ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La Corte costituzionale a ranghi ridotti: inefficienze e rischi derivanti dalla perdurante mancata elezione del quindicesimo giudice costituzionale
di Corrado Caruso e Pietro Faraguna
Sommario: 1. Le norme - 2. I fatti - 3. I rischi - 4. La cattura partitocratica della Corte. Un problema di legittimazione? - 5. I possibili rimedi
1. Le norme
Lo scorso 24 luglio, in occasione della cerimonia del ventaglio al Quirinale, il Presidente Mattarella ha esortato, “con garbo e determinazione”, il Parlamento a eleggere il quindicesimo giudice costituzionale.
I motivi di questa esortazione sono forse noti, ma nel dubbio conviene ripassare le coordinate normative e i fatti istituzionali che hanno portato al monito. Quanto alle norme, «la Corte costituzionale è composta di quindici giudici», afferma l’art. 135 della Costituzione. Alla scadenza del termine il giudice costituzionale cessa immediatamente dalla carica e dall’esercizio delle funzioni, recita ancora l’art. 135 Cost., modificato dalla l. cost. 2/1967, che ha eliminato la prorogatio originariamente prevista dalla Costituzione. La stessa legge costituzionale poi, all’art. 5, secondo comma, dispone che, «in caso di vacanza a qualsiasi causa dovuta, la sostituzione avviene entro un mese dalla vacanza stessa». Le fonti costituzionali delineano dunque un duplice obbligo, il secondo conseguenza del primo: la Corte deve essere composta da 15 giudici; là ove, per qualsiasi causa, l’integrità del collegio venisse meno, è necessario che l’istituzione incaricata provveda entro trenta giorni a ripristinarne l’originaria composizione.
Come noto, i giudizi di estrazione parlamentare sono un terzo del totale: per l’elezione di questi ultimi la legge cost. n. 2/1967, ha stabilito maggioranze molto alte (2/3 degli aventi diritto nei primi tre scrutini, 3/5 in quelli successivi) che, unitamente a requisiti soggettivi non meno elevati (i giudici costituzionali devono essere professori ordinari in materie giuridiche, avvocati con almeno 20 anni di esercizio o magistrati delle supreme magistrature), contribuiscono a determinare un profilo di altissima professionalità e ampia legittimazione, anche per quei giudici che traggano la loro nomina dall’elezione parlamentare. La maggioranza richiesta per eleggerli, stabilita dalla l. cost. n. 2/1967, è persino più alta di quella necessaria a modificare la stessa Costituzione che stabilisce i criteri della loro elezione (sul punto si sprecano varianti di paradossi di Alf Ross[1]). Non è sempre stato così: nell’assetto originario dell’ordinamento repubblicano, prima dell’entrata in vigore della l. cost. n. 2/1967, le super maggioranze per l’elezione dei giudici costituzionali erano imposte… da una legge ordinaria (la legge n 87 del 1953)!
2. I fatti
Quanto ai fatti: i giudici costituzionali sono oggi quattordici, per la precisione dall’11 novembre 2023, ultimo giorno del mandato della Presidente Sciarra e dei Vicepresidenti de Pretis e Zanon. Per qualche giorno i giudici sono stati infatti 12, ma gli ultimi due sono stati prontamente sostituiti con le nuove nomine presidenziali dei giudici Pitruzzella e Sciarrone Alibrandi. Il posto lasciato vacante dalla Presidente Sciarra, eletta giudice costituzionale dal Parlamento in seduta comune (la prima, e sinora unica donna che il Parlamento ha eletto nella storia della Repubblica), è invece ancora vacante, e sembra destinato a restare tale per un po’.
Negli ultimi trent’anni, dall’avvento del «bipolarismo rusticano»[2] della cosiddetta seconda Repubblica fino all’odierno, instabile, assetto tripolare, si è avuta una crescente difficoltà nel raggiungere gli elevati quorum stabiliti dalla Costituzione (lo stesso vale per l’elezione del Capo dello Stato, tanto che per ben due volte si è recentemente “ripiegato” sulla rielezione del Presidente uscente). Basti pensare alle prolungate tempistiche per la sostituzione dei giudici Casavola e Spagnoli (undici mesi: 25 febbraio 1995-24 gennaio 1996), Caianiello (quasi venti mesi: 23 ottobre 1995-18 giugno 1997), Guizzi e Mirabelli (oltre diciassette mesi: 21 novembre 2000-24 aprile 2002), Vaccarella (poco meno di diciotto mesi: 2 maggio 2007-21 ottobre 2008)[3], sino ai 16 mesi necessari a colmare la vacanza aperta dalle uscite di Silvestri, Mazzella e Mattarella, pure cessati dalla carica in momenti diversi[4], chiusa con l’elezione, nel dicembre 2015, di Barbera, Modugno e Prosperetti (in scadenza a fine 2024)[5]. Tali difficoltà sono state più facilmente superate quando l’elezione non riguardava un solo posto vacante ma più d’uno, così da consentire un accordo tra diversi gruppi parlamentari e raggiungere l’elevato quorum richiesto dalla Costituzione.
Simile prassi è perfettamente comprensibile, e conduce a un progressivo accrescimento dell’elezione parlamentare: poiché non si raggiunge l’accordo per l’elezione di un solo giudice, si attende di doverne eleggere (almeno) due. Questi scadranno contemporaneamente (salvo imprevisti), e al loro pacchetto si “unirà” l’ulteriore elezione del giudice in scadenza solitaria. Il pacchetto diventerà inevitabilmente sempre più grande: abbiamo già assistito in passato agli effetti di questo processo (con la sostituzione contestuale di tre giudici che avevano terminato il mandato in momenti diversi) e potremmo presto assistere al “record” negativo, se il posto lasciato vacante dalla Presidente Sciarra verrà riempito solo quando scadrà il pacchetto dei prossimi tre giudici parlamentari in uscita contestuale.
3. I rischi
Il fatto che la dinamica sia facilmente comprensibile sul piano descrittivo, non ne trasforma la natura: essa rimane una inadempienza costituzionale, con gravi effetti collaterali. Alcuni piccoli, uno molto grande. Tra quelli piccoli vi è che la Corte, tra la scadenza del giudice “solitario” e la scadenza del pacchetto più grande, lavora a ranghi ridotti. Lavorare con un giudice in meno significa avere una fonte di competenza e sensibilità in meno, significa avere tempi di decisione più lunghi (seppure non sia questo il problema dell’attuale stagione della Corte), significa lavorare in un collegio composto in numero pari (non il massimo per un organo che decide pur sempre votando a maggioranza).
Il rischio molto grande è determinato dal fatto che il funzionamento della Corte costituzionale è impedito se i giudici sono meno di undici. L’inadempimento costituzionale finisce naturalmente per travolgere come una valanga l’equilibrio e il funzionamento stesso dell’Istituzione, una volta che si vengano a creare pacchetti di 4 o 5 giudici da sostituire.
Come anticipato, il pacchetto di 4 giudici potrebbe essere realtà dal prossimo dicembre 2024, quando al posto lasciato vacante dalla Presidente Sciarra si aggiungeranno ben tre ulteriori vacanze (il Presidente Barbera e i Vicepresidenti Modugno e Prosperetti, tutti di elezione parlamentare). La Corte si ritroverà dunque con 11 giudici su 15. Per poche settimane, se tutto andrà bene (per qualche mese, in realtà, perché i giudici ancora in carica non partecipano alle udienze e camere di consiglio in cui si discutono cause le cui decisioni non farebbero in tempo a firmare), o per più tempo se la sostituzione del folto pacchetto dovesse incappare in difficoltà non previste.
La composizione della Corte con 11 giudici su 15 è evidentemente pericolosa per la stessa operatività del giudice delle leggi: ai sensi dell’art. 16 della legge n. 87 del 1953, «[l]a Corte funziona con l’intervento di undici giudici»: ciò significa che quando il collegio è completo, ci sono ben quattro assenze “di margine”, che non influiscono sull’operatività del collegio. Quando i giudici in carica si ritroveranno soltanto 11, qualunque vicissitudine personale – a partire da una semplice influenza – potrebbe mettere a repentaglio il funzionamento dell’intero organo. Peggio ancora: un assetto a 11 metterebbe nelle mani di ogni singolo giudice un potere, certamente del tutto alieno all’assetto costituzionale pensato dal Costituente, di impedire il funzionamento dell’organo, consentendo a questi di impedire al collegio di prendere qualsivoglia decisione mediante la sola forza della sua assenza. Si tratta di uno scenario evidentemente assai indesiderabile, e tutto suggerisce l’opportunità di evitare che tale scenario possa verificarsi. Obiettivo che si potrebbe tutto sommato raggiungere agevolmente, non facendo niente di più che adempiere a quanto chiede la Costituzione: assicurare che la Corte costituzionale sia composta da 15 giudici, non uno di meno.
4. La cattura partitocratica della Corte. Un problema di legittimazione?
Ma perché non eleggere immediatamente il giudice mancante? La tattica “attendista” sembra avere motivazioni schiettamente politiche. Piuttosto che cercare attivamente un accordo immediato con l’opposizione (o una parte di essa) – attraverso l’individuazione di un profilo almeno parzialmente condiviso, oltre il perimetro della maggioranza che sostiene il governo – la coalizione governativa sembra voler esprimere un candidato “identitario”, verosimilmente vicino a Fratelli d’Italia, partito di maggioranza relativa. Peraltro, eleggendo contemporaneamente quattro giudici costituzionali a dicembre – un evento, lo ripetiamo, senza precedenti nella storia repubblicana –, la maggioranza potrebbe ambire a nominare tre giudici, scegliendo, sulla base di convenienze contingenti, quale partito della frammentata opposizione premiare con l’individuazione dell’ultimo giudice.
La stessa Presidente del Consiglio Meloni ha espressamente rivendicato la prerogativa – sua e della maggioranza che la sostiene – di eleggere “suoi” giudici costituzionali, rispondendo a talune voci critiche, tra cui quella dell’ex Presidente della Corte Giuliano Amato, che hanno sollevato preoccupazioni sulle implicazioni illiberali di questa posizione[6]. Secondo Meloni, «questa idea della democrazia per la quale quando vince la sinistra chiaramente deve poter avere tutte le prerogative che riguardano la maggioranza e quando vince la destra no» avrebbe riflessi autoritari, collocandosi al di fuori della libera dialettica democratica[7].
Sebbene esprimere un giudice di “area” rappresenti una comprensibile aspettativa, applicare alle nomine costituzionali meccanismi da spoil system, distinguendo tra giudici costituzionali (appartenenti a partiti) di destra o di sinistra, è profondamente sbagliato, come ribadito a più riprese dall’attuale Presidente della Corte costituzionale, Augusto Barbera[8]. Eppure, l’idea della Presidente del Consiglio sembra essere condivisa dalle diverse forze politiche, come dimostra la silenziosa acquiescenza dell’opposizione, le cui varie anime sembrano più interessate a contendersi le “spoglie” dei giudici uscenti che a soddisfare l’obbligo costituzionale o denunciarne il perdurante inadempimento.
Sia chiaro: non ci pare che questi sviluppi testimonino un’imminente deriva autoritaria, comunque impedita o quantomeno resa assai difficoltosa dagli alti quorum di elezione, dalla variegata estrazione del collegio e dalla diversità delle istituzioni chiamate a nominare o eleggerne i componenti. Assistiamo piuttosto al rischio di una cattura partitocratica della Corte costituzionale, secondo una tendenza generale che da tempo caratterizza il nostro sistema politico[9], ma che oggi pare amplificata dalla fine dei grandi collanti ideologici, dalla mutazione dei partiti di massa in partiti “cartello” e dalla immedesimazione identitaria con l’elettorato che contraddistingue trasversalmente le forze politiche, inesorabilmente attratte dalle sirene del populismo[10].
Lo spoil system applicato alla Corte costituzionale è contrario alla Costituzione. Un conto è, infatti, provare a convergere verso personalità provenienti da una certa cultura politica, nell’ottica di caratterizzare il collegio in senso pluralistico; altro è ripartire, col famoso manuale Cencelli, i giudici costituzionali sulla base dell’appartenenza partitica. Questa conclusione si trae da una lettura sistematica delle norme costituzionali: il Parlamento in seduta comune svolge, non diversamente da quanto avviene per l’elezione del Presidente della Repubblica, funzioni di collegio elettorale «imperfetto»[11]: non sono giuridicamente previste la presentazione e la discussione di candidature, né le audizioni degli interessati, né la presentazione di programmi di giustizia costituzionale. Il giudice eletto non è il mandatario né il rappresentante di alcuna forza politica, ma agisce in nome del popolo e nell’interesse della Costituzione.
Inoltre, l’art. 135 Cost. si distingue da altre disposizioni costituzionali, come quelle relative alla composizione delle commissioni parlamentari permanenti (artt. 72.3) speciali (art. 82.3) o al collegio elettorale presidenziale (art. 83.2 Cost.), non prevedendo «che la composizione della Corte rifletta gli equilibri tra le diverse componenti parlamentari»[12]. Non c’è in altri termini la necessità di rispecchiare una proporzione tra le forze politiche: non a caso, gli alti quorum previsti, che avvicinano il voto a maggioranza all’unanimità, riflettono l’idea che la selezione del giudice avvenga per consenso piuttosto che sulla base di un semplice computo maggioritario dei voti.
Un processo di designazione in cui ogni partito nomini il proprio giudice rischierebbe di intaccare l’imparzialità della Corte, favorendo la fedeltà organica rispetto all’apertura a diverse visioni del mondo, alterando la percezione di imparzialità che ne ha l’opinione pubblica: la Corte costituzionale è, in fondo, “anche” un giudice[13] e, come tutti i giudici, deve non solo essereimparziale, ma anche sembrare tale all’esterno.
Infine, le nomine a pacchetto rischiano di produrre effetti indesiderabili sul corretto funzionamento della Corte indipendentemente da chi venga eletto: la sostituzione contestuale di 1/3 del totale dei giudici determinerebbe un cambiamento radicale e improvviso nella composizione del collegio, rischiando di interrompere, per una mera questione di discontinuità personale, l’andamento della giurisprudenza costituzionale, che in un ordinamento orientato al rispetto della rule of law è importante invece sia stabile e prevedibile (anche nel suo sviluppo e nella sua inevitabile trasformazione), in ossequio al fondamentale valore della certezza del diritto.
In un sistema ideale, il problema dell’inerzia parlamentare verrebbe risolto attraverso un approccio strategico o deliberativo delle forze politiche. I partiti dovrebbero abbandonare la pratica di nominare i giudici in base a profili di parte e optare invece per candidati con curricula impeccabili, che abbiano cultura politica ma non siano servitori del principe di turno. Basterebbe ricordare, a questo proposito, l’identikit, tratteggiato da Costantino Mortati, del perfetto giudice costituzionale: questi deve vantare profondità di cultura e possesso delle raffinatezze della tecnica giuridica, e, allo stesso tempo, «conoscenza della storia e delle istituzioni costituzionali», «piena indipendenza dalle parti politiche [...]» e, d’altra parte, «informazione precisa della posizione di ogni formazione politica, della loro ragion d’essere, dei loro programmi, del loro peso», «consapevolezza delle aspirazioni popolari, dei termini dei problemi sociali che vanno elaborandosi nella coscienza delle moltitudini»[14]. D’altronde, quanto più ampia è la legittimazione (in termini tecnici, politici e culturali) del giudice, tanto più facile è recidere i legami con l’istituzione di nomina[15]. Questo sarebbe fondamentalmente il risultato ottimale di una costituzione collaborativa, in cui ogni attore istituzionale opera all’interno di una relazione eterarchica di reciprocità, riconoscimento e rispetto[16].
5. I possibili rimedi
Tuttavia, la politica del mondo reale non funziona in questo modo. Il monito del Presidente Mattarella è solo l’ultimo, nella storia repubblicana, di una serie di richiami presidenziali volti a sollecitare le elezioni parlamentari dei giudici costituzionali[17]. In un caso, questo messaggio si è spinto fino a minacciare lo scioglimento anticipato delle Camere[18].
In effetti, il pericolo maggiore delle nomine a pacchetto risiede nella loro stessa percorribilità. Se, per qualsiasi ragione, le forze politiche non riuscissero a trovare la quadratura del cerchio, e si andasse al di sotto del quorum di 11 giudici, avremmo la paralisi certa di un organo costituzionale.
Proprio per evitare tale rischio, i Costituenti avevano disegnato un meccanismo volto ad evitare la scadenza contestuale di tutti i giudici[19], con un sistema di rinnovazione parziale del collegio: l’art. 135 Cost., nella sua formulazione originaria, prevedeva infatti che «[i] giudici sono nominati per dodici anni, si rinnovano parzialmente secondo le norme stabilite dalla legge e non sono immediatamente rieleggibili»[20]. La rinnovazione parziale cui faceva riferimento la formulazione originaria dell’art. 135 Cost. veniva disciplinata dalla legge 1/1953, il cui art. 4 stabiliva che «[i] giudici che sono nominati alla scadenza dei dodici anni dalla prima formazione della Corte si rinnovano, decorsi nove anni, mediante sorteggio di due giudici tra quelli nominati dal Presidente della Repubblica, di due tra quelli nominati dal Parlamento e di due tra quelli nominati dalle supreme magistrature ordinaria ed amministrativa. Il sorteggio dei giudici è fatto dalla Corte tre mesi prima della scadenza del predetto termine di nove anni.
Decorsi gli altri tre anni, si rinnovano i giudici che non sono stati rinnovati. Successivamente si rinnovano ogni nove anni i giudici rimasti in carica dodici anni. In caso di vacanza dovuta alla scadenza del termine di dodici anni o ad altra causa la sostituzione avviene entro un mese dalla vacanza stessa».
Questo complesso meccanismo, in sintesi, era vòlto a far uscire dalla porta esattamente quanto la recente prassi ha fatto rientrare dalla finestra: la sostituzione di giudici costituzionali attraverso nomine a pacchetto.
Molti altri interventi sarebbero in linea di principio concepibili: si potrebbe pensare di modificare i quorum di elezione, in modo da abbassare o alzare la maggioranza necessaria per eleggere un singolo giudice. Queste soluzioni, al di là della loro fattibilità concreta, non risolverebbero il problema: l’innalzamento promuoverebbe nomine bipartisan ma non eviterebbe il rischio di paralisi; l’abbassamento renderebbe più facile l’elezione ma alimenterebbe la partigianeria dell’eletto. L’amara realtà è che è ben difficile immaginare una soluzione che passi attraverso una riforma delle regole sull’elezione, posto che tale strada necessiterebbe di un contributo fattivo di quegli stessi attori politici al cui comportamento inerte la riforma dovrebbe rimediare: un’ipotesi, tuttavia, di cui si sta discutendo in Germania, ove si vorrebbe costituzionalizzare durata e quorum di elezione dei giudici (oggi disciplinati nella Bundesverfassungsgerichtsgesetz)[21].
Un’altra soluzione sarebbe un emendamento costituzionale che reintroduca la proroga del mandato dei giudici uscenti, ove ii loro sostituti non siano effettivamente e tempestivamente eletti. Anche in questo caso, la soluzione richiederebbe un intervento politico lungimirante, e che – forse proprio in quanto tale – sembra una soluzione scarsamente praticabile.
In alternativa, in caso di grave e perdurante paralisi la Corte stessa potrebbe annullare le norme costituzionali che contribuiscono a determinare la paralisi: l’oggetto potrebbe essere dato dalle disposizioni che escludono la prorogatio dei giudici, oppure quelle che impediscono alla Corte di funzionare con un collegio composto da meno di 11 giudici. Come extrema ratio potrebbe essere la Corte stessa ad auto-investirsi di tali questioni. In effetti, il potere di auto-rimessione consente alla Corte costituzionale di chiamare se stessa a controllare un atto legislativo, finanche avente rango costituzionale, facendo nascere un giudizio costituzionale indipendente da uno in corso: la Corte ha usato questo potere abbastanza raramente – circa 30 volte in quasi 70 anni – ma recentemente si è dimostrata meno riluttante nell’utilizzo di questa tecnica processuale[22]. Tuttavia, questa sarebbe veramente una last resort option, se non proprio un’ipotesi ai limiti del fantadiritto. L’opzione nucleare potrebbe aversi solo nel caso in cui lo stallo politico portasse la Corte a una completa paralisi, e l’occasione potrebbe persino originare da una lite interorganica promossa dalla Corte stessa contro l’inadempiente Parlamento in seduta comune. Si tratterebbe comunque di un irrealistico scenario non privo di ulteriori effetti collaterali. Uno su tutti: rischiare di dilapidare una reputazione “giurisdizionale” faticosamente conquistata.
Fermi, perciò, questi caveat, è pur vero che la giustizia costituzionale in Italia ha mostrato una versatilità notevole nel recente passato: la Corte ha aperto strade di accesso prima impensabili (ad esempio, per dichiarare l’illegittimità costituzionale delle leggi elettorali) e ha elaborato tecniche decisionali nuove (basti pensare alle ordinanze di incostituzionalità prospettata, nel caso Cappato e in altre successive occasioni). In questo laboratorio innovativo, è improbabile, ma non giuridicamente impossibile, immaginare che la Corte risolva da sé un problema che spetterebbe ad altri risolvere (ogni giorno di più, nell’ordinamento costituzionale non ogni cosa è “al suo posto”[23]).
In una parola: la politica che si cura da sé è fantapolitica (o quasi), la Corte che risolve da sé è fantadiritto (o quasi). In questo generalizzato quadro di fantasia, la realtà la perdurante assenza un giudice costituzionale. E prima di pensare alla paralisi dell’ordinamento costituzionale c’è forse spazio per denunciare, nel dibattito pubblico e in quello scientifico, quello che, secondo la Costituzione, è un grave inadempimento che va perpetrandosi dallo scorso 20 novembre nell’apparente disinteresse generale. Il fatto che, a seguito del monito del Capo dello Stato, il Presidente della Camera abbia annunciato[24] che, a partire da settembre, il Parlamento si riunirà in seduta comune una volta a settimana per eleggere il giudice costituzionale è un segnale che va nella giusta direzione; ma, come la saggezza proverbiale ci ha insegnato, tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, profondo e burrascoso, della politica.
Il saggio sviluppa le considerazioni degli stessi autori pubblicate su La Repubblica del 15 luglio 2024, Un giudice da eleggere per la Costituzione e sul Verfassungsblog, Delegitimizing by Procrastinating Parliamentary Inertia in the Election of Constitutional Judges in Italy, 11 luglio 2024. Il contributo è frutto di una riflessione congiunta dei due autori. Ai soli fini degli almanacchi che governano il mondo della produzione scientifica, specifichiamo che Corrado Caruso è autore dei paragrafi 2 e 4, mentre Pietro Faraguna è autore dei paragrafi 1, 3 e 5.
[1] A. Ross, Theorie der Rechtsquellen. Ein Beitrag zur Theorie des positive Rechts auf Gundlage dogmenhistorischer Untersuchungen, Leipzing und Wien, 1929 (spec. cap. XIV).
[2] A. Barbera, Sussidiarietà e bipolarismo “mite” (Relazione al Convegno promosso dall’Intergruppo parlamentare per la sussidiarietà Sala Zuccari - Senato della Repubblica 29 marzo 2007), sul Forum di Quaderni costituzionali (https://www.forumcostituzionale.it/wordpress/images/stories/pdf/nuovi%20pdf/Paper/0021_barbera.pdf)
[3] I dati sono riportati in A. Pugiotto, Come e perché vincere la tentazione di una Corte costituzionale ad assetto variabile, in Quad. cost., 2024, p. 412.
[4] Il 28 giugno 2014 cessarono dalle funzioni i giudici Silvestri e Mazzella, mentre il 2 febbraio 2015 fu il turno di Mattarella, nel frattempo asceso al soglio presidenziale.
[5] Riferimenti in D. Stasio, L’attività della Corte è a rischio, adesso il Parlamento deve difenderla, in La Stampa, lunedì 15 luglio 2024.
[6] Democrazia a rischio: l’Italia può seguire Polonia e Ungheria, intervista a Simonetta Fiori, la Repubblica, 2 gennaio 2024.
[7] Conferenza stampa della Presidente del consiglio, 4 gennaio 2024, https://www.governo.it/it/articolo/conferenza-stampa-del-presidente-meloni/24717.
[8] A partire dalla conferenza stampa tenuta al momento dell’insediamento il 12 dicembre 2023, e poi ribadite nell’intervista a Liana Milella il 17 gennaio 2024, nella relazione sull’attività svolta dalla Corte nel 2023 (illustrata il 18 marzo 2024) e, da ultimo, nell’intervista a Emilia Patta per il Sole24ore il 28 giugno 2024.
[9] L’A. che per primo ha conferito dignità scientifica alla “partitocrazia” è G. Maranini, Governo parlamentare e partitocrazia (Lezione inaugurale dell'anno accademico '49-'50), Editrice universitaria, Firenze 1950.
[10] Per una analisi della evoluzione del sistema dei partiti in Italia cfr. P. Ignazi, Elezioni e partiti nell’Italia repubblicana, Bologna, il Mulino, 2022.
[11] Riassumono il dibattito a riguardo A. Poggi, La elezione del Presidente della Repubblica. Le proposte sulle candidature: questioni di metodo e di merito in Oss. Cost., 2/2022, pp. 39 e ss., nonché D. Chinni, Elezione e mandato del Presidente della Repubblica, lavoro inedito.
[12] A. Pugiotto, Come e perché, cit., p. 413.
[13] Insiste sull’anima giurisdizionale della Corte costituzionale, pur con diversità di accenti, R. Romboli, Le oscillazioni della Corte costituzionale tra l’anima “politica” e quella “giurisdizionale”. Una tavola rotonda per ricordare Alessandro
Pizzorusso ad un anno dalla sua scomparsa, in Id. (a cura di), Ricordando Alessandro Pizzorusso. Il pendolo della Corte. Le oscillazioni della Corte costituzionale tra l’anima “politica” e quella “giurisdizionale”, Torino, Giappichelli, 2017, pp. 1 e ss., A. Ruggeri, Tendenze della Costituzione e tendenze della giustizia costituzionale, al bivio tra mantenimento della giurisdizione e primato della politica, ivi, pp. 99-116.
[14] C. Mortati, La Corte costituzionale e i presupposti della sua vitalità, in C. Mortati, Problemi di diritto pubblico nell’attuale esperienza repubblicana. Raccolta di scritti, III, Milano, Giuffrè, pp. 683-684.
[15] M. Gren, Judges at Constitutional Courts / Supreme Courts, in Max Planck Encyclopedia of Comparative Constitutional Law, Oxford University Press, ad vocem.
[16] A. Kavanagh, The Collaborative Constitution, Cambridge University Press, 2023, pp. 86 e ss.
[17] Come ricostruito da A. Pugiotto, Come è perché, cit. p. 413, e da D. Stasio, L’attività della Consulta è a rischio, cit., numerosi sono stati i messaggi presidenziali: Antonio Segni (16 settembre 1963), Carlo Azeglio Ciampi (26 febbraio 2002), Giorgio Napolitano con un apposito comunicato (3 ottobre 2008), nonché lo stesso Mattarella, una prima volta, il 2 ottobre 2015.
[18] Così fece il Presidente Cossiga il 7 novembre del 1991.
[19] Sulle prime nomine alla Corte costituzionale vedi F. Bonini, Storia della Corte costituzionale, Roma, 1996, p. 91 ss.
[20] La VII disp. trans. e fin. specificava poi che «[i] giudici della Corte costituzionale nominati nella prima composizione della Corte stessa non sono soggetti alla parziale rinnovazione e durano in carica dodici anni».
[21] Cfr. E. Caterina, La Corte prima della tempesta: come premunire le corti costituzionali da futuri assalti? La situazione in Germania e in Italia, in Diritticomparati.it, 15 febbraio 2024.
[22] P. Faraguna, A. Pugiotto, Corte costituzionale e autorimessione: una radiografia giurisprudenziale, in Quad. cost., 2024, pp. 373 e ss.
[23] M. Luciani, Ogni cosa al suo posto. Restaurare l’ordine costituzionale dei poteri, Milano, 2023.
[24] Cfr. la dichiarazione del Presidente Fontana a margine della conferenza dei capigruppo. Ne danno conto D. Stasio, Grave lo stop sui giudici costituzionali. La Consulta non è terra di conquista, in La Stampa, 25 luglio 2024, p. 8 e A. Pugiotto, Il Parlamento gioca con la consulta ma Mattarella gli rovina la festa, in L’Unità, 27 luglio 2024.
Sommario: I. La sentenza della Corte costituzionale 3 giugno 2024 n. 96 in tema di verifiche preliminari nel processo civile. II. Disamina e commento delle questioni affrontate dalla Corte costituzionale: l’art. 171 bis c.p.c. a fronte dell’art. 24 Cost. e del rispetto del principio del contraddittorio. III. Segue: l’art. 171 bis c.p.c. a fronte dell’art. 76 Cost. e dell’art. 1, comma 5 della legge n. 206 del 2021. IV. Segue: l’art. 171 bis c.p.c. a fronte dell’art. 3 Cost. e del principio di parità di trattamento tra questioni rilevabili d’ufficio. V. Osservazioni sullo stato del processo civile del nostro tempo. Giudicare e rassicurare. VI. Orelsan e il poema “Tout va bien”.
I. La sentenza della Corte costituzionale 3 giugno 2024 n. 96 in tema di verifiche preliminari nel processo civile.
1. Quando il Tribunale di Verona, con l’ordinanza del 22 settembre 2023, rimise la questione di legittimità costituzionale dell’art. 171 bis c.p.c. alla Corte costituzionale, io mi prestai subito a preparare un commento per questa rivista[1], e il tono che decisi di usare fu quello del sarcasmo, poiché se da una parte condividevo i rilievi sollevati da quel giudice, dall’altra immaginavo che le questioni sarebbero state invece dichiarate infondate.
Oggi posso dire che la mia previsione fu corretta, visto che la Corte costituzionale, con la pronuncia che qui si annota, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 171 bis c.p.c. con riferimento agli artt. 76, 3 e 24 Cost.[2]
Le questioni sollevate dal Tribunale di Verona erano infatti sostanzialmente tre: eccesso di delega (art. 76 Cost.), principio di eguaglianza (art. 3 Cost.), principio del contraddittorio (art. 24 Cost.)[3].
Tutt’e tre sono state dichiarate senza fondamento.
1.1. Per quanto riguardi l’eccesso di delega, dopo lunghe pagine nelle quali si illustra la disciplina esistente, nonché le sottolineature della Relazione illustrativa al decreto legislativo n. 149 del 2022 (attuativo della legge delega n. 206 del 2021), nonché le prospettazioni del giudice remittente, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondata la questione; e ciò non tanto perché non mancasse effettivamente, nella legge delega, ogni riferimento a possibili decreti decisori delle verifiche preliminari anteriori alla prima udienza, quanto perché deve riconoscersi una “discrezionalità del legislatore delegato, il quale è chiamato a sviluppare, e non solo ad eseguire, le previsioni della legge delega, potendo così ben svolgere un’attività di riempimento normativo, che è pur sempre esercizio delegato di una funzione legislativa” (così espressamente Corte Cost. 3 giugno 2024 n. 96).
Sulla base di questo principio, che la Corte costituzionale ha ricondotto ai propri precedenti n. 79 del 2019, n. 198 del 2018 e n. 104 del 2017, ella ha proseguito sul punto asserendo che: “se effettivamente l’art. 1, comma 5 della legge n. 206 del 2021 non fa specifico riferimento all’emanazione, da parte del giudice, prima dell’udienza di comparizione e trattazione, di alcun provvedimento, non di meno la disposizione censurata si colloca coerentemente nell’ambito degli altri criteri di delega enucleati per la fase introduttiva e di trattazione del giudizio”; ed inoltre: “la disposizione censurata è, al contempo, volta a realizzare il generale canone della concentrazione processuale sancito dalla lettera a) del medesimo art. 1, comma 5, della legge delega, perché orientata a ridurre le ipotesi di regressione del giudizio dopo il deposito delle memorie integrative”.
1.2. Quanto ai profili di cui all’art. 3 Cost., ovvero quanto al diverso trattamento posto in essere dall’art. 171 bis c.p.c., tra questioni processuali rilevabili d’ufficio che possono essere decise con decreto dal giudice prima dell’udienza ex art. 183 c.p.c. e questioni che invece non possono decidersi se non dopo le memorie ex art. 171 ter c.p.c., la Corte costituzionale ha ritenuto che tale differenziazione non si ponga in contrasto con l’art. 3 Cost.
Ed infatti: “Tale diversa regola processuale appare invero giustificata per le differenti conseguenze che l’assunzione dei provvedimenti volti alla corretta instaurazione del contraddittorio ovvero alla sanatoria dei vizi degli atti introduttivi e il rilievo d’ufficio di altre questione ad opera dell’autorità giudiziaria, hanno sui tempi di svolgimento del giudizio, sui quali sono suscettibili di incidere, dilatandoli, solo i primi, comportando, di regola, un differimento dell’udienza di trattazione”.
Dunque, la disparità di trattamento è data dalla legge poiché alcuni provvedimenti sono funzionali alla necessità di non perder tempo, mentre altri non hanno queste caratteristiche.
Ed ancora, per la Corte costituzionale: “Vi è, poi, che i provvedimenti emessi a seguito delle c.d. verifiche preliminari si correlano a questioni spesso “liquide”, ossia con un basso tasso di controvertibilità, soprattutto per quanto attiene alla regolarità delle notifiche e alla rappresentanza in giudizio, mentre le altre questioni rilevabili d’ufficio non solo non sono tipizzate, ma evocano profili di maggiore controvertibilità tra le parti: Il che impedisce di ritenere integrata un’ingiustificata disparità di trattamento”.
1.3. Infine, per quanto concerni il rispetto del principio del contraddittorio, la Corte costituzionale, di nuovo, non ha ravvisato violazioni dell’art. 24 Cost. da parte del nuovo art. 171 bis c.p.c.
La Corte costituzionale non ha negato che il problema possa legittimamente porsi, visto che il giudice, con l’art. 171 bisc.p.c.: “decide tali questioni con decreto, anticipatamente rispetto all’udienza di prima comparizione e, soprattutto, le decide senza che le parti siano chiamate ad interloquire su di esse o abbiano la possibilità di farlo”.
Ma, sottolinea la Corte costituzionale: “le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali” e va quindi al riguardo suggerita una “interpretazione adeguatrice”.
Quale?
Semplicemente: “per un verso il giudice, in occasione delle verifiche preliminari di cui all’art. 171 bis c.p.c. può apprezzare egli stesso la necessità, in concreto, che le parti interloquiscano in ordine all’oggetto del decreto che è chiamato ad adottare prima dell’udienza di comparizione. A questo scopo ha la possibilità di fissare, prima dell’emanazione del decreto previsto dalla disposizione censurata, un’udienza ad hoc, nell’ambito di quelli che sono i propri generali poteri di organizzazione e direzione del processo”.
Parimenti una esigenza del genere può essere avvertita anche dalle parti, e quindi: “ciascuna parte può sollecitare il giudice affinché, esercitando il suo potere direttivo, fissi un’udienza ad hoc e determini i punti sui quali essa deve svolgersi……nell’uno e nell’altro caso la fissazione di un’udienza ad hoc soddisfa la necessità della piena realizzazione del contraddittorio tra le parti”.
Ogni soluzione, comunque, deve spettare al giudice, il quale ha il potere, caso per caso, di determinare il da farsi: “Rimane però che, pur nel contesto di un’interpretazione adeguatrice della disposizione censurata, l’art. 175 c.p.c. non può essere piegato fino a far ritenere un vero e proprio obbligo processuale del giudice, essendo il suo potere direttivo essenzialmente discrezionale. Non può escludersi che il giudice, seppur sollecitato a farlo, ritenga di non frapporre un’udienza anticipata nell’ordinario iter processuale al solo fine di realizzare il contraddittorio tra le parti su singole questioni di rito”; ed in queste ipotesi: “le parti, nelle memorie integrative ex art. 171 ter c.p.c. possono prendere posizione in ordine ai provvedimenti adottati dal giudice, in ipotesi chiedendone la modifica o la revoca, e il giudice debba pronunciarsi”.
1.4. “In sintesi” – conclude la Corte costituzionale – “anche se le verifiche preliminari ex art. 171 bis c.p.c. hanno ad oggetto questioni di rito normalmente liquide, per altro verso non è sacrificato il contraddittorio delle parti nella misura in cui, quando emerga l’esigenza che questo debba dispiegarsi, il giudice possa adottare, nei modi sopra indicati, provvedimenti che salvaguardino il diritto di difesa. Così interpretata la disposizione censurata risulta non essere in contrasto con l’evocato parametro (art. 24 Cost.)”.
II. Disamina e commento delle questioni affrontate dalla Corte costituzionale: l’art. 171 bis c.p.c. a fronte dell’art. 24 Cost. e del rispetto del principio del contraddittorio
2. Ora, per procedere al commento di questa decisione, ritengo necessario continuare a tenere separate le tre questioni sopra esposte, seppur invertendone l’ordine di trattazione, e così inizierei dalla più importante, ovvero dall’ultima, quella relativa all’art. 24 Cost. e al rispetto del principio del contraddittorio.
2.1. E nell’affrontare tale tematica, ritengo parimenti necessario fare un passo indietro, e muovere dalle differenze che nel nostro sistema processuale vi sono tra i provvedimenti che hanno la forma del decreto e quelli che hanno la forma dell’ordinanza.
Perché questa divagazione?
Perché la riforma Cartabia ha trasferito le verifiche preliminari che prima si trovavano nel vecchio art 183 c.p.c. nel nuovo art. 171 bis c.p.c., e in questo modo ha consentito che una serie di questioni attinenti a diritti processuali controversi, o potenzialmente controversi, che fino a ieri si pronunciavano con ordinanza, oggi si possano e si debbano pronunciare con decreto.
Esattamente, nel vecchio sistema dell’art. 183 c.p.c. la decisione delle questioni preliminari aveva la forma dell’ordinanza proprio perché data dal giudice in udienza, o immediatamente dopo essa, e quindi nel contraddittorio delle parti; inoltre, la forma dell’ordinanza assicurava la motivazione, e ciò nel rispetto dell’art. 134 c.p.c.
La riforma ha trasferito invece l’analisi e la decisione di queste questioni sub art. 171 bis c.p.c., aggiungendone, peraltro, un’ulteriore, visto che in tale nuova norma si trova oggi anche l’art. 107 c.p.c., prima non richiamato nell’art. 183 c.p.c.
Il problema è che questo trasferimento delle questioni dal vecchio art. 183 c.p.c. al nuovo art. 171 bis c.p.c. ha comportato la modifica della forma del provvedimento con il quale risolverle, poiché oggi, quelle medesime questioni, coerentemente alla circostanza che vengono pronunciate avanti la prima udienza e in assenza delle parti e dei loro difensori, vengono decise con decreto, e non più con ordinanza, e ciò emerge in modo chiaro dallo stesso tenore dell’art. 171 bis c.p.c., che all’ultimo comma dispone: “il decreto è comunicato alle parti costituite a cura della cancelleria”.
2.2. Ora, però, questo trapasso non sembra essere privo di conseguenze sul piano della costituzionalità dell’art. 171 bisc.p.c., e per convincersi di ciò è forse utile tornare alle differenze, che, anche dal punto di vista della nostra tradizione processuale, corrono tra i decreti e le ordinanze.
a) I decreti che si pronuncino in seno al processo ordinario di cognizione, stando all’art. 135 c.p.c., si caratterizzano rispetto alle ordinanze sotto un duplice profilo: aa) sono provvedimenti privi di motivazione, “salvo che la motivazione sia prescritta espressamente dalla legge”; ab) e sono provvedimenti pronunciati dal giudice senza il previo contraddittorio tra le parti; e l’assenza del contraddittorio, a sua volta, è giustificata: - dal fatto che il giudice, con il decreto, decide questioni che non hanno, a monte, normalmente, contrasto tra le parti; - e soprattutto dal fatto che il giudice, con il decreto, provvede su questioni che non attengono a veri e propri diritti processuali dei litiganti quanto piuttosto ad aspetti meramente organizzativi dell’attività processuale.
I decreti da ricordare, prima della riforma Cartabia, sono infatti quelli relativi alla designazione del giudice (art. 168 bis c.p.c.), allo spostamento dell’udienza per consentire al convenuto la chiamata in causa di un terzo (art. 269 c.p.c.), o comunque, più in genere, alla fissazione delle udienze (artt. 168 bis, 5° comma, 297, 303 c.p.c., artt. 80, 82 disp. att. c.p.c.), e poi quelli aventi ad oggetto la riunione dei procedimenti pendenti dinanzi al medesimo giudice (artt. 273 e 274 c.p.c.), o la correzione dei provvedimenti richiesti concordemente dalle parti (art. 288 c.p.c.), ecc……[4]
Si tratta, come può notarsi, o di questioni che non vedono le parti su posizioni contrapposte, oppure di questioni meramente organizzative, che non attengono a veri e propri diritti processuali.
Sulla base di ciò, e solo sulla base di ciò, detti provvedimenti possono essere pronunciati dal giudice senza contraddittorio e senza motivazione[5].
b) Per contro, le ordinanza sono provvedimenti motivati, ed infatti lo stesso art. 134 c.p.c. ricorda che: “L’ordinanza è succintamente motivata”; ed inoltre le ordinanze sono provvedimenti che seguono il contraddittorio tra le parti, tanto che si danno o in udienza: “Se è pronunciata in udienza è inserita nel processo verbale”, oppure a seguito di udienza, e in questi casi l’ordinanza: “è scritta in calce al processo verbale, oppure in foglio separato, munito della data e della sottoscrizione del giudice” (così l’art. 134 c.p.c.).
Proprio per queste diverse garanzie, le ordinanze possono avere ad oggetto la definizione di diritti processuali controversi tra le parti, e gli esempi da dare, sempre prima della riforma Cartabia, sono quelli dell’art. 39 c.p.c. con il quale il giudice dichiara la litispendenza o la continenza delle cause, dell’art. 102, 2° comma, con il quale il giudice ordina l’integrazione del contraddittorio nei confronti di un litisconsorte necessario pretermesso, dell’art. 107 c.p.c., circa l’ordine del giudice di far svolgere il processo in confronto di un terzo al quale ritiene comune la causa, o ancora dell’art. 183, 7° comma c.p.c., ordinanza con la quale il giudice, ritenuti ammissibili e rilevanti, ammette i mezzi di prova richiesti dalle parti.
Si tratta, in questi casi, non tanto di aspetti meramente organizzativi del processo, quanto di propri diritti processuali, che il giudice decide con ordinanza, anziché con decreto, proprio per il rispetto che in questi casi si deve al principio del contraddittorio (art. 24 Cost.) e a quello della motivazione (art. 111 Cost.).
2.3. Dicevo, in questo contesto si inserisce altresì la nostra tradizione.
Già l’art. 50 del codice di procedura civile del 1865 asseriva che: “I provvedimenti dell’autorità giudiziaria fatti sopra ricorso di una parte senza citazione dell’altra, hanno nome di decreti”, col che rimarcando l’assenza del contraddittorio nella pronuncia dei decreti.
Giuseppe Chiovenda asseriva che il decreto avesse infatti una funzione quasi amministrativa piuttosto che giurisdizionale e che “non è che la conseguenza di questa natura il carattere proprio del decreto di essere emanato senza contraddittorio”[6].
Virgilio Andrioli scriveva che nel decreto “l’assenza di motivazione non dovrebbe arrecare alcun inconveniente, dal momento che esso non ha finalità decisoria perché è emanato sul presupposto che non vi sia controversia”[7]. E ancora per Salvatore Satta il decreto “non presuppone il contraddittorio tra le parti. Analizzando i vari casi che offre il diritto positivo, sembra possa dirsi che esso corrisponde più che ad una attività processuale vera e propria, ad una attività preparatoria del processo e di determinati atti del processo, ovvero ad una attività amministrativa o negoziale coordinata al processo”[8]
In questa tradizione anche Carmine Punzi, per il quale: “Il decreto… assolve a varie funzioni, spesso di carattere amministrativo e collaterali al processo vero e proprio” – e per questo: “il decreto è un provvedimento che non presuppone necessariamente il contraddittorio”[9]. Infine per Girolamo Monteleone il decreto: “trova ingresso anche nell’ordinario processo di cognizione, generalmente al fine di preparare, e consentire, la trattazione della causa nel contraddittorio tra le parti”[10]
2.4. Dunque, se tant’è, a me sarebbe sembrano necessario affrontare questo aspetto, che invece non è stato proprio preso in considerazione, nemmeno un cenno[11].
Mi sarebbe sembrato naturale chiedersi se poteva essere costituzionalmente legittimo sconfessare la nostra tradizione circa la differenza tra i provvedimenti che si adottano con ordinanza rispetto a quelli che viceversa si adottano con decreto,
E la domanda che necessitava di una risposta era esattamente quella se è costituzionalmente legittimo decidere con decreto diritti processuali delle parti affidate fino ieri all’ordinanza.
Questo, a mio sommesso parere, doveva essere il primo giudizio di costituzionalità dell’art. 171 bis c.p.c. in relazione all’art. 24 Cost.
Ma ciò non è stato.
Una riflessione su ciò, avrebbe tendenzialmente portato a ritenere incostituzionale la novità dell’art. 171 bis c.p.c., in quanto rivoluzionaria del principio fondamentale secondo il quale la decisione dei diritti processuali non può darsi d’ufficio dal giudice, senza contraddittorio e senza motivazione.
E doveva incutere preoccupazione l’idea di arrivare, con tale norma, ad una potenziale soppressione delle differenze tra ordinanze e decreti, tanto in ordine al loro contenuto quanto alla loro funzione; non a caso le prime regolate dall’art. 134 c.p.c., e gli altri, per ragioni opposte, regolati diversamente dall’art. 135 c.p.c.
Se si arriva viceversa a fare di tutta l’erba un fascio e a negare le differenze, allora in futuro potremmo immaginare due soli provvedimenti del processo civile, da una parte le sentenze e dall’altra i decreti + le ordinanze, fuse in un unico provvedimento.
Sarebbe questa, però, una modifica di sistema, non qualcosa che si possa fare in questo modo, quasi inavvertitamente, modificando una sola disposizione di legge.
Anche solo per questo, un operare del genere doveva trovare chiusura da parte della Corte costituzionale.
2.5. La Corte costituzionale ha invece giudicato legittima la novità, e ciò è stato motivato, direi, sotto un duplice profilo:
a) sotto un primo la Corte costituzionale ha asserito che la circostanza che le verifiche preliminari siano adottate con decreto non è grave, poiché le parti possono chiedere, fin dalle memorie ex art. 171 ter c.p.c., la revoca e la modifica di quel decreto, e il giudice, a questo punto, nel contraddittorio delle parti, deve provvedere a confermare, modificare o revocare la misura assunta ai sensi dell’art. 171 bis c.p.c.
Si legge infatti nella sentenza: “le parti, nelle memorie integrative ex art. 171 ter c.p.c. possono prendere posizione in ordine ai provvedimenti adottati dal giudice, in ipotesi chiedendone la modifica o la revoca, e il giudice debba pronunciarsi”[12].
b) Ed ancora, per la Corte costituzionale, il rispetto del contraddittorio si realizza in ogni caso quando il giudice lo ritenga necessario, poiché questi può sempre, d’ufficio o su istanza di parte, anche in base al disposto dell’art. 175 c.p.c., disporre una udienza ad hoc affinché le parti esercitino la difesa avanti le decisioni di cui all’art. 171 bis c.p.c.
Si legge ancora nella sentenza: “il giudice, in occasione delle verifiche preliminari di cui all’art. 171 bis c.p.c., può apprezzare egli stesso la necessità, in concreto, che le parti interloquiscano in ordine all’oggetto del decreto che è chiamato ad adottare prima dell’udienza di comparizione. A questo scopo ha la possibilità di fissare, prima dell’emanazione del decreto previsto dalla disposizione censurata, un’udienza ad hoc, nell’ambito di quelli che sono i propri generali poteri di organizzazione e direzione del processo”.
Provvedo quindi a trattare separatamente le due questioni.
2.6. La prima argomentazione data dalla Corte costituzionale presuppone un dato che in verità non c’è, e che è quello che un decreto possa essere revocato o modificato.
La questione, infatti, non viene nemmeno dibattuta, e subito si asserisce che non sia grave che le verifiche preliminari si diano con decreto perché le parti, immediatamente, ne possono chiedere, nel contraddittorio fra loro, la revoca o la modifica.
Al riguardo, è necessario sottolineare che i decreti dei quali qui ci stiamo occupando sono solo quelli che si pronunciano nel corso del processo ordinario di cognizione, quali, appunto, i decreti che oggi si trovano nell’art. 171 bis c.p.c.
Con essi non hanno niente a che vedere i vari decreti che il codice di procedura civile invece inserisce nei processi speciali: tra questi il decreto cautelare (art. 669 sexies c.p.c.), il decreto nei procedimenti in camera di consiglio (art. 737 c.p.c.) e i decreti di condanna pronunciati con cognizione sommaria, quale i decreti ingiuntivi (art. 633 c.p.c.).
I decreti dei processi speciali possono sì essere revocati o modificati, e ognuno, normalmente, ha un suo regime di impugnazione, revoca o modifica.
Ma tutto questo non riguarda i decreti del processo ordinario di cognizione per l’organizzazione delle attività processuali quali quelli ex art. 171 bis c.p.c.
Per questi ultimi decreti, al contrario, un regime di revoca e modifica non esiste, ed anzi questa è, da sempre, una delle differenze che contrappongono le ordinanze dai decreti; ovvero, mentre le ordinanze pronunciate nel corso del processo ordinario di cognizione sono sempre revocabili e modificabili dal giudice ai sensi dell’art. 177 c.p.c., eguale disposizione con riferimento ai decreti non v’è, e non esiste infatti alcuna norma del secondo libro del codice di procedura civile che legittimi il giudice a modificare un decreto dopo che lo abbia pronunciato.
Di nuovo, tra la dottrina classica scriveva Giuseppe Nappi: “Il decreto in genere non è impugnabile, ma la legge espressamente dispone quando sia ammesso il reclamo”[13]; egualmente Salvatore Satta: “In linea di massima, non si applicano al decreto i principi di revocabilità e modificabilità propri delle ordinanze”[14]; e di nuovo così Carmine Punzi, per il quale il decreto: “non può essere revocato né modificato, se non con l’osservanza del procedimento appositamente predisposto dalla legge”[15]
Ora, che nella prassi del processo ordinario di cognizione si diano casi di revoca o modifica di decreti è possibile, visto il poco rispetto che ormai si ha della legge processuale, e visti i sempre maggiori poteri discrezionali che si riconoscono al giudice, ma che si possa asserire l’esistenza di un vero e proprio diritto processuale delle parti ad ottenere la revoca o modifica di un decreto, direi di no, proprio perché, per i decreti, lo ripetiamo, non esiste una disposizione analoga a quella che è stata data con l’art. 177 c.p.c. per le ordinanze.
Dunque, pronunciato un decreto ex art 171 bis c.p.c. non v’è una norma processuale che legittimi le parti a chiederne la revoca e/o la modifica e al giudice di concederla; questo è un percorso possibile per le ordinanze, ma non per i decreti; dal che l’ulteriore gravità della riforma nell’aver trasferito i provvedimenti che si davano con ordinanza con il vecchio art. 183 c.p.c. nei nuovi provvedimenti che si danno con decreto ai sensi dell’art. 171 bis c.p.c.
Avverso una istanza di revoca o modifica di un decreto, un giudice potrebbe semplicemente schernirsi dietro l’assenza di una disposizione analoga a quella dell’art. 177 c.p.c. che legittimi un simile potere, e così semplicemente dichiarare inammissibile la richiesta.
Non può sostenersi, pertanto, che la decisione con decreto delle verifiche preliminari non sia grave perché le parti in ipotesi ne chiedendo la modifica o la revoca e il giudice provvede, perché, in verità, le cose non stanno in quei termini, e i dubbi di costituzionalità in ordine all’assenza del contraddittorio dei decreti che si pronunciano ex art. 171 bis c.p.c., doveva rafforzarsi, e non venir meno, in ordine a questi aspetti.
2.7. La seconda questione adottata dalla Corte costituzionale, per la quale l’art. 171 bis c.p.c. non viola il principio del contraddittorio poiché il giudice può, anche prima dell’udienza ex art. 183 c.p.c., disporre comunque “un’udienza ad hoc”, va a mio parere integrata con almeno tre diverse osservazioni.
a) Una prima è che il diritto al contraddittorio deve essere assicurato dalla legge, non dal giudice.
Se il contraddittorio è assicurato solo dal potere discrezionale del giudice, che in taluni casi lo può concedere ed in altri no, lì il diritto al contraddittorio non esiste più, poiché nessuna garanzia dell’esercizio di esso è quindi in questo modo assicurato.
Nessuno mette in discussione che il giudice, nel processo civile, eserciti dei poteri discrezionali, ma questi poteri discrezionali non possono avere ad oggetto un diritto fondamentale garantito dalla costituzione quale è quello del contraddittorio.
Il diritto al contraddittorio deve essere assicurato dalla legge, e se la legge non garantisce il contraddittorio, allora va da sé che la legge è incostituzionale.
Direi, peraltro, che ciò si ricava dalle stesse disposizioni costituzionali.
L’art. 24 Cost. dice che “la difesa è diritto inviolabile”, e un diritto inviolabile non può essere rimesso alla discrezionalità del giudice; inoltre l’art. 111 Cost., come è noto, asserisce che il giusto processo è “regolato dalla legge”; il che, di nuovo, conferma che il diritto al contraddittorio, quale condizione prima di un giusto processo, deve essere assicurato dalla legge, e non rimesso alla discrezionalità del giudice, caso per caso, come se esistessero casi nei quali l’esercizio di esso non sia né necessario né opportuno.
b) In secondo luogo il processo civile deve normalmente rispondere ad un principio di legalità, ovvero deve svolgersi secondo regole predeterminate dalla legge; e queste regole hanno una funzione pubblica, che è quella di far sì che le parti, una volta che entrino in un Tribunale, conoscano a priori le modalità di svolgimento del rito che utilizza il giudice per decidere le sorti dei loro diritti soggettivi.
Ora, di nuovo, nessuno ha mai messo in discussione che nel corso del processo il giudice, possa, ai sensi dell’art. 175 c.p.c. esercitare “tutti i poteri intesi al più sollecito e leale svolgimento del procedimento”, ma tra questi poteri non è mai rientrato quelli di inventarsi norme che non esistono o capovolgere le assi portanti del procedimento, quali quelle, oggi, della struttura della prima udienza ex art. 183 c.p.c., che la stessa norma rubrica come “prima comparizione delle parti e trattazione della causa”, nonché quella di predisporre delle attività procedimentali non previste dalla legge e che si antepongano alla prima udienza, modificando l’iter fissato dai nuovi artt. 171 bis e ter c.p.c.
Che oggi ciò sia necessario per le scelte discutibili fatte dalla riforma Cartabia non v’è dubbio; ma che la soluzione invece di essere quella di dichiarare incostituzionale la norma sia quella di dar vita ad un correttivo non corrispondente al testo, e non previsto dalla legge, e rimesso alla discrezionalità del giudice, appare scelta discutibile, per non usare espressioni più forti, poiché in questo modo si attribuiscono al giudice poteri che questi non può avere, e perché in questo modo salta il principio di legalità del processo, che è quello che giustifica l’esistenza di un codice di procedura civile in un sistema, quale il nostro, che ancora deve essere considerato di civil law.
E, direi, che in questo senso è anche la giurisprudenza che ha preso posizione sull’art. 175 c.p.c., visto che per essa il giudice può “evitare e impedire comportamenti che siano di ostacolo a una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perché non giustificate dalla struttura dialettica del processo”[16], ma non certo spingersi fino a rendersi autore delle regole, poiché ciò contrasterebbe con i fondamenti del nostro diritto.
c) La soluzione prescelta dalla Corte costituzionale, infine, a me sembra discutibile anche sotto il profilo delle fonti del diritto, che, sempre nel nostro sistema di civil law, non sono riconducibili al giudice.
Bisognerebbe porsi il problema, allora, dei limiti delle sentenze additive della Corte costituzionale: poiché è evidente che una cosa è asserire che una disposizione è costituzionale se interpretata in un certo modo, altra cosa è inventarsi un rito non previsto dalla legge per salvare dall’incostituzionalità una legge.
Qui la Corte costituzionale è arrivata ad asserire:
ca) che il giudice può disporre un’udienza ad hoc che si antepone alla prima udienza di cui all’art. 183 c.p.c.: “Ha la possibilità di fissare, prima dell’emanazione del decreto, una udienza ad hoc”;
cb) che il giudice può consentire che le parti interloquiscano in ordine all’oggetto del decreto che è chiamato ad adottare prima dell’udienza di comparizione;
cc) poi ancora si precisa che le parti possono chiedere l’udienza ad hoc, ovvero una udienza prima di quella dell’art. 183 c.p.c., anche nelle ipotesi nelle quali il giudice abbia assunto la decisione con il decreto ex art. 171 bis c.p.c. e se il giudice disattende questa richiesta all’udienza ex art. 183 c.p.c. “non può quest’ultimo, una volta rimasto inadempiuto l’ordine in questione, assumere provvedimenti sanzionatori in chiave processuale ma adotta quelli necessari per l’ulteriore corso del giudizio”;
cd) e poi ancora “ove la parte non abbia sollecitato il giudice a realizzare il contraddittorio anche prima dell’udienza di comparizione... non vi sarebbe un vulnus al diritto di difesa… rimarrebbero, nel caso di conferma, con ordinanza, del decreto ex art. 171 bis c.p.c., le ordinarie conseguenze della mancata ottemperanza all’onere processuale”.
Si tratta, in buona sostanza, della riscrittura degli atti introduttivi del processo, che riterrei non consentito al giudice delle leggi[17].
III. L’art. 171 bis c.p.c. a fronte dell’art. 76 Cost. e dell’art. 1, comma 5 della legge n. 206 del 2021.
3. Possiamo passare all’analisi dell’eccesso di delega.
Sul punto, la Corte costituzionale ha asserito che deve attribuirsi una certa “discrezionalità del legislatore delegato, il quale è chiamato a sviluppare, e non solo ad eseguire, le previsioni della legge delega, potendo così ben svolgere un’attività di riempimento normativo, che è pur sempre esercizio delegato di una funzione legislativa” (così ancora la Corte Cost. 3 giugno 2024 n. 96).
E ha aggiunto la Corte costituzionale: “se effettivamente l’art. 1, comma 5 della legge n. 206 del 2021 non fa specifico riferimento all’emanazione, da parte del giudice, prima dell’udienza di comparizione e trattazione, di alcun provvedimento, non di meno la disposizione censurata si colloca coerentemente nell’ambito degli altri criteri di delega enucleati per la fase introduttiva e di trattazione del giudizio”; poiché, appunto, “volta a realizzare il generale canone della concentrazione processuale sancito dalla lettera a) del medesimo l’art. 1, comma 5 della legge n. 206 del 2021”.
3.1. Ora, par evidente, che se il legislatore delegato è tenuto non solo ad eseguire, bensì anche a svolgere un’attività di riempimento normativo, e se per riempimento normativo si intende che il legislatore delegato può inserire nel decreto legislativo qualunque cosa si collochi nel generale canone della concentrazione processuale, allora, potremmo dire, in verità, che il concetto stesso di eccesso di delega entra inevitabilmente in crisi.
Ed anzi, a questo punto, potremmo aggiungere che, dipendendo l’eccesso di delega da valutazioni del tutto discrezionali quali quelle della ratio delle norme, e/o del raggiungimento degli obiettivi delle norme, ecc….. non solo il legislatore delegato può fare così un po’ quello che vuole a fronte della legge delega, ma anche il giudice costituzionale è libero di decidere quello che ritiene più opportuno, se le verifiche si collocano su un terreno totalmente elastico e del tutto relativo quale quello che si ricava da simili posizioni (seppur già sostenute in altri precedenti della Corte costituzionale, ancora si ricordano i precedenti n. 79 del 2019, n. 198 del 2018 e n. 104 del 2017).
Ed infatti, se nel raffronto tra l’art. 1, comma 5 della legge n. 206 del 2021 e l’art. 171 bis c.p.c. non si scorgono eccessi di delega nonostante la prima disposizione non contempli alcuna verifica preliminare da decidere con decreto in assenza di contraddittorio e prima di ogni udienza tra le parti, e l’eccesso di delega non vi sarebbe perché il decreto legislativo è rimasto comunque coerente con l’esigenza della concentrazione e della ragionevole durata del processo, beh, allora, è provato che tutto, e il contrario di tutto, può ben costituire o non costituire eccesso di delega.
3.2. Direi, alla luce di ciò, che oggi, forse, sarebbe più coerente affermare che, in una realtà nella quale ormai la contrapposizione tra funzione legislativa ed esecutiva si è persa, e il Governo si è sostanzialmente appropriato anche della funzione legislativa svuotando le funzioni del Parlamento, è un lusso continuare a discutere di eccesso di delega, e che conseguentemente il rispetto dell’art. 76 cost. deve porsi nel nostro tempo solo in termini assai sfumati.
E se questa conclusione vale in generale nell’ambito del diritto costituzionale, ancor più vale per la recente riforma del processo civile, visto che la legge delega n. 206 del 2021, preparata in ogni sua parte dallo stesso Governo, veniva approvata dal Parlamento senza discussione, a fronte della fiducia posta su essa; e proprio al fine di evitare ogni discussione parlamentare, il disegno di legge delega veniva riscritto, seppur con analogo contenuto, in un solo articolo a fronte di 16 articoli che conteneva il progetto n. 1662; un nuovo, unico articolo lungo ben 39 pagine.
In meccanismi di questo genere, il tema dell’eccesso di delega possiamo davvero ritenerlo (per i nostalgici come me, purtroppo) uno strumento del passato.
3.3. In ogni caso, in tutta onestà intellettuale, nessuno poteva davvero pensare che la Corte costituzionale dichiarasse incostituzionale l’art. 171 bis c.p.c. per eccesso di delega, e probabilmente bene ha fatto la Corte a non cedere a questa idea.
La riforma di cui al d. lgs. 10 ottobre 2022 n. 149 è piena di eccessi di delega, e se si dovesse andare a verificare, norma per norma, se vi sono stati degli eccessi nel passaggio dalla legge delega al decreto legislativo, allora tutta la riforma rischierebbe di cadere.
Io stesso, nel mio commento al Tribunale di Verona 23 settembre 2023 ne ricordavo ludicamente almeno quattro di questi eccessi, tutti aventi ad oggetto momenti centrali del nuovo processo civile: tra questi la disciplina della sinteticità e chiarezza degli atti processuali, oggi regolati dal decreto ministeriale 7 agosto 2023 n. 110 in attuazione dell’art. 46 delle disp. att. c.p.c., la disciplina delle udienze cartolari e a distanza, regolate dagli artt. 127 bis e ter c.p.c., la disciplina della nuova procedura in appello di cui agli artt. 348 bis, 349 bis, 350, 3° comma, 350 bis c.p.c., e infine la disciplina del procedimento in cassazione ex nuovo art. 380 bis c.p.c.
Però, che facciamo?
Abroghiamo una riforma voluta dal PNRR?
Io, tra il serio e il faceto (direi più faceto che serio), proponevo di porre allora, accanto all’istituto dell’eccesso di delega, quello del ripensamento: una cosa è l’eccesso di delega, come tale incostituzionale; altra cosa il ripensamento, irrilevante invece.
Il Governo, quando ha scritto la legge delega, pensava di poter fare una cosa, poi ne ha fatta un’altra; evidentemente ha cambiato idea, che male c’è?
A tutti deve essere riconosciuto il diritto che i romani etichettavano con l’espressione re melius perpensa.
IV. L’art. 171 bis c.p.c. a fronte dell’art. 3 Cost. e del principio di parità di trattamento tra questioni rilevabili d’ufficio.
4. Resta, infine, in tema dell’eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., in quanto l’art. 171 bis c.p.c. dispone che il giudice possa decidere alcune questioni preliminari, ovvero quelle indicate nella norma, con decreto avanti il contraddittorio tra le parti, mentre tutte le altre verifiche preliminari, ovvero quelle non menzionate dalla norma, devono essere trattate dopo il contraddittorio e successivamente all’udienza ex art. 183 c.p.c.
La Corte costituzionale ha dichiarato anche questa questione infondata, perché il differente trattamento trova un sua ragion d’essere, che è quella che alcuni provvedimenti attengono a questioni più liquide, e sono così più funzionali alla necessità di non perder tempo, mentre altri non hanno queste caratteristiche.
Ed infatti, per la Corte costituzionale: “Tale diversa regola processuale appare invero giustificata per le differenti conseguenze che l’assunzione dei provvedimenti hanno sui tempi di svolgimento del giudizio”, e poi perché alcune “verifiche preliminari si correlano a questioni spesso “liquide”, ossia con un basso tasso di controvertibilità, soprattutto per quanto attiene alla regolarità delle notifiche e alla rappresentanza in giudizio, mentre le altre questioni rilevabili d’ufficio non solo non sono tipizzate, ma evocano profili di maggiore controvertibilità tra le parti”.
Ora, anche qui, che talune questioni preliminari si pongano diversamente rispetto ad altre a fronte del principio di ragionevole durata del processo appare affermazione non dimostrata, né la sentenza contiene alcun esempio per giustificare in concreto una simile differenziazione, e né ancora la legge delega poneva distinzioni tra questioni e questioni.
L’incompetenza del giudice, o il difetto di giurisdizione si pongano diversamente rispetto alla nullità della notificazione in punto di ragionevole durata del processo?
E ancora, come può sostenersi che alcune questioni, per materia, siano più liquide di altre, e non invece la liquidità di una questione dipenda semplicemente dalla complessità o meno del caso in concreto, senza che sia possibile darsi a priori la condizione di liquidità a seconda della materia?
Così, è sempre liquida una questione che cada in tema di litisconsorzio necessario, oppure di nullità della citazione, o ancora di intervento di un terzo al processo per ordine del giudice?
E parimenti non è mai liquida una questione preliminare non richiamata nell’art. 171 bis c.p.c. quale ad esempio quella relativa all’interesse ad agire ex art. 100 c.p.c.?
Io credo che a queste domande non si possa con tranquillità rispondere in un senso o nell’altro, cosicché anche il tema del rispetto dell’art. 3 Cost. da parte del nuovo art. 171 bis c.p.c. doveva apparire, a mio sommesso parere, affatto chiara.
V. Osservazioni sullo stato del processo civile del nostro tempo. Giudicare e rassicurare
5. Ora, dovendo dare uno sguardo conclusivo d’insieme alla sentenza in commento, potremmo aggiungere che la Corte costituzionale non ha negato l’esistenza delle incostituzionalità sollevate dal Tribunale di Verona, solo che, per ognuna di esse, invece di scegliere la dichiarazione di incostituzionalità, ha preferito trovare una rassicurazione: a) il decreto di cui all’art. 171 bis c.p.c. è pronunciato sulle verifiche preliminari senza interlocuzione con le parti, è vero, ma la norma non è incostituzionale, perché il giudice può sempre disporre il contraddittorio anticipato nei casi più dubbi o complessi, e in ogni caso le parti possono sempre successivamente chiedere la revoca o la modifica di quella decisione; b) l’art. 1, comma 5 della legge n. 206 del 2021 non prevedeva assolutamente un decreto che il giudice potesse pronunciare sulle verifiche preliminari avanti la prima udienza, è vero, ma l’art. 171 bis c.p.c. non si espone ad eccesso di delega, poiché il legislatore delegato può svolgere un’attività di riempimento normativo e comunque la norma ha come fine quello di contenere la durata del processi in una ottica di concentrazione; c) infine l’art. 171 bis c.p.c. differenzia sì le questioni attinenti alle verifiche preliminari, prevendendo che solo alcune possano essere decise immediatamente con decreto ed altre no, è vero, ma la norma non difetta sotto il profilo del principio di eguaglianza, in quanto la differenziazione ha una sua giustificazione, dovuta al fatto che le questioni scelte dall’art. 171 bis c.p.c. sono quelle più liquide e maggiormente idonee ad assolvere il compito di concentrazione delle attività processuali voluto dalla riforma Cartabia.
Quando ero adolescente, negli anni ’70, girava una frase che diceva: “Piove, Governo ladro!”, che significava un po’ che la colpa era sempre del Governo, anche quando il Governo, in verità, non aveva affatto colpe.
Oggi la tendenza mi sembra esattamente la contraria: il Governo non sbaglia mai, e tutto, in un modo o nell’altro, va sempre bene.
Questa idea secondo la quale tutto va sempre bene, ha fatto sì che di riforma in riforma, di intervento e intervento, si sia sostanzialmente capovolto le assi portanti del nostro processo civile, che oggi si presenta completamente trasformato, senza più regole fisse, senza più prederminazioni, senza distinzioni.
Quando negli anni ’30 Piero Calamandrei scriveva il suo breve articolo dal titolo Abolizione del processo civile?, il timore che egli aveva ero quello della soppressione del codice di rito a favore di un procedimento senza regole, in seno al quale il giudice potesse decidere dei diritti delle parti in modo libero e discrezionale.
Oggi si rischia di arrivare a quel risultato senza più nemmeno avere la necessità di abolire il codice: una rivoluzione.
Qual è, infatti, lo stato della procedura civile del nostro tempo?
È quello nel quale, data una certa procedura, il giudice può inventarne un'altra, se la ritiene più funzionale alla concentrazione processuale e al rispetto del contraddittorio; è quello dove il diritto fondamentale al contraddittorio può essere assicurato dal giudice e non necessariamente dalla legge; è quello, conseguenziale, nel quale non si ritiene più necessario che il cittadino abbia conoscenza predeterminata dalla legge delle regole processuali, e nessun problema si ha se questi debba invece scoprirle strada facendo, caso per caso; è quello nel quale le fonti del diritto si sfumano, e così anche l’autorità giudiziaria può essere, a pieno titolo, considerata fonte di diritto; è quello nel quale non si avverte più la differenza tra un decreto e un’ordinanza; è quello nel quale un decreto può avere ad oggetto anche la decisione di diritti processuali controversi e può essere modificabile e revocabile al pari delle ordinanze; è quello dove non è grave che il Governo svolga di fatto funzioni legislative e dove l’eccesso di delega (praticamente) non esista più; ed è quello, soprattutto, dove tutto va bene se il fine è il rispetto delle direttive europee.
VI. Orelsan e il poema “Tout va bien”.
6. Questa situazione, se mi è consentita una nota di colore in chiusura, a me ricorda il cantante francese Orelsan, il quale, nello spiegare ad un bambino come va il mondo, lo rassicura dicendo “Tout va bien”.
L’adulto spiega al bambino che: se un sans abri dorme per strada, è perché ama il rumore delle automobili; se una donna è piena di macchie su tutto il corpo, è perché ha giocato con le pitture; se un soldato in guerra è sparito, è perché si è riunito ad altri, lontano, in un girotondo, mano nella mano; Petit, tout va bien.
Poi l’adulto, in un’immagine che a me ricorda Giovanni Pascoli, dice al bambino: “Dormi, dormi!”.
[1] V. infatti G. SCARSELLI, Il Tribunale di Verona dubita della legittimità costituzionale dell’art. 171 bis c.p.c., www.giustiziainsieme.it. 14 novembre 2023.
[2] V. anche M. BOVE, La trattazione nel processo ordinario di primo grado tra riforma Cartabia, intervento della Corte costituzionale e annunciato correttivo, in www, judicium.it.
[3] V. anche F.M. SIMONCINI, Le verifiche preliminari ex art. 171 bis c.p.c. al vaglio della Corte costituzionale, in www, judicium.it, 22 febbraio 2024; D. VOLPINO, Il nuovo art. 171 bis c.p.c. censurato di incostituzionalità, Giur. it., 2024, 1080.
[4]V. anche N. GIUDICEANDREA, Decreto (dir. proc. civ.), voce dell’Enc. del diritto, Milano, XI, 1962, 824.
[5] V. anche LANCELLOTTI, Decreto, voce del Noviss. dig.it., Torino, 1960, V, 278; LUZZATTI, Decreto, in Enc. forense, Milano, 1958, III, 36.
[6] CHIOVENDA, Istituzione di diritto processuale civile, Napoli, 1934, II, 357.
[7] ANDRIOLI, Commento al codice di procedura civile, Napoli, 1957, II, 378.
[8] SATTA, Diritto processuale civile, Padova, 1981, 212.
[9] PUNZI, Il processo civile, Torino, 2010, I, 41.
[10] MONTELEONE. Manuale di diritto processuale civile, Padova, 2007, I, 291.
[11] Né un ripensamento in tal senso sembra giungere dal c.d. decreto correttivo, che non solo conferma la decisione con decreto delle verifiche preliminari, ma anzi aggiunge un ulteriore potere ‘d’ufficio del giudice senza contraddittorio qual è quello di passare al rito sommario prima dell’interlocuzione di ciò con le parti.
[12] In argomento v. anche C. TRAPUZZANO, Sulle verifiche preliminari opera la garanzia del contraddittorio, anche in chiave postuma, in Il Quotidiano giuridico, on line.
[13] NAPPI, Commentario al codice di procedura civile, Milano, 1941, I, 771.
[14] Ancora SATTA, Diritto processuale civile, cit., 212.
[15] PUNZI, Il processo civile, cit., I, 41.
[16] v., infatti, ad esempio, Cass. 8 febbraio 2010 n. 2723; Cass. 1 marzo 2012 n. 3189; Cass. 27 gennaio 2017 n. 2044; Cass. 9 gennaio 2019 n. 267; Cass. 27 maggio 2019 n. 14365.
[17] Sul punto v. anche C. CECCHELLA, Sentenza 96/24: il rigetto della questione di costituzionalità come fonte del diritto, Il Dubbio, 5 giugno 2024.
Immagine: John Koch, Padre e figlio (autoritratto), olio su tela, 1955, Kraushaar Galleries, New York.
L'ultimo articolo di Giacomo Matteotti - cento anni dopo
di Margherita Occhilupo
Questo articolo è apparso nel numero di luglio 1924 del periodico inglese English Life fondato da Brendan Bracken, uno degli amici più stretti di Winston Churchill che sarà poi Ministro dell'Informazione del suo governo tra il 1940 e il 1945. Si ritiene che Giacomo Matteotti lo abbia scritto nei primi giorni di giugno del 1924 [1]: questo lo rende uno degli ultimi testi a sua firma. Il contenuto fu parzialmente anticipato dalla stampa inglese nella seconda metà del giugno del ‘24, quando i giornali di tutta Europa denunciano incessantemente la scomparsa del deputato socialista. Matteotti oltre al suo costante impegno parlamentare e al suo lavoro sul territorio italiano, di cui molto si è detto su questa Rivista, aveva anche contribuito alla costruzione di un’opposizione internazionale al fascismo, viaggiando in tutta Europa e creando legami tra partiti socialisti e sindacati. Il suo rapimento ebbe un’immediata risonanza nei giornali di tutto il mondo occidentale, che seguirono la vicenda nel corso dell’estate del 1924 e poi continuarono a onorarne la memoria per decenni.
L'articolo "Machiavelli, Mussolini and Fascism", di cui pubblichiamo oggi una traduzione di servizio, è una risposta di Matteotti all'articolo a firma di Benito Mussolini apparso nel numero di giugno 1924 di English Life. Si trattava della rielaborazione, tradotta in inglese con il titolo “The Folly of democracy”[2], di uno scritto di Mussolini, "Preludio al Machiavelli”, già pubblicato in Italia sulla rivista Gerarchia nell’aprile del 1924, «nel quale, dietro la “disinvolta” attualizzazione dell’opera machiavelliana, si nasconde un atto di accusa alla democrazia e una feroce critica delle istituzioni politiche liberali»[3].
In questo scritto Matteotti confuta le storture dell’interpretazione che Mussolini dà al “Principe” di Machiavelli e afferma con incredibile lungimiranza che una delle peggiori creazioni di Mussolini sono i fascisti, ovvero il permearsi della mentalità e dei metodi fascisti nelle pratiche e nelle idee dei cittadini. Denuncia inoltre la corruzione degli alti funzionari fascisti, in particolare con riferimento alla convenzione siglata nell’aprile del 1924 dal Ministro dell’Economia nazionale con la compagnia petrolifera Sinclair Oil. L’affare Sinclar Oil fu poi utilizzato ai fini del depistaggio delle indagini per l’omicidio di Matteotti: collegare il delitto alla scoperta di fatti di corruzione portava a individuare come possibili mandanti soggetti diversi da Mussolini, in realtà l'unico mandante dell’omicidio. Matteotti fu fatto uccidere da Mussolini poiché era il più strenuo oppositore del regime fascista, il primo antifascista. Il depistaggio rallentò le indagini e consentì al regime di riassettarsi dopo “l’affare Matteotti” e così, con il trasferimento a Chieti, tutto finì con il “processo farsa”.
Come riporta l’occhiello dell’articolo «dal momento in cui questo articolo è stato scritto, Matteotti è stato rapito da alcuni sostenitori del fascismo ("Fascisti supporters") e la sua sorte è ancora ignota».
Il corpo dell’onorevole Giacomo Matteotti, assassinato da sicari fascisti il 10 giugno 1924, sarà ritrovato solo il 16 agosto 1924 alle porte di Roma e poi sepolto a Fratta Polesine, suo paese natale. Su questa Rivista abbiamo ricordato diffusamente la sua vita, il suo pensiero, il suo lavoro e l’importanza del suo contributo alle istanze antifasciste di tutta Europa. Si vedano: Giacomo Matteotti: il suo e il nostro tempo di Licia Fierro, Discorso alla Camera del Deputati del 30 maggio 1924 di Giacomo Matteotti, "Il delitto Matteotti" e quel giudice che voleva essere indipendente (nel 1924) di Andrea Apollonio, Una risalente (ma non vecchia) vicenda processuale: il pestaggio fascista in danno dell’on. Giovanni Amendola del 26 dicembre 1923 di Costantino De Robbio, La magistratura al tempo di Giacomo Matteotti di Giuliano Scarselli, A margine del Processo Matteotti: la coerenza di un magistrato in tempo di regime di Costantino De Robbio, Giacomo Matteotti. Il giurista di Giovanni Canzio, Note su Giacomo Matteotti ed il penale costituzionale: la legalità dalla crisi dello Stato liberale alla «dominazione fascista» di Floriana Colao, Un Matteotti poco conosciuto di Enrico Manzon, Il metodo per la riforma fiscale, preziosissima eredità di Giacomo Matteotti di Francesco Tundo.
Con questo contributo la Redazione di Giustizia Insieme, nel ricordo vivo di Giacomo Matteotti, saluta le lettrici e i lettori.
Ci ritroveremo a settembre. Buona lettura e buona estate!
Machiavelli, Mussolini e il fascismo
di Giacomo Matteotti
Segretario politico del Partito Socialista Italiano
Questo articolo è una risposta all'articolo del signor Mussolini apparso sul numero di giugno di English Life. Dal momento in cui questo articolo è stato scritto, il signor Matteotti è stato rapito da alcuni sostenitori del fascismo e la sua sorte è ancora ignota.
La democrazia inglese è stata recentemente allietata dalla conversione del signor Mussolini ai principi machiavelliani. Nel suo stravagante articolo su Machiavelli chiarisce che la forza è la sua unica guida politica. Le sue osservazioni su Machiavelli sono da inquadrare in forma perpetua in una tesi universitaria. Sono degne di essere analizzate da chi ha esperienza delle teorie di Mussolini applicate al governo. Egli afferma che «pochi sono coloro — eroi o santi — che sacrificano il proprio io sull'altare dello Stato. Ma ci sono molti cittadini disposti a rovesciare quell'altare e a sacrificare lo Stato per i propri scopi. La rivoluzione francese e altre rivoluzioni hanno tentato di risolvere questo dissidio che è alla base di ogni organizzazione sociale statale, facendo sorgere il potere come una emanazione della libera volontà del popolo. C'è una finzione e una illusione di più. Prima di tutto il popolo non fu mai definito. È una entità meramente astratta, come entità politica. Non si sa dove cominci esattamente, né dove finisca. L'aggettivo di sovrano applicato al popolo è una tragica burla. Il popolo tutt’al più, delega, ma non può certo esercitare sovranità alcuna. I sistemi rappresentativi appartengono più alla meccanica che alla morale. Anche nei paesi dove questi meccanismi sono in più alto uso da secoli e secoli, giungono ore solenni in cui non si domanda più nulla al popolo, perché si sente che la risposta sarebbe fatale; gli si strappano le corone cartacee della sovranità — buone per i tempi normali — e gli si ordina senz'altro o di accettare una Rivoluzione o una pace o di marciare verso l'ignoto di una guerra. Al popolo non resta che un monosillabo per affermare e obbedire. Voi vedete che la sovranità elargita graziosamente al popolo gli viene sottratta nei momenti in cui potrebbe sentirne il bisogno. Gli viene lasciata solo quando è innocua o è reputata tale, cioè nei momenti di ordinaria amministrazione. Vi immaginate voi una guerra proclamata per referendum? Il referendum va benissimo quando si tratta di scegliere il luogo più acconcio per collocare la fontana del villaggio, ma quando gli interessi supremi di un popolo sono in giuoco, anche i governi ultrademocratici si guardano bene dal rimetterli al giudizio del popolo stesso.»
«Regimi esclusivamente consensuali non sono mai esistiti, non esistono, non esisteranno probabilmente mai. Mi sostiene in questa opinione una pregnante citazione del “Principe” di Machiavelli: “Di qui nacque che tutti i profeti armati vincono e li disarmati ruinarono”. Perché la natura dei popoli è varia ed è facile persuadere loro una cosa, ma è difficile fermarli in quella persuasione. “E però conviene essere ordinato in modo, che, quando non credono più, si possa far credere loro per forza. Moisè, Ciro, Teseo e Romolo non avrebbero potuto fare osservare lungamente le loro costituzioni, se fossero stati disarmati.»
Ci si può chiedere se l'Inghilterra, il Paese di Gladstone e Bright, apprezzerà sentimenti tirannici così violenti - penso di no. La mia ultima esperienza in Inghilterra dimostra che il regime democratico si sta lentamente ma certamente imponendo sui vasti interessi imperiali dell'Inghilterra. Si tratta di una crescita graduale che sarà favorita da indiscrezioni come l'adesione di Mussolini ai principi infernali di Machiavelli. Quando Mussolini pone la domanda: «Vi immaginate voi una guerra proclamata per referendum? Il referendum va benissimo quando si tratta di scegliere il luogo più acconcio per collocare la fontana del villaggio, ma quando gli interessi supremi di un popolo sono in giuoco, anche i governi ultrademocratici si guardano bene dal rimetterli al giudizio del popolo stesso.» La risposta è che la povera e laboriosa gente comune si dichiarerebbe a stragrande maggioranza contro la guerra se fosse concesso loro un referendum. E perché no? Il mondo è decimato, impoverito e lacerato dalle terribili conseguenze dell'ultima guerra. Se nei Paesi coinvolti fossero stati indetti dei referendum, non ci sarebbe stata la guerra.
Secondo Mussolini i profeti armati conquistano. Potrebbe essere così. Ma le loro conquiste sono permanenti? No! Mussolini stesso, con grande energia, ha costruito una forma di governo dipendente dalla spada, dalla violenza, dalle perversioni politiche. Il vigore delle sue idee, il potere dei suoi spietati seguaci hanno soppresso per un certo periodo la democrazia italiana. Essa risorgerà. Il governo fascista è già gravemente pregiudicato dai metodi dei suoi leader e dalle sinistre attività commerciali perseguite da alti funzionari il cui formidabile potere impedisce il controllo pubblico dei beni che amministrano. Queste cose non possono essere soffocate ancora a lungo. Già adesso emergono fatti sui quali il nostro Paese sarà chiamato in giudizio.
La condotta della Banca Commerciale con riguardo al prestito polacco è un esempio dell'avarizia sfrenata permessa dai governanti fascisti. Molto più gravi sono le azioni del Ministero dell'Economia Nazionale nei suoi rapporti con la Sinclair Oil Company. Il Senatore Corbino, Ministro dell'Economia Nazionale, ha consegnato vasti spazi di terra in Emilia e in Sicilia contenenti oltre 100.000 ettari* (*circa 250.000 acri) di ricchi giacimenti di petrolio alla Sinclair Oil Company, collegata alla tentacolare Standard Oil Trust. Questo territorio immensamente ricco viene conferito a una società straniera senza garanzie. La natura sorprendente di questa concessione è illustrata dal nono paragrafo del comunicato ufficiale del governo: “La concessione comprende la produzione di oli minerali, gas e relativi prodotti idrocarburi, mentre lo sfruttamento delle rocce bituminose è riservato alle imprese italiane. L'accordo ha una durata di 50 anni. I privilegi fiscali concessi alla società sono i seguenti: a) Esenzione dai dazi d'importazione per i macchinari necessari alla società qualora non sia possibile ottenerli da imprese italiane. In ogni caso è riservata la preferenza per la fornitura di tali macchinari, a parità di altre condizioni; b) Esenzione dall'imposta sul reddito per i primi dieci anni.” Siamo già a conoscenza di molte gravi irregolarità relative a questa concessione. Alti funzionari possono essere accusati di corruzione e tradimento o del più vergognoso mercimonio. Molto più sinistro è il comportamento di molti fascisti al potere, che praticano un prelievo capillare su imprese private e semipubbliche allo scopo di finanziare giornali fascisti e altre organizzazioni per il loro interesse e profitto.
Quando Mussolini afferma nel suo articolo su Machiavelli che “c'è poca giustificazione morale per il governo rappresentativo”, potrebbe esaminare il sistema da lui stesso costruito, che è in parte un oltraggio alla moralità. Mentre è impegnato a denunciare i difetti della democrazia, una parte incontrollabile dei suoi seguaci commette crimini di violenza e ricatto. Egli fa pochi sforzi per rimproverarli, non può sopprimerli, perché dalle loro spalle è salito sul suo alto seggio. Lo hanno messo lì considerandolo un loro sostenitore, e lui è impotente nel controllare i loro disegni malvagi. Machiavelli avrebbe permesso questa situazione? Non lo avrebbe fatto. Sapeva che uno Stato deve perire se i prepotenti privilegiati possono commettere crimini senza restrizioni. Mussolini invoca la sua autorità per giustificare la sua politica. Dovrebbe leggere il suo Maestro con maggiore impegno. Che si rivolga al capitolo diciottesimo del “Principe” e legga cosa pensava Machiavelli a proposito del governo: «si può combattere in due modi: con le leggi o con la forza. Il primo è tipico dell'uomo, il secondo degli animali.»
O ancora nel nono capitolo del “Principe”. «E non venitemi fuori con quel vecchio e trito che chi si fonda sul popolo si fonda sul fango. Questo è vero per un privato cittadino che fa affidamento sul popolo e spera che il popolo lo salvi se egli fosse oppresso da nemici o da funzionari. Scoprirebbe subito di esseri ingannato, come avvenne a Roma ai Gracchi e a Firenze a Giorgio Scali. Ma quando invece è in principe a fare affidamento sul popolo, un principe che sappia comandare ed umano e non si lasci turbare dalla avversità e sia preparato ad affrontare la situazione, e tenga in pugno con il coraggio e gli ordini tutto il popolo, non sarà ingannato da esso e scoprirà di aver creato delle buone fondamenta.»
La democrazia in Italia può ora assopirsi, ma sentimenti come quelli di Mussolini non possono non rubare il loro sonno. Invece di effusioni rozze come questo articolo su Machiavelli, Mussolini potrebbe applicarsi nel purificare la sua creazione - i fascisti - le cui azioni pubbliche tendono a rendere l'Italia infame in tutto il mondo.
Machiavelli, Mussolini and Fascism
By Giacomo Matteotti
Political Secretary of the Italian Socialist Party
This article is a reply to the article by Signor Mussolini which appeared in the June number of ENGLISH LIFE. Since this article was written Signor Matteotti was kidnapped by some Fascisti supporters and his fate is not yet known.
The democracy of England has lately been entertained by Signor Mussolini’s conversion to Machiavellian principles. In his extravagant article on Machiavelli it makes it clear that force is his sole political guide. His observations upon Machiavelli are to be incorporated in perpetual form in a University thesis. They are worthy of analysis by one who has experience of Mussolini’s theories applied to government. He says that
«there are very few heroes and saints who are now prepared to sacrifice themselves on the altar of the State. But there are many citizens willing to upset the altar and sacrifice that State for their own purposes. The French revolution and other revolutions were an attempt to make government subject to the free will of the people. This theory is based on foolishness and untruths. Why? First of all the people have never been defined. Such a theory is merely a political abstraction. No one knows where it commences or where it ends. The adjective “sovereign” applied to the people is a tragic farce. At most the people appoint delegates, but it is absurd to suppose that the people exercise sovereignty. There is little moral justification for representative government, but a great deal can be said for its mechanical usefulness. Even in countries where representative government has always obtained, a time occurs when it is fatal to consult the people. In times of war the cardboard crown of sovereignty is stripped from the people (for it is only fit for normal times) and the people have no alternative but to plunge into the unknown perils of war or to declare for revolution. For such occasions the people have but one duty to affirm and obey. It is evident that the sovereignty graciously granted to the people is taken from it at the time when it is most needed. In fact it is only allowed to continue when it is innocuous or considered as such, that is to say during the placid course of ordinary administration. Concerning this point, I should like to submit this question. Can anyone imagine a war being declared by referendum? A referendum is a very good thing when it is a question of choosing the best spot for placing the village pump. But when the supreme interests of the people are at stake even the most ultra-democratic Governments take care not to submit them to the judgment of the people.»
«Governments based exclusively on the will of the people have never existed, do not exist, and will probably never exist. I am supported in this view by a pregnant quotation from Machiavelli “Prince”: “Armed prophets conquer; those who are unarmed are ruined”. Because the nature of peoples is changeable; and while it is easy to persuade them of a thing, it is difficult to maintain them in the same persuasion. Therefore it is well to arrange things so that when people no longer believe they could be made to believe through force. Moses, Cyrus, Theseus and Romulus would not have been able to enforce their constitutions for long had they been disarmed”.»
One makes bold to wonder whether England, the country of Gladstone and Bright, will appreciate such violent tyrannical sentiments – I think not. My last experience of England shows that democratic rule is slowly but surely impressing itself upon the vast imperial interests of England. It is a gradual growth which will be helped by such indiscretions as Mussolini’s championship of the hellish principles of Machiavelli. When Mussolini asks the question «can anyone imagine a war being declared by a referendum? A referendum is a very good thing when it is a question or choosing the best spot for placing the village pump but when the supreme interests of the people are at stake even the most ultra-democratic government take care not to submit them to the judgment of the people.» The answer is that the poor toiling common people would overwhelmingly declare against war if a referendum were granted to them. And why not? The world is decimated, beggared and torn asunder but the awful consequences of the late war. If referendums had been taken in the countries involved, there would have been no war.
According to Mussolini armed prophets conquer. It may be so. But are their conquests permanent? No! Mussolini himself, by great energy has made a form of government dependent upon the sword, upon violence, upon political perversions. The vigour of his views, the power of his ruthless followers have for a time suppressed the democracy of Italy. It will rise again. Already the Fascist rule is gravely prejudiced by the methods of its leaders and by the sinister commercial activities pursued by high officials whose formidable power prevents public supervision of the trust they administer. Such things cannot long be stifled. Even now facts emerge upon which our country will be called to pass judgment.
The conduct of the Banca Commerciale in regard to the Polish loan is an instance of the unbridled avarice permitted by the Fascisti rulers. Much worse are the actions of the Ministry of National Economy in its dealings with the Sinclair Oil Company. Senator Corbino, the Minister of National Economy as handed over vast spaces of land in Emilia and Sicily containing over 100,000th hectares* (*about 250,000 acres) of rich oil deposits to the Sinclair Oil Company which is connected with the octopus-like Standard Oil Trust. These immensely rich territory is conferred upon a foreign company without safeguards. The startling nature of this concession is illustrated by the ninth paragraph of the official communique of the government: – “The concession embraces the production of mineral oils, gas and relative hydro-carbon products while the exploitation of bituminous rocks is reserved for Italian Enterprise. The agreement has a duration of 50 years. The fiscal privileges conceded to the company are as follows: a) Exemption from import duties in the case of machinery required by the company should it not be feasible to obtain such machinery from Italian firms. In every case the preference of furnishing these machinery is reserved, should all other terms be equal; (b) Exemption from income tax for the first ten years.”
We are already aware of many grave irregularities concerning this concession. High officials can be charged with treasonable corruption or of the most disgraceful jobbery. Far more sinister is the conduct of many leading Fascisti, who conduct a widespread levy upon private and semi-public enterprises with the object of maintaining Fascist newspapers and other organizations for their interest and profit.
When Mussolini states in his article upon Machiavelli that «there is little moral justification for representative government» he might examine the system built by himself, which is in parts an outrage against morality.
While he’s busy denouncing the defects of democracy, an uncontrollable section of his followers are committing crimes of violence and blackmail. He makes little effort to rebuke them, he cannot suppress them, for upon their shoulders he has climbed to his high seat. They having put him there regarding him as their supporter, and he is powerless to control their evil designs.
Would Machiavelli have permitted this situation? He would not. He knew that a State must perish if privileged bullies can commit crimes without restriction. Mussolini invokes his authority to justify his policy. He should read his Master with greater application. Let him turn to the eighteenth chapter of the “Prince” and read what Machiavelli thought concerning Government. «It should therefore be known that there are two ways of deciding any question. The one by laws. The other by force. The first is peculiar to men, the second to beasts».
Or again in the ninth chapter of the “Prince”. «Let no one quote the old proverb against me that he who relies on the people builds on a sandy foundation. It may be true of a single citizen opposed to powerful enemies or oppressed by the magistrates as happened to the Gracchi at Rome and to George Scali at Florence; but a prince who is not deficient in courage and is able to command, who is not dejected by ill fortune, not deficient in necessary preparations, knows how to preserve order in his States by his own valour and conduct, need never repent of having laid the foundation of the security on his people’s affections.»
The democracy in Italy may now slumber, by sentiments such as Mussolini’s cannot fail to steal their sloth. Instead of such crude effusions as this article on Machiavelli, Mussolini might apply himself to cleansing his creation – the Fascisti – whose public actions tend to make Italy infamous throughout the world.
[1] https://www.parlamento.it/application/xmanager/projects/leg19/file/ASSR37_Chronicon.pdf
[2] “La follia della democrazia”. Una trascrizione dell’articolo inglese di Mussolini è reperibile qui https://andreapisauro.com/1924/06/01/the-folly-of-democracy/.
[3] MITAROTONDO L., The Folly of Democracy? Una pagina di resistenza e dissenso al Machiavelli in camicia nera, in Libertà uguaglianza democrazia nel pensiero politico europeo (XVI-XXI secolo), a cura di R. BUFANO, Lecce, Milella [«Politica Storia Progetto», n.7], 2018, pp. 165-180 (ISBN: 978- 88-3329-022-5).
Intervento alla cerimonia di commemorazione di Boris Giuliano
Scuola della Polizia di Stato (Roma, 23 luglio 2024)
Saluto con deferenza il Presidente della Repubblica, al quale porgo gli auguri più fervidi nel giorno del suo compleanno, esprimendo la mia gratitudine di cittadino e di magistrato per la guida saggia e illuminata che Egli assicura alla vita repubblicana.
Ringrazio il Capo della Polizia per l’iniziativa di dedicare al nome di Giorgio Boris Giuliano uno degli edifici di questa prestigiosa Scuola.
Una scelta che contribuisce a rinnovare il dovere di inchinarsi dinanzi al ricordo di un coraggioso servitore dello Stato, ma che impone anche di riconoscere il debito morale generato dalla consapevolezza che quel delitto fu il terribile epilogo di una vicenda profondamente segnata dalla solitudine istituzionale della vittima.
Una condizione che rese agevole il calcolo che precede l’assassinio: come era già avvenuto e come sarebbe ancora accaduto in quella Sicilia dove, secondo le parole dello storico Salvatore Lupo, negli ambienti polizieschi e giudiziari la maggioranza restava al riparo dell’ordinaria amministrazione, “per incapacità, o pigrizia, o paura, o complicità”.
Una condizione che rendeva immediatamente riconoscibili, non soltanto agli occhi di cosa nostra, i “morituri”: i pochi che sapevano dare prova di impegno efficace e intelligente.
È ciò che avvenne per Boris Giuliano.
La moglie Ines Maria, alla quale va oggi il mio omaggio devoto, lo ricordò ancora nell’aprile 1981 in una drammatica lettera al CSM, indicando i comportamenti passivi e remissivi di magistrati del tempo come fattore determinante dell’isolamento di un uomo inevitabilmente esposto alla rappresaglia mafiosa.
Fu così per Boris Giuliano.
Così come sarebbe stato da lì a poco anche per Cesare Terranova, Gaetano Costa e Giangiacomo Ciaccio Montalto.
Anche loro vittime di una violenza mafiosa che si scatenava quando ormai la vittima era già isolata in ambienti nei quali imperava la tentazione a lasciar andare tutto, senza concludere niente: per incompetenza, rassegnazione, indifferenza o compromissione.
Ben si comprende allora il senso profondo delle amare conclusioni che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino consegnarono nella sentenza-ordinanza che diede forma al Maxi processo, scrivendo: “se altri organismi statali avessero adeguatamente compreso e assecondato l’intelligente impegno investigativo del Giuliano probabilmente le strutture organizzative della mafia non si sarebbero così enormemente potenziate e molti efferati assassini, compreso quello dello stesso Giuliano, non sarebbero stati consumati”.
Parole che muovevano dal riconoscimento del grande valore delle indagini, “accurate e fruttuose”, che avevano condotto Boris Giuliano a scorgere, prima di tutti, il ruolo assunto da cosa nostra nel traffico internazionale degli stupefacenti e a percorrere con determinazione e lungimiranza le strade della cooperazione internazionale, innanzitutto con le agenzie americane che indagavano sulle importazioni dalla Sicilia della morfina base che inondava le strade di New York.
Per comprendere il significato innovatore dell’opera di Boris Giuliano basterebbe ricordare la modernità di un suo rapporto del 7 maggio 1979: “Accertamenti su attività illecite condotte dal crimine organizzato in Italia e negli U.S.A., con pagamenti attraverso operazioni bancarie”.
Per la prima volta, le indagini su Cosa Nostra si proiettavano verso quel medesimo sistema bancario che vedeva in Sicilia un cugino di Stefano Bontade, allora capo della famiglia di Santa Maria di Gesù, ricevere, quale dirigente di una banca di Palermo, le richieste di informazioni del Commissario Giuliano su un’operazione di riciclaggio di 300.000 dollari del tempo che quello stesso mafioso col colletto bianco aveva disposto sotto falso nome.
Una vicenda, come avrebbe in seguito sottolineato Giovanni Falcone, che rivelava, oltre all’impegno profondo di Boris Giuliano, la sua condizione di pratica solitudine.
Falcone ne trasse una lezione fondamentale per sviluppare le indagini che, muovendo dalle intuizioni di Boris Giuliano, egli condusse sul cruciale versante dei traffici di droga fra Sicilia e Stati Uniti: occorreva procedere in modo sistematico, accumulando e verificando dati, informazioni e fatti “fino a quando la testa scoppia”, come ebbe a dire nel 1991 nella sua famosa intervista a Marcelle Padovani.
Il cambiamento fu reso possibile, dunque, solo da un’organizzazione radicalmente nuova delle indagini, sottratte alla sorte del lavoro solitario, come quello che Boris Giuliano era stato invece costretto ad intraprendere.
A ben vedere, dunque, la terribile vicenda di Boris Giuliano fu dunque una delle radici profonde dell’esperienza del pool antimafia di Palermo.
Un’altra, ancor più profonda, radice muoveva dalla consapevolezza che la minaccia mafiosa gravava ormai sulle stesse sorti della democrazia italiana, come l’omicidio del presidente della regione siciliana Piersanti Mattarella aveva rivelato in modo eclatante e sinistro.
Una minaccia mafiosa che vedeva moltiplicare i suoi effetti destabilizzanti nell’obiettivo intreccio:
È importante ricordare oggi quella condizione di grave pericolo per la stabilità delle istituzioni democratiche, anche per comprendere appieno il valore di indagini che per la prima volta si proiettavano su due decisivi versanti:
Due direttrici di marcia nuove e feconde, che avrebbero dato grandi frutti negli anni successivi e che continuano anche oggi ad avere grande importanza.
Lo dimostrano le recenti indagini della Procura di Palermo e dell’United States Attorney Office for the Eastern District of New York, ancora una volta con il supporto dell’F.B.I.
Indagini che rivelano incredibili linee di continuità con quelle di Boris Giuliano, come dimostrato, ancora nel novembre 2023, dal nuovo arresto di quello stesso mafioso che il Commissario Giuliano aveva denunciato con il rapporto del 7 maggio 1979 che ho prima ricordato.
La collaborazione fra Italia e Stati Uniti è destinata a produrre ancora frutti importanti sull’asse Palermo-New York, ma ha un valore strategico su scala globale.
Noi lavoriamo innanzitutto per aprire ed estendere sempre più le strade della cooperazione internazionale nel contrasto della forza destabilizzante del narcotraffico e del riciclaggio dei relativi, enormi proventi.
Le tre giornate di lavoro fra decine di procuratori italiani e latino-americani svoltesi a Palermo in occasione del 32° anniversario della strage di Capaci stanno lì a dimostrarlo.
Un lavoro gomito a gomito, che ha generato nuove, importanti squadre investigative comuni e soluzioni condivise a tanti problemi delle più tradizionali forme di cooperazione giudiziaria: un incontro importante, che l’anno prossimo si rinnoverà a Rotterdam, come concordato con il Procuratore nazionale olandese e i Procuratori generali latino-americani.
Occorre proiettare sistematicamente le nostre indagini sulla dimensione globale del crimine organizzato, elaborando e condividendo progetti investigativi ambiziosi, necessari soprattutto per ricostruire i flussi finanziari a monte e a valle dei traffici di stupefacenti.
Abbiamo bisogno di sviluppare le nostre conoscenze sulla struttura e le logiche delle organizzazioni criminali che governano le rotte del narcotraffico internazionale, dando vita a network integrati che si avvalgono di una gigantesca rete logistica e di comuni strategie di occultamento e reinvestimento speculativo dei profitti dei traffici.
Un lavoro essenziale anche per cogliere la progressiva integrazione nella logica dei mercati criminali globali delle dinamiche evolutive di ‘ndrangheta, camorra e cosa nostra, ma soprattutto per illuminare i legami profondi del narcotraffico con i fenomeni di corruzione e finanziamento del terrorismo che si registrano su scala globale.
Serve insomma un deciso cambio di passo, abbandonando le asfittiche e vanagloriose logiche di indagini volte al mero sequestro di carichi di droga, la perdita dei quali spesso rappresenta per i narcos un costo già preventivato e talvolta persino sotterraneamente negoziato.
È necessario alzare lo sguardo e indirizzare le indagini verso le componenti più sofisticate delle organizzazioni criminali, come tali chiamate a guidarne i processi di trasformazione tecnologica e le strategie di mimetizzazione finanziaria.
Per farlo occorre rapidamente recuperare il grave gap tecnologico che rallenta l’azione delle nostre straordinarie forze di polizia e rischia di tenerle lontane dalle linee più avanzate della collaborazione internazionale.
Soprattutto, occorre condividere strategie investigative di più ampio respiro, possibili soltanto condividendo quel paziente lavoro di accumulazione, analisi ed elaborazione di dati e informazioni che Giovanni Falcone conduceva fino a farsi “scoppiare la testa” e che tutt’oggi non ha alternative credibili ed anzi può essere sostenuto e reso più efficace dalle nuove tecnologie digitali.
Una strada obbligata.
Anche per evitare pericolosi arretramenti del modello italiano di indagini sulla criminalità organizzata al quale, per la profonda conoscenza dei fenomeni criminali e il rigore dei metodi di lavoro, molti, in tutto il mondo, guardano con fiducia.
Un modello ammirato anche perché è costato, purtroppo, il sangue di alcuni e, per fortuna, il sudore di tanti.
Leggere il nome di Giorgio Boris Giuliano all’entrata dell’edificio a lui dedicato aiuterà molti a ricordare il dovere di non disperdere quel patrimonio di esperienza e di credibilità.
L’interesse ad accedere agli atti della procedura di project financing (Nota a Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 02/05/2024 n. 3979)
di Gloria Pelosi
Sommario: 1. La vicenda rimessa al vaglio del Consiglio di Stato. - 2. L’accesso difensivo nella legge n. 241/1990: natura giuridica, funzioni e requisiti di legittimazione attiva. - 3. La soluzione adottata dal Consiglio di Stato con la pronuncia n. 3979/2024.
1. La vicenda rimessa al vaglio del Consiglio di Stato.
Si riassume per sommi capi la vicenda che ha dato origine alla decisione in commento, considerato che le peculiarità della stessa hanno avuto un peso rilevante nell’individuazione delle questioni giuridiche sulle quali il Consiglio di Stato si è pronunciato.
Il giudizio di primo grado era stato instaurato dinanzi al TAR Lazio ai sensi dell’art. 116 del d. lgs. n. 104/2010 da parte di un operatore economico che, avendo presentato una istanza di accesso agli atti di una procedura ad evidenza pubblica, se l’è vista rigettare dalla pubblica amministrazione.
Occorre sottolineare come, nella specie, la procedura di gara era stata espletata ai sensi dell’art. 183, comma 15, del d. lgs. n. 50/2016 (normativa applicabile ratione temporis al procedimento in questione) e, dunque, a seguito dell’approvazione di una proposta di project financing.
Per comprendere la portata della richiesta ostensiva rigettata, occorre sinteticamente descrivere la procedura di project financing di cui all’art. 183, comma 15, del d. lgs. n. 50/2016. Questa, come chiarito dal Consiglio di Stato nella sentenza in commento, consta di tre fasi.
La prima fase è quella dell’iniziativa, la quale è volta non già a scegliere il migliore fra una pluralità di offerenti sulla base di criteri tecnici ed economici predeterminati, bensì all’accoglimento della proposta formulata dall’aspirante promotore inerente alla presentazione della proposta di finanza di progetto, in cui si esprime la valutazione dell’interesse pubblico. La seconda fase, che è di appannaggio della sola amministrazione, è volta a valutare la fattibilità della proposta e ad inserire l’opera dichiarata di pubblico interesse nella programmazione triennale, con sottoposizione ad approvazione del progetto preliminare rimessa al consiglio. La terza fase, invece, prevede l’indizione di una procedura di gara sul progetto approvato, soggetta ai principi comunitari e nazionali in materia di evidenza pubblica.
Ciò detto, l’istanza di accesso è stata presentata da una società che a detta procedura di gara non aveva mai preso parte, neppure nella fase a monte relativa alle consultazioni di mercato e alla predisposizione del progetto da porre a base di gara.
E tuttavia, la società istante, che riteneva che dalla realizzazione dell’opera pubblica programmata avrebbe subito una lesione ai propri diritti e interessi economici, da dapprima instaurato un giudizio volto all’annullamento dell’intera procedura, nell’ambito del quale era stata impugnata la determinazione dirigenziale con la quale l’amministrazione aveva approvato la proposta di project financing e, con motivi aggiunti, anche l’aggiudicazione.
Successivamente, ha presentato istanza di accesso ai sensi dell’art. 53 del d. lgs. n. 50/2016 e degli artt. 22 e ss. della l. n. 241/1990, motivando la propria richiesta con riferimento alla necessità di utilizzare i documenti attinenti all’ultima fase della procedura di project financing (ossia quelli successivi all’adozione della lex specialis e, in particolare, tutti quelli attinenti all’aggiudicazione della procedura di gara, compresa l’offerta presentata dal RTI, unico concorrente, poi risultato aggiudicatario) per finalità difensive, non solo in considerazione del contenzioso già pendente, ma anche di eventuali iniziative future.
Di qui, la qualificazione dell’accesso come accesso difensivo.
Sulla predetta istanza si è formato il silenzio diniego, al quale ha fatto seguito una nota dell’amministrazione che motivava il diniego sulla base delle seguenti argomentazioni: assenza, in capo alla società istante, di un interesse diretto, concreto e attuale all’accesso, dal momento che la stessa non aveva presentato un’offerta nell’ambito della procedura; assenza di un interesse difensivo nei confronti degli atti di gara, dal momento che il contenzioso pendente era volto all’annullamento e non all’aggiudicazione della procedura e presenza di una valida opposizione del controinteressato all’accesso agli atti di gara.
L’intero giudizio nell’ambito del quale si innesta la sentenza del Consiglio di Stato in commento si appunta sullo scrutinio di tale diniego di accesso agli atti. Mentre il giudice di primo grado ne aveva censurato l’illegittimità e, per l’effetto, aveva ordinato l’esibizione degli atti di gara richiesti, il Consiglio di Stato, quale giudice d’appello, ha ribaltato la decisione di primo grado accogliendo i motivi di ricorso del soggetto controinteressato all’accesso, nonostante gli atti di gara fossero stati esibiti in ottemperanza alla sentenza di primo grado. Infatti, come ricorda lo stesso Consiglio di Stato nella sentenza in commento, che sul punto richiama un precedente in tal senso dell’Adunanza Plenaria (24 gennaio 2023 n. 4), ritenere che l’avvenuta ostensione dei documenti in ottemperanza alla sentenza di primo grado determini il venir meno dell’interesse a impugnare da parte del controinteressato all’accesso, significherebbe o privare la sentenza di primo grado di efficacia esecutiva o il processo sull’accesso del secondo grado di giudizio. Inoltre, l’interesse del controinteressato all’accesso alla decisione di secondo grado sussiste perché priva il ricorrente vittorioso in primo grado della possibilità di utilizzare i documenti ostesi e munisce l’appellante degli strumenti volti a tutelarsi da un eventuale uso indebito degli stessi.
2. L’accesso difensivo nella legge n. 241/1990: natura giuridica, funzioni e requisiti di legittimazione attiva.
Come è noto, il diritto di accesso ai documenti amministrativi è stato introdotto nel nostro ordinamento con legge n. 241/1990, artt. 22 e ss., e consiste nel diritto dei soggetti privati interessati di prendere visione e di estrarre copia di documenti amministrativi detenuti dalla pubblica amministrazione[1].
Si tratta quindi di un istituto presente nell’impianto della predetta legge sin dalla sua introduzione, ed anzi ne costituisce uno dei maggiori punti di svolta, come si evince dal titolo della stessa, che detta “Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi”[2]. Ed infatti, la sua entrata in vigore ha contribuito ad invertire le regole del “segreto d’ufficio” e della segretezza in favore della trasparenza e della pubblicità degli atti[3].
Oggi, ai sensi dell’art. 22, secondo comma, della l. n. 241/1990, “l’accesso ai documenti amministrativi, attese le sue finalità di pubblico interesse, costituisce principio generale dell’attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l’imparzialità e la trasparenza”.
Il diritto di accesso di cui alla legge n. 241/1990 è riconosciuto non al quisque de populo[4], ma soltanto a quei soggetti privati[5] che dimostrino di essere titolari di un interesse conoscitivo qualificato, in quanto titolari di una situazione giuridica soggettiva di base collegata al documento di cui è chiesta l’ostensione.
In tal senso, all’art. 25, secondo comma, della l. 241/1990 si prevede che la richiesta di accesso ai documenti amministrativi deve essere motivata dal soggetto istante in relazione alla titolarità dei requisiti di legittimazione attiva all’accesso.
Questi sono delineati dall’art. 22, primo comma, lett. b) della l. n. 241/1990), il quale, precisamente, stabilisce che il diritto di accesso è attribuito a “tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi, che abbiano un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso”[6].
L’accesso documentale è una tipologia di accesso che risponde essenzialmente ad un bisogno di conoscenza da parte di soggetti privati: “non sono ammissibili istanze di accesso preordinate ad un controllo generalizzato dell’operato delle pubbliche amministrazioni” (art. 24, terzo comma, l. 241/1990).
In altri termini, l’informazione non costituisce per il soggetto istante l’interesse finale, il bene della vita cui aspira. Piuttosto, il diritto di accesso delineato dalla legge n. 241/1990 si configura come una posizione giuridica soggettiva attribuita dall’ordinamento per la cura di una preesistente situazione giuridica collegata al documento di cui si chiede l’ostensione.
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 6 del 18 aprile 2006 ha espressamente riconosciuto il carattere strumentale del diritto di accesso, laddove ha stabilito che esso, a prescindere dalla questione – ancora dibattuta - circa la sua natura giuridica[7] (cioè della sua configurabilità come diritto soggettivo o come interesse legittimo), costituisce una situazione soggettiva che, più che fornire utilità finali (caratteristica da riconoscere, ormai, non solo ai diritti soggettivi ma anche agli interessi legittimi), risulta caratterizzata per il fatto di offrire al titolare dell’interesse poteri di natura procedimentale volti in senso strumentale alla tutela di un interesse giuridicamente rilevante.
Da qui l’affermazione secondo cui il diritto di accesso documentale, contrariamente all’accesso civico, sia semplice, sia generalizzato[8], la cui disciplina è contenuta nel d. lgs. n. 33/2013, è volto al soddisfacimento di finalità di pubblico interesse, quali la trasparenza e l’imparzialità della pubblica amministrazione, soltanto se e nella misura in cui esso risponda ad un bisogno di conoscenza connesso ed un’esigenza di protezione di una situazione giuridica soggettiva preesistente[9].
Il diritto di accesso delineato dalla legge n. 241/1990, oltre ad essere strumento di partecipazione, di trasparenza e di imparzialità, può assumere un’ulteriore autonoma funzione, enucleata dall’ultimo comma dell’art. 24 della legge n. 241/1990. Si tratta dell’accesso difensivo (o difensionale), ossia dell’accesso agli atti esercitato da parte del soggetto istante con la finalità di curare o difendere i propri interessi giuridici. Tale norma, posta in chiusura del sistema delle esclusioni dal diritto di accesso agli atti, prevede che in tali casi l’accesso deve comunque essere garantito ai richiedenti se la conoscenza dei documenti richiesti sia necessaria (o, addirittura, strettamente indispensabile nei casi in cui l’accesso riguardi dati sensibili e giudiziari) per espletare le proprie esigenze difensive.
Tale particolare finalità dell’accesso difensivo, riconducile in senso lato al diritto di cui all’art. 24 Cost., permea l’intera disciplina cui esso è soggetto, tant’è che ormai ne viene affermata la piena l’autonomia concettuale e dogmatica[10].
Si tratta di una forma di accesso “caratterizzata (dal lato attivo) da una vis espansiva capace di superare le ordinarie preclusioni che si frappongono alla conoscenza degli atti amministrativi; e connotata (sul piano degli oneri) da una stringente limitazione, ossia quella di dovere dimostrare la necessità della conoscenza dell’atto o la sua stretta indispensabilità, nel coso in cui l’accesso riguarda dati sensibili o giudiziari”[11].
Il diritto di accesso motivato sulla base di esigenze difensive, dunque, si presenta come una situazione giuridica capace di resistere alle contrapposte esigenze di riservatezza che vengono in rilievo nel caso concreto. Ciò a condizione che nella motivazione posta a corredo dell’istanza ostensiva venga adeguatamente rappresentata la sussistenza, nel caso concreto, dei requisiti di legittimazione attiva previsti dalla legge per tale tipologia di diritto di accesso.
Il legislatore ha infatti previsto dei puntuali criteri finalizzati ad individuare con precisione la situazione legittimante all’accesso difensivo, imponendo così al privato che voglia avanzare alla pubblica amministrazione una istanza di tal fatta un onere motivazionale aggravato rispetto a quello richiesto per l’accesso documentale semplice (o classico).
È necessario richiamare le argomentazioni e i principi di diritto contenuti della sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 4 del 18/03/2021, che ha contribuito a delineare in maniera chiara i confini applicativi dell’istituto in esame[12].
La ratio del diritto di accesso difensivo è costituita dal nesso di strumentalità necessaria, sulla base del quale occorre che vi sia un collegamento tra l’interesse difensivo che è alla base dell’stanza e il documento richiesto. La valutazione circa la sussistenza del nesso di strumentalità è regolata in ogni sua parte dalla legge, nonché dal relativo regolamento di attuazione (ossia il d.P.R. 12 aprile 2006, n. 184), in modo tale da non lasciar residuare “tratti liberi” rimessi all’interpretazione della pubblica amministrazione[13] ovvero al prudente apprezzamento del giudice.
La norma dalla quale si evince la centralità del nesso di strumentalità nell’ambito dell’istituto in esame è l’art. 22, comma 1, lett. b) della l. 241/1990, laddove si afferma che l’interesse all’accesso, oltre ad essere diretto[14], concreto e attuale[15], deve corrispondere ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale l’accesso si riferisce.
Da qui il rilievo, evidenziato dall’Adunanza plenaria, secondo cui il giudizio sull’interesse legittimante è ancorato allo scrutinio di due parametri fissi, rigidi e predeterminati: la corrispondenza e il collegamento.
L’interesse conoscitivo legittimante l’accesso difensivo è quello che corrisponde in modo diretto concreto e attuale a delle preesistenti esigenze di cura o di difesa (anche in giudizio) di una situazione giuridicamente tutelata.
La valutazione circa la sussistenza del requisito della corrispondenza coincide essenzialmente con un giudizio di pratica sussunzione che l’interprete deve effettuare tra “il fatto concreto di cui la parte domanda la tutela in giudizio e l’astratto paradigma legale che ne costituisce la base legale”[16]. In altri termini, esso è da ritenere sussistente in quelle sole ipotesi in cui vi sia piena corrispondenza tra le ragioni di tutela evidenziata nell’istanza (ossia i fatti, principali e secondari, di cui la fattispecie concreta si compone) e la fattispecie astratta che costituisce la base legale delle esigenze difensive avanzate nell’istanza.
Il requisito del collegamento, invece, sta ad indicare la necessità che il documento amministrativo di cui è richiesta l’ostensione sia connesso con la situazione giuridica controversa e con le esigenze difensive rappresentante nell’istanza ostensiva. Si richiede, in altri termini, che l’accesso sia utilizzato quale strumento per acquisire gli elementi di prova in ordine ai fatti integranti la fattispecie costitutiva della situazione giuridica controversa.
La volontà del legislatore, nell’interpretazione del giudice amministrativo, è stata quella di esigere che le finalità difensive siano adeguatamente e puntualmente rappresentate nella richiesta ostensiva, in modo tale da permettere all’amministrazione detentrice del documento e al giudice eventualmente adito nell’ambito del giudizio di accesso il vaglio circa la sussistenza del nesso di strumentalità necessaria, tra la documentazione richiesta sub specie di astratta pertinenza con la situazione finale controversa[17].
Si deve invece escludere che nell’istanza di accesso sia sufficiente un generico riferimento a non meglio precisate esigenze probatorie e difensive (siano esse riferite ad un giudizio già pendente oppure ancora instaurando), ovvero all’incertezza della situazione giuridica sostanziale, “poiché l’ostensione del documento richiesto passa attraverso un rigoroso, motivato, vaglio sul nesso di strumentalità necessaria tra la documentazione richiesta e la situazione finale che l’istante intende curare o tutelare”.
Con riferimento, però, alla tipologia di valutazione che spetta alla pubblica amministrazione ed eventualmente al giudice amministrativo adito ai sensi dell’art. 116 c.p.a.[18], è importante precisare come essi “non devono invece svolgere ex ante alcuna ultronea valutazione sull’ammissibilità, sull’influenza o sulla decisività del documento richiesto nell’eventuale giudizio instaurato, poiché un simile apprezzamento compete, se del caso, solo all’autorità giudiziaria investita della questione e non certo alla pubblica amministrazione detentrice del documento o al giudice amministrativo nel giudizio sull’accesso, salvo il caso di una evidente, assoluta, mancanza di collegamento tra il documento e le esigenze difensive e, quindi, di esercizio pretestuoso e temerario dell’accesso difensivo stesso per la radicale assenza dei presupposti legittimanti previsti dalla l. n. 241/1990”[19].
3. La soluzione adottata dal Consiglio di Stato con la pronuncia n. 3979/2024.
Il Consiglio di Stato, nella pronuncia in commento, è stato chiamato a verificare, nel caso di specie sopra brevemente delineato, la sussistenza dei presupposti legittimanti il diritto di accesso difensivo, per poi scrutinare il diniego opposto dalla pubblica amministrazione.
In particolare, il collegio si è interrogato sul se un operatore economico che si trovi nella situazione sopra descritta possa vantare, come richiesto dall’art. 22, comma 1, lett. b) della legge n. 241/1990, un interesse “diretto, concreto e attuale” all’accesso, pervenendo ad una soluzione negativa e così sovvertendo la soluzione accolta dai giudici di prime cure.
Ciò sulla base del fatto che, secondo i giudici di Palazzo Spada, l’istanza di accesso concretamente presentata costituisce un tentativo di strumentalizzare il diritto di accesso agli atti di gara per delle finalità che vanno oltre la stessa.
L’interesse posto alla base dell’istanza di accesso, infatti, è quello di opporsi alla realizzazione dell’opera pubblica che era stata programmata e poi posta a base di gara; mentre invece gli atti oggetto dell’istanza erano quelli relativi terza fase della procedura di project financing e, in particolare, quelli inerenti alla fase conclusiva della gara. Tale circostanza evidenzia una palese discrasia, un vero e proprio scollamento, tra l’interesse sostanziale evidenziato nell’istanza di accesso e i documenti rispetto ai quali si appunta la richiesta ostensiva.
In altri termini, il ragionamento svolto dal collegio è il seguente: se l’interesse sostanziale evidenziato dalla parte istante è quello a che il progetto posto a base di gara non venga realizzato, gli unici atti che effettivamente minacciano la realizzazione di tale interesse e rispetto ai quali la società istante può vantare un interesse difensivo sono quelli relativi alla prima fase della procedura di project financing, ossia quella di progettazione.
La pubblica amministrazione, invece, avrebbe senz’altro potuto esibire i documenti relativi alla fase di gara soltanto qualora l’interesse difensivo rappresentato nella richiesta di accesso agli atti fosse stato quello di difendersi da una procedura di gara illegittimamente svoltasi al fine di ottenere l’aggiudicazione della commessa pubblica.
Queste osservazioni conducono i giudici a negare la sussistenza nel caso di specie del nesso di strumentalità, difettando la necessaria corrispondenza tra le ragioni di tutela evidenziate nell’istanza e l’astratto paradigma legale cui è rivolta l’esigenza difensiva.
Il paradigma costituente la base legale delle esigenze difensive avanzate nell’istanza viene identificato dal collegio nella possibilità di difendersi dagli atti di gara successivi all’adozione della lex specialis. Possibilità, questa, che dipende dalla sussistenza, in capo alla società istante, della legittimazione e dell’interesse ad impugnare gli atti di gara.
Tuttavia, i giudici hanno ritenuto che alla società istante non spettasse la legittimazione a impugnare gli atti di gara successivi al bando. A sostegno di tale assunto i giudici richiamano la giurisprudenza nazionale (e, in particolare, le sentenze dell’Adunanza Plenaria del 26 aprile 2018 n. 4, del 7 aprile 2011 n. 4 e del 29 gennaio 2003 n. 1) secondo la quale in linea generale la legittimazione ad impugnare gli atti di gara spetta soltanto a chi vi ha partecipato, nonchè la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’unione europea (Cgue, sez. X, 9 febbraio 2023, C-53/22), laddove ha stabilito che l’ammissibilità del ricorso agli atti di gara deve essere assicurato a “chiunque abbia o abbia avuto interesse a ottenere l’aggiudicazione”, quindi soltanto chi ha presentato un’offerta ammissibile.
Per altro, si afferma nella sentenza in commento che l’interesse manifestato nell’istanza di accesso non presenterebbe il requisito dell’immediatezza. Ciò in quanto un eventuale annullamento degli atti di gara comporterebbe sì il soddisfacimento dell’interesse alla non realizzazione dell’opera, ma soltanto in via indiretta e soltanto a seguito di una pluralità di variabili: l’impugnazione e il successivo annullamento degli atti di gara e, inoltre, la decisione della stazione appaltante di non indire una nuova procedura ad evidenza pubblica per la realizzazione della medesima opera.
Per questa ragione, nel caso di specie i giudici hanno ritenuto di non poter fare uso della nozione ampia di interesse a ricorrere delineata dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Ciò in quanto, mentre nel caso in esame l’interesse cui l’operatore economico aspira è il fallimento dell’opera pubblica programmata, nelle ipotesi ampia di interesse a ricorrere delineato dalla Corte di Giustizia, invece, si prende in considerazione l’interesse dell’operatore economico ad avere la possibilità di ottenere una nuova riedizione della gara, anche nell’ipotesi in cui egli avrebbe dovuto essere escluso dalla gara precedete.
L’interesse al fallimento dell’opera pubblica programmata, di per sé considerato, afferma il Collegio, non può per altro ritenersi meritevole di tutela nel nostro ordinamento, dal momento che la posizione del privato che dialoga con il pubblico potere è volta a far sì che l’esercizio legittimo di quest’ultimo sia volto alla migliore soddisfazione possibile dei propri interessi. Invece, nel caso di specie, l’operatore economico, al fine di non vedere realizzata l’opera programmata che lede i propri interessi, spera in un’inefficienza della pubblica amministrazione, che decida di non portare a termine il progetto programmato.
A ben vedere, difetterebbe anche la preesistenza della situazione difensiva. Infatti, la pretesa alla non realizzazione dell’opera potrebbe essere soddisfatta soltanto al verificarsi di una variabile estranea all’esito del giudizio amministrativo e del tutto casuale, ossia, come già sottolineato, la scelta discrezionale della stazione appaltante di non indire nuovamente la gara.
Oltre agli aspetti sin qui considerati, il Consiglio di Stato ritiene che il diniego opposto dall’amministrazione sia legittimo, anche in ragione dell’opposizione all’accesso presentata dal controinteressato a tutela della riservatezza della propria attività.
È noto infatti come, la disciplina dell’accesso agli atti delle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici, contenuta all’art. 53 del d. lgs. 50 del 2016, pur richiamando la disciplina generale prevista dagli artt. 22 e ss. della legge n. 241 del 1990, costituisce un sistema normativo speciale in ragione delle peculiari esigenze di riservatezza che sono solite manifestarsi nell’ambito delle procedure ad evidenza pubblica.
Tra le specifiche disposizioni che qui vengono in rilievo vi è quella di cui al comma 5 dell’art. 53 del d. lgs. n. 50 del 2016, che prevede alla lettera a), tra i casi assoluti di esclusione del diritto di accesso, le informazioni rese nell’ambito dell’offerta che costituiscono, secondo motivata e comprovata opposizione dell’offerente, segreti tecnici o commerciali.
Il successivo comma 6 dell’art. 53 del D. lgs. n. 50 del 2016, anche in presenza dell’opposizione motivata del controinteressato, consente comunque l’accesso agli atti delle procedure di affidamento e di esecuzione di contratti pubblici al “concorrente” al fine di tutelare in giudizio i propri interessi.
Pertanto, la disciplina di cui al comma 6, che consente ai soli fini difensivi un accesso capace di prevalere sulle esigenze di tutela della riservatezza dei controinteressati, presuppone che l’operatore economico richiedente l’accesso sia un “concorrente” e che abbia quindi quanto meno presentato un’offerta ammissibile. Evenienza questa che, come già volte sottolineato, difettava nel caso di specie.
Ogni operatore economico partecipante è consapevole che, per ottenere il bene della vita anelato (l’aggiudicazione), è tenuto, così come gli altri concorrenti, ad assolvere agli oneri comunicativi imposti dalla stazione appaltante, la quale è tenuta a rispettare le esigenze di riservatezza che vengono in rilievo nelle procedure ad evidenza pubblica.
Il rapporto che si instaura tra gli operatori economici partecipanti e le Amministrazioni è stato definito come “rapporto di fiducia” ed esso è tale per cui gli operatori economici partecipanti alle gare devono poter confidare sul fatto che le stazioni appaltanti non rivelino a terzi le loro informazioni riservate, la cui divulgazione potrebbe pregiudicare la loro attività commerciale e falsare la concorrenza.
Il soggetto che è terzo, al contrario dei partecipanti alla gara, non ha assunto alcun rischio relativo alla propria attività imprenditoriale e, pertanto, non essendo la sua posizione paragonabile a quella degli altri operatori economici partecipanti, la sua richiesta ostensiva può non essere accolta.
Per tutti questi motivi, il Consiglio di Stato ha dichiarato la legittimità del diniego di accesso agli atti serbato dalla pubblica amministrazione.
Alla luce di quanto fin qui esposto, è possibile affermare che nella sentenza in commento il Consiglio di Stato abbia adottato una soluzione che si pone del tutto in linea con i principi di diritto enucleati dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nella sentenza n. 4/2021 in materia di accesso difensivo.
L’analisi dell’apparato motivazionale posto a corredo della decisione in esame, anzi, costituisce l’occasione per vedere “attraverso la lente di ingrandimento” come, nella prassi, la pubblica amministrazione e il giudice amministrativo siano tenuti a scrutinare le istanze di accesso agli atti, onde verificare sussistenza, nel caso concreto, del requisito del nesso di necessaria strumentalità tra esigenze difensive rappresentate nell’istanza e documenti cui la stessa si riferisce.
La sentenza in commento, come già evidenziato, ribalta l’esito cui erano pervenuti i giudici di prime cure[20], i quali invece avevano ritenuto sussistente il nesso di necessaria strumentalità sulla base dell’assunto per cui non si può astrattamente escludere che l’ostensione della documentazione di gara possa rivelarsi utile per la coltivazione del giudizio volto a contestare la decisione della stazione appaltante di avviare la procedura di project financing.
Tuttavia, se in linea teorica tale affermazione può apparire condivisibile, ciò che in ogni caso effettivamente mancava nel caso concreto era una adeguata rappresentazione delle esigenze difensive nella motivazione dell’istanza di accesso. In questa, infatti, si sarebbe dovuta evidenziare la possibilità che, dall’accesso agli atti di gara, il soggetto istante mirava ad individuare degli specifici vizi relativi alla fase a monte della procedura, tali per cui si riusciva a dimostrare che quell’opera pubblica per la quale la gara era stata indetta in realtà mai si sarebbe potuta realizzare. Solo così si può cogliere quel collegamento tra l’esigenza di opporsi alla decisione a monte di realizzare un’opera pubblica e gli atti della procedura di gara indetta per la sua realizzazione che è necessario che attribuire la titolarità del diritto di accesso al soggetto istante.
Pur condividendo la soluzione accolta dal Consiglio di Stato, occorre infine svolgere ulteriori alcuni brevi considerazioni.
La sentenza in commento, infatti, ha sicuramente il pregio di mettere in risalto l’importanza che il nesso di necessaria strumentalità ha nell’ambito dei requisiti di legittimazione all’accesso difensivo. Tuttavia, appare comunque opportuno precisare come i concetti di interesse ad accedere agli atti e di interesse a ricorrere vadano tenuti nettamente distinti. Il giudizio circa la sussistenza nel caso concreto di un collegamento tra le esigenze difensive paventate nell’istanza e gli atti amministrativi richiesti non può (e non deve) coincidere con la valutazione circa la sussistenza di un interesse a ricorrere avverso quegli atti.
Mentre il primo spetta al giudice chiamato a valutare ex art. 116 c.p.a. la legittimità o meno del diniego serbato dalla pubblica amministrazione in materia di accesso agli atti; la seconda spetta unicamente al giudice della causa principale[21].
Il diritto di accesso e il relativo giudizio instaurato ex art. 116 c.p.a. davanti al giudice amministrativo hanno una valenza strumentale, ma comunque autonoma, rispetto sia alla situazione giuridica di base che si intende tutelare, sia all’eventuale giudizio principale instaurato o ancora da instaurare in cui quella situazione si intende far valere.
Pertanto, seppure negli anni, sia il legislatore, con la riforma del 2005, sia la giurisprudenza, con l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, abbiano accentuato l’importanza che il nesso di strumentalità ha nell’individuare la platea dei soggetti legittimati ad esercitare il diritto di accesso difensivo, bisogna comunque tenere nettamente distinti i concetti di interesse ad accedere e di interesse a ricorrere, per evitare rischiose sovrapposizioni.
[1] Oltre all’accesso documentale di cui alla legge n. 241/1990, il nostro ordinamento conosce altre due tipologie di accesso, di più recente introduzione, aventi una portata applicativa generalizzata, ossia l’accesso civico semplice e l’accesso civico generalizzato, disciplinate dal d. lgs. 33/2013, alle quali si affiancano altre forme di accesso settoriali (tra le quali si segnalano l’accesso ambientale di cui al d.lgs. 195/2005 e l’accesso nell’ordinamento degli enti locali di cui all’art. 10 del d. lgs. 267/2000 (TUEL). Per un approfondimento sulle distinzioni e i rapporti tra le varie forme di accesso agli atti, in dottrina si vedano: A. Celotto, La trasparenza e l’accesso ai documenti amministrativi, in C. Contessa, R. Greco (a cura di), L’attività amministrativa e le sue regole (a trent’anni dalla legge n. 241/1990), Piacenza 2020, p. 541; F. Manganaro, Evoluzione ed involuzione delle discipline normative sull’accesso a dati, informazioni ed atti delle pubbliche amministrazioni, in Diritto amm., 2019, p. 743; F. Patroni Griffi, La trasparenza della pubblica amministrazione tra accessibilità totale e riservatezza, in federalismi.it, 2013, 8; S. Sergio, Il diritto di accesso procedimentale e il diritto di accesso civico, fra differenze e analogie. In particolare, la legittimazione ad esercitare il diritto di accesso, in federalismi.it, 2020, fasc. 20; A. Simonati, I principi in materia di accesso, in M.A. Sandulli (a cura di) Codice dell’azione amministrativa, Milano 2017, pag. 1209.
[2] G. Corso, Manuale di diritto amministrativo, Ottava edizione, Torino 2017, p.245.
[3] M.C. Cavallaro, Garanzie della trasparenza amministrativa e tutela dei privati, in Diritto amm., 1° marzo 2015, fasc. 1, pag. 121, in cui l’A. sottolinea come “se prima la regola era il segreto e l’accesso rappresentava l’eccezione, la 241 capovolge tale rapporto, facendo divenire l’accesso ai documenti la regola generale e il segreto la relativa eccezione”.
[4] Questo a differenza di quanto previsto dal progetto di legge predisposto dalla Commissione Nigro, che legittimava all’accesso “tutti i cittadini”. Sul punto si veda F. Caringella, R. Garofoli, M.T. Sempreviva, in L’accesso ai documenti amministrativi – profili sostanziali e processuali, II edizione, Milano 2003, pag. 59, in cui si evidenzia come “la scelta della restrizione soggettiva, operata dal legislatore, trova la sua ratio in motivi di ordine pubblico, riconducibili al rischio che il riconoscimento a chiunque della facoltà di proporre istanza di accesso avrebbe comportato una mole di lavoro tale da provocare conseguenziali difficoltà organizzative da parte dell’amministrazione”. Sul punto cfr. Cons. St., Sez. VI, 20 novembre 2013, sent. n. 5515: “Il legislatore ha, inoltre, inteso configurare il diritto di accesso come strumento di composizione di interessi antagonisti incisi dall’azione amministrativa. Le disposizioni in materia di accesso mirano a coniugare la “ratio” dell’istituto, quale fattore di trasparenza e garanzia di imparzialità dell’Amministrazione – nei termini di cui all’art. 22 della citata legge n. 241/1990 – con il bilanciamento da effettuare rispetto ad interessi contrapposti, inerenti non solo alla riservatezza di altri soggetti coinvolti, ma anche alle esigenze di buon andamento dell’amministrazione, che appare da salvaguardare in presenza di richieste pretestuose e defatiganti, ovvero introduttive di forme atipiche di controllo”.
[5] R. Leonardi, Il diritto di accesso ai documenti amministrativi: a proposito dei soggetti attivi per un’azione amministrativa trasparente, ma non troppo, in Foro Amm., 2006, pagg. 2155 ss.
[6] La norma è il frutto di una modifica legislativa intervenuta ad opera della legge n. 15 del 2005, che ha completamente riscritto la fattispecie legittimante il diritto di accesso agli atti, rendendola molto più dettagliata e restrittiva della precedente. Per un commento sulle novità introdotte dalla riforma avutasi con l. n. 15 del 2055, si veda A. Sandulli, L’accesso ai documenti amministrativi, in Giorn. dir. amm., 2005, 5; M. Ciommola, La legittimazione ad accedere ai documenti amministrativi prima e dopo la l. 11 febbraio 2005 n. 11, Foro Amm. TAR, 2007, 3, pag. 1181.
[7] G. Virga, L’erba fenice della natura giuridica del diritto di accesso, in Lexitalia.it, 2006, fasc. 5.
[8] L’accesso civico semplice costituisce una forma di accesso di tipo “reattivo”, nel senso che serve da parte di “chiunque” per ottenere l’adempimento, da parte della pubblica amministrazione, degli obblighi di pubblicazione legislativamente previsti (art. 5, primo comma, d. lgs. n. 33/2013); l’accesso civico generalizzato (introdotto nell’impianto del d. lgs. n. 33/2013 con la l. n. 97/2016), invece, è un accesso di tipo “proattivo”, nel senso che consente a chiunque, a prescindere dall’esistenza di obblighi di pubblicazione rimasti inadempiuti – di accedere a dati o documenti concernenti lo svolgimento dell’attività amministrativa. Sull’accesso civico semplice, ex multis: E. Carloni, L’obbligo di pubblicazione, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017, p. 1397. Sull’accesso civico generalizzato, ex multis: M. Savino, Il FOIA italiano. La fine della trasparenza di Bertoldo, in Giornale di diritto amministrativo, 2016, n. 5, pagg. 593 ss.
[9] Consiglio di Stato, Ad. Pl, 02/04/2020, n. 10: “Nell’accesso documentale ordinario, “classico”, si è dunque al cospetto di un accesso strumentale alla protezione di un interesse individuale, nel quale è l’interesse pubblico alla trasparenza ad essere […] “occasionalmente protetto” per il c.d. need to know, per il bisogno di conoscere, in capo al richiedente, strumentale ad una situazione giuridica pregressa. Per converso, nell’accesso civico generalizzato si ha un accesso dichiaratamente finalizzato a garantire il controllo democratico sull’attività amministrativa, nel quale il c.d. right to know, l’interesse individuale alla conoscenza, è protetto in sé, se e in quanto non vi siano contrarie ragioni di interesse pubblico o privato, ragioni espresse dalle cc. dd. eccezioni relative di cui all’art. 5-bis, commi 1 e 3 del d. lgs. n. 33 del 2013”. Sulla pronuncia, ex multis: F. Manganaro, La funzione nomofilattica dell’Adunanza Plenaria in materia di accesso agli atti amministrativi, in federalismi.it, 2021, fasc. n. 20, pagg. 159 ss.
[10] T. Raimo, Le potenzialità probatorie dell’accesso difensivo, in Urbanistica e appalti, 2021, fasc. 6, p.785.
[11] Consiglio di Stato, Ad.Pl., 25/09/2020, n. 19.
[12] G. Delle Cave, L’accesso difensivo post Adunanza Plenaria n. 4/2021 tra potere valutativo della P.A. e apprezzamento del giudice (nota a Consiglio di Stato, Sez. III, 25 febbraio 2022, n. 1342), in questa Rivista, 28 aprile 2022.
[13] F. Francario, Il diritto di accesso deve essere una garanzia effettiva e non una mera declamazione teorica, in federalismi.it, 2019, n.10, pagg. 9 ss.: “La regola è quindi che l’accesso, strumentale – si ripete – al soddisfacimento di un bisogno di tutela proprio di una situazione giuridica soggettiva, prevalga. L’eccezione è che rimanga insoddisfatto. Perché venga impedito è necessario che si contrapponga un interesse di “pari rango”, che vi sia cioè una eccezione espressamente contemplata sul piano normativo; e non già una semplice esigenza discrezionalmente apprezzabile della pubblica amministrazione”.
[14] M. Ciommola, op.cit., ove si sottolinea come il termine diretto, riferito all’interesse ostensivo, deve essere interpretato o come sinonimo di personale. Con tale requisito il legislatore ha voluto esprimere l’esigenza che ogni istanza di accesso riguardi interessi propri del soggetto richiedente e non interessi di terzi.
[15] Tale requisito è interpreta in senso ampio dalla giurisprudenza, la quale non richiede la sussistenza di una lesione attuale alla situazione giuridica soggettiva di base. Con. St., Ad. Pl., 24 aprile 2012, sent. n. 7: “la legittimazione all’accesso va riconosciuta a chiunque possa dimostrare che gli atti procedimentali oggetto dell’accesso abbiano spiegato o siano idonei a spiegare effetti diretti o indiretti nei suoi confronti, indipendentemente dalla lesione di una posizione giuridica, stante l’autonomia del diritto d’accesso, inteso come interesse ad un bene della vita distinto rispetto alla situazione legittimante all’impugnativa dell’atto”.
[16] Consiglio di Stato, Ad. Pl. 18/03/2021, n. 4, par. 14.
[17] I. Piazza, Strumentalità dell’accesso difensivo e sindacato giurisdizionale (nota a Consiglio di stato, sez. III, 31 dicembre 2020, n. 8543), in questa rivista, 2021.
[18] V. Parisio, La tutela dei diritti di accesso ai documenti amministrativi e alle informazioni nella prospettiva giurisdizionale, in federalismi.it, 2018, 11, pagg. 345 ss.
[19] Consiglio di Stato, Ad. Pl. 18/03/2021, par. 20.4.
[20] TAR Lazio, Roma, Sez. II, 13/12/2023, n. 18915.
[21] In questi termini, TAR Toscana, Firenze, Sez. I, 21 marzo 2013, n. 442: “L’accesso ai documenti amministrativi […] può essere esercitato indipendentemente dal giudizio sull’ammissibilità o sulla fondatezza della domanda giudiziale eventualmente proponibile sulla base dei documenti acquisiti mediante l’accesso, con la conseguenza che la circostanza che gli atti oggetto dell’istanza ostensione siano divenuti inoppugnabili non preclude l’esercizio del suddetto diritto, in quanto l’interesse presupposto dall’art. 22, l. 241/1990è nozione diversa e più ampia dell’interesse all’impugnazione”. Conforme: Cons. St., Sez. II, 28 aprile 2021, n. 3426.
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