ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Oscar Magi. Un giudice con la faccia da uomo.
Ho iniziato a lavorare in questo Palazzo di Giustizia di Milano nel luglio del 1978.
Venivo da un anno, o quasi, di lavoro in Banca d’Italia presso la sede di Bergamo.
Avevo passato il concorso mentre lavoravo in banca , studiando per l’orale dalle 5 del pomeriggio fino a notte inoltrata : studio matto e disperatissimo che mi consentì, a fatica, di superare un orale ostico e difficile ; dal 15° posto scivolai al 184° , e dovetti accontentarmi della sede di Milano, che era considerata sede disagevole ( sic !).
Erano gli anni del terrorismo che insanguinava piazze e strade d’Italia con uno o più morti al giorno e nessuno voleva venire a presidiare gli uffici milanesi.
Il mio primo incarico fu alla sesta sezione penale come giudice a latere.
Il mio primo presidente fu Generoso Petrella , grande giurista ed ex deputato del PCI, uomo di immensa cultura ma anche di grande fragilità umana : era un alcoolista e talvolta arrivava in ufficio con lo sguardo alterato di chi ha passato una notte insonne a bere.
Nonostante questo fu un maestro attento e severo : devo a lui l’insegnamento primario sulla scrittura delle sentenze , cosa non semplice per un giovanissimo magistrato alle prime armi, come allora ero.
Strinsi una fraterna amicizia con Massimo Maiello, componente anche lui della sezione , napoletano come me e con un percorso umano molto simile al mio, amicizia che è rimasta ferma negli anni e che dura tutt’ora.
Dopo solo un anno e mezzo di lavoro alla sesta, fui trasferito d’ufficio all’Ufficio Istruzione del Tribunale, che aveva una grande carenza di magistrati: fu una sorta di deportazione di massa ( fummo trasferiti tutti i giovani magistrati arrivati a Milano in quegli anni , io, Maiello, Veronelli, Elena Riva Crugnola, Laura Laera, Renato Bricchetti, e molti altri) che consentì ai “ vecchi” dell’ufficio di occuparsi delle istruttorie più complesse e difficili, tra cui quelle per i reati di terrorismo .
Tra i “ vecchi” o presunti tali c’erano Giuliano Turone, Gherardo Colombo, Bruno Apicella, Matteo Mazziotti, Pizzi, persone tutte che hanno legato il loro nome ad inchieste fondamentali per la vita della Repubblica : la scoperta delle liste della P2 nel “ covo” di Castiglion Fibocchi, il Banco Ambrosiano, la morte di Sindona,il finto suicidio di Calvi, i processi contro le BR ed i vari gruppi armati che popolavano lo spazio dell’allora extrasinistra.
Tra tutti, spiccava Guido Galli, che era stato mio giudice affidatario nell’uditorato e che fu ucciso nel maggio del 1980 mentre si recava nell’aula dell’Università Statale dove avrebbe dovuto tenere la sua lezione di diritto.
L’uccisione di Guido Galli fu uno spartiacque umano e politico di grande rilevanza, per me come per molti altri : Guido era un uomo gentile e riservato, dedito al lavoro in modo indefesso, ma nello stesso tempo pieno di umanità e di disponibilità assolute ; era un giudice “ progressista” e democratico , attento alle garanzie come pochi, e venne ucciso proprio per questo.
Era necessario, per l’ideologia distorta e criminosa di chi lo fece, uccidere proprio chi era un simbolo di democrazia e di progresso , per dimostrare che “ lo Stato borghese si abbatte e non si cambia”.
Follie estremiste , nutrite di ideologia barbara e fanatica, che costrinsero molti tra noi ( ed io tra questi) a guardarsi allo specchio ed a fare una scelta di campo netta ed inequivocabile, contro la violenza cieca che non aveva e non poteva avere alcuna giustificazione di alcun genere, anche se proveniva da un terreno ideologico nutrito di comuni radici di sinistra.
Ero e sono rimasto un “ giudice a sinistra”, aderente fin dal primo momento a Magistratura Democratica , senza se e senza ma, come si dice, ma non ho mai dato, nemmeno lontanamente, alcuna giustificazione alle torsioni barbariche di violenza e sopraffazione che , in quel periodo, aleggiavano sottotraccia in molti della cosiddetta sinistra extraparlamentare.
Ho sempre creduto molto fermamente nella “ politicità” della giurisdizione, e nella necessità di coltivare quel “ garantismo dinamico” che consentì, in quei difficili anni, di interpretare le norme in modo aderente alla nostra Costituzione e, in particolare, ai principi e valori nella stessa codificati , ma non ho mai coltivato nessuna posizione politica preconcetta ( o addirittura partitica) al fine di torcere in modo improprio il significato del mio lavoro di giudice.
Ho coltivato, questo sì, l’equilibrio e l’attenzione spasmodica alla vita delle persone che ho dovuto giudicare , cercando di rispettare il loro vissuto e cercando di giudicarli con equità e umanità: non so se ci sono riuscito, ma spero di sì.
In ogni caso il lavoro presso l’Ufficio Istruzione di Milano, che si protrasse fino al 1989, inizi 90, fu un lavoro meraviglioso ed interessante : il giudice istruttore era una figura, ormai scomparsa dalla giurisdizione a far tempo dall’introduzione del nuovo codice di procedura penale nel 1989, che racchiudeva dentro di sé la capacità di investigare e quella di decidere , cose , a mio parere, non del tutto confliggenti; ci arrivava il fascicolo processuale dopo 40 giorni di istruttoria sommaria del PM, con un capo di imputazione e delle richieste istruttorie , ma poi eravamo noi a decidere cosa fare, quando farlo, come farlo , per cercare di arrivare ad una prima definizione di una verità processuale che sarebbe poi stata consacrata in dibattimento. Dopo l’ordinanza di rinvio a giudizio.
Consentitemi di spendere un ricordo commosso nei confronti di quella figura processuale, che sarebbe poi stata sostituita (a mio parere del tutto insufficientemente) da quella del GIP/GUP.
Ho visto, nel corso di quegli anni, cose che voi umani nemmeno immaginate (perdonate la citazione cinematografica): la scoperta, nella villa di Castiglion Fibocchi, delle liste Gelliane della P2, le indagini sul fallimento del Banco Ambrosiano dopo l’uccisione di Ambrosoli, le indagini sul finto suicidio di Calvi a Londra , e molte altre che fanno ormai parte dei libri di storia non solo giudiziaria; indagini che dubito fortemente si sarebbero svolte senza la fondamentale partecipazione dei giudici istruttori che se ne sono occupati.
Io, molto più modestamente, mi occupavo di rapine, di omicidi, di infortuni sul lavoro ma svolgevo il mio compito con attenzione ed accuratezza, nei limiti dell’allora possibile.
Dovete considerare che , nei primi anni, non avevo nemmeno una macchina da scrivere elettrica , e che la mia segretaria di allora batteva a macchina i documenti inserendo la carta copiativa tra i fogli , per poter avere un numero sufficiente di copie da poter utilizzare nel fascicolo per le parti.
Non solo l’utilizzo del computer era molto al di là da venire, ma anche le fotocopiatrici arrivarono tardi e, all’inizio, non è che funzionassero con la dovuta precisione.
Insomma si lavorava alacremente, con i modesti mezzi che l’allora amministrazione ci concedeva.
Legai il mio nome, insieme a quello di Massimo Maiello, ad una inchiesta molto particolare che venne svolta nel corso degli anni 86/88 da una formidabile ispettrice della Questura di Milano, Stefania De Bellis, incanalata giuridicamente dal PM Corrado Carnevali, e portata a compimento da noi giudici istruttori: parlo del procedimento penale per il reato di riduzione in schiavitù ( l’ex art. 600 del CP) , rubricato nel dopoguerra da noi per la prima volta nei confronti di alcuni componenti di famiglie ROM che avevano preso la criminosa abitudine di rapire o farsi consegnare ragazzi e ragazze minori nelle loro terre d’origine e di portarli in Italia , costringendoli poi, con l’uso costante di violenze e minacce, a rubare ; ovviamente il risultato di quelle ruberie finiva in tasca degli adulti che così si garantivano introiti mensili anche milionari .
I ragazzi schiavizzati venivano soprannominato “ argati” che, in lingua italiana significa “ bambino rapito e costretto al furto” , ma che trae la propria origine lessicale da una parola slava che vuol dire “bambino servo “ in aderenza alla parola “ gasda” che vuol dire padrone .
Gli episodi di sfruttamento minorile che riuscimmo a contrastare ed identificare furono numerosissimi, tanti da far pensare ad una vera a propria “ tratta” di minori dalla ex jugoslavia in Italia : il tutto, come ho detto e ripeto, per la bravura e la pazienza dell’ispettrice De Bellis che riuscì, per la prima volta in Italia, a conquistare la fiducia dei piccoli “ argati” facendosi narrare le terribili condizioni di vita a cui erano sottoposti ed a far fare loro i nomi degli sfruttatori, che furono tutti arrestati e poi condannati dalla Corte d’Assise di Milano ( giudice estensore di una sentenza molto bella fu Giuliano Turone).
Fu una bella pagina di lavoro giudiziario che ci portò, per la prima volta, agli onori delle cronache : ricordo con piacere, tra l’altro, una lunga intervista in lingua inglese da me fatta ad una bellissima giornalista americana di cui non ricordo il nome, che fu proiettata su un canale televisivo degli USA e di cui conservo una vecchia cassetta VHS ( che non riesco più a leggere per la vetustà della mia attrezzatura tecnica!).
Non che finire in televisione fosse il mio scopo primario, tutt’altro; ma devo ammettere che mi fece piacere l’interesse internazionale per il mio lavoro e comunque la sua ricaduta mediatica.
Sul rapporto tra mass media e giustizia ci sarebbe da scrivere molte pagine , sicuramente più approfondite di questa mia piccola ricostruzione di memoria : dico solo che, talvolta, la ricaduta mediatica del lavoro del giudice è inevitabile e bisogna farci il callo; non cavalcarla, ma nemmeno evitarla come la peste , perché fa parte di quel più vasto concetto di pubblicità del lavoro del giudice e quindi di controllo democratico sul suo lavoro.
Il giudice non deve in nessun modo utilizzare il suo lavoro per farsi pubblicità o comunque per solleticare il suo narcisismo personale e professionale, ma, nel momento in cui il suo lavoro interseca situazioni mediaticamente “ sensibili” non deve nemmeno essere restio ad affrontarle in modo corretto e funzionale , spiegando, se del caso, il suo percorso giuridico ed accettando le sue ricadute mediatiche.
Perlomeno così io la penso e così l’ho sempre pensata: il lavoro di un giudice deve poter essere conosciuto e giudicato da parte del vasto pubblico che popola la scena contemporanea , vuoi la stampa, vuoi il cd. popolo ; ed il giudice deve saper accettare anche le critiche sul suo lavoro, sempre che, naturalmente, esse siano sviluppate in modo corretto ed appropriato.
Ma di questo parleremo poi, in modo più approfondito.(vedi nota finale n.1).
***
Agli inizi degli anni 90 sono diventato GIP: in realtà tutti ( o quasi) i componenti dell’ufficio istruzione furono tramutati, ope legis, in GIP; la figura del giudice istruttore si spense lentamente , in quanto solo alcuni colleghi furono prorogati al fine di esaurire le istruttorie ancora in corso , ma la funzione di Istruttore si esaurì con l’avvio del nuovo codice di procedura penale.
All’inizio, devo dire con franchezza, il nuovo lavoro non mi piaceva per nulla : il GIP era una sorta di giudice a gettone , nel senso che prendeva contezza del fascicolo del PM solo quando il PM stesso decideva di chiedere una misura cautelare , ovvero una proroga delle indagini, ovvero ancora un decreto di intercettazione telefonica ; ma il “ core business” del fatto e della relativa indagine apparteneva del tutto al PM, che la gestiva nel modo in cui voleva , senza alcun intervento da parte del giudice.
Poi, piano piano, le funzioni del GIP/GUP si sono un po’ allargate , ma , a mio parere, non hanno mai veramente avuto la puntualità e la precisione di quelle del vecchio giudice istruttore.
In ogni caso me ne feci ( ce ne facemmo ) presto una ragione: il nuovo lavoro era quello e bisognava svolgerlo con la necessaria attenzione e competenza.
Erano gli anni di “ Mani Pulite” , la famosa inchiesta del pool della procura di Milano che sconvolse, per molto tempo, la vita giudiziaria e politica del paese , alterando (secondo alcuni) l’equilibrio tra giudiziario e politico , consentendo, ( secondo altri) una sorta di piccola rivoluzione italiana che spazzò via , perlomeno per un po’, la corruzione dalla vita del paese.
Sono stato per più di un anno il GIP referente del pool “ Mani pulite” e, naturalmente nel mio piccolo, so di cosa si parla : ho emesso decine di misure cautelari nei confronti di amministratori, di politici, di imprenditori, misure che ( credo) di aver ben motivato e che trovavano una ragione nella gravità dei fatti contestati e nella loro diffusa pervasività sociale.
Ho personalmente interrogato tutte le persone che facevo arrestare e nei confronti di nessuna ho preteso che confessassero i fatti contestati al fine di ottenere una scarcerazione; se lo facevano ( e cioè confessare i fatti e, magari chiamare in correità altre persone ) ne prendevo atto e, se del caso, le scarceravo, a fronte della sopravvenuta inesistenza di esigenze cautelari.
Non posso dire, naturalmente, che tutti i colleghi, in tutta Italia, facessero così : ci sono probabilmente state delle forzature e, naturalmente, degli errori ; i giudici sono uomini e, come tutti gli uomini, possono sbagliare.
Ci sono, nel processo italiano, molti modi di evitare gli errori o comunque di porvi rimedio : ricorso al Tribunale del Riesame, processo di primo grado, appello, Cassazione .
Siamo, giudiziariamente parlando, un paese democratico in cui le garanzie difensive vengono prese sul serio, e, talvolta, sono perfino sovrabbondanti .
Il periodo storico che va dal 1992 al 1998 ( più o meno ) è stato una prova difficile , sia in termini giuridici che in termini più latamente umani o politici : un sistema basato sulla ( neanche tanto) sotterranea corruzione del mondo politico ed imprenditoriale è stato rivoluzionato per la prima volta in Italia , con effetti molto significativi sulla vita di tutti.
Non posso dire, con il senno di poi, che questo sia stato soltanto un bene : nessun fenomeno sociale di tipo criminoso può essere combattuto e battuto solo con lo strumento dei processi , pure necessari; al giorno d’oggi la corruzione ha trovato altri modi di essere ed altri canali di attraversamento della società ed è ben lungi dall’essere battuta; e tuttavia , ripeto, dinanzi ad un fenomeno sociale così pervasivo ed esteso ( in Italia la corruzione, secondo gli standard di controllo di molti enti sovranazionali, raggiunge livelli da paesi del terzo o quarto mondo !) credo che il processo penale abbia una funzione decisiva e, nello stesso tempo, simbolica . Ovviamente nel rispetto di tutti i parametri legislativi che impongono la necessaria rilevanza della difesa delle persone imputate ed il loro diritto ad essere giudicate in tempi ragionevoli.
Sui “ tempi ragionevoli” e sulla durata dei processi penali si potrebbero e dovrebbero spendere molte e ragionate parole , anch’esse incompatibili con questa mia breve ricostruzione della mia vita professionale : dico solo che la cronica carenza di mezzi e di risorse per la giustizia , facendo da sponda al sistema delle prescrizioni , ha impedito ed impedisce tuttora un rispetto sostanziale della pur necessaria ragionevolezza della durata degli stessi; dopo 42 anni di lavoro andrò in pensione senza che questo obiettivo sia stato, finora, realizzato.
Speriamo nel futuro, ma, consentitemi di dire che non sono particolarmente ottimista: siamo un paese in cui è, ormai, normato qualsiasi comportamento che abbia una seppur minima rilevanza penale , dalla guida in stato di ebbrezza all’omicidio , un paese di mafie, piccole e grandi, di corruzioni, piccole e grandi, di evasioni fiscali, piccole e grandi, di oltre duecentomila avvocati, e qualche migliaio di giudici fanno e faranno sempre fatica a gestirne l’impatto giudiziario in tempi “ragionevoli”.
***
Nel 1996, su mia domanda, fui trasferito alla sesta sezione penale del Tribunale , ove ritrovai il mio amico Massimo Maiello, più altri valorosi colleghi ( Gaetano La Rocca, Daniela Guarnieri ed altri).
Il mio Presidente fu, per un lungo periodo Edoardo D’Avossa , di origini salernitane, ma ormai trapiantato a Milano da molti anni : un giudice infaticabile ed esperto ( non solo di diritto, era stato campione italiano di bridge) , sotto la cui guida ho imparato tantissimo ; in particolare ho imparato a gestire il dibattimento penale che, con il nuovo codice, richiedeva nuove e diverse abilità professionali rispetto al precedente.
Nel “ nuovo” dibattimento penale in udienza si arrivava con un decreto del GUP riportante il capo di imputazione ed una sommaria ( molto sommaria) motivazione che, sostanzialmente, riportava le emergenze probatorie a carico dell’imputato; il fascicolo era completato dal certificato penale dell’imputato e da pochissimo altro (decreti di sequestro, ove presenti): la situazione era sostanzialmente molto diversa da quanto accadeva con il codice precedente , ove la ordinanza di rinvio a giudizio del giudice istruttore era , in qualche modo, già una sorta di sentenza di condanna .
“La prova si forma in dibattimento”, era la frase che ci sentimmo ripetere fino allo sfinimento nelle sessioni di studio del nuovo codice: l’esame dei testi , dei periti, dei consulenti, degli imputati e delle parti lese, avveniva con lo strumento processuale della “ cross examination”, formula mutuata dal diritto anglosassone, che, in ultima analisi, consentiva alle parti di poter esaminare e controesaminare gli attori dell’istruttoria dibattimentale , al fine di poter ottenere una verità processuale più adeguata.
Buona o meno che fosse o che sia stata questa innovazione, tutto questo comportava che il Presidente in primis, ed in secundis tutti gli altri giudici a latere, tenessero una attenzione spasmodica allo svolgersi del contraddittorio, garantendo la legittimità delle domande e la correttezza delle risposte; in breve, come disse mirabilmente il mio amico Massimo, si passò dall’attenzione allo studio preliminare delle carte processuali a casa ,all’”attenti in classe” del nuovo codice.
Intendiamoci, non che lo studio delle carte non fosse importante , ma quello che “accadeva” in dibattimento lo era di più e non consentiva deroghe di attenzione.
Questo, naturalmente, volle dire dibattimenti molto, ma molto, più lunghi di quelli di una volta , e processi che, in certi casi, duravano anche anni.
Con Edoardo D’Avossa alla sesta penale ( e con Gaetano La Rocca, Daniela Guarnieri, Massimo Maiello), ho affrontato ( e talvolta scritto) sentenze memorabili: giova qui ricordare la “ prima “ sentenza Berlusconi per la vicenda dell’acquisto della società Medusa , conclusa con la condanna in primo grado ( e l’assoluzione in appello) ad un anno ed otto mesi di reclusione ( pena interamente condonata) , condanna che mi costò, per la motivazione, l’intero periodo delle vacanze natalizie , con grande gioia dei miei familiari; o anche la sentenza di assoluzione per una vicenda che vedeva coinvolti un padre, fotografo famoso, una madre, modella famosa, ed una figlia di otto anni : il padre era accusato di abusi sessuali nei confronti della figlia , ma l’istruttoria dibattimentale dimostrò, senza ombra di dubbio, la sua innocenza; anche per questo caso scrissi una lunga ed attenta motivazione che ebbe gli onori delle cronache , in virtù, certamente, della notorietà delle parti in causa, ma soprattutto di una sorta di “ decalogo” probatorio che avevo elencato nella sentenza per evidenziare i “ paletti” che l’accusa avrebbe dovuto seguire e che, nel caso, non erano stati seguiti.
Ricordo, anche oggi con un certo stupore, che il PM che aveva istruito il caso non mi parlò per vari mesi , a motivo di ciò che era scritto nella sentenza.
Per fortuna con il collega poi ci chiarimmo e tornammo ad essere amici come prima.
Last, but not least, con il collegio D’Avossa , seguimmo il caso ( e pronunciammo una ciclopica sentenza) di Florio Fiorini e del fallimento della SASEA Holding, società capofila di una miriade di altre , che era fallita trascinando con sé una rilevante quantità di risparmiatori e di creditori : il caso SASEA ci tenne impegnati per mesi e costò al Presidente D’Avossa una motivazione di oltre 600 pagine ed a me ed al terzo a latere Gaetano La Rocca, una specie di crisi depressiva multipla.
Insomma, fu un periodo molto bello di lavoro duro e continuo, periodo in cui iniziai a dirigere il dibattimento come presidente e non più solo come giudice a latere.
Ho fatto il presidente del collegio penale in primo grado per più di venti anni, prima di passare a dirigere una corte d’appello, e quindi, come dire, sono esperto in materia.
Dirigere un dibattimento penale è un lavoro difficile : tanto per usare una metafora teatrale , sei non solo uno dei primi attori, ma anche il regista dello spettacolo .
Niente assomiglia più al teatro che il processo penale, e non soltanto perché i suoi protagonisti si chiamano “ parti” , parola che in gergo teatrale ha un significato ben preciso ( “ che parte fai nello spettacolo?, ah, una buona parte!”), ma per la funzione che il processo ( e, in particolare il dibattimento) ha , funzione ripetitiva e ricostruttiva dei fatti reali , accaduti, magari, molti anni prima, e “raccontati” nel processo da quelli che ne sono stati gli “ attori”.
Certo, il processo penale ha una struttura rigida , richiede un rispetto delle forme che il teatro possiede fino ad un certo punto, ma dentro quella struttura “ accadono” vicende di vario e multiforme genere, che costituiscono, molto spesso, dei veri e propri “ plot” teatrali.
Tanto per fare un piccolo esempio, ricordo, una volta, mentre ero di turno per il giudizio di convalida degli arresti e direttissime , che mi portarono davanti un piccolo ometto piuttosto “ male in arnese” che era accusato di quello che in gergo giornalistico si chiama “stalking” , e che, in diritto, viene contemplato dall’art. 612 bis del codice penale , e cioè atti persecutori; reato grave, bene inteso, ma che, nel caso era stato esercitato nei confronti di una attempata prostituta di origine pugliese di cui non ricordo il nome . In particolare il signore in questione, essendo, a suo dire, innamorato follemente della signora , la seguiva ogni sera in auto sul, diciamo, suo posto di lavoro e si manteneva fermo davanti a lei per evitare che la stessa potesse essere abbordata da altri signori di passaggio e potesse così effettuare il suo servizio lavorativo ; cosa che, a lungo andare, aveva causato la palese irritazione della suddetta , e la conseguente denuncia.
Già, fin qui, la storia, come si può vedere, ha i caratteri assoluti della pochade, e meriterebbe di essere raccontata; ma la cosa più bella di tutte accadde quando il signore imputato , a domanda del suo giudice ( e cioè io), disse il suo nome: “ dottore mi chiamo Libertino Tenace, Libertino di nome, Tenace di cognome “!!
Non sto a raccontare l’ondata di risate che pervase, per qualche minuto buono, l’aula delle direttissime , ma vi assicuro che fu memorabile e mi costrinse, anche facendo forza su me stesso, a richiamare l’ordine in aula, che, per una volta, non vide solo lacrime e grida di dolore.
Insomma la storia di Libertino Tenace fece il giro di Palazzo di Giustizia e, come potete ben immaginare, divenne uno dei tanti aneddoti che costellano ed hanno costellato la vita giudiziaria del Tribunale di Milano.
Ma, tornando a noi, come dicevo la direzione del collegio penale , oltre ad essere un buon esercizio del mestiere di regista ( mestiere che ho anche esercitato nella vita residua) , ha costituito un grande banco di prova per la mia professione e per la mia vita in genere.
Dirigere un dibattimento penale richiede polso fermo, attenzione esasperata, capacità di dialogo , buona cultura giuridica, intelligenza delle situazioni e molto altro: il presidente del collegio deve essere un punto di riferimento e di garanzia per tutte le parti processuali e deve essere capace di gestire con duttilità e rigore anche ( e soprattutto) i rapporti con gli altri membri del collegio .
Quante volte capita di non essere d’accordo su valutazioni importanti, che decidono, nel bene e nel male, la vita delle persone imputate ed anche quella delle parti lese; quante volte occorre la capacità di mediare tra posizioni differenti, al fine di riuscire a trovare un “decisum” comune che sia il più aderente possibile alla verità processuale.
Sembra, nell’esporlo sulla carta, una cosa semplice, ma non è così: ci sono giudici innamorati della loro cultura ( presunta) e delle loro convinzioni , che non riescono a mettere in dubbio quanto già da loro ritenuto , giudici con cui bisogna avere pazienza e tenacia per riuscire a scalfire la roccaforte dietro cui si nascondono, e ci sono altri giudici che non riescono a prendere una posizione precisa, che sono incapaci di decidere con nettezza e convinzione , giudici che vanno aiutati a scavare dentro di sé ed a capire quello che c’è da capire.
E ci sono le proprie convinzioni i propri pregiudizi, le proprie simpatie ed antipatie , che vanno ,tutti e tutte, combattute senza pietà, in nome del rispetto di quella verità processuale che si dispiega davanti a noi durante un processo.
Giudicare è un esercizio difficile , di pazienza, di attenzione, di intelligenza, di compassione , in cui non bisogna mai dimenticare la propria ed altrui umanità, pur nel rispetto del necessario rigore della legge.
Molte volte mi sono chiesto ( ed ancora mi chiedo) se sono stato un giudice degno di questo nome, e, sebbene le risposte che mi dò siano abbastanza rassicuranti, non ne ho mai avuto l’assoluta certezza.
Questo che sto scrivendo non è un trattato di diritto penale o di procedura, è una narrazione molto personale di un’esperienza lavorativa lunga e difficile , che ha avuto momenti alti e meno alti, ma che si è sempre nutrita del dolore e della fatica del decidere: ad altri il compito di analizzare storicamente gli eventi che, in controluce, descrivo , o di giudicare il mio lavoro di giudice ; io mi limito a raccontare quello che mi è successo in questi anni, le ripercussioni emotive che tutto questo ha comportato, le mie personalissime sensazioni.
E comunque, continuando la narrazione della mia esperienza presidenziale, prima alla sesta sezione penale, poi alla quarta, devo innanzitutto ricordare la conduzione ( e poi la scrittura della motivazione) del processo cd. “Africa” e cioè “ Aiuto + 81”, iniziato nel lontano settembre del 1999 e finito ( dopo 129 udienze) l’11 dicembre del 2001 con la lettura del chilometrico dispositivo.
Un “ maxi procedimento” come si diceva ed ancora si dice, relativo al traffico internazionale di stupefacenti condotto da numerose organizzazioni criminali ( la mafia turca, quella albanese, quella egiziana, e, last but not least, la Ndrangheta calabrese nostrana), tutto tenuto presso una delle aule “ bunker” del Tribunale, insieme alle mie a latere di allora, Daniela Guarnieri e Anna Maria Gerli, con la presenza del PM Laura Barbaini.
Comminammo pene severe per alcuni secoli di carcere , all’esito di un dibattimento lunghissimo e ferocissimo, combattuto ( è il caso di dirlo) senza esclusioni di colpi tra il PM e le difese degli imputati.
La scrittura delle motivazioni ( tre volumi rilegati per un complessivo di 1295 pagine ) costò a me ed alle mie colleghe a latere tra mesi di lavoro durissimo, che ancora ricordo con un misto di stupore e di nostalgia.
Quando sento dire da qualcuno che i giudici non lavorano abbastanza per meritare il loro “lauto” stipendio , mi viene uno sbocco di rabbia e vorrei avere con me i tre volumi di quella sentenza per poterli tirare addosso al malcapitato ( ovviamente si fa per dire ).
Naturalmente non è sempre così , ci sono sentenze di patteggiamento che durano poco più di una paginetta e che richiedono, come è ovvio, un lavoro molto limitato: ma , è bene ricordarlo, i giudici in Italia lavorano tanto , ormai più sulla quantità che sulla qualità ( ma questo è un altro discorso) , producendo una mole impressionante di sentenze, ordinanze, decreti che, per legge ( ed anche questo è bene ricordarlo ) devono essere tutti e tutte motivate.
Questo, come si è già detto, non esclude errori o omissioni, ma esclude, senza dubbio, la pigrizia e la fannullagine .
E comunque alla quarta sezione del Tribunale di Milano ( ma anche prima, alla sesta) si lavorava molto sotto la attenta direzione del Presidente D’Avossa prima, poi della mia.
I processi da me gestiti come Presidente ( molti anche motivati con la sentenza), sono stati innumerevoli e non sto qui ad elencarli tutti. Ci vorrebbero decine di pagine, molto poco attraenti dal punto di vista del lettore: mi limito a ricordare il cd. processo “Sirchia”, dal nome del primo e più famoso imputato , ex ministro della salute; ed il processo “ Guarischi” relativo a corruzioni nel settore sanitario , processo che ha poi aperto la strada agli altri procedimenti contro Formigoni , ex governatore della Lombardia .
A proposito di corruzioni, concussioni, abusi d’ufficio et similia , va ricordato che la quarta sezione penale, da me diretta per quasi un decennio, si occupava preferenzialmente di questo tipo di reati contro la P.A. , e che, quindi, ho avuto modo di verificare con mano il livello di corruzione che albergava ( e che purtroppo ancora alberga) nel settore pubblico, in particolare quello della sanità : ho già detto cosa penso al riguardo; voglio solo aggiungere che la corruzione non è soltanto nei vertici del potere pubblico , ma che alligna con assoluta pervicacia anche nelle persone cc.dd. “ normali”, la “ gente” del dibattito mediatico , che poco quindi ha da scandalizzarsi nei confronti della presunta “ casta” , casta che riflette , e magari amplifica, un sentire comune della popolazione italiana.
E quindi il pesce, come si dice in gergo, non puzza solo dalla testa, ma da tutto il corpo: l’Italia è un paese profondamente e radicalmente corrotto , forse per ragioni storico/sociologiche che affondano le proprie radici nel “ familismo amorale” di cui tanti hanno parlato, o nella secolare sfiducia nella meritocrazia che ci affligge da molto tempo a questa parte.
Non so, non sono uno storico e nemmeno un sociologo, e quindi non ho risposte da dare in merito; posso solo dire che dal mio punto di osservazione ( certamente privilegiato) ho verificato che di corrotti, corruttori ed abusanti del proprio ufficio ce ne sono tanti e non tutti vestono la casacca del potere.
***
Vale la pena, ora, di raccontare la storia dei tre processi da me gestiti come giudice monocratico mentre ero alla quarta sezione penale del Tribunale , dal giugno del 2007 al dicembre del 2012: e cioè il processo per il rapimento di Abu Omar ( procedimento a carico di Adler Monica + 32); quello a carico del direttivo italiano di Google (procedimento a carico di Drummond David + altri), quello relativo alla vicenda dei “ derivati” ( procedimento a carico di Arosio Carlo + 16).
Tre processi che , per la loro rilevanza ( anche mediatica, ma non solo) e per la loro difficoltà hanno segnato in modo indelebile la mia attività di giudice , costituendo un “improvement” professionale ed umano molto significativo.
Come ho detto più volte , un giudice non dovrebbe mai trattare un processo ( ed un imputato) in modo più o meno approfondito a seconda della importanza che quel processo può avere a livello mediatico ; l’ho detto e lo ripeto; ma ci sono casi e circostanze che , in qualche modo, impongono al giudice che procede un livello di attenzione e di concentrazione più elevato del normale : questo non vuol dire che, in altri casi meno significativi, il livello di attenzione sia stato basso o superficiale , ma solo che, alcune volte, si è chiamati ad un compito più difficile del solito, e che questo compito va assolto con il massimo di professionalità possibile, attese anche le ricadute mediatiche del proprio lavoro.
Un giudice, in Italia, non vive in una sorta di torre d’avorio fatta solo delle illuminanti deduzioni o abduzioni proprie del diritto , ma vive in un tessuto sociale e culturale che impone un confronto continuo con la società tutta e quindi con una necessaria interlocuzione con ogni attore sociale.
Ovviamente questo non vuol dire che un giudicante debba piegarsi alle necessità economiche o sociali del paese, ma che però egli ne debba tener conto in modo attento , spiegando, con le proprie sentenze il proprio lavoro ed accettando anche le critiche che , inevitabilmente, gli vengono mosse.
In ogni caso il Processo per il rapimento di Abu Omar ( e cioè per la cd. “Rendition” dello stesso operata inequivocabilmente da agenti della C.I.A. in Italia) ha costituito una tappa fondamentale della mia vita professionale, ma non solo di quella : per molti mesi, oltre due anni dal giugno del 2007 al dicembre del 2009,ho vissuto una esperienza davvero irripetibile , sottoposto, tra l’altro, anche ad una sorta di tutela attenuata da parte della Prefettura di Milano , tutela che dava conto del livello di importanza del mio lavoro e, in un certo senso, anche della sua potenziale pericolosità.
Ricordo con nettezza la preoccupazione dei miei familiari quando la mattina andavo in ufficio in moto e quando dall’ufficio tornavo.
Ma, in fondo, questo non è stato l’elemento più significativo del tutto.
La verità è che per oltre due anni ho dovuto tener testa a richieste e pretese di uffici importanti ( la stessa Procura di Milano impersonata da due magistrati formidabili come Armando Spataro ed Enrico Pomarici), di avvocati egregi, di imputati “pesanti” ( il capo dei servizi segreti Italiani del periodo Nicolò Pollari,ed il suo vice Marco Mancini), di personaggi politici rilevanti ( l’allora capo del governo Silvio Berlusconi) , di ogni altro potere reale o presunto che avevano un interesse diretto o indiretto all’esito del procedimento.
Non è stato facile gestire e condurre a termine un processo di questa portata, gravato da vari conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato ( solo nei miei confronti ne sono stati sollevati due ) , conflitti solo in parte risolti dalla famosa sentenza della Corte Costituzionale n.106 dell’11 marzo del 2009.
Non starò qui a raccontare lo snodarsi della vicenda processuale e nemmeno il suo esito; chi è interessato potrà leggere le motivazioni della sentenza che contano circa 400 paginette molto fitte e molto piene di interessanti considerazioni e valutazioni.
Dico solo che il processo Abu Omar è stato ( a mia conoscenza) l’unico processo penale al mondo in cui sono state accertate responsabilità di agenti della CIA ( con inevitabili ricadute internazionali), per un’azione di “rendition” che l’allora governo USA utilizzava a man bassa nei confronti di veri o presunti terroristi, con significativo spregio delle regole giuridiche internazionali.
Il processo non potè ( come si sa) accertare eventuali responsabilità da parte di componenti dei servizi segreti italiani , pure chiamati a giudizio, a motivo dell’apposizione del segreto di Stato sui loro comportamenti da parte dei governi di allora ( Prodi, Berlusconi): non sta a me giudicare della effettiva sussistenza di quel segreto , in quanto la sentenza della Corte Costituzionale già richiamata impose una sorta di “ sipario nero” che non è stato possibile sollevare.
Dico solo che fu veramente strano, ed anche un po’ irreale, che un giudice italiano si sia potuto pronunciare sulla colpevolezza di comportamenti da parte di agenti di servizi segreti stranieri in Italia, e non di agenti italiani per la stessa vicenda materiale e processuale, ma, come dire, così è andata e non c’è modo di cambiare il finale di questa terribile vicenda.
In ogni caso devo sottolineare la bravura e la competenza dei pubblici ministeri di allora, Armando Spataro ed Enrico Pomarici, quest’ultimo mio giudice affidatario nel periodo di tirocinio, che è poi andato in pensione poco dopo l’esito di questa vicenda: per loro un saluto affettuoso ed un grande ringraziamento per aver vissuto con me questa avventura giudiziaria.
***
Non era ancora finito il processo ai rapitori di Abu Omar che mi arrivò, tra capo e collo, il processo al direttivo italiano di Google , processo iniziato in seguito ad una denuncia dell’Associazione Vividown, e relativo ad una vicenda di “ bullismo” materiale e mediatico subito da un ragazzo down in una scuola di Torino .
I ragazzi di una classe di quella scuola avevano pesantemente insultato e sottoposto ad angherie orribili un loro compagno e poi, non contenti, avevano “ postato” il video con cui si erano ripresi sulla piattaforma You Tube , posseduta da Google .
Il video ( classificato tra i video “ divertenti”) era rimasto diverse settimane visibile al mondo mediatico ed aveva raggiunto un numero elevatissimo di visualizzazioni, tanto da raggiungere il primo posto nella sua sezione.
Dopo varie segnalazioni Google aveva cancellato il video , ma, evidentemente, non tanto presto da evitare un pesante danno morale al ragazzo ripreso e sbeffeggiato che, insieme all’associazione Vividown, si era costituito parte civile nel processo.
Processo che, in termini di capi di imputazione, prevedeva una ipotizzata responsabilità dei direttivi di Google Italy per il concorso omissivo nel reato di diffamazione a mezzo stampa e di violazione della privacy.
Come si vede, una vicenda molto complessa e molto particolare: anche questa volta mi toccò trattare quello che in gergo giudiziar/giornalistico si chiama un “ leading case” , e cioè una vicenda mai tratta prima di allora nelle aule giudiziarie: perché, stavolta, non si trattava solo di giudicare ( cosa già avvenuta a Torino) i materiali autori del video che lo avevano poi caricato su internet, ma i “ providers” e cioè i padroni della rete che avevano permesso non tanto il caricamento del video stesso, ma la sua permanenza in rete per diverse settimane ed il suo utilizzo per il profitto degli stessi.
Forse, infatti, non tutti sanno ( o perlomeno sapevano ) che i video di You tube sono, per così dire, “ sponsorizzati” e cioè nel momento in cui cominciano ad avere numerose visualizzazioni, vengono “conditi” con i banner pubblicitari da cui Google ( o chi altro possieda il provider) deriva i suoi profitti ( non banali, si parlava di miliardi di dollari).
Una volta iniziato ( 3 febbraio2009), il processo non durò tanto a lungo come quello per Abu Omar, venendo poi trattato con il rito cd., abbreviato: ebbe il suo esito nel febbraio2010 con una sentenza che dichiarò colpevoli gli imputati ( tutti americani) per il solo reato di violazione della legge sulla privacy.
Inutile dire che anche questa sentenza ebbe delle ricadute internazionali molto rilevanti , tra cui una formale protesta fatta dagli USA per bocca della signora Clinton , allora ministro degli esteri.
Ma non solo: fui additato da una buona parte della stampa internazionale e nazionale come il carnefice della libertà di comunicazione in Internet , l’assassino ignorante della libertà di stampa , il prefetto che voleva mettere la mordacchia ai liberi pensatori della rete.
Ricevetti, sul mio account Facebook, migliaia di messaggi di protesta ( e, per la verità, anche alcuni di sostegno, ma pochi) a cui risposi personalmente cercando di spiegare il mio punto di vista: che cioè il mondo di internet non può essere una sorta di far west libero e selvaggio, senza norme che limitino la possibilità di nuocere e di commettere reati soprattutto ai danni di chi è più debole.
Per la verità la sentenza ebbe vita breve: le mie condanne furono, presto ed in fretta, cancellate in appello , cancellazione poi confermata dalla Cassazione.
Alcuni anni dopo venni a sapere che la Corte di Giustizia Europea aveva accolto il mio messaggio ritenendo la possibile responsabilità dei providers per quanto pubblicato sui siti a loro riferibili.
In ogni caso anche questa fu una esperienza molto significativa per la mia vita professionale : della sentenza “ Vividown” si parlò molto in corsi e seminari didattici e di studio e fui chiamato anche dal CSM a parlarne in un bellissimo incontro alla Scuola della Magistratura.
Tirando le somme si può dire che la comunicazione via Internet , con particolare riferimento alle esigenze di rispetto della privacy, ha avuto un prima ed un poi, con la mia sentenza a fare da spartiacque: credo sia legittimo sentirsene orgogliosi.(vedi nota n. 2)
***
Last, but not least, rimane da parlare della sentenza cd dei “ derivati” e cioè della vicenda relativa ad una ipotizzata truffa contrattuale subita dal Comune di Milano da parte di quattro tra le banche più famose del mondo ( Deutsche Bank, UBS, JP Morgan, Depfa) in relazione ad un evento di ristrutturazione di un debito del Comune stesso ed un conseguente contratto di Swap tra le parti.
Vicenda veramente complessa ed ad alta specializzazione, iniziata , come udienze, il 6 maggio del 2010 ed esaurita con la mia sentenza del 19 dicembre del 2012.
Il PM di Milano che gestì la vicenda, con encomiabile coraggio e determinazione, era il mio vecchio amico Alfredo Robledo, a cui anche dedico un pensiero affettuoso e non dimentico (nonostante le sue vicissitudini successive).
La vicenda, come ho detto, era di una complessità inizialmente disarmante: riuscire a comprendere le ragioni sottese di matematica finanziaria al fatto contrattuale avvenuto non fu cosa di poco momento; passai due anni di lavoro e di vita, ogni mercoledì che il buon Dio mandava sulla terra, a cercare di dipanare i fili che reggevano la tela del fatto , e ci riuscii solo dopo aver nominato perito d’ufficio il prof. Francesco Corielli, esperto di matematica finanziaria alla Bocconi di Milano, che, con una magistrale perizia riuscì a pervenire ad una efficace spiegazione della vicenda.
Vicenda per la causazione della quale finii per condannare tutti ( o quasi) gli imputati persone fisiche, ma, soprattutto, le persone giuridiche delle Banche, per le quali stabilii delle confische poderose in termini monetari.
C’è da dire che, prima della condanna, e cioè a processo ancora in corso, le parti stabilirono una transazione finanziaria sulla base della quale le banche “risarcivano” la parte lesa Comune di Milano per centinaia di milioni: in questo senso, nonostante poi la successiva assoluzione in appello dei presunti responsabili, si può dire che il processo ebbe una sua soluzione complessivamente positiva, perlomeno in termini di giustizia retributiva.
Come si sa, poi, in appello la sentenza cadde e, devo dire, io non ho ancora capito il perché, nonostante la lettura delle 500 pagine della relativa motivazione: ma, tant’è! anche qui, forse, un “ leading case” troppo complesso e troppo delicato da sostenere sulle mie deboli spalle di giudice monocratico.
In ogni caso anche qui una esperienza professionale ed umana molto particolare e significativa.
***
Sono giunto alla fine di questo mio piccolo racconto della mia esperienza da giudice a Milano.
Come ho detto, non era e non è mia intenzione scrivere un trattato di diritto o raccontare con pretese storiche vicende che hanno avuto il loro svolgimento e compimento nel corso di questi ultimi 40 anni.
Il mio intendimento era e rimane quello di riepilogare fatti e sensazioni che hanno avuto un impatto speciale per la mia vita di giudice e per la mia vita in generale, per evitare che la memoria , con il passare degli anni, si perda.
Ho intitolato questo racconto “ un giudice con la faccia da uomo”, ma non perché io mi ritenga un giudice particolare o speciale: devo questa mia definizione al mio amico Nazzareno Mazzini che, ogni volta che mi vede, mi abbraccia e mi chiama così , in memoria di un formidabile verso di una formidabile canzone di Fabrizio De Andrè, contenuta nel vecchio LP “ Non al denaro, non all’amore, né al cielo”.
Per quanto mi riguarda , voglio chiudere con una frase latina di Terenzio che è sempre stata la mia guida in questi 42 lunghi anni : “Homo sum, Humani nihil a me alienum puto”.
Oscar Magi
riporto qui in nota lo scambio di lettere che ebbi con “ Libero” prima e con “ Il corriere della sera” poi, a proposito di alcuni commenti che erano stati pubblicati sui due quotidiani, il primo con riferimento al cd. “ Processo Ruby” approdato alla mia sezione, ma non fatto dal mio collegio, il secondo in merito al processo per rivelazione di segreto d’ufficio fatto e concluso nei confronti dei fratelli Berlusconi.
“ Al Direttore di “LIBERO”
Maurizio Belpietro
Gentile direttore,
Ho letto, qualche giorno fa, sul giornale da lei diretto un articolo, in prima e terza pagina, intitolato “Gioco sporco, il giudice che processa Silvio scese in piazza contro di lui”.
Prescindiamo, per un attimo,dal fatto che, a quanto mi risulta, il procedimento attualmente incardinato presso il Tribunale di Milano riguardante presunta concussione e induzione alla prostituzione minorile nei confronti del Presidente del Consiglio on. Silvio Berlusconi dovrà passare il vaglio dell’ufficio GIP di Milano , e che, quindi, allo stato ,la sezione IV penale da me diretta non ha ancora in carico alcunché ( prima notizia non vera, io non sto processando nessuno) .
Prescindiamo ancora dal fatto che le sezioni penali del Tribunale di Milano che si occupano dei reati contro la P.A. ( tra cui quello di concussione) sono due, ognuna con due collegi e che, quindi, l’eventuale assegnazione del processo “ del secolo” come suggerito nell’articolo , verrà decisa soltanto dall’assegnazione automatica che, in tali casi, determina la competenza interna delle sezioni del Tribunale ( altra non verità è quindi quella che il Presidente Livia Pomodoro mi avrebbe allertato per la trasmissione del fascicolo).
Resta il fatto che l’articolo in questione ( scritto dal giornalista Franco Bechis, che non ho il piacere di conoscere) tratteggia la mia persona ( e, in particolare la mia attività giudiziaria ) in modo francamente non accettabile , traendo delle conclusioni sul mio equilibrio e sulla mia autonomia di giudice che non possono passare sotto silenzio, soprattutto in un momento come questo.
In particolare , prendendo le mosse dal titolo dell’articolo , vorrei precisare che mai nella mia vita sono “ sceso in piazza” contro qualcuno , men che meno contro Silvio Berlusconi: le mie partecipazioni ( da quando sono maggiorenne) alla festa della Liberazione del 25 aprile ( che non nego, ma che anzi rivendico con orgoglio) sono dovute ad un genuino senso di appartenenza nazionale ed al dovuto rispetto che ognuno di noi dovrebbe a quella ricorrenza, per tutto quello che storicamente significa.
Tra l’altro non sono mai stato a braccetto con Ilda Boccassini e Nicoletta ( non Valeria) Gandus , che sono colleghe di Milano che conosco da tempo e che stimo , ma con cui non sono andato a passeggiare da nessuna parte.
Le mie uniche compagne di feste ,di liberazione e non, sono le mie tre figlie e mia moglie, con cui, invece, vado spesso a passeggiare insieme.
E’ vera la circostanza che sono , da ormai più di trenta anni, aderente alla corrente di Magistratura Democratica ed è vero che ho spesso partecipato alla vita associativa della magistratura : non credo che questo sia un delitto o una cosa di cui vergognarsi.
Posso dire con orgoglio che mai le mie idee, personali e politiche, hanno condizionato il mio lavoro di giudice, se non nel senso di costringermi ad una attenta aderenza alle prescrizioni della Carta Costituzionale : anche questo, credo, non sia cosa di cui vergognarsi.
Per il resto, cosa dire? L’articolista affastella, uno sull’altro, molti miei “precedenti giudiziari” ( Mani Pulite, Ariosto, Abu Omar, Google) di cui vado fiero e che costituiscono solo la prova del mio lavoro indefesso, della mia autonomia, e della mia attività da trent’anni a questa parte.
Che tutto questo sia prova del mio squilibrio professionale e della mia non disponibilità nei confronti del premier è affermazione diffamatoria ed illogica che trae (questa volta si) origine da un cumulo di pregiudizi e di illazioni gratuite che non mi sembra di aver meritato.
Sono giudice da 32 anni, mio padre era giudice, mio fratello è giudice, mio nonno era un alto ufficiale dell’esercito: credo di aver dimostrato in tutto questo tempo la mia assoluta lealtà istituzionale e la mia completa imparzialità.
Lei comprenderà che dire, o anche soltanto suggerire, che un giudice non sia imparziale e non sia equilibrato , è offesa grave alla reputazione e, vorrei dire, all’onore dello stesso , e che, pertanto, ne trarrò le dovute conseguenze.
Le sarei grato se volesse pubblicare questa mia, anche ai sensi della legge sulla stampa.
Dr Oscar Magi
PS: mi consenta di non parlare della suoneria del mio cellulare, mi vergognerei davvero di dover discutere di cose simili."
“ Al Direttore del Corriere della sera
Dr Ferruccio De Bortoli
Gentile direttore,
sabato 8 giugno il quotidiano da Lei diretto pubblicava un articolo scritto da Piero Ostellino, titolato, in prima pagina, “ Quel giudizio espresso in tribunale che diventa un’accusa ideologica”.
Nel corpo dell’articolo, scritto da una delle firme più prestigiose del Corriere, Ostellino esprime dei giudizi molto particolari nei confronti della sentenza cd “Unipol”, emessa dalla IV sezione del Tribunale di Milano , da me diretta , sentenza del 7 marzo u.s., la cui motivazione è stata depositata in data 4 giugno scorso.
In particolare Ostellino parla di una “ sentenza surreale” (“con la surreale sentenza, che piaccia o no, è nato così un nuovo tipo d’accusa, tutto ideologico ..”) , dell’invenzione di un’accusa ideologica ( “d’altra parte, che pur di condannare Berlusconi si sia arrivati ad inventarsi un’accusa ideologica…”), accusa di cui chiede, ironicamente ma non troppo, conto e ragione a Magistratura Democratica, come se la sentenza stessa sia stata scritta e dettata in obbligo non solo ad una ideologia accusatrice ad ogni costo, ma addirittura in obbligo ad una appartenenza correntizia (come si sa Magistratura Democratica è una delle correnti in cui si dividono i magistrati italiani ).
Sorge il dubbio che Ostellino non solo non abbia letto la sentenza ( o ne abbia letto solo le parti che gli facevano comodo) , ma che abbia fatto un uso, per la verità molto spregiudicato, di alcuni pezzetti della motivazione per inventarsi lui un’accusa ideologica e surreale nei confronti dei giudici che l’hanno scritta .
Basti pensare che l’imputazione nei confronti di Paolo e Silvio Berlusconi di cui si è discusso nelle udienze dibattimentali, non è quella di diffamazione, ma ( e non è differenza da poco), rivelazione di segreto d’ufficio , e che, quindi, tutto l’impianto della sentenza ( discutibile e criticabile quanto si vuole) non ruota intorno al contenuto della frase “ rivelata” dal quotidiano Il Giornale, ma all’attività criminosa di chi ( Berlusconi Silvio e Paolo , ma non solo), ha permesso tale rivelazione .
Giova precisare che l’imputazione sarebbe stata la stessa anche se priva di qualsiasi significato potenzialmente diffamatorio nei confronti di chiunque , giacchè il reato contestato e ritenuto commesso in sentenza consiste in una attività di appropriazione e divulgazione di notizie che devono restare segrete per giudizio della magistratura procedente , notizie la cui portata offensiva o meno che sia nei confronti di chicchessia non rileva ai fini penalistici .
Per cui la contestazione rivolta ( in maniera ironica ma molto suggestionante) ai magistrati che hanno avuto l’obbligo di svolgere il processo non per loro scelta ma per conformità alle norme che regolano la competenza dei procedimenti penali, di aver formulato “un’accusa ideologica” nei confronti degli imputati , accusa supportata da una motivazione surreale , non solo è falsa , ma è priva di qualsiasi logica , giuridica o umana che dir si voglia.
Infine , la richiesta di spiegazioni a Magistratura Democratica è , questa sì,non solo surreale , ma anche diffamatoria , perché lascia intendere a chi legge che la sentenza sia stata scritta in ossequio ad una appartenenza ideologica e correntizia, e non nel rispetto delle norme di legge, sostanziali e procedurali, che regolano la materia .
Chiedo perciò, che questa mia sia pubblicata sul quotidiano da Lei diretto come smentita all’articolo indicato, con la stessa evidenza giornalistica dello stesso.
Con i migliori saluti
Dr Oscar Magi, presidente IV sezione Tribunale di Milano”
Qui di sotto riporto un articolo che scrissi per “ Il Foglio”, su sollecitazione del direttore e che venne pubblicato nella data indicata:
“ Mi è stato richiesto un breve intervento in merito alla vicenda “ sentenza Google”, alla libertà di Internet ed all’uso che se ne fa, nonché una risposta alle seguenti domande:
Premetto che non sono abituato a commentare le mie sentenze e che un giudice dovrebbe parlare al pubblico solo attraverso le stesse: nel caso in questione ho scritto 111 pagine di motivazione a cui rimando chiunque abbia voglia e tempo di misurarsi con la complessità del problema .
Mi sembra tuttavia possibile , data la rilevanza mediatica del tema, intervenire brevemente sulle questioni generali che la vicenda richiama e che costituiscono lo “sfondo sociale e culturale “ dei fatti di causa ( su cui non ritorno, trattandosi, come è ovvio , di vicende ancora non definitive da un punto di vista processuale).
In sintesi :
Milano 16 aprile 2010 “
Sommario: 1. Il tempo del giudizio - 2. La lettura del giudizio: le sentenze della Corte Costituzionale - 3.Ordinanze e participi.
1.Il tempo del giudizio
Sono trascorsi oltre dieci anni da quando la legge 18 giugno 2009, n. 69, a partire dal 4 luglio 2009, sostituì l’art. 132, II c., n. 4, c.p.c. eliminando tra i requisiti di forma-contenuto delle sentenze civili la concisa esposizione dello “svolgimento del processo” e così limitando il requisito propriamente motivazionale alla esposizione, comunque concisa, “delle ragioni di fatto e di diritto della decisione”.
Tale novella è stata per lo più interpretata come una mera semplificazione in senso riduttivo – una sorta di dimagrimento - della struttura della sentenza civile, così trascurandone, invero, l’impatto sulle modalità stesse di formulazione della motivazione.
E’ infatti da evidenziare il rilievo assegnato alla essenziale connotazione della sentenza in termini di giudizio (“le ragioni”) piuttosto che di narrazione/rievocazione di fatti, con conseguente emarginazione dei contenuti storici della vicenda sostanziale e processuale.
Nell’orbita propria del giudizio i fatti non sono certamente da trascurare ma sono piuttosto da rappresentare esclusivamente nella loro dimensione di ragioni di fatto, vale a dire nella sola consistenza funzionale alle considerazioni in diritto che se ne traggono, in quanto proprio da tale rappresentazione dei fatti derivano le consuete operazioni inerenti alla sussunzione nella fattispecie astratta e, soprattutto, all’individuazione degli effetti che si spiegano nel caso concreto.
Gli eventi sono, in tal senso, nuovamente rappresentati affinchè sia disposto alcunchè in ordine alla loro ideale prosecuzione nella concreta vicenda sostanziale o processuale: così all’accertamento di un fatto illecito consegue la sanzione restauratrice del corso degli eventi, in forma specifica o per equivalente; alla dichiarazione di nullità dell’atto processuale le conseguenti rinnovazioni ex art. 162 c.p.c..
Si dovrebbe, pertanto, adottare nei verbi un tempo adeguato a rappresentare gli eventi nel loro svolgersi per cogliere la continuità tra tali accadimenti e gli effetti che ne derivano all’attualità e che si protendono nel tempo successivo, in quel divenire tra passato, presente e futuro che contrassegna propriamente l’esercizio della giurisdizione.
Di qui l’incongruità dell’uso dei tempi passati, i quali emarginano il fatto in un contesto già esaurito e segnano una netta cesura rispetto all’attualità della narrazione; è piuttosto da apprezzare l’uso del tempo presente con riguardo non solo alle considerazioni in diritto ma anche a quelle propriamente in fatto, pur se gli accadimenti risalgono a molti anni indietro rispetto all’epoca della decisione: Tizio stipula il contratto nel 1985, si avvale nel 1996 della clausola risolutiva, chiede oggi la condanna ecc..
La formulazione dei fatti al tempo presente (c.d. presente storico) determina indubbiamente un apparente appiattimento degli eventi pur succedutisi a notevole distanza temporale: si tratta, tuttavia, di un livellamento connaturale alla giurisdizione, laddove gli eventi rilevano solo come elementi di fattispecie tutti da rappresentare contestualmente ai fini della formulazione della regola finale del caso concreto.
Il giudice è, infatti, chiamato ad una operazione essenzialmente logica utilizzando le risultanze processuali ed parametri normativi ed è, quindi, affatto congruo che i fatti - sub specie di ragioni di fatto - siano tutti esposti nel medesimo tempo pur nella diversa – ed eventualmente precisata – collocazione diacronica.
L’effetto drammatico – rievocativo resta, invero, integro - così come avviene con il tradizionale uso dell’imperfetto : Tizio stipulava ….non corrispondeva ecc. - in quanto l’autore continua a porre se stesso ed il suo ideale lettore sullo stesso piano degli eventi narrati, colti nel momento in cui accadono; ma è, altresì, evidenziato, con il tempo presente, che gli eventi rilevano all’attualità come elementi di un giudizio e non nella loro dimensione propriamente storica.
In tal senso il tempo proprio della sentenza diventa il tempo presente quale tempo del giudizio, vale a dire del momento di formulazione delle ragioni di fatto e di diritto in cui si articola la motivazione.
2.La lettura del giudizio: le sentenze della Corte Costituzionale
Ogni motivazione è destinata ad essere ovviamente letta: non rileva cioè nella sua mera obiettività, come compiuta e tecnicamente esatta esposizione delle ragioni, ma anche nella idoneità ad essere congruamente percepita.
In tal senso si può riscontrare che l’uso del tempo presente agevoli senz’altro non solo l’esposizione ma anche la comprensione dei fatti rappresentati.
Tuttavia l’attenzione al destinatario della motivazione – che non è solo il difensore o la parte ma potenzialmente l’intera comunità – deve indurre ad una più profonda semplificazione della formulazione del giudizio, quanto meno nel senso di attenuare, per quanto possibile, lo sforzo richiesto per la sua percezione.
Potrebbe così essere giustificata una minore compiutezza o precisione nel richiamo ad un fatto – magari già in precedenza circostanziato - allorchè si tratta formulare propriamente solo un giudizio sullo stesso.
Al riguardo è forse utile aprire il sipario anche sulle sentenze della Corte Costituzionale - nella sua veste di giudice delle leggi - le quali appaiono, invero, conformate ad un modello formale tutto imperniato sulla compiutezza della esposizione piuttosto che sulla leggibilità e, quindi, sulla fruizione della motivazione.
Sono, infatti, strutturate in una prima parte, recante l’epigrafe “Ritenuto in fatto”, la quale corrisponde in realtà allo svolgimento del processo, ed in una seconda parte propriamente motiva, con l’epigrafe “Considerato in diritto”, nella quale vengono esposte le ragioni della decisione.
Tuttavia è da riscontrare che le considerazioni “in diritto” sono nuovamente precedute dalla compiuta riformulazione delle stesse questioni già esposte in precedenza “in fatto”, così sostanzialmente integrando autonomamente il requisito della esposizione delle ragioni di fatto e di diritto proprie della sentenza civile ex art.132, II c., n. 4, c.p.c..; al punto che il lettore ben potrebbe limitarsi a tali “Considerazioni in diritto” per comprendere il contenuto della sentenza.
Il parametro normativo specifico per le sentenze della Consulta, l’art. 18, legge 11 marzo 1953, n. 87, si limita a disporre che siano indicati i “motivi di fatto e di diritto”, con formulazione che ben può leggersi come simmetrica, in via sistematica, con quella dettata per la sentenza civile, nel senso cioè che i “motivi” corrispondono alle “ragioni” ex art. 132 c.p.c..
E’ vero, poi, che avanti alla Corte Costituzionale i “fatti” di cui si controverte sono in realtà “le leggi”, tuttavia anche le leggi potrebbero essere richiamate solo in quanto funzionali ad un “giudizio” destinato ad essere essenzialmente “letto”; di qui la preferenza che dovrebbe essere accordata alla continuità della esposizione delle “ragioni” piuttosto che alla completezza degli elementi meramente descrittivi delle leggi.
In concreto è, ad esempio, da evitare che le leggi siano reiteratamente citate mediante l’indicazione dei rispettivi “titoli”, i quali aprono parentesi quasi sempre non utili alla formulazione delle “ragioni” e costringono continuamente il lettore ad operare mentalmente dei “salti” per non pregiudicare la continuità della percezione dell’argomentazione.
Analoghi rilievi potrebbero essere svolti quanto alla citazione delle reiterate modificazioni intervenute “medio tempore” rispetto alla formulazione originaria della disposizione di legge (“l’art. X della legge Y così come modificata dall’art. A della legge B ecc.”); tali citazioni possono, infatti, essere effettuate una sola volta nel corpo della motivazione ed eventualmente sostituite dal mero richiamo alla vigenza della disposizione in un dato contesto temporale (“l’art. X nella formulazione vigente alla data del….”).
Si tratta di rilievi apparentemente banali ma che proprio nella legislazione contemporanea finiscono per assumere rilievo in quanto fioriscono leggi dal contenuto disomogeneo, con titoli intenzionalmente ipertrofici, le quali si sovrappongono diacronicamente con intensa frequenza: di qui la opportunità di una citazione delle disposizioni di legge semplificata, per quanto possibile, per assicurare l’agevole leggibilità della motivazione, vale a dire la sua funzionalità oltre che la compiutezza strutturale.
3.Ordinanze e participi
A fronte della semplificazione operata nel 2009 nella struttura della sentenza è da rivedere anche l’originario assunto secondo cui l’ordinanza abbia un contenuto essenzialmente minore quanto alla motivazione: in effetti il parametro normativo non implica alcuna apprezzabile differenza in quanto l’ordinanza è “succintamente motivata” ex art. 134, I c., c.p.c. e la sentenza comprende, analogamente, “la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto” ex art.132, II c., n.4 c.p.c..
La tradizionale articolazione delle ordinanza in capoversi preceduti da participi (“Rilevato che”, “Ritenuto che” ecc.) non sembra, poi, corrispondere ad alcuna effettiva semplificazione in quanto un dato può essere rilevato od un giudizio può essere espresso anche senza la reiterazione di un participio passato come premessa: si può così argomentare che il cielo è azzurro anche senza preavvisare il lettore che si è “considerato che”.
Con ciò non si vuole affatto sminuire l’utilità di una articolazione della motivazione, in sentenza come in una ordinanza, per punti e paragrafi, segnalati anche da opportuni simboli numerici o grafici; tuttavia l’incipit reiterato con i participi passati sembra, oltre che inutile, il retaggio di un esercizio della giurisdizione, dall’alto di una sovrana intelligenza, certamente non più consona alla attuale dialettica processuale imperniata sulla parità delle parti.
di Mario Serio
Sommario: 1.Il precedente scientifico - 2.Le prime intuizioni della scientificità del diritto comparato nelle sue originarie denominazioni:l'opera di Emerico Amari (1810-1870) - 3. Uno sguardo storico alla sistemazione del diritto comparato nella dottrina di common law dei primi decenni del XX secolo - 4.Le giornate Gorla del 1979 e le loro conseguenze sugli assetti dei rapporti tra diritto comparato e diritti interni - 5.Il rapporto tra comparazione giuridica e fattore formante giurisprudenziale; 6.Le scuole civil-comparatistiche italiane e la loro influenza culturale.
Questo studio si propone di porre a disposizione dei lettori un ritratto composito e non necessariamente omogeneo nei suoi oggetti dell'accesso della comparazione giuridica nel mondo globale (per materia e per territorio) della scienza e della conoscenza giuridica per calcolarne qualità e quantità di apporti e contributi espressi nel tempo e nello spazi.
1.Il precedente scientifico
La ricerca esordisce con un balzo all'indietro alle origini storiche della giuscomparazione e progredisce verso l'enucleazione dei sedimenti consegnati all'avvenire, in coerenza con un modello storicistico di indagine proprio della comparazione stessa. Nel lavoro si rievoca una manifestazione culturale, di cui si celebra adesso il quarantennale dallo svolgimento, che in misura non trascurabile ha segnato corso ed impronta della disciplina comparatistica,suggellandone la scientificità e assiedendola,con pari dignità,assieme alle altre,storicamente più blasonate,discipline giuridiche nazionali.Non è,infatti,oggi più revocabile in dubbio che da allora il diritto comparato abbia trovato in Italia collocazione formale-accademica di tutto decoro e si sia attribuita uno statuto metodologico ed epistemologico saldo e congruo. Tra i vantaggiosi apporti che la giuscomparazione ha saputo dare si annovera qui il nuovo impulso alla ricerca giuridica in senso casistico-problematico,a propria volta generatrice di un sempre più fecondo dialogo tra dottrina e giurisprudenza, che da tempo alberga con esiti edificanti nel common law inglese.Questo dialogo viene classificato come testimonianza delle intercomunicazioni,ormai patrimonio comune dei giuscomparatisti,tra i vari fattori formanti di ogni sistema giuridico,che ne facilita la comprensione,agevolando al tempo stesso il disvelamento delle dissociazioni interne ai vari ordinamenti tra regola astratta e sua applicazione concreta.
Sullo sfondo dell'acquisita sanzione di scientificità della disciplina si delinea,infine,il quadro dell'odierno stato della giuscomparazione italiana,dei suoi nuovi orientamenti,dei suoi processi di sviluppo,del suo forte spirito identitario. Il quinto colloquio dell'Associazione italiana di diritto comparato ( ad essa si affianca dal 2011 la SIRD,Società italiana per la ricerca in diritto comparato),tenutosi,sotto la presidenza di Rodolfo Sacco, a Torino tra il 25 ed il 27 maggio 1979 fu dedicato al tema che dà il titolo al presente saggio,assumendo per acclamazione assembleare la denominazione di “Giornate Gino Gorla”:i riflessi culturali di quel fondamentale convegno-ma non l'esatto resoconto,come ricorda lo stesso Sacco nella Presentazione- furono raccolti in un volume dell'anno successivo, edito dalla Giuffrè con il medesimo titolo,che racchiude prestigiosi contributi,tra i quali quelli dei due Studiosi citati.
Erano quelli anni in cui il diritto comparato iniziava il volo verso le vette accademiche,sebbene il suo decollo fosse stato agli esordi accidentato ( al momento del Colloquio torinese erano appena 5 le cattedre italiane di Diritto Privato Comparato,circa un settimo di quelle odierne ) in ragione di correnti pregiudizi e diffidenze,largamente addebitabili al disconoscimento dei risultati benefici,in termini metodologici,epistemologici,teleologici,pratici,conseguiti sul piano generale dell'elaborazione giuridica compiuta per mezzo della comparazione.
Quelle giornate di studio ,ravvivate da un entusiastico,orgoglioso spirito di corpo manifestato dai partecipanti, si rivelarono un successo perchè,grazie alle illuminanti lezioni dei Maestri della materia,si potè stilare un bilancio degli apporti già forniti dalla comparazione alla scienza giuridica e,al tempo stesso,tracciare la via per la rinnovazione in futuro degli stessi.
Qualunque indagine sul tema qui trattato non può ,per debito di riconoscenza e perdurante attualità, che prendere le mosse dai notevoli spunti di un quarantennio addietro:essi vanno fatti utilmente precedere da una essenziale ricostruzione del quadro storico della comparazione giuridica nei periodi anteriori,sia in Italia sia altrove nel mondo.
2. Le prime intuizioni della scientificità del diritto comparato nelle sue originarie denominazioni:l'opera di Emerico Amari (1810-1870).
Gli ariosi fermenti circolanti nell'Europa ottocentesca,che avrebbero condotto all'unità d'Italia ed alla riedizione della struttura politica dell'Europa,trassero sostanzioso alimento dal pensiero di dottrinari che avvertirono l'esigenza di aprire le loro menti ad esperienze politiche,istituzionali,giuridiche maturate all'esterno dei confini nazionali.In questo valicamento degli orizzonti di conoscenza si posero le fondamenta di scopi e di metodo di quella che allora fu individuata come “Scienza delle legislazioni comparate”.Ed invero,mettendo a frutto i Principi di Giovan Battista Vico ( 1668-1744) della prima metà del XVIII secolo,accreditanti una “ comune natura delle nazioni” e le conseguenti lezioni di Vincenzo Cuoco (1770-1823) nel suo corso di legislazione comparata ,rivolte ad una “mente comune delle nazioni”, il palermitano Emerico Amari pubblicò-come ricordato nel mio “Gli albori della comparazione giuridica nella Critica di una scienza delle legislazioni comparate,1857 di Emerico Amari” in Annuario di diritto comparato e di studi legislativi,2012,pag.411 ss.- nel 1857 i 2 volumi della “Critica di una scienza delle legislazioni comparate” (raccolti in una edizione del 1969 curata dalla Regione Siciliana,con una ricchissima introduzione di Vittorio Frosini,1922-2001).In questa amplissima trattazione l'Autore,che ricoprì cariche accademiche e politiche ( fu Deputato ),sentì l'urgenza di identificare paragoni e “simiglianze” ricavati da “costumanze diverse di tempi e di popoli”,allo scopo di trarre un'idea comune che “spieghi e governi” le leggi nazionali.A questo compito egli ritenne dovesse essere adibita una nuova scienza,quella della “legislazione comparata”,cui attribuì la potenziale capacità di costituire un proficuo mezzo di comunicazione ed armonizzazione tra i popoli nei più svariati campi delle loro relazioni,così realizzando il “primo fine pratico” della nuova scienza,rivolta allo studio delle leggi altrui,con l'ulteriore vantaggio di impararne la lingua “primo elemento di comunicazione tra i popoli”.Correlativo a tale ultimo scopo è,secondo Amari,il processo di “imitazione e propaganda” delle leggi straniere,che costituisce un fine e,per quel che in questa sede rileva,specialmente una forma di utile apporto alla scienza giuridica in generale- della comparazione giuridica nella misura nella quale la loro conoscenza può indurre alla riforma delle leggi nazionali o,addirittura,il loro recepimento sotto forma di adozione integrale.L'insigne giurista palermitano sottolineò l'ulteriore “ufficio pratico” della comparazione,consistente nella creazione di un corpo scientifico autonomo e nuovo,cui ben può farsi ricorso all'interno dei diritti nazionali “ per illustrarne l'applicazione pratica nei contratti e nei giudizi della nazione che l'ha ricevuta”.E',a questa stregua,agevole rinvenire nella scienza comparatistica,e nel connesso metodo di studio da essa postulato,un mezzo di “dimostrazione della qualità delle leggi” nazionali.Metodo generale che,nell'impostazione dell'Autore,venne a perfezionarsi attraverso l'indicazione del submetodo empirico-deduttivo,decisivo per un suo utile dispiegamento,condensato nella seguente proposizione:” Ma per compiere la dimostrazione della potente efficacia della legislazione comparata sulla dottrina del diritto universale ,credo importante l'osservare un fatto singolare,il quale per modo contrario la conferma,e però potrebbe chiamarsene la controprova,argomento decisivo nelle logiche deduzioni....Omonomie,per provarlo,antinomie per confutarlo...”.L'immediata notazione stimolata da questo significativo passaggio argomentativo è che,in chiave prospettica,questa costruzione metodologica,orientata a dedurre dall'osservazione del particolare la regola o il principio generale ( se non universale),largamente precorre l'odierna falda dicotomica del diritto comparato,scisso nella sua versione microcomparatistica ed in quella macrocomparatistica.La costruzione di Amari reca con sé la coerente affermazione che “la legislazione comparata costituisce la scienza dei luoghi e dei tempi,l'elemento dell'opportunittà nella scienza della legislazione”; più in particolare la disciplina nuova viene dallo stesso definita come “lo sperimento nelle scienze giuridiche e legislative”,quello stesso “sperimento” che,nell'area delle scienze dure,moltiplicato all'infinito consente ai fisici di “formulare le leggi”.Donde,il carattere necessariamente scientifico,in virtù del criterio tipico della verificazione v. falsificazione del dato,della scienza delle legislazioni comparate.Ma anche dal punto di vista squisitamente speculativo-teorico ( in seguito di tempo si sarebbe detto dogmatico: sulla questione si vedranno le considerazioni di Sacco sul moderno superamento delle tentazioni pandettistiche da parte della concezione vigente degli studi comparatistici),la novella scienza incoraggia un rimarchevole progresso che “ consiste nel ridurre la molteplicità all'unità”: potrebbe dirsi con linguaggio che risente dei tempi che alla comparazione va ascritta una positiva tendenza uniformatrice o armonizzatrice dei modelli sistemici presenti in un certo momento storico in vasti territori .Ed il ruolo pionieristico dei volumi del 1857 si coglie proprio in questa felice dimensione prolettica.Quest'ultima trova consolidato vigore nella constatazione parallela secondo cui la scienza delle legislazioni comparate,da un canto,facilita il processo elaborativo di categorie generali del pensiero giuridico e,dall'altro,produce l'effetto,indotto dall'osservazione sperimentale e transnazionale dei fenomeni,di identificarne la concreta configurazione per quanto attiene ai relativi elementi costitutivi ed ai fattori (“rapporti fattori” secondo l'espressione dell'Autore) che li hanno prodotti,ossia quelli che oggi con fortunata e diffusa espressione vengono chiamati “formanti”.Della loro descrizione la “Critica” del 1857 si cura dettagliatamente,passandoli in rassegna e tassonomicamente classificandoli in base all'influenza su di essi esercitati dai luoghi,dagli usi ,dall'economia.
La prospettiva finalistica affidata dal grande giurista alla scienza in questione è quella -precorritrice in sostanza della teoria di Gorla- di misurare differenze e somiglianze tra sistemi ordinamentali diversi,così di fatto decretandone la vicendevole “fortuna”e divenendo “la maestra della riforma progressiva e perpetua della legislazione”.
Assertiva è la formula finale adottata per illustrare questo itinerario di scopi della comparazione,scolpita in queste parole:”E la dottina giuridica della civiltà universale è il supremo assunto che costituisce il sommo dei gradi,il titolo vero della scienza nostra”.Scienza che,in modo del tutto originale rispetto allo spirito del tempo,Amari indirizzò verso l'analisi delle fonti formali di produzione dei diritti nazionali (“ tutte le regole positivamente decretate e tutte le altre...le quali in qualunque modo accettate reggono i popoli”) sì da concorrere a formare la “dottrina giuridica della civiltà universale”.Riassume la profondità dell'intuizione Amariana,ed il non nascosto compiacimento per il suo esito sistematico,la consapevolezza dell'utilità della raccolta comparativa “delle leggi di tempi e popoli diversi,per servire a molti usi e pratici e scientifici,ma tutti di civile e di morale utilità”.
In conclusione ,la nuova prospettiva culturale battuta in breccia nei due volumi della Critica non solo dischiude un cospicuo patrimonio di fini e di criteri della conoscenza giuridica,ma soprattutto ingaggia il diritto comparato nella fondamentale funzione di promotore dell'universalità ,in atto o in potenza,del fenomeno giuridico,riducendo le varianti nazionali ad oggetti di esplorazione in chiave agevolatrice di soluzioni il più possibile comuni.Concetti di straordinaria modernità,questi,che,peraltro,seppero adombrare “in nuce”il fitto catalogo di apporti che il diritto comparato,sin dalla sua più risalente declinazione nominalistica e metodologica,appare,ieri come oggi,capace di far confluire nel capiente contenitore della scienza giuridica ad ogni latitudine.
Desta ragionato stupore la modestia di richiami che la dottrina italiana ha voluto effettuare all'opera in questione,la pregevole e più recente eccezione essendo costituita dagli Studi di diritto comparato e teoria generale del 1972 di Mario Rotondi,che accredita Amari di “geniali intutizioni”, a propria volta preceduti negli anni 1930 dalle introduzioni allo studio del diritto comparato di Sarfatti (1933) e di Di Carlo (1936).Non dimentica del pensiero dello studioso è stata la Scuola comparatistica Palermitana,il cui fondatore,Giovanni Criscuoli (1931-2003), Maestro impareggiabile verso il quale nutro ,con i nuovi allievi locali,un imperituro sentimento di devozione,ha intitolato a Lui il Circolo di studi comparatistici presso il quale le leve successive si sono formate ,anche grazie alla sua espansa biblioteca di lavori stranieri,ed in particolare sul common law inglese.
3.Uno sguardo storico alla sistemazione del diritto comparato nella dottrina di common law dei primi decenni del XX secolo.
Un evento destinato a rimanere scolpito nell'evoluzione planetaria del diritto comparato segnò il primo anno del secolo scorso:nel 1900,infatti,si svolse a Parigi il primo congresso mondiale di diritto comparato ( i cui lavori furono pubblicati 5 anni dopo),una sorta di battesimo della “scienza nuova”.Alla svolta la classe degli studiosi non si fece trovare impreparata,approntando,attraverso una serie coordinata di alti interventi,una tavola culturale della disciplina che tentava di innestarsi su una pianta ramificata in una molteplicità di aree giuridiche,sostanzialmente inclinate verso il piano nazionale.Si inaugurò,così,una nuova stagione di fervidi studi e di fascinose avventure intellettuali,inizialmente indirizzate verso l'edificazione di un manifesto storico della comparazione giuridica ( esemplare fu,in questo senso,l'allocuzione dell'eccelso studioso inglese Sir Frederick Pollock (1845-1937) dedicata alla storia del diritto comparato,poi ripresa in articoli editi negli anni immediatamente successivi al congresso parigino).
Prese allora avvio una fioritura di saggi articolati secondo una scansione espositiva diretta alla ricerca dei confini metodologici,cognitivi,distintivi di questa materia :la comunità scientifica albergante nei sistemi di common law inglese e statunitense mostrò qualificata propensione verso l'obiettivo e scrisse pagine di sicuro interesse sia storico sia fondativo dei caratteri propri della comparazione.In questa sede è solo possibile riferirsi a quei contributi così originali di idee da costituire,anche in forza del prestigio degli Autori,durevole testamento.
Nella ricerca monografica del 1928 “A panorama of the world's legal systems” il giurista americano John Henry Wigmore (1863-1943) ,sintomaticamente attingendo a piene mani all'apparato linguistico-nozionale di Amari,distinse tre campi di esercizio della comparazione giuridica: quello nomoscopico diretto ad accertare e descrivere i vari sistemi giuridici nazionali,considerandoli alla stregua di fatti storici oggettivi più che di fenomeni giuridici in senso stretto;quello nomotetico rivolto all'analisi delle basi di politica del diritto ,e del relativo merito,degli stessi sistemi prima richiamati;quello nomogenetico perseguente l'approfondimento delle fasi evolutive vicendevoli di tali sistemi,riguardate in senso cronologico e causale ( analogo tentativo di razionalizzare l'esposizione delle aree di intervento della comparazione giuridica fu compiuto dal Professor Lambert nel 1931 nella Encyclopaedia of social sciences,allorchè predico la coesistenza di una comparazione giuridica in senso descrittivo,di una in dimensione storica,di una terza concentrata sulla ricerca delle legislazioni e delle giurisprudenze nazionali).E' palese che la divisione delle competenze comparatistiche in rapporto agli scopi ed agli oggetti presentasse già al tempo del concepimento aspetti di certa ricaduta sulla struttura delle riflessioni inerenti ai diritti interni,che vennero,pertanto,ad essere esplorati anche in funzione della loro raffrontabilità con ordinamenti stranieri:in effetti,le gravi scorie autarchiche del ventennio italiano rallentarono molto il fenomeno ,che solo nel secondo dopoguerra conquistò,come si dirà nel paragrafo conclusivo, pieno diritto di cittadinanza accademica.
Di non minor interesse ed attualità si rivela lo studio ( apprezzato e sempre citato da Gorla come autorità di caratura mondiale) di Walther Hug (1898-1980),giuseconomista svizzero molto noto in Nord America,The history of comparative law,pubblicato nella Harvard law review del 1932 che assegnò alla comparazione giuridica una duplice immagine ( giuridica in senso stretto e storica) con un mandato da svolgere in due fasi per ciascuna delle facce.Per quella giuridica :la prima,di carattere ricognitivo dei dati comuni e differenziali tra gli ordinamenti posti a confronto,la seconda, di natura analitico-sistematica ,calibrata verso la identificazione delle cause della formazione di differenti sistemi normativi.Analogo approccio bifasico venne concepito per il volto storico della comparazione,declinato nel senso della descrizione in senso sincronico e diacronico dell'evoluzione dei vari sistemi giuridici.
Questi brevi riferimenti ai moti culturali del secolo scorso sul versante della scienza comparatistica appaiono atti a testimoniare circa la sussistenza di un profilo peculiare ed innovativo degli studi comparatistici,sottolineandone l'intensa attittudine riconformatrice dei parametri di conoscenza dei diritti interni,proiettati su uno scenario meno angusto e dalle prospettive universali.E che di sensibile apporto si tratti non pare fondato dubitare.
4. Le Giornate Gorla del 1979 e le loro conseguenze sugli assetti dei rapporti tra diritto comparato e diritti interni.
Il convegno torinese fu teatro di un orgoglioso risveglio della cultura comparatista,affidato in modo preponderante e memorabile alle parole ed all'architettura concettuale di Gino Gorla (1906-1992) e Rodolfo Sacco (1923).Il primo aggiornò l'uditorio sui progressi intorno alla storiografia comparatistica ( nel volume del 1980 il suo saggio ebbe come titolo “Prolegomeni ad una storia del diritto comparato europeo);il secondo si rivolse al disvelamento critico dell'universo del diritto comparato,fatto di continue evoluzioni rispetto a consolidati assetti di pensiero,di analisi intorno ai nuovi approcci euristici,di compenetrazione tra oggetti e metodi della ricerca,di emersione dei fattori formanti i sistemi giuridici nazionali,di criteri di conoscenza del dato giuridico ( sintomatico il titolo del suo contributo nel citato volume:”Comparazione giuridica e conoscenza del dato giuridico positivo”).Sembra che i due padri fondatori avessero trovato un'intesa,figlia della feconda amicizia e della deferenza serbata dal più giovane di essi verso il più anziano,circa le sfere reciproche di competenza,a propria volta determinate da quelle dell'interesse scientifico individuale.
Ed infatti,per Gorla è la storia,anche nei suoi riverberi storiografici,il motore della comparazione giuridica e,in fondo,il mezzo di concreto accertamento delle conformazioni dei sistemi giuridici ( tema già brillantemente e sapientemente padroneggiato nel 1964 nella voce “Diritto comparato” dell'Enciclopedia del Diritto in cui venne coniata la nozione di diritto comparato come scienza implicante un'attività o un processo di conoscenza di due o più fenomeni giuridici per vedere cosa abbiano di diverso o di comune),la base stessa ( non il fine) della ricerca comparatistica.E l'innato storicismo comparatistico garantisce natura genuinamente scientifica agli studi attorno ad esso sviluppatisi .Proprio le profonde radici storiche della scienza comparatistica hanno permesso di progredire lungo l'itinerario della demarcazione e delle vicendevoli influenze tra i principali ordinamenti europei,sì da pervenire alla ( solo in apparenza) sorprendente scoperta dei regolari ed omogenei flussi di comunicazione,soprattutto a livello di prassi giurisprudenziali nella materia mercatoria ,tra il common law inglese ed i sistemi di diritto continentale,che potè dar vita ad una sovente disconosciuta ( a cagione del pregiudizio insito nella tralaticia tesi delle barriere insuperabili tra i due emisferi giuridici appena ricordati)”civili orbis nostrae (NdA:Aeuropae) comunicationis qui cum legibus vivit”,di lunga durata,da Gorla stimata nel lasso intercorso tra il XII secolo e la seconda guerra mondiale.Il traguardo cui mirò quella accurata ed appassionata ricerca,che scandì la maggior parte della biografia scientifica del grande Studioso,fu di attestare in maniera probatoriamente persuasiva la edificazione,storicamente e fattualmente percettibile,di un diritto comune europeo ( inglobante anche il diritto comune classico) che per gran tempo governò la scena giuridica del vecchio continente sotto l'insegna delle concordanze tra i diritti di vari Stati,soprattutto di quelli formatisi tra il XVI ed il XVIII secolo.E se questa creatura di origine mista,ma con effetti unificanti,potè veder la luce,ciò avvenne-secondo Gorla- in virtù dei processi di comparazione interordinamentale europea,nel fondamentale presupposto scientifico che “comparatio est comunicatio”,nel preciso senso che,per utilizzare il moderno lemmario,ogni ricerca comparatistica va indirizzata alla finalità della verifica dei modi attraverso i quali si manifesta la circolazione dei modelli.Essa,a propria volta,lungi dal dar luogo ad una semplice ed elementare forma di comparazione ( il primo gradino),quella che va sotto l'angusto nome di studio del diritto straniero,assicura la possibilità che si apra il ventaglio delle plurime occasioni di apporto del diritto comparato alla scienza giuridica,quali la possibile uniformazione tra sistemi appartenenti ad una medesima area geografica ed il certosino sforzo teso a cogliere somiglianze e differenze tra di essi.
La tensione che animò l'impegno di Sacco nel corso di quelle non più vicine ( se non idealmente) giornate fondative dello statuto del diritto comparato ( non fu casuale la messa a punto delle basi della prima versione,poi doppiata nel dicembre del 2001,durante il Convegno trentino dell'Associazione Italiana di Diritto Comparato del 1987 ,proprio su ispirazione di Sacco e della sua scuola,del cosiddetto “Manifesto culturale” ,che riassumeva gli elementi proprii della comparazione) fu quella di affrancare la disciplina da pericolose schegge dogmatiche,di prospettarne l'autonomia,di predicarne la (positiva,si può aggiungere) diffusività all'interno dell'intera scienza giuridica.
La concezione Sacchiana del diritto comparato si impernia,al pari di quella di Gorla,sul contrassegno scientifico della materia:in altri termini,esso non si distingue da qualsiasi altra scienza in termini funzionali,perseguendo la migliore conoscenza del dato sui cui cade il suo esame:Funzione cognitiva,pertanto,cui può sussidiariamente non disgiungersi quella dell'utilizzazione relativa in chiave pratica.L'Autore fa notare che la comparazione nel campo civilistico,in Italia ed in altri sistemi di diritto continentale,è nata come una sorta di reazione al metodo concettualistico imperante in Europa tra la fine del XIX secolo e la prima parte dei quello successivo.Una delle più evidenti conseguenze dell'accantonamento del dogmatismo giuridico è consistita inevitabilmente nel recupero e nella debita valorizzazione del ruolo della giurisprudenza tra i fattori formanti i sistemi ordinamentali nonché la più acuta indagine sulle cosiddette regole operative ( o operazionali,come lo stesso Sacco le avrebbe definite più tardi),intese come criteri concreti di giudizio,talora in contraddizione rispetto al dato normativo o a quello formale.E nella spasmodica inchiesta circa le dissonanze tra regole teoriche e regole operative,tanto se circolanti nel medesimo ordinamento quanto se fissate in sistemi diversi, risiede un carattere essenziale ed originale della comparazione.Essa,pertanto,si interessa dei cosiddetti crittotipi,creature ingannevoli,perchè frutto di una descrizione della realtà giuridica quale scolpita in un mero enunciato formale che,però,si rivela in netta frattura nei confronti della fenomenica e differente applicazione al caso concreto di una diversa regola di giudizio. La scoperta di questa dissociazione tra formanti ben può essere facilitata dallo studio di esperienze straniere le quali mostrino alternativamente analoghe manifestazioni o,all'opposto,esibiscano coerenza tra enunciato ed applicazione e traccino la via utile da seguire nel diritto interno .Questo, a propria volta, potrà beneficiare,nel momento applicativo,dei risultati di conformità verificabili in altri ordinamenti che si trovino ad affrontare e risolvere il medesimo problema.Ancor più specificamente,pensò Sacco,la comparazione giuridica porta ad appurare che in aree territoriali distinte leggi identiche forniscono soluzioni applicative diverse o che soluzioni applicative identiche dipendono da leggi diverse.Esito,questo,coagulabile nella formula espressiva che conferisce alla comparazione giuridica una vocazione storicistica ed antisistematica ( mi sia permesso di insinuare che proprio il secondo di questi connotati può essere stato l'artefice dell'ostracismo per non breve periodo di tempo decretato,peculiarmente nell'area della dottrina civilistica italiana,ai danni del diritto comparato,reputato troppo eccentrico e disordinato).Che questa doppia vocazione debba necessariamente coesistere nella branca scientifica oggetto di questo scritto trova avallo nell'adozione,a partire dai volumi sul contratto di Gorla del 1955,del metodo fattuale,storico,problematico e casistico di accertamento del dato di conoscenza,soggetto all'indispensabile procedimento di verificazione e falsificazione di matrice scientifica-naturale ( metodo fruttuosamente esteso proprio da Gorla allo studio dei rapporti tra civil law e common law,in particolare in materia privatistica,rischiarato dall'esigenza di individuazione del problema pratico-giuridico sostanziale al di là di concetti o categorie).Al contrario,nell'affresco che Sacco regalò del mondo dei giuristi moderni,chegiocoforza ospita anche i comparatisti,il giurista sistematico considera- diversamente dal comparatista che si nutre del disseppellimento delle contraddizioni intrinseche ad uno o più sistemi ordinamentali onde lasciarne affiorare in modo completo la reale configurazione-come unico oggetto di conoscenza scientifica del diritto un insieme coerente di definizioni.La comparazione giuridica cospira verso il risultato della caduta del velo che copre nei singoli ordinamenti,isolatamente valutati o a paragone tra loro,l'opposizione che esiste tra le definizioni d'insieme ( legali,dottrinarie,giudiziarie) e le regole operative,assegnando il giusto peso deterministico a ciascuno dei formanti.Ancora più abrasivo è il giudizio che Sacco formulò sulle definizioni d'insieme allorchè in esse scorse il disvalore risultante dal privilegio che esse accordano ad una soluzione “monista”,ignorando le soluzioni intermedie tra quelle estreme che le regole di dettaglio possono offrire ed altresì trascurando le grandi possibilità di accrescimento della conoscenza giuridica derivanti dalla focalizzazione delle indagini intorno al fatto inteso come elemento basilarmente costitutivo della “fattispecie” legale.
In conclusione,l'apporto della comparazione alla scienza giuridica venne fatto consistere-così elevandosi l'affermazione a formula di consacrazione delle giornate torinesi del 1979-nell'osservazione dei vari modelli ordinamentali nel momento della loro circolazione,connessione,diversificazione e nella consegna anche ad altre scienze umane,quali la sociologia,dei risultati delle proprie ricerche.
5. Il rapporto tra comparazione giuridica e fattore formante giurisprudenziale.
Dal momento che l'inclinazione del pensiero Gorliano verso l'approdo giurisprudenziale come effettivo ed affidabile punto di verifica della reale configurazione di un ordinamento giuridico si è tramutata in condiviso vettore e strumento di orientamento delle ricerche comparatistiche, la presente indagine non può omettere di prendere in esame la catena di rapporti che legano la comparazione giuridica alla produzione giurisprudenziale ,confidando nella ricorrenza di mutui ,vantaggiosi apporti ( in tale impianto culturale si inscrisse il convegno palermitano del 2009 dedicato a “Scienza giuridica e prassi” organizzato dall'Aristec,rinomata associazione scientifica internazionale di studi storico-compartistici,i cui atti vennero pubblicati due anni più tardi in un volume edito dalla Jovene).
Già in precedenti contingenze si è avuto modo di dirigere l'attenzione scientifica sul tema ( si può vedere il mio “L'apporto della comparazione nel rapporto tra scienza giuridica ed elaborazione giurisprudenziale” nel volume appena citato),che,in effetti,supera le strettoie delle relazioni tra teoria e pratica del diritto e muove nella direzione di definire i contorni della riflessione comparatistica in ciascuna delle dimensioni (metodologiche,storiche,casistico-problematiche) nelle quali si articola.
La tesi che si è consolidata attraverso lo studio appena ricordato,e che qui viene esposta nella invarianza di presupposti e conclusioni, tende ad accreditare un sistema relazionale,alla luce di specifiche esperienze comparatistiche, tra configurazioni,teorica e pratica,del diritto qualificato dalla piena integrazione ed inscindibilità degli elementi ( tra i quali spiccano ,anche per sporadico ma non infrequente contrasto,i fattori dogmatici e quelli giurisprudenziali) che concorrono a darvi vita.Nè va escluso,sempre alla luce della fenomenologia,che la comparazione possa aver assunto ,e possa adempiere tale missione anche in futuro,un ruolo di guida all'interno di tale sistema interrelazionale.Il riferimento all'esperienza giuridica quale tempo e luogo di svolgimento della ricerca di cui ci si sta occupando nasce e validamente si sostiene sul fondamento del memorabile insegnamento di Capogrossi ( ne Il problema della scienza del diritto, del 1962) secondo cui “La scienza lavora.Essa è nell'esperienza giuridica e partecipa alla vita dell'esperienza giuridica”.
È da aggiungere che gli studiosi comparatisti hanno generalmente operato mediando tra due concezioni rivali in termini di rappresentazione dello stato complessivo di un ordinamento giuridico,l'una fondata sul carattere scientifico e dogmatico del diritto e sulla sua razionale coerenza,l'altra traente origine dalle espressioni del diritto quali si possono ricavare dalla concreta,casistica esperienza( così nota opportunamente Moccia,nella monografia del 2005 Comparazione giuridica e Diritto europeo).In questo cuneo trova piena legittimazione scientifica la giuscomparazione in misura direttamente proporzionale alla sua attitudine a trattare dei problemi relativi agli “ ordinamenti,intesi come entità globali ,ai loro elemeni essenziali,ai fattori che formano le strutture caratterizzanti e rappresentano le peculiarità” ( così si esprimono Sacco e Gambaro nell'edizione del 2008 dei loro Sistemi giuridici comparati ).
Tornando ai rapporti tra scienza giuridica e prassi,come conformati anche per effetto dell'intervento della comparazione giuridica,si deve tener conto,come ho già scritto, che la declinazione in senso casistico delle ricerche comparatistiche,ed in particolar modo di quelle che corrono lungo la pista dei raffronti tra “figurae iuris”,più che nell'aria rarefatta delle tassonomiche classificazioni degli ordinamenti ( alla stregua delle opere di David e Costantinescu),non è solo un dato di fatto ripetuto ed approvato ma è soprattutto una modalità peculiare e prestigiosamente attuata per interpretare i compiti del comparatista ( illuminanti sono le parole di Gorla al riguardo,scritte nei due volumi,già citati, “Il contratto.Problemi fondamentali trattati con il metodo comparatistico e casistico”,di metà degli anni '50 del secolo scorso,inneggianti al metodo casistico,concepito come quello che consente di “rifare o riprodurre nella nostra mente....il processo mentale che porta giudici e legislatori...a formulare astrazioni di regole e principii”).Nè,una volta postulata e riconosciuta la circolarità degli scambi tra scienza giuridica e prassi inverata ed oggetto di ricognizione da parte della comparazione giuridica,quale sia l'elemento che esercita sull'altro maggiore influenza: ciò che conta qui stabilire è che la comparazione giuridica,in quanto diretta promotrice dell'aggregazione di tutti gli elementi costitutivi di un dato ordinamento, è destinataria e protagonista del dibattito tra aspetto scientifico-teorico ed aspetto pratico-casistico.
Resta,tuttavia, da percorrere la strada della scientificità intrinseca anche del metodo casistico,dimostrandone l'attendibilità.In questa intrapresa di speciale utilità si rivela il ricorso allo studio dell'esperienza giuridica inglese,indicata come prototipo di siffatto atteggiamento mentale nonché pragmatico.
In verità,il mondo giuridico anglosassone mostra quanto sia sempre stato sentito l'interesse verso il dialogo dottrina-giurisprudenza,respingendo l'idea della separatezza tra teoria e pratica del diritto e della carenza in quest'ultima di adeguate basi scientifiche.Nel celebre caso Spiliada Maritime Corporation v Consulex Ltd del 1987 Lord Goff of Chieveley tributò gratitudine ad alcuni autori che gli erano stati d'aiuto nella redazione della sua opinione,accomunando giuristi pratici ( giudici) e teorici ( studiosi) nelle vesti di pellegrini in cammino lungo una strada infinita, alla volta di un'irraggiungibile perfezione, che conversano tra loro in modo reciprocamente gratificante.
Lo stesso filone di pensiero era stato reso esplicito agli inizi degli anni '30 del XX secolo da due memorabili saggi ascrivibili ad altrettanti autori reputati maestri della dottrina inglese.Si tratta di Pollock con il suo The science of case-law,apparso postumo nel 1961-dopo la morte dell'autore nel 1937- e di Goodhart con il suo Precedent in English and continental law del 1934.Nel primo scritto il case law venne definito come quella parte del diritto inglese formata non da atti normativi ma da pronunce giudiziali riportate in appositi repertori che seguono “servilmente” i precedenti,con il solo temperamento di evidenti finzioni (è trasparente il riferimento alla tecnica del “distinguishing” adottato come mezzo di sottrazione all'obbligo sequenziale in parola) ,anche se già dal titolo si palesa il riconoscimento della scientificità del diritto casistico,pur non immune dal rischio di dannose stratificazioni.L'altro scritto scorge una benefica idoneità del case law a creare nuove regole negli spazi lasciati vacanti dalla mancanza di precedenti (sulla esiguità di regole precedenziali nel common law inglese si era già espresso nel suo “Wyclif on English and Roman law” del 1896 Maitland, (1850-1906)),e ciò in considerazione del rapporto impari tra le sue poche regole vincolanti ed i tanti spazi bianchi che sono figli della estraneità di quell'ordinamento alla tecnica di redazione delle norme in termini generali ed astratti.Seppure frange non marginali della dottrina inglese non abbiano nel tempo mancato di esprimere riserve verso il metodo casistico ( si veda la rassegna di Baker nell'edizione del 1979 di “An introduction to English legal history) per il pericolo, che può generare, di fissità dell'apparato di regole vincolanti ( nonché per l'ambiguità e gli errori di prospettiva che possono annidarsi nei precedenti giudiziali,come notò uno dei massimi teorici della argomentazione giuridica,lo scozzese Mac Cormick -1941-2009- nel suo “Legal reasoning and legal theory del 1978),è ancora oggi del tutto prevalente l'opposto movimento di opinioni che,al contempo, individua nel case law un possibile strumento di calibro scientifico a vantaggio dell'intero sistema di common law e ragiona sui vantaggi attraverso lo stesso conseguibili in termini di stabilità ordinamentale.L'argomento che riscatta il diritto casistico dallo stigma della paventata ascientificità è stato,infine,scolpito nella sua riconducibilità metodologica alle scienze naturali,sotto il profilo della comune predilezione per il criterio di osservazione empirica della realtà a scopi predittivi degli accadimenti e delle esperienze future ,così promuovendo a regola il risultato dell'osservazione stessa .Ed infatti,la regolarità delle reazioni giurisprudenziali a certe azioni dell'uomo che cadono sotto la diretta cognizione giudiziale consente di conoscerne il trattamento nel tempo,trattamento invariabile se non in presenza del mutamento delle condizioni in presenza delle quali fu per la prima volta sancita la regola applicabile: in modo corrispondente-scrisse Pollock nell'opera da ultimo citata-l'osservazione di un fenomeno naturale conduce,in contesti costanti ed in assenza di varianti,al medesimo esito senza possibilità di sorprese,tanto da rendere superflua la rinnovazione dell'esperienza e consegnare alla storia di quella particolare branca delle scienze naturali solo il primo esperimento,in quanto i successivi esibiscono mero carattere reiterativo.
Ai fini della presente indagine riesce nitido il disegno degli apporti della comparazione giuridica,nella peculiare forma del suo esercizio attraverso il metodo casistico,alla scienza giuridica in generale:la predittività del diritto ,o quanto meno la sua prevedibilità,è requisito logicamente necessario per soddisfare l'ideale della sua certezza (Lord Eldon,pronunciandosi nel caso Sheddon v. Goodrich del 1803,affermò che è preferibile la certezza del diritto agli arrovellamenti del giudice circa il modo di apportarvi correzioni migliorative: analogo elogio della certezza fu declamato dal giudice Ashhurst nel caso Goodtitle v Otway nei seguenti termini:"And perhaps it is of less importance how the law is determined,than that it should be determined and certain”).
Non sembri paradossale né destabilizzante l'ipotesi che,mutate le circostanze ,le Corti inglesi siano indotte a cambiare la regola precedente,accedendo alle disparate formule del citato “distinguishing”,dell'"overruling” puro,del "prospective overruling” ( al riguardo si può rinviare al mio “Il valore del precedente tra tradizione continentale e common law:due sistemi ancora distanti?” del 2008).Perchè,come insegna Pollock,essendo scopo del diritto fare giustizia “ between man and man”,non può cedersi alla tentazione della immutabilità della regola precedente per sole ragioni di “elegantia iuris”,a scapito delle esigenze del caso concreto ( ed in questa controllata mobilità della regola giurisprudenziale si colloca l'elemento differenziale rispetto alle regola sperimentale propria delle scienze naturali).
Una prima conclusione si può trarre relativamente al ruolo svolto dal case law nel complesso ordito del sistema giuridico inglese: esso continua a prosperare, senza tema di eclissarsi, occupando tutti gli spazi consentiti dalla mancanza di un'opera codificatrice,ma senza per questo indulgere mai alla seduzione di compiere ultrattivamente la propria funzione di law making quando sulla materia a proposito della quale le Corti sono chiamate a giudicare il Parlamento abbia legiferato,di cui queste sono tenute a rispettare la sovranità in aderenza alla teoria costituzionalistica elaborata da Dicey (1835-1922) ed illustrata nelle varie edizioni,succedutesi nel tempo,di “An introduction to the study of the law of the Constitution”.
Se la posizione del common law inglese appare,nella logica del tributo che la giuscomparazione è in grado di onorare nei confronti della generale scienza giuridica,di lampante ed imponente rilievo per via delle interconnessione tra prassi e teoria,non può negarsi che anche dal versante dei contributi scientifici dei comparatisti italiani esposti nei paragrafi precedenti i risultati siano sicuri e convalidati dall'estensione dei riferimenti alle esperienze straniere circolanti in tutti i formanti,come dimostrano sia gli studi di diritto interno, che ormai non rinunciano allo sguardo profondo oltre i confini nazionali,sia l'avvalimento molto frequente ed utilissimo da parte della giurisprudenza degli “exempla” esterni ( diffusi in modo pregnante nelle pronunce di legittimità ),sia il recepimento da parte del Legislatore di modelli normativi stranieri invalsi in materia di speciale rilevanza sociale.Nè impediente ,dal punto di vista giurisprudenziale,si è in sostanza dimostrata la disposizione dell'art.118 comma 3 disp.att. cod.proc.civ. (che,come spiega Monteleone (1943) nel bel saggio del 2007 “Gaetano Filangieri e la motivazione delle sentenze”,rinviene un suo antecedente nella Prammatica del 27 settembre 1774 di Ferdinando IV di Borbone,confermata nel dispaccio reale del 25 novembre dello stesso anno che ammonisce i Giudici a non fondare le proprie decisioni sulle nude autorità dei dottori,che hanno purtroppo con le loro opinioni o alterato,o reso incerto ed arbitrario il diritto”) secondo cui “In ogni caso deve essere omessa ogni citazione di autori giuridici”.Ed invero,e per fortuna,la secca e rigorosa previsione viene costantemente elusa mediante il meritorio stratagemma delle citazioni impersonali o dei richiami delle prevalenti o maggiormente qualificate correnti di pensiero,da cui originano provvidenziali flussi comunicativi ed informativi tra dottrina e giurisprudenza ( tanto fitti che icasticamente Castronovo (1946) nella sua “Eclissi del diritto civile” del 2016 contempla l'evenienza della giurisprudenza che si fa dottrina).Flussi che vengono alimentati proprio dallo sguardo lungo lanciato verso esperienze ordinamentali diverse,soppesate in tutti i loro formanti,a partire da quelle comunitarie e dei diritti umani.In questo gioco di interazioni ed integrazioni ordinamentali,che ha nella comparazione giuridica la propria genitrice,si è perfettamente innestata la giurisprudenza inglese che,nel corso di una ormai più che ventennale stagione,che si auspica non venga bruscamente interrotta da improvvide pulsioni Brexiteer,fa del ricorso agli altri sistemi europei ( si veda l'opinione di Lord Goff nel caso White v Jones del 1995,infarcita di mutui dai diritti francese e tedesco) ed alla giurisprudenza comunitaria ( si veda la leading opinion di Lord Nicholls of Birkenhead nel caso del 2001 White and The Motor Insurance Bureau,deciso sulla base della giurisprudenza della Corte di Giustizia in materia di interpretazione delle eccezioni racchiuse nelle direttive poi trasposte negli ordinamenti degli Stati membri) un vero e proprio “common place”,con evidenti effetti sul terreno della ri-edificazione di un “ius commune aeropeum”.
Al termine di questo viaggio nel multiforme universo comparatistico è lecito consolidare la fiducia in una visione infrazionabile dell'intero fenomeno giuridico ,nella sua componente scolare ed in quella casistica.E questo notevole merito va riconosciuto ai cultori della nostra materia,giovane ma ormai saldamente immersa nelle acque degli ordinamenti territoriali.
Sul punto dell'unitarietà della scienza giuridica ( cui coopera per le ragioni appena enunciate in maniera brillante il diritto comparato ) le parole di Capogrossi (1889-1956),scritte nell'opera già citata,costituiscono un legato esemplare:”essa è incapace di diventare o una scienza puramente logica o una scienza puramente storica,ed insieme incapace di escludere interamente l'una e l'altra esigenza,incapace di diventare pura conoscenza:essa è la rappresentazione giuridica della singolarità dell'esperienza giuridica che serve di strumento a tutte le forme di esperienze e realizza una esperienza solo nella quale l'individuo trova la via per realizzare il suo destino”.
6. Le scuole civil-comparatistiche italiane e la loro influenza culturale.
La veloce rassegna, che nelle parti precedenti si è effettuata, della traiettoria storica della giuscomparazione italiana nella sua anima civilistica, anche nelle sue relazioni con le omologhe comunità straniere, dovrebbe servire a delineare un ritratto policromatico di questa articolazione della scienza giuridica .Il diritto comparato nasce in Italia,malgrado le illustri origini Vichiane ( e la prosecuzione nelle lezioni di Cuoco) ed Amariane,circondato da soffuse perplessità e da non nascoste prese di distanza dottrinarie che prendono di mira,in molti casi solo implicitamente,la pretesa di espandere il perimetro della ricerca oltre le rassicuranti e capienti mura domestiche e l'incerta identità scientifica ( a lungo ha suscitato compiacente ilarità lo stantio adagio che dipingeva i comparatisti come aspiranti docenti di diritto interno che ,avendo mancato la cattedra,cercavano asilo accademico presso discipline esotiche) di chi si accingeva agli studi comparatistici.Due concatenati e felici gruppi di circostanze rovesciarono il tavolo dalla seconda metà del XX secolo in poi.In primo luogo,l'accreditamento indiscusso di opere incentrate sul chiaro tratteggiamento dei profili metodologici della materia (a quelli di David (1906-1990) e Costantinescu ( 1939),già citati,vanno aggiunti esemplificativamente i nomi di Zweigert (1911-1996), Kotz (1935) , Henri Mazeaud ( 1900-1993).Andrè Tunc ( 1917-1999))ed il rigoroso tracciamento della sua natura scientifica non poterono lasciare insensibili le generazioni di giuristi interni le cui acute menti si andavano predisponendo all'introiezione di nuovi modelli giuridici,nella ragionevole previsione che a questa evenienza avrebbero corrisposto iniezioni di nuova linfa nel diritto italiano,affrancandolo dalle secche concettualistiche imperanti: grandi studiosi di diritto interno come Ascarelli (1903-1959),Sarfatti ,Rotondi ( 1900-1984) recepirono il messaggio di novità già prima della tragedia bellica e si attrezzarono anche didatticamente istituendo corsi universitari della materia.E già alla fine degli anni 1930 ( esattamente nel 1927) vedeva la luce,ad opera di Salvatore Galgano ( 1887-1965) l'Annuario di diritto comparato e di studi legislativi,edito fino al 1972 e ripreso nel 2010 , con bellissime pagine introduttive di Gabriele Crespi Reghizzi ( 1941) ed Antonino Procida Mirabelli di Lauro (1957) ,animato da un folto Comitato di redazione.
La seconda,altrettanto decisiva,causa di irrobustimento del prestigio e della capacità di permeazione della giuscomparazione può individuarsi nell'esempio proveniente dai due padri fondatori del diritto comparato moderno in Italia,Gino Gorla e Rodolfo Sacco i quali,quasi a smentire le maldicenze sul calibro scientifico degli studiosi disciplinari, optarono,da Professori ordinari di diritto civile,per la cattedra comparatistica,allora pressocchè misconosciuta nei piani di studio uiniversitari ed ignota,se non avversata, alla burocrazia ministeriale.Ed alla coraggiosa opzione si accompagnò e seguì una prodigiosa produzione scientifica,nonchè il sempre più profondo ingresso italiano nell'accademia comparatistica internazionale (l' International Academy of Comparative Law, che oggi conta un discreto numero di docenti italiani tra i membri titolari nominati per cooptazione ) , la costituzione dell'Associazione Italiana di diritto comparato,la fruttuosa alleanza culturale con qualificati studiosi di altre discipline quali Verrucoli e Cappelletti (1927-2004).Tutto questo fervore,cui si unì il crescente e plateale riconoscimento del prestigio degli studiosi italiani nell'arena mondiale,condusse verso porti sicuri la giuscomparazione,che vide fiorire nuovi intelletti disseminati lungo lo stivale,dei quali non è possibile adesso la puntuale menzione nominativa ovvero per proprietà di interessi e di produzione.Oggi la schiera dei comparatisti,civilisti e pubblicisti,italiani e delle Scuole e dei Maestri da cui germinano sempre più numerosi e sempre più vivaci allievi è ampia,competente,variegata negli interessi,ascoltata in tutto il mondo della scienza giuridica,diramata geograficamente,presente in terre straniere,produttrice di trattati,manuali,volumi che risentono dell'evoluzione del pensiero ma fedeli nella passione verso il comune e risalente ceppo scolare,portatrice di un orgoglioso senso di appartenenza scientifica.Ed è forse tempo che ,ad onta di ancora esistenti resilienze,venga finalmente adottata,anche nei curricoli universitari ,la dizione unificata ed unitaria della materia,ribattezzandola a tutto tondo come “diritto comparato” senza aggettivazioni areali,in omaggio all'adesione ad un metodo ed a scopi omogenei ,con l'avvaloramento della tradizione mondiale.In questo senso non vanno accolti con favore i ricorrenti tentativi di accrescere del fregio della parola “ comparato” pressocchè ogni diciplina di diritto interno che,pur povera della necessaria formazione metodologica,si inerpichi sugli impervi (quanto sostanzialmente improduttivi di pregevoli risultati scientifici) cammini della occasionale conoscenza del diritto straniero.E tutto ciò per rispetto di un autonomo plesso culturale che ha avuto la capacità di integrarsi perfettamente e proficuamente nell'area vasta della scienza giuridica.
Paola Filippi
Sommario: 1. Remaquillage dell’articolo 236 bis legge fallimentare, abrogazione del falso sulla fattibilità e difetto di delega. - 2. Genesi della fattispecie incriminatrice. - 3. L’oggetto della tutela e l’autore del reato. - 4. Oggetto della falsità - 5. La condotta.
1. Remaquillage dell’articolo 236 bis legge fallimentare, abrogazione del falso sulla fattibilità e difetto di delega.
Il reato di falsità in relazioni e attestazioni, descritto all’articolo 236 bis della legge fallimentare (in vigore sino al 14 agosto 2020), è collocato ora all’articolo 342 del Codice della crisi (in vigore dal 15 agosto 2020), le condotte sanzionate sono quelle originarie salvo qualche remaquillage formale, e …anche non, come si dirà.
Sono stati modificati gli articoli ai quali la norma rinvia -remaquillage formale e necessario- in ragione della nuova collocazione della fattispecie e delle modifiche introdotte con la riforma ex d.lgs. n. 14/2019 in tema di composizione della crisi.
Il falso del professionista, nelle possibili declinazioni omissive e commissive, è dunque diverso per il contesto procedimentale in cui la relazione si inserisce. Nulla sotto questo profilo è cambiato.
E’ stato introdotto ex novo l’inciso “alla veridicità dei dati contenuti nel piano o nei documenti ad esso allegati”.
L’oggetto della falsità è stato dunque ristretto - remaquillage non formale, forse necessario, non delegato-
La legge n.155/2017 non conteneva delega a operare modifiche in ordine al reato di falsità dell’attestatore a riguardo; lo schema licenziato dalla commissione Rordorf nel dicembre 2017 non prevedeva detto inciso, aggiunto successivamente, in sede di revisione del testo, ai fini della presentazione per l’approvazione al Consiglio dei Ministri.
Come si legge nella Relazione ministeriale “attraverso l’introduzione dell’art. 342 c.c.i., viene descritta meglio la condotta incriminata, essendo precisato il contenuto delle informazioni rilevanti la cui omissione costituisce reato”.
L’effetto dell’introduzione dell’inciso è quello dell’abrogazione delle fattispecie incriminatrici del falso integrate da attestazione sulla fattibilità del piano.
2. Genesi della fattispecie incriminatrice.
Il falso in attestazioni è stato introdotto dall'art. 33, comma 1, lett. l), d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, l’obiettivo era quello di assicurare una specifica tutela penale alle procedure di composizione della crisi introdotte con il d.lgs. n. 5/06, ivi compreso il riformato concordato preventivo[1]. L'art. 10 del D.L. 27 giugno 2015, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla L. 6 agosto 2015 n. 132, ha aggiunto il rinvio al 182 septies con riguardo alla relazione funzionale ad accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari e convenzione di moratoria.
La fattispecie penale era e resta generica, senza delega non poteva essere diversamente, il secco rinvio agli strumenti di composizione della crisi rende infatti difficile per l’interprete l’esatta individuazione della condotta in termini di individuazione della rappresentazione difforme dal vero penalmente rilevante.
3. L’oggetto della tutela e l’autore del reato.
Il bene-interesse del falso del professionista attestatore è il corretto accesso alle procedure di composizione della crisi diverse dalla liquidazione, l’affidamento dei creditori e dunque delle posizioni creditorie coinvolte nella crisi.
L’autore non può che essere il professionista, soggetto privato indipendente, ovvero non legato ai soggetti coinvolti da rapporti di natura personale o professionale tali da comprometterne l'indipendenza di giudizio.
Il codice della crisi lo definisce all’art. 2 lett. o) come il professionista incaricato dal debitore nell'ambito di una delle procedure di regolazione della crisi di impresa che soddisfi congiuntamente i seguenti requisiti: 1) essere iscritto all'albo dei gestori della crisi e insolvenza delle imprese, nonché nel registro dei revisori legali; 2) essere in possesso dei requisiti previsti dall'articolo 2399 del codice civile; 3) non essere legato all'impresa o ad altre parti interessate all'operazione di regolazione della crisi da rapporti di natura personale o professionale; il professionista ed i soggetti con i quali è eventualmente unito in associazione professionale non devono aver prestato negli ultimi cinque anni attività di lavoro subordinato o autonomo in favore del debitore, né essere stati membri degli organi di amministrazione o controllo dell'impresa, né aver posseduto partecipazioni in essa.
4. Oggetto della falsità.
L’oggetto materiale consiste in falsità nella stesura delle relazioni o attestazioni che il professionista è chiamato a redigere nell’ambito delle procedure di cui agli articoli 56, comma 4, 57, comma 4, 58, commi 1 e 2, 62, comma 2, lettera d), 87, commi 2 e 3, 88, commi 1 e 2, 90, comma 5, 100, commi 1 e 2.
L’articolo 56 si riferisce agli accordi in esecuzione di piani attestati di risanamento, trattasi di strumento negoziale stragiudiziale che prevede che l'imprenditore in stato di crisi o di insolvenza possa predisporre un piano, rivolto ai creditori, che sia idoneo a consentire il risanamento dell'esposizione debitoria dell'impresa e ad assicurare il riequilibrio della situazione finanziaria. Il piano deve avere data certa e deve indicare: a) la situazione economico-patrimoniale e finanziaria dell'impresa; b) le principali cause della crisi; c) le strategie d'intervento e dei tempi necessari per assicurare il riequilibrio della situazione finanziaria; d) i creditori e l'ammontare dei crediti dei quali si propone la rinegoziazione e lo stato delle eventuali trattative; d) gli apporti di finanza nuova; e) i tempi delle azioni da compiersi, che consentono di verificarne la realizzazione, nonché gli strumenti da adottare nel caso di scostamento tra gli obiettivi e la situazione in atto.
La relazione, che ne condiziona l’ammissione deve contenere attestazione della veridicità dei dati aziendali e della fattibilità economica e giuridica del piano.
L’articolo 57 si riferisce agli accordi di ristrutturazione dei debiti, trattasi anche in questo caso di strumento negoziale stragiudiziale. Gli accordi di ristrutturazione dei debiti possono essere conclusi dall'imprenditore, anche non commerciale e diverso dall'imprenditore minore, in stato di crisi o di insolvenza, con i creditori che rappresentino almeno il sessanta per cento dei crediti. Gli accordi devono contenere l'indicazione degli elementi del piano economico-finanziario che ne consentono l'esecuzione.
La relazione che ne condiziona l’ammissibilità deve contenere attestazione della veridicità dei dati aziendali e della fattibilità economica e giuridica del piano e altresì attestazione dell'idoneità dell'accordo e del piano ad assicurare l'integrale pagamento dei creditori estranei nel rispetto dei termini.
L’articolo 58 riguarda la relazione da allegare in caso di rinegoziazione degli accordi o modifiche del piano.
L’articolo 62 si riferisce alla convenzione di moratoria. La convenzione di moratoria è uno strumento stragiudiziale che si conclude tra un imprenditore, anche non commerciale, e i suoi creditori, diretta a disciplinare, in via provvisoria, gli effetti della crisi e avente a oggetto la dilazione delle scadenze dei crediti, la rinuncia agli atti o la sospensione delle azioni esecutive e conservative e ogni altra misura che non comporti rinuncia al credito, in deroga agli articoli 1372 e 1411 del codice civile. La relazione in questo caso deve contenere attestazione della veridicità dei dati aziendali, dell'idoneità della convenzione a disciplinare provvisoriamente gli effetti della crisi, e della ricorrenza delle condizioni richieste per l’ammissione.
L’articolo 87 si riferisce al piano di concordato da allegare insieme alla proposta di concordato. Il piano deve indicare: a) le cause della crisi; b) la definizione delle strategie d'intervento e, in caso di concordato in continuità, i tempi necessari per assicurare il riequilibrio della situazione finanziaria; c) gli apporti di finanza nuova, se previsti; d) le azioni risarcitorie e recuperatorie esperibili, con indicazione di quelle eventualmente proponibili solo nel caso di apertura della procedura di liquidazione giudiziale e delle prospettive di recupero; e) i tempi delle attività da compiersi, nonché le iniziative da adottare nel caso di scostamento tra gli obiettivi pianificati e quelli raggiunti; f) in caso di continuità aziendale, le ragioni per le quali questa è funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori;) ove sia prevista la prosecuzione dell'attività d'impresa in forma diretta, un'analitica individuazione dei costi e dei ricavi attesi dalla prosecuzione dell'attività, delle risorse finanziarie necessarie e delle relative modalità di copertura.
La relazione da allegare deve contenere attestazione della veridicità dei dati aziendali e della fattibilità del piano. Analoga relazione deve essere presentata nel caso di modifiche sostanziali della proposta o del piano. In caso di concordato in continuità la relazione del professionista indipendente deve attestare altresì che la prosecuzione dell'attività d'impresa è funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori.
La relazione può anche contenere attestazione che la proposta di concordato del debitore assicuri il pagamento di almeno il trenta per cento dell'ammontare dei crediti chirografari nel caso si voglia evitare la presentazione da parte dei creditori delle proposte concorrenti di cui all’articolo 90.
L’articolo 88 si riferisce alla relazione da allegare al piano di concordato in caso si preveda un trattamento differenziato dei crediti tributari e contributivi. La relazione del professionista indipendente, relativamente ai crediti fiscali e previdenziali, deve contenere attestazione della convenienza del trattamento proposto rispetto alla liquidazione giudiziale.
L’articolo 90 riguarda le proposte concorrenti che possono essere presentate dai creditori non oltre trenta giorni prima della data iniziale stabilita per la votazione dei creditori sulla proposta di concorso del debitore.
L’articolo 100 riguarda la relazione che il debitore deve allegare per ottenere la autorizzazione al pagamento di crediti pregressi, essa deve contenere l’attestazione che trattasi di pagamenti essenziali per la prosecuzione dell'attività di cui è prevista la continuazione.
5. La condotta.
La condotta si realizza attraverso l’esposizione di informazioni false o omissione di informazioni rilevanti, l’oggetto materiale dell’esposizione di informazioni false riguarda, per effetto della precisazione operata con il d.lgs. n. 14/2019, “la veridicità dei dati contenuti nel piano o nei documenti ad esso allegati”.
L’inciso è affetto da difetto di delega, in bonam partem, in quanto abrogativo del falso ricadente in attestazioni sulla fattibilità.
L’esposizione di informazioni false nell’attestazione della veridicità dei dati aziendali è integrata dall’attestazione di veridicità di dati contabili non corrispondenti al vero.
L’omessa esposizione di informazioni rilevanti è integrata dal mancato inserimento nella relazione di dati relativi all’impresa che, se conosciuti avrebbero condotto diversa determinazione il tribunale e i creditori.
La nozione di rilevanza continua ad essere riferita esclusivamente alle informazioni omesse; questa è la conclusione alla quale si giunge in base a interpretazione letterale della norma per la collocazione dell’aggettivo “rilevanti”; sul punto la dottrina non è univoca e, secondo orientamento minoritario, sarebbe ingiustificato ritenere la nozione di rilevanza limitata all’omissione e non estesa anche alle informazioni false, non si è formata giurisprudenza a riguardo[2].
In base ad una lettura sistematica della fattispecie penale e alla luce dell’oggetto della tutela, la rilevanza dell’informazione omessa è nozione diversa da quella elaborata in materia di falso in quanto, come si è detto, nel caso della falsità dell’attestatore l’omissione è rilevante penalmente se specificamente diretta a manipolare o a nascondere un dato che, se conosciuto, deporrebbe per una conseguente non ammissione alla procedura.
La lettura della norma che tenga conto della finalità della relazione consente di affermare che l’informazione omessa è rilevante quando, se conosciuta, in termini di id quod plerumque accidit, avrebbe indotto i creditori a non accettarla e il tribunale a non ammetterla, perché inidonea al conseguimento della causa giuridica o perché in violazione di norme imperative come l’art. 2740 c.c..
La rilevanza dell’omissione coincide con la rilevanza penale della condotta.
Per utilizzare la nozione elaborata dalle Sezioni Unite, per il reato di false comunicazioni sociali, dopo la novella del 2015, deve concludersi che “la rilevanza altro non è che la pericolosità conseguente alla falsificazione”.
Secondo quanto affermato dalle Sezioni Unite in materia di false comunicazioni sociali il reato è integrato “con riguardo all’esposizione o alla omissione di fatti oggetto di 'valutazione', se, in presenza di criteri di valutazione normativamente fissati o di criteri tecnici generalmente accettati, l'agente da tali criteri si discosti consapevolmente e senza darne adeguata informazione giustificativa, in modo concretamente idoneo ad indurre in errore i destinatari delle comunicazioni" (Sez. Unite sentenza n. 22474/2016).
In altri termini, è sanzionata la condotta del professionista che redige una relazione attestativa nella quale, venendo meno agli obblighi di veridicità ed esaustività, attesti come veri dati aziendali non veri o non informi dell’esistenza di eventuali operazione poste in essere in violazione di norme imperative (prima tra tutte la violazione dell’art. 2740 c.c.) ovvero ometta di informare in ordine a eventuali operazioni che rendono irrealizzabile la causa giuridica del modello di composizione e così giuridicamente non fattibile il piano, l’accordo o il concordato[3].
Sono previste due circostanze aggravanti speciali quella del danno ai creditori e quella del profitto ingiusto.
Dette circostanze confermano la natura di reato di condotta del falso del professionista e l’irrilevanza ai fini della configurabilità del reato degli effetti procedurali della falsa attestazione.
In base alla casistica elaborata in sede di apertura delle procedure di composizione della crisi sono da ritenere informazioni che necessariamente devono essere fornite dall’attestatore e dunque devono essere veritiere, quelle che riguardano l’attivo, in uno con i criteri utilizzati per la valutazione, e dunque i dati relativi alla natura, alla data di acquisto, al grado di obsolescenza e all’effettiva disponibilità dei beni, quelle che riguardano eventuali vincoli. Il dato dell’attivo per crediti commerciali necessita di informazioni sull’esigibilità, recuperabilità dei crediti e solvibilità dei debitori. Il dato della redditività dell’impresa richiede informazioni in ordine alla perduranza dei contratti essenziali per la prosecuzione dell’attività.
Il reato è punito a titolo di dolo generico nella sua fattispecie semplice, ed a titolo di dolo specifico in quella aggravata del secondo comma. [4]
Ai fini della penale rilevanza della falsa attestazione occorre dunque la consapevolezza e l’intenzionalità in ordine alla non veridicità del dato e con riguardo all’omessa informazione, la consapevolezza della rilevanza.[5] La consapevolezza va valutata in relazione al grado di esigibilità di diligenza e perizia da valutarsi in ragione non solo dei requisiti di professionalità richiesti ma anche dell’oggetto dell’incarico conferito che specificamente richiede al professionista attestazione dal contenuto di cui agli articoli ai quali la fattispecie incriminatrice fa rinvio.[6]
Trattasi di reato proprio del professionista ma a concorso eventuale del debitore o dei professionisti che assistono il debitore, concorso che può realizzarsi nella forma dell’istigazione o in quella del concorso morale.
Il professionista agisce poi da autore mediato nel caso in cui il debitore gli consegni ai fini dell’elaborazione dell’attestazione dati artatamente falsificati, e la falsificazione non sia riconoscibile.
Il reato si consuma con il deposito presso la cancelleria del tribunale della relazione.
La genericità della fattispecie e le difficoltà interpretative hanno comunque determinato un’assai scarsa applicazione della fattispecie nessuna sentenza di condanna è stata ancora sottoposta al sindacato di legittimità, l’introduzione del reato di false attestazione è comunque rapidamente divenuto un significativo deterrente per i professionisti attestatori dal redigere attestazioni false o anche semplicemente sciatte sotto il profilo informativo[7].
[1] Bricchetti, Codice della crisi d’impresa: rassegna delle disposizioni penali e raffronto con quelle della legge fallimentare in diritto penale contemporaneo fasc. 7/8 2019, 93; Fontana, La disciplina penale, Il nuovo sovraindebitamanento, Bologna 2018, 273; Gambardella, Il nuovo codice della crisi di impresa e dell'insolvenza: un primo sguardo ai riflessi in ambito penale, in Diritto penale contemporaneo, 27 novembre 2018; Sandrelli, Le esenzioni dai reati di bancarotta e il reato di falso in attestazioni e relazioni, Il Fallimento 7/2013, 789; Bricchetti, Soluzioni concordate delle crisi di impresa e rischio penale dell’imprenditore, Le Societa` 6/2013 689, Bertacchini, Crisi d’impresa tra contraddizioni e giuridica “vaghezza”. Riflessioni a margine del c.d. Decreto Sviluppo (d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. dalla l. 7 agosto 2012, n. 134) contratto e impresa 2/2013, 322; Fiore S., Nuove funzioni e vecchie questioni per il diritto penale nelle soluzioni concordate della crisi d’impresa, Il Fallimento 9/2013 1193; Borsari, Il nuovo reato di falso in attestazioni e relazioni del professionista nell’ambito delle soluzioni concordate alle crisi d’impresa. Una primissima lettura, in Diritto penale contemporaneo, 2013, 1, 84 ss.; Tetto, La (ritrovata) indipendenza del professionista attentatore nelle soluzioni concordate della crisi di impresa, in questa Rivista, 2013, 675 ss; Mucciarelli, Il ruolo dell’attestatore e la nuova fattispecie penale di ‘‘Falso in attestazioni e relazioni’’, pubblicato il 3 agosto 2012 sul sito www.ilfallimentarista.it.; Filippi, I reati fallimentari, in Il diritto penale dell’impresa, (a cura di C. Parodi) Milano 2017.
[2] Tetto La (ritrovata) indipendenza del professionista attestatore nelle soluzioni concordate della crisi d’impresa, Fallimento 6/2013, 688; Bertacchini, Crisi d’impresa tra contraddizioni e giuridica “vaghezza”. Riflessioni a margine del c.d. Decreto Sviluppo (d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. dalla l. 7 agosto 2012, n. 134) Contratto e Impresa 2/2013, 322. Ai fini della valutazione dell’attività dell’attestatore un rilievo particolare ha assunto il documento redatto, in data 6 giugno 2014, a cura dell’AIDEA, Accademia Italiana Di Economia Aziendale, dell’ IRDCEC, Istituto di ricerca dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili, dell’ANDAF, Associazione Nazionale Direttori Amministrativi e Finanziari; dell’APRI, Associazione Professionisti Risanamento Imprese; dell’ OCRI, Osservatorio Crisi dal titolo “Principi di attestazione dei piani di risanamento”
[3] Filippi, I reati fallimentari, in Il diritto penale dell’impresa, (a cura di C. Parodi) Milano 2017
[4] Brichetti – Pistorelli, Operazioni di risanamento, professionisti nel mirino, in Guida al Diritto, 2012, n. 29, pag. 45 e ss; Borsari, Il nuovo reato di falso in attestazioni e relazioni del professionista nell’ambito delle soluzioni concordate delle crisi d’impresa, cit., pag. 97. V. Demarchi Albengo, La fattispecie incriminatrice di cui al nuovo articolo 236 bis legge fall.: la responsabilità penale dell’attestatore, in Il Caso.it, doc. 325/2012, pag. 6.
[5] Bruno – Caletti, L’art. 236 bis l.fall.: il reato di falso in attestazioni e relazioni, in A. CADOPPI – Canestrari – Manna – Papa, Diritto Penale dell’Economia, Torino, 2017, II, pag. 2260; D’Alessandro, Il delitto di false attestazioni e relazioni, tra incerte formulazioni legislative e difficili soluzioni esegetiche, cit., pag. 552.
[6] Filippi, I reati fallimentari, in Il diritto penale dell’impresa, (a cura di C. Parodi) Milano 2017
[7] Il reato di falso in attestazioni e relazioni: un delitto fantasma? Jannuzzi-Regi in diritto penale contemporaneo n. 5/17
di Bruno Giordano
Tre anni fa veniva approvata la legge 199 per il contrasto al caporalato e allo sfruttamento del lavoro. Migliaia di processi con centinaia di arresti in tutta Italia, sfruttamento economico e umano, azzeramento di qualsiasi diritto sociale, condizioni abitative mortificanti, decine di aziende sottoposte al controllo giudiziario, hanno fatto emergere un paese in cui la regola è il lavoro nero. Un quadro criminoso, sociale ed economico ben più grave ed esteso di quello che si pensava mille giorni fa: non soltanto lo sfruttamento di immigrati nei campi ma di tutti e in tutti i settori in cui il bisogno fa lievitare l’offerta di manodopera a qualsiasi prezzo: edilizia, call center, cantieri navali, pesca, sanità, trasporti, servizi; da Ragusa a Monfalcone, italiani e stranieri, uomini e donne, giovani e anziani, e chiunque debba accettare in silenzio qualsiasi paga.
Il silenzio è la prima vera piaga purulenta. Il bisogno diventa rassegnazione, omertà, ma non delazione; pochissime le denunce dei lavoratori che non riescono a ribellarsi. Per tutelare le vittime occorre innanzi tutto garantire il patrocinio a spese dello Stato, come già avviene per le vittime di reati sessuali, e una serie di benefici anche per chi non ha bisogno di un permesso di soggiorno.
Occorre garantire anche le imprese sane. Chi sfrutta il lavoro non sostiene nessun onere sociale o costo per la sicurezza, non produce di più ma abbassa il costo del lavoro, entra nel mercato con beni o servizi meno cari, usando la dignità dei lavoratori, la forma più cattiva di concorrenza sleale. I costi più bassi sono il frutto dell’abuso dei diritti sociali dei lavoratori sfruttati che ricevono comunque i servizi sanitari, amministrativi, previdenziali, assicurativi, giudiziari. Tutto il lavoro grigio o nero, e a maggior ragione quello sfruttato, diventa spesa pubblica sostenuta da tutti noi, e soprattutto dalle imprese sane che così pagano un doppio conto, nel mercato per la slealtà del concorrente sfruttatore e al fisco per l’aumento della spesa pubblica. Lo sfruttamento non è solo un reato ma la violazione dell’etica del mercato del lavoro e della finanza pubblica. Il mondo delle imprese sane, quindi, dovrebbe essere il primo a chiedere un’applicazione a tappeto della legge 199. Questo è il vero rating di legalità. Non mera pubblicità ma concreta responsabilità sociale.
Soprattutto in agricoltura - il settore primario più foraggiato da sovvenzioni e fondi europei e più gratificato dalla leva fiscale - taluni si giustificano per via dei prezzi troppo bassi imposti dall’oligarchia della grande distribuzione organizzata, che scarica sui produttori ricavi inferiori alle aspettative costringendoli alla riduzione dei salari, ben al di sotto di quanto previsto nei contratti collettivi, anche provinciali. Un’autoassoluzione di coscienza che fa tornare indietro le lancette a quando era il mercato a governare i diritti, ma la nostra Costituzione economica e sociale non tutela i più forti che non sanno resistere a chi è ancora più forte, ma innanzi tutto i più deboli. Il diritto e i diritti governano il mercato, non il contrario.
Soprattutto in agricoltura il caporalato del terzo millennio si insinua tra le pieghe del contratto di somministrazione usato per dare una formale copertura a chi è in grado di reclutare lavoratori stagionali, ben consapevoli dell'obbedienza e rispettoso silenzio che devono all’intermediario dell’agenzia di somministrazione, salvo perdere il lavoro per tutta la stagione.
Il controllo e la vigilanza sulle agenzie è svolto dal Ministero del lavoro che può procedere anche alla revoca dell'autorizzazione, e da parte delle Regioni che possono revocare l’accreditamento delle agenzie. Ma questo non avviene.
Emerge anche un vero e proprio caporalato urbano. Lavoratori di giornata vengono reclutati ogni mattina nelle periferie delle città per l'edilizia, trasporti, facchinaggio, lavori di manutenzione, servizi a domicilio. Insomma dove è più difficile, ma non impossibile, eseguire i controlli. Le zone franche dello sfruttamento sono quelle in cui non arrivano i controlli, che necessitano di interventi sul territorio con una visione complessiva di vari fattori: immigrazione, sicurezza del lavoro, presenza sul territorio, criminalità organizzata. I soggetti incaricati dell’attività di vigilanza (Ispettorato nazionale del lavoro,con Inps e Inail, ASL, Guardia di Finanza, Carabinieri, Polizia di Stato) sono troppi per consentire la necessaria attività di coordinamento, manca un’unica banca dati e un’Agenzia unica che concentri tutte le forze e le competenze in materia. Contro ci sono resistenze, non argomenti.
Non è solo lotta al caporalato, ma scelta di politica economica e sociale obbligata dall’art. 41 della Costituzione. Ci vuole ancora coraggio, e volontà.
Per installare questa Web App sul tuo iPhone/iPad premi l'icona.
E poi Aggiungi alla schermata principale.
