Neuroscienze e reati minorili: categorie penalistiche e psicologia del giudicare
di Luca Muglia
Il focus ha l’obiettivo di illustrare i risultati delle moderne neuroscienze, mostrandone le applicazioni in ambito penale minorile e le ricadute sulla psicologia del giudicare.
Sommario: 1. Plasticità cerebrale, vulnerabilità genetica e comportamenti devianti - 2. Neuroscienze e sistema minorile: la crisi delle categorie penalistiche - 3. Neuroscienze e psicologia del giudicare.
1. Plasticità cerebrale, vulnerabilità genetica e comportamenti devianti
Negli ultimi anni le neuroscienze, in particolare le nuove tecniche di neuroimaging, hanno consentito di pervenire a risultati apprezzabili in materia di riproduzione grafica dell’attività cerebrale. Gli studi neuroscientifici, infatti, hanno notevolmente accresciuto la conoscenza del funzionamento del cervello, focalizzando l’attenzione sull’area del lobo frontale.
Si è evidenziato che nei primissimi anni di vita si assiste ad un neurosviluppo più concentrato sulle regioni corticali deputate alle funzioni primarie (motorie, sensitive, sensoriali) della persona, mentre dai 3 anni in poi (o meglio, fino all’adolescenza) i processi di accrescimento neurale coinvolgono più che altro le cortecce associative, quali la corteccia prefrontale e temporale (implicate nelle funzioni cognitive superiori, quali l’attenzione, la memoria, il linguaggio, la capacità di ragionamento, la pianificazione, la risoluzione di un problema) e le strutture sottocorticali (amigdala, ippocampo, striato) che modulano il processamento di stimoli a valenza sociale, avversativa ed emozionale, e che sono particolarmente sensibili agli stimoli ormonali ed a quelli culturali e psicosociali dell’ambiente esterno. In questa interazione ed evoluzione dinamica tra le aree prefrontali e limbiche risiederebbe l’origine del comportamento dell’adolescente[1].
Si è sottolineato, altresì, che dalle osservazioni neuroscientifiche risulta che i comportamenti rischiosi sono giustamente associati all’adolescenza. La completezza morfologica e funzionale del sistema nervoso centrale avviene oltre i 20 anni di età. Le ultime aree, quelle che si sviluppano durante l’adolescenza, sono la corteccia frontale e prefrontale. Queste ultime hanno il compito di inibire le emozioni, sono responsabili dell’autocontrollo e del controllo cognitivo. Insomma, l’adolescente rischia “per natura”. Non ha ancora sviluppato completamente le abilità cognitive che gli consentono di avere piena consapevolezza dei rischi, di bloccare gli impulsi e le emozioni travolgenti[2]. Diversi studi hanno indagato, attraverso le tecniche di imaging, le caratteristiche del cervello adolescenziale. Una ricerca, condotta presso l’Università di Delaware e pubblicata di recente su NeuroImage[3], ha chiarito che parallelamente ad un incompleto sviluppo dell’area deputata al controllo cognitivo (la corteccia prefrontale mediale), agisce in piena funzionalità il sistema socio-emozionale coinvolto nei processi di ricompensa (ad esempio le sensazioni fisiche in risposta a stimoli piacevoli). In assenza di meccanismi di inibizione, a fronte di un funzionante sistema di percezione del piacere (fisico ed emotivo), si mettono in atto comportamenti eccitanti e pericolosi senza soffermarsi molto sulle conseguenze. Finora le differenze tra il cervello adulto e quello adolescenziale erano state rilevate tramite tecniche di imaging che consentono di visualizzare l’attività delle regioni cerebrali, come la risonanza magnetica funzionale. Questo studio invece utilizza la risonanza magnetica elastografica[4], una tecnica per valutare le proprietà meccaniche del tessuto cerebrale come misura dello sviluppo del cervello[5].
Altri studi, infine, hanno rilevato che il sistema nervoso altamente plastico dell’adolescente lo rende suscettibile agli effetti dannosi di stress o avversità (che inducono alla vulnerabilità), ma anche più plasmabile e ricettivo alle influenze positive (che migliorano la resilienza)[6]. Questi fattori rendono l’adolescenza il periodo ideale per instaurare “interventi terapeutici” mirati, soprattutto in adolescenti a rischio, atti a rafforzare la resilienza del futuro individuo adulto e prevenire l’insorgenza di alterazioni del comportamento sociale e psichico[7].
Le neuroscienze, dunque, rappresentano uno strumento utile in grado di assicurare un modello integrato di intervento. Oltre alle metodologie di neuroimaging esistono altri settori di ricerca innovativi, dagli studi di biologia molecolare (genoma umano) e genetica comportamentale (incidenza del patrimonio genetico) alla possibilità di modificare il DNA attraverso comportamenti, abitudini ed emozioni (epigenetica). Si aggiungano i recenti risvolti in campo psicologico[8].
Di indubbio rilievo sono le evidenze scientifiche aventi ad oggetto le varianti genetiche associate al comportamento antisociale.
All’inizio degli anni ’90 una sperimentazione importante (Brunner et al., 1993) dimostrò che ben 14 membri (maschi) di una famiglia olandese manifestavano tassi elevati di comportamento criminale (aggressivo e antisociale), accertando che gli stessi presentavano una rara mutazione genetica e la totale assenza dell’enzima monoamino ossidasi A (MAOA), l’enzima che catalizza la degradazione di alcuni importanti neurotrasmettitori (serotonina cerebrale, noradrenalina e dopamina). A regolare quest’enzima così particolare sarebbe il c.d. gene guerriero. Nei decenni successivi l’interesse sul legame tra MAOA e aggressività, originato dalla scoperta di Han Brunner, è stato oggetto di diversi approfondimenti scientifici. A proposito delle attuali conoscenze in materia si è sottolineato come una “strategia traslazionale integrata” che coordini la ricerca clinica e preclinica può rivelarsi fondamentale per chiarire aspetti importanti della fisiopatologia dell’aggressività e identificare potenziali bersagli per la sua diagnosi, prevenzione e trattamento[9].
I soggetti affetti dalla sindrome di Brunner erano caratterizzati da episodica aggressività impulsiva, che aveva portato alla perpetrazione di vari atti criminali, tra cui tentato stupro e omicidio, nonché incendio doloso, voyeurismo ed esibizionismo. I comportamenti antisociali e violenti erano una risposta disadattiva a fattori scatenanti di tipo ambientale. I pazienti con sindrome di Brunner presentavano anche lievi deficit cognitivi, movimenti della mano stereotipati e parasonnie. Una nuova descrizione della sindrome di Brunner è stata riscontrata di recente in due famiglie australiane con mutazioni del Gene MAOA (Palmer et al., 2016). I maschi affetti in entrambi i pedigree presentavano lieve disabilità intellettiva, comportamento introverso, occasionali scoppi d’ira e altri episodi di aggressività esplosiva. Ulteriori alterazioni comportamentali andavano da comportamenti ossessivi e accumulo a deficit dell’attenzione; si rilevavano, altresì, anomalie biochimiche nei profili urinari. Questi casi configurano la sindrome di Brunner come una condizione caratterizzata da lieve disabilità intellettiva, spesso accompagnata da altri tratti di tipo autistico, come deficit socio-comunicativi e comportamenti perseverativi. Le recenti descrizioni hanno confermato che il tratto comportamentale in questione è meglio contestualizzato come una reazione disadattiva allo stress e la sua gravità può essere influenzata dall’esposizione alle prime avversità[10].
Che le varianti del gene MAOA possano essere predittive di un’ampia gamma di fenotipi antisociali, inclusa la violenza fisica, è un dato ormai pacifico. Una ricerca della Florida State University, realizzata con il National Longitudinal Study of Adolescent Health, ha esaminato l’associazione tra MAOA e appartenenza a una banda o gang giovanile. E’ stato accertato che i portatori maschi di alleli a bassa attività MAOA sono esposti al rischio (maggiore) di diventare membri di una banda giovanile e, una volta divenuti tali, al rischio (maggiore) di utilizzare le armi. Tale ricerca ha offerto un ulteriore spunto scientifico, comprovando che il gene MAOA è collocato sul cromosoma X. I maschi, quindi, ne possiedono solo una copia, mentre le donne ne hanno due. Ciò significa che se le femmine possiedono un allele a rischio, ne hanno comunque un altro che può compensarlo[11].
Negli ultimi anni l’indagine sulla relazione tra ereditarietà e ambiente si è arricchita di contributi scientifici importanti.
Numerose evidenze provenienti da studi osservazionali condotti sui gemelli e sui soggetti adottati, e, successivamente, da studi di genetica molecolare, mostrano che il comportamento sociale umano, almeno in parte, si eredita. Alcune varianti genetiche dei pathway serotoninergico e dopaminergico, in interazione con un ambiente di crescita particolarmente negativo, sono state messe in relazione con il comportamento antisociale e sono state indicate come fattori di aumentato rischio di aggressività e di violenza. Evidenze ancor più recenti, tuttavia, lasciano presupporre che queste varianti alleliche, più che dei fattori di rischio antisociale, rappresenterebbero dei fattori di plasticità, in grado di rendere il cervello umano maggiormente recettivo agli eventi esterni, sia negativi che positivi[12].
Si è osservato, inoltre, che in soggetti con predisposizione genetica la psicopatia possa avere origine da traiettorie dello sviluppo cerebrale alterate conseguenti a esperienze avverse nella prima infanzia. Alcuni studi analizzano gli effetti dei primi traumi sulla psicopatia adulta, mentre la cattiva genitorialità (ad esempio il mancato legame con i bambini, l’abbandono e abuso) è spesso associata a tratti calloso anemozionali (CU – Callous Unemotional) nei giovani (affettività superficiale, mancanza di empatia e senso di colpa). Non tutti i giovani con tratti CU diventano psicopatici come adulti, ma hanno un rischio significativamente maggiore di crescere come psicopatici rispetto ai bambini senza tratti CU. Infatti entrambi, i tratti CU e la psicopatia adulta, sono altamente ereditabili[13].
C’è anche chi ritiene che, nell’ambito dell’assistenza sociale, un nuovo campo di terapeutico-genetica potrebbe utilizzare la genetica individuale per prescrivere interventi sociali personalizzati[14]. Risulta evidente, dunque, che in futuro non si potrà fare a meno di indagare la vulnerabilità genetica predittiva di comportamenti antisociali e che il mondo del diritto dovrà prestare attenzione all’evoluzione scientifica in materia. Ci si è già chiesti, peraltro, quale sia il ruolo del diritto cognitivo con riferimento all’intervento sociale che caratterizza i procedimenti minorili, ipotizzando l’utilizzo delle neuroscienze anche in chiave diagnostica, di cura e trattamento[15].
Premesso che non si tratta di ipotizzare alcun determinismo genetico (o riduzionismo biologico), ma una vulnerabilità dell’individuo ai fattori ambientali, le nuove discipline scientifiche potranno fornire un apporto essenziale alla valutazione sull’imputabilità del minore e, soprattutto, all’individuazione del tipo di ambiente da costruire per prevenire e/o ridurre il rischio di devianza (o recidiva). In tale direzione si può parlare di neuroscienze “a servizio” di un progetto di intervento più ampio in grado di produrre cambiamenti significativi, migliorando le condizioni di vita degli adolescenti devianti[16].
Va da sé che l’attuale approccio psico-forense, finalizzato esclusivamente alla prova scientifica e alla attivazione di consulenze tecniche - d’ufficio o di parte - che veicolano le tecniche neurobiologiche, risulta alquanto riduttivo e/o limitato.
2. Neuroscienze e sistema minorile: la crisi delle categorie penalistiche
Occorre domandarsi, a questo punto, se e in che termini i risultati delle neuroscienze possano influenzare il mondo del diritto e, in particolare, le categorie penalistiche.
Non v’è dubbio che neuroimmagini, biologia molecolare e genetica comportamentale siano discipline scientifiche in grado di generare ricadute importanti sotto il profilo dell’imputabilità e dell’elemento psicologico del reato, specie quando a commettere il fatto-reato è una persona minore d’età.
Si è già segnalato come negli ultimi decenni l’istituto dell’imputabilità minorile abbia subìto un consistente ridimensionamento, che ne ha circoscritto sensibilmente l’applicazione[17].
Il dato non è di poco conto, atteso che in materia minorile è necessario accertare l’incapacità di intendere e di volere anche per ragioni di “immaturità”. Quanto sopra segnalato a proposito degli adolescenti circa la plasticità del cervello, lo sviluppo della corteccia frontale e prefrontale, il (dis)controllo delle emozioni e la vulnerabilità genetica, riverbera inevitabili effetti sulla valutazione dell’imputabilità.
Una parte della dottrina ritiene che, se è vero che le emozioni concorrono a decidere le abilità mentali cognitive di una persona, un malfunzionamento dell’area cerebrale (sistema limbico, neuroni specchio o quel che sia) non può non incidere, negandola o attenuandola, sull’imputabilità del reo. A dispetto dell’irrilevanza giuridica degli stati emotivi e passionali ai fini del giudizio di imputabilità (art. 90 c.p.), il malfunzionamento dell’emotività sarebbe tale, quindi, da compromettere sia la capacità di intendere che quella di volere[18].
Il tema, assai delicato, presenta risvolti importanti anche nel settore processuale-penalistico.
Il divieto di cui all’art. 220 c.p.p. (che esclude l’ammissibilità della perizia per stabilire “la tendenza a delinquere, il carattere e la personalità dell’imputato e in genere le qualità psichiche indipendenti da cause patologiche”) riduce sensibilmente l’ambito di indagine sulla personalità, contraddicendo le disposizioni che regolano il processo a carico di imputati minorenni. Quest’ultimo, infatti, a differenza del processo degli adulti ha ad oggetto l’indagine sulla personalità del minore (art. 9, I comma, dpr 448/1988), oltre che l’accertamento del fatto. Inoltre, con riferimento all’espletamento di tale indagine il giudizio minorile contempla la facoltà di assumere informazioni da persone informate sui fatti e di sentire il parere di esperti “anche senza alcuna formalità” (art. 9, II comma, dpr 448/88). Le scelte legislative, quindi, appaiono del tutto illogiche e contraddittorie, atteso che il rito minorile deroga al divieto di perizia psicologica previsto dal rito ordinario[19].
Il sistema minorile, dunque, non esclude l’utilizzo delle neuroscienze ai fini dell’indagine personologica, riconoscendo alle stesse la possibilità di entrare nel processo dalla porta principale.
Le applicazioni di metodi neuroscientifici nel processo a carico di imputati minorenni potrebbero essere svariate, tenuto conto del fatto che gli accertamenti sulla personalità sono effettuati al fine di accertare l’imputabilità e il grado di responsabilità, valutare la rilevanza sociale del fatto nonché disporre le adeguate misure penali e adottare gli eventuali provvedimenti civili (ex art. 9, I comma, dpr 448/1988). Si aggiunga che i giovani autori di reato presentano spesso disturbi psicologici o dipendenze comportamentali, fenomeni di pertinenza diretta delle neuroscienze sociali o cognitive.
Taluno ha sottolineato che, in realtà, gli obiettivi che contraddistinguono il sistema processuale minorile, attraverso un ricorso meno timoroso alla perizia psicologica, potrebbero essere realizzati anche nel processo ordinario laddove, talvolta, la scrupolosa ricostruzione del fatto lascia poco spazio allo studio della personalità, dimenticando che l’azione è in ogni caso attivata da un individuo e che la pena può perseguire la sua finalità rieducativa solo quando è conforme al profilo umano[20].
È indubbio, a questo punto, che le tecniche di brain imaging e i test di genetica comportamentale possono offrire al giudice elementi di valutazione scientificamente apprezzabili a prescindere dalla sussistenza di patologie.
A proposito di prova scientifica una storica pronuncia della Cassazione ha accolto i tradizionali criteri enunciati dalla Corte Suprema statunitense nel caso Daubert, amplificandoli ulteriormente[21]. Infatti, ai consueti requisiti della verificabilità, della falsificabilità, della sottoposizione al controllo della comunità scientifica, della conoscenza del tasso di errore, della generale accettazione nella comunità degli esperti, la Cassazione ha aggiunto i nuovi requisiti dell’affidabilità e dell’indipendenza dell’esperto, della considerazione delle finalità per le quali si muove, della possibilità di formulare criteri di scelta tra le contrapposte tesi scientifiche[22].
Si è segnalato come il sistema italiano si trovi davanti ad un duplice scenario: a) mantenere l’utilizzabilità delle neuroscienze nell’ambito dell’art. 220 c.p.p., circoscrivendone l’applicazione ai casi di perizia volta ad accertare le eventuali patologie o psicosi che abbiano avuto un ruolo determinante rispetto alla commissione del crimine (il criterio Daubert in questo caso non si applicherebbe); b) tracciare una linea di separazione tra la vecchia perizia psichiatrica e le neuro-tecniche che sarebbero, quindi, valutate dal giudice ai fini della loro ammissibilità quali prove separate e atipiche (art. 190 c.p.p.). Se il metodo utilizzato fosse considerato comunque contrario alla libertà di autodeterminarsi dell’imputato, o in violazione del suo diritto a non-autoincriminarsi, il giudice potrebbe in ogni caso vietarne l’ingresso nel procedimento[23].
Nella sentenza sul caso Ilva (2019) la Suprema Corte ha ritenuto che in tema di “scienza nuova” “non sia consentito l’utilizzo di una teoria esplicativa originale, mai prima discussa dalla comunità degli esperti, a meno che ciascuna delle assunzioni a base della teoria non sia verificabile e verificata secondo gli ordinari indici di controllo dell’attendibilità scientifica di essa e dell’attendibilità dell’esperto”[24]. La Corte, pur ribadendo che in caso di “teoria nuova” gli ordinari indici di controllo sono quelli del test Cozzini, ha espresso una maggiore apertura nei confronti dell’utilizzo di teorie scientifiche innovative nel processo penale. Il criterio del generale consenso da parte della comunità scientifica rischierebbe, da solo, di escludere teorie scientifiche innovative attendibili che, proprio per la loro novità, non hanno ancora raggiunto tale generale accettazione[25].
Ci si è interrogati sulle ragioni per cui i giuristi mostrano diffidenza nei confronti delle neuroscienze.
Una possibile spiegazione, osserva Di Giovine, affonda nel rischio che la nobile personalizzazione della responsabilità penale si traduca – e trascenda – in un’indagine sulla personalità del reo, spostando l’accento dal fatto alla persona. L’oscuramento dell’indagine sulla personalità in favore delle note oggettive del fatto sarebbe storicamente nata dal rischio di un etichettamento arbitrario del reo, suscettibile di divenire bersaglio di un uso persecutorio o stigmatizzante del diritto penale. Tale pericolo sarebbe quanto mai attuale con riferimento al giudizio sull’imputabilità, delicato e spesso opinabile, ove dunque il divieto di cui all’art. 220 c.p.p. si spiegherebbe bene[26]. “La ratio di tale disposizione”, conclude Di Giovine, “verrebbe tuttavia per gran parte meno laddove le neuroscienze mantenessero la loro promessa di (maggiore) oggettivizzazione del giudizio. Conseguita una ragionevole certezza, il fine sarebbe raggiunto e, semmai, sarebbe proprio la mancata disposizione di un’indagine personologica sul reo a ledere le esigenze di garanzia”[27].
Il tema più caldo del dibattito tra scienza e diritto è quello della coscienza.
Gli studi in materia si sono concentrati sui correlati neurali della coscienza nel tentativo di individuare la base neuronale della percezione cosciente. In realtà nonostante la crescente qualità scientifica di tali studi, che ricercano l’esatta relazione tra stati fenomenici, mentali e cerebrali, non è possibile ipotizzare che la coscienza sia collocata in una qualche parte del cervello.
Secondo Dennett, ad esempio, se si attribuisce un ruolo centrale al linguaggio la coscienza assume una valenza particolare. In tale accezione la coscienza non arriva nel bambino, come d’incanto, nel magnifico momento M. La coscienza, infatti, non sviluppa la gamma conosciuta dei suoi talenti, la capacità dell’agente cosciente di fare cose perché è cosciente, finché l’agente non viene progressivamente occupato da migliaia di memi - non solo parole - che (ri)organizzano le connessioni neurali da cui dipendono questi talenti[28].
Per Gazzaniga, invece, la coscienza è un istinto, una parte integrante della vita degli organismi. Il nostro cervello modulare, grazie alla sua architettura a strati, gestisce la nostra coscienza a partire dalla totalità dei suoi tessuti locali. Non esiste alcun sistema centralizzato preposto al grandioso miracolo dell’esperienza cosciente. La coscienza è ovunque nel cervello, e nulla, neppure un male devastante (come il morbo di Alzheimer), sembra capace di estinguerla del tutto. Parliamo di “coscienza” per descrivere in forma abbreviata le funzioni di una moltitudine di meccanismi innati di tipo istintuale come il linguaggio, la percezione e le emozioni. Anche la coscienza andrebbe concepita, quindi, come un istinto complesso[29].
In un interessante documento multidisciplinare la coscienza e la consapevolezza vengono intese dal punto di vista neuroscientifico non come una componente statica, ma nel contesto dell’interazione tra funzionamento cognitivo, risposte psicologiche e psicofisiologiche individuali, influenze socio-ambientali e culturali. In quest’ottica la responsabilità individuale appare espressione del cosiddetto “cervello sociale”[30].
Passando alle possibili ricadute delle neuroscienze sulla valutazione dell’elemento soggettivo del reato, le nuove frontiere del diritto cognitivo mettono indubbiamente in crisi alcuni istituti, specialmente nel giudizio minorile dove la conoscenza personologica e le componenti psicologiche e/o emotive sono determinanti.
Bertolino evidenzia che rispetto ai giovani, in particolare agli adolescenti, diventa più impegnativo e delicato un giudizio di accettazione consapevole del rischio alla base della responsabilità a titolo di dolo eventuale, dato che l’effettivo atteggiamento psicologico sembrerebbe più rispondente a quello della “speranza nella non verificazione dell’evento”, descritto da una parte della dottrina penalistica per contrassegnare la colpa con previsione. L’età sarebbe, dunque, un fattore che rende più propensi ad assumere comportamenti rischiosi. Nei giovani l’attenzione sarebbe più facilmente rivolta ai risultati positivi, ai benefici che da tali comportamenti possono derivare, con una sottovalutazione di quelli negativi[31]. Secondo Bertolino queste scoperte sulla immaturità di alcune regioni del cervello, in particolare come fattore di propensione ad assumere rischi, imporrebbero in sede processuale una più attenta valutazione dell’elemento psicologico, alla luce di tutte le evidenze processuali, onde evitare soluzioni a favore del dolo eventuale in ragione della gravità del fatto e nonostante permangano margini di dubbio[32].
E’ chiaro che osservazioni siffatte, provenienti dalla dottrina penalistica più sensibile, acquistano ancor più pregnanza allorquando si discuta di colpa. Invero, la previsione ex art. 43 c.p. di un evento non voluto verificatosi a causa della condotta disattenta o rischiosa, laddove sia ascritta al minorenne si espone a diverse obiezioni sotto il profilo psicologico, criminologico e neuroscientifico[33]. Non è in discussione tanto o solo la rimproverabilità dell’evento quanto anche la riconoscibilità del rischio. Non a caso taluno ha anche prospettato la possibilità di misurare e quindi valorizzare la misura soggettiva della colpa attraverso le neuroimmagini[34].
Le questioni sul tappeto sono talmente complesse che alcuni esperti ragionano da tempo sull’ambito di applicazione giuridica della prova scientifica, e cioè sulla questione del possibile utilizzo della prova tecnica sulla valutazione dell’elemento soggettivo del reato. L’interrogativo proposto è “se sia giuridicamente legittimo che il giudice (o le parti del processo) si avvalga di una consulenza tecnico-scientifica per accertare (o, rectius, per contribuire ad accertare) la partecipazione psicologica dell’imputato al fatto a lui attribuito”[35].
Le considerazioni fin qui svolte inducono a riflettere sulla tenuta del sistema penale, il quale non tiene conto a sufficienza del fatto che il cervello degli adolescenti risponde a logiche neurobiologiche proprie e del tutto diverse. E’ giunto, forse, il momento di (ri)cominciare a parlare di un codice penale ad hoc per i minorenni[36], e cioè di un apparato normativo applicabile solo ed esclusivamente alle persone minori d’età che recepisca l’evoluzione dottrinale e giurisprudenziale in materia, integrando anche il punto di vista delle neuroscienze.
3. Neuroscienze e psicologia del giudicare
Una delle scoperte scientifiche di maggior interesse, in grado di influenzare sensibilmente anche il mondo del diritto, è certamente quella dei neuroni specchio. Attraverso gli studi sui neuroni effettuati da una equipe di ricercatori dell’Università di Parma, infatti, si è accertato che osservare gli altri provare un’emozione (di gioia o dolore, di felicità o tristezza) non è una esperienza così diversa dal provare un’emozione in prima persona[37].
I neuroni specchio, che alcune teorie psicologiche avevano già anticipato, rappresentano la base neurale dell’empatia e ricoprono un ruolo fondamentale nell’apprendimento per imitazione. A livello esperienziale noi effettuiamo atti motori anche quando vediamo qualcun altro eseguirli poiché nel nostro cervello si attivano gli stessi neuroni motori. Un meccanismo identico si attiva anche quando osserviamo le emozioni altrui, in pratica simuliamo lo stato d’animo di una persona che non vediamo ma che sentiamo ridere, piangere o urlare dal dolore. Da ultimo, i neuroni specchio si attivano anche per atti motori che vengono uditi. Ad esempio, se sento aprire una lattina di una bibita in una stanza accanto alla mia dove non vedo l’autore di quell’atto motorio, i miei neuroni specchio si attivano come se stessi compiendo io stesso quell’atto[38].
Con riferimento ai risvolti in campo educativo si è sottolineato, adoperando un’efficace metafora, che “cercare di mettersi in comunicazione con un adolescente senza essere passati da una connessione improntata sui neuroni specchio, è come cercare di telefonare senza avere inserito la spina nella presa telefonica”[39]. Spostandosi sul versante squisitamente psicologico alcuni risultati, oggi cristallizzati dai neuroni specchio, erano già stati in parte conseguiti (si pensi, ad esempio, all’ascolto empatico). Ciò che oggi è stato dimostrato, tuttavia, è che il sistema specchio ha ricadute importanti nelle indagini sul comportamento trasgressivo degli adolescenti[40].
Ma v’è di più! La scoperta dei neuroni specchio, infatti, scuote intimamente il giurista, sottoponendo alla sua attenzione interrogativi che riguardano la natura stessa del diritto.
Secondo Di Giovine è necessario soffermarsi sulla possibilità di distinguere le intuizioni buone da quelle cattive. Si tratterebbe di un aspetto importante, uno scoglio decisivo e non aggirabile ai fini della conoscenza penalistica. Se è vero che il fatto, come in un gioco interattivo, condiziona la dimensione del precetto, occorre sondare allora i meccanismi della conoscenza primitiva ed emotiva. L’approccio scientifico aiuterebbe a comprendere “come le emozioni generino dal nostro cervello, appartengano alla mente ed alla nostra struttura cognitiva”: diversamente da quel che siamo abituati a pensare, esse sarebbero, dunque, tutt’altro che irrazionali[41]. È verosimile, prosegue Di Giovine, che spunti interessanti possano derivare da una più approfondita indagine sul fondamento biologico di alcune emozioni (le tecniche di scansione cerebrale, ad esempio, dimostrerebbero che il ricorso a competenze intuitive o emozionali implica l’attivazione di parti del cervello diverse da quelle interessate dal ragionamento in senso tradizionale). In base a tale accattivante prospettiva, quindi, anche le emozioni sarebbero “razionali”[42].
A supporto dei dubbi sistemici sopra insinuati, la psicologia cognitiva ha messo in risalto come nel ragionamento giudiziario il giudice sia costretto a misurarsi con trappole cognitive derivanti dal cervello, con sensazioni personali (soggettive) e condizionamenti emotivi[43]. Si tratta di scorciatoie che inducono il giudice ad utilizzare i percorsi “stampati” nelle connessioni cerebrali per evitare sorprese, persuadendo la coscienza di aver fatto la cosa giusta. Da qui il tentativo di isolare ed elencare le trappole mentali tipicamente giudiziarie[44].
Il fenomeno in questione è ormai riconoscibile tant’è che la Scuola Superiore della Magistratura, oltre a dedicare appositi eventi formativi alle neuroscienze, organizza e predispone annualmente il corso “La psicologia del giudicare”, che si propone di verificare in che modo la psicologia e le nuove scienze possono aiutare il giudice ad evitare errori del proprio ragionamento[45]. Lo scopo del corso è quello di approfondire, con l’aiuto della psicologia, delle scienze cognitive e delle neuroscienze, se e come le motivazioni, le emozioni, i meccanismi mentali intuitivi, gli stereotipi o i pregiudizi possano influenzare la percezione della realtà processuale, nonché l’apprezzamento delle prove e la decisione. Si intende offrire, pertanto, una riflessione approfondita sul percorso mentale soggiacente alla decisione e sul come gestire al meglio le energie correlate al giudizio in relazione a processi attentivi, percettivi, di memoria e di ragionamento[46].
In materia di giustizia minorile le preoccupazioni legate all’insorgenza di bias cognitivi sono ulteriormente aggravate dal fatto che, a causa dell’interazione comunicativa tra giudice e minore, si introduce una variabile che costituisce una vera e propria incognita: il linguaggio.
Al di là dei casi di audizione del minore (in sede civile, penale e amministrativa), si pensi all’obbligo gravante sul giudice di illustrare all’imputato minorenne “il significato delle attività processuali che si svolgono in sua presenza” ovvero “il contenuto e le ragioni anche etico-sociali delle decisioni” (art. 1, comma 2, dpr 448/1988). Se il linguaggio possiede, come sostiene Dennett[47], un enorme potere creativo e riveste un peso decisivo nella costruzione dei pensieri e nell’ideazione dei comportamenti, nel processo minorile può indubbiamente insinuarsi un pericolo “aggiuntivo”. Invero, in ragione della plasticità neuronale tipica dell’età evolutiva, le illusioni cognitive in cui incorre solitamente il giudice saranno veicolate ed amplificate inevitabilmente dall’uso del linguaggio, con il rischio di generare nel minore una distorsione della realtà o di arrecare allo stesso una difficoltà di natura psichica.
Come rilevato in altra sede, nella lotta tra contenuti mentali non è tanto o solo agli oggetti dei pensieri che occorre prestare attenzione ma soprattutto alle loro “rappresentazioni”, non sottovalutando il fatto che una delle attività più frequenti è parlare a sé stessi e che tramite la memoria e l’immaginazione i pensieri continuano a sopravvivere anche quando gli oggetti che li hanno prodotti non ci sono più[48].
Per tutte queste ragioni la conoscenza di discipline quali la psicologia cognitiva, la linguistica formale, la memetica e la prossemica risulteranno, in futuro, di fondamentale importanza per i giudici e gli operatori del diritto (e non solo nel contesto minorile).
Per concludere un breve cenno al pensiero di Beau Lotto, noto neuroscienziato, ma anche divulgatore coraggioso e coinvolgente. Da Platone a Matrix il dubbio ci ha sempre assalito: la realtà oggettiva, indipendente dal nostro sguardo, è vera o è un’illusione? Per le neuroscienze il nostro cervello non si è evoluto per guardare la realtà, ma per fare altro. Solo il 10% delle connessioni neurali riguarda la visione; il restante 90% è per lo più costituito da una sofisticatissima rete interna, che lavora incessantemente per dare un senso all’informazione proveniente dall’esterno. Noi costruiamo un mondo che ci appare reale perché ci è utile, che naturalmente ha una relazione con la realtà, ma non è la realtà[49]. Se vogliamo uscire dal nostro cervello e guardarlo «da fuori» possiamo farlo solo «deviando», cambiando modo di vedere: guardando sé stessi guardare, percependo le nostre percezioni, conoscendole e diventandone consapevoli. Possiamo così riconoscere i nostri schemi mentali e costruircene di nuovi[50].
Secondo Beau Lotto, dunque, «la scienza della percezione ci permette di diventare osservatori delle nostre stesse percezioni, e di conseguenza ci fa anche sentire il bisogno di deviare consapevolmente, più e più volte, al fine di scoprire le domande che meritano di essere poste e che potrebbero cambiare il nostro mondo»[51].
E’ giunto, forse, il momento di porsi le domande giuste.
[1] Muglia L., Cerasa A., Sabatini U., Adolescenti, dipendenze e recupero sociale: le nuove frontiere del diritto cognitivo, in Diritto Penale e Uomo (DPU), n. 9/2020, 16 settembre 2020, p. 3; Casey B., Jones R.M., Somerville L.H., Braking and Accelerating of the Adolescent Brain, in J Res Adolesc, 21, 1, 2011, pp. 21 ss.
[2] Chiusoli S., Adolescenti: poca corteccia molto rischio, in Scienza in rete, newsletter, 22 settembre 2020.
[3] McIlvain G. et al., Viscoelasticity of reward and control systems in adolescent risk taking, in NeuroImage, 2020, 116850.
[4] Mariappan Y.K. et al.,Magnetic resonance elastography: a review, in Clinical anatomy, 2010, 23(5), 497-511.
[5] Chiusoli S., Adolescenti: poca corteccia molto rischio, op. cit.
[6] Aoki C., Romeo R.D, Smith S.S., Adolescence as a critical period for developmental plasticity, in Brain Res, 1654, 2017, pp. 85-86.
[7] Muglia L., Cerasa A., Sabatini U., op. cit., p. 6.
[8] Per un approfondimento Agnoletti M., Psicologia epigenetica: la nuova frontiera della psicologia, in www.stateofmind.it, 2 ottobre 2018.
[9] Godar S.C., Fite P.J., McFarlin K.M., Bortolato M., The role of monoamine oxidase A in aggression: Current translational developments and future challenges, in Prog Neuropsychopharmacol Biol Psychiatry, 1 agosto 2016, 69: 90-100.
[10] Bortolato M., Floris G., Shih J.C., From aggression to autism: new perspectives on the behavioral sequelae of monoamine oxidase deficiency, in J Neural Transm, Vienna, novembre 2018, 125(11): 1589-1599.
[11] Beaver K.M., DeLisi M., Vaughn M.G., Barnes J.C., Monoamine oxidase A genotype is associated with gang membership and weapon use, in Comprehensive Psychiatry, volume 51, 2, marzo-aprile 2010, pp. 130-134.
[12] Per un approfondimento Pellegrini S., Il ruolo dei fattori genetici nella modulazione del comportamento: le nuove acquisizioni della biologia molecolare genetica, in Bianchi - Gulotta - Sartori (a cura di), Manuale di neuroscienze forensi, Giuffrè, Milano, 2009; Mariotti V., Palumbo S., Pellegrini S., Prenatal and Early Postnatal Influences on Neurodevelopment: The Role of Epigenetics, in Pingitore A., Mastorci F., Vassalle C., Adolescent Health and Wellbeing. Current Strategies and Future Trends, Springer, 2019.
[13] Palumbo S. et al., The HTR1B-rs13212041-T/T genotype potentiates the effect of paternal maltreatment as risk factor for both the interpersonal/affective and the antisocial dimensions of psychopathy, Department of Clinical and Experimental Medicine, University of Pisa, manoscritto in preparazione.
[14] Marcus G., La nascita della mente, Edizioni Codice, 2004, p. 207; Di Giovine O., Un diritto penale empatico? Diritto penale, bioetica e neuroetica, Giappichelli Editore, Torino, 2009.
[15] Muglia L., Cerasa A., Sabatini U., op. cit., pp. 17-18.
[16] Muglia L., Adolescenza, (im)maturità, neuroscienze: gli scenari futuri tra nuove conquiste e imbarazzanti paradossi, in Minorigiustizia, Franco Angeli, n. 2/2019, p. 62; Muglia L., Cerasa A., Sabatini U., op. cit., p. 18.
[17] Muglia L., Adolescenza, (im)maturità, neuroscienze, op. cit., pp. 53 e 56.
[18] Di Giovine O., Ripensare il diritto penale attraverso le (neuro-)scienze?, Giappichelli, 2019, pp. 44-45.
[19] Per un approfondimento De Luca C., Gli accertamenti sulla personalità dell’autore di reato minorenne e il divieto di perizia psicologica nel rito ordinario: riflessioni e nuove prospettive, in Cassazione Penale n. 6, giugno 2018, pp. 2140 ss.
[20] Moffetti R.C., La perizia psicologica tra processo ordinario e processo minorile, in Arch. n. proc. pen., 2013, n. 4, p. 31; De Luca C., op. cit., p. 2150.
[21] Cassazione penale, Sez. IV, 13 dicembre 2010 (17 settembre 2010), n. 43786 - Pres. Marzano - Est. Blaiotta - P.M. Delehaye (diff.) - Cozzini e altri. A partire dalla pronuncia in oggetto i criteri in materia di prova scientifica sono comunemente denominati Daubert-Cozzini.
[22] Tonini P., La Cassazione accoglie i criteri Daubert sulla prova scientifica. Riflessi sulla verifica delle massime di esperienza, in Diritto penale e processo 11/2011, p. 1341.
[23] Santosuosso A., Bottalico B., Neuroscienze e genetica comportamentale nel processo penale italiano. Casi e prospettive, in Rassegna Italiana di Criminologia, Anno VI, n.1/2013, p. 81.
[24] Cassazione penale, sentenza n. 45935 del 13 giugno 2019 (novembre 2019).
[25] Di Domenico A., I criteri di valutazione della prova scientifica: la “scienza nuova” e gli scenari attuali, in Ius in Itinere, 26 aprile 2020.
[26] Di Giovine O., Ripensare il diritto penale attraverso le (neuro-)scienze?, op. cit., p. 57.
[27] Ibidem.
[28] Dennett D.C., Dai batteri a Bach. Come evolve la mente, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2018, p. 211.
[29] Gazzaniga M.S., La coscienza è un istinto. Il legame misterioso tra il cervello e la mente, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2019, pp.16-17.
[30] Castiello U. et al., Le capacità giuridiche alla luce delle neuroscienze, Memorandum Patavino, 9 ottobre 2015, documento a cura dell’Università degli Studi di Padova (Master in Psicopatologia e Neuropsicologia Forense), dell’Associazione DI.ME.CE. (Diritto-Mente-Cervello) e della Fondazione Guglielmo Gulotta di Psicologia Forense e della Comunicazione.
[31] Bertolino M., Prove neuro-psicologiche di verità penale, in Diritto Penale Contemporaneo, 8 gennaio 2013, p. 30.
[32] Ibidem, pp. 30-31.
[33] Per un approfondimento Fabi M., Giacca F., Minori e reati colposi: disagio e condotte a rischio, profilo psicodiagnostico ed attività di prevenzione, in Minorigiustizia, n. 4/2008, pp. 119-129.
[34] Grandi C., Neuroscienze e responsabilità penale. Nuove soluzioni per problemi antichi?, Giappichelli, 2016, pp. 269 ss.
[35] Sammicheli L., Giuseppe Sartori G., Accertamenti tecnici ed elemento soggettivo del reato, in Diritto Penale Contemporaneo, 12 novembre 2015, pp. 2-3.
[36] Vedi sul punto “Osservazioni in materia di Riforma della Giustizia Penale Minorile”, a cura dell’Unione Nazionale Camere Minorili, in Atti della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, audizione informale nell’ambito dell’esame dei progetti di legge in materia di composizione e competenze del Tribunale per i Minorenni, Comitato Permanente per la Giustizia dei Minori, Roma, 17 luglio 2002.
[37] Vedi Rizzolatti G., Sinigaglia C., Specchi nel cervello. Come comprendiamo gli altri dall’interno, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2019.
[38] Blanco M., I neuroni specchio e la comunicazione genitore-adolescente. La prospettiva neurosociologica dell’interazione comunicativa, in www.neurosociologia.it; Rizzolatti G., Kohler L., Keyers C., Umiltà M.A., Fogassi L., Gallese V., Hearing sounds, understanding acrions: Action rappresentation in mirror neurons, in Science, n. 297, 2003, pp. 846-48; Rizzolatti G., Sinigaglia C., So quel che fai. Il Cervello che agisce e i neuroni specchio, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2006, pp. 95, 121 e 179.
[39] Blanco M., op. cit.
[40] Vedi Iacoboni M., I neuroni specchio, Bollati Boringhieri, 2008, pp. 141 ss.
[41] Di Giovine O., Un diritto penale empatico?, op. cit., pp. 152-153.
[42] Ibidem, p. 153.
[43] Per un approfondimento Forza A., Menegon G. e Rumiati R., Il giudice emotivo. La decisione tra ragione ed emozione, Il Mulino, Bologna, 2017.
[44] Vedi D’Auria L., Le euristiche del giudice ed il processo penale. Anche il giudice può cadere nelle trappole mentali, in www.lachiavedisophia.com, 18 luglio 2016.
[45] La psicologia del giudicare, Programma del corso, a cura della Scuola Superiore della Magistratura, Formazione Permanente, in www.scuolamagistratura.it.
[46] Ibidem.
[47] Vedi Dennett D.C., La mente e le menti. Verso una comprensione della coscienza, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 2000, p. 173.
[48] Muglia L., Pensieri, linguaggi e spazi della rete: come e perché influenzano la mente degli adolescenti, in www.stateofmind.it, 31 luglio 2020.
[49] Lotto B., Percezioni. Come il cervello costruisce il mondo, Bollati Boringhieri, Torino, 2017, seconda di copertina.
[50] Ibidem.
[51] Ibidem, pp. 317-318.