insiste particolarmente P. Grossi, L’invenzione del diritto, Bari-Roma, 2017, 115 e 127, specificamente ricordando Cass. S.U. n.1946/2017. Analoga attenzione riserva a tale pronunzia N. Lipari, Diritto civile e ragione, cit., 93. V. ancora E. Scoditti, Scoprire o creare il diritto? A proposito di un recente libro, in www.questionegiustizia.com.
[19] Sul ruolo dell’interpretazione nell’individuazione dei principi v. T. Mazzarese, Interpretazione della costituzione. Quali i pregiudizi ideologici?, in A. Donati, A. Sassi, Fondamenti etici del processo. Vol. 1 di Diritto privato. Studi in onore di Antonio Palazzo, Torino 2009,439 ss.
[20] Cass.S.U. (pen.), 22 febbraio 2018, n. 8770: “Ritengono le Sezioni Unite che in ciascuna delle due contrastanti sentenze in esame siano espresse molteplici osservazioni condivisibili, in parte anche comuni, ma manchi una sintesi interpretativa complessiva capace di restituire la effettiva portata della norma in considerazione. Sintesi che richiede talune puntualizzazioni sugli elementi costitutivi della nuova previsione, da individuare attraverso una opportuna attività ermeneutica che tenga conto, da un lato, della lettera della legge e, dall'altro, di circostanze anche non esplicitate ma necessariamente ricomprese in una norma di cui può dirsi certa la ratio, anche alla luce del complesso percorso compiuto negli anni dal legislatore sul tema in discussione. Percorso al quale non risultano estranei il contributo della Corte costituzionale nè gli approdi della giurisprudenza di legittimità, di cui, dunque, ci si gioverà. Infatti, val la pena osservare che il canone interpretativo posto dall'art. 12 preleggi, comma 1, prevede la valorizzazione del significato immediato delle parole, di quello derivante dalla loro connessione nonché della "intenzione del legislatore". E da tale disposizione - che va completata con la verifica di compatibilità coi principi generali che regolano la ricostruzione degli elementi costitutivi dei precetti - si evince un solo vincolante divieto per l'interprete, che è quello riguardante l'andare "contro" il significato delle espressioni usate, con una modalità che sconfinerebbe nell'analogia, non consentita nella interpretazione del comando penale. Non gli è invece vietato andare "oltre" la letteralità del testo, quando l'opzione ermeneutica prescelta sia in linea con i canoni sopra indicati, a maggior ragione quando quella, pur a fronte di un testo che lascia aperte più soluzioni, sia l'unica plausibile e perciò compatibile col principio della prevedibilità del comando; sia, cioè, il frutto di uno sforzo che si rende necessario per giungere ad un risultato costituzionalmente adeguato, candidandosi così a dare luogo, in presenza di una divisione netta nella giurisprudenza delle sezioni semplici, al "diritto vivente" nella materia in esame. Il tentativo di sperimentare una interpretazione costituzionalmente conforme è, d'altro canto, il passaggio necessario e, se come nella specie concluso con esito positivo, ostativo all'investitura della Corte costituzionale, in contrasto con quanto auspicato dal Procuratore generale. Ed è, quella anticipata, l'elaborazione che le Sezioni Unite intendono rendere, essendo proprio compito, nell'esercizio della funzione nomofilattica, individuare il significato più coerente del dato precettivo, anche scegliendo tra più possibili significati e plasmando la regola di diritto la quale deve mantenere il carattere generale ed astratto. Ciò, in altri termini, senza che sia riconducibile alla attività interpretativa che ci si accinge a compiere un'efficacia sanante di deficit di tassatività della norma, non condividendosi il sospetto che la scelta sulla portata normativa dell'art. 6 sia sospinta dalla esistenza di connotati di incertezza e di imprevedibilità delle conseguenze del precetto, le quali, se ravvisate, avrebbero condotto alla sola possibile soluzione di sollevare, nella sede propria, il dubbio di costituzionalità.”
[21] P. Calamandrei, La funzione della giurisprudenza nel tempo presente, cit., 604.
[22] V. Carbone V., Relazione sull’amministrazione della giustizia dell’anno 2007, in www.giustizia.it: <<… Il ruolo del Giudice ( rispetto al Giudice Bouche de la loi” dei macrosistemi napoleonici, ma già prima del Code Louis) deve essere, oggi, molto più “attivo”, se non “creativo”. Prima di applicare la norma, il Giudice deve “trovarla”, scoprirla”(Rechtsfindung), scavando nel magma delle disposizioni, fino a rinvenire un dato normativo da adattare, restringendolo o estendendolo, integrandolo o correggendolo, attraverso operazioni ermeneutiche a volte sofisticate. Se neppure questa “ricerca” è sufficiente, il Giudice- che in un sistema di civil law non è “creatore” di regole- è costretto a divenirlo, suo malgrado. Spesso, infatti, per risolvere controversie, deve colmare lacune; deve ricavare una regola da un testo, che è(talvolta volutamente) ambiguo; deve applicare, a casi concreti, leggi che contengono solo proclami programmatici; deve far funzionare nella vita reale affermazioni normative adottate ( soltanto o principalmente) nel contesto di un dibattito politico o mediatico; deve adattare un tessuto normativo spesso obsoleto, con disposizioni introdotte in un momento temporale contingente, a tempi storici e contesti socio-economici del tutto diversi, stante lo sviluppo inarrestabile del sistema economico-sociale. È la metafora di Achille e la tartaruga, con regole economiche e di mercato e regole giuridiche che con fatica le seguono. Insomma, il Giudice deve trasformare una “disposizione sulla carta” in una norma”, in una regola, in un precetto giuridico comprensibile che avvicini la legge al cittadino. E anche quando una disposizione è rinvenibile, il Giudice “ non può arrestarsi a rievocare il senso originario della norma come se si trattasse ….di un fatto del passato… ma deve fare “un passo avanti”. La norma, infatti, lungi dall’esaurirsi nella sua primitiva formulazione, ha vigore attuale, in una con l’ordinamento di cui fa parte integrante ed è destinata…a trasfondersi nella vita sociale alla cui disciplina deve servire(Emilio Betti,L’interpretazione della legge e degli atti giuridici, Milano, 1949, 17 ss,34 ss,). Così nasce il “diritto vivente”:l’ordinamento giuridico non è qualcosa di bello e fatto, né un organismo che si sviluppi da sé per mera legge naturale”, ma è qualcosa che ‘si fa’ per opera assidua e coerente di interpretazione”. Questo ruolo impone uno sforzo costante per una giurisprudenza “moderna”, al passo con i tempi, anche a costo di ribaltare indirizzi consolidati ( e quindi più comodi da seguire) ma ormai obsoleti, per andare incontro alle esigenze dei cittadini, delle imprese, della società, dell’economia, dello sviluppo, interpretando ove possibile in modo nuovo le regole che non sono ancora riuscite a “mettersi al passo”.Ciò può avere ricadute positive di rilievo non solo giuridico: una giurisprudenza moderna e consapevole del suo contributo alla creazione del diritto vivente può costituire un fattore di innovazione, semplificazione e “sviluppo” del sistema. Si delinea una nuova tappa della funzione di garanzia giurisdizionale: in un tempo di regole complesse, essa diventa elemento di “semplificazione” interpretativa della “complicazione” legislativa, fattore di innovazione e “sviluppo” del sistema, garanzia di realizzazione dei diritti di cittadinanza sociale e di libertà, anche economica, in un sistema multilivello, su cui incidono i processi di globalizzazione.>>
[23] Sullo spostamento dalla teoria delle fonti alla teoria dell'interpretazione v., a più riprese A. Ruggeri, in molti suoi scritti e, fra questi, i più risalenti:Sovranità dello Stato e sovranità sovranazionale, attraverso i diritti umani, e le prospettive di un diritto europeo “intercostituzionale”, in Dir. pubbl. comp. ed eur., 2/2001, 544 ss.; Prospettive metodiche di ricostruzione del sistema delle fonti e Carte internazionali dei diritti, tra teoria delle fonti e teoria dell’interpretazione, in G.F. Ferrari (a cura di) I diritti fondamentali dopo la Carta di Nizza. Il costituzionalismo dei diritti, Milano, 2001, 219 ss. e in Ragion prat., 18/2002, 63 ss.; Carte internazionali dei diritti, Costituzione europea, Costituzione nazionale: prospettive di ricomposizione delle fonti in sistema, in www.forumcostituzionale.it, 2007. V. anche, N. Lipari, Il diritto civile tra legge e giudizio, cit., 115 ss. e 205.
[24] A. Ruggeri, Principio di ragionevolezza e specificità dell’interpretazione costituzionale, in Ars interpretandi, 2002, 314. Cfr., dello stesso Autore, Conferme e novità di fine anno in tema di rapporti tra diritto interno e CEDU (a prima lettura di Corte cost. nn. 311 e 317 del 2009), cit.; idem, Sistema integrato di fonti, tecniche interpretative, tutela dei diritti fondamentali, in www.csm..it; Composizione delle norme in sistema e ruolo dei giudici a garanzia dei diritti fondamentali e nella costruzione di un ordinamento “intercostituzionale”, in www.federalismi.it; idem, Valori e principi costituzionali degli Stati integrati d’Europa, in www.astrid.online.it; idem, Dimensione europea della tutela dei diritti fondamentali e tecniche interpretative, in www.federalismi.it. V., ancora, per la civilistica italiana, N. Lipari, Il diritto civile tra legge e giudizio, cit., 96; id., N. Lipari, Diritto civile e ragione, Milano, 2019, 100; G. Pino, Conflitto e bilanciamento tra diritti fondamentali. Una mappa dei problemi, in Ragion Pratica, , 2007, 236 ss; E. Scoditti, Il diritto tra fonti e interpretazione, in Foro it., 2013, V, 189; id., Stefano Rodotà e i giovani civilisti degli anni Sessanta, in Questionegiustizia, 20 settembre 2017. Sia consentito anche il rinvio a R. Conti, La giurisdizione del giudice ordinario e il diritto Ue, in Le trasformazioni istituzionali a sessant’anni dai trattati di Roma, a cura di A. Ciancio, Torino 2017, 99.
[25] Cfr. Cass. S.U., 9 dicembre 2015, n.24822, in Giur. It., 2016, 1627, con nota di A. Giordano ; v. Cass., S.U. 21 dicembre 2018 n.33208, in Giur. It., 2019, 1072, con nota di R. Conte; Cass. Sez. un. 12 giugno 2019, n. 15750.
[26] V, a proposito della l.n.219/2017, ad es. R.G.Conti, Scelte di vita o di morte: il giudice è garante della dignità umana? Relazione di cura, DAT e “congedo dalla vita” dopo la l.n 219/2017, Roma 2019, 83 ss.
[27] N. Lipari, Il diritto civile tra legge e giudizio, cit., 21.
[28] N. Lipari, Il diritto civile tra legge e giudizio, cit., 22.
[29] A. Ruggeri, Le attività “conseguenziali” nei rapporti fra la Corte costituzionale e il legislatore (Premesse metodico-dogmatiche ad una teoria giuridica), Milano 1988, 55 ss.; A. Spadaro, La norma - o piuttosto la situazione normativa - quale oggetto del giudizio costituzionale?, in Giur. Cost., n. 2, 1996, pp. 778; A. Ruggeri - A. Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale, Torino 2014, 93 ss.
[30] V. Corte dir. uomo, Golder c. Regno Unito, 21 febbraio 1975, § 29; Johnston e altri c. Irlanda, 18 Dicembre 1986, §§ 51; Lithgow e altri c. Regno Unito, 8 luglio 1986, §§ 114 e 117; Witold Litwa c. Polonia, ric. 26629/95, §§ 57-59.
[31] V.Corte giust., Stec e altri c. Regno Unito [GC], ric. da n. 65731/01 a n. 65900/01, §§ 47-48.
[32] V. Corte dir.uomo, Saadi c. Regno Unito, 29.1.2008 ric.n.13229/03,§ 62;sent. Bosphorus Hava Yolları Turizm ve Ticaret Anonim Şirketi c. Irlanda [GC], ric.n. 45036/98, § 150
[33] V. anche, in tema C. Ciuffetti, Convergenze nelle giurisprudenze sovranazionali europee nelle tutele dei diritti fondamentali. Considerazioni a margine della sentenza della Corte di Giustizia delle comunità europee Kadi e al barakaat foundation del 3 settembre 2008 e della sentenza della corte europea dei diritti dell’uomo G.C. Demir e Baykara c. Turchia del 12 novembre 2008, in www.federalismi.it., 14 gennaio 2009.
[34] V. p.68 sent.ult.cit. :“…which must be interpreted in the light of present-day conditions, and that it has taken account of evolving norms of national and international law in its interpretation of Convention provisions.” Conf. Corte dir. uomo, V. c. Regno Unito, [GC], ric. n. 24888/94, § 72; Corte dir. uomo, Matthews c. Regno Unito, [GC], ric.n. 24833/94, § 39.
[35] v. Corte dir.uomo, Öneryıldız c. Turchia [GC], ric. n. 48939/99, §§ 59, 71, 90 e 93.
[36] Cfr. A. Barone, La Corte Costituzionale e la Carta sociale europea (ovvero il giudice comune con tre cappelli e una sciarpa), in https://www.lavorodirittieuropa.it, 25 luglio 2019.
[37] Corte dir.uomo, Sigurður A. Sigurjónsson c. Islanda, 30 giugno 1993, § 35; Corte edu, Sørensen e Rasmussen c. Danimarca[GC], ric.n. 52562/99 e 52620/99, §§ 72-75.
[38] Corte dir.uomo, Marckx c. Belgio, 13 Giugno 1979, §§ 20 e 41.
[39] Corte dir.uomo, Goodwin c. Regno Unito [GC], ric.n. 28957/95; sent. Vilho Eskelinen e altri c. Finlandia ([GC], ric. n. 63235/00
[40] Corte dir. uomo, Glass c. Regno Unito, ric. n. 61827/00, § 75; Corte dir.uomo, Demir, cit., p.85 ss.
[41] Temi già in passato affrontati in altra sede alla quale si rimanda. V., volendo, R. Conti, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il ruolo del giudice, Roma, 2011; id., I giudici e il biodiritto. Un esame concreto dei casi difficili e del ruolo del giudice di merito, della Cassazione e delle Corti europee, Roma 2015; id, Il sistema di tutela multilivello e l’interazione tra ordinamento interno e fonti sopranazionali, in www.questionegiustizia.com, Rivista on line, 4/2016; id., Scelte di vita o di morte: il giudice è garante della dignità umana?, cit.
[42] Diversamente, L. Ferrajoli, Contro la giurisprudenza creativa, in www.questionegiustizia.com, 2017.
[43] V.D. Galliani, V. Militello, G. Silvestri, Il giudice disobbediente nel terzo millennio, in Le interviste di Giustizia Insieme, a cura di R.G. Conti, 5 giugno 2019, in Giustiziainsieme.it.
[44] A. Ruggeri, Corte EDU e Corte interamericana dei diritti umani: modelli ed esperienze a confronto, in Itinerari di una ricerca sul sistema delle fonti, XXIII, Studi dell’anno 2018, Torino, 2019,469.
[45] A. Ruggeri, Sistema di fonti o sistema di norme? Le altalenanti risposte della giurisprudenza costituzionale, in “Itinerari” di una ricerca sul sistema delle fonti, XVI, Studi dell’anno 2012, Torino 2013, 518:“…Ci si avvede così che nulla può dirsi a priori circa il modo con cui una fonte si pone davanti ad altre fonti e viene pertanto a trovare ricetto nel sistema; tutto, piuttosto, può dirsi solo a posteriori, per il modo con cui le norme dalle fonti prodotte si riportano le une alle altre e tutte assieme a “fatti” e valori. La gerarchia, insomma, in ultima istanza si fa e senza sosta rinnova, fissandosi per le esigenze di un’esperienza data, davanti al giudice (e, segnatamente, avuto riguardo alle vicende delle fonti di primo grado, davanti al giudice costituzionale), la certezza del diritto convertendosi ed interamente risolvendosi in certezza dei diritti, vale a dire, a conti fatti, nella effettività della loro tutela, la massima possibile alle condizioni oggettive di contesto.”
[46] M. Fioravanti, Il legislatore e i giudici di fronte alla Costituzione, in Quaderni costituzionali, Fascicolo 1, marzo 2016, 7 ss.
[47] A. Ruggeri, Costituzione e CEDU, alla sofferta ricerca dei modi con cui comporsi in “sistema”, in “Itinerari” di una ricerca sul sistema delle fonti. XVI. Studi dell’anno 2012, Torino 2013, 246.
[48] N. Lipari, Diritto civile e ragione, Milano 2019, 74.
[49] Sul ruolo centrate della motivazione delel decisioni ritorna, di recenter, N. Lipari, Diritto civile e ragione, cit., 66.
[50] Di questo abbiamo discusso in R. Conti, I Protocollo di dialogo fra Alte Corti italiane, CSM e Corte edu a confronto con il Protocollo n.16 annesso alla CEDU. Due prospettive forse inscindibili, in Questionegiustiziaonline, 30 gennaio 2019.
[51] V., Delibera della Nona Commissione del CSM del 24.7.2019, concernente l’Attuazione del Protocollo di collaborazione nell'ambito della Rete tra Corti Supreme e Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, con la quale ha stata deliberata la partecipazione di un componente della Nona Commissione al Gruppo di coordinamento fra le Corti nazionali e la Corte Edu in vista dell’inserimento di materiale proveniente dalle Corti nel portale web del CSM.
[52] N. Lipari, Diritto civile e ragione, cit.,73.
[53] A. Ruggeri, Corte EDU e Corte interamericana dei diritti umani: modelli ed esperienze a confronto, in Itinerari di una ricerca sul sistema delle fonti, XXIII, Studi dell’anno 2018, cit., 470.
[54] R. Cantone, in R. Cantone -V. Paglia, La coscienza e la legge, Bari-Roma, 2019,164.
[55] B. Pastore, G. Pino, La retorica dei diritti fondamentali?, in Le interviste di Giustizia Insieme, a cura di R. G. Conti, in Giustiziainsieme, 10 luglio 2019. V., del resto, in precedente, B. Pastore, Le fonti e la rete. Il principio di legalità rivisitato, in G. Brunelli-A. Pugiotto- P. Veronesi, a cura di, Il diritto costituzionale come regola e limite al potere. Scritti in onore di Lorenza Carlassare, I, Delle fonti del diritto, Napoli 2009, 279.
[56] N. Lipari, Diritto civile e ragione, cit., 98.
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LA TUTELA DEI DIRITTI A PRESTAZIONE TRA DIRITTO DELL’UNIONE E COSTITUZIONE ITALIANA: PROFILI PROBLEMATICI
Luigi Cavallaro
Sommario: 1. La sicurezza sociale nel diritto dell’Unione Europea – 2. Un case-study: l’assegno di natalità agli extracomunitari. – 3. Le soluzioni dei giudici di merito e della Corte di cassazione. – 4. Le ragioni teoriche della posizione della Cassazione e i confini della interpretazione conforme.
1. La sicurezza sociale nel diritto dell’Unione Europea
È noto che la “politica sociale”, nel cui ambito rientrano la previdenza e l’assistenza sociale, appartiene all’ambito delle c.d. competenze concorrenti dell’Unione Europea, cioè di quelle competenze che le sono attribuite solo ed in quanto gli obiettivi enunciati dai Trattati non possono essere conseguiti a livello di singoli Stati membri (art. 4, lett. b, e artt. 151 ss. TFUE). Ed è parimenti noto che, pur essendo la sicurezza sociale inclusa tra gli ambiti di azione dell’Unione (art. 153 TFUE), la competenza in materia non può essere esercitata in modo da compromettere «la facoltà riconosciuta agli Stati membri di definire i principi fondamentali del loro sistema di sicurezza sociale», né da «incidere sensibilmente sull’equilibrio finanziario dello stesso» (art. 153 cit., paragrafo 4): si tratta infatti di ambiti normativi che hanno implicazioni dirette sul bilancio dei singoli Stati membri, al cui equilibrio peraltro essi sono tenuti per rispettare altre e non meno cogenti disposizioni dei Trattati (cfr. artt. 126 ss. TFUE).
Proprio per ciò, i principali interventi regolatori che si rinvengono nella nostra materia sono i regolamenti CE nn. 884/2004, 987/2009 e 265/2012, che concernono la definizione del regime previdenziale applicabile ai lavoratori migranti nell’ambito dell’Unione, al fine di risolvere i possibili conflitti di disposizioni interne in tema di iscrizione, pagamento dei contributi e calcolo delle prestazioni: si tratta, a ben guardare, di disposizioni finalizzate a preservare la fondamentale libertà di circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione (art. 45 TFUE), che potrebbe essere pregiudicata in assenza di regole che garantiscano la conservazione e il cumulo dei periodi assicurati presso i singoli Stati membri, e rientrano pertanto a pieno titolo nell’ambito del principio di sussidiarietà nei cui limiti l’Unione può legiferare allorché sia dotata di competenza concorrente (art. 5 TUE).
È in questo quadro che dev’essere dunque letta la previsione dell’art. 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Il «diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale e ai servizi sociali che assicurano protezione in casi quali la maternità, la malattia, gli infortuni sul lavoro, la dipendenza o la vecchiaia, oltre che in caso di perdita del posto di lavoro», di cui al paragrafo 1, e il «diritto all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa volte a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti», di cui al paragrafo 2, sono infatti riconosciuti e rispettati dall’Unione «secondo le modalità stabilite dal diritto dell’Unione e le legislazioni e prassi nazionali»; perfino il paragrafo 2, che statuisce solennemente il diritto di «ogni persona che risieda o si sposti legalmente all’interno dell’Unione [...] alle prestazioni di sicurezza sociale e ai benefici sociali», rimanda invariabilmente a come esse sono disegnate dal «diritto dell’Unione e [d]alle legislazioni e prassi nazionali», a conferma di come non esista alcunché di definibile come un “regime europeo di sicurezza sociale”, né determinazioni comunitarie immediatamente vincolanti in ordine alle prestazioni da assicurarsi ai cittadini e residenti dell’Unione. Tanto è vero che nelle Spiegazioni della Carta dei diritti fondamentali, l’art. 34 è individuato come disposizione che contiene «elementi sia di un diritto sia di un principio»: e che la sua parte attributiva di diritti si colleghi esclusivamente al paragrafo 2, cioè alla garanzia delle prestazioni di sicurezza sociale per i lavoratori migranti all’interno dell’Unione, si capisce dal rinvio che le Spiegazioni stesse operano ai regolamenti CE del 1968 e del 1971 che, al tempo dell’adozione della Carta di Nizza, ne disciplinavano le modalità di attuazione.
Se ciò è vero, se ne dovrebbe dedurre che le disposizioni comunitarie dettate in materia di sicurezza sociale, salvo che si tratti dei regolamenti che provvedono alla copertura previdenziale dei lavoratori migranti nell’ambito dell’Unione, abbiano efficacia di principi e non di diritti immediatamente azionabili in giudizio; si tratterebbe cioè di disposizioni che non possono giustificare la non applicazione della norma interna con esse eventualmente contrastante, ma soltanto abilitare il giudice comune a sollevare la questione di legittimità costituzionale di essa per violazione dell’art. 117, comma 1°, Cost., per tramite della norma comunitaria interposta.
Si tratta, nondimeno, di una soluzione controversa e, allo scopo, mi pare utile illustrare un case-study che si è già affacciato nelle nostre aule giudiziarie.
2. Un case-study:l’assegno di natalità agli extracomunitari
L’art. 1, comma 125, l. n. 190/2014, disciplina l’assegno di natalità dovuto per il caso di nascita di un figlio e stabilisce che esso debba essere corrisposto ai figli di cittadini italiani, ai figli di cittadini di uno Stato membro dell’Unione e ai figli di cittadini extracomunitari che siano muniti del permesso di soggiorno di cui all’art. 9, T.U. n. 286/1998, e successive modifiche e integrazioni (c.d. permesso UE per soggiornanti di lungo periodo o carta di soggiorno), che presuppone a sua volta per essere rilasciato il possesso da almeno cinque anni di un titolo di soggiorno valido.
Una cittadina extracomunitaria, non munita di tale permesso ma del diverso permesso di soggiorno per motivi familiari, rilasciato ai sensi dell’art. 30, T.U. n. 286/1998, fa domanda dell’assegno di natalità, che viene rigettata dall’INPS proprio (e soltanto) per l’assenza del requisito del permesso di soggiorno UE per i soggiornanti di lungo periodo. A sostegno della sua domanda, la cittadina extracomunitaria denuncia il contrasto della disciplina interna con la direttiva 2011/98/UE, che all’art. 12, paragrafo 1, enuncia un principio di parità di trattamento tale per cui i lavoratori di paesi extracomunitari debbono beneficiare dello stesso trattamento dei cittadini dello Stato membro in cui soggiornano per ciò che riguarda, tra l’altro, i settori della sicurezza sociale definiti nel regolamento CE 883/2004: il permesso di cui all’art. 30, T.U. n. 286/1998, le dà infatti la possibilità di lavorare e l’impossibilità, ciò nonostante, di accedere al beneficio dell’assegno di natalità costituisce, a suo avviso, un’indebita discriminazione in suo danno, perché, pur essendo “lavoratrice”, si trova a patire un trattamento deteriore rispetto ai cittadini italiani e comunitari. E anche se è vero che la direttiva 2011/98/UE non è stata attuata ed è scaduto il tempo utile alla sua trasposizione, non è meno vero che – secondo la prospettazione di parte attrice – la disposizione del suo art. 12 è norma imperativa e incondizionata, che ben può avere efficacia diretta nell’ordinamento nazionale, specie considerando che si tratta di un’espressione del più generale divieto di discriminazione di cui all’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, sulla cui immediata cogenza non possono sussistere dubbi.
La domanda, a questo punto, è ovvia. Cosa deve fare il giudice, posto davanti alla pretesa di parte attrice? Deve disapplicare la norma interna in ipotesi contrastante con il diritto dell'Unione o denunciarne l’illegittimità costituzionale per violazione dell’art. 117, comma 1°, Cost.?
Diciamo subito che la domanda è ovvia, ma la risposta non è affatto banale, perché, nonostante le previsioni dei Trattati e della Carta assegnino alle disposizioni comunitarie in materia di sicurezza sociale i caratteri che abbiamo dianzi ricordato, la Corte di Giustizia UE non ha mancato, nemmeno in questa materia, di riaffermare l’intima cogenza del principio di non discriminazione. Per non fare che un esempio, intervenuta a chiarire la portata precettiva dell’art. 29 della direttiva 2011/95/UE, che, in materia di protezione internazionale, stabilisce espressamente che «gli Stati membri provvedono affinché i beneficiari di protezione internazionale ricevano, nello Stato membro che ha concesso tale protezione, adeguata assistenza sociale, alla stregua dei cittadini dello Stato membro in questione», quanto meno per ciò che concerne le «prestazioni essenziali», la Corte di Giustizia ha, da un lato, precisato che l’adeguatezza dell’assistenza sociale va rapportata a quanto al medesimo titolo percepiscono i cittadini e, dall’altro, perentoriamente statuito che «tale disposizione pone a carico di ogni Stato membro, in termini inequivocabili, un obbligo di risultato preciso e incondizionato, consistente nel garantire ad ogni rifugiato cui conceda la propria protezione il beneficio della stessa assistenza sociale di quella prevista per i propri cittadini», con la conseguenza che «i giudici nazionali e gli organi dell’amministrazione, qualora non possano procedere ad un’interpretazione e ad un’applicazione della normativa nazionale conformi alle prescrizioni del diritto dell’Unione, sono tenuti ad applicare integralmente il diritto dell’Unione e a tutelare i diritti che quest’ultimo attribuisce ai singoli, disapplicando, se necessario, qualsiasi disposizione contraria del diritto interno», affinché «venga meno la restrizione dei [...] diritti [del rifugiato] derivante da tale normativa» (CGUE, 21 novembre 2018, C-713/17, Ayubi).
Seguendo tale impostazione, ogni profilo di differenziazione introdotta dal legislatore nazionale in sede di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale rileverebbe, dal punto di vista dell’ordinamento comunitario, sub specie di (possibile) violazione del principio di non discriminazione e abiliterebbe conseguentemente il giudice a non applicare la normativa interna contrastante che, per dirla con le parole della Corte di Giustizia, abbia indebitamente “ristretto” i diritti attribuiti alla parte istante.
3. Le soluzioni dei giudici di merito e della Corte di cassazione
Questa è precisamente la soluzione cui sono pervenuti, in un caso analogo a quello che abbiamo poc’anzi stilizzato, sia la Corte d’appello di Brescia (sent. n. 273 del 19 maggio 2017) che il Tribunale di Padova (sent. n. 1392 del 21 febbraio 2019).
Ad avviso dei giudici, infatti, il carattere imperativo e incondizionato della previsione della direttiva circa la necessità di assicurare parità di trattamento ai lavoratori extracomunitari in materia di sicurezza sociale non può non implicare la necessità di non dare applicazione alla norma interna che esclude dal novero dei beneficiari dell’assegno di natalità i lavoratori extracomunitari in possesso di permesso di soggiorno per motivi familiari, trattandosi – così in particolare si esprime il Tribunale di Padova, che richiama a suo sostegno anche CGUE, 6 novembre 2018, C-684/16, Max-Planck – di diritto fondamentale riconosciuto dall’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Conseguentemente, entrambe le pronunce hanno dichiarato il carattere discriminatorio del rifiuto opposto dall’INPS, che pure invocava la lettera dell’art. 1, comma 125, l. n. 190/2014, e condannato l’Istituto a corrispondere l’assegno di natalità.
La conclusione non deve affatto stupire. Che anche in materia di previdenza e assistenza vi possano essere disposizioni comunitarie imperative e incondizionate, che conseguentemente richiedano soltanto di disapplicare la normativa interna contrastante, è stato affermato – sia pure per obiter dictum – dalla Corte di cassazione, in una vicenda in cui veniva in rilievo il rifiuto dell’INPS di corrispondere a cittadini extracomunitari residenti e lungosoggiornanti nel nostro Paese l’assegno al nucleo familiare di cui all’art. 65, l. n. 448/1998: benché la Corte, in quel caso, abbia alla fine optato per la possibilità di dare un’interpretazione conforme della disciplina interna che, a seguito dell’avvio di una procedura d’infrazione, aveva finanziato, seppure con ritardo, la provvidenza in esame anche a beneficio di costoro, il Collegio afferma infatti apertis verbis che, qualora non si fosse data la possibilità di un’interpretazione conforme, si sarebbe dovuti giungere, anche «nel caso di specie», «ad assicurare la primazia e l’efficacia diretta del diritto dell’Unione», dal momento che la direttiva 2003/109/CE, che veniva invocata ai fini dell’estensione del beneficio agli stranieri lungosoggiornanti, era «dotata dei requisiti di sufficiente precisione e incondizionatezza» (Cass. n. 11165 del 2017).
Affatto diversa, però, è stata la soluzione fatta propria dalla stessa Cassazione nel nostro case-study. Decidendo sul ricorso proposto dall’INPS avverso la sentenza della Corte d’appello di Brescia dianzi cit., che – come abbiamo visto – aveva riconosciuto l’assegno di natalità anche ad una cittadina extracomunitaria titolare del permesso di soggiorno per motivi familiari, la Corte ha ritenuto di dover sollevare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 125, l. n. 190/2014, denunciandone la contrarietà non soltanto agli artt. 3 e 31 Cost., ma altresì rispetto all’art. 117, comma 1°, Cost., in relazione agli artt. 20, 21, 24, 31 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (Cass., ord., 2 aprile 2019, n. 16164).
Ad avviso della Corte, infatti, la potestà di sollevare la questione di legittimità costituzionale non sarebbe preclusa, in specie, dalla possibilità di decidere la causa limitandosi a verificare «la compatibilità della norma denunciata con la previsione dell’art. 12, paragrafo 1, della direttiva UE 2011/98», che potrebbe condurre, eventualmente «previo ricorso pregiudiziale alla CGUE», alla «inapplicabilità alla fattispecie in esame del disposto dell’art. 1, comma 125, l. n. 190/2014, in ragione del principio di prevalenza del diritto euro-unitario sul diritto nazionale»: «il peculiare meccanismo di funzionamento della non applicazione» non potrebbe infatti realizzare «effetti analoghi a quelli derivanti dalla pronuncia di incostituzionalità», perché «solo in sede di giudizio di costituzionalità è possibile [...] valutare la ragionevolezza della scelta legislativa, frutto di bilanciamento dei contrapposti interessi, e considerare [...] gli indici normativi che avrebbero dovuto condurre il legislatore a riconoscere […] il possesso della carta di soggiorno o di permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno [...] quale espressione di un principio generale, al fine di riconoscere ai titolari la piena equiparazione delle provvidenze e delle prestazioni [...] di sicurezza sociale».
L’affermazione merita di essere attentamente meditata, perché potrebbe introdurre, ad onta dell’ossequio formalmente prestato alla dottrina della non applicazione, un radicale revirement rispetto alla stessa possibilità di dar luogo ad una “non applicazione” della disciplina interna in fattispecie come quella per cui è causa.
Nonostante l’ordinanza di rimessione giustifichi la rimessione in base ai «diversi effetti che potrebbero derivare dalla pronuncia della Corte costituzionale», il vero motivo della rimessione non è legato al fatto che le sentenze di illegittimità costituzionale producono effetti erga omnes e non già limitatamente al caso deciso, quanto piuttosto – come emerge dalle stesse parole del Collegio che sopra abbiamo riportato – alla specifica natura del giudizio di legittimità costituzionale di una norma di legge rispetto al giudizio di diritto che il giudice comune deve compiere per individuare la norma – comunitaria o nazionale – applicabile al caso di specie.
Si tratta, infatti, di giudizi profondamente diversi. Il giudizio di diritto che il giudice comune deve compiere per individuare la norma interna o comunitaria applicabile al caso di specie non presuppone alcuna valutazione di conformità della norma interna ad una qualche fonte gerarchicamente superiore, ma è volto semplicemente a risolvere il conflitto generato dal concorso tra la norma interna e la norma dell’Unione in una materia che i Trattati riservano alla competenza dell’Unione: se conflitto c’è, ha chiarito la Corte costituzionale fin dalla notissima sentenza n. 170/1984, esso va risolto nel senso che la legge interna non può interferire nella sfera occupata dal diritto comunitario.
Il giudizio di costituzionalità è invece caratterizzato precisamente dalla necessità di confrontare la norma applicabile ad una fonte che, nel sistema, le è gerarchicamente sovraordinata; più precisamente, dalla necessità di verificare se il bilanciamento dei contrapposti interessi, che il legislatore è chiamato ad effettuare allorché si trovi a dettare la disciplina di un dato rapporto giuridico in guisa da assicurare preminente tutela ad uno degli interessi che entrano in esso in gioco, sia stata rispettosa delle prescrizioni costituzionali che sanciscono la tutela degli altri interessi socialmente rilevanti che rispetto al primo sono contrapposti.
La Corte costituzionale ha infatti precisato che nessun “diritto fondamentale” sancito dalla nostra Costituzione può essere “tiranno” nei confronti di tutti gli altri interessi da essa tutelati: è necessario, di volta in volta, individuare un punto di equilibrio, dinamico e non prefissabile in anticipo, che contemperi gli interessi contrapposti secondo criteri di proporzionalità e di ragionevolezza che non permettano il sacrificio del loro nucleo essenziale (Corte cost. n. 85 del 2013). E se è vero che l’individuazione di tale punto di equilibrio spetta in prima battuta al legislatore nella statuizione delle norme, non è meno vero che il controllo sulla ragionevolezza del bilanciamento operato dal legislatore spetta, nel nostro ordinamento, al giudice delle leggi, in nient’altro a ben vedere risolvendosi il controllo della loro conformità a Costituzione.
Codesta precisazione vale in special modo per i diritti in materia previdenziale e assistenziale, trattandosi di diritti “condizionati” dall’intervento legislativo, che deve determinarne strumenti, modi e tempi di attuazione nel ragionevole bilanciamento non solo con altri interessi costituzionalmente rilevanti, ma altresì in relazione alle risorse organizzative e finanziarie di cui dispone al momento la collettività (così, tra le tante, Corte cost. n. 455 del 1990): si tratta infatti di fare letteralmente i conti con le disponibilità finanziarie dello Stato, che sono a loro volta condizionate dall’evoluzione di diversi fattori, quali la curva demografica della popolazione, il rapporto tra popolazione attiva e non attiva, le variazioni nell’aspettativa di vita, le prospettive dell’economia e dell’occupazione. E per quanto sia aperta nella giurisprudenza costituzionale (e massimamente tra i costituzionalisti) la discussione circa la possibilità che l’equilibrio finanziario di cui all’art. 81 Cost. debba o meno essere considerato esso stesso un “principio” e se e quanto possa essere spinta la sua rilevanza rispetto al nucleo c.d. incomprimibile dei diritti a prestazione, non par dubbio che ci troviamo davanti ad un giudizio che non può che essere riservato alla Corte costituzionale. Non a caso, nel prosieguo della motivazione circa la rilevanza della questione di costituzionalità dell’assegno di natalità, l’ordinanza della Cassazione richiama le sentenze della Corte costituzionale nn. 269 del 2017 e 20 e 63 del 2019, con le quali la Corte costituzionale, innovando rispetto al proprio precedente orientamento, ha affermato che non può ritenersi precluso lo scrutinio di costituzionalità allorché le questioni di legittimità costituzionale siano sollevate «con riferimento sia a parametri interni [...], sia – per il tramite degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. – alle norme corrispondenti della Carta [dei diritti fondamentali UE] che tutelano, nella sostanza, i medesimi diritti»: ciò che è in gioco è precisamente la necessità di evitare che l’attribuzione di efficacia diretta al diritto comunitario debordi, per dirla con le icastiche parole della sentenza n. 269/2017, «in una sorta di inammissibile sindacato diffuso di costituzionalità della legge».
4. Le ragioni teoriche della posizione della Cassazione e i confini della interpretazione conforme
Le ragioni teoriche che militano a sostegno di un tale revirement sono state ben enucleate dalla dottrina costituzionalistica e riposano essenzialmente sul fatto che nemmeno i “diritti fondamentali” di matrice sovranazionale possono sfuggire al bilanciamento con gli altri interessi protetti dalla Costituzione: tutte le cessioni di sovranità attuate in forza dell’art. 11 Cost., inclusa quella in favore dell’Unione Europea, rimontano in ultima analisi alla legge ordinaria contenente l’ordine di esecuzione dei Trattati, sicché non possono comportare l’attribuzione al legislatore sovranazionale di una potestà di cui il legislatore ordinario, in quanto vincolato alla Costituzione, non può liberamente disporre. Lo ha detto a chiare lettere la stessa Corte costituzionale: «il rispetto degli obblighi internazionali» non può mai far venir meno «il necessario bilanciamento» del diritto di matrice sovranazionale «con altri interessi costituzionalmente protetti, cioè con altre norme costituzionali, che a loro volta garantiscano diritti fondamentali che potrebbero essere incisi dall’espansione di una singola tutela» (sent. n. 264 del 2012). E proprio per ciò, come forse si ricorderà, nel famoso (o famigerato) caso delle pensioni c.d. svizzere, la Corte costituzionale, messa di fronte a sentenze della Corte EDU che riconoscevano la lesione dei diritti dei pensionati, è giunta ad invocare il “controlimite” rappresentato dalla necessità che il nostro sistema di sicurezza sociale assicuri la «corrispondenza tra le risorse disponibili e le prestazioni erogate, anche in ossequio al vincolo imposto dall’articolo 81, quarto comma, della Costituzione»: allorché gli effetti della disposizione di matrice sovranazionale ricadano sul sistema previdenziale, bisogna pur sempre impedire, dice la Corte, «alterazioni della disponibilità economica a svantaggio di alcuni contribuenti ed a vantaggio di altri, [...] così garantendo il rispetto dei principi di uguaglianza e di solidarietà, che, per il loro carattere fondante, occupano una posizione privilegiata nel bilanciamento con gli altri valori costituzionali» (ibid.).
Si tratta, del resto, di un controllo che risponde alla natura originaria del nostro ordinamento giuridico e che non contrasta con la natura autonoma di quello europeo, perché quest’ultimo può avere efficacia nell’ambito del nostro solo in quanto a ciò il nostro ordinamento l’ha autorizzato e nei limiti in cui l’ha autorizzato. A differenza di quello interno, infatti, l’ordinamento dell’Unione Europea è costruito sul principio della competenza (si ricorderà la famosa affermazione di CGUE, 5 febbraio 1963, C-26/62, Van Gend & Loos, testualmente ripresa dagli artt. 4-5 TUE: «un ordinamento [...] a favore del quale gli Stati hanno rinunziato, [...] in settori limitati, ai loro poteri sovrani»), ed è proprio tale diversità a dar conto della differenza tra le valutazioni che competono alla Corte costituzionale rispetto a quelle che sono proprie delle altre corti sovranazionali: parafrasando quanto ha detto la Corte costituzionale a proposito della Corte EDU, si potrebbe dire che, mentre queste ultime sono tenute «a tutelare in modo parcellizzato, con riferimento a singoli diritti, i diversi valori in giuoco», la Corte costituzionale è obbligata ad «una valutazione sistemica, e non isolata, dei valori coinvolti dalla norma di volta in volta scrutinata, ed è, quindi, tenuta a quel bilanciamento» (Corte cost. n. 264/2012, cit.), che può portare in ipotesi (e in concreto ha anche portato) anche a soluzioni differenti da quelle fatte proprie a livello sovranazionale.
Volendo riassumere il significato, che qui si è proposto, dell’ordinanza della Cassazione, si potrebbe dire che da essa traspare l’idea secondo cui la stessa precettività delle disposizioni comunitarie in materia di sicurezza sociale non può sopprimere il margine di discrezionalità che al legislatore è dato per stabilire il bilanciamento tra le esigenze sottese ai bisogni dei possibili beneficiari e quelle connesse al rispetto di altri diritti e principi costituzionalmente garantiti: è anzi in base al contemperamento tra queste opposte esigenze (ché i diritti, a ben guardare, sono sempre “a somma zero”) che va determinato sia l’ammontare delle prestazioni che la graduazione del loro godimento tra la platea di possibili interessati. E chi può stabilire se tale bilanciamento è stato esercitato correttamente non è il giudice comune, ma è la Corte costituzionale.
Naturalmente, ciò non equivale a dire che il giudice comune non possa egli stesso tentare una interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione controversa, tanto più che, come hanno chiarito le Sezioni Unite della Corte di cassazione, l’interpretazione costituzionalmente orientata di una disposizione normativa si sostanzia nelle medesime operazioni ermeneutiche che connotano il giudizio di costituzionalità, vale a dire nell’individuazione dei beni in conflitto, nel compimento del giudizio di bilanciamento secondo certi principi di ragionevolezza e, infine, nell’estrazione della norma dalla disposizione (cfr. Cass. S.U. 9 dicembre 2015, n. 24822). È quanto ha fatto la stessa Cassazione nel caso, che ricordavamo prima, dell’assegno al nucleo familiare a beneficio degli extracomunitari lungo soggiornanti, in cui, posta di fronte a due possibili interpretazioni circa la decorrenza della normativa interna emanata per rimediare alla procedura d’infrazione, la Corte ha optato per quella che consentiva di raggiungere lo scopo voluto dal legislatore comunitario (Cass. n. 11165/2017, cit.).
L’importante, in questo caso, è ricordare che, come insegna la stessa Corte di Giustizia, non c’è interpretazione conforme che possa consentire un’interpretazione contra legem del diritto nazionale (si veda tra le tante CGUE, 7 agosto 2018, C-122/17, Smith, dove ulteriori richiami alla giurisprudenza della Corte), ovvero – per dirla con un’antica espressione carneluttiana recentemente ripresa da Natalino Irti – che possa permettere di valicare “i cancelli delle parole” usate dal legislatore. Vale a dire che nemmeno il principio di primazia del diritto dell’Unione può legittimare operazioni ermeneutiche che mascherino dietro il paravento di un’interpretazione costituzionalmente orientata sostanziali disapplicazioni della legge vigente: il nostro ordinamento, al momento, non tollera di essere piegato e distorto in direzione di un modello di common law di tipo anglosassone. Fino a prova contraria, naturalmente.
Sommario: 1. Punto di partenza: principi costituzionali e convenzionali nella sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 25 settembre 2012 (Godelli c. Italia) - 2. Necessità di un bilanciamento costituzionalmente orientato 3. - Intervento della Corte Costituzionale (sentenza n. 278 del 2013) - 4. Uno sguardo all’attualità: Cass. civ., 9 novembre 2016, n. 22838 e le Sezioni Unite n. 1946/2017 - 5. L’intervenuta pronuncia della Cassazione n. 6963/2018 sul tema 6. I disegni di legge “dormienti” a discapito dei diritti fondamentali della persona - 7. Conclusioni
1.Punto di partenza: principi costituzionali e convenzionali nella sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 25 settembre 2012 (Godelli c. Italia)
I diritti fondamentali dell’uomo ricevono una tutela multilivello[1], non solo nell’ottica di centralità della Carta Costituzionale e delle sue norme[2], ma anche nella visione panoramica delle disposizioni della Convenzione Europea di salvaguardia dei diritti e delle libertà fondamentali (nel prosieguo Convenzione EDU), nata in seno al Consiglio d’Europa nel 1950 e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona nel 2009, ha assunto lo stesso valore giuridico dei trattati[3].
In un ordinamento complesso[4] come quello vigente, caratterizzato dalla indiscussa supremazia delle norme costituzionali, queste non posso non avere una posizione centrale. Da tale centralità è doveroso partire per l’individuazione dei principi e dei valori sui quali costruire il sistema[5].
La costruzione del sistema, dunque, necessita di un doveroso accostamento di principi e valori desumibili dalle disposizioni precettive della Carta Costituzionale[6].
La prospettiva che interessa, ora, al fine di evidenziare ed approfondire il contenuto della sentenza-faro[7] della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo inerente la problematica del diritto all’anonimato e del diritto a conoscere le proprie origini[8], è individuare come il contenuto normativo dell’ordinamento interno possa arricchirsi automaticamente, e non mediante il compimento di atti di recezione interna, della tutela di valori e di interessi regolati da normative transnazionali e sovranazionali[9].
Il pensiero va, a questo punto, ai principi di diritto internazionale generale riconosciuti dalla nazioni civili[10] e alle normative comunitarie che conformano l’ordinamento interno e lo rendono più ricco e complesso. Si tratta di adeguamento diretto e costituzionalmente legittimo (art. 10, comma 1, cost.), che conferma la concezione unitaria e monistica dell’ordinamento interno, tendente a realizzare forme di integrazione idonee ad introdurre nel sistema valori innovativi che, se di derivazione internazionale, prevalgono sulle norme ordinarie dell’ordinamento giuridico nazionale[11].
Il nostro, quindi, è un monismo ordinamentale e non un dualismo ordinamentale. Ciò viene ancora di più sottolineato dall’art. 117 cost., al cui primo comma si fa riferimento al fatto che lo Stato e le Regioni, nel momento in cui legiferano, debbano rispettare gli obblighi internazionali e i vincoli comunitari[12].
Se si facesse prevalere una concezione dualistica degli ordinamenti, questa mal si concilierebbe con la prospettiva unitaria dell’ordinamento, che ora la stessa Corte costituzionale ha finito con il riconoscere e, soprattutto, con l’interpretazione dell’art. 134 cost., secondo la quale la Corte si riserva di esprimere il controllo di legittimità dei regolamenti comunitari[13], rectius europei, quali atti aventi forza di legge nel territorio della Repubblica, e di valutare come viziate di illegittimità le norme nazionali che violino i principi fondamentali dell’ordinamento comunitario[14].
Anche le sentenze della Corte di giustizia dell’Unione Europea (nel prosieguo CGUE) e della Corte EDU arricchiscono il diritto interno, nella misura in cui costituiscono fonti, seppur di terzo grado, assolutamente vincolanti per gli stati membri e per i giudici degli stessi, i quali, il più delle volte, vengono chiamati a risolvere dei conflitti di interessi ancor prima dei legislatori nazionali[15].
La sentenza della Corte EDU del 25 settembre 2012 in tema di diritto a conoscere le proprie origini, è emersa a seguito di ricorso (n. 33783/09) presentato contro la Repubblica italiana con cui una cittadina di tale Stato, la sig.ra Godelli ha adito la Corte il 16 giungo 2009 in virtù dell’art. 34 della Convenzione EDU[16].
La ricorrente lamentava che il segreto della sua nascita e la conseguente impossibilità per lei di conoscere le sue origini costituivano una violazione del diritto al rispetto della sua vita privata e familiare garantito dall’articolo 8 della Convenzione EDU[17].
Prima di considerare la questione così come argomentata dalla Corte in punto di diritto, è opportuno sintetizzare la problematica in punto di fatto, al fine di avere una visione completa del quid iuris e, conseguentemente, poter capire la logicità o l’illogicità delle valutazioni giuridiche dedotte. Non a caso, si afferma che ex facto oritur ius, cioè dal fatto nasce il diritto.
Nel caso di specie, la ricorrente fu abbandonata dalla madre biologica e dall’atto di nascita risultava che “una donna che non consente di essere nominata ha partorito una bambina”. All’età di dieci anni, la ricorrente, avendo appreso di non essere la figlia biologica dei suoi genitori, domandò loro di poter conoscere le sue origini, ma non ottenne alcuna risposta. In data non precisata scoprì che una bambina che viveva nel suo stesso paese, nata nel suo stesso giorno, era stata abbandonata ed in seguito era stata affiliata da un’altra famiglia. La ricorrente sospettava potesse trattarsi della sorella gemella. I genitori adottivi delle due bambine impedirono i contatti fra loro attraverso un vero e proprio distacco forzoso. La ricorrente affermava di aver vissuto un’infanzia molto difficile a causa dell’impossibilità di conoscere le sue origini. Nel 2006 la ricorrente domandò all’ufficio dello stato civile del comune di Trieste informazioni sulle sue origini, così come prevedeva l’articolo 28 della legge n. 184 del 1983 (legge sull’adozione)[18], dal momento che la normativa che disciplinava l’affiliazione era stata abrogata da questa legge. L’ufficiale dello stato civile consegnò alla ricorrente il suo atto di nascita nel quale non compariva il nome della madre biologica, in quanto quest’ultima non aveva acconsentito alla divulgazione della sua identità. Il 19 marzo 2007 la ricorrente introdusse un ricorso dinanzi al tribunale di Trieste per domandare, conformemente all’articolo 96 del d.P.R. 396/2000, la rettifica del suo atto di nascita. Il tribunale si dichiarò incompetente, in quanto l’articolo 28, comma 5, della l. 184/1983 prevede che, per quanto riguarda l’accesso alle informazioni sui genitori biologici, raggiunta l’età di 25 anni, il tribunale competente fosse il tribunale per i minorenni. La ricorrente, quindi, il 5 giugno 2007, adì il tribunale per i minorenni di Trieste, ma la richiesta fu respinta, in quanto l’accesso alle informazioni sulle sue origini non le era consentito dato che la madre, al momento della nascita della ricorrente, aveva dichiarato di non volere divulgare la sua identità. La ricorrente si rivolse alla Corte di Appello, la quale, il 23 dicembre 2008, respinse il ricorso. Il giudice di secondo grado sottolineò che il tribunale per i minorenni aveva correttamente applicato l’articolo 28, comma 7, l. ado.[19] perché la madre aveva chiesto il segreto sulla sua identità e che questa norma mirava a garantire il rispetto della volontà della stessa. La ricorrente non presentò ricorso per cassazione.
La sentenza, dopo aver esplorato brevemente il fatto, si sofferma sul diritto e sulla prassi italiana, cercando, anche in chiave comparatistica, di confrontare le soluzioni che gli altri stati membri apprestano per la risoluzione del conflitto tra i due interessi contrapposti[20].
Al secondo paragrafo, la sentenza si sofferma sull’articolo 250 del codice civile,[21] il quale accorda a uno dei genitori la possibilità di non riconoscere il figlio. Per questo, la madre deve domandare all’ospedale di preservare l’anonimato al momento del parto. In questo caso viene formato un fascicolo sanitario che contiene le informazioni mediche sulla madre e sul suo bambino. Soltanto il medico curante del bambino può avervi accesso previa autorizzazione del tutore del minore.
Un altro elemento fondamentale, che si desume sempre in questa parte della sentenza, è l’istituto della “affiliazione”, istituita nel 1942 per portare assistenza ai bambini abbandonati o senza genitori di età inferiore ai diciotto anni. A differenza dell’adozione definitiva, non creava legami di parentela effettivi e non era necessario che la persona adottata non avesse figli, ma occorreva che il bambino avesse meno di diciotto anni. L’affiliazione poteva essere richiesta o dalla persona alla quale il bambino era stato affidato o dall’istituto di pubblica sicurezza o dal cittadino che lo cresceva di propria iniziativa. Gli articoli del codice civile che prevedevano l’affiliazione sono stati abrogati per effetto dell’entrata in vigore della l. 184/1983 (rivista in seguito dalla l. 1149/2001 e dal d. lgs. 196/2003).
L’articolo 27 della legge sull’adozione garantisce il segreto sulle origini, salvo autorizzazione espressa dell’autorità giudiziaria. L’articolo 28, comma 7, della stessa legge, invece, consente alla madre, che decide di non tenere il figlio, di partorire in un ospedale e di mantenere allo stesso tempo l’anonimato nella dichiarazione di nascita. Questo anonimato dura cento anni. Trascorso questo tempo, è possibile avere accesso all’atto di nascita.
L’adottato[22] può avere accesso alle informazioni che riguardano le sue origini e l’identità dei suoi genitori di sangue quando ha raggiunto l’età di 25 anni. Può ottenere queste stesse informazioni raggiunta la maggiore età se esistono gravi e comprovati motivi concernenti la sua salute fisica e mentale. La domanda è presentata al tribunale per i minorenni del luogo di residenza che emette la sua decisione previa valutazione della situazione particolare e audizione delle persone che ritiene opportuno ascoltare.
Per ciò che attiene al diritto alla conoscenza delle proprie origini negli altri Stati membri del Consiglio d’Europa, la sentenza, al punto B del secondo paragrafo, esordisce: “In Europa il parto anonimo o nell’anonimato appare minoritario senza essere per questo eccezionale. A fianco della Francia, il cui diritto positivo prevede da parecchi anni il parto anonimo, alcune legislazioni, relativamente recenti perché promulgate nel corso dell’ultimo decennio, organizzano la nascita di figli in queste condizioni (Austria, Lussemburgo, Russia, Slovacchia). In Francia il parto anonimo tende ad essere assimilato al parto nel segreto, come quello che si pratica nella Repubblica Ceca, dove la segretezza sui dati nominativi sulla madre biologica è temporanea, e non definitiva, in quanto l’accesso a queste informazioni è differito nel tempo.[23]”
La sentenza, dopo aver affrontato le eccezioni preliminari proposte dal governo italiano e la valutazione sulla dedotta violazione dell’articolo 8 della Convenzione EDU, si sofferma sull’applicabilità dello stesso articolo 8, e, contrariamente a quanto avevano argomentato la ricorrente e il governo, la Corte ha ritenuto opportuno far rientrare nel concetto di “vita privata” il diritto a conoscere le proprie origini, soprattutto in connessione con il diritto all’identità personale[24]. La Corte, infatti, a tal proposito, stabilisce che: “L’articolo 8 tutela un diritto all’identità e allo sviluppo personale e quello di allacciare e approfondire relazioni con i propri simili e il mondo esterno.[25]”
La Corte, nella propria valutazione di merito, ricorda che: “Se l’articolo 8 tende fondamentalmente a difendere l’individuo da ingerenze arbitrarie dei pubblici poteri, esso non si limita ad ordinare allo Stato di astenersi da ingerenze di questo tipo, infatti, a questo impegno piuttosto negativo possono aggiungersi obblighi positivi inerenti a un rispetto effettivo della vita privata. La linea di separazione tra gli obblighi positivi e negativi dello Stato a titolo dell’articolo 8 non si presta ad essere definita con precisione; i principi applicabili sono comunque assimilabili.[26]”
Il giudice di Strasburgo, con molta più precisione, osserva che: “L’espressione - ogni persona – dell’articolo 8 della Convenzione si applica al figlio come alla madre. Da una parte vi è il diritto del figlio a conoscere le proprie origini che trova fondamento nella nozione di vita privata. L’interesse vitale del minore nel suo sviluppo è altresì ampiamente riconosciuto nell’economia generale della Convenzione. Dall’altra, non si può negare l’interesse di una donna a conservare l’anonimato per tutelare la propria salute partorendo in condizioni sanitarie adeguate.[27]”
Per tale motivo, la Corte ricorda che l’interesse generale sussiste anche nella misura in cui la legge italiana risponde alla preoccupazione di tutelare la salute della madre e del minore durante la gravidanza e il parto e di evitare aborti clandestini o abbandoni selvaggi[28].
Si arriva, ora, al nocciolo duro della questione, ovverosia alla valutazione che la Corte fa in merito alla normativa italiana, la quale, come scrivono i giudici, “non tenta di mantenere un equilibrio tra i diritti e gli interessi concorrenti in causa.[29]” Ciò significa che la legge italiana non mantiene un giusto equilibrio nella ponderazione tra il diritto a conoscere le proprie origini e il diritto della madre a mantenere l’anonimato[30].
La sentenza termina con una disamina particolare in merito alla soluzione adottata dalla Francia, assolutamente lodevole e degna di menzione da parte della Corte, che consente la reversibilità del consenso ab origine dato dalla madre di mantenere l’anonimato[31]. Con questo, la Corte invita lo stato italiano a rivedere la normativa, in particolar modo prevedendo la possibilità di contattare la madre e verificare nel corso del tempo la sua intenzione in merito al segreto. Solo questa soluzione può ben contemperare gli interessi in gioco e ben bilanciare i diritti fondamentali in campo[32].
E’ interessante soffermarsi anche sull’unica dissenting opinion del giudice Sajò, il quale, non essendo concorde con gli altri giudici, ha argomentato il proprio parere a favore del rigetto del ricorso. Il giudice in parola, attraverso una disquisizione fondata sul percorso normativo italiano in tema di anonimato[33], giunge alla conclusione che: “La protezione dell’anonimato è una misura che concorre al diritto alla vita del bambino: nel caso di specie, la possibilità del parto anonimo, associata alle garanzie assolute dell’anonimato, ha senza dubbio contribuito a permettere la nascita della ricorrente, e per giunta, la nascita in circostanze in cui erano stati eliminati i rischi per la salute e per quella di sua madre. L’anonimato è legato all’obbligo dello Stato di proteggere il diritto alla vita, che è la diretta emanazione del più alto fra i valori difesi dalla Convenzione.[34]”
In un altro passaggio, dopo aver spiegato cosa si debba intendere per bilanciamento di diritti, argomenta in tal senso: “Non spetta alla Corte controllare la necessità del divieto assoluto di riconoscimento delle proprie origini, facendo prevalere l’anonimato, giudicata costituzionale dal legislatore italiano,[35] dal momento che questa misura non è arbitraria e che il bilanciamento tiene ragionevolmente conto di tutti i diritti in gioco.[36]” Secondo la tesi sostenuta dal giudice Andràs Sajò, il diritto al segreto del parto, così come previsto dalla legislazione italiana, risulta tutelare la donna, ma soprattutto la vita che porta in grembo. Si è d’accordo nell’enunciazione profonda secondo la quale il diritto alla vita è diritto supremo, ma questo, alcune volte, potrebbe venirsi a scontrare con lo stesso diritto alla vita, appartenente, per esemplificare, all’adottato che ha problemi seri di salute, i quali possono addirittura portarlo alla morte, e l’unica possibilità per garantirgli il diritto alla vita sarebbe quello di sacrificare il diritto all’anonimato. Con la tecnica del bilanciamento dei diritti si vuole intendere, dunque, la possibilità concreta di sacrificare un diritto nella più alta probabilità dell’estrinsecazione fattiva dell’altro[37].
2.Necessità di un bilanciamento costituzionalmente orientato
La questione tratteggiata nel primo paragrafo pone le basi per vagliare l’ipotesi di un diverso approccio bilanciatorio dei diritti. Prima di giungere all’analisi dei principi costituzionali in tema di diritto a conoscere le proprie origini e di diritto al segreto del parto, è necessario evocare la differenza tra principi e norme. Per i primi si intende la possibilità di applicare “la regola del più o del meno”, in quanto aventi contenuto generale, ampio, indeterminato. Per i secondi si intende possibile l’applicazione della “regola del tutto o niente”, ragione per la quale alle norme è possibile applicare i criteri antinomici per la risoluzione dei contrasti tra le stesse, non applicabili, a contrario, ai principi. Ciò, infatti, fa percepire che la norma venga utilizzata come precetto definitorio, cioè si usufruisce di una norma per definire un caso pratico, il più delle volte semplice (easy case). Si usufruisce dei principi, invece, per ottimizzare un caso concreto difficile (hard case), logica secondo la quale i principi vengono spesso individuati come precetti di ottimizzazione[38].
Tutto quanto su esposto permette di vagliare un bilanciamento più accorto dei diritti attraverso i principi costituzionali, che da sempre vengono considerati lo zoccolo duro del nostro sistema ordinamentale[39].
Il nostro ordinamento, infatti, vive attraverso principi fondanti e fondati, in quanto costituzionalmente previsti e protetti.
I diritti di cui si parla non possono che essere ricondotti ai principi basilari del nostro sistema ordinamentale, ossia a quei principi che tutelano i diritti inviolabili dell’uomo, ai quali si richiama l’art. 2 cost. e che mostrano, insieme al personalismo e al solidarismo, l’influenza decisiva sul costituente dei valori di ispirazione cristiana[40].
Nel personalismo si incontrano le ideologie che, dopo la seconda guerra mondiale, trovano un compromesso politico nei principi fondamentali delle nuove democrazie occidentali e, in parte, di quelle orientali: lo spiritualismo cattolico, con venature modernistiche e sociali che hanno dato origine al cristianesimo sociale moderno; l’esistenzialismo; il marxismo, rifiutato nella sua integralità dal personalismo, ma apprezzato per la sua sostanza umanistica di liberazione sociale[41].
Spogliato dei riferimenti polemici e confortato dalla parallela evoluzione del pensiero liberale dall’interesse individuale egoistico al riconoscimento dell’irriducibile pluralità dei valori umani, il personalismo non appartiene più ad una specifica corrente di pensiero[42].
La persona, intesa come connessione essenziale in ciascun individuo della stima di sé, della cura dell’altro e dell’aspirazione a vivere in istituzioni giuste[43], è oggi il punto di confluenza di una pluralità di culture, che riconoscono in essa il principio riferimento di valore.
Tale è la scelta della Costituzione italiana, che “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (art. 2). Il principio di tutela della persona, quale supremo principio costituzionale, fonda la legittimità dell’ordinamento e la sovranità dello Stato[44].
La persona è inseparabile dalla solidarietà: aver cura dell’altro fa parte del concetto di persona[45].
La solidarietà costituzionale è diversa dalla solidarietà del codice civile: non è più soltanto economica, rivolta a scopi nazionalistici, di efficientismo del sistema, di aumento della produttività, ma ha fini politici, economici, sociali, la rilevanza dei quali emerge dal collegamento con l’art. 3 cost. In questa prospettiva, la solidarietà esprime la cooperazione e l’uguaglianza nell’affermazione dei diritti fondamentali di tutti[46].
Oltre ai principi del personalismo e del solidarismo costituzionali, che saranno più volte ripresi dalla sentenza della Corte Costituzionale, della quale si tratterà nel paragrafo successivo, è necessario catalizzare l’attenzione anche sul principio di uguaglianza, ma, in particolar modo, sul diritto alla salute.
Il personalismo e il solidarismo, così come esplicati, sono strumento e attuazione della dignità sociale del cittadino[47], definito come “lo strumento che conferisce a ciascuno il diritto al rispetto inerente alla qualità dell’uomo, ed inoltre la pretesa di essere messo nelle condizioni idonee ad esplicare le proprie attitudini personali assumendo la posizione a queste corrispondente.[48]”
La Costituzione riconosce l’uguaglianza sia come divieto di discriminazione fondata su differenze biologiche o culturali, sia come impegno dello Stato a rimuovere le condizioni di fatto che ostacolano lo sviluppo della persona[49].
Si afferma comunemente che l’art. 3 cost. enuncia nel comma 1 l’uguaglianza formale, nel comma 2 l’uguaglianza sostanziale; la seconda, invece, di una rivoluzione promessa[50]. Per la prima “i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza discriminazione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali”; per la seconda “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”
Vi è chi nega il carattere precettivistico di tale disposizione costituzionale, riservando ad essa una mera natura programmatica[51] e chi, invece, ravvisa in essa una sorta di norma quadro di una legislazione, per lo più speciale, costitutiva e integrativa di un diritto dei contraenti deboli, volto ad eliminare o attenuare gli ostacoli di ordine economico-sociale che limitano di fatto la libertà e l’uguaglianza[52].
L’articolo 3 della Carta Costituzionale va letto secondo un’interpretazione sistematica, ovvero non disgiungendo i due tipi di uguaglianze che generalmente si rivelano dall’articolo in questione, ma secondo una logica unitaria[53].
Per ciò che attiene al diritto alla salute, che sarà più volte citato nella sentenza della Corte Costituzionale in tema di diritto al parto segreto in bilanciamento con il diritto a conoscere le proprie origini, si tenta di fare un quadro sintetico e panoramico dell’interpretazione attuale del concetto di salute e della sua qualificazione.
La salute, profilo essenziale della persona, interessa l’operatore del diritto da molteplici punti di vista, i quali confluiscono nell’ampia problematica solitamente racchiusa nell’espressione “diritto alla salute”[54].
E’ riduttivo ravvisare il contenuto del diritto alla salute nel rispetto dell’integrità fisica[55], e ciò per due ragioni: la salute è anche psichica; in quanto la persona è indissolubile unità psicofisica[56]; non è soltanto aspetto statico e individuale, ma è riconducibile al sano e libero sviluppo della persona ed in quanto tale costituisce un tutt’uno con quest’ultima[57].
La salute si prospetta come aspetto inseparabile della persona umana quale valore unitario; essa, sia pure prevista autonomamente a livello costituzionale (art. 32), deve essere considerata unitamente alla norma che, quale principio generale, riconosce e garantisce i diritti dell’uomo con esclusione di qualsiasi loro tassatività o tipicità (artt. 2 e 3, comma 2, cost.)[58].
3.Intervento della Corte Costituzionale (sentenza n. 278 del 2013)
Dopo la sentenza di condanna da parte della Corte EDU nei confronti dello Stato italiano, la Corte Costituzionale si vede investita di un’ordinanza di rimessione da parte del Tribunale per i minorenni di Catanzaro, il quale sollevava questione di legittimità costituzionale dell’articolo 28, comma 7, della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), come sostituito dall’articolo 177, comma 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali), in riferimento agli articoli 2, 3, 32 e 117, comma 1, della Costituzione, “nella parte in cui esclude la possibilità di autorizzare la persona adottata all’accesso alle informazioni sulle origini senza avere previamente verificato la persistenza della volontà di non volere essere nominata da parte della madre biologica[59].”
Il fatto, brevemente, così si riassume.
Una donna viene a conoscenza della sua adozione soltanto in occasione della procedura di separazione e divorzio dal marito e l’ignoranza delle sue origini le hanno causato vari condizionamenti anche di ordine sanitario, limitando le possibilità di diagnosi e cura per patologie che avrebbero dovuto comportare una anamnesi di tipo familiare[60]. Da qui, la richiesta di conoscere le generalità della madre naturale[61].
Il Tribunale per i minorenni, a proposito della violazione dell’art. 2 cost., osserva come la conoscenza delle propri origini rappresenti un presupposto indefettibile per l’identità personale dell’adottato, la quale integra un diritto fondamentale, che viene tutelato sotto il profilo della immagine sociale della persona[62]. Il diritto all’identità personale ed alla ricerca delle proprie radici è salvaguardato dagli artt. 7[63] e 8[64] della Convenzione sui diritti del fanciullo[65], fatta a New York il 20 novembre 1989 e resa esecutiva in Italia con legge 27 maggio 1991, n. 176, che assicurano il relativo diritto a conoscere i propri genitori ed a preservare la propria identità, nonché dall’art. 30[66] della Convenzione per la tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale, fatta all’Aja il 29 maggio 1993 e resa esecutiva con la legge 31 dicembre 1998, n. 476, la quale impone agli Stati aderenti di assicurare l’accesso del minore o del suo rappresentante alle informazioni relative alle sue origini, fra le quali, in particolare, quelle relative all’identità dei propri genitori[67].
Il diritto a conoscere le proprie origini contribuisce, dunque, in maniera determinante, a delineare la personalità di un essere umano e rientra, quindi, nell’ambito dei principi tutelati dell’art. 2 cost.[68].
La disposizione oggetto del vaglio costituzionale violerebbe, secondo il tribunale, anche l’articolo 3 cost., trattando in modo diverso l’adottato la cui madre non abbia dichiarato alcunché e quello la cui madre abbia dichiarato di non voler essere nominata, senza considerare l’eventualità che possa aver cambiato idea e lei stessa desideri avere notizie del figlio[69]. La norma impugnata, dunque, avrebbe privilegiato l’interesse del genitore all’anonimato, senza controllarne l’attualità[70], sacrificando sempre e comunque l’interesse dell’adottato, in ipotesi anche a fronte di gravi esigenze attinenti alla sua salute psico-fisica[71]. La disposizione sarebbe tacciata di incostituzionalità anche nella parte in cui, operando solo a tutela dell’anonimato, andrebbe a discriminare irragionevolmente gli adottati, in quanto diversamente dal caso di genitori naturali che non hanno dichiarato di non voler essere nominati, e che possono in concreto essersi opposti all’adozione, così da rappresentare un potenziale pericolo per la famiglia adottiva, un simile rischio non è rappresentato dal genitore il quale abbia richiesto l’anonimato[72].
Risulterebbe compromesso, secondo il giudice a quo, anche l’art. 32 cost., in quanto l’impedimento alla conoscenza dei dati inerenti alla madre naturale priverebbe l’adottato di qualsiasi possibilità di ottenere una anamnesi familiare, essenziale per interventi di profilassi o di accertamenti diagnostici, essendo già egli privo di notizie circa la storia sanitaria del ramo paterno del proprio albero genealogico[73].
Sussisterebbe, infine, anche violazione dell’articolo 117, comma 1, cost., in riferimento all’art. 8 della Convenzione EDU, così come interpretato alla luce della sentenza di cui al primo paragrafo[74].
La questione sarebbe tutta incentrata, dunque, su quello che i giudici della Consulta definiscono “reversibilità del segreto”[75].
Dopo aver fatto un confronto con la disciplina della fecondazione assistita (art. 9 della legge 19 febbraio 2004, n. 40), nella quale non viene prevista la possibilità di consentire l’accesso alla cartella clinica della madre ove venga in gioco la salute del figlio[76], la Consulta considera il fatto in diritto, arrivando alla dichiarazione di incostituzionalità della disposizione citata, attraverso, come si nota, una sentenza additiva di principio.
Nell’argomentazione giuridica, i giudici costituzionali ammettono la delicatezza degli interessi in gioco e, avendo analizzato e ripreso attentamente la sentenza della Corte EDU (Godelli c. Italia), stabiliscono che l’art. 28, comma 7, della legge sull’adozione, non sia legittimo costituzionalmente, perché contrastante con gli artt. 2, 3, 32, 117, comma 1, cost., nella parte in cui non prevede che l’adottato possa conoscere le proprie origini, secondo un procedimento previsto dalla legge che abbia come elemento centrale la salvaguardia della riservatezza[77], e che il giudice, attraverso lo stesso procedimento legale, possa avere la facoltà di interpellare la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata ai sensi dell’art. 30, comma 1, del d.P.R. 3 novembre 200, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’art. 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), su richiesta del figlio stesso, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione[78].
In una parte del considerato in diritto, le argomentazioni si soffermano sul profilo diacronico della norma, che immobilizza, addirittura cristallizza l’anonimato e non lo veste di dinamicità. La volontà del parto segreto potrebbe anche venire meno nel corso degli anni, delle vicissitudini personali, dell’esistenza stessa[79].
I giudici costituzionali, con molta tranquillità, fanno emergere che il vulnus è rappresentato dalla irreversibilità del segreto e che dovrà essere compito del legislatore introdurre apposite disposizioni volte a consentire la verifica della perdurante attualità della scelta della madre naturale di non voler essere nominata e, nello stesso tempo, a cautelare in termini rigorosi il suo diritto all’anonimato[80], secondo scelte procedimentali che circoscrivono adeguatamente le modalità di accesso, anche da parte degli uffici competenti, ai dati di tipo identificativo, agli effetti della verifica di cui innanzi si è detto[81].
Per tale motivo, nell’ultimo paragrafo si tenterà di mettere in luce quale direzione stanno prendendo i lavori parlamentari in merito alla questione, soprattutto dopo l’additività di principio della Corte Costituzionale.
4.Uno sguardo all’attualità: Cass. civ., 9 novembre 2016, n. 22838 e le Sezioni Unite n. 1946/2017
Un caso recente in tema di diritto alla conoscenza delle proprie origini è arrivato alla Corte della nomofilachia, che ha dovuto fare i conti con una questione patologicamente rilevante.
Qualche cenno al fatto di causa è indispensabile per giungere alla prospettazione della soluzione fornita dal giudice di legittimità.
Il Tribunale per i minorenni di Torino rigettava la domanda di una ricorrente, volta ad ottenere l’accesso alle informazioni relative alle generalità della propria madre naturale la quale aveva esercitato il diritto a rimanere nell’anonimato, alla nascita della stessa, e, nel corso dell’istruttoria, era deceduta.
A connotare il caso di complessità è il fatto-morte della titolare del diritto al segreto del parto, esercitato sin dal momento della nascita dalla madre naturale della ricorrente e, dunque, di vagliare la possibilità di considerare estinto il diritto a causa della morte oppure ancora in vita, capace di produrre effetti ultrattivi[82].
I giudici della Consulta, al termine dei fatti di causa, dopo aver ripreso le argomentazioni della sentenza della Corte EDU e della Corte costituzionale, così come sono state esposte nei paragrafi precedenti, hanno affermato che: “Né dalla sentenza della Corte costituzionale né dalla sentenza della Corte europea dei diritti umani può trarsi la conclusione dell’equiparazione tra decesso e revoca dell’anonimato in quanto questa soluzione può essere solo frutto di una scelta legislativa.[83]”
Anche qui, come si può notare, viene lanciato un ulteriore monito al legislatore affinché possa intervenire e disciplinare la materia in maniera organica e confacente al bilanciamento dei diritti in gioco e alla procedimentalizzazione garantistica arguita dalla Consulta[84].
Dopo un’attenta analisi e ripetizione delle argomentazioni dedotte già nelle due sentenze citate, il giudice delle leggi, con un ben prolisso, ma attento principio di diritto, per la questione in esame, stabilisce che: “Il diritto dell’adottato, nato da donna che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata (d.P.R. n. 396 del 2000, ex art. 30, comma 1), ad accedere alle informazioni concernenti la propria origine e l’identità della madre biologica, sussiste e può essere concretamente esercitato anche se la stessa sia morta e non sia possibile procedere alla verifica della perdurante attualità della scelta di conservare il segreto, non rilevando nella fattispecie il mancato decorso del termine di cento anni dalla formazione del certificato di assistenza al parto o della cartella clinica di cui al d. lgs. N. 196 del 2003, art. 93, commi 2 e 3, salvo il trattamento lecito e non lesivo dei diritti dei terzi dei dati personali conosciuti.[85]”
In via di sintesi, la Cassazione ha affermato che con la morte della titolare del diritto all’anonimato, quest’ultimo non si estingue, ma può essere esercitato tranquillamente dall’adottato, senza, però, arrecare pregiudizio ai terzi (familiari e discendenti della donna- madre naturale) che potrebbero essere coinvolti e verso i quali la donna nutre la “speranza della riservatezza”, salvaguardata propria dal diritto al segreto[86].
Nel 2017, invece, le Sezioni Unite ha statuito che: “In tema di parto anonimo, per effetto della sentenza delle Corte costituzionale n. 278 del 2013, ancorché il legislatore non abbia ancora introdotto la disciplina procedimentale attuativa, sussiste la possibilità per il giudice, su richiesta del figlio desideroso di conoscere le proprie origini e di accedere alla propria storia parentale di interpellare la madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione, e ciò con modalità procedimentali, tratte dal quadro normativo e dal principio somministrato dalla Corte stessa, idonee ad assicurare la massima riservatezza ed il massimo rispetto della dignità della donna, fermo restando che il diritto del figlio trova un limite insuperabile allorché la dichiarazione iniziale per l’anonimato non sia rimossa in seguito all’interpello e persista il diniego della madre di svelare la propria identità”[87].
5.L’intervenuta pronuncia della Cassazione n. 6963/2018 sul tema
La questione posta al vaglio della Corte di cassazione concerne il diritto da parte dell’adottato a conoscere le generalità relative alle proprie sorelle, le quali al momento dell’adozione furono affidate a famiglie diverse.
In particolare il ricorrente, a seguito del rigetto della propria istanza nei primi due gradi di giudizio, denuncia, oltre che una violazione degli artt. 7 e 8 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo (20 ottobre 1989) − i quali impongono la tutela dell’identità del minore da intendersi come ricerca delle proprie origini e quindi delle proprie radici e legami biologici − e dell’art 30 della convenzione de L’Aja (29 maggio 1993), l’errata interpretazione dei commi 4 e 5 dell’art 28, legge n. 184/1983, ritenendo che si possano ricomprendere nei legami famigliari anche i fratelli.
La tematica riguarda la lettura del comma 5 dell’art. 28 legge n. 184/1983 ponendosi una questione puramente interpretativa circa l’ampiezza delle informazioni cui può accedere l’adottato. L’articolo così recita: “L’adottato, raggiunta l’età di venticinque anni, può accedere alle informazioni che riguardano la sua origine e l’identità dei propri genitori biologici”.
Due sono le opzioni interpretative prospettate dalla Corte di cassazione: secondo la prima il riferimento normativo “accesso all’origine e identità dei propri genitori biologici” deve considerarsi come una specifica dell’ambito delle informazioni che l’adottato ha il diritto di conoscere, e pertanto “tale informazione soddisfa l’esigenza conoscitiva relativa alle origini”; in base alla seconda, invece, la formula normativa non ha carattere esaustivo delle informazioni cui può accedere l’adottato, volendo il legislatore far riferimento all’intero nucleo familiare originario[88].
Il Collegio, accogliendo quest’ultima opzione ermeneutica, afferma tuttavia che “l’esercizio del diritto nei confronti dei genitori biologici e nei confronti degli altri componenti non può realizzarsi con modalità identiche”.
Ed invero, con riferimento alla conoscenza dell’identità dei genitori biologici il legislatore riconosce all’adottato un vero e proprio diritto potestativo a conoscere le proprie origini, svolgendo una valutazione ex ante della preminenza del diritto dell’adottato rispetto a quello dei genitori ed escludendo un bilanciamento ex post.
Soluzione che, secondo la Corte, non può essere automaticamente applicata nel caso in esame in considerazione della diversa posizione che i fratelli, rispetto ai genitori, assumono nello sviluppo della personalità di un individuo.
Ed infatti, “l’interesse dei fratelli alla riservatezza e quello dell’adottato a conoscere l’identità biologica degli stessi sono posizioni giuridiche di pari rango e di contenuto omogeneo sulle quali non sussiste alcuna predeterminazione legislativa circa la graduazione gerarchica dei diritti e degli interessi da comporre, come invece previsto nei commi 5 e 6 dell’art 28, con riferimento all’adottato maggiorenne che voglia conoscere l’identità dei genitori biologici”.
Pertanto, nel caso in esame, “è necessario operare un bilanciamento tra le due posizioni in conflitto attraverso il procedimento d’interpello preventivo individuato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 278 del 2013”.
Il diritto in questione, quindi, non può qualificarsi come diritto potestativo al pari di quello previsto dal comma 5 dell’art. 28 nel caso di richiesta di accesso all’identità dei genitori biologici.
6.I disegni di legge “dormienti” a discapito dei diritti fondamentali della persona
L’Assemblea della Camera ha approvato, nel lontano 2015, un testo unificato di alcune proposte di legge, finalizzato ad ampliare la possibilità del figlio adottato o non riconosciuto alla nascita di conoscere le proprie origini biologiche[89]. In particolare, per dare seguito alla sentenza n. 278 del 2013[90], con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità della disciplina vigente, viene prevista la possibilità di chiedere alla madre se intenda revocare la volontà di anonimato, manifestata alla nascita del figlio. Il progetto è attualmente all’esame del Senato (AS. 1978).
Il provvedimento approvato dalla Camera e ora all’esame del Senato interviene, con particolare riferimento all’articolo 1, sulla legge sull’adozione ed estende anche al figlio non riconosciuto alla nascita da donna che abbia manifestato la volontà di rimanere anonima la possibilità, raggiunta la maggiore età, di chiedere al tribunale per i minorenni l’accesso alle informazioni che riguardano la sua origine e l’identità dei propri genitori biologici, andando, poi, anche a disciplinare la possibilità di accesso alle proprie informazioni biologiche nei confronti della madre che abbia dichiarato alla nascita di non volere essere nominata[91].
In particolare l’accesso, che non legittima, tuttavia, azioni di stato né dà diritto a rivendicazioni di natura patrimoniale o successoria, è consentito nei confronti della madre che abbia successivamente revocato la volontà di anonimato e nei confronti della madre deceduta[92].
Una nuova disposizione introdotta nella legge sull’adozione disciplina il procedimento di interpello della madre, volto a verificare il permanere della sua volontà di anonimato[93]. Il procedimento è avviato su istanza dei legittimati ad accedere alle informazioni biologiche e dunque dall’adottato che abbia raggiunto la maggiore età, dal figlio non riconosciuto alla nascita, che abbia raggiunto la maggiore età, in assenza di revoca dell’anonimato da parte della madre; dai genitori adottivi, legittimati per gravi e comprovati motivi; dai responsabili di una struttura sanitaria, in caso di necessità e urgenza e qualora vi sia grave pericolo per la salute del minore.
L’istanza di interpello può essere presentata una sola volta, al tribunale per i minorenni del luogo di residenza del figlio. Il tribunale, con modalità che assicurino la massima riservatezza, e con il vincolo del segreto per quanti prendano parte al procedimento, si accerta della volontà o meno della madre di rimanere anonima[94].
Ove la madre confermi di volere mantenere l’anonimato, il tribunale per i minorenni autorizza l’accesso alle sole informazioni di carattere sanitario, riguardanti le anamnesi familiari, fisiologiche e patologiche, con particolare riferimento all’eventuale presenza di patologie ereditarie trasmissibili.
Inoltre, è previsto anche che, decorsi diciotto anni dalla nascita del figlio, la madre che ha partorito in anonimato possa comunque confermare la propria volontà. Anche in questo caso, il tribunale per i minorenni, se richiesto, può autorizzare l’accesso alle sole informazioni sanitarie.
L’articolo 2 del progetto di legge modifica il codice della privacy con riguardo al certificato di assistenza al parto, le cui disposizioni sono coordinate con quelle introdotte dalla riforma (in particolare, quella che prevede la necessità del decorso di 100 anni per poter accedere alla documentazione contenente i dati identificativi della madre). Il vincolo dei 100 anni viene meno in caso di revoca dell’anonimato, di decesso della madre o di autorizzazione del tribunale all’accesso alle sole informazioni di carattere sanitario[95].
L’articolo 3, invece, modifica, per coordinamento, il regolamento sullo stato civile in relazione alle informazioni da rendere alla madre che dichiara di volere restare anonima. In particolare, la madre dovrà essere informata, anche in forma scritta degli effetti giuridici, per lei e per il figlio, della dichiarazione di non volere essere nominata; della facoltà di revocare, senza limiti di tempo, tale dichiarazione; della possibilità di confermare, trascorsi 18 anni dalla nascita, la volontà di anonimato e della facoltà di interpello del figlio[96].
E’ prevista, all’articolo 4, una disciplina per i casi di parti anonimi precedenti all’entrata in vigore della legge. Entro dodici mesi, la madre che ha partorito in anonimato prima dell’entrata in vigore della riforma, può confermare la propria volontà al tribunale per i minorenni, con modalità che garantiscano la massima riservatezza. Qualora la madre confermi la propria volontà di anonimato, il tribunale per i minorenni, se richiesto, autorizza l’accesso alle sole informazioni sanitarie. A tal fine saranno stabilite modalità di svolgimento di una campagna informativa.
L’articolo 5, in conclusione, stabilisce che il Governo, decorsi tre anni, dovrà trasmettere al Parlamento i dati sull’attuazione della legge.
7.Conclusioni
Il testo unificato di proposte legislative non fa altro che rivedere la disciplina sulla scorta dei principi e dei canoni, nonché dei procedimenti previsti e descritti accuratamente dalla sentenza della Corte EDU[97] di cui al primo paragrafo, dalla sentenza della Corte costituzionale[98] di cui al terzo paragrafo e dalla sentenza della Cassazione[99] di cui al quarto paragrafo.
Si dà conferma di quale sia il cammino verso la tipicità legale, alla quale si perviene attraverso la tipicità sociale rappresentata dalla tipicità giurisprudenziale, perché è a livello di giudizio che si manifestano le reali esigenze dei traffici - in questo caso degli interessi e dei diritti fondamentali - e i reali problemi che il legislatore è tenuto a risolvere con una disciplina uniforme. Il tipo giurisprudenziale per divenire tipo legale presuppone allora una reiterazione di comportamenti, una pratica generale che, pur se non assurta a consuetudine, ne potrebbe costituire la base, dettando già una regola[100].
Bisognerà soltanto attendere, quindi, che questa proposta di legge, nella quale confluiscono diritti fondamentali della persona, ergo, bisognevole di una certa preminenza nel calendario delle attività parlamentari, sia varata quanto prima.
Una legge del genere, che, come si è sottolineato, coinvolge diritti personalissimi[101], potrebbe porre un freno alle differenti interpretazioni giurisprudenziali e, dunque, mettere in risalto la certezza del diritto, che non è certezza della decisione.
Grazie all’ausilio interpretativo della Corte costituzionale nella sentenza 278 del 2013, i giudici di merito, che si sono trovati ad applicare il dispositivo della stessa, hanno trovato un po’ di difficoltà nel decidere di accogliere o meno i ricorsi aventi ad oggetto la possibilità di conoscere le proprie origini. Alcuni, non avendo ancora a disposizione il procedimento legale che garantisce la riservatezza per il caso di specie, hanno rigettato i ricorsi - leggasi formalismo giuridico, specie primato della legge -[102]. Altri, invece, hanno creato un mini-protocollo interno, sostituendosi al legislatore, al solo fine di meglio rendere estrinsecato ed attuato il diritto a conoscere le proprie origini in bilanciamento con il diritto all’anonimato, considerati diritti fondamentali della persona (art. 2 cost.)[103].
Ciò a riprova del fatto che il legislatore “dormiente” preferisce occuparsi di altro a discapito dei diritti della persona, che, indubitanter, restano il nucleo centrale e inossidabile del sistema ordinamentale.
[1] Per una visione panoramica del concetto di “tutela multilevel” si rimanda a A. Di Stasi, Spazio europeo e diritti di giustizia, Il capo VI della Carta dei diritti fondamentali nell’applicazione giurisprudenziale, Cedam, Padova 2014. Si rimanda, inoltre, a P. Bilancia, E. De Marco (a cura di), La tutela multilivello dei diritti. Punti di crisi, problemi aperti, momenti di stabilizzazione, Milano, 2004; A. Bultrini, La pluralità dei meccanismi di tutela dei diritti umani in Europa, Torino, 2004; S. Gambino, I diritti fondamentali dell’Unione europea fra Corte costituzionale e Corte di giustizia: ambiti e limiti di una protezione multilevel, Milano, 2009; R. Foglia, Il diritto europeo nel dialogo tra le Corti, Milano, 2013.
[2] Vedi fra tutti gli articoli 2 e 3 della Carta Costituzionale.
[3] Sul punto si rimanda a A. Di Stasi, op. ult. cit., pp. 45-109.
[4] P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo-comunitario delle fonti, ESI, Napoli, 2006, pp. 180-183.
[5] P. Perlingieri, op. cit., p. 204.
[6] P. Perlingieri, op. cit., p. 205; vedi anche V. Crisafulli, Efficacia delle norme costituzionali programmatiche, in Riv. Trim. dir. Pubbl., 1951, p.356; U. Natoli, Limiti costituzionali dell’autonomia privata nel rapporto di lavoro, I, Introduzione, Varese, 1955, rist. 1982, p. 23 ss.; P. Perlingieri, Appunti di “Teoria dell’interpretazione”, Camerino, 1970, p. 15 ss.
[7] Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 25 settembre 2012 - Ricorso n.33783/09 - Godelli c. Italia, reperibile su www.ministerodigiustizia.it.
[8] Per una visione sistematica del diritto di conoscere le proprie origini, si rimanda a M. G. Stanzione, Identità del figlio e diritto di conoscere le proprie origini, Giappichelli, Torino, 2015.
[9] P. Perlingieri, op. ult. cit., p. 200.
[10] L’art. 38 dello statuto della Corte internazionale di giustizia annovera tra le fonti internazionali i “principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili”, dopo gli accordi e le convenzioni.
[11] P. Perlingieri, cit., p. 200; vedi anche A. La Pergola, Costituzione e adattamento dell’ordinamento interno al diritto internazionale, Milano, 1961, p. 296 ss.
[12] L’articolo 117, co. 1, Cost. it., recita: “La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.”.
[13] Si rimanda all’articolo di riferimento in tema di diritto derivato dell’Unione europea, ossia all’art. 288 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea.
[14] P. Perlingieri, cit., p. 202; vedi anche F. Sorrentino, Corte Costituzionale e Corte di Giustizia delle Comunità Europee, I, Milano, 1970,p. 172.
[15] Vedi, ad esempio, la procedura di rinvio pregiudiziale, prevista e disciplinata dall’articolo 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea.
[16] L’articolo 34 CEDU, rubricato “Ricorsi individuali”, stabilisce che: “La Corte può essere investita di un ricorso da parte di una persona fisica, un’organizzazione non governativa o un gruppo di privati che sostenga d’essere vittima di una violazione da parte di una delle Alte Parti contraenti dei diritti riconosciuti nella Convenzione o nei suoi protocolli. Le Alte Parti contraenti si impegnano a non ostacolare con alcuna misura l’esercizio effettivo di tale diritto.”
[17] Sul tema, si rimanda a M. G. Stanzione, op. ult. cit., pp. 64-69.
[18] Si rimanda a M. G. Stanzione, op. cit., pp. 64-69.
[19] L’art. 28, co. 7. l. ad, espressamente prevede che: “L’accesso alle informazioni non è consentito nei confronti della madre che abbia dichiarato alla nascita di non volere essere nominata ai sensi dell’articolo 30, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396.”.
[20] A tal riguardo, si consenta rinviare a M. G. Stanzione, op. cit., pp. 81- 103.
[21] Esauriente, in tale direzione, è la prospettiva evidenziata da M. G. Stanzione, op. cit., p. 43.
[22] In merito al diritto di conoscere la propria condizione di adottato, si consenta rinviare a M. G. Stanzione, op. cit., pp. 48-53.
[23] Per una visione d’insieme in chiave comparatistica del diritto di conoscere le proprie origini si rimanda a M. G. Stanzione, op. cit., p. 144 ss.
[24] Si consenta rinviare ai commenti a sentenza di E. Vigato, Godelli c. Italia: il diritto a conoscere le proprie origini, in Quad. cost., 2012, p. 908 ss.; G. Currò, Diritto della madre all’anonimato e diritto del figlio alla conoscenza delle proprie origini. Verso nuove forme di contemperamento, in Fam. Dir., 2013, 6, p. 537 ss..
[25] In riferimento all’articolo 8 CEDU, si rinvia a M. G. Stanzione, op. cit., pp. 114-115.
[26] In merito all’applicabilità dell’articolo 8 CEDU, si rinvia a A. Margaria, Parto anonimo e accesso alle origini: la Corte europea dei diritti dell’uomo condanna la legge italiana, in Minorigiustizia, 2013, 2, p. 340 ss..
[27] A. Margaria, op. cit., p. 340 ss.
[28] Cfr. V. Sciarrino, Il diritto di conoscere le proprie origini biologiche, nella legge 4 maggio 1983, n. 184, in Rass. Dir. Civ., 2002, p. 775 ss.
[29] A tale riguardo, si consenta rinviare a M. P. Bianchetti, La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo richiama l’Italia a realizzare il diritto dell’adottato a conoscere le proprie origini, in Diritti Umani in Italia, 22 aprile 2013 (www.duitbase.it).
[30] M. P. Bianchetti, op. cit..
[31] Si rinvia a M. G. Stanzione, op. ult. cit., pp. 32-40, la quale si sofferma in particolar modo, proprio in chiave comparatistica, sul parto con discrezione, ipotizzando una possibile conciliazione tra l’interesse della madre biologica e del figlio in cerca della sua identità.
[32] M. P. Bianchetti, op. ult. cit.
[33] Si consenta rinviare a M. G. Stanzione, op. ult. cit., pp. 58-64.
[34] D. Butturini, La pretesa a conoscere le proprie origini come espressione del diritto al rispetto della vita privata, in Forum di quaderni costituzionali, 24 ottobre 2012 (www.forumcostituzionale.it).
[35] Sul tema, si consenta rinviare a Corte cost., 22 novembre 2013, n. 278, in Fam. Dir., 2014, 1, p. 11 ss., con nota di V. Carbone, Un passo avanti del diritto del figlio, abbandonato e adottato, di conoscere le sue origini rispetto all’anonimato materno, p. 11 ss.; in Nuova giur. Civ. comm., 2014, 1, p. 285 ss., con nota di V. Marcenò e di J. Long, Adozione e segreti: costituzionalmente illegittima l’irreversibilità dell’anonimato del parto, in Foro it., 2014, 1, p. 4 ss.; in Guida dir., 2013, n. 49-50, p. 20 ss., con nota di commento di G. Finocchiaro, Il segreto sulle origini perde il carattere irreversibile ma la donna può decidere se restare nell’anonimato.
[36] Cfr. B. Checchini, Anonimato materno e diritto dell’adottato alla conoscenza delle proprie origini, in Riv. Dir. Civ., 2014, 3, p. 710 ss..
[37] Corte cost. 16 novembre 2005, n. 425, in Dir. Inf., 2006, p. 105 ss., con nota di L. Trucco, Anonimato della madre versus “identità” del figlio davanti alla Corte Costituzionale; in Fam. Dir., 2006, 2, p. 129 ss., con nota di F. Eramo, Il diritto all’anonimato della madre partoriente, p. 130 ss. e in Fam. Pers. Succ., 2006, 11, p. 884 ss., con commento di L. Caretti, Accesso dell’adottato alle informazioni sulle proprie origini: legittimo il divieto ove la madre abbia dichiarato di non voler essere nominata.
[38] R. Alexy, A theory of Legal Argumentation, Oxford, 2010, p. 140 ss.
[39] P. Perlingieri, op. ult. cit., p. 433 ss.
[40] P. Perlingieri, op. cit., p. 433.
[41] P. Perlingieri, op. cit., p. 434.
[42]P. Perlingieri, op. cit., p. 434; vedi anche U. Scarpelli, Esistenzialismo e marxismo, Torino, 1960, p. 71; E. Berti, Il concetto di persona nella storia del pensiero filosofico, in Aa. Vv., Persona e personalismo, Padova, 1983, p. 34 ss; S. Cotta, Soggetto umano soggetto giuridico, Milano, 1997, p. 39 ss.
[43] G. Oppo, Declino del soggetto e ascesa della persona, in Riv. Dir. Civ., 2002, I, p. 829 ss.
[44] P. Stanzione, Persona fisica I) Diritto civile, in Enc. Giur. Treccani, XXIII, Roma, 1991, p. 1 ss.
[45] P. Perlingieri, op. ult. cit., p. 435.
[46] P. Perlingieri, op. cit., p. 435.
[47] P. Perlingieri, op. cit., p. 436.
[48] P. Perlingieri, op. cit., 437.
[49] U. Scarpelli, Classi logiche e discriminazioni tra i sessi, in Lav. Dir., 1988, p. 615 ss.; R. Dworkin, Eguaglianza, in Enc. Sc. Soc. Treccani, III, Roma, 1993, p. 478 ss.; N. Bobbio, Eguaglianza e libertà, Torino, 1995, p. 22.
[50] F. Galgano, Le istituzioni dell’economia capitalista, Roma, 1978, p. 27.
[51] C. Esposito, La costituzione italiana. Saggi, Padova, 1954, pp. 26 61 ss. e U. Rescigno, Costituzione italiana e stato borghese, Roma, 1975, p. 124.
[52] F. Lucarelli, Regime dei suoli e progetto di equo canone, in Riv. Trim., 1977, p. 1161 ss.
[53] P. Perlingieri, cit., p. 450.
[54] Più di recente C. Fiorio, Libertà personale e diritto alla salute, Padova, 2002.
[55] M. Pesante, Corpo umano (Atti di disposizione), in Enc. Dir., X, Milano, 1962, p. 657.
[56] F. Mantovani, I trapianti e la sperimentazione umana nel diritto italiano e straniero, Padova, 1974, p. 82.
[57] C. Mortati, La tutela della salute nella Costituzione italiana, (1961), Raccolta di scritti, III, Milano, 1972, p. 435.
[58] C. Mortati, cit., p. 436.
[59] In riferimento ad una ricerca di equilibrio tra gli interessi in conflitto nella giurisprudenza della Corte EDU e della Corte costituzionale italiana, si consenta rinviare a M. G. Stanzione, op. ult. cit., pp. 64-69; Si consenta rinviare, altresì, a V. Gagliardi, E. Palmerini, Sub art. 24 l. 28 marzo 2001, n. 149, in Le nuove leggi civili commentate, 2002, n. 4-5, p. 1024.
[60] Per una prospettiva di indagine sul tema, si consenta rinviare a L. Balestra, Il diritto alla conoscenza delle proprie origini tra tutela dell’identità dell’adottato e protezione del riserbo dei genitori biologici, in Familia, 2005, p. 161 ss..
[61] Panoramica generale sulla disquisizione del diritto a conoscere le proprie origini, soprattutto a livello sociologico e antropologico, è fornita da P. Ronfani, Conoscenza delle origini e altri problemi dell’adozione nelle prospettive sociologica e antropologica, in Minorigiusitizia, 1997, 2, p. 40.
[62] Per un quadro approfondito sul diritto a conoscere le proprie origini quale diritto all’identità personale, si consenta rimandare a C. Restivo, L’art. 28 l.ad. tra nuovo modello di adozione e diritto all’identità personale, in Familia, 2002, p. 691 ss..
[63] L’articolo 7 della Convenzione di New York recita che: “Il fanciullo è registrato immediatamente al momento della sua nascita e da allora ha diritto a un nome, ad acquisire una cittadinanza e, nella misura del possibile, a conoscere i suoi genitori e a essere allevato da essi. Gli Stati parti vigilano affinché questi diritti siano attuati in conformità con la loro legislazione nazionale e con gli obblighi che sono imposti loro dagli strumenti internazionali applicabili in materia, in particolare nei casi in cui se ciò non fosse fatto, il fanciullo verrebbe a trovarsi apolide.”
[64] L’articolo 8 della Convenzione di New York, invece, stabilisce che: “Gli Stati parti si impegnano a rispettare il diritto del fanciullo a preservare la propria identità, ivi compresa la sua nazionalità, il suo nome e le sue relazioni familiari, così come riconosciute dalla legge, senza ingerenze illegali. Se un fanciullo è illegalmente privato degli elementi costitutivi della sua identità o di alcuni di essi, gli Stati parti devono concedergli adeguata assistenza e protezione affinché la sua identità sia ristabilita il più rapidamente possibile.”
[65] L’importanza della Convenzione di New York è risaltata da M. G. Stanzione, op. ult. cit., p. 49 ss.
[66] L’art. 30 della Convenzione Aja stabilisce, inoltre, che: “Le autorità competenti di ciascuno Stato contraente conservano con cura le informazioni in loro possesso sulle origini del minore, in particolare quelle relative all'identità della madre e del padre ed i dati sui precedenti sanitari del minore e della sua famiglia. Le medesime autorità assicurano l'accesso del minore o del suo rappresentante a tali informazioni, con l'assistenza appropriata, nella misura consentita dalla legge dello Stato.”
[67] Per un riferimento più chiaro, si rimanda a A. Liuzzi, Il diritto dell’adottato di conoscere le proprie origini: una vexata questio, in Fam. Dir., 2002, p. 89 ss.
[68] Imprescindibile è il riferimento alla sentenza della Corte costituzionale italiana 3 febbraio 1994, n. 13, in Foro it., 1994, I, c 1668; in Giust. Civ., 1994, I, p. 867; in Dir. Fam. Pers., 1994, p. 526; in Giur. Cost., 1994, p. 95, con nota di A. Pace; in Fam dir., 1994, p. 135, con nota di G. Servelli, Rettifica degli atti di stato civile e mantenimento del cognome.
[69] Si ritorna al tema della reversibilità del consenso cristallizzato all’anonimato. Sul punto M. P. Bianchetti, op. ult. cit.
[70] In merito all’attualità, dunque, della non perdurante volontà della madre biologica di conservare il segreto, si fa rimando a E. Vigato, op. ult. cit., p 908 ss.; G. Currò, op. ult. cit., p. 537 ss; A. Margaria, op. ult. cit., p. 340 ss.
[71] Tracce si possono già trovare in B. Pannain, Il preminente interesse del minore: principio fondamentale della normativa sull’adozione ed esigenza bio-psicologica primaria, Dir. Fam., 1991, p. 223.
[72] Numerosi e approfonditi sono i contributi in materia. Si consenta rimandare a T. Auletta, Sul diritto dell’adottato di conoscere le proprie origini, in Corr. Giur., 2014, p. 473 ss.; A. Palazzo, La filiazione, in Trattato Cicu-Messineo, Milano, 2003, p. 157 ss.; J. Long, La Corte europea dei diritti dell’uomo censura l’Italia per la difesa a oltranza dell’anonimato del parto: una condanna annunciata, in Nuova giur. Civ. comm., 2013, I, p. 110 ss.; ID, Diritto dell’adottato di conoscere le proprie origini: costituzionalmente legittimi i limiti nel caso di parto anonimo, Nuova giur. Civ. comm., 2006, I, p. 549 ss.
[73] Imprescindibile, anche e soprattutto in questo caso, è il riferimento alla sentenza della Corte costituzionale italiana 3 febbraio 1994, n. 13, in Foro it., 1994, I, c 1668; in Giust. Civ., 1994, I, p. 867; in Dir. Fam. Pers., 1994, p. 526; in Giur. Cost., 1994, p. 95, con nota di A. Pace; in Fam dir., 1994, p. 135, con nota di G. Servelli, Rettifica degli atti di stato civile e mantenimento del cognome.
[74] Attinente a questo punto è l’approfondimento di M. G. Stanzione, op. ult. cit., pp. 58-73.
[75] Si ritorna al tema della reversibilità del consenso cristallizzato all’anonimato. Sul punto M. P. Bianchetti, op. ult. cit.. In merito all’attualità, dunque, della non perdurante volontà della madre biologica di conservare il segreto, si fa rimando a E. Vigato, op. ult. cit., p 908 ss.; G. Currò, op. ult. cit., p. 537 ss; A. Margaria, op. ult. cit., p. 340 ss.
[76] In merito al collegamento tra il diritto a conoscere le proprie origini e la disciplina della procreazione medicalmente assistita, anche in un’ottica squisitamente comparatistica, si consenta rinviare a M. G. Stanzione, op. ult. cit., pp. 73-105.
[77] Sul tema, vedi M. Di Masi, Trattamento dei dati personali e diritto a conoscere le proprie origini: due recenti provvedimenti del Garante della “Privacy”, in Riv. Crit. Dir. Priv., 2011, p. 141 ss.
[78] In tema di reversibilità, o, come in questo caso, ma sempre attraverso una sinonimia, in tema di revocabilità dell’anonimato, si rinvia a E. Vigato, op. ult. cit., p 908 ss.; G. Currò, op. ult. cit., p. 537 ss; A. Margaria, op. ult. cit., p. 340 ss.
[79] Si ritorna al tema della reversibilità del consenso cristallizzato all’anonimato. Sul punto M. P. Bianchetti, op. ult. cit.
[80] In argomento vedi l’analisi di S. Troiano, Circolazione e contrapposizione di modelli nel diritto europeo di famiglia: il “dilemma” della donna partoriente all’anonimato, in Liber amicorum per Dieter Henrich, a cura di G. Gabrielli et al., vol. II, Torino, 2012, p. 172 ss.; nonché S. Stefanelli, Parto anonimo e diritto a conoscere le proprie origini, in Dir. Fam. Pers., 2010, n. 1, p. 426 ss.
[81] A tal proposito, si consenta rinviare a A. Renda, L’accertamento della maternità: anonimato materno e responsabilità per la procreazione, in Fam. Dir., 2004, p. 510 ss.; E. Bolondi, Il diritto della partoriente all’anonimato: l’ordinamento italiano nel contesto europeo, in Nuova giur. Comm., 2009, II, p. 281 ss.
[82] G. Bonilini, Trattato di Diritto di Famiglia, in 4 Volumi, Utet giuridica, 2016.
[83] Sia consentito rinviare a E. Vigato, op. ult. cit. p. 908 ss.; M. P. Bianchetti, op. ult. cit.; D. Butturini, op. ult. cit.; V. Carbone, op. ult. cit., p. 11 ss.; Checchini, op. ult. cit., p. 710 ss.
[84] Imprescindibile, anche e soprattutto in questo caso, è il riferimento alla sentenza della Corte costituzionale italiana 3 febbraio 1994, n. 13, in Foro it., 1994, I, c 1668; in Giust. Civ., 1994, I, p. 867; in Dir. Fam. Pers., 1994, p. 526; in Giur. Cost., 1994, p. 95, con nota di A. Pace; in Fam dir., 1994, p. 135, con nota di G. Servelli, Rettifica degli atti di stato civile e mantenimento del cognome.
[85] Si rinviene esattamente nella motivazione in Cass. civ., 9 novembre 2016, n. 22838, consultabile su www.cortedicassazione.it.
[86] Sul tema, vedi M. Di Masi, op. ult. cit., p. 141 ss.
[87] Vedi, tra i primi commenti, G. Vassallo, Parto anonimo: nell’attesa della legge, il diritto del figlio di conoscere le proprie origini va garantito, in Altalex, 13 febbraio 2017; M. Giarrizzo, Il diritto del figlio nato da parto anonimo e il diniego posto dalla madre, in Diritto.it, 21 marzo 2017; G. Voltaggio, Parto anonimo e diritto a conoscere le proprie origini: il punto delle Sezioni Unite, in Giuricivile, 26 gennaio 2017.
[88] Sul tema, vedi D. Piccinin, Minori: tra diritto alle origini e anonimato della madre, in Studio Cataldi, 15 aprile 2019; A. Palombo, Diritto alle origini, in Diritto.it, 20 aprile 2018; G. Vassallo, Parto anonimo: il figlio può conoscere le proprie origini se la madre è morta?, in Altalex, 27 febbraio 2018. Sul punto, vedi Cass. civ., sez. VI-I, 7 febbraio 2018, n. 3004. Inoltre, ancora sul tema, vedi A. Giurlanda, Il diritto a conoscere le proprie origini può essere esercitato anche nei confronti delle sorelle e dei fratelli biologici dell’adottato?, in Questione giustizia, 26 settembre 2018. Sul punto è interessante il principio di “estensione del diritto a conoscere le proprie origini biologiche anche ai fratelli e alle sorelle”.
[89] Molta letteratura in tal senso, vedi S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Roma, 2012, p. 298; F.D. Busnelli, La persona alla ricerca dell’identità, in Riv. Crit. Dir. Priv., 2010, 1, p. 7 ss.
[90] Sul tema, si consenta rinviare a Corte cost., 22 novembre 2013, n. 278, in Fam. Dir., 2014, 1, p. 11 ss., con nota di V. Carbone, Un passo avanti del diritto del figlio, abbandonato e adottato, di conoscere le sue origini rispetto all’anonimato materno, p. 11 ss.; in Nuova giur. Civ. comm., 2014, 1, p. 285 ss., con nota di V. Marcenò e di J. Long, Adozione e segreti: costituzionalmente illegittima l’irreversibilità dell’anonimato del parto, in Foro it., 2014, 1, p. 4 ss.; in Guida dir., 2013, n. 49-50, p. 20 ss., con nota di commento di G. Finocchiaro, Il segreto sulle origini perde il carattere irreversibile ma la donna può decidere se restare nell’anonimato.
[91] Si erano espressi in tal senso E. Vigato, op. ult. cit., p. 908 ss.; G. Currò, op. ult. cit., p. 537 ss.; A. Margaria, op. ult. cit., p. 340 ss; M. P. Bianchetti, op. ult. cit.; D. Butturini, op. ult. cit.
[92] Si rimanda a M. G. Stanzione, op. ult. cit., pp. 121-159.
[93] Essenziale è a tal fine il richiamo al principio della reversibilità della volontà ad essere anonima. In questa direzione, si consenta rinviare a E. Vigato, op. ult. cit., p 908 ss.; G. Currò, op. ult. cit., p. 537 ss; A. Margaria, op. ult. cit., p. 340 ss.
[94] Si ritorna sul diritto alla riservatezza. A tal proposito si rinvia a M. G. Stanzione, op. cit., pp. 70-73.
[95] Cfr. con il quarto paragrafo.
[96] Tutti elementi che denotano l’osservanza da parte del legislatore delle pronunce della giurisprudenza costituzionale, ma soprattutto della giurisprudenza europea.
[97] Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 25 settembre 2012 - Ricorso n.33783/09 - Godelli c. Italia, reperibile su www.ministerodigiustizia.it.
[98] Corte cost., 22 novembre 2013, n. 278, recuperabile su www.cortecostituzionale.it.
[99] Cass. civ., 9 novembre 2016, n. 22838, rintracciabile su www.cortedicassazione.it.
[100] F. Gazzoni, Obbligazioni e contratti, XVI ed, Esi, Napoli, 2013, pp. 814-815.
[101] Cass. civ., 9 novembre 2016, n. 22838, secondo la quale: “Il diritto di entrambi – quello dell’adottato e quello della madre naturale – ha natura personalissima. Deve, pertanto, ritenersi che si estingua con la morte dei titolari di esso e non sia trasmissibile.”
[102] P. Perlingieri, cit., pp. 87-91.
[103] P. Perlingieri, cit., pp. 433-470.
Pubblichiamo una recentissima direttiva organizzativa del Procuratore Generale di Reggio Calabria che fa il punto su un aspetto cruciale per il lavoro requirente: la decisione se impugnare o meno e, in particolare, la regolamentazione del procedimento da seguire in caso di opinioni dissenzienti.
L’atto si caratterizza, oltre che per l’assoluta novità, sotto il profilo organizzativo, del tema affrontato, per l’approfondimento storico e il respiro democratico delle scelte fatte, consistente nel favor offerto ad un contraddittorio interno all’ufficio, idoneo a collocare lo scritto in una cornice di perfetta coerenza con le linee ispiratrici della circolare CSM sugli uffici requirenti del 16 novembre 2017 e, ancora a monte, con lo spirito del decreto legislativo n. 106/2006.
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