Vacatio sententiae alla Consulta, nel corso di una vicenda conclusasi con un anomalo “bilanciamento” tra un bene costituzionalmente protetto e la norma sul processo di cui all’art. 136 Cost. (nota minima alla sent. n. 41 del 2021)
di Antonio Ruggeri
Sommario: 1. La Corte dismette i panni del giudice, sia pure peculiare qual è quello costituzionale, ed indossa le vesti del massimo decisore politico, mettendo da parte il principio della separazione dei poteri e causando, perciò, un grave vulnus alla Costituzione, nell’accezione ormai affermatasi negli ordinamenti di tradizioni liberali – 2. L’introduzione di un originale tipo di vacatio sententiae e gli imprevedibili effetti che possono conseguirne – 3. Il singolare ragionamento che ha portato alla invenzione della norma costituzionale forgiata dalla Consulta, la premessa inconsistente su cui esso poggia e gli argomenti teoricamente alquanto fragili addotti a sua giustificazione – 4. Una succinta notazione finale, a riguardo degli scenari che potrebbero delinearsi per il caso che le pronunzie emesse da organi giudicanti composti da giudici ausiliari dovessero essere impugnate davanti alla Corte di Strasburgo.
1. La Corte dismette i panni del giudice, sia pure peculiare qual è quello costituzionale, ed indossa le vesti del massimo decisore politico, mettendo da parte il principio della separazione dei poteri e causando, perciò, un grave vulnus alla Costituzione, nell’accezione ormai affermatasi negli ordinamenti di tradizioni liberali
Non è la prima volta – come si sa – che la Consulta piega ed adatta alle peculiari e pressanti esigenze di una situazione di fatto i canoni sul giudizio di costituzionalità. Questa vicenda riceve, tuttavia, oggi una esasperata e per molti versi originale rappresentazione segnalandosi per taluni profili, ora rapidamente richiamati, sui quali conviene far luogo ad una disincantata e, per quanto possibile, distaccata riflessione.
Avverto subito che non è facile cosa, perlomeno non lo è per chi, come me, è da tempo fermamente convinto del bisogno, di cruciale rilievo, di tenere fermi i canoni stessi, quale condizione necessaria, ancorché di per sé sola insufficiente, del mantenimento della “giurisdizionalità” della giurisdizione costituzionale, vale a dire della riconoscibilità della sua stessa natura ed essenza, della identità che la distingue da ogni altra espressione della giurisdizione[1].
La posta in palio è, dunque, elevatissima; e non può, perciò, non destare inquietudine la circostanza che essa sia messa in “gioco”, tanto più poi quando l’esito della partita appaia essere perdente.
Immediate e di tutta evidenza le conseguenze che discendono dalla mancata osservanza dei canoni suddetti. Dismettendo i panni del “giudice”, nella peculiare accezione e valenza posseduta dal termine nelle sue applicazioni alla giustizia costituzionale, alla Corte non resta che indossare al loro posto quelli del decisore politico, anzi del massimo decisore politico, commutandosi – come mi è venuto di dire già in altre occasioni – in un autentico potere costituente permanente, da se medesimo abilitato a disporre a piacimento, secondo occasionali convenienze, delle norme costituzionali che ne danno l’identità e ne qualificano l’attività. In buona sostanza, mette dunque da canto il principio della separazione dei poteri che, pur nella temperata accoglienza ricevuta dalla nostra Carta al pari delle altre venute alla luce all’indomani della seconda grande guerra, dà comunque la cifra espressiva di ogni ordinamento di tradizioni liberali. Non a caso, infatti, se ne fa menzione, quale una delle basi portanti della struttura di uno Stato costituzionale, nel famoso art. 16 della Dichiarazione dei diritti del 1789, unitamente al riconoscimento dei diritti fondamentali, nei cui riguardi si pone – come si sa – in funzione servente.
Viene, insomma, a determinarsi un’anomala commistione dei ruoli istituzionali, rendendosi pertanto indistinguibile quello giocato dalla Corte rispetto all’altro che è proprio degli organi della direzione politica. Ed è francamente singolare che la Corte reputi di potere scegliere di volta in volta quale vestito indossare a seconda della rappresentazione teatrale che si accinga a fare, se quello del garante ovvero l’altro del decisore o, magari – e perché no? –, nel corso di una stessa vicenda processuale entrambi, alternandoli man mano che la stessa si svolge e dando quindi modo agli stessi di rispecchiarsi, in forme inusuali, nei verdetti emessi in chiusura dei casi.
Non è consentito qui allargare il discorso oltre l’hortus conclusus entro il quale questa succinta riflessione è obbligata a stare; e, tuttavia, poiché ogni tessera di un mosaico si lega alle altre e tutte assieme compongono il quadro, non è inopportuno accennare di sfuggita come si siano avute non poche (ed esse pure preoccupanti) manifestazioni di questo trend volto ad un innaturale mescolamento dei ruoli. Mi limito al riguardo a rammentare qui il modo con cui l’ultima giurisprudenza intende e (non di rado non) mette in pratica il limite del rispetto della discrezionalità del legislatore, che pure per vero è da tempo soggetto a vistose oscillazioni[2], talora persino ad usi diametralmente opposti: ora, cioè, tenuto fermo e fatto valere davanti alle richieste venute dalle autorità remittenti di incisive manipolazioni del dettato legislativo ed ora però – e questo ciò che, appunto, ha qui specifico rilievo – messo sotto stress o, diciamo pure, interamente da canto. Quest’ultimo esito, poi, può presentarsi in varie forme: dandosi al legislatore un termine, del quale peraltro non sempre è chiara la ratio, perché provveda a far luogo al necessario, sostanziale rifacimento di una disciplina legislativa complessivamente carente e non in linea con il dettato costituzionale[3], ovvero sollecitando puramente e semplicemente il legislatore stesso ad intervenire sotto la minaccia della futura e pressoché certa caducazione operata direttamente dalla stessa Corte[4]. Ed è interessante notare, a sicura conferma della astratta sussistenza del limite e del suo disinvolto superamento, come la Corte non si trattenga dal prospettare al legislatore talune possibili discipline alternative (così, appunto, in Cappato) ovvero a dare un vero e proprio “catalogo” di indicazioni al quale attenersi, sì da conformare la propria decisione quale una sorta di anomala “pronunzia-delega”, ora più ed ora meno stringente per il suo primo e naturale destinatario[5].
La Corte insomma adegua la misura dell’intervento politico-normativo cui fa luogo alle circostanze, per come sono di volta in volta apprezzate, senza che peraltro non sempre risulti chiara la ragione per cui, fissate certe premesse del suo ragionamento e portate quindi ai loro conseguenti svolgimenti, si facciano veicolare gli esiti raggiunti ora da questa ed ora da quella tecnica decisoria: tecniche – si faccia caso – a volte assai diverse, persino opposte, malgrado la straordinaria somiglianza riscontrabile tra le vicende processuali alle quali si applichino[6].
È questo – a me pare – lo scotto, assai grave in termini di certezza del diritto costituzionale (e, perciò, di prevedibilità nell’uso degli strumenti processuali), che si è costretti a pagare per effetto della proliferazione incessante (e, negli ultimi tempi, a ritmi incalzanti) degli strumenti stessi. Insomma, quanto più si è arricchita la panoplia dei tipi e sottotipi di decisione forgiati dalla Consulta, tanto più in conseguenza del loro affollamento v’è il rischio del loro uso promiscuo e – se posso esser franco – improvvisato, faticandosi quindi non poco a capire (e talvolta non riuscendosi a capire affatto) quale mai possa essere stata la ragione della scelta nel singolo caso adottata[7].
2. L’introduzione di un originale tipo di vacatio sententiae e gli imprevedibili effetti che possono conseguirne
Ora, il dato che con maggiore evidenza balza subito agli occhi, già a prima lettura della decisione qui annotata, è dato dal suo porsi ben oltre (e, per ciò stesso, contro) il disposto di cui all’art. 136 della Carta che – come si sa – vorrebbe prodotto subito e in ogni caso l’effetto ablativo che è proprio delle pronunzie di accoglimento.
Sulla decisione si sono avuti già diversi commenti di accreditati studiosi[8], la qual cosa semplifica molto il compito che mi è stato oggi affidato dandomi modo di fermare specificamente l’attenzione unicamente sul punto evocato dal titolo dato alla mia riflessione.
In breve, la Corte fa qui luogo ad un’anomala vacatio sententiae, peraltro dalla durata stupefacentemente lunga[9], non prevista (e, per ciò stesso, non consentita[10]) dal disposto costituzionale sopra richiamato, mostrando in tal modo factis di ritenere “bilanciabile” la norma sul processo costituzionale in parola con altra norma, di cui all’art. 106 Cost., relativa all’amministrazione della giustizia (e, dunque, ad un bene costituzionalmente protetto da cui dipende il fisiologico ed ottimale esercizio della giurisdizione, con tutto ciò che esso rappresenta per i diritti e gli interessi in genere tutelati dalla Carta), malgrado si tratti di materiali del tutto eterogenei e, come tali, non confrontabili.
Si diceva che non è la prima volta che la Corte mostra di considerare “cedevoli” le norme sui giudizi di costituzionalità. La circostanza per cui se ne sono avuti non sporadici riscontri non è tuttavia – è banale dover qui rammentare – una giustificazione valida dell’operato del giudice costituzionale. Non si trascuri, ad ogni buon conto, il fatto che le manipolazioni per il futuro, quale quella operata in occasione della vicenda processuale che ha dato lo spunto per il commento che si va ora facendo, solo ad una prima ma erronea impressione appaiono essere speculari a quelle relative al passato, di cui pure si sono avuti non pochi riscontri[11]. E ciò, per la elementare ragione che il passato è noto e possono, perciò, ben darsi casi in cui la delimitazione temporale dell’effetto ablativo si dimostri essere perfettamente rispondente ad esigenze di sistema, anzi – a dirla tutta – non si ponga affatto quale una forma di manipolazione, nell’accezione propria del termine, bensì linearmente discenda dai canoni relativi all’avvicendamento delle fonti nel tempo ed alle dinamiche del processo costituzionale.
Si pensi, ad es., ad una legge regionale venuta alla luce nel pieno rispetto dei parametri al tempo della sua formazione vigenti e divenuta successivamente invalida a causa di un mutamento del parametro, quale potrebbe aversi per effetto della entrata in vigore di una nuova legge statale idonea a porre vincoli all’autonomia regionale. Ebbene, è chiaro che la eventuale perdita di efficacia dell’atto affetto da invalidità sopravvenuta[12] non già ex tunc bensì unicamente a far data dal momento del mutamento del parametro non urta coi canoni relativi alla composizione delle antinomie, costituendone piuttosto il piano e lineare svolgimento.
Di contro, le manipolazioni per il futuro sono gravate dall’ipoteca relativa alla inconoscibilità di quest’ultimo e, talora, alla sua imprevedibilità, tanto più poi quando l’evento prefigurato al quale è ancorata la perdita di efficacia dell’atto illegittimo potrebbe venire ad esistenza in un momento molto lontano nel tempo, come appunto si ha nel caso nostro[13], nel quale peraltro non è affatto certo che nella data prevista si abbia davvero il completamento della riforma della magistratura onoraria. Di qui all’ottobre 2025 possono, infatti, accadere molte cose, tali da rendere, per un verso, materialmente impossibile o, diciamo pure, non necessaria la produzione dell’effetto ablativo – ed è proprio ciò che, in fondo, la stessa Corte si augura[14] –, in conseguenza del complessivo rifacimento della disciplina della materia da parte del legislatore. Per un altro verso, è però pure da mettere in conto la evenienza che, non riuscendosi a portare a termine la riforma della magistratura onoraria, si avverta il bisogno di prolungare ulteriormente la vigenza della normativa oggi dichiarata costituzionalmente illegittima. La qual cosa, francamente, non vedo come possa farsi, se non tornando ad investire la Corte della medesima questione già decisa nel senso… dell’annullamento. Una ipotesi, chiaramente, impraticabile, semplicemente assurda. Si conoscono, infatti, molti casi di questioni dapprima rigettate e poi accolte[15], ma non ovviamente di questioni accolte e poi rigettate[16].
Come si vede, la tecnica decisoria che dà modo alla Corte di apporre un termine di vacatio alle proprie decisioni può – ne convengo – rivelarsi adeguata a talune circostanze, così come peraltro si è dimostrata essere negli ordinamenti che la conoscono[17], ma a condizione che l’intervallo temporale tra la emissione del verdetto e la produzione dell’effetto ablativo sia ragionevolmente contenuto, non già – come qui – in misura abnorme lungo. In ogni caso – come si viene dicendo –, un punto è da tener fermo, senza esitazione alcuna; ed è di dar modo al giudice costituzionale di muoversi unicamente entro il recinto segnato dai canoni che presiedono all’esercizio delle sue funzioni. Se poi si ritiene che l’ambito in parola, per com’è oggi, non sia più sufficiente a dar modo all’organo di spaziare e di spingersi in territori ad oggi preclusigli e invece bisognosi di essere dallo stesso coltivati, a beneficio della Carta e di quanti – cittadini ed operatori istituzionali – ad essa fanno capo per avere appagati taluni loro bisogni, ebbene la soluzione c’è ed è a portata di mano: quella indicata nell’art. 138, per la modifica dei canoni costituzionali sul processo, e in altre fonti (legge comune e norme frutto di produzione giuridica da parte della stessa Corte) quanto agli ulteriori canoni posti in svolgimento e ad integrazione dei primi[18].
Di contro, la Corte molte volte fa luogo ad occasionali rifacimenti degli stessi: innova cioè norme frutto di “diritto politico” con norme espressive di “diritto giurisprudenziale”, per riprendere ora i termini accreditati da un’autorevole, non dimenticata dottrina ed oggi d’uso corrente[19]. Ed è evidente che la seconda forma di produzione giuridica è, per sua indeclinabile vocazione, soggetta a continue oscillazioni e mai finiti ripensamenti, diversamente dalla prima che, pur andando essa pure ovviamente incontro a modifiche, esibisce nondimeno una maggiore rigidità e – ciò che più importa – offre, perlomeno sulla carta, garanzie maggiori di certezza del diritto in senso oggettivo. È poi chiaro che a volte enunciati presenti in atti di normazione, a partire da quelli costituzionali, possono essere forieri di ancora maggiori incertezze di quelle che possono conseguire alle espressioni della giurisprudenza, specie laddove quest’ultima si componga in “indirizzi” (in senso proprio), consolidati ed univocamente orientati.
La cosa ha particolare rilievo proprio sul piano costituzionale.
Non rinnego – sia chiaro – il significato profondo e ad oggi attuale avuto dalla “lotta per la Costituzione” – come suole essere chiamata – condotta nella gloriosa ed esaltante stagione che ha portato all’avvento delle prime Carte liberali; e non intendo, dunque, affatto rimettere in discussione il valore intrinseco in una nuova ed adeguata “razionalizzazione” costituzionale, alla quale a mia opinione sarebbe anzi urgente porre mano, svecchiando e rigenerando la Carta del ’48 in linea con la sua matrice originaria ed allo scopo di renderla ancora più confacente a nuovi bisogni nel frattempo venuti alla luce. Intendo solo dire che dovremmo tutti avere piena consapevolezza dei guasti che – ahimè, non di rado – conseguono ad un uso non vigilato delle tecniche di produzione giuridica, al punto che in talune circostanze un sano diritto non scritto – come mi è venuto di dire in altre occasioni – si rivela essere assai preferibile ad uno scritto e malfatto[20].
Sempre a fugare ogni possibile fraintendimento del mio pensiero, tengo poi a chiarire che, pur nella consapevolezza dei rischi ai quali fa comunque andare incontro il “diritto politico”, non ne auspico di certo l’abbandono, accompagnato dalla entrata in campo, in modo prepotente, in sua vece del “diritto giurisprudenziale”, che a sua volta – come si è venuti dicendo – comporta esso pure inconvenienti non da poco. Il modello vincente, nel quale da tempo mi riconosco, è, invece, quello del congiunto ed equilibrato concorso di entrambe le forme di produzione giuridica in parola: all’uno, in ispecie, toccando la descrizione della cornice del quadro, a mezzo di indicazioni a maglie larghe (essenzialmente per principia), restando poi demandato ai pratici (e, segnatamente, appunto ai giudici) il perfezionamento e completamento dell’opera a mezzo di atti congrui con le peculiari esigenze dei casi[21].
Ad ogni buon conto, per tornare alla questione qui di specifico rilievo, le norme sul processo – come si è fatto altre volte notare – non sono passibili di “bilanciamento” alcuno e la loro osservanza si impone quale condizione per ogni altro “bilanciamento”, proprio perché è dalla stessa che si riconosce la natura dell’organo e la fedeltà al munus ad esso conferito dalla Carta. Sarebbe come – per fare un esempio volutamente esasperato ma immediatamente eloquente – immaginare che il Parlamento, in occasione della formazione di una legge, pensi di poter cambiare le regole al riguardo stabilite con… la legge stessa in tal modo venuta alla luce che, perciò, presenti carattere riflessivo, legittimando se stessa. O sarebbe come se un arbitro di una partita di calcio o di altro sport si inventasse sul posto, in corso di svolgimento del gioco, una nuova regola che non c’è (e non può esserci), quale quella di sentirsi abilitato a venire in soccorso della squadra perdente e di poter perciò dare calci alla palla contro la rete avversaria[22].
L’assurdità degli esempi appena fatti è talmente eloquente da non richiedere che si spenda alcuna parola in più a commento dell’accaduto.
3. Il singolare ragionamento che ha portato alla invenzione della norma costituzionale forgiata dalla Consulta, la premessa inconsistente su cui esso poggia e gli argomenti teoricamente alquanto fragili addotti a sua giustificazione
V’è però un punto che merita di essere ulteriormente rimarcato, sia per il fatto che non è la prima volta che se ne ha riscontro nelle esperienze della giustizia costituzionale e sia perché è sicuro che tornerà ancora a ripresentarsi. Ed è dato dal singolare, per l’aspetto logico, itinerario compiuto dal giudice, già per ciò che attiene alla sua partenza ed ai passi quindi fatti lungo il solco inizialmente tracciato.
In breve, il ragionamento si svolge così.
In premessa, la Corte muove da un dato ritenuto incontestabile nella sua vistosa portata e per gli effetti ad esso riconducibili, muove cioè da una situazione di fatto che con argomenti stringenti qualifica essere in sé e per sé contraria a Costituzione (la partecipazione dei giudici ausiliari all’amministrazione della giustizia). Aggiunge che questa situazione si è ormai – come dire? – consolidata e che, perciò, la sua rimozione “secca” e con effetti immediati produrrebbe effetti devastanti, comunque intollerabili, per l’amministrazione della giustizia e, di riflesso, per i suoi fruitori, i cittadini e quanti in genere ad essa si rivolgono per avere appagamento in diritti e bisogni meritevoli di tutela[23].
La conseguenza, linearmente svolta muovendo dalla premessa fissata e dalla constatazione di com’è fatta la realtà, è che, a giudizio della Corte, non è possibile far subito luogo alla caducazione della disciplina normativa illegittima, che nondimeno merita ugualmente di essere subito dichiarata contraria a Costituzione, rimandandosi quindi la produzione dell’effetto ablativo alla data futura indicata nella parte motiva della decisione.
Ebbene, di questo schema – sarei tentato di dire, di questo standard – si hanno numerose altre testimonianze nei campi più varî di esperienza. Il “modello” è, in buona sostanza, sempre lo stesso. Perlopiù si ricorre all’emergenza quale causa determinante un certo stato di cose e giustificativa della decisione che il giudice sarebbe obbligato ad adottare, che può appuntarsi in uno dei corni dell’alternativa seguente: far luogo al mantenimento della normativa oggetto di giudizio, di cui pure non si nascondono le non poche né lievi carenze, oppure – come qui – caducarla con effetti però molto differiti in avanti.
Come si vede, può aversi ora una tecnica provvisoriamente assolutoria (ma con previo riconoscimento di… colpevolezza) ed ora invece una di condanna ma con spostamento temporale in avanti dell’applicazione della pena. Tecniche, dunque, alternative per il tipo di appartenenza (e, di conseguenza, per gli effetti loro propri) ma utilizzate in modo promiscuo, secondo occasione[24].
Ora, vi è un punto, di cruciale rilievo, che mi sta particolarmente a cuore mettere in evidenza. Ed è che le emergenze in genere – tranne rare evenienze, quale può essere un evento della natura ad oggi non scongiurabile, come un terremoto – non spuntano come funghi in un bosco dopo una notte di pioggia né sono come un violento acquazzone che ricade su uomini e cose determinando allagamenti e catastrofi in genere, obbligando pertanto il legislatore a far luogo a discipline normative problematicamente conciliabili con la Carta o, diciamo pure, con essa frontalmente contrastanti, quale ad es. è stata quella varata negli anni bui del terrorismo rosso e mandata quindi assolta dalla notissima sent. n. 15 del 1982[25].
Le emergenze, di contro, sono – perlomeno, il più delle volte – la conseguenza immediata e diretta, seppur non sempre subito riconoscibile, di annose e gravi carenze (e talora della vera e propria latitanza) del legislatore, del perpetuarsi di intollerabili ingiustizie sociali, del reiterarsi di fenomeni corruttivi diffusi[26] e di quant’altro insomma fa a pugni con l’etica pubblica repubblicana cui dà voce la Carta.
È, poi, chiaro che le mancanze in parola si debbono, in misura determinante, alla crisi ingravescente della rappresentanza politica, su cui – come si sa – è venuta col tempo a formarsi una messe copiosa di scritti di vario segno e orientamento ed alla quale pertanto non giova ora riservare neppure un cenno[27]; una crisi che si alimenta da radici profonde, diffuse, reciprocamente aggrovigliate in seno al corpo sociale. La qual cosa induce invero a non poco pessimismo circa la possibilità di apprestare rimedi efficaci a questo stato di cose universalmente deplorato, ove si convenga – come a me pare si debba – che non sono di certo sufficienti allo scopo pur corpose riforme dell’apparato istituzionale, laddove non accompagnate e sorrette da un rifacimento complessivo della struttura della società sottostante e da un critico ripensamento delle relazioni che in essa s’intrattengono, in primo luogo, tra i consociati e, quindi, tra questi ultimi e gli organi dell’apparato stesso[28].
Il vero è che è proprio il tessuto sociale ad essere ormai gravemente sfilacciato, proprio perché sono andati smarriti gli antichi punti ideali di riferimento; ed a pagarne in primo luogo le conseguenze – come si diceva – sono stati (e sono) i valori fondamentali dell’ordinamento dal cui inveramento dipende la salvaguardia dell’idea di Costituzione e dello Stato che da essa prende il nome.
Come si vede, la posta in palio è ben altra di quella, pure di primario rilievo, costituita dal merito della vicenda che ha dato lo spunto per la succinta riflessione che si sta per chiudere. Forse, la Corte non è pienamente avvertita del fatto che, aggiungendo un disposto in deroga all’art. 136 dapprima mancante, non ha semplicemente manipolato una norma come un’altra del parametro costituzionale – cosa, comunque, di per sé di singolare gravità – ma ha riplasmato l’essenza della Costituzione, con la stessa facilità con cui si traggono da una sostanza gommosa e malleabile, quale la plastilina con cui giocavamo da bambini, figure sempre nuove, secondo la fantasia e l’ispirazione del momento.
Il fatto occasionale a volte resta un evento unico, dando vita ad una momentanea sospensione del vigore di un precetto costituzionale che quindi torna ad espandersi ed a riaffermarsi nella sua originaria portata[29]. Non si trascuri, tuttavia, che nulla va mai perduto e che, piuttosto, tutto si conserva, ogni novità introdotta per via giurisprudenziale rendendosi pur sempre disponibile per futuri utilizzi, anche per casi imprevedibili al momento in cui vi si è fatto inizialmente luogo. È perciò che alla circostanza che ha dato lo spunto per questo commento va assegnato un particolare rilievo, soprattutto per ciò che essa potrebbe rappresentare per l’avvenire.
4. Una succinta notazione finale, a riguardo degli scenari che potrebbero delinearsi per il caso che le pronunzie emesse da organi giudicanti composti da giudici ausiliari dovessero essere impugnate davanti alla Corte di Strasburgo
Un’ultima notazione, che consegno in forma dubitativa. La Corte ha acclarato che la partecipazione dei giudici ausiliari all’amministrazione della giustizia non è rispettosa della Costituzione, sospendendo nondimeno la produzione degli effetti conseguenti al suo accertamento. Mi chiedo, dunque, se le pronunzie emesse dai giudici stessi o da collegi di cui essi facciano parte vadano incontro a rischi conseguenti all’ormai riconosciuta invalidità della composizione degli organi giudicanti.
Qui pure – come si vede – si assiste ad un bilanciamento risoltosi a discapito di coloro che chiedono giustizia e che per anni seguiteranno ad averla da parte di chi non aveva (e non ha) il titolo per somministrarla, per ciò solo risultando destinatari di una giustizia… ingiusta. Un esito – si dice nella pronunzia in commento – che va pur tuttavia tollerato, a fronte dell’inconveniente ancora maggiore che si avrebbe con la caducazione immediata della normativa incostituzionale. È tuttavia da mettere in conto – temo – una pioggia di ricorsi alla Corte europea per violazione dei canoni relativi al giusto processo, quanto meno per l’aspetto del lasso temporale irragionevolmente lungo intercorrente tra la pronunzia odierna del giudice costituzionale e l’atteso rifacimento della composizione degli organi giudicanti. Intendo dire che, seppure la Corte di Strasburgo dovesse rimettersi – come con ogni probabilità farà – al margine di apprezzamento riconosciuto allo Stato in ordine alla disciplina della materia, ugualmente potrebbe giudicare intollerabile un’attesa così lunga qual è quella oggi concessa dalla Consulta al legislatore.
Si vedrà.
Non disponiamo, ovviamente, di alcun elemento in grado di dare lumi circa i possibili sviluppi della vicenda, una volta che quest’ultima dovesse poi trasporsi in ambito sovranazionale. Certo si è, in conclusione, che la questione è di scottante attualità, gravida di implicazioni a largo raggio e suscettibile di esiti sotto plurimi aspetti imprevedibili. Già solo per ciò avrebbe forse meritato un supplemento di attenzione da parte della Corte prima che quest’ultima si fosse determinata nel senso che sappiamo. È pur vero che l’alternativa all’accoglimento (“secco” ed immediato ovvero con rinvio a termine spostato molto in avanti) non avrebbe potuto che essere quella del rigetto con monito che, però, com’è noto, il più delle volte resta privo di sostanziali ed apprezzabili effetti.
Stretta nella morsa soffocante tra il lasciare le cose così come oggi sono, sollecitando vigorosamente il legislatore a cambiarle, ed innovarvi ma solo per l’avvenire, la Corte non ha esitato – verosimilmente, non a cuor leggero – ad optare per il secondo corno dell’alternativa. E l’ha fatto – come si è venuti dicendo – con una sentenza di… revisione costituzionale.
Una volta di più, insomma, anziché sollecitare il legislatore a far luogo al mutamento del quadro normativo vigente battendo la via piana del mutamento costituzionale con le procedure indicate nell’art. 138, specificamente volto a dotare la Corte dello strumento della vacatio sententiae noto ai sistemi di giustizia costituzionale propri di altri ordinamenti, è stato lo stesso arbitro costituzionale a centrare subito il bersaglio, segnando il risultato decisivo per le sorti della partita. Solo che, una volta messosi a tirare calci alla palla, a mia opinione ha fatto un… autogol.
L’augurio è che ne abbia piena avvertenza, prima che ne discendano conseguenze di ordine istituzionale suscettibili di imprevedibili sviluppi per la tenuta complessiva del sistema.
[1] Basti solo, al riguardo, rammentare che – secondo una opinione largamente diffusa ed autorevolmente accreditata [tra i molti, C. Drigo, Giustizia costituzionale e political question doctrine. Paradigma statunitense e spunti comparatistici, Bononia University Press, Bologna 2012; R. Basile, Anima giurisdizionale e anima politica del giudice delle leggi nell’evoluzione del processo costituzionale, Giuffrè, Milano 2017; AA.VV., Ricordando Alessandro Pizzorusso. Il pendolo della Corte. Le oscillazioni della Corte costituzionale tra l’anima ‘politica’ e quella ‘giurisdizionale’, a cura di R. Romboli, Giappichelli, Torino 2017; G. Bisogni, La ‘politicità’ del giudizio sulle leggi. Tra le origini costituenti e il dibattito giusteorico contemporaneo, Giappichelli, Torino 2017; M. Raveraira, Il giudizio sulle leggi: la Corte costituzionale sempre più in bilico tra giurisdizione e politica, in Lo Stato, 11/2018, 123 ss.; A. Morrone, Suprematismo giudiziario. Su sconfinamenti e legittimazione politica della Corte costituzionale, in Quad. cost., 2/2019, 251 ss. (nei riguardi del cui pensiero, criticamente, v. R. Bin, Sul ruolo della Corte costituzionale. Riflessioni in margine ad un recente scritto di Andrea Morrone, in Quad. cost., 4/2019, 757 ss., e, pure ivi, E. Cheli, Corte costituzionale e potere politico. Riflessioni in margine ad un recente scritto di Andrea Morrone, 777 ss.); A. Spadaro, I limiti “strutturali” del sindacato di costituzionalità: le principali cause di inammissibilità della q.l.c., cit., 154 ss.; M. Nisticò, Corte costituzionale, strategie comunicative e ricorso al web, in AA.VV., Potere e opinione pubblica. Gli organi costituzionali dinanzi alle sfide del web, a cura di D. Chinni, Editoriale Scientifica, Napoli 2019, 77 ss.; R. Di Maria, Brevi considerazioni sul rapporto fra tutela sostanziale dei diritti (fondamentali) e rispetto delle forme processuali: la Corte costituzionale e gli “animali fantastici”. The final cut, in Consulta OnLine (www.giurcost.org), 1/2020, 7 gennaio 2020, 1 ss.; F. Abruscia, Assetti istituzionali e deroghe processuali, in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 4/2020, 23 ottobre 2020, 282 ss.; AA.VV., Una nuova stagione creativa della Corte costituzionale?, a cura di C. Padula, Editoriale Scientifica, Napoli 2020. In prospettiva comparata, per tutti, AA.VV., Giustizia e Costituzione agli albori del XXI secolo, a cura di L. Mezzetti - E. Ferioli, Bonomo, Bologna 2018.] – la Corte racchiuderebbe al proprio interno due “anime”, come sono pittorescamente raffigurate, l’una appunto giurisdizionale e l’altra politica, chiamate a stare in costante, seppur precario, equilibrio, richiesto dal peculiare munus demandato all’organo e dalla parimenti peculiare conformazione dei materiali normativi coinvolti in occasione del suo esercizio, in ispecie del parametro costituzionale di cui l’organo stesso è chiamato a porsi quale interprete privilegiato e massimo garante. È pur vero però che molti segni si hanno, specie negli sviluppi della giurisprudenza degli anni a noi più vicini, che denotano una marcata prevalenza della seconda “anima” sulla prima; ed allora il rischio assai grave che si corre è che, laddove ciò si abbia in una particolarmente accentuata e francamente intollerabile misura (ed è proprio questo il caso nostro), venga a conti fatti a smarrirsi l’attributo della “giurisdizionalità” della funzione.
[2] … prontamente rilevate dalla più avveduta dottrina [tra gli altri, A. Spadaro, I limiti “strutturali” del sindacato di costituzionalità: le principali cause di inammissibilità della q.l.c., in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 4/2019, 26 novembre 2019, 154 ss.; C. Panzera, Esercizio sussidiario dei poteri processuali e discrezionalità legislativa nella recente giurisprudenza costituzionale, in Foro it., 3/2020, V, 127 ss., e T. Giovannetti, La Corte costituzionale e la discrezionalità del legislatore, in AA.VV., Rileggendo gli Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (1987-2019). A Roberto Romboli dai suoi allievi, Giappichelli, Torino 2020, 19 ss.].
[3] Così, in ispecie, nel discusso (e discutibile) caso Cappato o nella vicenda di cui a Corte cost. n. 132 del 2020 che sarà definita nel giugno prossimo, ad un anno esatto dalla pronunzia interlocutoria emessa in applicazione della stessa tecnica decisoria in due tempi inaugurata nel primo caso ora richiamato.
[4] V., di recente, part., Corte cost. nn. 32 e 33 del 2021 [e, su di esse, se si vuole, la mia nota La PMA alla Consulta e l’uso discrezionale della discrezionalità del legislatore (Nota minima a Corte cost. nn. 32 e 33 del 2021), in Consulta OnLine (www.giurcost.org), 1/2021, 11 marzo 2021, 221 s.]. Un riferimento alla discrezionalità del legislatore è, ora, anche nella sent. n. 48 del 2021, con nota di L. Trucco, Diritti politici fondamentali: la Corte spinge per ampliare ulteriormente la tutela (a margine della sent. n. 48 del 2021), in Consulta OnLine (www.giurcost.org), 1/2021, 1° aprile 2021, 283 ss.
[5] In realtà, destinatari delle pronunzie sono sempre anche i giudici e gli organi dell’amministrazione, a vario titolo chiamati a far luogo alle attività “conseguenziali” sollecitate dalla loro adozione, in forme varie a seconda dei casi.
[6] La “fungibilità” delle tecniche decisorie è ora rilevata anche da R. Pinardi, Costituzionalità “a termine” di una disciplina resa temporanea dalla stessa Consulta (note a margine di Corte costituzionale sent. n. 41 del 2021), in Consulta OnLine (www.giurcost.org), 6 aprile 2021, 289 s.
[7] Per fare ora solo un esempio già altrove addotto, ad es. non mi è chiaro perché la tecnica inaugurata in Cappato, di cui pure deploro l’utilizzo, non sia stata fatta valere anche nella vicenda di cui a Corte cost. n. 230 del 2020, definita con una decisione d’inammissibilità [sulla vicenda, fatta oggetto di numerosi commenti, riferimenti ora in E. Olivito, (Omo)genitorialità intenzionale e procreazione medicalmente assistita nella sentenza n. 230 del 2020: la neutralità delle liti strategiche non paga, in Oss. cost. (www.osservatorioaic.it), 2/2021, 2 marzo 2021, 137 ss., e A. Giubilei, L’aspirazione alla genitorialità delle coppie omosessuali femminili. Nota alla sentenza n. 230 del 2020 della Corte costituzionale, in Nomos (www.nomos-leattualitaneldiritto.it), 3/2020, 1 ss.]. E così via in molti altri casi. Il disagio davanti a siffatte oscillazioni ed aporie di costruzione giurisprudenziale è stato, di recente, manifestato anche da altra, accreditata dottrina [N. Zanon, I rapporti tra la Corte costituzionale e il legislatore alla luce di alcune recenti tendenze giurisprudenziali, in Federalismi (www.federalismi.it), 3/2021, 27 gennaio 2021, 86 ss., spec. 96 ss. (con richiamo ad un mio pensiero sul punto)].
[8] … tra i quali, V. Onida, Modulazione degli effetti della pronuncia di incostituzionalità o “sospensione” temporanea della norma costituzionale?, in Oss. cost. (www.osservatorioaic.it), 2/2021, 6 aprile 2021, 130 ss., spec. 135 s., e R. Pinardi, Costituzionalità “a termine” di una disciplina resa temporanea dalla stessa Consulta, cit., 288 ss.
[9] … fino all’ottobre 2025.
[10] Non è inopportuno qui rammentare che, a differenza di ciò che ordinariamente vale al piano dei rapporti inter privatos, laddove tutto ciò che non è vietato è permesso, in diritto pubblico il potere si ha unicamente laddove vi sia una norma che previamente lo fondi e ne disciplini le modalità di esercizio.
[11] Un esempio per tutti, quello di cui alla sent. n. 10 del 2015, che ha animato un fitto dibattito ai cui esiti ricostruttivi nondimeno non può ora riservarsi neppure un cenno; a riprova della varietà dei punti di vista al riguardo espressi è sufficiente il solo dato per cui nel sito Consulta OnLine (www.giurcost.org) sono richiamati, in testa alla decisione in parola, ben trentanove commenti ospitati da sedi scientifiche in rete, senza ovviamente tener conto quelli presenti su Riviste cartacee, sui manuali di giustizia costituzionale e monografie nelle quali si tratta degli effetti temporali delle decisioni del giudice costituzionale.
[12] … ovviamente, possibile col solo procedimento in via di eccezione, essendo ormai decorsi i termini per i ricorsi in via d’azione.
Per la distinzione tra una incostituzionalità sopravvenuta in senso stretto ed una in senso lato, v., volendo, A. Ruggeri - A. Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale6, Giappichelli, Torino 2019, 209 s., dove si rileva come accanto ad una siffatta specie di invalidità potrebbe aversi anche quella, opposta, di una legittimità sopravvenuta.
[13] Per l’aspetto ora considerato, la manipolazione operata dalla pronunzia qui annotata si presenta ancora più incisiva – sempre che si reputi possibile fare una sorta di “graduatoria” al riguardo… – di quella posta in essere in Cappato, proprio per il più lungo lasso di tempo intercorrente rispetto alla definizione del caso, che di per sé gioca nel senso di lasciare un segno ancora più marcato sul dettato costituzionale, fatto oggetto di corposo rifacimento dalla tecnica decisoria in parola (sul significato posseduto dalla dimensione temporale nelle esperienze di rilievo costituzionale richiamo qui solo, per tutti, lo studio di T. Martines, Prime osservazioni sul tempo nel diritto costituzionale, in Scritti in onore di S. Pugliatti, III, Giuffrè, Milano 1977, 783 ss., nonché in Id., Opere, I, Giuffrè, Milano 2000, 477 ss.).
[14] … anche se si avrebbe la stranezza di un atto giuridico, la sentenza della Corte, rimasto improduttivo di effetti per suo stesso… auspicio.
[15] Ciò che, invero, è pacificamente ammesso ma che – come si è tentato di argomentare altrove – appare per vero essere problematicamente conciliabile col disposto di cui all’art. 137, ult. c., Cost. che – senza distinzione alcuna tra tipo e tipo di decisione della Corte – esclude categoricamente la eventualità della loro “impugnazione”, in vista dunque di un eventuale ripensamento da parte dello stesso giudice costituzionale di una questione, come che sia, ormai decisa, smarrendosi altrimenti il quid proprium della ragion stessa di esistere della Corte, che è di dare certezze di diritto costituzionale, in quanto abilitata a dire l’ultima parola sulle controversie coinvolgenti la legge fondamentale della Repubblica (ho indagato il senso complessivo e il modo di operare e di farsi valere del disposto summenzionato nei miei Storia di un “falso”. L’efficacia inter partes delle sentenze di rigetto della Corte costituzionale, Giuffrè, Milano 1990, e Ripensando alla natura della Corte costituzionale, alla luce della ricostruzione degli effetti delle sue pronunzie e nella prospettiva delle relazioni con le Corti europee, in AA.VV., La Corte costituzionale vent’anni dopo la svolta, a cura di R. Balduzzi - M. Cavino - J. Luther, Giappichelli, Torino 2011, 349 ss.).
[16] … salvo il caso di legge riproduttiva di altra legge dapprima caducata che, nuovamente impugnata, esca quindi indenne dal secondo giudizio della Consulta, magari – perché no? – per effetto di un fatto nuovo che lo giustifichi, quale potrebbe esser dato, ad es., da una pronunzia di questa o quella Corte europea venuta medio tempore alla luce. E, tuttavia, in una congiuntura siffatta, le due “situazioni normative” (che, a mia opinione, si pongono ad oggetto del sindacato di costituzionalità), una volta poste a raffronto, si dimostrano essere non coincidenti, proprio a causa del novum nel frattempo registratosi. Il fatto “riproduttivo”, ad ogni buon conto, nel caso nostro non può aversi, essendo ancora in vigore la disciplina normativa oggetto della pronunzia ablativa iniziale.
[17] Se n’è, d’altronde, avvertita la consapevolezza da parte di più d’uno studioso e la stessa Corte, dal suo canto, ha ritenuto la questione meritevole di approfondimento, tanto da farne oggetto di esame nel corso di uno dei Seminari annuali con i quali sollecita il confronto degli studiosi su questioni scottanti e gravide di implicazioni (v., dunque, AA.VV., Effetti temporali delle sentenze della Corte costituzionale anche in riferimento alle esperienze straniere, Palazzo della Consulta 23-24 novembre 1988, Giuffrè, Milano 1989).
Sta di fatto che la sospensione della produzione dell’effetto ablativo comporta pur sempre un costo innegabile per i diritti costituzionali in vista della cui salvaguardia è presentata la questione di costituzionalità avente ad oggetto la normativa poi provvisoriamente mantenuta in vigore e perciò applicata al giudizio a quo. Il sacrificio della rilevanza, registratosi nella circostanza (ancora R. Pinardi, Costituzionalità “a termine” di una disciplina resa temporanea dalla stessa Consulta, cit., spec. 294; altri riferimenti in A. Ruggeri - A. Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale6, cit., 211), nondimeno, non costituisce – come si sa – di certo una novità nelle esperienze più recenti degli ultimi anni (basti solo por mente alle note pronunzie in materia elettorale ed alla sent. n. 10 del 2015, sopra già richiamata).
[18] L’auspicio di una revisione dell’art. 136 Cost., giudicata sommamente opportuna (e, anzi, necessaria), è formulato nello scritto da ultimo richiamato, 214.
[19] Il riferimento è, ovviamente, ad A. Pizzorusso, alla cui memoria è stato dedicato un incontro di studio proprio sul tema, svoltosi a Pisa il 16 dicembre 2019: v., dunque, AA.VV., Ricordando Alessandro Pizzorusso. Il diritto giurisprudenziale, a cura di V. Messerini - R. Romboli - E. Rossi - A. Sperti - R. Tarchi, University Press, Pisa 2020.
[20] Ne dà, d’altronde, sicura riprova l’intera vicenda storica del costituzionalismo liberale maturata in Gran Bretagna, con ciò che essa ha rappresentato per il radicamento di siffatto modello anche in ordinamenti a tradizione costituzionale scritta. Ad ogni buon conto, non ha molto senso ora rimettere in discussione il valore incontestabile della scrittura costituzionale, con le garanzie ad essa inscindibilmente legate.
[21] Il rapporto tra le due forme di produzione giuridica è, nondimeno, circolare, l’una alimentandosi ed incessantemente rinnovandosi per effetto della spinta e delle sollecitazioni venute dall’altra.
[22] Il soccorso, poi, come si sa, molte volte si ha ugualmente, in forme ora abilmente mascherate ed ora invece spudoratamente scoperte, attraverso il cattivo uso della funzione arbitrale, spesso comunque – come tutte le umane cose – incorsa in errore senza cattiva intenzione.
[23] In realtà, come si è fatto notare da un profondo conoscitore delle dinamiche del processo (V. Onida, Modulazione degli effetti della pronuncia di incostituzionalità o “sospensione” temporanea della norma costituzionale?, spec. ult. par.), ben altri avrebbero dovuto essere i rimedi rispetto alla soluzione adottata dal legislatore per assicurare il superamento della crisi della giustizia. Il punto è che la loro messa in atto avrebbe richiesto (e oggi pure richiederebbe) tempi non brevi ed interventi plurimi e reciprocamente coordinati su più fronti. La qual cosa conferma per tabulas che la caducazione della normativa ad oggi in vigore non sarebbe di per sé sufficiente allo scopo, se non iscritta in un quadro organico di interventi aventi ad oggetto l’organizzazione dei servizi della giustizia e le modalità di svolgimento delle funzioni a quest’ultima facenti capo.
[24] Invito qui a fermare l’attenzione sul linguaggio adoperato; non dico infatti: secondo i casi, che possiedono una loro complessiva connotazione oggettiva, suscettibile di ripetizione temporale e di inquadramento sistematico in prospettiva teorico-astratta. Dico invece: secondo occasione, per significare l’uso imprevedibile ed improvvisato delle tecniche in parola, senza che ne risulti – come si diceva – molte volte chiara la ragione.
[25] … nella quale pure il fatto in sé dell’emergenza è stato – come si sa – determinante al fine della mancata caducazione della normativa adottata dal Governo per dilatare in modo abnorme i termini massimi della carcerazione preventiva, nell’intento di evitare che tornassero in libertà individui sospetti di appartenere alle BR e seguitassero a fare di persone innocenti bersagli viventi in funzione della realizzazione del disegno criminoso avuto di mira.
[26] Su ciò, di recente, la densa riflessione di G. Tarli Barbieri, Corruptio optimi pessima. La corruzione della politica nello specchio del diritto costituzionale, Mucchi, Modena 2020.
[27] Riferimenti e ragguagli possono, se si vuole, aversi dal mio Lo stato comatoso in cui versa la democrazia rappresentativa e le pallide speranze di risveglio legate a nuove regole e regolarità della politica, in Consulta OnLine (www.giurcost.org), 1/2021, 25 gennaio 2021, 124 ss.
[28] Ho trovato particolarmente utile e, in più punti, davvero illuminante la cruda diagnosi al riguardo contenuta in un’agile pubblicazione monografica di un illustre studioso dell’antichità romana, A. Corbino, La democrazia divenuta problema. Città, cittadini e governo nelle pratiche del nostro tempo, Eurilink University Press, Roma 2020, dalla quale ho quindi preso le mosse per una personale riflessione i cui esiti possono vedersi rappresentati nel mio La democrazia: una risorsa preziosa e imperdibile ma anche un problema di ardua ed impegnativa soluzione, in Dir. fond. (www.dirittifondamentali.it), 1/2021, 6 marzo 2021, 325 ss.
[29] D’altronde, lo ha fatto (e lo fa) talvolta anche l’altro massimo garante del sistema, il Presidente della Repubblica. Ricordo, ad es., quanto verificatosi durante il settennato di Pertini (che pure non era di certo smanioso di “picconare” il sistema, come lo è stato un altro discusso Presidente), con riguardo alla nomina dei senatori a vita, in forza di una originale lettura, in precedenza ed in seguito smentita, del disposto di cui all’art. 59 Cost., favorevole – come si sa – a che ogni Presidente possa far luogo a cinque nomine, idonee perciò ad aggiungersi a quelle fatte dai suoi predecessori (una eventualità ormai scongiurata – come pure è noto – da una opportuna precisazione messa in coda al disposto suddetto con legge cost. n. 1 del 2020).