ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La disciplina dei congedi (parte prima)
La disciplina a tutela della genitorialità applicabile ai magistrati è regolata da una serie variegata di norme: è infatti applicabile, in quanto compatibile, la normativa prevista per tutti i pubblici dipendenti, cui si affianca la normativa speciale relativa all’ordinamento giudiziario, e la normativa secondaria prodotta dal CSM. Il quadro si presenta come di non agevolissima lettura, soprattutto se si considera che il magistrato madre – a fronte del ritardato ingresso in magistratura – è spesso un magistrato giovane in carriera, che si confronta per le prime volte non soltanto con le questioni amministrative ed ordinamentali, ma anche e soprattutto con le difficoltà lavorative che la presa di funzioni porta con sé. È facile allora immaginare che possa trovarsi sopraffatta dalle molte incombenze dell’ufficio da un lato, della maternità dall’altro, e non abbia il tempo di cimentarsi nella ricerca dei vari frammenti normativi e nella ricomposizione del mosaico dei diritti che le spettano. Può essere quindi utile tentare di mettere un po’ di ordine, anche con l’ausilio delle circolari riepilogative del CSM e con gli studi dell’Ufficio sindacale ANM, partendo da una panoramica sulla disciplina dei congedi, rinviando ad un successivo approfondimento l’esame delle disposizioni contenute nella circolare sulle tabelle del CSM.
1. I congedi[1].
a) Il congedo obbligatorio per maternità.
Il primo diritto del magistrato madre, come quello di qualsiasi altra lavoratrice pubblica, è il congedo obbligatorio per maternità di cui all’art. 16 del d.lgs. 151/2001. Si tratta dell’astensione obbligatoria dal lavoro, a partire da due mesi prima della data presunta del parto e per i tre mesi successivi alla nascita del bambino. L’astensione obbligatoria copre anche il periodo che va dalla data presunta alla data effettiva del parto; se il parto è anticipato rispetto alla data presunta, l’astensione obbligatoria copre anche il numero di giorni non goduti prima del parto. L’art. 20 del d.lgs. 151/2001 consente inoltre di gestire tale congedo con un margine di flessibilità, posticipando l’astensione di massimo un mese, e godendo quindi di un periodo massimo di 4 mesi di astensione dopo il parto, oltre ai giorni eventualmente intercorrenti tra la data presunta e la data effettiva e quelli eventualmente non goduti prima del parto pretermine. Per fruire della flessibilità è necessario che il medico specialista attesti la compatibilità di tale scelta con lo stato di salute della madre e del bambino. Il parto gemellare non influisce sulla durata del congedo.
Dal punto di vista amministrativo, la competenza ad autorizzare l’astensione è del capo dell’ufficio di appartenenza, cui va comunicata la propria scelta allegando la certificazione medica richiesta[2]. Il trattamento economico spettante, per tutto il periodo di astensione obbligatoria, è pari all’intero trattamento normalmente percepito, ivi inclusa la particolare indennità di cui all’art. 3 l. 27/81[3]. Anche per quanto riguarda la maturazione dei diritti accessori, quali ferie e tredicesima mensilità, nonché per quanto attiene all’anzianità ed all’avanzamento di carriera, il periodo di astensione obbligatoria è considerato come periodo di servizio effettivo.
Nel caso di interruzione della gravidanza, l’art. 19 del d.lgs. 151/2001 distingue due ipotesi: al caso di interruzione volontaria o comunque precedente al 180° giorno di gestazione, si applicano le norme sul congedo straordinario per malattia; dopo il 180° giorno di gestazione, l’interruzione di gravidanza è equiparata al parto, e alla lavoratrice spetta un congedo di 3 mesi dalla data dello stesso, alle medesime condizioni del congedo obbligatorio per maternità, con la differenza che la donna può decidere di riprendere in qualsiasi momento a lavorare[4].
b) Il congedo per complicanze della gestazione.
L’ art. 17 del d.lgs. 151/2001 disciplina l’ipotesi di complicanze della gestazione, nonché le ipotesi in cui c’è rischio che la gestazione aggravi il rischio di patologie preesistenti della madre, e spetta in tutti i casi in cui le condizioni di lavoro o ambientali possano pregiudicare la salute della donna o del bambino, a condizione che la lavoratrice non possa essere adibita ad altre mansioni maggiormente compatibili, il che – essendo le funzioni del magistrato piuttosto omogenee – appare improbabile. Nel caso in cui il parto prematuro avvenga in questo periodo (prima quindi dell’inizio dei due mesi di astensione obbligatoria), la lavoratrice ha diritto ad un periodo di 5 mesi di astensione da fruire dopo il parto.
Anche in questo caso, le circostanze che legittimano all’astensione anticipata devono essere comunicate, con la relativa documentazione medica, direttamente al capo dell’ufficio di appartenenza. Il trattamento economico dovuto, per l’intero periodo di astensione, anche in questo caso include la particolare indennità di cui all’art. 3 l. 27/81 ed è valido ad ogni altro effetto.
c) Il congedo di paternità alternativo a quello della madre naturale.
L’art. 28 del d.lgs. 151/2001 consente in determinate ipotesi (morte o grave infermità della madre, abbandono del bambino da parte della stessa, affidamento esclusivo del bambino al padre, riconoscimento da parte del solo padre) che il padre possa godere del congedo non fruito dalla madre, fino ad un massimo di tre mesi dalla nascita del bambino. Tale congedo, essendo equiparato a quello della madre, è coperto da trattamento economico integrale, è valido ad ogni altro effetto, ed è di competenza del capo dell’ufficio di appartenenza.
d) Il congedo parentale.
L’art. 32 del d.lgs. 151/2001, gli artt. 7 e 9 del d.lgs. 80/2015, l’art. 43 del d.lgs. 148/2015 disciplinano il congedo parentale facoltativo, che va ad aggiungersi a quello obbligatorio. Si tratta della possibilità, per entrambi i genitori, di astenersi dal lavoro, per un massimo di sei mesi per ogni genitore ed un massimo di dieci mesi totali (elevati ad 11 se il padre decide di astenersi per almeno tre mesi), fino al dodicesimo anno di vita del bambino.
Il trattamento economico spettante varia a seconda dell’età del bambino. Fino al sesto anno, il trattamento economico per i primi 45 giorni di congedo per ogni anno solare, corrisponde a quello previsto per il congedo straordinario, in virtù dell’equiparazione effettuata dall’art. 41, co. 2, del DPR 3/57[5]; per gli ulteriori periodi, spetta una retribuzione pari al 30% dello stipendio, con esclusione della speciale indennità di cui all’art. 3 l. 27/81, per un periodo massimo complessivo retribuito tra i genitori di sei mesi ogni anno solare. Dopo i sei anni del bambino e fino agli otto, tale retribuzione spetta entro dati limiti di reddito; oltre, il congedo parentale non è retribuito[6]. I periodi fruiti contano ai fini dell’anzianità di servizio, con esclusione degli effetti relativi alle ferie, alla tredicesima annualità, alla gratifica natalizia. Spetta la contribuzione figurativa per tutto il periodo, anche quello non retribuito. La competenza è del C.S.M. [7].
e) Il congedo per la malattia del figlio.
L’art. 47 del d.lgs. 151/2001 prevede che entrambi i genitori, alternativamente, hanno il diritto di astenersi dal lavoro in occasione alle malattie di ogni figlio. La durata dell’astensione ed il trattamento economico dipendono dall’età del bambino. Fino ai tre anni, il diritto spetta per l’intera durata delle malattie di ogni figlio, e tali periodi sono retribuiti come il congedo straordinario, a condizione che il magistrato non abbia già fruito, ad altro titolo, dei relativi 45 giorni (eventualmente, potrà beneficiare del contributo economico per il periodo residuo); dopo i primi tre anni di vita, e fino agli otto anni, non è retribuito e spetta per 5 giorni annui[8].
I periodi fruiti a tale titolo contano ai fini dell’anzianità di servizio, con esclusione degli effetti relativi alle ferie, alla tredicesima annualità, alla gratifica natalizia. La competenza è del C.S.M.
f) Il congedo straordinario.
L’art. 37 del t.u. 3/57 disciplina la possibilità, per tutti i magistrati, di fruire di 45 giorni ogni anno solare di congedo straordinario per gravi motivi. Tale periodo è valutabile a fini economici, giuridici e di carriera. Il trattamento economico previsto dalla normativa è così articolato: per il primo giorno di ogni periodo ininterrotto spettano gli assegni ridotti di 1/3, per i giorni successivi gli assegni interi; per tutto il periodo è esclusa la particolare indennità di cui all’art. 3 l. 27/81 (art. 41, co. 2, d.p.r. 3/57). Come si è visto, tale trattamento è esteso al congedo parentale, per i primi 45 giorni di ogni anno solare.
2. Disciplina dei congedi: tramutamenti, valutazioni di professionalità, formazione.
Al di là di quanto già visto sul trattamento giuridico e retributivo spettante al magistrato in occasione dei congedi, vi sono dei profili di disciplina comuni a tutte le tipologie.
Va innanzitutto chiarito che, per quanto riguarda il congedo parentale e per il congedo straordinario, i genitori hanno diritto di fruire contemporaneamente dell’astensione, così come il magistrato padre ha diritto di fruirne nel periodo in cui la madre sta fruendo del periodo di congedo obbligatorio: l’art. 32 del d.l.gs. 151/2001, infatti, attribuisce espressamente il diritto a «ciascun genitore».
Nel caso di tramutamento durante il periodo di congedo obbligatorio, il magistrato ha diritto a posticipare la presa di possesso al termine del congedo stesso; per quanto riguarda invece i congedi facoltativi, la prassi è l’interruzione degli stessi per la presa di possesso[9].
I congedi non hanno influenza sulla valutazione di professionalità, in quanto il CSM ha chiarito che il parere deve essere redatto ugualmente, anche laddove l’intero periodo quadriennale di riferimento fosse stato trascorso in astensione obbligatoria per maternità, congedo straordinario, congedo parentale o ordinario[10]. In tali ipotesi, il parere deve basarsi sull’autorelazione, nonché sulle informazioni acquisibili presso gli enti competenti quanto a capacità, competenze, impegno, come emersi nel precipuo contesto in cui il magistrato si è trovato ad operare nel periodo di congedo.
Quanto alla formazione permanente, nel periodo di congedo (obbligatorio, facoltativo o straordinario) il magistrato non è tenuto a parteciparvi. Non vi sono invece esoneri per il magistrato genitore di figli fino a sei anni che si trovi in servizio: l’art. 25 del d.lgs. 26/2006 pone infatti un vero e proprio obbligo di partecipazione alla formazione da parte del magistrato, trattandosi peraltro ad attività necessaria anche ai fini del superamento delle valutazioni di professionalità.
3. I congedi non fruibili dai magistrati: il congedo di paternità.
Alcuni dei congedi previsti per la generalità dei lavoratori non sono fruibili dai magistrati, per ragioni inerenti la specificità del lavoro o per altre ragioni, non tutte ugualmente condivisibili. È il caso, ad esempio, del congedo parentale su base oraria di cui all’art. 21 d.lgs. 151/01, non fruibile dal magistrato in quanto quest’ultimo non ha un orario di lavoro predeterminato.
Altra ipotesi è quella del congedo di paternità obbligatorio previsto della l. 92/2012, art. 4, co. 24, 25, 26, e prolungato, per il 2018, dalla l. 232/2016, art. 1, comma 354; si tratta di quattro giorni di congedo obbligatorio, del tutto equiparato a quello della madre, e quindi con pieni diritti quanto a trattamento economico e giuridico.
L’inapplicabilità di tale strumento al padre magistrato è stata sancita dal CSM nella risposta al quesito del 18 novembre 2015, in cui il Consiglio ha argomentato a partire dalla considerazione che la nuova forma di congedo di paternità, in presumibile connessione con il suo carattere temporaneo e sperimentale, è stata introdotta in via autonoma rispetto al Testo Unico compendiato nel d.lgs n. 151/2001, in quanto le disposizioni della l. n. 92/2012 costituiscono principi e criteri per la regolazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del d.lgs n. 151/2001, ma gli ambiti, le modalità e i tempi di armonizzazione della disciplina relativa ai dipendenti pubblici richiedono iniziative, anche normative, da assumersi da parte del Ministro per la Pubblica Amministrazione e la semplificazione, sentite le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative dei dipendenti delle Amministrazioni pubbliche[11].
Tale disposto è stato interpretato dal CSM nel senso che, qualora non sia stabilita in modo univoco l’estensione dell’ambito applicativo della regolamentazione ai rapporti di lavoro del settore pubblico, i precetti e gli istituti contenuti nella legge n. 92/2012 siano destinati a fungere da criteri ispiratori di separata, analoga regolamentazione da dettarsi per quelle categorie di lavoratori. Quindi il congedo di paternità, in attesa di tale regolamentazione, non si applicherebbe ad alcun lavoratore della pubblica amministrazione, da intendersi come tale la categoria dei dipendenti pubblici contrattualizzati, e deve quindi, a maggior ragione, escludersi l’applicabilità di tale congedo alle categorie rimaste in regime di pubblico impiego, tra cui appunto i magistrati.
A prescindere, infatti, dall’esistenza di contrasti tra quanto sostenuto in dottrina e giurisprudenza amministrativa e quanto sostenuto dal CSM stesso, sul fatto se la magistratura sia ricompresa nel novero del personale delle amministrazioni pubbliche elencate dall’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001, residua la necessità che l’estensione ai membri dell’Ordine giudiziario delle regole dettate per la generalità dei dipendenti pubblici operi previo il vaglio di compatibilità ex art. 276, comma 3, r.d. n. 12/1941.
L’assenza di un periodo di congedo obbligatorio per il padre magistrato rappresenta uno dei principali ostacoli alla realizzazione di una piena parità di genere in materia, oltre a costituire un vulnus importante per la persona, soprattutto se si considera che, così come il magistrato madre, anche il padre è il più delle volte giovane in carriera, con la frequente conseguenza di prestare servizio in una sede lontana da quella di residenza della famiglia. Egli sarà quindi costretto ad organizzarsi con i (pochi) giorni di ferie disponibili e con i congedi straordinario e facoltativo (e le conseguenti decurtazioni stipendiali).
4. L’effettività della fruizione dei congedi.
Così come in altre ipotesi (si pensi al congedo per ferie o, salvi i casi gravi, quello per malattia), qualsiasi magistrato sa benissimo che il periodo di congedo non sempre, ed anzi, quasi mai, coincide realmente con l’astensione dal lavoro, a fronte degli strascichi costituiti dall’arretrato e dai provvedimenti in decisione i cui termini per il deposito vanno a scadere durante il periodo relativo. Il magistrato madre che, fino all’ultimo giorno in servizio (o comunque fino a 80 giorni prima, nel caso di procedimento civile ordinario), prenda cause in decisione, si trova inevitabilmente costretta a lasciare il lavoro con un carico notevole di “compiti a casa”, che di fatto impediscono la fruizione piena del congedo stesso, posto che (così come per le ferie e per la malattia) non è prevista alcuna sospensione dei termini di deposito dei provvedimenti durante tale periodo. Di tale problema si è fatto carico il CSM, rimettendone tuttavia la soluzione al singolo giudice, cui è demandata la modulazione del proprio lavoro in modo da evitare che nel periodo immediatamente antecedente all’astensione siano introitate decisioni da depositarsi ad astensione iniziata. Precisato, infatti, che nel periodo di astensione obbligatoria per maternità viene meno l'obbligo della prestazione lavorativa, il CSM ha comunque ribadito che l’astensione obbligatoria e facoltativa non danno luogo a sospensione dei termini per il deposito della motivazione[12]. La giurisprudenza disciplinare, ad ogni modo, è orientata nel senso di non sanzionare i ritardi dei depositi che siano concomitanti con il periodo di congedo obbligatorio per maternità[13].
In prospettiva futura, sarebbe senz’altro auspicabile la previsione, analoga a quella in materia di ferie, di un “periodo cuscinetto” a tutela dell’effettività della fruizione del periodo di astensione. Tale strumento consentirebbe di concentrare almeno l’ultimissimo periodo nella scrittura, sgravando il magistrato gestante dal peso dell’udienza e degli incombenti connessi.
In conclusione, la disciplina posta a tutela della genitorialità applicabile ai magistrati appare sufficientemente garantista, sebbene la reale effettività di tali strumenti sia destinata a scontrarsi con le ben note problematiche conseguenti al cronico sotto-organico degli uffici giudiziari ed all’impossibilità di sostituzioni effettive. Riservando i commenti all’esito di un completamento dell’analisi della normativa, attraverso l’esame delle circolari del CSM in materia tabellare, devono fin d’ora segnalarsi due profili sensibili. Il primo attiene al periodo precedente alla fruizione del congedo, inevitabilmente corredato da sensi di colpa nei confronti dei colleghi e preoccupazione per la sorte del proprio ruolo e dei fascicoli più delicati. Il secondo attiene alla fase del rientro, in cui la neo-mamma si troverà a scontrarsi con gli accresciuti problemi di un ruolo che sarà purtroppo rimasto, nella maggioranza delle ipotesi, sostanzialmente abbandonato a sé stesso.
[1] Oltre a quelli qui analizzati, vi sono anche altri strumenti, alla cui disciplina ci si limita a rinviare, quali l’aspettativa per motivi di famiglia di cui all’art. 69 del TU 3/57, ed il congedo per eventi e cause particolari di cui all’art. 4 comma 2 d.lgs. 53/2000.
[2] Cfr. delibera dell’11.12.2015 del CSM, che ha semplificato la materia dei congedi, individuando le competenze ad autorizzare i singoli benefici riconosciuti dalla legge ed ha ricapitolato i relativi presupposti e trattamento economico previdenziale.
[3] Cfr. art. 41 del DPR 3/57.
[4] Previa presentazione di due certificati, quello del medico ASL o di struttura convenzionata e quello del medico competente a fini di tutela della salute sul lavoro.
[5] Come chiarito dalla circolare del CSM 1697g/DIM/4126 del 16 luglio 1994.
[6] Ai sensi dell’art. 34 d.lgs. 151/2001.
[7] Cfr. delibera dell’11.12.2015 del CSM.
[8] Cfr. documento dell’Ufficio sindacale ANM, “Tutela della genitorialità”.
[9] Cfr. documento dell’Ufficio sindacale ANM, “Tutela della genitorialità”, che sottolinea come, per il congedo obbligatorio, ciò non sia possibile, con possibili conseguenze discriminatorie in termini di legittimazione.
[10] CSM, risposta al quesito 88/VQ/2012.
[11] Cfr. art. 1, commi 7 e 8, della Legge n. 92/2012.
[12] CSM, risposta al quesito del 23 ottobre 2002.
[13] Cfr. Cass., Sez. U., Sent. n. 20815/2013 e CSM, Sent. n. 80/2015.
Appello rinnovato ed obblighi del giudice e delle parti di Ignazio Pardo
Intervenendo con la modifica degli artt. 581 e 603 c.p.p. il legislatore della riforma ha operato un profondo mutamento dell’assetto del giudizio di secondo grado con il preciso intento di evitare la trattazione di impugnazioni meramente dilatorie da un lato e di adeguare l’assetto normativo alla recente giurisprudenza della CEDU dall’altro (Corte EDU Dan contro Moldavia ed Hanu contro Romania ).
Ne è nato così un sistema che si differenzia a secondo dell’esito del giudizio di primo grado e della natura dell’impugnazione proposta; giudizio critico e di controllo nel caso dell’appello proposto avverso la sentenza di condanna, novum iudicium con l’obbligo del preciso rispetto del contraddittorio sulla formazione della prova e dell’immediatezza tra giudice e mezzo di prova nel caso di appello avverso decisione assolutoria fondata su prove dichiarative.
Nel millenario dilemma circa la funzione e la conseguente struttura del giudizio di secondo grado, se finalizzato allo stretto “controllo” della correttezza del giudizio di primo grado ovvero alla riformulazione del giudizio di colpevolezza, anche al fine di assicurare il canone della responsabilità “oltre ogni ragionevole dubbio” con una doppia conforme, il legislatore stretto dalla necessità, da un lato, di deflazionare i carichi degli uffici giudiziari penali in maggiore crisi e dall’altro dalla impellenza di dovere dare risposta anche normativa alle sferzate provenienti dalla Corte europea che imponevano la riassunzione della prova dichiarativa in secondo grado ben oltre gli stretti limiti previsti dalla disciplina dettata dall’art. 603 c.p.p., è intervenuto proponendo un sistema a due “braccia” imponendo da un lato con la riformulazione dell’art. 581 c.p.p. maggiore specificità ai motivi ed alle richieste e dall’altro inserendo il comma 3 bis dell’art. 603 c.p.p. che assicura il rispetto del principio di immediatezza tra il giudice della condanna e la prova dichiarativa.
Attraverso la riformulazione dell’art. 581 c.p.p. e l’inserimento della specificità come parametro generalizzato di ammissibilità dell’impugnazione il legislatore della riforma ha aderito ad una ben precisa opzione dogmatica sottesa alla strutturazione del giudizio di appello come giudizio di controllo, di verifica ed eliminazione degli eventuali errori contenuti nel dibattimento di primo grado e nel provvedimento conclusivo. Tale precisa scelta appare essere frutto della precipua volontà di ricondurre il giudizio di appello avverso decisione di condanna ad un giudizio di critica ragionata su motivi tassativamente proposti aventi ad oggetto quei punti decisivi della sentenza di primo grado che parallelamente il legislatore si è sforzato di elencare nella nuova previsione dell’art. 546 c.p.p. E così si è da un lato specificato il necessario ed imprescindibile contenuto della motivazione della decisione di primo grado e dall’altro si è parallelamente attribuito al giudizio di appello il ruolo di controllo dell’esattezza di tale motivazione alla luce dei risultati probatori dell’istruzione dibattimentale già compiuta.
Per effetto quindi da un lato della volontà di ridurre il campo devolutivo del giudizio di appello e ricondurlo agli spazi della critica vincolata e dall’altro alla necessità di assicurare il contraddittorio e l’immediatezza dinanzi al giudice chiamato ad affermare l’eventuale colpevolezza dell’imputato il sistema oggi introdotto, per effetto delle modifiche normative e dei ripetuti interventi giurisprudenziali a Sezioni Unite e della Corte EDU, ha finito per configurare due figure essenzialmente differenti di giudizio di secondo grado; strumento di critica e di controllo nell’ipotesi dell’impugnazione di una pronuncia di condanna, nuovo giudizio nel caso di appello avverso sentenza assolutoria.
In relazione alla prima delle due distinte “forme” del giudizio di appello, rileva, per comprendere esattamente l’ampiezza e funzione del canone della “specificità” il recente intervento delle Sezioni Unite (Sez. U, Sentenza n. 8825 del 27/10/2016 Cc. (dep. 22/02/2017 ), imp. Galtelli, Rv. 268822) che pur pronunciandosi sull’assetto normativo previgente hanno anticipato nel corpo della motivazione il commento anche alla nuova disciplina del 581 c.p.p. che così si vede sostanzialmente ad essere interpretata già al momento della sua entrata in vigore; chiamata ad intervenire sulla questione di diritto "se, e a quali condizioni e limiti, il difetto di specificità dei motivi di appello comporti l'inammissibilità dell'impugnazione" il supremo collegio ha affermato che l'appello, al pari del ricorso per cassazione, è inammissibile per difetto di specificità dei motivi quando non risultano esplicitamente enunciati e argomentati i rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto o di diritto poste a fondamento della decisione impugnata.
Ed a questo risultato le Sezioni Unite pervengono dopo un attento studio dei casi di specificità dei motivi di impugnazione distinguendo per la precisione la c.d. "genericità intrinseca" dei motivi, riferibile a quegli appelli fondati su considerazioni generiche o astratte, o comunque non pertinenti al caso concreto (ex plurimis, Sez. 6, n. 3721 del 2016 e Sez. 1, n. 12066 del 05/10/1992, Makram), ovvero su generiche doglianze concernenti l'entità della pena a fronte di sanzioni sostanzialmente coincidenti con il minimo edittale (ex multis, Sez. 6, n. 18746 del 21/01/2014, Raiani, Rv. 261094) che senza alcun dubbio e contrasto debbono ritenersi per ciò solo ed anche nel vigore della precedente normativa inammissibili, dalla c.d. "genericità estrinseca" dei motivi di appello, ravvisabile nella mancanza di correlazione fra questi e le ragioni di fatto o di diritto su cui si basa la sentenza impugnata. Fornendo una interpretazione certamente di fatto limitativa del tradizionale canone del favor impugnationis le Sezioni Unite affermano che la necessità della specificità estrinseca dei motivi di appello trova fondamento nella considerazione che essi non sono diretti all'introduzione di un uovo giudizio, del tutto sganciato da quello di primo grado, ma sono, invece, diretti ad attivare uno strumento di controllo, su specifici punti e per specifiche ragioni, della decisione impugnata. E in un processo accusatorio, basato sulla centralità del dibattimento di primo grado e sull'esigenza di un diretto apprezzamento della prova da parte del giudice nel momento della sua formazione, il giudizio di appello non può e non deve essere inteso come un giudizio a tutto campo; con la conseguenza che le proposizioni argomentative sottoposte a censura devono essere, in relazione al punto richiesto, enucleate dalla decisione impugnata. L'impugnazione deve, in altri termini, esplicarsi attraverso una critica specifica, mirata e necessariamente puntuale della decisione impugnata e da essa deve trarre gli spazi argomentativi della domanda di una decisione corretta in diritto ed in fatto. Le esigenze di specificità dei motivi non sono, dunque, attenuate in appello, pur essendo l'oggetto del giudizio esteso alla rivalutazione del fatto. Poiché l'appello è un'impugnazione devolutiva, tale rivalutazione può e deve avvenire nei rigorosi limiti di quanto la parte appellante ha legittimamente sottoposto al giudice d'appello con i motivi d'impugnazione, che servono sia a circoscrivere l'ambito dei poteri del giudice stesso sia a evitare le iniziative meramente dilatorie che pregiudicano il corretto utilizzo delle risorse giudiziarie, limitate e preziose, e la realizzazione del principio della ragionevole durata del processo, sancito dall'art. 111, secondo comma, Costituzione.
Così riformulata la struttura del giudizio di appello con valutazioni che hanno ancor più pregnanza, valenza e vincolatività in un regime di specificità rafforzato come quello designato dal nuovo art. 581 c.p.p., ne conseguono nuovi obblighi per il giudice di appello e per le parti di tale fase di giudizio.
Il giudice infatti è chiamato ad effettuare un vaglio preventivo circa l’ammissibilità della impugnazione che è assai più vasto di quanto precedentemente effettuato proprio perché spinto sino alla specificità estrinseca dei motivi, e cioè all’effettivo e concreto controllo del confronto tra le ragioni argomentative della decisione di primo grado distinte per ciascun capo e punto della sentenza ed in singoli motivi proposti e rivolti sempre a ciascuno dei capi e punti appellati.
Ed è bene sottolineare che nell’effettuare tale controllo il giudice non può essere “indulgente” nel rispetto del principio del favor impugnationis poiché pronunciare nel merito una sentenza di appello a seguito della proposizione di motivi che difettino della richiamata specificità estrinseca significa emettere una sentenza che è “viziata” ed è aggredibile con il successivo ricorso per cassazione dalle parti eventualmente interessate ove fare valere l’inammissibilità originaria dell’appello ex art. 591 quarto comma c.p.p.. E difatti l’inammissibilità per difetto di specificità non rilevata dal giudice di appello potrà essere motivo di successiva impugnazione da parte del Procuratore Generale ovvero della parte civile ove la sentenza di appello abbia riformato anche in parte quella di primo grado con statuizioni pur solo parzialmente favorevoli all’imputato anche limitatamente ad un capo o punto della decisione impugnata. La trattazione “generalizzata” degli appelli proposti nella vigenza della nuova normativa espone quindi la sentenza di appello di riforma anche parziale a questo evidente rischio poiché l’inammissibilità è vizio originario dell’impugnazione deducibile anche nella fase di legittimità.
E se il giudice di appello è chiamato a svolgere un adeguato e preciso controllo dell’impugnazione anche al fine di deflazionare la seconda fase di giudizio da quelle impugnazioni pretestuose e generiche, altrettanto delicato diviene il compito del Procuratore Generale presso la Corte di appello che chiamato a pronunciarsi sull’impugnazione proposta dall’imputato deve eccepire l’inammissibilità per vizio di specificità estrinseca secondo il dettato del nuovo 581 c.p.p. così come anticipatamente interpretato dalle Sezioni Unite. Un ruolo quindi, quello del P.G. che diviene fondamentale nella fase della apertura del giudizio e della conclusione dello stesso poiché l’organo chiamato a rappresentare l’accusa potrà anche richiedere l’emissione dell’ordinanza di inammissibilità ex secondo comma del 591 c.p.p. e comunque concludere per la specificità di tutto l’appello o di singoli motivi di esso nella fase della discussione conclusiva.
Ancor più dinamico è il giudizio di secondo grado prospettato dal legislatore in caso di impugnazione da parte del pubblico ministero di una sentenza assolutoria di primo grado fondata su prove dichiarative. Premesso infatti che anche l’atto di impugnazione della sentenza di proscioglimento è sottoposto al preventivo vaglio di ammissibilità per specificità estrinseca e deve quindi obbligatoriamente confrontarsi con le ragioni argomentative adottate dal giudice di primo grado con il nuovo comma 3 bis dell’art. 603 c.p.p. si è stabilito che « Nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale». Come noto la giurisprudenza della Corte EDU precedentemente citata deve ritenersi avere profondamente mutato il quadro del giudizio di appello avverso la sentenza assolutoria poiché ad un giudizio cartolare e statico, nel quale l'organo dell'accusa poteva limitarsi a prospettare una differente valutazione con il giudice libero di accoglierla o meno, pur sentita la difesa - limitata certamente ad un ruolo passivo -, ha sostituito un gravame caratterizzato da un obbligo istruttorio che sollecita il p.m. all'adozione di istanze istruttorie, permette alla difesa di controdedurre sulle stesse e impone al giudice di pronunciarsi solo dopo l'audizione diretta della fonte orale. In questo contesto appare decisivo richiamare un interessante orientamento della Corte di cassazione che sebbene anteriore la modifica normativa continua a mantenere intatta tutta la sua rilevanza; ci si riferisce a quella pronuncia (Sez. 2, Sentenza n. 40798 del 09/09/2016 Ud. (dep. 29/09/2016 ) Rv. 267654) secondo cui in caso di appello avverso sentenza assolutoria fondata su prove dichiarative è onere del pubblico ministero ovvero della parte civile impugnante, nell'ottica del rispetto dei ruoli assunti dalle parti nel procedimento di gravame, chiedere, unitamente alla riforma della sentenza impugnata, la rinnovazione di ufficio dell'istruttoria dibattimentale affinchè il giudice possa procedere ad un diverso apprezzamento dell'attendibilità delle prove poste a fondamento della pronuncia di primo grado e ciò perché nell’ottica del rispetto dei ruoli assunti dalle parti nel procedimento di gravame, sarà onere dell’organo del pubblico ministero che rappresenta l’accusa in appello, ovvero della parte civile impugnante, chiedere al giudice di ufficio l’assunzione della prova. Se è difatti vero che secondo l’insegnamento giurisprudenziale delle Sezioni Unite (Sez. U, Sentenza n. 27620 del 28/04/2016 Ud. (dep. 06/07/2016), imp. Dasgupta Rv. 267487) ed in base al nuovo testo dell’art. 603 comma 3 bis c.p.p. il giudice deve procedere anche d’ufficio a tale riassunzione, non può però negarsi che incombe sull’organo che rappresenta l’accusa e che è legittimato a proporre gravame avverso una pronuncia assolutoria di primo grado (ovvero sulla parte civile appellante), l’onere di accompagnare la richiesta di riforma con l’istanza di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale al fine di procedere alla riassunzione delle prove già acquisite. E tale onere seppure non configura alcuna causa di inammissibilità dell’appello deve essere posto in rapporto al fondamentale principio dell’onere della prova valido anche per il giudizio penale e secondo cui la parte che intenda provare un fatto, ha l’onere di dedurre la prova relativa allo stesso.
Può ben dirsi che la riforma Orlando modificando il testo degli artt. 581 e 603 c.p.p. ha imposto una nuova struttura del giudizio di appello e che rispetto a detto nuovo sistema si profilano nuovi obblighi per le parti che sembrano prospettare l’importanza di un ruolo più dinamico e funzionale dell’accusa nel secondo grado di giudizio prima sconosciuto e per altro verso impongono una preliminare verifica di ammissibilità dell’impugnazione demandata al giudice chiamato quindi ad effettuare un vaglio dapprima limitato agli estremi casi di appelli intrinsecamente inammissibili ed oggi invece basato su più ampi parametri.
Sarà l’esperienza del giudizio di appello ora a rispondere a questi interrogativi ed a dirci se la nuova forma dell’impugnazione risponde alle esigenze di un processo più moderno e funzionale alla realizzazione di una decisione “giusta”.
Ignazio PARDO
Consigliere della Corte di Cassazione
Come noto, la legge di riforma del codice penale e di procedura penale ha fissato all’ art. 1 comma 84 lett. a), b), c), d), e) L. 103/2017 i principi ai quali il legislatore delegato e’ chiamato ad uniformarsi nella stesura del decreto attuativo, destinato sia a novellare gli articoli del codice di rito che disciplinano i presupposti e le modalità esecutive di questo tanto efficace quanto invasivo mezzo di raccolta delle prove, sia ad introdurre una nuova fattispecie di reato in materia di diffusione di registrazioni fra presenti captate fraudolentemente. Lo stesso Ministro di Giustizia sta attualmente promuovendo consultazioni con la magistratura ed il foro su una bozza di decreto legislativo attuativo. Il metodo dialogico seguito è l’occasione per la condivisione di sintetici spunti di riflessione.
1) Art. 1 comma 84 lett. b) Legge 103/2017 e art. 1 bozza decreto delegato introducente l’art. 617 septies
La norma ha alcuni elementi specializzanti rispetto all’art. 167 del D.L.vo 196/2003 (trattamento illecito dei dati).
L’assenza del consenso dell’interessato (art. 23 TU privacy) è evidentemente implicito nella previa captazione fraudolenta. Il dolo specifico di danno previsto dal TU privacy è ulteriormente specificato in relazione alla reputazione (si è aggiunto altresì il concetto di “immagine” mutuato forse più dal linguaggio mediatico che dai termini del nostro codice penale) e si è aumentata la pena. Si è aggiunto in modo ridondante il richiamo all’art. 51 c.p. e si è ripresa la formula della scriminante già contemplata nella legge delega (utilizzo in un procedimento amministrativo o giudiziario non più richiamando il diritto di cronaca o di difesa – evidentemente assorbiti nella previsione dell’art. 51 c.p.). Rispetto alla previsione generale dell’art. 167 TU privacy la disciplina speciale del 617 septies c.p. reca un comprensibile inasprimento della pena, ma una incomprensibile procedibilità a querela, laddove la più mite norma generale del TU privacy prevede invece la procedibilità d’ufficio.
2) art. 2 bozza decreto delegato - disciplina delle conversazioni contenenti dati sensibili e delle conversazioni irrilevanti
Il legislatore delegante introduce un particolare onere di vigilanza in capo al P.M. sul trattamento dei dati sensibili raccolti nelle intercettazioni e identificati dall’art. 4 lett. d) del TU privacy. Non è inutile ricordare il testo di legge definitorio. “d) "dati sensibili", i dati personali idonei a rivelare l'origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l'adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonche' i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale”. Ora, è evidente che in alcuni ambiti investigativi i soggetti bersaglio delle captazioni produrranno un flusso ininterrotto di “dati sensibili”. Non si può certo intercettare un politico senza aspettarsi di raccogliere continuamente informazioni sulla sua adesione a partiti o associazioni politiche; non si può condurre un’indagine sullo sfruttamento della prostituzione o sulla pedopornografia senza raccogliere un flusso ininterrotto di dati sulla vita sessuale dei soggetti intercettati. Ciò che normalmente è presidiato dal legislatore penale, sensibile alla tutela della riservatezza, è il trattamento di dati personali in violazione di legge, con nocumento per l’interessato o profitto per l’autore. Qual è la ratio di differenziare il regime del trattamento delle captazioni in ragione della classificazione “sensibile” se pacificamente l’informazione è pubblica e non comporta alcun danno reputazionale ?
La norma che il legislatore delegato intenderebbe introdurre all’art. 268 comma 2 bis c.p.p. prevede due differenti casi di divieto di trascrizioni, anche sommarie, di conversazioni. Per collocazione, immediatamente susseguente al comma 2 dell’art. 268 c.p.p., la norma parrebbe riferirsi ai c.d. “brogliacci” di PG ivi contemplati.
La norma vieterebbe sia la trascrizione di conversazioni “irrilevanti ai fini delle indagini”, sia la trascrizione di conversazioni riguardanti dati personali definiti “sensibili” dalla legge. Ma qual è il senso di vietare alla PG sistematicamente la trascrizione di qualsivoglia conversazione nella quale appaia manifesta l’adesione ad un partito politico di un assessore eletto nelle liste di quel partito? Potrebbe aver un senso vietare la trascrizione delle conversazioni da cui si desumono gli accordi di un assessore con un partito differente dal suo, in quanto potrebbero comportare un danno reputazionale. In sintesi la censura aprioristica di qualsivoglia conversazione in cui si trattano dati sensibili sembra del tutto irragionevole, essendovi già un divieto generale di trascrizione di conversazioni irrilevanti.
Il differenziato regime fra dati sensibili e altri dati si ripresenta all’art. 268 comma 2 ter c.p.p. E’ infatti prevista la possibilità di un successivo intervento del P.M. che disponga comunque la trascrizione della conversazione non trascritta dalla P.G., motivando espressamente con decreto, nel primo caso sulla rilevanza, nel secondo caso, oltre che sulla rilevanza, sulla “necessità ai fini della prova”. Sfugge il senso di una conversazione che sia rilevante ma non necessaria ai fini della prova.
In sintesi la duplicazione delle categorie e dei regimi non è in ultima analisi sensata ai fini della tutela della riservatezza degli indagati e dei terzi interessati. Il contro limite ragionevole all’esigenze di accertamento della verità processuale pare unicamente quello della “rilevanza”.
Ma lo stesso concetto di “rilevanza” ci colloca abitualmente in una fase procedimentale del tutto differente innanzi ad un giudice terzo. Il legislatore anticipa questo vaglio, affidandolo invece nella sostanza alla P.G. sotto il controllo e la responsabilità del P.M., essendo per altro arduo individuare fin dal primo momento dell’ascolto in diretta la “rilevanza” delle conversazioni in quanto l’indagine è un tipico contesto dinamico. La rilevanza si comprende spesso al termine dell’iter investigativo. Le conversazioni a volte di decine e decine di utenze, affidate all’esame iniziale di squadre di ufficiali di P.G., può essere valutata dal P.M. solo alla conclusione della fase di raccolta degli elementi di prova. La mancata trascrizione iniziale, e financo la mancata indicazione anche del solo oggetto delle conversazioni, affida alla sola polizia giudiziaria il vaglio che per legge competerebbe all’Autorità Giudiziaria, alla quale sarebbe in pratica interdetta una diversa valutazione, se non attraverso l’ascolto personale di ore di conversazioni. A ciò si aggiunga che i casi, conosciuti dalla cronaca, delle più clamorose e nocive indebite diffusioni di intercettazioni riguardano conversazioni non oggetto di trascrizione nei c.d. brogliacci. Sicché l’intera disciplina, centrata sulla limitazione del contenuto dei brogliacci di P.G. e sullo snodo dell’udienza filtro di selezione delle conversazioni rilevanti, non appare esattamente calibrata allo scopo.
3) il divieto di integrale trascrizione della conversazione intercettata in sede di richiesta e ordinanza cautelare
La disciplina contemplata dall’art. 3 del legislatore delegato appare viziata da eccesso di delega, non essendo previsto in alcuna parte della legge delega il divieto di riproduzione integrale delle conversazioni nei provvedimenti giurisdizionali ed essendo per altro oggettivamente dubbio che le parafrasi e le circonlocuzioni siano preferibili alla fedele riproduzione delle prove raccolte ai fini dell’accertamento dei fatti di reato e delle personali responsabilità.
4) la disciplina delle intercettazioni ubiquitarie tramite captatore informatico c.d. “trojan”.
L’art. 1 comma 84 lett. e) delle legge delega e l’art. 4 della bozza del decreto attuativo sono dedicati alle intercettazioni fra presenti mediante captatori informatici. Come noto, la problematica è stata recentemente oggetto di una importante pronuncia della Corte di Cassazione a SU (Cass., sez. un. pen., sent. 28 aprile 2016 (dep. 1 luglio 2016), n. 26889, Pres. Canzio, Est. Romis, Ric. Scurato. La Suprema Corte, nell'affrontare la questione "Se - anche nei luoghi di privata dimora ex art. 614 c.p., pure non singolarmente individuati e anche se ivi non si stia svolgendo l'attività criminosa - sia consentita l'intercettazione di conversazioni o comunicazioni tra presenti, mediante l'installazione di un "captatore informatico" in dispositivi elettronici portatili (ad es., personal computer, tablet, smartphone ecc.)" ha dato risposta affermativa "limitatamente a procedimenti relativi a delitti di criminalità organizzata, anche terroristica (a norma dell'art. 13 d.l. n. 152 del 1991), intendendosi per tali quelli elencati nell'art. 51, commi 3-bis e 3-quater, c.p.p., nonché quelli comunque facenti capo a un'associazione per delinquere, con esclusione del mero concorso di persone nel reato".
Contrariamente all’autorevole arresto giurisprudenziale, la nuova disciplina è centrata sugli artt. 51 comma 3 bis e 3 quater c.p.p. piuttosto che su tutti i reati associativi, nei quali, per natura, è immanente al ritrovo degli associati lo svolgimento dell’attività criminosa e quindi l’attualità della condotta criminale nel luogo monitorato.
Fra i reati di maggior allarme sociale di competenza distrettuale inseriti nei cataloghi previsti dai citati commi dell’art. 51 c.p.p. ci sono anche le associazioni finalizzate alla contraffazione dei marchi, forse non più temibili di quelle finalizzate alla corruzione o alla turbata libertà degli incanti. Orbene la novella preclude la decretazione d'urgenza del Pubblico Ministero al di fuori dei casi previsti dall’art. 51 comma 3 bis e quater c.p.p., in contraddizione con l’ampliamento dei presupposti per attivare le intercettazioni nei reati contro la pubblica amministrazione, previsto dalla legge delega e recepito dal legislatore delegato. L’attuazione della riforma, sul punto verrebbe quindi a limitare l’utilizzo di mezzi di ricerca della prova attualmente esperibili, giusta l’attuale quadro normativo autorevolmente interpretato dalle sezioni unite della Suprema Corte.
Si pensi infatti ad un incontro organizzato all'ultimo momento in un luogo previsto dal 614 c.p. ove degli associati per delinquere si debbano accordare sulle modalità di un pagamento corruttivo. Normalmente in tali casi si interviene con decretazione d'urgenza. Si è in presenza di un luogo di privata dimora ma c'è un'attività criminosa in atto. Ipotizziamo, come di frequente avviene, che non si abbia il tempo o la capacità tecnica di "ambientalizzare" il locale. In questo caso il captatore informatico potrebbe servire alla bisogna.
La novella non lo consentirà, essendo interdetto al PM disporre con decreto d’urgenza l’intercettazione tramite captatori informatici laddove non proceda per uno dei reati contemplati negli elenchi dell’art. 51 commi 3 bis e 3 quater c.p.p.
Stefano CIVARDI
Sostituto Procuratore della Repubblica- Milano.
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