ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il Ministro della Giustizia ha reso noto lo schema di legge delega sulla riforma del processo penale che nei prossimi giorni dovrebbe approdare al Consiglio dei Ministri per iniziare poi l’inter parlamentare.
Com’è noto, la riforma si è resa “politicamente” necessaria in quanto collegata all’introduzione della nuova disciplina della prescrizione che la l. n. 3 del 2019 fissa al 1° gennaio 2020. E’, peraltro, problematico il rispetto di questo termine (politico) in considerazione del fatto che la scadenza della delega è fissata ad un anno dalla sua approvazione e dei “ritardi” che la stessa delega ha già avuto stante le difficoltà sorte tra i partners di Governo.
E’ noto infatti che l’ipotizzata depenalizzazione (ridefinita rimodulazione del sistema sanzionatorio per alcune contravvenzioni) ed il patteggiamento “extra-large” non hanno superato la verifica politica.
L’obiettivo della riforma doveva essere costituito dalla volontà di realizzare un processo di durata ragionevole, secondo le indicazioni della normativa costituzionale e sovranazionale.
Il punto di criticità del sistema, com’è noto, è costituito soprattutto, ma non solo, dalla durata delle indagini preliminari.
Al di là dei più o meno sofisticati meccanismi con i quali le procure dilatano i termini di indagine, la riforma intenderebbe intervenire più che sui tempi delle indagini, sui cd. tempi morti.
A tal fine, conservando in qualche modo l’attuale tempistica legata alla gravità del reato (sei mesi, più sei mesi di possibile proroga; un anno più sei mesi di possibile proroga; diciotto mesi più sei mesi di possibile proroga), si prevede come anticipato la possibilità di una sola proroga (di cui non sono precisati i presupposti ed i percorsi procedurali); tre, cinque e quindici mesi per il deposito ex art. 415 bis cpp; trenta giorni dalla domanda dell’imputato o della persona offesa entro i quali il pm depositi o la richiesta di archiviazione o quella di rinvio a giudizio. La violazione di questi adempimenti è sanzionata con la procedura disciplinare.
Al fine di rendere più trasparente ed uniforme lo svolgimento delle indagini, il pm, sentito il procuratore generale e il presidente del tribunale fisserà dei criteri di priorità nell’attività di investigazione, tenuto conto delle risorse e della criminalità presente nel territorio, da inserire nel modello organizzativo dell’ufficio redatto secondo i principi fissati dal CSM.
Al fine di decongestionare i carichi giudiziari dell’udienza preliminare e del dibattimento, lo schema di delega riforma le regole di giudizio delll’archiviazione, della sentenza di non luogo e del rito abbreviato condizionato.
Superando le logiche prognostiche ci si orienta per valutazioni di natura fattuale.
Si prevede così che il pm non eserciti l’azione penale nei casi in cui gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non consentano, anche se confermati in giudizio, l’accoglimento della prospettazione accusatoria; in termini omogenei è fissato il criterio al quale il gip/gup dovrà attenersi nell’orientarsi per il rinvio a giudizio. Al fine di assecondare l’ampliata possibilità che siano pronunciate decisioni di non luogo, la sentenza potrà contenere una essenziale motivazione degli elementi di fatto e di diritto.
Quanto al rito abbreviato condizionato la prova di cui si chiede l’assunzione dovrà avere il carattere della rilevanza, novità, specificità, non sovrabbondanza.
Restano marginali le altre modifiche alla disciplina dei riti speciali: la richiesta del pm di decreto penale potrà essere formulata entro un anno (e non più sei mesi) dall’iscrizione nel registro ex art. 335 cpp; a seguito del rigetto di un rito premiale nel giudizio immediato potrà essere formulata la richiesta per l’altro rito premiale (abbreviato e/ patteggiamento).
Le preventivate novità della fase del giudizio si sostanziano nella fissazione di un calendario di udienza in prosecuzione, qualora il dibattimento non si chiuda nella prima e che la consulenza e le perizie siano depositate con congruo anticipo rispetto all’udienza ad esse dedicate.
Al fine di consentire un adeguato filtro al rito monocratico non preceduto dall’udienza preliminare, trova collocazione una inedita udienza predibattimentale che potrà essere definita con una sentenza di non luogo che sarà celebrata da un giudice diverso da quello davanti al quale si terrà il dibattimento; sono tutti da definire i contorni di questa udienza, i rapporti con la fase predibattimentale e l’eventuale inserimento dei riti speciali.
Per quanto attiene al giudizio d’appello la logica della semplificazione è ancorata all’inappellabilità della sentenza di proscioglimento e di non luogo a procedere per i reati puniti con la pena pecuniaria o alternativa, eccettuate le ipotesi di cui agli artt. 590, comma 2 e 3, 590 sexies e 604 bis comma 1 c.p.; e della sentenza di condanna a pena sostituita con il lavoro di pubblica utilità; nonché alla celebrazione di udienze camerali non partecipate che non richiedano la rinnovazione probatoria.
La vera novità è costituita dalla monocraticità in appello delle sentenze emesse dal giudice monocratico, escluse le ipotesi di cui all’art. 550, comma 2 e-bis, f, g, cpp.
Si tratta del sostanziale recepimento di prassi invalse informalmente e di fatto in molte realtà giudiziarie con il reciproco silenzio / assenso dei giudici e delle parti.
5.In rapida sintesi sono altresì previste ulteriori modifiche tese solo alla razionalizzazione della materia: con riferimento al regime della procedibilità si prevede che il disinteresse della persona offesa connesso alla mancata ingiustificata partecipazione all’udienza equivalga a remissione totale della querela; che l’atto di querela contenga l’indicazione e l’elezione di domicilio; che per le lesioni personali stradali sia necessaria la proposizione della querela.
In ossequio a quanto deciso in sede sovranazionale l’atto di perquisizione sarà impugnabile indipendentemente dall’eventuale sequestro.
E’ fissato in € 180 l’importo per la conversione della pena detentiva in pecuniaria.
Un profilo non secondario della ipotizzata riforma riguarda il regime delle notificazioni. Si prevede che dopo la prima notifica effettuata all’imputato non detenuto, le successive siano effettuate al difensore di fiducia al quale l’imputato indicherà anche l’eventuale luogo delle successive notifiche, fermo restando che non è professionalmente inadempimento l’omessa o ritardata comunicazione all’assistito per fatto imputabile a quest’ultimo.
Volendo tentare una prima sommaria riflessione di sintesi si deve riconoscere che – per non scontentare la magistratura e l’avvocatura – la ipotizzata riforma, certamente non dannosa, è inadeguata al fine prefissato.
Ci si affida, ai soliti strumenti di semplificazione e di decongestionamento, senza incidere sui profili strutturali, anche con la previsione di incisivi strumenti di depenalizzazione e premiali.
Non si riesce a cogliere il nesso culturale e sistematico della delega con la disciplina della prescrizione di cui, invece, la riforma doveva costituire il presupposto strutturale e giustificativo.
Manca soprattutto, peraltro, nella l. n. 3 del 2019, a differenza della l. n. 103 del 2017, la individuazione di tempi – ancorchè modulabili – entro i quali celebrare i giudizi di impugnazione che sarebbero, altresì, funzionali ad una generale durata ragionevole del processo.
Santo Di Nuovo
Valutare la personalità all’interno delle prove di selezione dei magistrati è appropriato? E, sul piano pratico, è possibile? I test psicologici possono – secondo quanto richiesto in certi interventi di politici - verificare la stabilità emotiva, l’empatia e il senso di responsabilità, caratteristiche essenziali della professione del magistrato?
Cercherò di rispondere sul piano tecnico, in base alle mie competenze professionali.
I tentativi di quantificazione delle caratteristiche della mente umana risalgono a tempi lontani: nella pragmatica società statunitense del primo novecento i test psicologici venivano usati per valutare i soldati da inviare in guerra e selezionare i migliori, scegliendo quelli da ammettere ai corsi per ufficiali ed evitando di sprecare risorse per addestrare reclute poco intelligenti. Le aziende e le scuole di tutto il mondo si appropriarono di questi strumenti per misurare attitudini e capacità sia cognitive che di adattamento, spesso con usi impropri e piegati ai fini della committenza. I test servirono ad indirizzare «l’uomo giusto al posto giusto» nelle fabbriche, e relegare in «classi differenziali» gli scolari riconosciuti come ipodotati.
Non mancarono reazioni decise: alla fine degli anni ’60 negli Stati Uniti veniva segnalata la pericolosità dei tanti improvvisati ‘scrutatori di cervelli’ (Brainwatchers era il titolo di un volume pubblicato proprio in quel periodo). Cominciò in quel periodo una seria riflessione sul senso di una misurazione che va oltre gli aspetti psicofisici o neurofisiologici – facilmente studiabili in laboratorio – tentando di indagare funzioni complesse della mente umana come l’intelligenza e i tratti di personalità normale e patologica.
I test sono strumenti rigorosamente standardizzati mediante metodi psicometrici, attendibili cioè ripetibili in tempi e luoghi diversi, e validi in quanto rappresentativi di una certa funzione o area della psiche che si vuole indagare; capaci di codificare le risposte del soggetto indipendentemente dalla soggettività dell'esaminatore, e di confrontarle con le ‘norme’ riferite ad un campione rappresentativo della popolazione da cui è tratto il soggetto sottoposto ad esame. I test che rispondono a queste caratteristiche, adeguatamente costruiti e correttamente applicati, sono strumenti con indubbio fondamento scientifico, e vengono usati proficuamente in ambito scolastico, clinico, lavorativo, giudiziario. Ma il loro uso è spesso subordinato ad alcuni presupposti ideologici più che scientifici.
Il primo presupposto è che la psiche sia una realtà misurabile e quantificabile come altri aspetti del mondo fisico, mediante procedure ritenute analoghe al modello delle scienze biologiche. La mente come unità funzionale sarebbe analizzabile alla pari delle sue componenti neurofisiologiche, sicché il test costituirebbe per le funzioni psicologiche un equivalente di ciò che sono l’elettroencefalogramma o la risonanza magnetica per specifiche modalità di funzionamento organico.
Il secondo presupposto è che la psiche nelle sue diverse componenti sia valutabile in base a criteri ‘oggettivi’: ottica che in termini tecnici viene definita nomotetica, cioè basata su regole generali e valide per tutti gli individui. Le diverse misurazioni dovrebbero poi essere ricomposte – in un’ottica idiografica legata alla specifica persona - per ricavare il ‘profilo’ complessivo che la descrive.
Purtroppo quando si valuta la realtà psichica le cose non sono così semplici. La validità della valutazione dipende, oltre che dalla correttezza delle operazioni metodologiche con le quali lo strumento è stato verificato empiricamente, dalla corrispondenza con il costrutto teorico cui si fa riferimento. Mentre sul primo aspetto la psicometria ha fatto notevoli passi avanti, per cui esistono strumenti validi sul piano ‘tecnico’, rilevanti problemi persistono riguardo al riferimento ai costrutti teorici.
In particolare, la ricerca sulla personalità ha oscillato a lungo fra lo studio dei “tratti” come disposizioni stabili che caratterizzano certi individui piuttosto che altri, e l’analisi delle modificazioni prodotte nelle caratteristiche delle persone dalle interazioni che esse hanno con le situazioni e il contesto. Di conseguenza, le modalità di valutazione risentono dei criteri usati per definire la personalità: ad esempio, i questionari, tra cui il tanto citato Minnesota Multiphasic Personality Inventory (ma altri più moderni ne esistono), tentano di “obiettivare” alcuni aspetti della personalità degli individui, inquadrando le persone in categorie diagnostico-predittive presunte “oggettive”. Ma fino a che punto può essere considerata oggettiva la raccolta di dati che - per quanto provengano da risposte a domande standardizzate, valutate in modo altrettanto rigoroso, e si possa controllare in qualche modo la tendenza alla falsificazione - esprimono pur sempre la valutazione che un soggetto dà riguardo ad aspetti della propria vita psichica? Ai fini della comprensione del funzionamento psichico complessivo della persona esaminata, l’inquadramento diagnostico su basi auto-valutate è condizione necessaria ma non sufficiente, e va integrato con criteri diversi di analisi scientifica, miranti a “comprendere” globalmente il funzionamento della persona.
Non va dimenticato inoltre che il test è uno strumento mai asettico (come una radiografia o una risonanza magnetica) ma sempre inserito all’interno del rapporto tra l’operatore e il soggetto, rapporto collocato a sua volta in un preciso contesto sociale di riferimento. Solo per fare un esempio, un aspirante magistrato con profilo di personalità esente da tratti psicopatologici potrebbe poi risultare poco assertivo e molto influenzabile nelle decisioni giudiziarie: aspetti che il test non può valutare e prevedere in astratto.
In conclusione, sul piano tecnico il test offre utili indizi su aspetti cognitivi e di personalità di un futuro professionista, che sarà poi attuato nello specifico contesto in cui il lavoro viene svolto, per cui la capacità predittiva del comportamento è di tipo probabilistico. Per migliorare questa probabilità occorrono valutazioni concorrenti, come la presentazione di situazioni concrete (seppur ipotetiche) di problemi da risolvere connessi alla futura mansione lavorativa: queste potrebbero essere introdotte nella selezione dei magistrati, e non solo… sempre se possono essere ritenute compatibili con le norme generali sulle procedure concorsuali.
A questo proposito, lascio per ultima una domanda cui le mie conoscenze non mi consentono di rispondere: se è legittimo nella selezione del personale valutare - oltre le attitudini e le competenze specifiche in funzione della mansione - anche la personalità, ed escludere chi presenta certi tratti caratteriali che vengono ritenuti (da chi? e in che misura?) inadatti per una certa professione, accettando solo chi risponde ad un ipotetico profilo ottimale per quella professione (ancora una volta, definito da chi?). E se tutto ciò è legittimo, perché applicare questa valutazione solo al magistrato, e non anche alle altre categorie che prendono decisioni importanti per la vita delle persone: al medico, all’avvocato, all’economista, al dirigente d’azienda, al politico…?
Il procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio, ha proposto ricorso per Cassazione, contro l’ordinanza del Gip, 2 luglio 2019, nei confronti della capitana Rakete per la non convalida dell’arresto, chiarisce come l’arresto fosse stato eseguito per condotta tenuta dall’indagata nella fase dell’ingresso al porto e non per condotte .
Richiama i principi della giurisprudenza di legittimità in materia di convalida dell'arresto e ricorda come “il giudice, verificata l'osservanza dei termini previsti dall'art. 386, comma terzo e 390, comma primo. cod. proc. pen., debba controllare la sussistenza dei presupposti legittimanti l'eseguito arresto, ossia valutare la legittimità dell'operato della polizia sulla base di un controllo di ragionevolezza, in relazione allo stato di flagranza ed all'ipotizzabilità di uno dei reati richiamati dagli artt. 380 e 381 cod. proc. pen., in una chiave di lettura che non deve riguardare né la gravità indiziaria e le esigenze cautelari (valutazione questa riservata all'applicabilità delle misure cautelari coercitive), né l'apprezzamento sulla responsabilità (riservato alla fase di cognizione del giudizio di merito) (Cass Sez. Sesta, P.M. in proc. Ahmad, 2015).
Chiede alla Corte di Cassazione di verificare se con la non convalida vi sia stata violazione di legge e segnatamente degli artt. 391, comma 4, codice di rito, 51 cod. pen. e 1100 cod. nav. e, in particolare, se il giudice abbia effettuato apprezzamenti non consentiti in ragione della natura di controllo rimesso al giudice in sede di convalida.
Ma “la polizia giudiziaria, in ragione della complessità della vicenda sotto il profilo tecnico giuridico, avrebbero potuto autonomamente determinarsi in ordine alla non antigiuridicità del fatto ?”, già le dieci pagine dell’ordinanza per motivare le ragioni della sussistenza della scriminante offrono la risposta.
Ma “il fatto è antigiuridico ?” il soccorso in mare era già adeguatamente avvenuto in quanto i migranti non erano più esposti a pericolo di vita e personale medico era a bordo della See Watch 3, “è possibile allora ritenere scriminata l’azione della Capitana Rakete che per adempiere nella maniera ottimale un dovere, esponeva a pericolo gli operatori della guardia di finanza e gli stessi migranti?”.
A voi la lettura dell’erudito ricorso.
Il Comitato di redazione.
Sommario: 1. La vicenda Sea Watch 3. - 2. Il reato di resistenza. - 3. Il confronto delle opinioni resta comunque aperto.
1. La vicenda Sea Watch 3.
Nel contesto della vicenda Sea Watch 3, il gip di Agrigento era chiamato, su richiesta della locale procura, a convalidare l’arresto e a valutare la richiesta della misura cautelare del divieto di dimora in relazione alla violazione dell’art. 1100 cod. nav. e dell’art. 337 cp.
Con l’ordinanza qui considerata il gip riteneva l’insussistenza del reato di cui all’art. 1100 cod. nav. e, in relazione al reato di cui all’art. 337, l’operatività dell’art. 51 cp, conseguentemente negando la convalida dell’arresto e rigettando la richiesta della misura cautelare personale.
Entrambi le conclusioni alle quali perviene il giudice, nella sua essenziale motivazione, lasciano spazio a non secondarie riserve.
In primo luogo, il riferimento a C. Cost. n. 35 del 2000, dove viene indicato un “solo” che non emerge dal testo della motivazione, che concerneva una questione relativa all’ammissibilità del referendum riguardante la natura della Guardia di Finanza.
In secondo luogo, andrebbero considerate le contrastanti decisioni Cass. 21 settembre 2006, Penzo, Ced. 235748 e Cass. 8 agosto 2003, Veronese Ced. 226335 in punto di natura del reato commesso nei confronti della Guardia di Finanza, all’interno delle acque territoriali. Peraltro, superabile questo contrasto alla luce di quanto previsto dall’art. 1087 cod. nav. in relazione all’esclusione dell’applicabilità dell’art. 1100 cod. nav. in caso di operazioni riguardanti la navigazione interna, bisognerebbe considerare se l’azione di ingresso (vietata) nelle acque territoriali possa essere considerata alla stregua di una “navigazione interna”.
Non casualmente l’art. 6 della legge n. 1409 del 1956 considera applicabile l’art. 1100 cod. nav. all’azione di contrasto al contrabbando di tabacchi.
Si potrebbe sostenere che si tratti di norma speciale non estensibile, ma resterebbe il fatto dell’attività di resistenza iniziata nei confronti della Guardia di Finanza fuori dalle acque territoriali con conseguente natura della nave, non solo della qualifica di nave militare ma anche da guerra .
Alla luce di queste previsioni dovrebbe escludersi che per essere considerate navi militari da guerra, le navi della Guardia di Finanza, dentro o fuori le acque territoriali debbano essere coinvolte in operazioni “belliche”.
In questa prospettiva, infatti, non opera il codice della navigazione
2. Il reato di resistenza.
Quanto alla violazione dell’art. 337 cp, va ricordato quanto fissato dalla Cassazione per la quale il reato di resistenza nella volontà di opporsi al compimento di un atto di ufficio ha non certo nello scopo di ricondurre l’esercizio funzionale nei limiti della legalità (09/31544).
Il reato è dunque integrato da atti di violenza o minaccia che si traducono, in un atteggiamento anche implicito purchè percepibile che impedisca, intralci, valga a compromettere, anche solo parzialmente e temporaneamente la regolarità del compimento dell’atto d’ufficio o di servizio indipendentemente dall’esito della condotta e dell’effettivo verificarsi dell’impedimento (13/96743 e 13/39227)
Nel verificare in concreto le modalità del comportamento del comandante, per quanto ridimensionato dalla motivazione, sotto il profilo fattuale e dell’elemento soggettivo, il gip non è in grado di escludere che “l’urto” della nave costituisca reato.
Pertanto, ciò che lascia perplessi è l’estensione anche a questo fatto della scriminante dell’art. 51 cp.
Se, invero, si può considerare scriminato un comportamento atto a tutelare i diritti umani attraverso atti di disobbedienza, dovrebbe ritenersi che non ogni atto teso a questo fine possa essere ricondotto nell’esercizio di un diritto, soprattutto quando quella tutela che con la propria attività si è inteso assicurare ha perseguito il suo fine sostanziale e non può essere più pregiudicato
Come affermato dalla Cassazione, ai fini dell’applicazione della causa di giustificazione di cui all’art. 51 cp è necessario che l’attività posta in essere costituisca una corretta estrinsecazione delle facoltà inerenti il diritto che viene in considerazione nel senso che il fatto penalmente rilevante sotto il profilo formale sia stato effettivamente determinato dal legittimo esercizio di un diritto da parte dell’agente (Cass. VI 11/14540).
Ora, quell’atto nei confronti della motovedetta appare del tutto sproporzionato al fine perseguito, configurandosi come attività che ne travalica la copertura della tutela dei diritti degli immigrati, anche in considerazione del fatto, al di là della violenza seppur ricondotta a un “urto”, che metteva a rischio l’incolumità degli agenti della Guardia di Finanza che stavano svolgendo una legittima attività.
3. Il confronto delle opinioni resta comunque aperto.
Da un lato, verosimilmente, la procura ricorrerà in cassazione sulla mancata convalida, mentre sembrano aver perduto attualità le esigenze cautelari, già ridimensionate dalla procura, sottese al provvedimento coercitivo non disposto dal gip.
In ogni caso restando le iscrizioni per i due reati che dovranno essere definiti o con la richiesta di archiviazione o a seguito dell’esercizio dell’azione penale.
di Franco De Stefano, consigliere della Corte suprema di cassazione
Sommario: 1. Premessa. - 2. Gli interventi sul processo civile. - 3. Gli interventi sulla durata dei processi civile e penale. - 4. Gli interventi sulla riforma ordinamentale della Magistratura. - 5. Gli interventi sugli incarichi elettivi e governativi dei Magistrati. - 6. Gli interventi sulla revisione delle circoscrizioni giudiziarie e sulle piante organiche di magistratura. - 7. Gli interventi sul Consiglio Superiore della Magistratura
1. Premessa.
Circola da giorni il testo del disegno di legge del Guardasigilli, di delega al Governo per l’emanazione di provvedimenti legislativi “per l’efficienza del processo civile e del processo penale, per la riforma ordinamentale della magistratura, per il contenimento della durata del processo, in materia di eleggibilità e ricollocamento in ruolo dei magistrati in occasione di elezioni politiche e amministrative nonché di assunzione di incarichi di Governo, per la revisione delle circoscrizioni giudiziarie”.
Il testo, assai complesso e articolato su di una pluralità di oggetti di separati provvedimenti delegati, coinvolge in tal modo tutti gli aspetti della giurisdizione ordinaria, ma soprattutto impatta in modo decisivo sull’assetto della magistratura ordinaria italiana: ed ha senza dubbio il pregio di una visione della Giustizia a suo modo coerente, innovativa ed ambiziosamente sistematica, di rango sostanzialmente costituzionale almeno sull’assetto di quel Potere dello Stato che continua ad essere definita la Magistratura.
Da più parti si è già sottolineato che la complessità del testo normativo – oltre a non agevolare la fluidità dei lavori parlamentari – imporrà un lavoro di gran lena per l’ampiezza delle implicazioni e degli approfondimenti necessari; ma pare possibile ed opportuno fin d’ora, con riserva appunto di quel paziente e diffuso lavoro di studio (ed escluso, per la specifica esperienza professionale di chi scrive, solo il capo relativo al diritto penale e processuale penale) lasciato agli esperti, evidenziare sia alcuni apprezzamenti che alcuni interrogativi seri e, per più aspetti, di autentica preoccupazione sull’evoluzione del sistema e sulla coerenza e tenuta della sua attuale architettura costituzionale.
Le riforme dei processi civili e penali sono state frequenti negli ultimi venti anni e significativi risultati hanno dato anche secondo fonti internazionali indipendenti ed autorevoli, quali la CEPEJ (Commissione per l’efficienza della giustizia) istituita presso il Consiglio d’Europa e che dipingono il sistema italiano come tra i più produttivi in rapporto alle pendenze[1] ed al contempo tra i più soffocati e costosi tra i 45 Paesi esaminati.
Eppure, il complessivo tessuto normativo risultante non è percepito come in grado di incidere apprezzabilmente sull’esponenziale aumento di domanda di giustizia civile (ed amministrativa, ma questo settore è stato accuratamente accantonato) e sulle sempre più raffinate esigenze di quella penale, da tempo afflitta da un’inefficienza strutturale e vittima del difficile rapporto con l’amministrazione e la politica.
Ma è nel campo dell’ordinamento della Magistratura che l’opinione pubblica e quella degli specialisti del settore paiono convergere nel rilevare importanti disfunzioni della riforma ordinamentale varata nei primi anni del millennio e culminata nella batteria di decreti delegati del 2006, appena ritoccati nell’effimera quindicesima Legislatura: disfunzioni in termini non solo di cristallizzazione, ma di vera e propria degenerazione di meccanismi e di gruppi di potere alternativi o estranei al concetto di ordinato funzionamento delle tradizionali istituzioni della democrazia rappresentativa; tanto da esigere a gran voce cambiamenti epocali, che potrebbero divenire singolari cantieri sperimentali per una generalizzata mutazione dell’assetto stesso di quelle istituzioni verso orizzonti mai prima d’ora sperimentati in epoca moderna.
2. Gli interventi sul processo civile.
La prima, importante misura sul processo civile sta nella sua sommarizzazione, a cominciare dall’adozione della forma del ricorso per l’atto introduttivo: ma sono scelte ampiamente criticabili[2], perché implicano l’abbandono, in prevalenza avversato dalla dottrina processualcivilistica, del sistema di prefigurazione certa ed affidabile di poteri di parti e giudice che sta alla base del diritto processuale, accompagnato dalla devoluzione al giudice della pressoché esclusiva responsabilità nell’organizzazione del singolo processo.
L’esperienza ha dimostrato, invece, che il ricorso come mezzo di introduzione del giudizio può andar bene, comunque a condizione che i termini per quello previsti siano poi applicati realmente, per determinate tipologie di controversie e per riti connotati da una particolare celerità e non già in via generalizzata; mentre l’apparente rigidità nella scansione dei tempi della lite ordinaria può bene superarsi rendendo facoltativi – nel senso quanto meno della loro rinunciabilità in caso di accordo tra le parti o di gravi motivi – i termini più stringenti; e, del resto, è noto che il collo di bottiglia non sta nei tempi di istruzione, quanto in quelli di definizione e decisione, che rimangono uguali a carico complessivo immutato e per fronteggiare i quali sarà forte e prevedibile la tentazione dei giudici di rimodulare comunque i tempi di preparazione, anche con la minaccia di sanzioni disciplinari per la violazione dei tempi massimi di fase o grado, di cui si dirà.
La rimodulazione dei sistemi di risoluzione alternativa delle controversie si muove, sia pure escludendone ampi settori ma al contempo complicandone ed ampliandone modalità procedurali a rischio di moltiplicazione di cause di nullità o altri impedimenti, nel solco delle riforme degli ultimi anni, contro le quali si sono, evidentemente invano, levate le prevalenti voci critiche degli operatori, che sottolineano come nulla che sia imposto possa sortire un effetto diverso da quello della semplice occasione dilatoria o, peggio, dissuasiva per la parte che abbia davvero ragione: invece, un sistema alternativo che funzionasse realmente non avrebbe bisogno di un’obbligatorietà imposta dall’alto e tanto meno dell’ampliamento di queste condizioni preliminari a vario titolo incidenti sulla procedibilità, sorrette quindi dal retropensiero di una loro funzione di impedimento ad una pronuncia di merito.
Il discorso coinvolge necessariamente le ragioni dell’atavica insufficienza della risposta di giustizia civile ed è quindi fuori luogo approfondirlo in questa sede: ma c’è da chiedersi se la via dell’incentivazione alla soluzione alternativa non possa essere perseguita con un’attenta opera di medio termine sul recupero culturale della sua validità e, nelle more, con l’utilizzo di strumenti processuali già esistenti, che valorizzino, anche in base ai principi generali desunti dall’art. 2 Cost. (e codificati, in materia di danno extracontrattuale, dalle Sezioni Unite della Cassazione[3]), se la non necessaria piena tutelabilità dei diritti bagatellari (purché non involgano comunque diritti fondamentali tutelati dalla nostra Carta costituzionale), almeno la sanzione effettiva delle condotte abusive, ad esempio ai sensi del comma terzo dell’art. 96 cod. proc. civ.
Opportune devono dirsi, invece e tra l’altro, per il primo grado, le rimodulazioni dei casi in cui il tribunale giudica in composizione monocratica e della fase decisoria in tutti e due i casi, nonché, per il grado di appello, l’abolizione della tormentata novella del 2012 sulla definizione sommaria per insussistenza di ragionevole probabilità di accoglimento; e meritoria va ritenuta la previsione di obbligatorietà della generalizzata modalità telematica dello svolgimento dei processi e del pagamento dei contributi unificati, anche con modalità tecniche innovative.
Importante segnale, anche culturale, è pure la codificazione del principio di chiarezza e sinteticità degli atti di parte e del giudice e con previsione di sanzioni adeguate, ad imitazione del processo amministrativo.
Complessivamente opportune paiono pure le innovazioni previste (art. 8) per il sistema delle notificazioni, disegnate come sempre più incentrate su modalità telematiche e che imporranno nuovi oneri anche ai destinatari, ma pur sempre con modalità adeguatamente flessibili: e nell’auspicio di un’interpretazione che non si risolva in un aggravio ingiustificato per l’utente della Giustizia, semmai con l’auspicio di prevedere adeguate attività di formazione per tutto il personale di questa che vi fosse coinvolto.
Le innovazioni in materia di giudizi di divisione e di processi di espropriazione immobiliare, da lungo tempo titolari della palma di più duraturi e farraginosi procedimenti civili, mirano ad una accentuata degiurisdizionalizzazione.
Per il primo, l’introduzione di una fase di mediazione dinanzi ad un notaio o ad un avvocato normalmente delegabili per la vendita dei beni pignorati (è evidente l’esclusione del dottore commercialista, plausibilmente perché ritenuto, non si sa quanto a ragione, privo delle competenze necessarie) e conclusa da una relazione preliminare in caso di non raggiungimento di accordi tra gli interessati è accompagnata da una rimodulazione, in chiave di semplificazione, del giudizio successivo (e previsione di un reclamo camerale contro i provvedimenti del delegato); in questo caso, peraltro, non sono attivati specifici elementi di incentivazione delle parti ad avvalersi dell’uno e dell’altro strumento.
Per il secondo, un istituto simile alla vente à l’amiable sur autorisation judiciaire (prevista ora dagli artt. 2202 e 2203 del codice civile francese e dagli artt. 53-58 del decreto 2006-936 del 27 luglio 2006, dagli artt. 322-3 e 322-4 del codice delle esecuzioni civili e dagli artt. 221-3 e 322-1 dell’ordinanza n. 2011/1895 del 19 dicembre 2011)[4], in cui la degiurisdizionalizzazione, finora operata in favore di ausiliari del giudice o talvolta dello stesso creditore (si pensi al c.d. patto marciano), è operata stavolta in favore del debitore stesso ed alla sua domanda in tal senso, con la cautela di rimettere al giudice di negare, in caso di opposizione anche di un solo creditore, la relativa autorizzazione ove ritenga probabile che la vendita con modalità competitive non consentirebbe di ricavare un importo maggiore e prevedendo che solo in tal caso sia impugnabile il relativo provvedimento; ma viene da chiedersi anche in questo caso come possa prevedersi la proficuità del trapianto nel nostro humus culturale e giuridico di un istituto tipico di un ordinamento dove il debitore ha – invece – immanente coscienza della doverosità del proprio adempimento e non anche la pervicace volontà, di recente assecondata da qualche riforma legislativa, di fare prevalere le proprie personali esigenze sulle superiori necessità di funzionamento dell’ordinamento a tutela delle posizioni creditorie solennemente riconosciute nel titolo esecutivo.
Non inopportuna, infine, pare l’introduzione della sanzione delle violazione dei doveri di collaborazione delle parti, che potranno essere sanzionati pure con la condanna al pagamento di una somma alla cassa delle ammende in caso di responsabilità aggravata e con conseguenze processuali specifiche in caso di rifiuto di consentire l’ispezione; e pur sempre nell’auspicio che lo strumento trovi applicazione concreta e conquisti così un’effettiva efficacia deflattiva o dissuasiva dall’abuso del processo.
3. Gli interventi sulla durata dei processi civile e penale.
Sulla durata dei processi l’intervento (art. 31) è, se non assolutamente di facciata per il sistema di pesi e contrappesi alla sanzione inflitta, meramente punitivo nei confronti della Magistratura, sulla quale ancora una volta si scarica ogni peso e responsabilità delle disfunzioni del sistema, prevedendo la responsabilità disciplinare in ipotesi di mancato rispetto di termini finali di celebrazione dei processi, sia pure in caso di negligenza inescusabile, poi esclusa per condizioni obiettive già adeguatamente considerate dalla giurisprudenza disciplinare.
Fissare l’obiettivo senza farsi carico degli strumenti è semplicemente individuare un capro espiatorio: ma su questo tutti i magistrati, anche associati, hanno sempre con chiarezza preteso una adeguamento delle risorse e respinto ogni contraria mistificazione, anche quando un Ministro della Giustizia (tra i più longevi della Repubblica) demagogicamente e sarcasticamente si chiedeva come potesse non essere colpa dei giocatori se un campionato si perdeva, senza chiedersi poi se quelli potessero rispondere di essere mandati in campo senza risorse e strumenti, a partire dalle scarpette e senza nessuno che li allenasse o li sostenesse, contro squadre di categoria indicibilmente superiore.
Del resto, già l’importazione dell’istituto del calendario del processo (art. 81 bis disp. att. cod. proc. civ.)[5] dall’ordinamento francese ed il suo inasprimento con la previsione della sanzionabilità delle sue violazioni ha dimostrato il carattere velleitario – da grida manzoniana – delle imposizioni dall’alto di obiettivi talmente generici da risultare irrealizzabili di per sé: nella realtà d’Oltralpe il calendario è uno strumento di lavoro condiviso, a carico di lavoro immensamente più basso, a regole processuali rigorosamente osservate e soprattutto in un ambiente in cui la domanda di giustizia trova la sua regolazione adeguata prima ed al di fuori della aule di Giustizia, per la cultura innata – e non artificiosamente indotta da improbabili sanzioni o lacciuoli procedurali – della composizione stragiudiziale e dell’impossibile giustiziabilità di ogni pretesa, ma pure della limitatezza ed importanza della funzione giudiziaria; tutte condizioni evidentemente non replicabili, se non altro con immediatezza, nell’habitat giudiziario italiano.
4. Gli interventi sulla riforma ordinamentale della Magistratura.
Qualche luce, ma molte ombre, nel riordino dell’assetto ordinamentale (art. 24 e seguenti): spiace che una così incisiva riforma risulti adottata sull’onda dei recenti e gravi fatti di cronaca ed animata, da un lato, da una marcata diffidenza verso il Consiglio e le sue prerogative nella scelta della dirigenza (sul presupposto che quello avrebbe in questi anni dato cattiva prova nell’esercizio della discrezionalità), dall’altro dalla convinzione che le norme ordinamentali attuali, che consentono una direzione partecipata e collegiale dell’organizzazione degli uffici giudiziari, hanno favorito in realtà solo la “carriera” dei magistrati e non sono funzionali a rendere un servizio qualitativamente e quantitativamente adeguato alla complessità della giurisdizione[6].
Se è vero che occorre farsi carico dell’eccezionalità degli eventi – beninteso, se definitivamente accertati - e della loro portata dirompente, per il sistema dell’autogoverno della Magistratura[7], tuttavia il rimedio, anche in questo caso, equivale, se si concede l’espressione, a buttar via il bambino con l’acqua sporca: incapaci o indifferenti rispetto a governare o prevenire le disfunzioni del meccanismo, lo si sopprime.
Alcuni degli strumenti proposti sono in teoria condivisibili: a cominciare dai procedimenti per le nomine degli uffici direttivi, questi sopravvissuti all’azzeramento, ipotizzato come panacea, degli incarichi semidirettivi.
Se la procedimentalizzazione delle nomine ai posti direttivi è opportuna, del tutto incongrui rispetto ai risultati sono l’obbligatorietà dell’audizione non soltanto dell’interessato, ma pure dei rappresentanti di avvocatura, magistrati e funzionari di cancelleria dell’ufficio di provenienza, quasi un’acquisizione diretta di fonti di conoscenza, che svaluta sistematicamente ed immotivatamente, appesantendo in maniera generalizzata qualunque concorso ed anche i più semplici, i pur già numerosi elementi informativi scritti già a disposizione del Consiglio Superiore, provenienti dal sistema dell’autogoverno, evidentemente penalizzati; e finisce col trasformare in un concorso per titoli ed esami quello che dovrebbe rimanere pur sempre soltanto un concorso per titoli, mentre un simile procedimento rafforzato potrebbe essere prefissato in base a criteri predeterminati nello stesso bando o con provvedimenti più generali.
Ancora, a certe condizioni ed al fine di limitare la discrezionalità, talvolta davvero eccessiva o manifestatasi in scelte assai opinabili, è opportuno il ripristino delle fasce di anzianità, benché possa al riguardo pure auspicarsi che in casi assolutamente eccezionali (e rimessi ad una valutazione a maggioranza ancor più qualificata del plenum) anche a tale prioritario criterio possa derogarsi; è assolutamente opportuna la codificazione di puntuali parametri di valutazione, generali e specifici, con l’adozione di elementi o indici di ponderazione adeguati e tali da escludere forbici troppo ampie di oscillazione; se del caso, andrebbe meditato adeguatamente il peso da attribuire ai periodi esercitati fuori del ruolo organico, ad evitare di penalizzare il magistrato che abbia esercitato per la maggior parte od anche soltanto le funzioni giudiziarie; ancora, se è positiva la rigidità nel conferimento di nuovi incarichi dopo la prima conferma, escluderebbe più garantisticamente margini di aleatorietà incompatibili con il suo obiettivo il suo ancoraggio a parametri temporali certi, quale la maturazione del quadriennio e non la delibera di conferma; infine, positiva è la fissazione del termine minimo di permanenza nell’ufficio direttivo prima del collocamento a riposo (semmai prevenendo con adeguata disciplina transitoria il ripetersi di improprie selezioni ad excludendum in rapporto pure alle legittime aspettative dei magistrati in servizio, già verificatesi in un recentissimo passato).
Assolutamente problematica è invece la generalizzata soppressione della stessa figura dell’incarico semidirettivo e la sua sostituzione con quello di coordinatore, espressione di un improprio potere gerarchico interno al singolo ufficio giudiziario che non solo stride con la pari dignità nell’esercizio delle funzioni, ma soprattutto ridisegna la peculiare struttura di quelle direttive in maniera verticistica; resta escluso l’apporto di realtà esterne all’ufficio e per di più si introduce una sorta di assemblearizzazione interna ai magistrati dello stesso ufficio, con previsione del carattere di obbligatorietà del loro parere.
Eppure, l’eliminazione degli apporti dei presidenti di sezione o di altre figure consimili significa rinunciare ad un importante assetto gestionale dell’ufficio plurale e partecipato, al contempo momento di circolazione di idee nel delicato settore dell’organizzazione e delle altre peculiari funzioni di sostegno, coordinamento ed orientamento nell’esercizio della giurisdizione (per i giudicanti) o dell’azione penale (per i requirenti).
Non vi è spazio per ulteriori approfondimenti, ma, ammesso e non concesso che sia stato davvero il cattivo uso della discrezionalità nelle nomine dei semidirettivi a rovinare il sistema, potrebbe essere più funzionale limitare quella discrezionalità, anziché sopprimerne l’oggetto; e, a questo riguardo, potrebbe essere utile piuttosto introdurre stringenti criteri di selezione, come si è fatto per i direttivi in modo complessivamente accettabile, ma, al contempo, diradare il numero complessivo di quegli stessi incarichi, mantenendo e disciplinando la tabellarizzazione degli incarichi di coordinamento in proporzione numerica ai primi: insomma, mantenere i semidirettivi, in numero inferiore, ma a loro volta con l’ausilio di coordinatori tabellarmente previsti.
Quanto alla consultazione dei magistrati dell’ufficio, essi fruiscono già della possibilità di somministrare utili indicazioni agli organi dell’autogoverno, senza dovere assumere il ruolo degli amministrati che eleggono i loro amministratori o scelgono le modalità di concreta organizzazione della sezione o del dipartimento, magari tra programmi alternativi, a seconda del maggior gradimento delle soluzioni prefigurate (basti pensare alle concrete modalità di distribuzione degli affari o di rilievo dei fatti di rilevanza disciplinare, ai carichi sostenibili e così via).
Quanto all’accesso in Cassazione ed alla relativa Procura generale, la prova talvolta opaca dello snodo consiliare del sistema di selezione, con svalutazione irrazionale della valutazione demandata all’apposito organismo tecnico, esige effettivamente anche in questo caso una codificazione rigida e rigorosa di criteri e parametri, rendendo decisivo il peso delle attitudini specifiche funzionali all’attività di nomofilachia e quindi di particolare capacità nell’interpretazione di norme, in uno però ad un adeguato apprezzamento del valore di esperienze extraprofessionali.
Assolutamente ed ingiustificatamente punitiva per il magistrato, se non pure lesiva della sua dignità ed idonea a condizionarne indirettamente la soggezione soltanto alla legge per l’incidenza negativa sul quotidiano espletamento della funzione giurisdizionale, è l’estensione (art. 25 del disegno di legge) del sistema di tutela e di gestione delle segnalazioni ex art. 54-bis d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, generalizzata non soltanto all’iniziativa dei Consigli degli Ordini, ma a qualunque diretto interessato e soprattutto anche per fatti non di rilievo disciplinare: il che, vale a dire, nel processo civile ad almeno una delle più parti che lo provocano e, in quello penale, a ciascun imputato, visto il malcostume italiano della generalizzata prospettazione quale illecito o quale violazione in proprio danno ed a causa di imparzialità ed indipendenza o correttezza nell’espletamento di obblighi ed “oneri inerenti alla funzione” (enigmatica espressione, nella quale poter veicolare qualunque, anche la più infondata e temeraria, doglianza, come già oggi l’esperienza della legge 117/88, di recente ampliata, insegna) di tutti i casi in cui non si riesca vittoriosi (nel processo civile) o assolti (in quello penale).
Si parte da un deciso errore di prospettiva, perché si equipara immotivatamente, anche quanto al presupposto delle sue dimensioni, il rischio di corruzione o cattivo funzionamento della macchina amministrativa a possibili distorsioni di quella giudiziaria e presuppone, altrettanto immotivatamente, l’insufficienza di un sistema di garanzie endoprocessuali e di ampia responsabilità disciplinare e civile, già tra i più sofisticati e complessi d’Europa, a garantire da abusi o scorrettezze un’intera e generalizzata categoria di dipendenti dello Stato già di per sé vincolati da una deontologia severa.
Se l’ampliamento della responsabilità disciplinare soprattutto dei direttivi e dei successori dei semidirettivi (cioè i coordinatori) e dei casi di collocamento d’ufficio in aspettativa per infermità può complessivamente condividersi, è invece inquietante l’apertura (art. 27) nel delicato procedimento di valutazione di professionalità del singolo magistrati ad elementi spuri: da un lato, la facoltà di assistere alle relative discussioni e delibere riconosciuta a quei componenti dei consigli giudiziari o direttivo che non potrebbero partecipare alla votazione sul punto, per l’ovvia capacità di condizionamento che tanto implicherebbe; dall’altro lato, la sottoposizione del magistrato ad una valutazione di attitudine professionale psicologica affidata ad un professionista di non meglio specificata “comprovata professionalità”, che riecheggia oltraggiose denigrazioni di qualche anno fa da parte di alte cariche istituzionali nei confronti dei magistrati in generale e che non risulta sia in astratto o in concreto applicato nella selezione di altre figure istituzionali titolari di un pubblico Potere dello Stato, sempre a non volere considerare le ricadute nefaste in tema di credibilità e tenuta complessiva del sistema di reclutamento e dello stesso autogoverno o i rischi di strumentalizzazione od applicazione distorta (non essendo stato un caso che, soprattutto nei regimi totalitari, i dissidenti o le persone comunque scomode fossero allontanate od emarginate sulla dichiarata loro inidoneità mentale).
Va poi contro la linea di tendenza consolidata negli ultimi quarant’anni l’introduzione di una incidenza sulla progressione economica di carriera non solo dei fatti di rilevanza disciplinari, ma anche degli esiti negativi delle valutazioni di professionalità: cosa che, sia pure allentando un automatismo talvolta cieco, scompaginerebbe il sistema che vuole tradizionalmente insensibile, a tutela dell’indipendenza e della terzietà e dei corrispondenti principi di rango costituzionale, il fattore economico dal concreto modo o dalla specifica idoneità a svolgere le funzioni, introducendo per via indiretta una sanzione pecuniaria all’uno o all’altra, in grado di condizionarli entrambi.
Solo nel settore dell’accesso alla Magistratura, indubbiamente più tecnico, il disegno di legge delega (art. 28) ha indubbi punti di forza, in gran parte condivisibili: dall’abolizione del periodo di decantazione tra laurea (almeno di quattro anni) e possibilità di partecipazione al concorso (e quindi con la possibilità di accedere immediatamente dopo la laurea al concorso), all’anticipazione dell’inizio dei tirocini preparatori e delle scuole di specializzazione (con l’accorta puntualizzazione della concentrazione di queste sulle materie dei concorsi), alla rimodulazione delle prove di esame (con l’eliminazione del tema di diritto amministrativo, attesa la maggiore rilevanza della materia per il diverso successivo concorso di accesso alla relativa magistratura speciale, ma pure con la riduzione delle materie per l’orale) ed alle modalità di svolgimento delle prove (impiego di postazioni informatiche con accesso a bene identificate banche dati esclusivamente normative), fino alla riduzione del periodo di legittimazione per i magistrati di prima assegnazione.
5. Gli interventi sugli incarichi elettivi e governativi dei Magistrati.
Molte più luci che ombre presenta invece la previsione del capo V del disegno di legge delega, in materia di eleggibilità e ricollocamento in ruolo dei magistrati in occasione di elezioni politiche e amministrative nonché di assunzione di incarichi di governo: qui si viene incontro ad esigenze di chiarezza nella distinzione delle due funzioni che sono obiettive e che solo vanno adeguatamente calibrate per evitare che, sull’altare della credibilità della Magistratura, siano compressi oltremodo i diritti fondamentali spettanti al magistrato in quanto cittadino.
Certo, la soluzione di una tendenziale incompatibilità della scelta di avvalersi dei propri diritti politici nell’elettorato passivo in alcune cariche elettive o di governo[8], sanzionata col collocamento fuori del ruolo giudiziario, definitivo al momento del rientro o quinquennale in caso di mancata elezione, è drastica; ma, accompagnata da una adeguata normativa transitoria, potrebbe rappresentare quanto meno la base per una discussione franca e costruttiva.
Allo stesso modo può costituire un accettabile punto di partenza la previsione, per il caso di incarichi elettivi o di governo diversi, la previsione di un rientro condizionato da parametri soprattutto geografici e, per quelli apicali presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri o i Ministeri, precluso ad incarichi direttivi per un sia pur breve periodo.
6. Gli interventi sulla revisione delle circoscrizioni giudiziarie e sulle piante organiche di magistratura.
Solo un cenno ad una riforma delle circoscrizioni giudiziarie che si vorrebbe affidata a criteri e principi direttiva di vaghezza tale da rasentare l’indeterminatezza (art. 35 del disegno di legge), a fronte del ben più ampio respiro della precedente legge 14 settembre 2011, n. 148[9], nonché ad una più razionale sistemazione di un organico distrettuale della magistratura (art. 50 del disegno di legge delega), volta condivisibilmente a far fronte alle esigenze indotte da scoperture od altre situazioni di particolare sofferenza in termini di rendimento, mediante una procedimentalizzazione che prevede però la singolare obbligatorietà del parere favorevole del Ministro, incongruamente in grado di condizionare il potere costituzionale del Consiglio in materia.
7. Gli interventi sul Consiglio Superiore della Magistratura.
Dirompenti e rivoluzionari sono gli interventi progettati sull’elezione e sulla struttura stessa del Consiglio Superiore della Magistratura[10], previsti nel titolo II del disegno di legge.
Non si pensa tanto al ritocco del numero dei componenti, quanto al quale si torna all’antico, di trenta componenti, in controtendenza alle contemporanee riduzioni per altri organi anche costituzionali; e non si pensa neppure alla riforma della sezione disciplinare, che suscita dubbi di conformità alla Costituzione perché i Collegi in essa formati non garantirebbero la presenza delle differenti categorie di magistrati rappresentati in Consiglio, mentre risultati analoghi, ferma la condivisibilità dell’esclusione dei suoi componenti dall’appartenenza alle altre sezioni, potrebbero bene essere conseguiti con una previsione di temporaneità (biennale o anche solo annuale, sul quadriennio totale di durata del Consiglio) mediante effettiva rotazione.
Il vero punto centrale, probabilmente purtroppo innescato dalle vicende di cronaca giudiziaria di questi giorni, i cui sviluppi – è bene ricordarlo – sono tuttora sub iudice – è l’introduzione del sorteggio quale modalità di elezione[11].
È, per intendersi, una specie di sorteggio di seconda (o perfino terza, con un complicato sistema per garantire la rappresentanza delle diverse categorie di magistrati) battuta, visto che interviene indirettamente e solo in un momento successivo alla tradizionale elezione col metodo dell’espressione di preferenza, per selezionare, tra i potenziali eletti, quelli che poi risulteranno gli effettivi componenti dell’organo.
Il sistema è ibrido o combinato[12], ma, sia pure temperando il dirompente effetto del sorteggio indifferenziato, la composizione finale dell’organo di rilevanza costituzionale, quale pur sempre è il Consiglio Superiore della Magistratura, resta affidata, in buona sostanza, al caso e tutta la sua futura attività affidata al capriccio di questa genetica imprevedibilità originaria: ed ancora una volta sul presupposto, umiliante e di dubbia costituzionalità, che i Magistrati non sappiano eleggere propri rappresentanti e che tutti possono svolgere le funzioni di rappresentanza, in quanto tutti caratterizzati da identiche attitudini ed identico grado di attitudine e inettitudine, di impermeabilità o permeabilità a quelle logiche di potere la cui finale degenerazione è deflagrata nelle scorse settimane; se uno vale esattamente uno, è indifferente allora che a rappresentare ci sia uno piuttosto che un altro.
Ora, eleggere significa - tecnicamente - scegliere tra diversi (etimologicamente, e-ligo significa “colgo da”) e, quindi, si può bene scegliere con uno strumento del tutto casuale, come il sorteggio; ma è innegabile che, nella concezione delle democrazie moderne ed in rapporto con le dimensioni sempre più di massa del corpo elettorale, è sempre stata connaturata, fin dal secolo dei lumi, l’idea della delega a soggetti comunque scelti in base all’apprezzamento tra più alternative tra loro concorrenti e quindi l’idea della corrispondenza e della coerenza degli eletti con la volontà collettiva, da formarsi in base ai rapporti di forza tra le alternative offertesi agli elettori.
La diversa impostazione delle repubbliche delle città-stato, fossero quelle le greche dell’era classica (ma comunque fino al quarto secolo avanti Cristo, viste le loro degenerazioni già a partire dal declino, significativamente, proprio della non longeva democrazia ateniese periclea) o di quelle di alcune esperienze comunali medioevali, poteva talvolta prevedere il sorteggio, ma pur sempre in presenza di una base di elettori ristretta, tale da favorire uno stretto rapporto tra elettori ed eletti, nonché soprattutto di una tendenziale rotazione di tutte le cariche, spesso numerosissime e di durata contenuta, sicché il sorteggio – che escludeva in linea di massima immediate rielezioni – veniva ad essere soltanto l’individuazione di una turnazione tra tutti gli aventi diritto, in un sistema che le prevedeva piuttosto come munera et onera che come onori e che esigeva quindi un pari concorso di ciascuno alle esigenze della collettività.
Quando di elezione si parla, non solo nel linguaggio corrente ma pure nel senso corrispondente a quello fatto proprio dalla Costituzione vigente con insostituibile riferimento al primo e recepito dal comune sentire, ci si riferisce a sistemi di scelta consapevole dell’eletto, in quanto configurato come proprio rappresentante per similitudine degli intenti e degli obiettivi e quindi delegato a comportarsi secondo i programmi preannunciati e posti a base della selezione, in quanto tale implicante la consapevole proiezione della volontà del votante elettore delegante: scelta consapevole che è quindi di per sé sola esclusa da un sorteggio, dall’esito affidato al caso e non alla volontà di chi deve scegliere.
Il sorteggio presuppone la piena equiparabilità e fungibilità non solo e non tanto delle funzioni da svolgere, quanto soprattutto dell’idoneità di ciascuno degli eleggibili ad espletarle, in modo neutro rispetto alla volontà dell’elettore: e tanto può valere per compiti meramente esecutivi, nei quali sia totalmente esclusa ogni possibilità di scelta o di indirizzo e soprattutto ogni discrezionalità di impostazione o di tendenza; ma è di tutta evidenza che questa piena intercambiabilità viene meno quando si tratta di funzioni di amministrazione in senso ampio, quando non di vero e proprio governo o, a maggior ragione, di autogoverno di un Potere dello Stato disegnato come tale dalla Costituzione.
La sfiducia negli eletti, non importa in base a quale sistema elettorale visto che anche le più recenti riforme – ed anche del Consiglio Superiore della Magistratura – sono poi state ritenute non all’altezza delle aspettative, deriva piuttosto dalla possibile degenerazione del sistema, nel momento in cui le organizzazioni o gruppi, che necessariamente devono essere messi in campo per rendere possibile l’elezione in una democrazia comunque di massa, possono trasmodare da proficui e preziosi veicoli di confronto e convergenza di idee e tensioni ideali a meri centri di gestione ed occupazione di posti di potere: ciò che da molti si dice avere reso evidente la crisi dei partiti tradizionali (almeno fino all’ultima legislatura, in cui singolarmente sono state premiate le espressioni antitetiche di questa tendenza, un movimento dichiaratamente antipolitico ed il più strutturato dei partiti politici di stampo tradizionale).
Il rischio di questa degenerazione può dirsi però proprio di tutte le democrazie rappresentative, dove il potere di lobby o, appunto, gruppi di pressione o potere più o meno legittimi (o, in alcuni altri ordinamenti, perfino istituzionalizzati) può avere il vantaggio di doversi riferire ad una cerchia ristretta di eletti, anziché ad una più ampia, ma pur sempre manipolabile con gli attuali strumenti di comunicazione di massa ed a mano a mano che si diffonde l’insofferenza verso la mediazione di classi intermedie di persone informate correttamente sui fatti da esaminare, di partecipanti diretti alla decisione.
D’altra parte, anche una volta composto l’organo “elettivo” con il sistema del sorteggio, nulla esclude la più o meno spontanea successiva aggregazione, al suo interno ed in forza delle dinamiche di potere proprie di ogni organo collegiale a tutti i livelli, di gruppi di eletti, anche se sorteggiati, con le medesime prerogative e quindi – beninteso, soltanto in teoria – con le stesse tentazioni e con identici rischi di degenerazione di quelli attuali: la differenza è solo che queste degenerazioni potranno essere, oltre che arbitrarie alla pari di quelle odierne, per di più adottate da eletti assolutamente imprevedibili; ed all’ingiustizia si aggiungerà anche l’aleatorietà dell’identità del suo autore.
Insomma, non è la casualità, temperata o meno, dell’individuazione del titolare di un potere che si predica avere come intrinseco questo rischio di degenerazione a garantire da quest’ultima: ma, al contrario, un intervento serio e deciso sull’ampiezza e sulle modalità di gestione di quei poteri, resa dissennatamente indeterminata dalle riforme del 2006.
Piuttosto, allora, si può pensare a sistemi elettorali uninominali su collegi nazionali con ballottaggio e, soprattutto, a quorum deliberativi elevatissimi su criteri e parametri effettivamente rigidi, semmai soprattutto nei casi delicati come le nomine (fasce di anzianità ristrette, tranne eccezioni assolute; punteggi di calcolo delle attitudini che limitino drasticamente la discrezionalità di valutazione e che non premino l’attività extragiudiziaria dell’aspirante; e così via), tali da attenuare i rischi di consociativismo e da prevenire la degenerazione dell’inevitabile tendenza all’associazionismo tra coloro che condividono criteri di valutazione e visioni di politica giudiziaria.
Solo in tal modo non si mortifica la democrazia rappresentativa come sperimentata negli ultimi secoli e non la si riduce ad un gioco casuale.
E, se proprio occorresse pagare un tributo al sorteggio, quale irrinunciabile panacea contro la degenerazione della rappresentanza e in quanto tale bandiera di importanti forze politiche odierne, allora lo si potrebbe tollerare, ma a patto di averlo come extrema ratio nei casi in cui i quorum deliberativi particolarmente qualificati non fossero raggiunti: un sorteggio allora non a monte, per stabilire chi dovrà scegliere, ma a valle, per dirimere insolubili contrasti su chi o cosa deve essere scelto, individuando una rosa di alternative (e con adeguati correttivi, come la necessità di una minima condivisione di ognuna, così da evitare premi eccessivi, sia pure attraverso l’alea del sorteggio, a posizioni assolutamente minoritarie per irragionevolezza o finalità di mero disturbo). Non nel momento genetico dell’attività del Consiglio, ma in quello funzionale.
Ma, già a partire da tutte le altre scelte, come quelle di organizzazione e di normazione secondaria, il sorteggio è invece sic et simpliciter l’antitesi del Consiglio come voluto dalla Costituzione, perché su quelle l’autogoverno non può essere affidato al coagulo di volontà casuali, ma a veri e propri disegni o progetti, a loro volta necessariamente frutto di un confronto tra soggetti che siano espressione di una consapevole indicazione della base elettorale.
Beninteso, anche la Costituzione si cambia: ma è bene essere consapevoli ed onesti allora quanto al prezzo ed alle conseguenze delle scelte in tal senso; e sia l’uno che le altre rischiano di essere davvero eversivi del concetto stesso di democrazia rappresentativa.
[1] Si veda il testo originale all’URL https://rm.coe.int/rapport-avec-couv-18-09-2018-en/16808def9c. Per un primo commento, v. M. Castellaneta, Cepej: pubblicato il rapporto sulla valutazione dei sistemi giudiziari, all’URL
http://www.marinacastellaneta.it/blog/cepej-pubblicato-il-rapporto-sulla-valutazione-dei-sistemi-giudiziari-cepej-released-the-report-on-evaluation-of-judicial-systems.html (ultimo accesso 17/07/2019)
[2] In dottrina, tra le molte voci, v.: A. Proto Pisani, Contro l’inutile sommarizzazione del processo civile, in Foro it., 2008, 44 ss.; S. Paparo e AA., Intervento di «pronto soccorso» per un processo (... un po’ più ...) civile, in «Foro it.», 2017, V, col. 208; B. Capponi, A prima lettura sulla delega legislativa al governo «per l’efficienza della giustizia civile», in «Riv. trim. dir. proc. civ.», 2014, p. 361; idem, Noterelle forse inattuali, ma di certo un po’ polemiche, su Costituzione e processo civile, in Questione Giustizia, 20/10/2016, all'URL
http://questionegiustizia.it/articolo/noterelle-forse-inattuali_ma-di-certo-un-po-polemiche_su-costituzione-e-processo-civile_19-10-2016.php (ultimo accesso 17/07/2019).
Tra gli avvocati associati, si segnala il deliberato dell’Associazione nazionale forense del 10/03/2019, reperibile all’URL https://www.associazionenazionaleforense.it/deliberato-del-10-marzo-2019-in-tema-di-processo-civile/ (ultimo accesso 17/07/2019).
La sommarizzazione pare accettata come una linea di tendenza da Corte cost. 172/19, ma tanto in una sentenza di rigetto e quindi non vincolante e per di più in un contesto, come la costituzionalità del subprocedimento di accertamento dell’obbligo del terzo dopo le riforme del pignoramento presso terzi del 2013, in cui analogo risultato di conformità a Costituzione può raggiungersi senza impingere in un più generalizzato discorso di auspicabile sommarizzazione: a tale scopo basta sottolineare che si tratta di un subprocedimento incidentale e provvisorio a meri fini esecutivi da parte del giudice dell’esecuzione, cui sempre più vengono attribuiti poteri non già di cognizione, ma di delibazione di situazioni controvertibili ai soli fini dell’emanazione dei provvedimenti propri e tipici del processo esecutivo.
[3] Cass. Sez. U. 11/11/2008, nn. 26972 e seguenti, dette “di San Martino”.
[4] Su cui v. https://www.service-public.fr/particuliers/vosdroits/F1751, al sito predisposto dal Governo francese per la definizione degli istituti anche giudiziari di maggior rilievo. In estrema sintesi, si tratta di una sorta di fase preliminare di ogni procedura di espropriazione immobiliare, nella quale il debitore è comunque autorizzato, senza formalità, a procedere per suo conto alla vendita amichevole entro brevi termini e su proposte già ricevute, da sottoporre alla discrezionale valutazione dei creditori ed in mancanza di accettazione dei quali si fa luogo alla vendita giudiziaria.
[5] Su cui ci si permette un rinvio a F. De Stefano, Sistemi di giustizia civile a confronto: l’esperienza francese, Salerno 2010, p. 27, oppure a F. De Stefano, Gli strumenti di prova e la nuova testimonianza scritta, 2009, p. 96.
[6] Tra i primi commenti, v. E. Maccora, M. Patarnello, La dirigenza descritta dalla proposta di Riforma del Ministro Bonafede, in www.questionegiustizia.it, reperibile all'URL http://www.questionegiustizia.it/articolo/la-dirigenza-descritta-dalla-proposta-di-riforma-del-ministro-bonafede_15-07-2019.php (ultimo accesso 18/07/2019).
[7] N. Rossi, Lo scandalo romano: un bubbone maligno scoppiato in un organismo già infiacchito da mali risalenti, in www.questionegiustizia.it, reperibile all'URL
http://www.questionegiustizia.it/articolo/lo-scandalo-romano-un-bubbone-maligno-scoppiato-in-un-organismo-gia-infiacchito-da-mali-risalenti_18-07-2019.php (ultimo accesso 18/07/2019)
[8] Le più importanti, cioè quelle di parlamentare nazionale o europeo, di componente del Governo, di consigliere regionale o provinciale nelle Province autonome di Trento e Bolzano, di Presidente o assessore nelle giunte delle Regioni o delle Province autonome di Trento e Bolzano, di sindaco in Comuni con più di centomila abitanti.
[9] Sulla quale, per tutti, basti un cenno a F. Auletta, Riforma delle circoscrizioni giudiziarie, in Libro dell’anno del diritto 2014, Treccani, consultabile all’URL http://www.treccani.it/enciclopedia/riforma-delle-circoscrizioni-giudiziarie_(Il-Libro-dell%27anno-del-Diritto)/ (ultima consultazione 17/07/2019).
[10] Per una seria riflessione sul ruolo del C.S.M. nell’assetto costituzionale e sul nesso strettissimo tra tale ruolo e la legge elettorale del Consiglio, v. già G. Silvestri, Consiglio Superiore della magistratura e sistema costituzionale, in Questione Giustizia trimestrale, Fascicolo 4/2017, http://questionegiustizia.it/rivista/2017/4/consiglio-superiore-della-magistratura-e-sistema-costituzionale_489.php (consultabile all’URL http://questionegiustizia.it/rivista/2017/4/consiglio-superiore-della-magistratura-e-sistema-costituzionale_489.php, ultimo accesso 17/07/2019).
[11] Tra i primi commenti, si veda V. Savio, Come eleggere il Csm, analisi e proposte: il sorteggio è un rimedio peggiore del male, in Questione Giustizia, 26/06/2019, consultabile all’URL http://questionegiustizia.it/articolo/come-eleggere-il-csm-analisi-e-proposte-il-sorteggio-e-un-rimedio-peggiore-del-male_26-06-2019.php (ultimo accesso 17/07/2019).
[12] Di vero e proprio ircocervo parla N. Rossi, loc. cit., § 4.
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