ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Informazione e comunicazione: tra reattività e riflessione di Bruno Montanari
Al tempo del “coronavirus” il tema dell’informazione mostra tutta quella sua intrinseca valenza, che in tempi meno apparentemente “contagiosi” sembra non richiamare la medesima attenzione. Segnalo che già in questo secondo rigo della proposizione di esordio ho usato una espressione giocata su quel profilo dell’immediatezza reattiva che l’informazione, non da oggi, prevalentemente insegue; l’espressione è: “meno apparentemente contagiosi sembra…” segnata dall’avverbio “apparentemente” e dal verbo “sembra”.
E’ sull’apparire e sul sembrare, entrambi verbi che incarnano la contingenza, che si determina quell’immediatezza reattiva che l’informazione oggi affida al “linguaggio”; da qui una prima chiarificazione, destinata a distinguere le finalità dei processi comunicativi in generale. Mi spiego.
Ho parlato di “linguaggio” e non di “parola”; tra i due termini vi è differenza. La “parola” è ciò che innerva il pensiero, così come la figura antica e classica del Logos suggerisce. Altra cosa è il “linguaggio”, che è costituito da sequenze di parole, o in quanto insiemi grammaticali idonei all’argomentazione, o, anche, come semplici emissioni sonore, dotate però di capacità suggestiva atte quindi a indurre reattività. Più si assottiglia la “parola”, come luogo di concretizzazione del pensiero, più si accresce la forza suggestiva dei linguaggi. Le tecnologie comunicative, che vanno diffondendosi, proprio a causa della loro struttura ingegneristica, operano percorsi linguistici, linguaggi, che esse stesse organizzano, sempre più suggestivamente efficaci, che annientano la “parola” come consustanziale al pensare ed al “pensiero”. Un linguaggio funzionale a stimolare la reattività si muove sul piano della immediatezza e, sostituendosi al pensare, annulla la categoria della “temporalità”. Ne segue che l’a-temporalità, che ne costituisce il modello espressivo, prende il posto che la temporalità del pensare avrebbe nel decidere e nell’agire di ciascuna persona, destinataria del linguaggio e fruitore dell’informazione in esso contenuta. L’attuale tecnologia comunicativa colpisce direttamente, infatti, le persone, cogliendole nella loro singolarità, e intercettandone im-mediatamente le istanze, i bisogni, i disagi, le paure… Ciò che viene investito e manipolato in maniera anche inavvertita e subliminale è quello spazio di vita che possiamo definire l’ “orto di casa”: quel mondo del quale ciascuno di noi vuole mantenere il controllo, pena lo spaesamento e l’insicurezza. L’effetto è duplice: la sostituzione del c.d. “impatto”, che si concretizza nella “immediatezza” della reattività, alla “lentezza” del pensiero (l’espressione è il titolo di un libro del 2014 di Lamberto Maffei, Elogio della lentezza, Il Mulino, Bologna) e il liquefarsi di ogni spazio relazionale e associativo, come momenti esistenziali di compensazione ed elaborazione della solitudine e del ragionamento. Tutto si risolve in una rete di segnali brevi, che arrivano in modalità reattiva, creando, a livello del proprio privato, l’illusione della “amicizia”; illusione, appunto, poiché non vi sono occhi che si guardano né sonorità di voci che si intrecciano. Al cospetto di un like ognuno resta stretto nella propria singolarità e con la personale solitudine di vita. Maffei insegna che la tecnologia dell’impatto e dell’immediatezza modifica il funzionamento delle aree cerebrali, mettendo a riposo quelle che presiedono al pensiero. Nasce così quella che altrove ho definito l’epoca del “post-pensiero”, nella quale lo smartphone ed il cane-giocattolo hanno preso il posto degli occhi e della voce dell’altro e degli altri.
Ho ritenuto di svolgere questa premessa per mettere in luce su quali aspetti di fondo, propri della struttura linguistica dei messaggi, occorra riflettere quando si parla di comunicazione, prima ancora dei consueti profili della libertà dell’informazione e del diritto-dovere di fornirla da parte degli addetti ai lavori.
Alla questione della “struttura linguistica” ne segue una seconda, anch’essa preliminare agli aspetti “normativi” e che in qualche misura dovrebbe orientarli, perché va ad incidere non sulla modalità espressiva, ma più direttamente sui “contenuti”; anche se “modalità espressiva” e “contenuti” sono interdipendenti.
“Informare” vuol dire “mettere in forma” o “dare forma” ad un “qualcosa”, che può essere un evento della natura, un pensiero, un discorso, uno scritto e così via. Il primo elemento è dunque la centralità costitutiva della “forma”: se la “cosa” non si mostrasse in virtù di una forma non sarebbe osservabile e, poi, leggibile e nel caso comunicabile. Dunque informare significa mettere in forma un “qualcosa” che ha già una sua forma. E’ quanto sperimenta quotidianamente il mondo del diritto con la forma che costituisce il tessuto normativo e, leggendolo, lo interpreta.
Proprio l’analogia con l’operazione interpretativa dei giuristi consente di mostrare i profili che strutturano i contenuti dei processi informativi. Come per l’interpretazione normativa anche l’informazione ha una struttura comunicativa ternaria: una “cosa” da comunicare, un soggetto attore della comunicazione ed un destinatario.
E’ una operazione attraverso la quale viene messa in forma quella che comunemente si chiama “realtà”, cui, altrettanto comunemente, si aggiunge l’aggettivo “oggettiva”. E’ dentro questo meccanismo, ad un tempo comunicativo e speculativo, che occorre addentrarsi. Innanzitutto, cosa vuol dire “realtà oggettiva”? Vuol dire, nella percezione comune, che le “cose sono” o “stanno” così come vengono comunicate. Il punto, invece, è che una tale “realtà” corrisponde, come sottolineava Cassirer nelle lezioni amburghesi del ‘21 – ’22 aventi ad oggetto la relatività di Einstein, al “punto di vista” dell’attore della comunicazione, reso “oggettivo” dalla legittimazione della sua competenza o posizione professionale. In altre parole, ciò che comunemente definiamo “realtà” è sempre, di necessità, la rappresentazione di una elaborazione mentale del soggetto. Non è, infatti, la “cosa” ad auto definirsi, ma è il soggetto, che la incontra e la osserva, a rappresentarla innanzitutto a sé e poi agli altri. Ed è su questa scissione tra sé e gli altri “destinatari” che può inserirsi un processo di possibile alterazione comunicativa, nel senso che l’attore può decidere, per ragioni sue proprie, di fornire una rappresentazione diversa da quella che egli ha costruito per sé. In ogni caso, però, la “realtà” coincide comunque con una rappresentazione del soggetto; per questo i processi comunicativi hanno bisogno di riferimenti argomentativi per trovare condivisione, oltre che ascolto, ed è ancora per questo che la medesima “cosa” si offre a rappresentazioni diverse. Esattamente come l’interpretazione normativa.
Vi è poi la seconda rappresentazione, quella che si costruisce il destinatario; e questa dipende dalla forma dell’atto comunicativo. Dipende, cioè, da come l’attore della comunicazione usa il linguaggio allo scopo di mettere in forma (in-formare) quella “realtà” che intende diffondere. Per questo ho ritenuto di svolgere le osservazioni sulla funzione comunicativa affidata alla modalità linguistica, la quale, come si ricorderà, può assumere due paradigmi. Quello comunicativo-riflessivo, che Maffei definirebbe “lento”, fondato sulla argomentazione, che induce il destinatario alla riflessione razionale e critica; esercita cioè quella funzione neurale che produce il pensare (è sempre Maffei che lo spiega). E quello, oggi di moda, costruito sulla forza di impatto di termini capaci di suscitare un’ immediata re-azione nel destinatario. Si pensi, come esempio significativo, alla odierna comunicazione politica (sia nostrana che internazionale), fatta di frasi brevi, spesso icastiche ed apodittiche; prive cioè di argomentazione e totalmente assertive. Non è senza ragione che, oggi, la politica non sia più costruita con “visioni del mondo”, progetti, pensieri, e confronti dialettici, ma sulla mera contingenza, messa in forma da leaders alla testa di quelli che il linguaggio dei social definisce followers. E’ un tipo di comunicazione che costruisce una “realtà” priva della struttura argomentativa della discutibilità, poiché la contingenza, coincidendo con il darsi di una fattualità puntistica, è per sua struttura epistemologica non discutibile. E non è senza significato che tale tipo di comunicazione-informazione sia determinata contenutisticamente da esperti di linguaggi dotati di incisività immediata delle rappresentazioni prodotte. Ne segue che per loro costituzione intrinseca tali processi comunicativi aprono ad una alternativa secca: condivisione integrale o conflitto altrettanto integrale. Per questo il mondo politico è popolato esclusivamente da “capi” e “seguaci” e non da persone pensanti
La sostituzione della a-temporalità della contingenza alla temporalità della progettualità produce una distorsione della stessa idea di governo nei sistemi democratico rappresentativi, poiché trasforma le procedure elettorali da percorsi comunicativi per governare in mezzi estemporanei per andare al governo. Il governare, infatti, legge il presente per progettare un futuro, l’andare al governo insegue quella reattività dell’immediato che è stata suscitata da appropriati messaggi. In breve, il governare si muove nella temporalità, l’andare al governo nella contingenza. L’attuale pratica dei sondaggi, esercitata a ritmi serrati, addirittura anche settimanali, costituisce una sorta di legittimazione elettoralistica della contingenza.
Ancora, si rifletta sulla informazione legata alle statistiche. Le statistiche, per avere un valore significativo, devono svilupparsi per comparazione tra eventi, contesti temporali e ambientali analoghi (se si assume, per es., l’evento “morte”, si pensi alla diversa significatività tra i dati assoluti e relativi delle statistiche legate alle morti per patologie polmonari, per tumori, per cardiopatie, per droga, per disastri naturali ecc.).
Ho cercato di descrivere, sia pure sommariamente, la struttura dei processi comunicativi che oggi costituiscono l’informazione genericamente intesa, sia quella messa in opera direttamente dal personale politico, sia quella più generale veicolata dai media. Ho soprattutto cercato di sottolineare che l’espressione “realtà oggettiva” è epistemologicamente priva di significato, poiché ogni atto umano è “per natura” soggettivo, in quanto originato dai sensi ed elaborato dal cervello di un uomo. E’ sempre, dunque, ricordando Cassirer, il “punto di vista” di un soggetto che disegna quella rappresentazione detta “realtà”.
Credo, allora, che la consapevolezza di quest’ultimo profilo sia così decisiva da chiamare in causa la responsabilità dell’attore della comunicazione; responsabilità che si coniuga con due profili: quello della libertà, poiché non si può essere responsabili se non si è liberi; e quello della onestà intellettuale, altrimenti definibile come “lealtà”, che soprattutto i protagonisti dei media dovrebbero avere a cuore. Certo, anche i destinatari dovrebbero porsi un problema che li riguarda in prima persona se vogliono avere la dignità di uomini liberi: quello di saper distinguere le “bufale” a effetto da una informazione e comunicazione che sicuramente è meno immediata ed emotivamente attraente, ma proprio per questo è capace di suscitare riflessione e pensiero; riflessione e pensiero, che non possono che essere quelli propri del soggetto che la riceve, ma giustificati e non soddisfatti da un misero, immediato e contingente like.
La non convalida dell'arresto. Brevi note di Giorgio Spangher
Con la sentenza n. 112 della III Sezione la Cassazione ha affrontato il ricorso del procuratore della repubblica del Tribunale di Agrigento per l’annullamento del provvedimento del gip del Tribunale di Agrigento che non ha convalidato l’arresto in flagranza di C.R. effettuato dalla Guardia di Finanza per i reati di cui agli artt. 1100 cod. nav. e 337 c.p.
La grande risonanza del tema impone di considerare in termini problematici la questione soprattutto nel suo profilo di maggior interesse: le condizioni in presenza delle quali la p.g. può procedere all’arresto in flagranza ed i poteri al riguardo conferiti al giudice in sede di convalida.
Va subito detto, sotto questo profilo, che la Cassazione fa propria una tesi in ordine alla quale non mancano anche indicazioni contrarie nella giurisprudenza della Cassazione.
Il punto di partenza attiene al tipo di valutazione che il giudice deve fare per valutare l’attività della p.g.; al riguardo, deve porsi nelle condizioni della p.g. al momento in cui ha effettuato l’arresto.
Sul punto, Cass. 29.9.2000, Mates Ion, Riv. pen. 2001, 862; nonché Cass. 4.4.2006, p.m. in c. Oprea, Riv. pen. 2007, 454; ed altre hanno affermato che in tema di convalida dell’arresto facoltativo in flagranza, ferma la necessità della verifica dei requisiti formali, il giudice della convalida deve operare rispetto ai presupposti sostanziali della stessa (gravità del fatto e personalità dell’arrestato) un controllo di mera ragionevolezza per il quale deve porsi nella stessa situazione in cui ha operato la p.g. e verificare, sulla base degli elementi in tale momento conosciuti e conoscibili, se la valutazione di procedere all’arresto rimanga nei limiti della discrezionalità alla medesima p.g. riconosciuta e pertanto se trovi ragionevole motivo nella gravità del fatto o nella pericolosità del soggetto, senza però poter sostituire ad un giudizio ragionevolmente fondato una propria differente valutazione (fattispecie in cui è stata ritenuta ragionevolmente motivata la convalida dell’arresto di un soggetto privo di documenti e senza fissa dimora sorpreso a rubare in un supermercato, quanto meno al fine di procedere ad ulteriori accertamenti sull’identità personale e sull’esistenza di precedenti penali).
V. anche Cass. 28.9.2005, p.m. in c. Sorgia, Guida dir. 2006, f. 11, 98, con cui si è affermato che il controllo sulla legittimità dell’operato della p.g. va effettuato sulla base del criterio di ragionevolezza, ovvero dell’uso ragionevole del potere discrezionale riservato alla p.g. e solo quando ravvisi un eccesso o un malgoverno di tale discrezionalità il giudice può negare la convalida, fornendo in proposito adeguata motivazione senza poter sostituire a un giudizio ragionevolmente fondato una propria differente valutazione. In tema di convalida dell’arresto (art. 391 c. 4), il giudice ha l’obbligo di: a) verificare l’osservanza dei termini previsti dagli artt. 386 c. 3 e 390 c. 1 (verifica meramente formale); b) controllare la sussistenza dei presupposti legittimanti l’eseguito arresto secondo gli artt. 380, 381 e 382, ossia se ricorrono gli estremi della flagranza e se sia configurabile, con riferimento al caso specifico, una delle ipotesi criminose che impongono o consentono l’arresto (fumus commissi delicti); c) valutare la legittimità dell’operato della p.g. sulla base di un controllo di ragionevolezza dell’arresto stesso, in relazione allo stato di flagranza e all’ipotizzabilità di uno dei reati di cui agli artt. 380 e 381. Tale ultimo controllo, peraltro, non può riguardare l’aspetto della gravità indiziaria e delle esigenze cautelari, riservato ex art. 391 c. 5 in combinato disposto con gli artt. 273 e 274, all’applicabilità di taluna delle misure cautelari coercitive, e non può sconfinare in un apprezzamento riservato alla fase di cognizione del giudizio di merito (Cass. 12.12.2007, Fiorenza, Guida dir. 2008, f. 9, 69). Conf. Cass. 24.11.10, p.m. in c. Aladie, ivi 2011, f. 13, 71.
In altri termini il giudice non può sostituire la sua valutazione a quella della p.g., ma solo verificare se essa abbia violato i limiti della discrezionalità che in quella fase è attribuita alla p.g. che si differenzia dai poteri e dalla valutazione che il giudice deve fare quando applica una misura cautelare.
Sulla base di questa premessa vanno considerate le disposizioni di cui all’art. 385 ove si prevede il divieto di arresto o di fermo in determinate circostanze e si precisa che l’arresto è escluso quando, tenendo conto delle circostanze di fatto, appare che questo è stato compiuto in presenza di una scriminante o per una causa di non punibilità.
Al riguardo, Cass. 16.1.2017, Iattarulo, CED 269428 e Cass. 28.9.2004, p.m. in c. Flosco, CED 230044, fanno riferimento ad una manifestazione chiara, ovvero ad uno stato che si sia manifestato in modo chiaro all’agente.
Del resto, l’art. 389 c.p.p. precisa che la liberazione è disposta dal p.m. nel caso in cui risulti evidente che l’arresto … è stato eseguito fuori dai casi previsti dalla legge.
In altri termini, appare necessario evitare di sovrapporre il giudizio ex post con la posizione ex ante nella quale ha agito la p.g., configurandosi situazioni diversificate. Come emerge dalla diversità dei provvedimenti che il giudice della convalida è chiamato ad effettuare – convalida ed eventuale ordinanza cautelare – e dalla diversità dei rimedi apprestati nei confronti dei due provvedimenti.
Si consideri altresì che la convalida si rende necessaria anche se il soggetto fosse stato liberato, ovvero se il p.m. non dovesse chiedere una misura cautelare e che la convalida è possibile anche quando il giudice non accolta la richiesta di misura cautelare.
Postilla a La giustizia di fronte all’emergenza Coronavirus. Le misure straordinarie per il processo amministrativo.
Fabio Francario
Si segnala che il parere reso dal Consiglio di Stato nell’Adunanza della Commissione speciale del 10 marzo 2020 esclude che il richiamo dell’art. 54 d lgs 104/2010 da parte dell’art. 3 del dl 11/2020 comporti una vera e propria sospensione dei termini processuali nel periodo che va dall’entrata in vigore del dl 11/2020 al 22 marzo 2020. La Commissione si è espressa infatti nel senso che “il periodo di sospensione riguardi esclusivamente il termine decadenziale previsto dalla legge per la notifica del ricorso (artt. 29, 41 c.p.a.)” e non anche gli altri termini endoprocessuali. La conclusione viene raggiunta muovendo dalla duplice considerazione che “con precipuo riguardo al termine per il deposito del ricorso (art. 45 c.p.a.) e soprattutto a quelli endoprocessuali richiamati dal già citato art. 73, comma 1, c.p.a., non si ravvisano le medesime esigenze che hanno giustificato la sospensione delle udienze pubbliche e camerali perché trattasi di attività che il difensore può svolgere in via telematica e senza necessità di recarsi presso l’ufficio giudiziario. Non appare esservi, dunque, alcun pericolo per la salute dei difensori né si moltiplicano le occasioni di contatto sociale e dunque le possibilità di contagio” ; e che “se la rapida diffusione dell’epidemia giustifica pienamente il rinvio d’ufficio delle udienze pubbliche e camerali, disposto dal decreto nel periodo che va dall’8 al 22 marzo 2020, allo scopo di evitare, nei limiti del possibile, lo spostamento delle persone per la celebrazione delle predette udienze, nonché la trattazione monocratica delle domande cautelari (salva successiva trattazione collegiale), sempre allo scopo di evitare lo spostamento delle persone e la riunione delle stesse all’interno degli uffici giudiziari, non sembra reperirsi adeguata giustificazione, invece, per la dilatazione dei termini endoprocessuali”. Secondo il Consiglio di Stato, in buona sostanza, non si tratta affatto di un’applicazione eccezionale dell’istituto della sospensione dei termini processuali contemplato dall’art 54 del d lgs 104/2010, ma di una sospensione del solo termine per la notifica del ricorso giustificata da una ratio normativa che si prefigge di evitare gli spostamenti delle persone e la loro riunione presso gli uffici giudiziari.
Al riguardo si segnala altresì che le disposizioni di coordinamento dettate dal Presidente del Consiglio di Stato con il decreto 71 del 10 marzo 2020 precisano che “trattasi di avallo esegetico che, seppur autorevole, non ha efficacia cogente per i giudici chiamati a decidere sul caso concreto, sicchè non può che confidarsi, al fine di una effettiva, pronta e corale reazione alla diffusione epidemiologica che non sacrifichi oltremodo l’efficienza e la capacità di risposta del sistema giudiziario amministrativo, in un atteggiamento pienamente collaborativo dell’avvocatura e dei singoli avvocati che si traduca in una sostanziale rinuncia ad avvalersi, per quanto concerne il deposito telematico degli atti defensionali di cui all’art. 73, comma 1, c.p.a., della sospensione di cui all’art. 3 comma 1 del DL 11/2020”.
Si riporta di seguito il testo del parere.
La rivolta nelle carceri: la “miccia” dell’emergenza sanitaria accende il “fuoco” delle rivendicazioni dei detenuti.
Intervista di Michela Petrini a Riccardo Arena
Michela Petrini: all’emergenza del Covid 19 si aggiunge l’emergenza nelle carceri. Fin dall’inizio si è temuto che il contagio si espandesse anche oltre le mura degli istituti penitenziari e, per tale motivo, il Governo ha adottato le misure (divieto di colloqui, limitazioni nei permessi premio e del regime di semilibertà) considerate idonee a prevenire la diffusione del virus tra i detenuti. Ritiene che le predette misure siano state precedute da una corretta comunicazione relativa alle finalità sottese alle restrizioni imposte, oppure vi sia stato un difetto di informazione nei confronti dei detenuti e dei loro familiari che possa aver ingenerato il sospetto dell’adozione di provvedimenti con finalità repressiva o punitiva?
Riccardo Arena: la comunicazione, come spesso capita nelle carceri, è certamente mancata anche perché sono pochissime, nei penitenziari, le figure chiamate a svolgere questo ruolo. E così in tante carceri, i detenuti hanno saputo dell’interruzione dei colloqui senza essere rassicurati, né sulle vere ragioni che avevano giustificato la misura né sul momento in cui questa misura sarebbe cessata. Una situazione che ha chiaramente contribuito ad alimentare la già presente esasperazione, anche se francamente non credo che la sospensione dei colloqui da sola sia stata così determinante per causare un numero tanto elevato di rivolte.
Michela Petrini: le misure di prevenzione sopra indicate, unitamente all’adozione di protocolli (misurazione della temperatura e – solo ove ritenuto necessario - prelievo con tampone), volti al controllo delle condizioni di salute nei soggetti che, a vario titolo, fanno ingresso all’interno delle carceri, possono ritenersi presidi sufficienti a contenere il rischio di contagio, oppure si tratta di una sfida già persa anche alla luce delle notizie di stampa inerenti un possibile contagio di un detenuto ristretto nell’istituto di Modena?
Riccardo Arena: purtroppo il rischio di contagio nelle carceri è e resta elevatissimo e le misure adottate fino ad ora mi sembrano del tutto insufficienti rispetto alla reale gravità della situazione. Il punto è che esattamente come sta succedendo per noi cittadini liberi, anche nelle carceri l’emergenza per il coranovirus non è stata governata, non è stata affrontata in modo serio e soprattutto non sono state messe in campo misure capaci di prevenirne la diffusione. Infatti, i controlli su chi viene arrestato si limitano alla misurazione della febbre, mentre ancora oggi non sappiamo chi nelle carceri è positivo o chi è negativo e questo semplicemente perché né gli agenti penitenziari né i detenuti sono stati sottoposti ai tamponi. Insomma, quando l’epidemia ha iniziato a diffondersi in Italia, occorreva subito concentrasi anche su luoghi chiusi come le carceri dove è più facile la diffusione del virus. Ma, tranne la sospensione dei colloqui con i familiari, poco o nulla è stato fatto. Un’omissione grave, visto che il sistema sanitario presente nelle carceri è pressocchè inesistente.
Michela Petrini: nella prospettiva di valorizzare qualsivoglia misura o provvedimento volto a prevenire il rischio di contagio o, quantomeno, a limitarne l’espansione, può ritenersi condivisibile la scelta di alcuni magistrati di applicare nella fase precautelare e cautelare la misura degli arresti domiciliari anche per reati molto gravi, oppure di stabilire modalità di esecuzione della pena (definitiva) diverse dalla detenzione in carcere?
Riccardo Arena: credo di sì, anche perchè a differenza dell’indulto, si tratterebbe di provvedimenti mirati, adottati caso per caso, che consentirebbero di selezionare chi merita di uscire e chi non lo merita. Infatti, sono tantissimi i detenuti che in base alla pena da scontare potrebbero già oggi essere sottoposti alla detenzione domiciliare, sempre che ovviamente abbiano un domicilio. Basti pensare che sono 8.682 le persone detenute che hanno un residuo di pena inferiore ad un anno, mentre sono 8.146 le persone detenute che devono scontare da uno a due anni. Insomma, un ampio numero di persone che pesano sul sistema carcerario e che comunque sarebbero destinate ad uscire presto. Ecco credo che su questi numeri ora, come in passato, si ponga la nuova sfida per la magistratura soprattutto di sorveglianza
Michela Petrini: i gravissimi e recenti episodi di protesta negli istituti penitenziari sono da ricollegare alle criticità della situazione contingente, oppure, come sostenuto da Marcello Bortolato, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, “il virus ha scoperchiato una pentola che era già in ebollizione?”
Riccardo Arena: non credo che la causa delle rivolte sia nella mera sospensione dei colloqui con i familiari. Casomai questo provvedimento è stato utilizzato in modo strumentale per tentare di avanzare altre richieste che nulla centrano con il contagio; tuttavia, ha ragione il Cons. Bortolato, le carceri erano già una polveriera che, lasciata abbandonata a se stessa per l’ennesima volta, alla fine è esplosa.
Michela Petrini: quanto pesa la situazione di sovraffollamento e quanto l'assenza di opportuni provvedimenti da parte del Governo e del Ministro della Giustizia? Quali sono i numeri? Quali sono le rivendicazioni?
Riccardo Arena: la situazione del sovraffollamento è drammatica e ci riporta ai numeri che c’erano prima della sentenza Torreggiani. Oltre 61.200 persone detenute stipate in circa 47.000 posti effettivi e rinchiuse in carceri vecchie e che cadono a pezzi. Quindi, non solo si costringono le persone detenute a vivere in celle sovraffollate dove spesso mancano i famosi 3 mq a testa per potersi muovere, ma si tollera il sovraffollamento in luoghi inidonei alla detenzione. Un contesto che umilia le persone, che vanifica le finalità della pena e che mette a rischio la nostra tanto declamata sicurezza.
Michela Petrini: è accettabile che le proteste divampate nelle carceri per la vicenda Covid 19 si siano trasformate in richieste di provvedimenti clemenziali rivendicati con sommosse che hanno messo a rischio l'incolumità degli agenti penitenziari? Si ricordano sommosse analoghe e, se si, in quali occasioni?
Riccardo Arena: intanto la violenza va condannata sempre. Quanto alle richieste di provvedimenti clemenziali legati al diffondersi del virus, mi sembrano richieste del tutto irrazionali e non capisco il nesso che ci possa essere tra Coronavirus e sovraffollamento. Ora, è comprensibile la paura e l’esasperazione di chi sta in carcere in un momento tanto drammatico, tuttavia la richiesta di un indulto avanzata oggi da alcuni detenuti non mi convince e temo che possa essere meramente strumentale. Infatti, un conto è una protesta non violenta che chiede un indulto a causa del sovraffollamento in luoghi osceni, della mancanza di intravedere un futuro migliore, della negazione del diritto alla salute. Altra cosa è chiedere di uscire dal carcere perché c’è l’emergenza Coronavirus. Domando: facciamo uscire i detenuti in modo indistinto senza sapere chi è infetto e chi non lo è? Ed ancora. E se uno è positivo, lo lasciamo tornare a casa libero di contagiare gli altri? Francamente quella dell’indulto mi sembra una richiesta che oggi è priva di razionalità. Più serio sarebbe chiedere di fare i tamponi ai detenuti e agli agenti che vivono o che lavorano nelle carceri delle regioni a rischio e dopo, una volta che si hanno i dati oggettivi, studiare misure adeguate da adottare caso per caso.
Michela Petrini: quali saranno, secondo lei, gli effetti delle proteste in atto, sul piano individuale e in ordine alla situazione delle carceri in Italia?
Riccardo Arena: ma…in questo impazzimento generale, dove governa il comunicato e non il contenuto, tutto può succedere…
di Daria Passaro
Sommario: 1. Lo spazio d’azione dell’amministratore di sostegno nel rifiuto delle cure. La legge n. 219/2017 nel mirino della Corte Costituzionale. - 2. La sentenza del Giudice delle Leggi n. 144 del 2019: un sistema “a doppia tutela”. La veste del giudice tutelare. - 3. L’intervento nel giudizio di costituzionalità. Negazioni, contraddizioni e recenti aperture.
1. Lo spazio d’azione dell’amministratore di sostegno nel rifiuto delle cure. La legge n. 219/2017 nel mirino della Corte Costituzionale.
L’istituto dell’amministrazione di sostegno, introdotto dalla legge n. 6/2004 è rivolto alla persona che, per effetto di un’infermità ovvero di una menomazione psico-fisica, si trovi nell’impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi personali e patrimoniali. Precisamente, la stessa potrà essere assistita da un amministratore di sostegno (ADS), nominato dal giudice tutelare del luogo in cui il beneficiario ha la residenza o il domicilio.
La figura dell’ADS esprime una specifica concezione dell’ordinamento civile diretta a sradicare dal concetto di malattia il sostrato di piena disabilità. Si tratta di un’innovazione di non poco momento volta a evitare l’isolamento del disabile e a promuovere la sua integrazione nel tessuto sociale, valorizzandone le possibilità, più o meno estese, di autodeterminazione e relegando a residualità le tradizionali e maggiormente incisive misure dell’interdizione e dell’inabilitazione, dalla portata fortemente limitativa.
L’amministrazione di sostegno configura la massima realizzazione di un concetto di flessibilità che, a superamento di vetuste concezioni, accende i riflettori sulla residuale capacità d’agire del soggetto beneficiario, tessendo una trama di misure di protezione attente alle reali necessità del soggetto. La ratio è di immediata percezione: evitare di elidere, per quanto possibile, l’autonomia personale di soggetti affetti da incapacità motorie o psichiche.
L’essenza spiccatamente “a misura d’uomo” dell’istituto e la connaturata flessibilità a cui è ispirato hanno fisiologicamente dato vita ad annose questioni circa i limiti e l’estensione dei poteri dell’amministratore di sostegno. Dove si spingono le sue funzioni? Dove finisce il ruolo di sostegno dell’ADS e dove comincia quello di tutela del giudice? Nell’universo, dai confini ancora incerti e tutti da disegnare, del fine vita, è possibile contemplare per l’amministratore un potere di rifiuto delle cure, nell’interesse del proprio amministrato?
A tal proposito, con ordinanza del 24 marzo 2018 il giudice tutelare Tribunale di Pavia ha sollevato una complessa questione di legittimità costituzionale, investendo l’articolo 3, commi 4 e 5, della l. 219/2017, legge in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento (DAT). L’assunta incostituzionalità si radicherebbe nella parte in cui la stessa norma stabilisce che l’amministratore di sostegno, la cui nomina preveda l’assistenza necessaria o la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, in assenza di disposizioni anticipate, possa rifiutare, senza bisogno alcuno di autorizzazione da parte giudice tutelare, le cure necessarie al mantenimento in vita dell’amministrato. Un vero e proprio diritto a rifiutare trattamenti anche salvavita, dai confini poco visibili ad occhio nudo.
Il contrasto si verificherebbe, invero, con gli artt. 2, 3, 13 e 32 della Costituzione, determinandosi in capo all’ADS un’arbitraria attribuzione del potere di decidere della vita e della morte del soggetto incapace.
Letteralmente, il comma 5 dell’articolo 3, l. 219/17, sancisce espressamente che, in caso di opposizione del medico all’interruzione delle cure, sia possibile l’intervento del giudice tutelare, mentre, a contrario, detto intervento non sia prefigurato nell’ipotesi in cui il medico non si opponga.
Il giudice rimettente ha fondato la sollevazione di costituzionalità sull’assunto in base al quale la libertà di rifiutare le cure presuppone il ricorso a valutazioni di vita e di morte, squisitamente soggettive e personalistiche, foriere di questioni etico-religiose. Il nesso è immediato. L’amministratore non può e non deve decidere “al posto” dell’incapace, stante il diritto personalissimo a rifiutare le cure, riflesso dell’indisponibilità e intrasferibilità del bene vita.
Lo sguardo attento del giudice a quo osserva che, affinché la determinazione circa il rifiuto delle cure sia espressione dell’interessato e non di chi lo rappresenta, la medesima debba risultare da apposite DAT o, in mancanza, dall’accurata ricostruzione della volontà dell’incapace. Un processo di ricerca tanto serio quanto complesso, che recherebbe con sé la necessità di servirsi dell’imprescindibile intervento del giudice, in qualità di soggetto terzo e imparziale, capace di tutelare la persona umana nella sua intima essenza, lungi da qualsivoglia annichilimento del diritto a decidere sulla propria vita, per mano d’altri.
In assenza del braccio protettivo del giudice-tutelare-garante dei diritti personalissimi, l’attribuzione all’ADS di un potere ipoteticamente incondizionato e incontrollato attinente alla vita e alla morte, si tradurrebbe in una concreta etero-determinazione, un dominio potenzialmente totale, dai marcati contorni incostituzionali.
La censura di incostituzionalità trasparirebbe, in particolar modo, con l’articolo 2 della Carta Costituzionale, determinandosi il pieno disconoscimento dell’inviolabilità del diritto alla vita, da intendersi come concreta negazione ad altri della possibilità di violarlo in qualsiasi forma. Un contrasto che si assume insanabile, visto l’intervento giudiziale come meramente ipotetico e accidentale, subordinato alla sussistenza di un eventuale dissidio tra medico e amministrato circa l’interruzione dei trattamenti salvavita per l’interessato.
Il giudice rimettente, inoltre, intravede nelle norme stigmatizzate un netto contrasto, ai limiti del paradosso, con l’articolo 3 della Costituzione, imperniato sul principio di uguaglianza, altresì nella declinazione di non irragionevolezza. A ben vedere, si verificherebbe un’incoerenza sistematica nella disciplina dell’istituto dell’amministrazione di sostegno, laddove ai sensi dell’articolo 411 del codice civile si prevede la necessaria autorizzazione del g.t. per il compimento degli atti ex artt. 374 e 375 c.c. attinenti alla sfera patrimoniale. Ebbene, a detta del giudice di Pavia, sarebbe totalmente irrazionale non prevedere tale autorizzazione in caso di manifestazione del rifiuto delle cure, finendo l’ordinamento per apprestare ad interessi d’ordine patrimoniale una salvaguardia superiore a quella relativa ai diritti fondamentali, in spregio a quella gerarchia dei beni costituzionalmente presidiati che può e deve guidare il legislatore nella predisposizione delle tutele.
Eppure, la rilevata ipotesi di incostituzionalità sarebbe ancor più evidente se si focalizzasse l’attenzione sulla ratio della legge n. 219/17, dalla portata fortemente riformatrice, nata con l’intento di valorizzare il consenso informato nella relazione medico-paziente, quale precipitato della volontà del singolo. Come può venire meno la stessa attenzione all’intimo animus dell’individuo, laddove si tratti di soggetti incapaci? Ad una maggiore incapacità, a rigor di logica, dovrebbe corrispondere una maggior tutela dell’elemento volontaristico, oltremodo in soggetti che manifestano una impossibilità di esternarlo.
2. La sentenza del Giudice delle Leggi n. 144 del 2019: un sistema “a doppia tutela”. La veste del giudice tutelare.
Dinanzi alle prepotenti spinte e alle abili censure mosse dal giudice a quo, la Corte Costituzionale ha, pur tuttavia, ritenuto che le questioni di legittimità costituzionale non fossero fondate. Il pronunciato della Corte, con sentenza n. 144 del 13 giugno 2019, ha difatti sancito la assoluta conformità a Costituzione dell’articolo 3, commi 4 e 5, della Legge sul consenso informato e sulle DAT.
In occasione di tale decisione, la stessa ha contribuito a meglio ribadire l’intrinseca essenza e i fini della legge n. 219/2017, nonché i corrispondenti ruoli e limiti dell’amministratore di sostegno e del giudice tutelare. A riprova di come il Giudice delle Leggi, in sede di sindacato, abbia sì ritenuto infondata la questione ma, sostanzialmente, ne abbia recepito le preoccupazioni.
La Corte costituzionale, principaliter, ha rilevato che l’asserito contrasto con la Carta Fondamentale poggiasse su un presupposto interpretativo erroneo, osservando, in primo luogo, come la legge del 2017 nascesse per dare attuazione al principio del consenso informato nell’ambito della relazione di cura e fiducia tra paziente e medico. Trattasi di quel diritto a ricevere le opportune informazioni che trova fondamento costituzionale proprio negli artt. 2, 3, 13 e 32 della Carta, attinenti al diritto alla vita, alla salute, alla libertà personale; norme fondamentali che il giudice di Pavia, erroneamente, assume violate.
In secondo luogo, la legge n. 219/17 ha introdotto il rivoluzionario istituto delle DAT nonché, all’articolo 3, la disciplina applicabile nel caso in cui il paziente sia una persona non pienamente capace di agire, bensì minore di età, interdetta, inabilitata o, per quel che in questa sede rileva, beneficiaria di amministrazione di sostegno.
Tanto premesso, la disposizione di cui all’art. 3 stabilisce da un lato che, quando la nomina dell’amministratore di sostegno preveda l’assistenza necessaria o la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, «il consenso informato è espresso o rifiutato anche dall’amministratore di sostegno ovvero solo da quest’ultimo, tenendo conto della volontà del beneficiario, in relazione al suo grado di capacità di intendere e di volere» (art. 3, comma 4); dall’altro, che, in mancanza di DAT, se l’amministratore di sostegno rifiuta cure che il medico reputa invece appropriate e necessarie, la decisione è rimessa al giudice tutelare, su ricorso dei soggetti legittimati a proporlo (art. 3, comma 5). Le norme in esame, dunque, sono tese a disciplinare ed analizzare casi particolari di espressione o di rifiuto del consenso informato, anche -ma non solo- allorquando questo riguardi trattamenti sanitari necessari alla sopravvivenza.
Ebbene, nell’ottica della Corte Costituzionale, l’inciampo interpretativo del giudice rimettente consiste nel non aver colto il dettaglio per cui le norme incriminate non disciplinano le modalità di conferimento e di esercizio dei poteri dell’ADS in ambito sanitario, situazioni regolate, per contro, dagli artt. 404 ss. del codice civile. Ne deriva che, se le norme oggetto di sindacato costituzionale non forniscono la disciplina dell’istituto dell’amministrazione di sostegno, l’esegesi delle stesse deve essere condotta alla luce della normativa codicistica, al fine di individuare e comprendere con certezza i poteri spettanti al giudice tutelare al momento della nomina dell’amministratore.
Dall’interpretazione “costituzionalmente orientata” della l. 6 del 2004, emerge che l’ambito dei poteri dell’ADS è correlato alle caratteristiche del caso concreto, secondo quanto stabilito dal giudice tutelare in sede di provvedimento di nomina; quest’ultimo fornisce, in particolare, indicazioni circa l’oggetto dell’incarico e gli atti a potere dell’amministratore, in nome e per conto del beneficiario.
A detta del giudice delle Leggi, l’istituto de quo si presenta come uno strumento il cui primario obiettivo è proteggere senza mortificare la persona affetta da disabilità, consentendo al G.T. di adeguare la misura alla situazione concreta della persona interessata, variandola nel tempo, sì da garantire all’amministrato la massima tutela possibile con minor sacrificio della propria capacità di autodeterminazione. Dunque, un istituto duttile ispirato alla flessibilità, plasmato dal giudice sulla base delle esigenze dell’incapace, ove la tendenza a limitare nella minor misura possibile la capacità di agire del disabile marca una profonda differenza con i classici istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione.
Il fulcro del ragionamento addotto dalla Corte Costituzionale a fondamento del rigetto della questione sollevata, è radicato nell’affermazione per cui il beneficiario di ADS ben può essere privato della capacità di porre in essere atti personalissimi, ivi compreso il rifiuto delle cure, quando ciò tuteli i suoi interessi; nondimeno, tale privazione esige un’espressa disposizione da parte del giudice tutelare, in sede di provvedimento di apertura dell’amministrazione ovvero successivamente. In questa direzione, il quadro normativo concernente l’amministratore di sostegno consente alla Corte di sancire l’erroneità del presupposto interpretativo delle censure avanzate dal giudice di Pavia: contrariamente a quanto sostenuto, le norme censurate non attribuirebbero “ex lege” ad ogni ADS munito di rappresentanza esclusiva in ambito sanitario altresì il potere di esprimere o meno il consenso informato ai trattamenti di sostegno vitale. Solo il giudice tutelare, allora, con decreto di nomina, è in grado di individuare poteri e limiti dell’incarico coperto dall’amministratore in nome e per conto del beneficiario, allo stesso giudice spettando, in tal guisa, il compito di circoscrivere i poteri in ambito sanitario sulla base del caso di specie e delle concrete condizioni di salute del disabile. Una decisione, quella del G.T, circa il conferimento o no del potere di rifiutare le cure, che deve rispondere e corrispondere alle circostanze concrete e allo stato di salute del soggetto in quel preciso momento.
Conseguentemente, il giudice costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità sollevate, sottolineando che un’attenta esegesi dell’art. 3, commi 4 e 5, della legge n. 219 del 2017, posti i principi che conformano l’amministrazione di sostegno, porta a negare con convinzione che il conferimento della rappresentanza esclusiva in ambito sanitario rechi con sé, anche e necessariamente, nonché automaticamente, il potere di rifiutare i trattamenti sanitari necessari al mantenimento in vita, incluse alimentazione e idratazione artificiali.
Le norme censurate si limitano a disciplinare, si ribadisce, il caso specifico in cui l’amministratore di sostegno sia stato investito anche di tale potere, da intendersi come il potere non di occuparsi ordinariamente della salute del soggetto, ma di adottare, eventualmente, le decisioni estreme di sospensione o rifiuto delle cure. Lungi da qualsiasi attribuzione automatica o obbligo di conferimento, spetta sempre e solo al giudice tutelare attribuire detto potere in sede di nomina o successivamente, allorché lo richieda il decorso della patologia del beneficiario.
Indubbiamente, una legge ed un’interpretazione costituzionalista che lasciano un margine, più o meno ampio, di discrezionalità ai giudici. L’auspicio che, nella prassi, il G.T. autorizzi la sospensione dei trattamenti vitali nei soli casi di accanimento terapeutico, non esime dal riflettere sul sistema delineato, che appare ispirato alla “doppia tutela”: su un versante, il ruolo dell’amministratore di sostegno, che esprime la “voce” del beneficiario, sull’altro, l’onnipresente giudice tutelare, incaricato di effettuare un controllo costante, una protezione a monte in sede di nomina dell’ADS, nonché a valle, potendo modificare le proprie determinazioni in qualsiasi momento, sulla base del concreto interesse del disabile.
Immediato il nesso con il più ampio tema dei poteri del giudice, garante della dignità umana, specie nel rapporto col legislatore. Una problematica che investe particolarmente il mondo del biodiritto, ove il progresso medico e tecnologico avanza velocemente e pone questioni etico-giuridiche su cui il giudice (comune o costituzionale che sia) è chiamato a intervenire con prontezza, risolvendo casi specifici, concreti e attuali, mentre il legislatore spesso fatica a stare al passo.
Il contesto del biodiritto e del finevita, si pensi ai casi mediatici di Eluana Englaro, Piergiorgio Welby e Dj Fabo, impone al giudice di vestire spesso il suo abito più coraggioso, quello pseudo-normativo, risultato di complessi bilanciamenti tra diritti fondamentali, con conseguenze sì circoscritte al caso pratico ma dalla incisiva ridondanza.
La stessa legge n. 219/17 comprende espressi poteri attribuiti all’interprete e al giudice, al fine di scongiurare possibili vuoti di tutela. Dal momento che al centro della suddetta si pone il consenso ai trattamenti sanitari come massima proiezione del fondamentale diritto all’autodeterminazione, il rifiuto delle cure costituisce “l’altro lato del consenso” e impone, per ciò solo, l’intervento del giudice tutelare, nei termini di cui si è detto.
Per quanto riguarda lo spazio specifico riservato al giudice nella legge sul consenso informato del 2017, la stessa prevede espressamente due tipi di intervento del G.T.: nell’ipotesi in cui l’amministratore di sostegno rifiuti le cure, contro l’opposizione del medico (art. 3, comma 5), e nell’ipotesi di contrasto tra medico e fiduciario nominato con le DAT (art. 4, comma 5). Tuttavia, il silenzio del legislatore su altri casi di intervento giudiziale può essere interpretato come impossibilità di pronosticare tutte le possibili eventualità della vita reale, una voluta lacuna legislativa che inevitabilmente richiederà la funzione “integratrice” di tutela del giudice.
Se tale può ritenersi il quadro generale, allora il giudice tutelare, per effetto della l. 219/17 ha subito una rivoluzione senza precedenti, divenendo una figura centrale nella protezione della persona umana e delle scelte terapeutiche a lei destinate; compito tanto significativo quanto complesso, che presuppone, oltre ad una approfondita conoscenza del diritto positivo e della giurisprudenza nazionale e sovranazionale, una capacità di comprendere gli aspetti umani più fragili, un’attitudine a percepire i contorni etici più delicati. Solo a tali condizioni il giudice può indossare le vesti di “garante” della dignità umana, nella vita e, soprattutto nelle decisioni di morte.
Quale debba essere il miglior modello di giudice, adatto a svolgere tali funzioni? Presumibilmente, un uomo sensibile, tanto attento ai confini etico-giuridici quanto carico di umana empatia, a difesa di soggetti malati, vulnerabili, incapaci di autotutelarsi o difendersi dalla sopraffazione. In tutta probabilità, uno degli abiti più scomodi e difficili da indossare per un giudice.
3. L’intervento nel giudizio di costituzionalità. Negazioni, contraddizioni e recenti aperture.
Nel corso del giudizio costituzionale sfociato nella sentenza n. 144/2019, hanno comunemente depositato un atto di intervento le associazioni Unione Giuristi Cattolici Italiani (UGCI)- Unione Locale di Piacenza e Unione Giuristi Cattolici di Pavia, chiedendo l’accoglimento delle questioni avanzate dal giudice rimettente.
Tali associazioni, in riferimento alla propria legittimazione ad intervenire, hanno ritenuto sussistente un “prevalente interesse etico” tale da consentire la più larga partecipazione nel giudizio di costituzionalità da parte di associazioni che figurassero come “espressioni della società civile”.
In particolare, l’UGCI ha evidenziato che, a livello statutario, l’Unione nasce con lo scopo di contribuire all’attuazione dei principi dell’etica cristiana nella scienza giuridica, nonché nell’attività legislativa, giurisdizionale e amministrativa; di favorire la tutela della persona umana e di richiamare l’attenzione dei giuristi sui problemi giuridici derivanti dalla rapida e incessante evoluzione sociale, al fine di trovare soluzioni rispondenti al bene comune. Lo stesso dicasi per lo Statuto dell’Unione di Pavia che ha recepito le finalità statutarie dell’UGCI, onde garantire una concezione di diritto che assicurasse la giustizia tra gli uomini, oltremodo attraverso un’adeguata preparazione spirituale, culturale, professionale e deontologica dei giuristi.
Da tali premesse, fatte proprie nell’atto di intervento depositato, parrebbe evidente il concreto interesse delle associazioni intervenienti a contribuire e ad interloquire nella questione portata alla attenzione della Corte, non solo per la pregnanza morale della stessa, ma anche per all’attinenza ai temi della salute, della vita e della morte, dei diritti fondamentali presidiati nella Carta Costituzionale. Come asserito dalle intervenienti, il prevalente interesse etico della questione all’esame della Corte indurrebbe agevolmente ad ammettere una più ampia partecipazione di enti ed associazioni, titolari, per ciò solo, di interessi direttamente coinvolti nella disciplina normativa censurata.
Nel merito, le intervenienti osservavano come la normativa stigmatizzata fosse foriera di abusi, potendo degenerare nel rifiuto delle cure e nella “soppressione” arbitraria di pazienti incapaci; tale problema, a detta delle stesse, si presenterebbe anche in caso di regolari DAT, vista l’impossibilità pratica di ricostruire la volontà del soggetto per mezzo di una mera fictio iuris.
La posizione di netta condanna, avanzata dalle associazioni de qua in sede di atto di intervento, poneva vizi di costituzionalità ancora più radicali di quelli prospettati dal giudice di Pavia, finendo col dubitare in ogni caso della legittimità costituzionale della privazione di trattamenti sanitari salvavita, con o senza la presenza di DAT.
Nonostante prima facie fossero valide le ragioni addotte dalle associazioni menzionate, il Giudice delle Leggi ha dichiarato inammissibile l’intervento dell’UGCI- Unione Locale di Piacenza e Unione Giuristi Cattolici di Pavia. A fondamento dell’inammissibilità, la constatazione per cui al giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale possono partecipare, secondo la legge n. 87 del 1953, le parti del giudizio a quo e il Presidente del Consiglio dei ministri; altri interventi sono ammissibili solo allorquando i terzi siano titolari di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio, e non meramente regolato, al pari di ogni altro, dalle norme censurate.
Stando alla Corte, nel caso di specie, le associazioni intervenienti non possono essere considerate titolari di tale interesse qualificato, posto che il giudizio di costituzionalità non è destinato a produrre nei loro confronti effetti immediati, né indiretti. Le stesse, pertanto, non vanterebbero una posizione giuridica suscettibile di pregiudizio da parte della sopravvenuta decisione giurisdizionale, bensì un generico interesse legato al perseguimento dei propri scopi statutari.
Nondimeno, la negazione dell’intervento associazionista da parte della Corte pone una serie di rilevanti interrogativi e di possibili contraddizioni, attesa la difficoltà di discernere quali e quanti terzi possano interloquire in un giudizio costituzionale che, in questi termini, appare essere “a porte chiuse”.
A tal proposito, si richiamano alcune decisioni con cui la Corte ha ammesso l’intervento di terzi in qualità di enti rappresentativi di interessi collettivi; proprio in ragione del carattere rappresentativo dell’interesse collettivo direttamente coinvolto dalla questione, è stato in varie occasioni consentito l’ingresso di enti o associazioni di categoria. In effetti, la Corte Costituzionale ha ammesso l’intervento di ordini professionali in giudizi relativi ai doveri e diritti del professionista. Si pensi alla sent. 456/1993 che ha reso possibile la costituzione in giudizio della Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e odontoiatri, o alla sent. n. 171/1996 che ha visto la partecipazione del Consiglio Nazionale Forense in sede di sindacato costituzionale. A riprova di come sia ravvisabile una posizione giuridica “qualificata” altresì in soggetti “associativi”, per loro natura diretti alla tutela di interessi collettivi.
Ad oggi, l’orientamento “negazionista” portato avanti dalla Corte apre la strada a nuove riflessioni, ispirate anche al noto caso Dj Fabo. A tal riguardo, con sentenza n. 242 del 25 settembre 2019, il Giudice delle Leggi ha dichiarato l’art. 580 cod. pen., sull’aiuto al suicidio, costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge n. 219 del 2017, agevola l’esecuzione del proposito suicidario, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, causa di sofferenze fisiche o psicologiche ritenute intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli; sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente.
In questa sede, la riflessione è imperniata sulla espressamente prevista necessità di previo parere fornito da tale comitato etico nelle ipotesi di aiuto al suicidio. La Corte intervenuta nel caso Fabo, in relazione alla (non) punibilità dell’aiuto al suicidio prestato da Marco Cappato, ha prioritariamente sancito che la verifica delle condizioni legittimanti l’aiuto al suicidio deve restare affidata, in assenza di apposita disciplina legislativa, a strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale, le quali verificheranno le relative modalità di esecuzione così da evitare abusi in danno di persone vulnerabili e da garantire la dignità del paziente.
Tanto non è stato ritenuto sufficiente dal giudice delle Leggi in sede di aiuto al suicidio: la delicatezza del bene vita richiede, secondo la Corte, l’intervento di un organo collegiale terzo, munito di adeguate competenze, atto a tutelare situazioni di particolare vulnerabilità. Ciò premesso, in attesa dell’intervento del legislatore, detto compito è stato affidato ai comitati etici territorialmente competenti. Questi comitati, da intendersi quali organismi di consultazione e di riferimento per i problemi di natura etica che possano presentarsi, rivestono funzioni consultive intese a garantire la tutela dei diritti e dei valori della persona in confronto alle sperimentazioni cliniche di medicinali o all’uso di questi e dei dispositivi medici. Si tratta, evidentemente, di funzioni a salvaguardia di soggetti vulnerabili.
Ad una più attenta analisi, se nella delicata materia dell’aiuto al suicidio è stata contemplata la necessaria “partecipazione” di comitati “terzi” rispetto ai casi che nella prassi si presentano, allora risulta difficile comprendere come, nel poco precedente giudizio di costituzionalità di cui alla sent. n. 144 del giugno 2019, si sia negata l’interlocuzione delle Associazioni di cui sopra; in una materia, inoltre, che egualmente coinvolge la l. 219/17 e il fine vita, seppure dal punto di vista dei poteri del rifiuto delle cure da parte dell’ADS. Forse, se la questione di costituzionalità sollevata dal giudice di Pavia avesse trovato risposta in un momento successivo alla pronuncia circa l’aiuto al suicidio, l’atto delle intervenienti sarebbe stato ammesso.
Il rilievo decisivo, tuttavia, nasce dalle recentissime modifiche regolamentari in materia di giudizi dinanzi alla Consulta. Per vero, con delibera dell’8 gennaio 2020, sono state apportate modifiche alle norme che regolano i giudizi davanti alla Consulta. Il nuovo articolo 4-ter delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale prevede che qualsiasi formazione sociale senza scopo di lucro e qualunque soggetto istituzionale, quando siano portatori di interessi collettivi o diffusi attinenti alla questione in discussione, potranno presentare brevi opinioni scritte per fornire alla Corte elementi utili alla miglior valutazione del caso sottoposto al suo vaglio. Inoltre, è stata prevista la possibilità per la Corte di convocare esperti di chiara fama, qualora ritenga necessario acquisire informazioni su specifiche discipline; confronto con gli esperti che si svolgerà in camera di consiglio, alla presenza delle parti. Infine, si è stabilito che nei giudizi in via incidentale, potranno intervenire, oltre alle parti di quel giudizio e al Presidente del Consiglio dei ministri, anche altri soggetti, purché titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato a quel giudizio.
Attraverso queste recenti revisioni, la Consulta si è resa disponibile all’ascolto della società civile. A conferma di tali aperture, lo scorso 27 febbraio 2020, con ordinanza n. 37, in merito alle condizioni di ammissibilità dell’intervento del terzo nel giudizio davanti alla Corte Costituzionale, è stata dichiarata ammissibile la richiesta di intervento dell’Ordine dei giornalisti (CNOG) nel giudizio di costituzionalità sollevato dal Tribunale di Salerno con ordinanza del 9 aprile 2019, avverso le norme che puniscono con pena detentiva il reato di diffamazione a mezzo stampa da parte del giornalista e del direttore responsabile. Una questione complessa in cui, comprensibilmente, il CNOG non resterà a guardare.
Appare quasi lapalissiano come, se la questione di costituzionalità sollevata dal giudice di Pavia fosse stata decisa in tempi attuali, alla luce delle sopravvenute modifiche, l’atto di intervento dell’UGCI e seguenti sarebbe stato, con ogni probabilità, ammesso. E chissà se la pronuncia della Corte, circa i poteri dell’amministratore di sostegno nel rifiuto delle cure, non sarebbe stata totalmente diversa. Ai posteri le “ardue sentenze”.
Riferimenti bibliografici
BENELLI, F., Il contraddittorio nel processo sulla legge, Pisa, 2007.
FRATINI, M., CHINÈ, G., ZOPPINI, A., Manuale di diritto civile, Neldiritto Editore, 2019.
LODDO, P., L’amministratore di sostegno, Cedam, 2019.
LUPO, E., Recensione a Scelte di vita o di morte: il giudice è garante della dignità umana? Relazione di cura, DAT e “congedo dalla vita” dopo la L. 219/2017, di Roberto Giovanni Conti, Aracne, 2019.
MONACO G., La concretezza del giudizio incidentale sulle leggi, Milano, 2016.
NAPOLI, G.E., Strumenti di protezione della persona, Napoli, 2017. NOCCELLI, M., La cura dell’incapace tra volontà del paziente, istituti di tutela ed organizzazione del servizio sanitario., 2018.
PULITANO, D., Il diritto penale di fronte al suicidio, Milano, 2018;
ROMBOLI R., Il Giudizio costituzionale incidentale come processo senza parti, Milano, 1985.
RIFERIMENTI GIURISPRUDENZIALI
Per installare questa Web App sul tuo iPhone/iPad premi l'icona.
E poi Aggiungi alla schermata principale.