ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Pandemia COVID-19 ed equilibrio di bilancio: alcune considerazioni di diritto tributario eurounitario.
di Roberto Succio
La prima esecuzione dell'Inno alla Gioia di Ludwig van Beethoven ebbe luogo a Vienna al 'Kärntnertor Theater' il 7 Maggio 1824 […]L'orchestra era teoricamente diretta da Beethoven stesso, ma in realtà il vero direttore era il maestro di cappella Michael Umlauf. L'esecuzione fu perfetta e l'emozione che suscitò sul pubblico enorme. Beethoven, dopo l'ultima nota della prima esecuzione della Nona Sinfonia, rimase per parecchi secondi assorto nella sua sordità, seduto vicino al direttore con le spalle rivolte al pubblico che applaudiva furiosamente. La cantante Caroline Unger, che appena ventenne aveva preso parte come solista all'esecuzione, ruppe il protocollo per costringerlo a voltarsi affinché vedesse l'esultanza della folla e capisse quale grande successo aveva riscosso, lasciò il suo posto e si avvicinò a Beethoven, ancora chino sul leggio e rivolto verso gli orchestrali, gli toccò il braccio mentre egli le diede un'occhiata severa, ma Caroline insistette e lo voltò verso la folla che acclamava entusiasta sventolando un mare di fazzoletti bianchi. In una 'standing ovation', prima una persona, poi tutto il pubblico si alzarono.
Chi gli era vicino racconta che una singola, piccola lacrima di gioia luccicò sulla gota del compositore.
SOMMARIO: 1. Premesse; 2. Il forte incremento del debito pubblico come scelta vincolata e consentita dal diritto dell’Unione; 3.Le misure del d.l. “cura Italia”; 4. Le indicazioni della Commissione UE in tema di aiuti di Stato ed interventi di contrasto alla pandemia; 5. Considerazioni conclusive
1. Premesse
La diffusione, ormai mondiale, del contagio da Covid-19 pone tra l’altro nuovi e delicati problemi economici alla nazione.
L’Italia, la terza maggiore economia del blocco dei paesi, è da tempo su una linea di “spaccatura”, una faglia dell’eurozona. E, come ha scritto il fisico Per Bak, quando una faglia si apre, altre vacillano, causando una reazione a catena di terremoti.
L'impatto sull'economia avviene attraverso diversi canali; sopravviene uno shock dell'offerta dovuto alla perturbazione delle catene di approvvigionamento; segue un ulteriore shock della domanda determinato da una minore domanda da parte dei consumatori; ne deriva l'effetto negativo dell'incertezza sui piani di investimento e l'impatto dei problemi di liquidità per le imprese.
Grande interesse, in questo contesto, ha suscitato l’intervento recente e autorevole di Mario Draghi sul Financial Times[1]; l’ex Presidente della BCE è tra le poche voci sin qui levatesi non solo ad annunciare recessione e sventura, ma a indicare con argomenti convincenti e chiarezza espositiva i comportamenti che governi, istituzioni e contribuenti dovranno seguire per reagire alla crisi più grave nella quale l’Europa e il mondo intero si trovano dal secondo conflitto mondiale.
L’eccezionalità della situazione richiede alle istituzioni - e anche ai giuristi – la formulazione di ragionamenti eccezionali, sia pur nel rispetto dei principi costituzionali e della logica giuridica; sommessamente ritengo che i formalismi e le raffinate interpretazioni debbano cedere di fronte alla “ratio” delle previsioni e dei trattati unionali, dei quali a mio avviso non può adottarsi una visione né segmentata né avulsa dal contesto - sostanzialmente bellico, come riconosce anche il titolo dell’articolo di Draghi - nel quale ci troviamo.
L’art. 3 del TUE, nel delineare gli obiettivi dell’Unione, contiene un’espressione apparentemente contraddittoria. Secondo questa disposizione, la costruzione del mercato interno è basata su una crescita economica equilibrata, sulla stabilità dei prezzi e «su una economia sociale di mercato fortemente competitiva»; essa è intesa come un soddisfacente ordine di libertà e di uguaglianza. Nel programma di Ludwig Erhard, il ministro dell’economia e Cancelliere della Repubblica Federale Tedesca, colui che maggiormente contribuì in sede politica alla traduzione dei principi ordoliberali in politiche conformi con la teoria dell’ordine di mercato concorrenziale, l’economia sociale è lo scopo che si consegue tramite il mercato, che opera in qualità di mezzo: il mercato è sempre un mezzo, mai un fine. La concezione di Erhard, ma prima di lui di Eucken, di Röepke, di Grossman-Dörth, di Böm, di Rustov e dello stesso Adenauer, di un’economia sociale di mercato si struttura su questi tre punti: 1. impedire al potere politico di essere sorgente arbitraria del potere; 2. sopprimere ogni struttura monopolistica; 3. fare prevalere in ogni caso la libertà e la concorrenza. E’ interessante notare come la sequenza ed il senso di tale programma incontrino le condizioni di un ordinato sistema politico ed economico raccomandato da Giovanni Paolo II nella Centesimus Annus[2].
L’operazione concettuale che risulta opportuno compiere consiste, per i giuristi nella valorizzazione della forma rispetto alla sostanza: ciò risulta forse più agevole per gli studiosi di diritto tributario, i quali hanno una certa abitudine a non trascurare la sostanza economica dei problemi giuridici che si pongono, dato che i bilanci degli stati e i servizi pubblici necessitano di risorse, non solo di istituti giuridici minuziosamente funzionanti e dato, nondimeno, che i contribuenti possono esser gravati dei tributi solo quanto la capacità contributiva che costoro manifestano è non solo personale ed attuale, ma anche effettiva.
Nessun incremento di imposte, presente o futuro, potrebbe dar risultati, quindi, in una situazione di decrescita economica; anzi, sarebbe fatale.
Tornando alle sagge indicazioni dell’ex presidente della BCE “la risposta deve comportare un aumento significativo del debito pubblico. La perdita di reddito sostenuta dal settore privato – e qualsiasi debito accumulato per colmare le perdite – deve alla fine essere riassorbita, in tutto o in parte, dai bilanci pubblici. Livelli di debito pubblico molto più elevati diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e saranno accompagnati dalla cancellazione del debito privato”.
Quindi, “proteggere l’occupazione e la capacità produttiva in un momento di drammatica perdita di reddito richiede un immediato sostegno di liquidità. È essenziale per tutte le imprese coprire le proprie spese di gestione durante la crisi, siano esse grandi aziende o ancor più piccole e medie imprese e imprenditori autonomi. Diversi governi hanno già introdotto opportune misure per fornire liquidità alle imprese in difficoltà. Ma è necessario un approccio più completo”. In particolare “le banche devono prestare rapidamente fondi a costo zero alle società disposte a salvare posti di lavoro. Poiché in questo modo diventano un veicolo di trasmissione delle politiche pubbliche, il capitale necessario per svolgere questo compito deve essere fornito dal governo sotto forma di garanzie statali su tutti gli scoperti di conto o prestiti aggiuntivi. Né regolamentazioni né norme sulle garanzie bancarie dovrebbero ostacolare la creazione nei bilanci delle banche di tutto lo spazio necessario a tale scopo. Inoltre, il costo di queste garanzie non dovrebbe essere basato sul rischio di credito della società che le riceve, ma dovrebbe essere pari a zero, indipendentemente dal costo di finanziamento del governo che le emette”.
E ancora ”se l’epidemia e il blocco delle attività dovessero perdurare, potrebbero realisticamente rimanere in attività solo se il debito acceso per mantenere al lavoro i dipendenti in quel periodo fosse alla fine cancellato”.
Soprattutto, “la velocità del deterioramento dei bilanci privati - causata da un blocco dell’attività economica che è sia inevitabile quanto opportuno – deve essere affrontata da una uguale velocità nell’impegnare i bilanci pubblici, mobilitare le banche e, in quanto europei, sostenersi a vicenda nel perseguimento di ciò che è evidentemente una causa comune”.
2. Il forte incremento del debito pubblico come scelta vincolata e consentita dal diritto dell’Unione
E’ necessario quindi un notevole aumento del debito pubblico: il suo ammontare però non può esser indefinito, poiché va rispettato in primo luogo l’art. 81 Cost.
È stata la riscrittura di tale articolo, operata con la legge costituzionale n 1. del 2012 a dare attuazione al Fiscal Compact: la novellazione della disposizione in esame ha costituzionalizzato il principio dell’equilibrio tra le entrate e le spese del bilancio. Si è parlato di “pareggio di bilancio”, tuttavia la norma è più elastica: più che un vero e proprio “pareggio” essa impone un più generico “equilibrio[3]”, introducendo così un “principio di sostenibilità del debito” che deve essere adottato da tutte le amministrazioni. Per conseguire questo risultato, da un lato si è abrogato il divieto di stabilire con la legge di bilancio nuovi tributi e nuove spese, dall’altro si è legata la definizione del bilancio all’andamento dei cicli economici “tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli al ciclo economico”.
In questo modo non si esclude completamente il ricorso all’indebitamento, certo però questo deve essere collegato a questi effetti del ciclo economico e deve essere autorizzato dalle Camere con un voto a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti (nonché poi sottoposto al vaglio della Commissione Europea secondo la procedura stabilita sempre dal trattato).
Le presenti circostanze – una pandemia dichiarata come tale dall’OMS - senza dubbio legittimano il forte indebitamente di cui si è detto.
Anche le disposizioni eurounitarie in termini, d’altro canto, contenute nel Reg.to Ce 1467 del 1997, prevedono - sia pur in casi ristretti - deroghe ai vincoli di bilancio in situazioni predeterminate.
L’ art. 2 premette che il superamento del valore di riferimento per il disavanzo pubblico è considerato eccezionale, ai sensi dell'art. 126, paragrafo 2, lettera a), secondo trattino, TFUE qualora sia determinato da un evento inconsueto non soggetto al controllo dello Stato membro interessato ed abbia rilevanti ripercussioni sulla situazione finanziaria della pubblica amministrazione oppure nel caso sia determinato da una grave recessione economica. Nel prosieguo, si precisa che “il superamento del valore di riferimento è considerato temporaneo se le proiezioni di bilancio elaborate dalla Commissione indicano che il disavanzo diminuirà al di sotto del valore di riferimento dopo che siano cessati l'evento inconsueto o la grave recessione economica”.
Poco di seguito, l’art. 5 comma 2, nel disciplinare l’intimazione che il Consiglio Europeo può indirizzare allo Stato “non virtuoso” perché riduca il debito eccessivo, prevede espressamente che “se è stato dato seguito effettivo all'intimazione di cui all'articolo 126, paragrafo 9, TFUE e si verificano eventi economici sfavorevoli imprevisti con importanti conseguenze negative per le finanze pubbliche dopo l'adozione di tale intimazione, il Consiglio può decidere, su raccomandazione della Commissione, di adottare un'intimazione rivista a norma dell'art. 126, paragrafo 9, TFUE. L'intimazione rivista, prendendo in considerazione i fattori significativi di cui all'art. 2, paragrafo 3 del presente regolamento, può in particolare prorogare di un anno, di norma, il termine per la correzione del disavanzo eccessivo.
Il Consiglio valuta se, rispetto alle previsioni economiche contenute nell'intimazione, si siano verificati eventi economici sfavorevoli imprevisti con importanti conseguenze negative per le finanze pubbliche. E infine qui si precisa in ultimo che “anche in caso di grave recessione economica della zona euro o dell'intera Unione il Consiglio può decidere, su raccomandazione della Commissione, di adottare un'intimazione rivista ai sensi dell'articolo 126, paragrafo 9, TFUE, a condizione che la sostenibilità di bilancio a medio termine non ne risulti compromessa”.
La sola condizione giuridica ultima, in concreto, posta all’incremento eccezionale dell’indebitamento che sarà necessario si trova nella stabilità di bilancio nel medio termine.
Dal punto di vista quantitativo, a quanto potrebbe ammontare l’indebitamento da pandemia COVID-19?
L’economista Ashoka Mody, già vicedirettore dell’FMI, stima che l’Italia abbia necessità di una cifra tra 500 e 700 miliardi di euro di salvataggio precauzionale per contribuire a rassicurare i mercati finanziari sul fatto che il governo italiano e le banche riusciranno a soddisfare i pagamenti dei debiti[4].
Fatte queste premesse, possono essere esaminati in questa sede sia i primi interventi operati dal Governo italiano con il c.d. decreto “cura Italia”, sia le prime indicazioni fornite dalle Istituzioni europee; all’esito potrà formularsi una prima considerazione in ordine sia alla direzione nella quale il nostro esecutivo e quello eurounitario stanno muovendosi, sia in ordine all’adeguatezza di tali misure.
3.Le misure del d.l. “cura Italia”
Il D.l. n. 18 del 17 marzo del 2020 (c.d. decreto Cura Italia) si fonda sostanzialmente su quattro elementi: sanità, lavoro, sostegno della liquidità di famiglie e imprese, fisco.
Quanto al finanziamento del sistema sanitario nazionale, il Governo ha mobilitato tutte le risorse necessarie, ritenute pari a circa 3,2 miliardi di euro, per garantire la dotazione di personale, strumenti e mezzi al sistema sanitario, alla protezione civile e alle forze dell’ordine per assistere le persone colpite dalla malattia e per la prevenzione, la mitigazione e il contenimento dell’epidemia.
Riguardo alla tutela dei lavoratori, con uno stanziamento di 10,2 miliardi di euro viene garantita la tenuta dell’occupazione e dei redditi, potenziando l’intero impianto degli ammortizzatori sociali (cassa integrazione e fondo di integrazione salariale) per l’intero territorio nazionale e per tutti i settori produttivi, incluse le attività con meno di 5 dipendenti.
Poiché, come si è detto, tanto le famiglie quanto le imprese rischiano di vedere significativamente erose le proprie entrate: ciò pregiudica la loro capacità di far fronte ad impegni finanziari pregressi e potrebbe rendere anche difficoltoso l’accesso al credito. Il Governo intende scongiurare con forza questa eventualità e ha destinato 5 miliardi, con un effetto volano per circa 350 miliardi, per assicurare la necessaria liquidità alle famiglie e alle imprese.
In ultimo, con il decreto-legge appena approvato il Governo ha introdotto una serie di norme che prevedono uno stanziamento complessivo di 2,4 miliardi di euro, con l’effetto di sospendere tributi e contributi per complessivi 10,7 miliardi di euro. Viene stabilito il differimento delle scadenze e la sospensione dei versamenti fiscali e contributivi (per tutte le imprese di piccola dimensione e senza limiti di fatturato per le imprese operanti nei settori più colpiti); della riscossione e invio delle cartelle esattoriali; degli atti di accertamento e dei pagamenti dovuti per i diversi provvedimenti di sanatoria fiscale. Inoltre, il decreto prevede un credito di imposta per il proprietario di locali commerciali che rinuncia a parte dell’affitto del mese di marzo.
Sempre in ambito fiscale è stato incentivato, mediante l’estensione delle detrazioni e delle deduzioni, il contributo del settore privato al finanziamento del contrasto dell’epidemia e delle cure sanitarie.
Il d. L. n. 18 del 17 marzo 2020 contiene quindi, secondo le stime della Banca d’Italia “misure che determinano un aumento dell’indebitamento netto di circa 20 miliardi nel 2020 (pari all’1,1 per cento del PIL) quasi interamente dovuto a maggiori spese. Nei due anni successivi gli effetti complessivi sul disavanzo sono sostanzialmente nulli[5]”.
4. Le indicazioni della Commissione UE in tema di aiuti di Stato ed interventi di contrasto alla pandemia
L’atto di riferimento è ad ora la comunicazione della Commissione rubricata “quadro temporaneo per le misure di aiuto di Stato a sostegno dell’economia nell’attuale emergenza del COVID-19”, datata 19 marzo 2020.
In essa la commissione precisa subito che gli aiuti di cui alla presente comunicazione concessi dagli Stati membri alle imprese a norma dell'art. 107, paragrafo 3, lettera b), del TFUE, erogati attraverso le banche che agiscono come intermediari finanziari, vanno a diretto beneficio delle imprese. Tali aiuti non hanno l'obiettivo di preservare o ripristinare la redditività, la liquidità o la solvibilità delle banche. Analogamente, gli aiuti concessi dagli Stati membri alle banche a norma dell'art. 107, paragrafo 2, lettera b), del TFUE per compensare i danni diretti subiti a causa dell'epidemia di COVID-19 non hanno l'obiettivo di preservare o ripristinare la redditività, la liquidità o la solvibilità di un ente o di un soggetto. Pertanto tali aiuti non si configurerebbero come un sostegno finanziario pubblico straordinario a favore di tali soggetti ai sensi della direttiva 2014/59/UE del Parlamento europeo e del Consiglio né del regolamento 806/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio e non sarebbero valutati ai sensi delle norme sugli aiuti di Stato applicabili nel settore bancario.
Non solo; al punto 13 si prevede che “tra queste figurano misure applicabili a tutte le imprese, come le integrazioni salariali e la sospensione del pagamento delle imposte sulle società, dell'IVA o dei contributi previdenziali, o il sostegno finanziario concesso direttamente ai consumatori per i servizi cancellati o i biglietti non rimborsati dagli operatori interessati”.
Inoltre, ex art. 107, paragrafo 3, lettera c), del TFUE e come ulteriormente specificato negli orientamenti sugli aiuti di Stato per il salvataggio e la ristrutturazione, gli Stati membri possono notificare alla Commissione regimi di aiuti per far fronte alle necessità acute di liquidità e sostenere le imprese in difficoltà finanziarie, anche dovute o aggravate dall'epidemia di COVID-19.
Particolare importanza assume quanto affermato al punto n. 18: “considerando che la pandemia interessa tutti gli Stati membri e che le misure di contenimento adottate dagli Stati membri hanno un impatto sulle imprese, la Commissione ritiene che un aiuto di Stato sia giustificato e possa essere dichiarato compatibile con il mercato interno ai sensi dell'art. 107, paragrafo 3, lettera b), del TFUE, per un periodo limitato, per ovviare alla carenza di liquidità delle imprese e garantire che le perturbazioni causate dall'epidemia di COVID-19 non ne compromettano la redditività, in particolare per quanto riguarda le PMI”.
E’ quindi del tutto escluso che il supporto finanziario, concesso in qualsiasi forma sia come finanziamento sia come agevolazione tributaria, in esame, possa costituire aiuto di Stato.
A fronte di tal previsione generale, però, il seguente par. 3 punto n. 22 prevede una forte limitazione, nel concreto, al riconoscimento delle misure di cui si è detto quanto alla loro compatibilità con il diritto dell’Unione. Si stabilisce infatti che l'aiuto non possa superare l’importo di 800.000 euro per impresa sotto forma di sovvenzioni dirette, anticipi rimborsabili, agevolazioni fiscali o di pagamenti; tutti i valori utilizzati sono al lordo di qualsiasi imposta o altro onere; che l'aiuto venga concesso sulla base di un regime con budget previsionale e sia concesso a imprese che non erano in difficoltà al 31 dicembre 2019; può essere concesso a imprese che non erano in difficoltà al 31 dicembre 2019 e/o che hanno incontrato difficoltà o si sono trovate in una situazione di difficoltà successivamente, a seguito dell'epidemia di COVID-19; l'aiuto va comunque concesso entro e non oltre il 31 dicembre 202016.
Un regime speciale è previsto poi per le imprese operanti in particolari settori (es.: la pesca).
Nel prosieguo, si trattano gli ulteriori strumenti utilizzabili per trasferire risorse ai beneficiari, quali le garanzie pubbliche sui prestiti per un periodo e un importo del prestito.
Al punto n. 25 si prevede, anche qui espressamente, che la Commissione considererà tali aiuti di Stato, concessi sotto forma di nuove garanzie pubbliche sui prestiti, compatibili con il mercato interno ai sensi dell'art. 107, paragrafo 3, lettera b), del TFUE unicamente ad alcune condizioni dettagliatamente indicate, anche con riguardo ai limiti quantitativi (punto 3.2) riferiti all’ammontare del prestito garantito dallo Stato ed ai tassi di interesse agevolati (punto 3.3).
5. Considerazioni conclusive
Le indicazioni della Commissione UE sono state prontamente recepite ed adottate dalla Francia[6], che per prima sta introducendo misure di sostegno alla propria economia in conformità a quanto stabilito dalla Commissione. Secondo il commissario Margrethe Vestager, "our decision approves three measures taken by the French government to help its economy manage the impact of the Coronavirus outbreak. These are expected to mobilise €300 billion of liquidity support for companies affected by this unprecedented situation. Today, we have approved these schemes under the new State aid Temporary Framework - less than 48 hours from its adoption. We are working around the clock with Member States to enable them to take swift, effective and targeted action to support the European economy at this difficult time, while preserving the Single Market. Because we need the Single Market to weather this crisis and bounce back strongly afterwards."
Dal punto di vista del contenuto giuridico, non economico, le stesse sono in linea con la comunicazione sopra citata.
Se quindi il quadro giuridico appare saldo e non suscettibile di intimorire quanto a rischio di contrarietà al diritto unionale delle misure adottate, non così può dirsi, ad ora, riguardo al profilo quantitativo delle risorse finanziarie così mobilitate.
E’ infatti assai probabile, per non dire certo, che l’ammontare delle risorse stanziate sin qui non risulti sufficiente a scongiurare il pericolo in atto.
Saranno probabilmente necessari ulteriori cospicui interventi; a fronte di ciò si renderà nondimeno necessario non tanto verificare la compatibilità di più allentati vincoli di bilancio con i trattati e i regolamenti comunitari (per le ragioni di cui al par. 2 di questo scritto), ma piuttosto ridefinire o meglio chiarire la portata e l’impatto di tali misure rispetto al concetto di aiuto di Stato.
Sarebbe ragionevole, ritengo, escluderne in concreto la rilevanza stante il difetto di selettività delle misure stesse, al di là di ogni profilo quantitativo che pure non dovrebbe in alcun modo assumere più rilevanza anche se per un periodo determinato indicato nell’arco temporale tra oggi e la conclusione della pandemia. Naturalmente, il legislatore interno dovrà diligentemente costruirne la disciplina in modo da rivolgerle a una pluralità di soggetti adeguatamente ampia, per non dire omnicomprensiva.
Infatti, una misura si considera aiuto incompatibile con il mercato interno quando determina (i) un vantaggio sotto forma di alleggerimento di costi, anche sub specie di agevolazione tributaria lato sensu (ii) concesso dallo Stato o comunque finanziato con risorse statali (iii) in maniera specifica e selettiva, che (iv) incide sulla concorrenza e sugli scambi tra gli Stati membri.
Quanto all’ultimo requisito, la c.d. selettività, essa sussiste quando qualora le misure di sostegno siano circoscritte o in senso soggettivo ovvero sul piano oggettivo o settoriale ovvero ancora con riguardo all’elemento territoriale in favore di talune imprese o altri beneficiari ed è da escludere qualora la misura di sostegno sia rivolta alla generalità delle imprese o produzioni su una base di parità di accesso.
Appare ormai evidente come non sia praticabile altra strada: ci troviamo – bene lo ha detto il past president della BCE – in un contesto di guerra al virus, e come soleva ripetere Alessandro Magno “dove non arriva un esercito in armi, arriva un asino carico d’oro”.
Forse ingenuamente, mi sento – istintivamente – di escludere la sussistenza, in futuro, di atteggiamenti restrittivi all’indebitamento necessario da parte degli Stati dell’Unione: mai come ora l’Europa dovrà fondarsi su principi di solidarietà, respingendo le rigide ortodossie contabili e le raffinate, spesso anche riduttive, interpretazioni dei Trattati.
E’ di questi giorni la notizia dell’arrivo in Italia di un gruppo di medici militari russi che lavoreranno fianco a fianco con i colleghi italiani nell’ospedale da campo di Bergamo realizzato dagli alpini quasi ottant’anni dopo la campagna di Russia che vide le due nazioni sanguinosamente contrapposte.
Necessita altro per far comprendere agli Stati dell’Unione come – ora e subito – sia necessario un miglioramento subitaneo di certe relazioni, quantomeno nel comune interesse?[7]
[1] Lo si veda online: https://www.ft.com/content/c6d2de3a-6ec5-11ea-89df-41bea055720b.
[2] Centesimus Annus, vedila in www.vatican.vs; paragrafi 19 e 42.
[3] Sia consentito il rimando al mio Il Principio dell’equilibrio di bilancio di cui all’art. 81 Cost. e la Corte costituzionale: un primo (complesso) approccio, in Dir. Dell’Economia, n. 3 2015, pp. 715-764.
[4] Si legga l’intervento su https://vocidallestero.it/2020/03/02/ashoka-mody-italia-la-crisi-che-potrebbe-diventare-virale/
[5] La si veda sul sito istituzionale: https://www.bancaditalia.it/media/notizia/memoria-sulla-conversione-in-legge-del-decreto-cura-italia/
[6] Se ne dà atto in apposito comunicato della Commissione stessa, disponibile online all’indirizzo https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/IP_20_503
[7] Certo, non è di buon auspicio la notizia (del 27 marzo 2020, all’atto della chiusura del presente contributo) di un rinvio da parte del Consiglio Europeo di ogni decisione di due settimane.
La Corte costituzionale aperta alla società civile
Intervista a Valerio Onida e Vladimiro Zagrebelsky
di Roberto Conti
Giustizia Insieme ha pensato di propiziare la riflessione di due personalità del mondo giuridico italiano sulle recenti modifiche introdotte nel gennaio 2020 al giudizio costituzionale, salutate a volte con autentico entusiasmo, altre con nemmeno celata preoccupazione.
L'esperienza maturata all'interno della Corte costituzionale e della Corte europea dei diritti dell'uomo da Valerio Onida e Vladimiro Zagrebelsky fa da collante ai quesiti che intendono non soltanto approfondire in chiave divulgativa e informativa la conoscenza sulle nuove norme integrative, ma altresì favorire un approccio comparativo rispetto ad istituti già in parte in uso presso la Corte europea dei diritti dell'uomo, anche al fine di misurare la concreta possibilità ed utilità di sviluppi ulteriori rispetto alle ricordate modifiche, fino a giungere alle questioni che ruotano sul ruolo della Corte costituzionale nell'attuale assetto dei poteri.
1.Le recenti integrazioni delle Norme integrative che regolano il processo costituzionale introdotte a pochi giorni di distanza dalla nomina della Professoressa Cartabia a Presidente della Corte costituzionale sono state salutate con favore di una parte consistente degli operatori giudiziari. Qual è il suo avviso in proposito? Ritiene che i vantaggi di un processo costituzionale aperto possano essere oscurati dal pericolo di offrire all’opinione pubblica una visione politicizzata della Corte costituzionale, a detrimento della sua giurisdizionalità?
Valerio Onida
Le novità più significative introdotte nelle Norme Integrative con la delibera dell’8 gennaio 2010 sono la previsione degli “amici curiae” (nuovo art. 4-ter), cioè la possibilità per “le formazioni sociali senza scopo di lucro e i soggetti istituzionali, portatori di interessi collettivi o diffusi attinenti alla questione di costituzionalità” di presentare “un’opinione scritta” (non più lunga di 25.000 caratteri, spazi inclusi), e la previsione degli “esperti” (nuovo art. 14-bis), cioè della possibilità per la Corte, “ove ritenga necessario acquisire informazioni attinenti a specifiche discipline” di ascoltare in camera di consiglio “esperti di chiara fama”, cui anche le parti possono, in camera di consiglio, formulare domande.
A queste due principali novità si aggiunge la “razionalizzazione” della disciplina degli interventi di terzi (nuovo art. 4-bis), con la previsione di una decisione separata e preventiva della Corte sulla ammissibilità degli interventi e della possibilità per gli intervenienti di accedere agli atti processuali.
La nuova ”apertura” della Corte alla società civile si manifesta nelle due novità principali, soprattutto nella prima.
La disciplina degli interventi di terzi, per quanto riguarda i limiti della loro ammissibilità, resta sostanzialmente invariata, come la giurisprudenza finora l’ha intesa, in modo tendenzialmente rigoroso (così per esempio da escludere l’intervento di parti di altro giudizio nel quale si ponga la stessa questione). Il nuovo comma 7 dell’art. 4 delle N.I. in sostanza riprende quella giurisprudenza quando stabilisce che “nei giudizi in via incidentale possono intervenire i titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto dedotto in giudizio”, non dunque semplicemente inerente alla questione di costituzionalità proposta.
E’ interessante osservare come tale giurisprudenza sia stata riaffermata anche dopo l’introduzione delle nuove norme: l’ordinanza n. 37 del 2020 la richiama espressamente, anche se poi, nel caso specifico (intervento del Consiglio Nazionale dell’Ordine di giornalisti in un giudizio inerente alla disciplina penale applicabile a tali professionisti), dopo avere escluso sotto altri profili il ricorso di ragioni che rendessero ammissibile l’intervento, questo viene poi ammesso invocando una specifica circostanza della specie (il nesso fra responsabilità penale dei giornalisti e competenza disciplinare del Consiglio dell’Ordine). La qualità dell’interveniente in quel caso, fra l’altro, rifletteva proprio una delle ipotesi in cui le nuove norme integrative ammettono l’iniziativa di amici curiae (soggetti istituzionali portatori di interessi collettivi attinenti alla questione).
La nuova figura degli amici curiae introduce invece una effettiva possibilità di allargamento del contraddittorio, che mi pare molto positiva, tenendo conto del fatto che la Corte si occupa di questioni che per definizione riguardano non solo singoli interessati, ma tutti i destinatari della legge di cui si discute, quindi questioni di interesse generale. La presenza di amici curiae può ampliare e arricchire l’orizzonte delle ragioni e delle motivazioni sulle questioni esaminate, specie tenendo conto che il giudice a quo non ha alcuna possibilità, una volta emessa l’ordinanza di rimessione, di interloquire con le parti e con l’Avvocatura erariale, che di norma “difende” le disposizioni oggetto del dubbio di costituzionalità; e che le parti private del giudizio a quo non sempre hanno la disponibilità e magari talora i mezzi adeguati per intervenire efficacemente nel contraddittorio davanti alla Corte.
L’intervento degli amici curiae può da questo punto di vista davvero costituire un potenziamento degli strumenti di controllo e di rimedio alle violazioni costituzionali emergenti nella legislazione o nella sua applicazione. Specialmente in un ordinamento come il nostro, in cui l’accesso alla Corte è riservato in linea di principio ai giudici nel corso di un giudizio (con tutti i rischi anche di insufficiente prospettazione delle questioni); in cui gli unici soggetti che possono invece ricorrere direttamente alla Corte nei confronti delle leggi statali sono le Regioni, ma solo per far valere violazioni delle loro competenze o almeno “ridondanti” sulle loro competenze; in cui è esclusa qualsiasi ipotesi di actio popularis (qual era prevista nel progetto di Costituzione), nonché di ricorso diretto individuale alla Corte costituzionale per violazione di diritti fondamentali (come quelli previsti in altri Paesi vicini): in un ordinamento cosiffatto, dunque, riconoscere a soggetti collettivi senza scopo di lucro e a soggetti rappresentativi di interessi collettivi o diffusi la possibilità non già di instaurare nuovi giudizi, ma di interloquire nei giudizi di costituzionalità delle leggi già instaurati, può rivelarsi un utile strumento di arricchimento degli istituti di giustizia costituzionale.
E’ interessante che l’intervento degli amici curiae possa avvenire anche nei giudizi diversi da quelli incidentali, cioè nei giudizi principali e in quelli per conflitto di attribuzione, come si ricava dal richiamo all’art. 14-ter introdotto negli artt. 23 (giudizi in via principale), 24 (conflitti di attribuzione fra poteri) e 25 (conflitti di attribuzione fra Stato e Regioni), dunque lungo tutto l’arco delle funzioni della Corte (eccettuata ovviamente quella penale residua). La novità mi sembra dunque assolutamente positiva, e lo strumento merita di esser utilizzato con larghezza dai soggetti abilitati.
Quanto alla previsione della audizione di “esperti”, essa in realtà appare, più che una “apertura” alla società civile, uno strumento inteso a facilitare e ad arricchire l’uso dei poteri istruttori di cui la Corte già ampiamente disponeva, consentendole di udire dal vivo il parere (non consacrato in documenti già acquisibili dalla Corte) di persone qualificate (“di chiara fama”) su argomenti tecnico-scientifici che in qualunque modo si intreccino alle questioni di costituzionalità discusse davanti alla Corte. L’art. 13 della legge n. 87 del 1953, come è noto, prevede che “La Corte può disporre l’audizione di testimoni e, anche in deroga ai divieti stabiliti da altre leggi, il richiamo di atti o documenti”; e l’art. 12 delle norme integrative – non modificato – prevede che “La Corte dispone con ordinanza i mezzi di prova che ritiene opportuni e stabilisce i termini e i modi da osservarsi per la loro assunzione”. Dunque la Corte poteva già “acquisire informazioni”: nella nuova norma si precisa il riferimento al fatto che si tratti di informazioni attinenti a “specifiche discipline”, e quindi si allude esplicitamente alla circostanza che talora la risposta ai problemi prospettati può dipendere anche da dati tecnico-scientifici o dalla loro interpretazione.
Significativa è soprattutto la possibilità prevista per le parti di partecipare alla camera di consiglio all’uopo convocata, e in quella sede, con l’autorizzazione del Presidente, di “formulare domande agli esperti”. Assoluta novità, questa, se si eccettua la prassi introdotta nei giudizi sull’ammissibilità dei referendum abrogativi, a partire dalla sentenza n. 16 del 1978, di consentire ai promotori e al Governo di illustrare in camera di consiglio le rispettive memorie depositate ai sensi dell’art. 33, comma 3, della legge n. 352 del 1970, prassi successivamente estesa, a partire dalla sentenza n. 31 del 2000, ad altri soggetti, senza peraltro che essi assumano la posizione di parti intervenienti.
Non si dice se, convocando gli esperti, la Corte deve indicare in qualche modo (come è plausibile che faccia) l’oggetto specifico dell’audizione, al di là dell’oggetto del giudizio costituzionale, e se deve formulare precisi quesiti sui quali udirli; né se, oltre alle eventuali domande poste dalle parti, anche i Giudici potranno porre domande agli esperti.
Il primo caso pratico si è verificato con l’ordinanza depositata in cancelleria, non pubblicata ma del cui contenuto è dato conto in un comunicato stampa del 28 febbraio 2020, emessa nell’ambito di un giudizio incidentale relativo alla disciplina di posizioni dirigenziali nelle Agenzie fiscali, con la convocazione di due esperti allo scopo di acquisire informazioni “in relazione alle esigenze organizzative delle Agenzie fiscali, alle mansioni assegnate al personale e alle modalità di selezione dello stesso”. L’ordinanza offre già una prima risposta ad alcuni degli interrogativi accennati: la Corte ha detto, sia pure in modo generico, su che cosa intende sentire gli esperti, e ha disposto che la Presidente, il Giudice relatore ma anche gli altri Giudici costituzionali potranno rivolgere agli esperti “domande per valutare presupposti e ricadute organizzative dell’introduzione” nelle Agenzie fiscali delle c.d. posizioni organizzative di elevata responsabilità (POER). Per la verità in questo caso la Corte sembrerebbe voler acquisire non tanto dati e valutazioni tecnico-scientifiche “attinenti a specifiche discipline”, quanto acquisire informazioni e valutazioni di “tecnici” sulle concrete esperienze, sui problemi e le prassi in atto nelle Agenzie fiscali, e le loro ragioni giustificatrici, in tema di selezione e utilizzo del personale dirigenziale.
Certamente la convocazione e la presenza di esperti con i quali sia i Giudici che le parti interloquiscono possono favorire un parziale “disvelamento”, in una camera di consiglio aperta alle parti che precede quella decisoria, degli “itinerari” su cui la Corte si avvia per adottare la propria decisione.
La questione forse più delicata che si porrà anche in futuro è quella dei criteri di selezione degli “esperti di chiara fama”. Chi e come li indicherà? E le parti avranno voce in capitolo su questa scelta? Potranno a loro volta indicare degli esperti da sentire? Si potrà addirittura dar vita ad un dibattito fra gli esperti, se le rispettive opinioni non coincidessero? Infatti non è impossibile né improbabile che su temi tecnico-scientifici che si intrecciano ai problemi di costituzionalità, anche fra gli esperti possano manifestarsi indicazioni e opinioni diverse: e dunque non potrà non garantirsi un contraddittorio anche su di esse.
A tutti questi interrogativi sarà la prassi applicativa a dare delle risposte, e dunque allo stato una valutazione ragionata e approfondita sul funzionamento pratico di questo nuovo istituto non può che essere rinviata alla concreta applicazione che se ne farà: anche tenendo conto che finora la Corte ha fatto un uso assai parco dei poteri istruttori che pure la legge (art. 13 della legge n. 87 del 1953) le affida con grande larghezza, inclusa la facoltà di disporre l’audizione di testimoni, eventualità questa finora mai verificatasi, e che potrebbe in certo senso trovare concretizzazione ora nella audizione degli “esperti”.
Vladimiro Zagrebelsky
Poco prima della recente modifica dell’art. 4 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, la Corte ha pronunciato l’ordinanza del 22 ottobre 2019 relativa alla procedura conclusasi con la sentenza 253/19. In linea con la precedente giurisprudenza, ha ricordato che l'intervento di soggetti estranei al giudizio principale è ammissibile soltanto per i terzi titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato dalla norma oggetto di censura. Successivamente è intervenuta la integrazione dell’art. 4/7 della quale, con l’ordinanza n. 37/20, la Corte ha dichiarato che “recepisce la costante giurisprudenza di questa Corte in merito all’ammissibilità dell’intervento nei giudizi in via incidentale di soggetti diversi dalle parti del giudizio a quo”. Il nuovo art. 4/7 infatti dispone che “Nei giudizi in via incidentale possono intervenire i titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto dedotto in giudizio”.
Nessuna novità dunque se non la trasformazione del diritto giurisprudenziale in diritto scritto. Non mi pare che da ciò discenda un processo costituzionale più aperto di quanto già non fosse e ancor meno mi sembra giustificato ipotizzare rischi per possibili conseguenze sulla natura del giudizio della Corte.
Altra cosa è l’ammissione della figura dell’amicus curiae introdotta dal nuovo art. 4 ter. Ove fosse stata già in vigore tale norma avrebbe ad esempio portato la Corte ad ammettere il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale a svolgere un tale ruolo nel già ricordato processo conclusosi con la sentenza n. 253/19. Infatti, con la nuova norma, le formazioni sociali senza scopo di lucro e i soggetti istituzionali, portatori di interessi collettivi o diffusi attinenti alla questione di costituzionalità, possono presentare alla Corte costituzionale un’opinione scritta. Tali opinioni sono ammesse se offrono elementi utili alla conoscenza e alla valutazione del caso, anche in ragione della sua complessità. I soggetti le cui opinioni sono state ammesse non assumono qualità di parte nel giudizio costituzionale, non possono ottenere copia degli atti e non partecipano all’udienza.
La nuova figura che viene riconosciuta nel processo davanti alla Corte ha un valore di formale riconoscimento di ciò che nella società si svolge, come fonte di argomenti potenzialmente utili ad arricchire il quadro dei motivi che possono indurre la Corte a adottare l’una o l’altra soluzione. Tuttavia, non mi sembra che nella sostanza l’innovazione sia di grande portata. Quelle opinioni verranno allegate agli atti esaminati dai giudici, senza imporre alla Corte di rispondere agli argomenti che vi sono addotti. Così avviene per analoghi scritti, variamente pubblicati, che la Corte raccoglie nei fascicoli preparati dall’Ufficio Studi o dagli assistenti dei giudici in vista della decisione della causa. Come ogni giudice, anche i giudici costituzionali, leggono anche altro, oltre a ciò che viene prodotto nei fascicoli processuali. Da tempo (e anche recentemente) l’Università di Ferrara organizza e pubblica studi sotto il titolo di “Seminari preventivi”, prima dunque, invece che dopo la sentenza della Corte, nella fiducia che nella preparazione delle sue decisioni la Corte ne prenda conoscenza.
Conclusivamente l’introduzione dell’amicus curiae, con la rigorosa disciplina che l’accompagna, merita apprezzamento per la legittimazione che ricevono le espressioni della società civile, ma non muta certo il carattere del processo davanti alla Corte.
2. L’esigenza di aprire il giudizio costituzionale alle voci di esperti ha quasi naturalmente orientato lo sguardo verso esperienze simili maturate in contesti diversi e, per quel che qui importa, all’art.36 CEDU. Pensa che la comparazione fra le misure previste nella CEDU e quelle di recente fattura adottate dalla Corte costituzionale possa essere proficua e se sì, in che misura?
Valerio Onida
La nuova regolamentazione dell’intervento di amici curiae davanti alla Corte costituzionale induce naturalmente al confronto fra questo e analoghi istituti, da tempo sperimentati, previsti in altri ordinamenti, e in particolare presso la Corte EDU (art. 36, par. 2, della Convenzione). Un compiuto confronto potrà farsi solo sulla base dell’esperienza applicativa. A prima vista si può osservare che il nuovo istituto italiano, pur molto simile, appare prevedere qualche maggiore limite quanto alla qualità degli intervenienti, rispetto alla prassi della CEDU. Infatti la nostra norma identifica le categorie di soggetti (formazioni sociali senza scopo di lucro e soggetti istituzionali portatori di interessi collettivi o diffusi attinenti alla questione di costituzionalità), mentre la CEDU prevede l’intervento (oltre che degli Stati diversi da quello chiamato in causa), genericamente di “ogni persona interessata diversa dal ricorrente”, e la prassi ha visto l’intervento ad esempio anche di imprese o di gruppi di avvocati. Inoltre la CEDU prevede la possibilità di ammettere gli amici curiae a presentare osservazioni scritte ovvero a partecipare alle udienze, mentre la nostra Corte esclude che gli amici curiae assumano la qualità di parti del giudizio e possano partecipare all’udienza, e prevede altresì che l’opinione scritta abbia una estensione massima prefissata. L’ammissione è disposta in entrambi i casi dal Presidente, da noi “sentito il giudice relatore”, ed è previsto dalle nostre norme che siano ammesse “le opinioni che offrono elementi utili alla conoscenza e alla valutazione del caso, anche in ragione della sua complessità”.
Può essere significativo il riferimento al caso concreto (ovviamente attinente essenzialmente ai procedimenti incidentali, oltre che eventualmente ai conflitti di attribuzione) come indice di una positiva tendenza della Corte (peraltro da sempre rilevabile, anche se forse non sempre allo stesso modo) a tener conto, nel valutare la questione di costituzionalità della legge, dei caratteri del caso concreto da cui la questione nasce: aspetto che distingue il controllo c.d. “concreto” sulla legge dal controllo “astratto”, e che invero consente non di rado di cogliere eventuali profili di violazione della Costituzione più nelle conseguenze applicative concrete che nel tenore astratto delle disposizioni legislative .
Vladimiro Zagrebelsky
Tra le riforme delle Norme integrative recentemente introdotte, si presenta incisiva ed anche fortemente significativa la nuova disposizione dell’art. 14 bis, che consente alla Corte di acquisire informazioni attinenti a specifiche discipline. A tale scopo la Corte può disporre che siano ascoltati esperti di chiara fama in apposita adunanza in camera di consiglio alla quale possono assistere le parti costituite. La nuova norma si segnala per la serietà rivelata da giudici che dichiarano di aver necessità di conoscere ciò che naturalmente non conoscono. Essa attiene alla natura del mestiere di giudice. Intendo con ciò riferirmi a ciò che dovrebbe essere ovvio, che cioè nessun giudice dovrebbe sentenziare senza conoscere e senza tener conto della realtà su cui la sua decisione va ad incidere e sulle conseguenze che ne derivano. Le audizioni degli esperti in discipline come l’economia, la sociologia/antropologia, la bioetica e forse anche certe branche del diritto, saranno utili alla Corte. Analogamente utili sono o potrebbero essere le audizioni cui procede il Parlamento nei lavori preparatori delle leggi. E le audizioni disposte dalla Corte saranno svolte con la partecipazione delle parti, così da introdurne formalmente l’esito nel quadro degli elementi da considerare nel giudizio.
Un simile strumento conoscitivo potrebbe giovare anche alla Corte europea dei diritti umani. Eccezionalmente essa richiede parere alla Commissione di Venezia, organo del Consiglio d’Europa. Gli interventi di parti terze di cui agli artt. 36 Conv. e 44 Regolamento della Corte, sono invece in qualche misura assimilabili alla nuova figura dell’amicus curiae di cui sopra. È spesso utile alla Corte ricevere le osservazioni di soggetti diversi dal ricorrente e dal governo contro cui il ricorso è volto. Un certo ruolo svolge talora il c.d. giudice nazionale. Ma vi è un’importante caratteristica dell’istituto nel processo davanti alla Corte europea, poiché la o le parti terze il cui intervento è ammesso possono essere gli Stati che sono parte del sistema della Convenzione e che non sono convenuti in giudizio. Notevole è l’importanza degli interventi degli Stati che, per un motivo o per l’altro ritengono che la decisione della questione in discussione implichi conseguenze nel proprio ordinamento interno o sull’intero sistema. Essa deriva dagli effetti della c.d. “cosa interpretata” che dichiara il contenuto attuale degli obblighi degli Stati (art. 1 Conv.), come definiti dalla giurisprudenza della Corte (art. 32 Conv.).
3.Una parte della dottrina costituzionale ha di recente parlato di suprematismo del giudice costituzionale, stigmatizzando talune recenti scelte della Corte costituzionale che finirebbero col modificarne la natura voluta dalla Costituzione. Qual è il Suo avviso in proposito?
Valerio Onida
Che cosa significa “suprematismo del giudice costituzionale”? Se si vuole alludere ad una presunta tendenza della Corte a superare i confini della sua funzione, ad assumere poteri che non le spettano, direi che non mi sembra affatto vero. Sono noti taluni antichi rilievi mossi nei confronti della Corte perché essa non si è limitata, nella sua prassi, a pronunciare sentenze di “accoglimento secco” sulle questioni a lei sottoposte, ma si è dotata di un armamentario vario, come le sentenze “interpretative” (quelle di rigetto, perché in una sentenza di accoglimento l’eventuale interpretazione data dalla Corte alla norma legislativa si “cristallizza” in un dispositivo “manipolativo”), le sentenze di accoglimento parziale o “manipolativo” (“nella parte in cui” si prevede alcunchè), “additive” (“nella parte in cui” non si prevede alcunché), o “additive di principio”. Queste soluzioni sono necessarie, dal momento che talora la semplice dichiarazione di incostituzionalità di una intera disposizione potrebbe produrre effetti di maggiore incostituzionalità o lacune intollerabili nell’ordinamento, specie se si tiene presente che il legislatore di solito non dà seguito ai “moniti” che la Corte talora formula nelle proprie pronunce per segnalare la necessità costituzionale che una certa disciplina venga modificata.
Il compito della Corte, cui essa non può venir meno, è quello di “depurare” l’ordinamento dalle norme che si pongono in contrasto, anche solo per una parte o con riguardo a certi casi concreti, con la Costituzione, cioè di impedire che una disciplina incostituzionale venga applicata, o una soluzione incostituzionale di una controversia concreta sia adottata anche in un solo caso: posto che i giudici comuni non sono abilitati a “disapplicare” le norme di legge, essendo questo potere riservato alla Corte, ma hanno il potere-dovere (oltre che di interpretare le leggi in modo conforme alla Costituzione) di sollevare davanti alla Corte i dubbi di costituzionalità non manifestamente infondati.
A mio giudizio la Corte non adempie invece fino in fondo al suo compito quando rifiuta di dichiarare una incostituzionalità che pur rileva nella norma ad essa sottoposta, sol perché per rimediarvi potrebbero esservi diverse soluzioni alternative, tra le quali il legislatore resta libero di scegliere (cosiddette inammissibilità per “pluralità di soluzioni”). Infatti, restando fermo che il legislatore può scegliere la soluzione che ritiene migliore, nell’ambito della sua discrezionalità, per adeguare la legge alla Costituzione, la Corte, se investita della questione, non può rifiutarsi di accertare il contrasto con la Costituzione, sol perché vi sarebbero diverse soluzioni, costringendo così il giudice ad applicare in concreto, per risolvere la controversia davanti a lui pendente, una norma non conforme alla Costituzione (e quindi a dare una soluzione incostituzionale alla causa davanti a lui pendente). Diverso è il caso in cui la pronuncia di inammissibilità consegua a difetti dell’ordinanza di rimessione, che ovviamente potrebbero in seguito essere corretti, non essendo preclusa la riproposizione, anche da parte dello stesso giudice, di una questione giudicata inammissibile per queste ragioni.
Nel caso della cosiddetta “pluralità di soluzioni” la Corte dovrà invece volta per volta adottare una pronuncia di accoglimento scegliendo la soluzione minima necessaria per evitare la conservazione in vita della norma incostituzionale, e così quella più conforme al sistema, o anche limitarsi ad una pronuncia che disponga il principio da rispettare (c.d. “additiva di principio”), lasciando poi che la specifica disciplina sostitutiva di quella incostituzionale sia scelta dal legislatore o, in mancanza del suo intervento, dal giudice del caso concreto.
Tutto questo non significa affatto che la Corte esca dai propri confini o si sostituisca al legislatore. Essa fa ciò che le spetta, e cioè garantire i soggetti dell’ordinamento contro il rischio di applicazione di una disciplina che contrasti con la legge fondamentale.
Vladimiro Zagrebelsky
Dopo anni e anni in cui il Parlamento lasciava cadere ogni segnalazione (inutilmente chiamata “monito”) che giungeva dalla Corte sulla necessità di intervenire legislativamente per correggere norme incompatibili con la Costituzione o riempire “vuoti” incostituzionali. Si è arrivati al punto che le due Camere, con conflitto di attribuzione nei confronti della magistratura ordinaria (nella vicenda Englaro), hanno rivendicato la loro esclusiva competenza a intervenire legislativamente, per poi omettere per anni di provvedere. Il conflitto è poi stato dichiarato inammissibile dalla Corte costituzionale. È lungo l’elenco di decisioni della Corte costituzionale (accompagnate da “moniti”) nel senso dell’inammissibilità di eccezioni di costituzionalità per questioni che richiedevano scelte rientranti nella competenza del Parlamento. Ciò fino a quando il problema -che cresceva in gravità- si è posto alla Corte in termini che non consentivano più di lasciarlo aperto. Mi riferisco alla vicenda che prende il nome da Marco Cappato e la innovativa soluzione procedurale adottata dalla Corte. Avendo il Parlamento omesso di provvedere, la Corte ha dovuto decidere essa stessa. E ciò dopo avere, nella ordinanza che ha preceduto la sentenza n. 242/19, riconosciuto che la sede propria delle scelte implicate dal tema era quella parlamentare. Non era la prima volta che si apriva la possibilità di adottare lo schema -non privo di contraddizione- del monito al Parlamento, seguito dalla sua inerzia e poi dall’intervento della Corte in sostanziale sostituzione. La vicenda che si è conclusa con la sentenza n. 113/11 ne è esempio. Ma nel caso Cappato, la Corte si era trovata nelle condizioni di non poter usare ancora lo schema della (1) dichiarazione di inammissibilità con monito, (2) attesa (inutile) e poi, solo poi, (3) sentenza. Nel frattempo, infatti, avrebbe trovato applicazione l’art. 580 C.p., che la Corte riteneva incostituzionale proprio in casi come quello della vicenda giudicata dal giudice a quo. Questo il contesto concreto che spiega l’adozione della soluzione procedurale e poi la sentenza della Corte: l’incapacità o non volontà del Parlamento di adempiere ad un preciso dovere costituzionale, come è quello di rimuovere leggi incostituzionali. Non quindi ambizioni suprematiste, ma ricerca di soluzioni che non rendano vana la posizione preminente della Corte tra i poteri dello Stato cui è rimessa la difesa della Costituzione.
Del non funzionamento del Parlamento ci si dovrebbe innanzitutto preoccupare nel discutere la situazione che è venuta progressivamente a crearsi. Ciò non significa chiudere gli occhi rispetto ai problemi che pone l’intervento della Corte, a partire dal quesito riguardante la forza della sentenza nei confronti del Parlamento, se e quando esso legifererà. Sul merito della sentenza n. 242/19, insieme ad altri commentatori, ho in altra sede svolto motivi di critica e soprattutto posto quesiti che rimangono senza risposta (mi permetto di rinviare al mio Aiuto al suicidio. Autonomia, libertà e dignità nel giudizio della Corte europea dei diritti umani, della Corte costituzionale italiana e di quella tedesca, in Suicidio assistito: le prospettive di fondo e la giurisprudenza costituzionale, in Legislazione penale, 15 marzo 2020). Ma per le questioni che pone in evidenza il modo di procedere della Corte costituzionale, direi di assegnare il massimo di peso alla disfunzione del sistema che deriva dagli inadempimenti del Parlamento. Da essi, a cascata, derivano distorsioni che colpiscono tutti gli altri protagonisti nel disegno dei rapporti tra i Poteri dello Stato.
4.Intravede nell’introduzione delle novellate Norme integrative una conferma o una smentita al fatto che il diritto, nel suo momento attuativo, si mostra sempre più poroso rispetto alle influenze esterne alla sfera pubblica, trovando alimento oltreché dai casi concreti posti al vaglio del giudice – comune e costituzionale – ora anche dalla società civile?
Valerio Onida
Il diritto legislativo non solo può, ma deve essere “poroso” rispetto alle esigenze della società, da valutare in sede politica, ma comunque conformandosi ai principi costituzionali. La “sfera pubblica” – se questo vuol dire gli organi politici, amministrativi e giudiziari – non è un “mondo separato” dalla società, ma ha il compito di soddisfare le domande di “giustizia” (nel senso più ampio) che la società esprime in ogni tempo, scegliendo, certo, ciò che viene ritenuto “giusto” in base a criteri politici (in senso alto), ma comunque assicurando la garanzia di rispetto dei principi che la Costituzione stabilisce (rispetto dei diritti fondamentali dei singoli e delle formazioni sociali, equità e ragionevolezza delle discipline stabilite, equilibrio fra i poteri).
Poiché la Corte costituzionale non è chiamata ad amministrare giustizia nei casi concreti (salvo che nei conflitti di attribuzione), ma a controllare le leggi in vista della loro applicazione, vigilando che esse non contrastino con i principi costituzionali, è naturale che il suo sguardo si estenda al di là del caso concreto e degli interessi specifici in esso coinvolti, per adottare pronunce sulle leggi che siano le più adeguate a garantire il rispetto della Costituzione. Le questioni di costituzionalità normalmente coinvolgono interessi più ampi di quelli dei soli soggetti della controversia concreta nell’ambito della quale esse vengono sollevate: nulla di più naturale dunque che la Corte ascolti anche voci esterne rispetto al caso che ha dato occasione alla questione, ma che esprimono interessi e valutazioni comunque inerenti all’ipotizzato contrasto fra legge e Costituzione. Infatti le decisioni della Corte, quando sono di accoglimento, hanno valore erga omnes ed hanno effetto per tutto l’ordinamento.
Vladimiro Zagrebelsky
Non c’era bisogno di queste norme integrative per scoprirlo. Il diritto interpretato e applicato dai giudici e tanto più dai giudici costituzionali, raramente è automatico, insensibile all’esterno. E il criterio del giusto/sbagliato è raramente applicabile. Le opinioni separate allegate alle sentenze della Corte europea dei diritti umani lo mettono in evidenza (invece di nasconderlo).
5. La dissenting opinion nella giurisprudenza della Corte edu costituisce una misura ben conosciuta dagli operatori del diritto. Sulla base della Sua esperienza, essa potrebbe giovare anche nel processo costituzionale?
Valerio Onida
Il tema della dissenting opinion è da molto tempo all’attenzione della dottrina giuridica e anche della Corte, che talvolta ha discusso al suo interno sulla possibilità di introdurla (con legge o anche con normativa interna).
L’argomento fondamentale a favore della sua introduzione sta nel fatto che la giurisprudenza della Corte investe per sua natura questioni di interesse generale (che non riguardano solo gli interessi delle parti di una controversia concreta), e, sempre per sua natura, è destinata a svilupparsi nel tempo in maniera tendenzialmente coerente. Il valore del precedente è per la Corte particolarmente significativo, perché essa non giudica di casi concreti (riguardo ai quali l’ordinamento può meglio tollerare l’eventuale succedersi di pronunce concrete diverse e non concordanti fra di loro), ma di questioni di interesse generale; e perché assume importanza non solo la decisione specifica, ma anche il percorso motivazionale seguito dalla Corte. La dissenting opinion (o anche la concurring opinion, cioè una motivazione parzialmente dissenziente che però conduca alla stessa conclusione della maggioranza) mostra un altro possibile percorso motivazionale, che la maggioranza della Corte non ha inteso seguire, ma che può offrire importanti elementi di confronto e di valutazione, insieme alla motivazione della pronuncia adottata, per i casi futuri.
Può verificarsi infatti che una motivazione dissenziente proposta in un caso, in uno successivo venga accolta e seguita dalla maggioranza, così contribuendo all’evoluzione della giurisprudenza. Del resto accade che la Corte ritorni in altra occasione su un tema già trattato e adotti una posizione in tutto o in parte divergente da quella precedente: il cosiddetto overruling. Talvolta la Corte lo fa espressamente, motivando il cambiamento di giurisprudenza, talaltra lo fa più tacitamente. La conoscenza non solo delle motivazioni della Corte, ma anche delle eventuali opinioni dissenzienti può dunque arricchire il dibattito e contribuire allo sviluppo della giurisprudenza.
In ogni caso le opinioni dissenzienti valgono, e servono, non tanto a rendere noto il livello di consenso raggiunto nell’ambito del collegio (nella prassi della nostra Corte il dissenso viene di fatto reso noto quando il giudice relatore di una causa rifiuta di scrivere la decisione che non condivide, e viene sostituito da un diverso giudice “redattore” designato dal Presidente), quanto a rendere espliciti i diversi percorsi motivazionali che conducono alle diverse soluzioni (o talora alla stessa soluzione ma con un diverso percorso: la c.d. concurring opinion). E’ la motivazione, più che la soluzione in sé, che può contribuire allo sviluppo successivo della giurisprudenza.
La possibilità di formulazione e di pubblicazione di opinioni dissenzienti potrebbe anche contribuire a rendere talora più complete e convincenti le motivazioni delle decisioni, inducendo a non eludere nodi argomentativi importanti che emergono dal dissenso.
Le obiezioni più forti alla introduzione della opinione dissenziente nella Corte costituzionale sono quelle che si riferiscono al rischio di disincentivare la ricerca di soluzioni ampiamente condivise, e al pericolo di una aumentata esposizione dei singoli giudici al rischio di essere “etichettati” come sostenitori di una parte politica e perciò, da un lato, di ridurre la percezione nel pubblico di una unità nelle risposte date dalla Corte ai quesiti posti, e quindi la “persuasività” delle decisioni (ma già oggi non è infrequente la diffusione di indiscrezioni circa l’entità del dissenso su singole decisioni di maggiore interesse per l’opinione pubblica); dall’altro lato di esporre i giudici ad una “pressione” delle forze politiche considerate a loro vicine perché manifestino il loro dissenso. Tuttavia penso che la Corte italiana abbia da tempo guadagnato una “immagine” di indipendenza abbastanza forte per contenere questi rischi, e che dunque nel complesso siano più forti le ragioni che potrebbero indurre a prevedere l’introduzione di questo istituto.
Vladimiro Zagrebelsky
Le opinioni separate (concordanti o dissenzienti) nel sistema della Convenzione europea sono una possibilità che hanno i giudici che non hanno condiviso il tenore della sentenza, per gli argomenti soltanto o anche per il dispositivo. Quella che negli artt. 45 Conv. e 74 Regolamento della Corte è una possibilità, nella prassi è divenuta una regola. La prima conseguenza è che la posizione di ciascuno dei giudici viene rivelata: quella di chi redige un’opinione separata e, per conseguenza, quella di chi ha partecipato a formare la maggioranza. La Corte indica sempre se la sentenza è resa alla unanimità oppure a maggioranza e in questo caso con quanti voti.
In proposito si può ricordare che nel sistema italiano l’art. 685 C.p. punisce la pubblicazione dei nomi e voti dati nella deliberazione nel processo penale. Ma la Corte costituzionale (sentenza n.18/89) ha affermato che nel nostro ordinamento costituzionale non esiste un nesso imprescindibile tra indipendenza del giudice e la segretezza vista come mezzo per assicurare l'indipendenza attraverso l'impersonalità della decisione, né impone il segreto sull'esistenza di opinioni dissenzienti all'interno del collegio. D’altra parte, è prevista la figura di giudici monocratici (art. 106, comma secondo), le cui decisioni non possono essere impersonali.
Nelle opinioni separate i motivi svolti dai giudici che, per i motivi o per il dispositivo, si separano dalla maggioranza sono spesso molto forti. Essi di regola si fondano sulla stessa base normativa su cui ha lavorato la maggioranza: la Convenzione e soprattutto il vasto campo della giurisprudenza già sviluppata dalla Corte (art. 32 Conv.) e cui la Corte dichiara di attenersi. La sentenza, quando non è unanime, mette dunque in chiaro che sono possibili diverse ricostruzioni del diritto applicabile. Ciò avviene attraverso l’identificazione del senso della giurisprudenza relativa alla materia cui si riferisce il ricorso da decidere, l’esercizio del distinguishing e l’applicazione al caso concreto. L’esito o gli esiti di tale esercizio rendono inadeguato il criterio del giusto/sbagliato nell’aderire all’una invece che all’altra soluzione. Le soluzioni e gli argomenti che le sostengono si confrontano sul piano della ragionevolezza e della loro idoneità a risolvere il caso.
Sono quindi evitati i difetti del sistema italiano, che è grave soprattutto per quanto attiene alle sentenze della Corte costituzionale. Poiché esso unisce la finzione della unanimità (che suggerisce anche l’inevitabilità della soluzione affermata da giudici null’altro che bouches de la loi) alla sistematica fuga di notizie sulle maggioranze (a riprova che altre soluzioni sarebbe state possibili). Aggiungerei anche che la mancanza di indicazioni sulle maggioranze e minoranze, con le loro motivazioni, esprime un atteggiamento autoritario, che impone una sentenza e rifiuta di ammettere che essa è sì legittima, ma non indiscutibile. Una indiscutibilità tra l’altro che male convive con l’evoluzione e ancor più con i contrasti giurisprudenziali e che talora costringe i giudici a contorsioni argomentative per mostrare che le loro nuove affermazioni sono in linea con i precedenti. Aggiungerei anche che il sistema italiano per cui il dispositivo delle sentenze penali è letto in udienza privo della motivazione, che arriverà successivamente e spesso dopo molto tempo, rende anche più evidente la mancata cura di rendere aperto alla discussione l’atto di autorità di cui la sentenza è strumento.
Nel sistema della Corte europea i motivi svolti nell’opinione separata, concordante o dissenziente, riflettono quelli che l’autore dell’opinione ha svolto nella camera di consiglio e che la maggioranza non ha condiviso. In questo senso, in qualche modo a contrario, gli argomenti sviluppati nelle opinioni separate fanno parte, arricchiscono la motivazione adottata dalla maggioranza. Capita che l’opinione separata redatta per essere allegata alla sentenza sia più approfondita, almeno nelle citazioni giurisprudenziali di supporto, di quanto il giudice ha proposto ai colleghi nella discussione collegiale. Ma sono anomale le opinioni separate che riportano argomenti ulteriori rispetto a ciò che il collegio ha udito e discusso. Esse si apparentano alle note a sentenza.
Nel delicato ruolo del presidente del collegio giudicante (7 giudici nelle Camere e 17 nella Grande Camera) di cercare, se non l’unanimità, almeno la maggioranza più vasta possibile, le opinioni separate giocano un ruolo importante. Ciò avviene soprattutto per le sentenze della Grande Camera, per la procedura della deliberazione, che passa attraverso un primo voto provvisorio, che orienta il comitato di redazione della sentenza, e, in un secondo momento, il voto definitivo, che segue alla revisione collegiale della motivazione. In quest’ultima fase soprattutto, la ricerca di una vasta maggioranza passa attraverso il tentativo di inglobare nella motivazione quante più possibili proposte dei singoli giudici. Il rischio è di produrre motivazioni in cui non è chiara la ratio decidendi (quella che poi vincola sia la Corte per i casi successivi, sia gli Stati aderenti al sistema della Convenzione). La via di uscita dalla discussione di posizioni non componibili è la presa d’atto delle divergenze, che le opinioni separate metteranno in luce lasciando indenne la motivazione della maggioranza nella sua coerenza. La sentenza andrà a formare la giurisprudenza della Corte. Le opinioni separate indicheranno che un altro diritto giurisprudenziale era possibile (e forse finirà per l’affermarsi).
***
Roberto Conti
Poco o nulla è o necessario aggiungere alle risposte dei due interlocutori che hanno dimostrato quanto sia fecondo il dialogo alimentato sulla base di conoscenze ed esperienze di alto profilo maturate in contesti giudiziari differenti e distanti, territorialmente e culturalmente, ma in realtà vicini nelle prospettive e nelle finalità, pur ciascuno nell'ambito dei rispettivi ordinamenti.
Viene dunque spontaneo pensare come proprio il confronto e la condivisione di ideali comuni alle due Corti possa rappresentare una delle possibili ricette capaci di curare le ferite che i sistemi sovranazionali in cui sono "uniti" molti Paesi dell'Europa mostrano in questo periodo, funestato da vicende che hanno visto appannare l'idea di Europa, a partire dalla Brexit fino all'emersione da più parti di spinte nazionaliste e antagoniste rispetto ad un'idea, quella dell’unità dei popoli fondata su un ceppo di valori comuni e tuttavia avvertita come incapace di attuare gli ideali sui quali era stato edificato l'edificio europeo.
Il messaggio che esce, forte, dalle parole di Onida e Zagrebelsky è quello che identifica la Corte costituzionale – ma, forse sarebbe meglio dire entrambe le Corti – come un elemento indispensabile per mantenere unita l'Europa e gli europei, pur nelle loro diversità. Una Corte che si umanizza, soprattutto quando non ha timore di mostrare la sua “non inniscenza”, al punto di giustificare un “confronto” con gli esperti, sulle modalità operative del quale occorre attendere l’esperienza in vivo.
Un'idea ancora una volta fondata sulla centralità della funzione di garanzia, avvertita come insostituibile presidio di legalità anche nelle sue declinazioni estreme, originate a volte da scelte attendiste provenienti dagli altri poteri dello Stato.
Il che, in definitiva, spazza via, nell’opinione dei due Giudici, l’idea di un suprematismo giudiziario della Corte costituzionale- di recente confezionata da una parte della dottrina (A. Morrone, Suprematismo giudiziario. Su sconfinamenti e legittimazione politica, in Quaderni costituzionali, a. XXXIX, n. 2, giugno 2019, 251 ss.) nel quale nemmeno possono inserirsi le novità di cui si è detto, anch’esse frutto di un processo di razionalizzazione di orientamenti della stessa Consulta già consolidati o, per altro verso, commendevolmente rivolti ad implementare i mezzi istruttori già riconosciuti in precedenza alla Corte per affinare e calibrare meglio il giudizio in relazione al caso.
Particolarmente interessante è risultata la reciproca consapevolezza degli intervistati sul fatto che il confronto fra gli strumenti di nuova fattura introdotti per rendere il giudizio costituzionale ancora più attento alle conoscenze tecniche possa essere di auspicio per eventuali omologhe aperture nell'ambito del giudizio della Corte edu, come si sa, peraltro, molto parco nel consentire l’intervento di soggetti terzi, al punto da indurre la Corte costituzionale italiana a sollecitare una maggiore apertura sul punto(v.Corte cost.n.123/2017).
Questo mutuo scambio di esperienze concrete dei rispettivi giudizi è continuato a proposito della c.d. dissenting opinion. Questa volte, è stato Zagrebelsky a mettere al servizio della Corte costituzionale l'esperienza maturata sulle c.d. dissenting opinion, sul ruolo che essa assume rispetto al singolo procedimento e, soprattutto alle vicende che approdano alla grande Camera.
Onida e Zagrebelsky non sembrano condividere le preoccupazioni pure rappresentate dalla dottrina – per tutti, A. Ruggeri, La “democratizzazione” del processo costituzionale: una novità di pregio non priva però di rischi – circa i rischi di strumentalizzazione politica o di condizionamento delle decisioni della Consulta per effetto dell’apertura agli strumenti partecipativi di nuova fattura.
Assai delicata risulta, de iure condendo, la questione relativa alla possibilità di introdurre la dissenting opinion nel giudizio costituzionale.
Il parametro di riferimento rappresentato dall’esperienza maturata innanzi alla Corte edu sulla quale si è soffermato Zagrebelsky, tratteggiandone i pregi almeno rispetto all’uso fisiologico che di tale strumento può farsi, a volere seguire l’impronta comparatistica qui accarezzata andrebbe completato con quanto accade innanzi alla Corte di Giustizia, ove non vi è spazio alle opinioni dei giudici dissenzienti, rispecchiando la tradizione giuridica del nostro Paese e di altri.
Certo, non può sfuggire che in quest’ultima esperienza vi è già un fattore propulsivo rispetto agli orientamenti della Corte di giustizia, rappresentato dalla presenza di Avvocati generali i quali, attraverso le Conclusioni depositate, possono non soltanto offrire un’ulteriore garanzia circa la piena efficacia del ruolo svolto dalla Corte di Giustizia, ma anche rappresentare la base dell’evoluzione futura della giurisprudenza della Corte attraverso le pronunzie della Grande Camera. Meccanismo che, al contrario, non esiste all’interno della Corte costituzionale.
Né vanno sottovalutati i rischi paventati dalla dottrina a proposito delle ricadute in termini di effettiva indipendenza dei giudici costituzionali e di politicizzazione(Ruggeri, ib.,). Le provocazioni lanciate in qualcuna delle domande non sembrano avere attirato Onida e Zagrebelsky.
In conclusione, si ha la sensazione che anche in un momento critico qual è l'attuale, l'esigenza di guardare a modelli decisori diversi costituisca per le Corti un dato indispensabile, arricchendosi vicendevolmente di esperienze e conoscenze che non fanno di certo venire meno la necessità di evitare automatiche riproduzioni di meccanismi dell'una Corte sull'altra, ma rendono indispensabile una visione quanto più possibile comune anche nelle modalità di svolgimento dei diversi giudizi.
Onida e Zagrebelsky non nutrono dunque preoccupazioni sull'attuale ruolo della Corte e non nascondono, nemmeno, la loro condivisione sull'opportunità di ulteriori passi rispetto a quelli mossi nel gennaio 2020. Passi che la Presidente Cartabia, alla quale Giustizia Insieme è particolarmente vicina in questi momenti, nella sua recente intervista - La Corte costituzionale non si ferma davanti all'emergenza, questo è il tempo della collaborazione tra istituzioni- non sembra avere escluso ma, anzi auspicato.
«Se pure c’era di questi untori».
Ideologia immunitaria e fantasmi comunitari
di Luigi Cavallaro
Poiché nulla di sé e del mondo sa la generalità degli uomini, se la letteratura non glielo apprende.
Leonardo Sciascia, La strega e il capitano, 1986.
In tempi di pandemia, conviene tornare ai classici. Alla Storia della colonna infame, precisamente, e più ancora a quel magnifico prologo che ne sono il XXXI e il XXXII capitolo dei Promessi Sposi. Perché se aveva ragione Sciascia, quasi cinquant’anni fa, a dolersi che la Storia manzoniana fosse rimasto «un piccolo grande libro tra i meno conosciuti della letteratura italiana»[1], è possibile (e diremmo anche probabile) che questo misconoscimento, che non abbiamo motivo di dubitare perduri, non sia casuale.
La Storia, senz’altro questo si saprà, narra del processo che fu intentato a Milano, durante la tremenda pestilenza del 1630, nei confronti di due presunti “untori”, accusati di aver diffuso la peste «con venefizi e malefizi» e, per ciò, incredibilmente condannati a morte atroce. La credenza che la diffusione delle epidemie si dovesse a malfattori che le spargevano ad arte tra le popolazioni è in effetti antica, ma si prolunga alla nostra modernità: lo stesso Sciascia, chiosando la Storia manzoniana, la attesta almeno fino alla pandemia di “spagnola”, che funestò particolarmente l’Europa alla fine del primo conflitto mondiale, e ne ascrive il periodico, virulento risorgere alla tendenza dei «cattivi governi» di far ricorso al «nemico esterno» quando si trovano ad affrontare situazioni che non sanno o non possono risolvere[2].
Ma più vicini che all’illuminista Sciascia noi ci sentiamo oggi al cattolico Manzoni: e Sciascia non ce ne vorrà se, per dirlo, abbiamo deliberatamente parafrasato parole sue[3]. Ché non lo facciamo certo per sottrarre i giudici che quell’orrenda condanna pronunciarono alla loro individuale responsabilità, ma piuttosto per porre in risalto, con Manzoni appunto, che già allora «da’ trovati del volgo, la gente istruita prendeva ciò che si poteva accomodar con le sue idee; da’ trovati della gente istruita, il volgo prendeva ciò che ne poteva intendere, e come lo poteva; e di tutto si formava una massa enorme e confusa di pubblica follia»[4]; e che dunque non di cattivi governi e cattive istituzioni si trattava soltanto, ma della «perversa e dolorosa circolarità» dell’ideologia: e chiediamo scusa all’illuminista se, anche stavolta, virgolettiamo parole sue[5] per introdurre ad un concetto dei più impronunciabili dell’innominabile, più che innominato, Marx, ma crediamo che d’ideologia appunto si tratti, allora come oggi, quando al tempo della pandemia da «Covid-19» (acronimo che sa d’algoritmo: perché ormai sono loro a nominarci e non viceversa) la figura dell’untore sta conoscendo una nuova e inaspettata apoteosi.
Salvo intendersi su chi oggi sia propriamente “untore”: e di cosa, e come.
Non diremo qui della risibile invettiva da più parti scagliata contro i runner, che pure ha trovato sanzione legale al punto 17 dell’ordinanza del Presidente della Regione Lombardia n. 514 del 21 marzo 2020, con la quale si sono «vietati lo sport e le attività motorie svolte all’aperto, anche singolarmente, se non nei pressi delle proprie abitazioni»: ordinanza risibile anch’essa, in verità, e non solo perché si limitava a supplici «raccomandazioni» (punti 10, 12, 13, 14) per le fabbriche e le altre attività produttive che, restando aperte e funzionanti, costringevano a muoversi e inevitabilmente a radunarsi negli spazi ristretti dei capannoni e degli uffici all’incirca il quaranta per cento della popolazione lombarda (e diciamo apposta “radunarsi”, beninteso: perché almeno noi si possa rispettare il divieto di «assembramenti di più di due persone», che con sprezzo del ridicolo era ribadito al punto 2 dell’ordinanza citata); ma soprattutto perché rivelatrice, in quell’«anche singolarmente», della penosa mistificazione cui è costretta una classe dirigente che si trova d’improvviso a dover ammettere ciò che fino a un mese prima, invitando la popolazione a non rinunciare all’aperitivo, aveva recisamente negato: e dunque, per dirla anche stavolta col Manzoni, «miserabile transazione, anzi trufferia di parole, e che pur faceva gran danno; perché, figurando di riconoscere la verità, riusciva ancora a non lasciar credere ciò che più importava di credere, di vedere, che il male s’attaccava per mezzo del contatto»[6]: dei lavoratori nelle fabbriche, aggiungiamo noi, e non certo per tramite di chi, runner o promeneur, «singolarmente» andasse per conto suo.
Ma non di questo, appunto, qui vorremmo dire. Per intendere chi oggi sia additato a responsabile di ongere le muraglie, come i due infelici protagonisti della Storia manzoniana, converrà piuttosto muovere dall’accorata denuncia che un filosofo molto considerato (ma confessiamo qui di non capire il perché di codesta considerazione) ha pubblicato poco più d’un mese fa su un quotidiano soi-disant «comunista», di fronte alle prime misure di emergenza per fronteggiare quella che ancora era chiamata epidemia.
«Il decreto-legge subito approvato dal governo “per ragioni di igiene e sicurezza pubblica”», esordisce il molto considerato filosofo, «manifesta ancora una volta la tendenza crescente a usare lo stato di eccezione come paradigma normale di governo»: l’insieme delle misure adottate si risolve infatti «in una vera e propria militarizzazione» dei territori e in «gravi limitazioni della libertà», affatto sproporzionate rispetto ad «una normale influenza, non molto dissimile da quelle ogni anno ricorrenti»; donde il terribile sospetto che, «esaurito il terrorismo come causa di provvedimenti d’eccezione, l’invenzione di un’epidemia possa offrire il pretesto ideale per ampliarli oltre ogni limite», di talché, «in un perverso circolo vizioso, la limitazione della libertà imposta dai governi» verrebbe «accettata in nome di un desiderio di sicurezza che è stato indotto dagli stessi governi che ora intervengono per soddisfarlo»[7].
Insomma, a dire del filosofo, la pandemia nient’altro sarebbe, manzonianamente parlando, che «manifesta impostura, cabala ordita per far bottega sul pubblico spavento»[8]. E nemmeno i deliri potendo ormai sottrarsi alla pervasiva cogenza del principio della parità di genere, la denuncia del filosofo è stata subito ripresa, sulle stesse pagine, da una filosofa, molto considerata anch’essa, che retoricamente ha aggiunto: «Sarà un caso che il panico sia esploso soprattutto in quelle regioni governate dai leghisti, dove da tempo si istiga all’odio, si indica nell’immigrato il nemico pubblico, portatore di ogni morbo?». No che non è un caso, ça va sans dire: è proprio da costoro, anzi, che «la pulsione securitaria è fomentata». E proprio per ciò, ha filosofato ancora la filosofa, «il sovranismo» non dovrebbe esser scambiato per «una riedizione del vecchio nazionalismo»: ché sarebbe piuttosto «un fenomeno nuovo», che «fa leva sul timore dell’altro, l’allarme per ciò che viene da fuori, l’ansia della precarietà, la voglia di essere immuni»; al punto che «lo Stato di sicurezza si rivela uno Stato medico-pastorale che garantisce l’immunizzazione al cittadino-paziente, pronto dal canto suo, a seguire – tra diritto all’amuchina e divieto di ammucchiata – ogni regola igienico-sanitaria che lo protegga dal contagio, cioè dal contatto con l’altro»[9].
Et voilà, l’untore: il sempre risorgente «sovranismo», che s’inventerebbe «stati d’eccezione» onde indurre nei sudditi quel bisogno di «immunizzarsi» dal contagio che solo può giustificare l’altrimenti intollerabile compressione delle loro libertà e dei loro diritti!
Né si creda appannaggio dei filosofi il dubbio se l’odierna pandemia sia «sostanza» o «accidente», per dirla con quell’altro filosofo che è don Ferrante: una pensosa riflessione sulla necessità che le misure geometricamente sempre più drastiche via via adottate dal governo siano pur sempre «proporzionate» e «non eccedenti» rispetto alle «concrete circostanze» che hanno dato luogo all’emergenza è venuta anche dalla comunità dei giuristi[10], alcuni dei quali si sono spinti a raccomandare che l’odierno «stato d’eccezione» (da intendersi «in senso debole», per carità: e cioè attributivo di poteri pur sempre sindacabili secondo le ordinarie categorie del giure)[11] venga notificato nientemeno che al Segretario Generale del Consiglio d’Europa, in adempimento dell’art. 15 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo: ché sarebbe stato già spiegato che, senza notificazione, non c’è deroga ai diritti garantiti dalla Convenzione che possa reputarsi giustificata e chi s’arrischiasse ugualmente a manometterne il godimento ne pagherebbe i danni[12].
Or non si vuol certo qui prender partito per il «sovranismo»; e specialmente dopo che un «Grande Giornalista» nostro contemporaneo non ha mancato di marchiare a fuoco i pubblici burocrati per l’ulteriore offesa d’aver messo dentro al «Testo coordinato delle ordinanze di protezione civile» del 24 marzo scorso ben 123.103 parole[13]. Ma si vorrebbe provare a far uso del diritto, «che è ragione», come amava dire Sciascia, e anzi propriamente ratio: cioè misura, proporzione, d’un insopprimibile conflitto. E nel gettar luce su questo conflitto, o almeno nel provarci, si vorrebbe tentare operazione di verità: ché se le ideologie, come le manzoniane passioni, «non si posson bandire, come falsi sistemi, né abolire, come false istituzioni», si può nondimeno renderle «meno potenti e meno funeste, col riconoscerle ne’ loro effetti»[14].
Se qualcosa, invero, c’insegna la cronistoria degli eventi di queste settimane (ne ha ragionato una Luca Ricolfi, sul Messaggero: e vogliamo darla per buona, ancorché parziale, per oggetto, e reticente, sulla ragione e la natura degli eventi, e ancor più sulla loro efficienza reciproca)[15] è che, di fronte alla minaccia del virus, le autorità pubbliche si sono mosse allo stesso modo mirabilmente descritto dal Manzoni: «In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l’idea s’ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste, vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto»[16]. E crediamo di non errare se individuiamo la ragione di codesto procedere nel timore diffuso che l’adozione di misure sanitarie restrittive potesse avere per il buon funzionamento della macchina produttiva e commerciale: timore della classe imprenditoriale di ritrovarsi con aziende ferme, incassi nulli e mutui da pagare; della classe lavoratrice, di veder asciugare il già magro salario in un ancor più magro sussidio, immutate restando le uscite per vitto e alloggio; ma anche della classe politica, di veder discendere il prodotto interno lordo e ascendere pro tanto (e anzi di più: per via dell’immane spesa pubblica aggiuntiva necessaria a ricoverare e curare un paese malato e in recessione) il rapporto che con esso intrattengono il nostro deficit e il nostro debito: sui quali rapporti, notoriamente, è occhiuta l’attenzione della Commissione Europea e torvo lo sguardo dei mercati finanziari all over the world.
Né possiamo dire che si trattasse di timori irragionevoli, se il 12 marzo scorso, a poco più d’un mese dalla dichiarazione dello stato di emergenza «relativo al rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili» (delibera del Consiglio dei ministri del 31 gennaio 2020) e all’indomani della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del d.P.C.M. 9 marzo 2020, recante estensione «all’intero territorio nazionale» delle misure restrittive già previste per la Lombardia, la governatrice della Banca Centrale Europea ha annunciato al colto e all’inclita il disimpegno dell’istituto di emissione dall’obiettivo di «chiudere gli spread», altri essendo gli «strumenti» e gli «attori» a ciò deputati[17]: un’affermazione del genere, tradotta in volgare, equivaleva a dire ai Paesi con più alto debito pubblico, come il nostro, d’indebitarsi, per fronteggiare l’emergenza, coi mercati finanziari, se gli fosse riuscito, e ai tassi che questi gli chiedevano, se avessero potuto pagarli; ché in alternativa gli «strumenti» e gli «attori» sarebbero state le forche caudine del Meccanismo Europeo di Stabilità: alle quali forche giust’appunto alludeva il torrenziale decretale della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 16 giugno 2015 (C-62/14, Gauweiler), che nel far salvo il programma di Outright Monetary Transactions varato dalla Banca Centrale Europea il 5-6 settembre 2012 (dopo un pur celebratissimo «Whatever it takes») ne aveva enfatizzato, tra l’altro, la sua «condizionalità rigorosa ed efficace» al rispetto dei programmi di aggiustamento macroeconomico che fossero stati varati in concomitanza dal MES[18].
Timori non infondati, dunque. Rispetto ai quali vana promessa veniva dalla presidente della Commissione Europea, che il debito aggiuntivo contratto per fronteggiare l’emergenza non avrebbe procurato a nostro carico alcuna procedura d’infrazione per aver debordato dall’obbligo di evitare disavanzi pubblici eccessivi: la domanda che agitava i nostri governanti è se la Repubblica potesse trovare davvero chi le imprestasse i denari necessari per vettovagliare e mantenere quella gran parte della popolazione a cui fosse mancato il lavoro; e se potesse trovarli senza strozzarsi con gli usurai che ne fanno offerta sui mercati finanziari o senza alienare ad altri «attori» quel po’ di autonomia che le residua nella politica fiscale: autonomia che significa poter spendere il pubblico denaro sulla base di una gerarchia di priorità sociali da essa stessa individuate, per tramite delle procedure democratiche che trasformano i bisogni in diritti, e non già per ordine di terzi commissari liquidatori. E che meriterebbe d’esser difesa perfino ammettendo che in passato s’è speso male e anzi malissimo, ché le colpe dei padri ricadono sui figli solo nelle faide mafiose: che saranno pure ordinamenti giuridici, come ci hanno magistralmente spiegato Santi Romano e Antonio Pigliaru[19], ma crediamo non civili né desiderabili.
Questa essendo la situazione, è puro vaniloquio dargli all’untore del «sovranismo» e dello «stato d’eccezione»: ché se un insegnamento abbiamo da trarre dal famoso incipit della Teologia politica schmittiana[20] è che la nostra Repubblica «sovrana» non è, non potendo spendere in deficit se non in grazia di prestiti che le provengano dal mercato finanziario né potendo sospendere la decisione che codesta dipendenza ha creato: la quale, notoriamente, si trova scolpita nel Titolo VIII, Capo I, artt. 119-138, del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, e nella «costituzione della moneta» che per tramite d’essi è stata creata[21].
Si potrebbe in effetti discutere della legittimità dell’ossequio che a tale decisione ci siamo vincolati a prestare, l’art. 11 Cost. consentendo limitazioni di sovranità solo «in condizioni di parità con gli altri Stati» e il nostro Paese non potendo per definizione essere “pari” a quegli altri che, all’epoca della firma dei Trattati, avevano la metà o un terzo del nostro debito pubblico e non sarebbero stati dunque impegnati a manovrare disperatamente, quanto vanamente, la finanza pubblica, onde rientrare nei parametri fissati nel mai troppo famigerato «Annesso» al Trattato di Maastricht[22]; ma è discussione ch’è stata già fatta, a suo tempo e purtroppo inutilmente, da Giuseppe Guarino, al quale non abbiamo che da rimandare l’interessato lettore[23].
Si deve piuttosto riconoscere, per cominciare a tirar le fila di questo nostro ormai troppo lungo discorrere, che ciò che adesso vien proposto coll’indovinato nome di «paradigma immunitario»[24], e che mai come in questi giorni di trepidazione sembra costituire il punto d’annodamento delle semantiche del diritto come della politica, della tecnologia come della medicina, altro non è che il vestimento ideologico di questo alienarsi della sovranità politica nel mercato concorrenziale: il quale ultimo, potendo concepire il legame sociale soltanto nella forma di una «mutua e generale dipendenza di individui reciprocamente indifferenti»[25], deve preventivamente sciogliere costoro da tutti i «variopinti vincoli» che possono altrimenti avvincerli gli uni agli altri e non lasciarne altri che «il nudo interesse, il freddo “pagamento in contanti”»[26]. Non ci vien forse ricordato che «immunitas» è vocabolo privativo, che designa colui che risulta muneribus vacuus, sine muneribus, e dunque sgravato, esonerato, dispensato dal pensum di tributi o prestazioni nei confronti di altri? E non ci si è da lungo tempo spiegato che codesta «immunità» viene principalmente rivendicata nei confronti del pubblico potere, costituendo il fondamento logico e giuridico del contrattualismo di ispirazione liberale? E donde altrimenti verrebbe l’odierna fascinazione per i «diritti fondamentali», di cui s’ammanta la retorica del nuovo costituzionalismo[27], se non da quella medesima ideologia, che vede nel «diritto soggettivo» un che di trascendente rispetto agli ordinamenti positivi? E dove poggia codesta ideologia se non sulla pretesa, a suo tempo denunciata da Kelsen[28], di proteggere in ultima analisi quel fondamentalissimo diritto che è la proprietà privata capitalistica da qualsiasi attentato che possa venirle da un qualunque ordinamento giuridico positivo, e in specie da quelli in cui la produzione normativa avvenga su basi democratiche, e dunque anche da parte di non proprietari?
Che poi codeste raffinatissime e seducenti costruzioni ammutoliscano di fronte ad una pandemia, non c’è menarne meraviglia: ché la necessaria contropartita dell’individuo sine muneribus è l’assenza di adeguati munera publici, che di quanto necessariamente eccede il suo particulare (come una pandemia, appunto) possano convenientemente assumere il carico. E di questa assenza, a saperle leggere, raccontano propriamente le terribili cronache delle «scelte tragiche»[29] cui sono stati chiamati i medici del nostro scassatissimo (et pour cause) Servizio Sanitario Nazionale; e il fatto che in mezzo ad una tragedia epocale si sia costretti a invocare una disciplina derogatoria, che ripari i sanitari dalle prevedibili cause risarcitorie che gli saranno intentate dai congiunti dei morti per insufficienza di posti di terapia intensiva[30], la dice assai lunga su quanto forte, nel recente passato, si sia spinto sul pedale sulla leva risarcitoria: quasi che la responsabilità civile fosse l’unico modo socialmente immaginabile per tutelare il diritto alla salute e non invece il penoso sottoprodotto dell’ingiunzione «eurounitaria», come adesso usa dire, di destinare ai rentier gli avanzi primari del bilancio pubblico degli ultimi tre decenni.
Ecco, crediamo di non sbagliare se individuiamo in questa «ideologia immunitaria» la base su cui poggia l’attuale fragilissima costruzione europea: e tanto diciamo, sia chiaro, non per dargli anche noi all’untore e men che meno per contrapporre ad essa il ridicolo «sovranismo» di cui si straparla fra una comparsata in tv e un ammiccamento via twitter. Ma piuttosto per indicare la via per una nuova, e possente, lotta per il diritto: per fargli imboccare una nuova e diversa strada, che alla sottomissione dei pubblici poteri al mercato finanziario, consacrata nei Trattati vigenti, sostituisca quella del mercato alla politica pubblica; consapevoli che gli interessi di migliaia d’individui (e di non pochi Stati) si sono annodati al diritto esistente in un modo tale che porre la questione dell’attuale ordinamento dell’Unione Europea significa dichiarar loro guerra; e che l’esito di questa guerra si deciderà, come in ogni lotta, sulla base dei rapporti di forza in contesa.
Chi ha memoria del primo capitolo del celeberrimo libello di Jhering, riconoscerà in quanto appena detto poco più che una parafrasi delle sue parole[31]: e convinti come siamo, anche noi, che non si possa più scrivere, ma soltanto riscrivere[32], non ce ne spiace. Piuttosto, e ancora riscrivendo, vorremmo suggerire di guardare alle prime, timide richieste di socializzare il debito sovrano degli Stati membri dell’Unione, e alla potenza di fuoco che gli si oppone, come ad una tappa, e delle più decisive, della lotta fra il diritto dell’Europa del passato e quello dell’Europa avvenire: ché solo in grazia della sua socializzazione il negativo del «debito» potrebbe mutar di segno e ricongiungersi con quel munus commune cui rimanda il significato originario del termine «communitas»[33].
E chissà che non sia meglio richiamarla «Comunità Europea».
[1] L. Sciascia, «Storia della colonna infame» [1973], già in Id., Cruciverba [1983], e ora in Id., Opere, a cura di P. Squillacioti, Milano, Adelphi, 2012-2019, II, t. ii, p. 592.
[2] Ibid., p. 592-594.
[3] Ibid., loc. ult. cit.
[4] I promessi sposi. Storia milanese del secolo XVII scoperta e rifatta da Alessandro Manzoni [1842], ora in A. Manzoni, I promessi sposi. Storia della colonna infame, Torino, Einaudi, 2015, p. 555.
[5] Cfr. L. Sciascia, La strega e il capitano [1986], ora in Id., Opere, cit., II, t. i, p. 815.
[6] I promessi sposi, cit., p. 531.
[7] G. Agamben, Lo stato d’eccezione provocato da un’emergenza immotivata, in «il manifesto», 26 febbraio 2020.
[8] I promessi sposi, cit., p. 529.
[9] D. Di Cesare, Anche per lo stato d’eccezione la paura è un boomerang, in «il manifesto», 1° marzo 2020.
[10] Si vedano almeno I. M. Pinto, La tremendissima lezione del Covid-19 (anche) ai giuristi, in «Questione Giustizia.it», 18 marzo 2020; A. Ruggeri, Il coronavirus contagia anche le categorie costituzionali e ne mette a dura prova la capacità di tenuta, in «Diritti Regionali.it», 21 marzo 2020; O. Pollicino, F. Resta, Data tracing, no deleghe in bianco all’algoritmo, in «Corrierecomunicazioni.it», 24 marzo 2020; G. Azzariti, I limiti costituzionali della situazione d’emergenza provocata dal Covid-19, in «Questione Giustizia.it», 27 marzo 2020; F. Filice, G. M. Locati, Lo stato democratico di diritto alla prova del contagio, ivi, 27 marzo 2020; C. Caprioglio, E. Rigo, Le restrizioni alla libertà di movimento ai tempi del Covid-19, ivi, 30 marzo 2020; F. De Stefano, La pandemia aggredisce anche il diritto?, intervista a C. Caruso, G. Lattanzi, G. Luccioli e M. Luciani, in «Giustizia Insieme.it», 2 aprile 2020.
[11] Così T. Epidendio, Il diritto nello “stato di eccezione” ai tempi dell’epidemia da Coronavirus, in «Giustizia Insieme.it», 30 marzo 2020.
[12] Così G. O. Cesaro, La tutela dei diritti fondamentali nell’ambito dell’emergenza COVID-19, in «Diritto 24.it», 25 marzo 2020. Più sfumate le valutazioni al riguardo di E. Sommario, Misure di contrasto all’epidemia e diritti umani, fra limitazioni ordinarie e deroghe, in «SIDIBlog.org», 27 marzo 2020, e di L. Acconciamessa, COVID-19 e diritti umani: le misure di contenimento alla luce della CEDU, in «iusinitinere.it», 28 marzo 2020. Di opinione recisamente contraria G. L. Gatta, I diritti fondamentali alla prova del coronavirus. Perché è necessaria una legge sulla quarantena, in «Sistema Penale.it», 2 aprile 2020.
[13] G. A. Stella, Coronavirus e un decreto da 123 mila parole. Ossia: 13 volte la Costituzione, in «Corriere della sera», 26 marzo 2020; e lo chiamiamo «Grande Giornalista» per rendere omaggio, tramite suo, ad una insuperata caratterizzazione sciasciana, alla quale rinviamo il lettore (L. Sciascia, Il cavaliere e la morte. Sotie [1987], ora in Id., Opere, cit., I, p. 1169).
[14] A. Manzoni, Storia della colonna infame [1842], in Id., I promessi sposi. Storia della colonna infame, cit., p. 674.
[15] L. Ricolfi, Caso tamponi, la storia di un errore annunciato, in «Il Messaggero», 29 marzo 2020.
[16] I promessi sposi, cit., p. 538.
[17] Si veda la cronaca dell’allocuzione (e particolarmente dei retroscena, che dicono più dell’allocuzione stessa) in F. Fubini, Il discorso di Lagarde e quelle parole suggerite da una collega tedesca, in «Corriere della sera», 13 marzo 2020.
[18] Rinviamo sul punto alla limpida analisi di O. Chessa, La costituzione della moneta. Concorrenza, indipendenza della banca centrale, pareggio di bilancio, Napoli, Jovene, 2016, p. 352 ss.; e a L. Lionello, La BCE nella tempesta della crisi sanitaria, in «SIDIBlog.it», 28 marzo 2020, per una ragionata argomentazione di come dall’annunciata adozione, a frittata fatta, del Pandemic Emergency Purchase Programme, che pure non mancherà di provocare tensioni analoghe a quelle che hanno portato la Corte di Giustizia a doversi pronunciare sul programma OMT, non possano attendersi effetti decisivi né sul piano della stabilità economica dell’area euro né, men che meno, su quello dell’effettiva protezione dei redditi delle famiglie e in generale dell’economia reale.
[19] Si leggano (o si rileggano: ché non fa mai male) S. Romano, L’ordinamento giuridico [1918], Firenze, Sansoni, 1946; A. Pigliaru, La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico, Milano, Giuffrè, 1959.
[20] «Sovrano è chi decide dello stato di eccezione» (C. Schmitt, Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità [1934], in Id., Le categorie del “politico”, a cura di G. Miglio e P. Schiera, Bologna, Il Mulino, 1972, p. 33).
[21] Rinviamo ancora a O. Chessa, La costituzione della moneta, cit., dove il lettore troverà accuratamente misurata la distanza che separa codesta «costituzione della moneta» dalla Costituzione della Repubblica Italiana, antinomicamente «fondata sul lavoro».
[22] Sull’impossibilità di ridurre il debito pubblico mediante tagli alle spese si espresse numerose volte Keynes: e basti qui rinviare al lettore all’incipit del sedicesimo capitolo della sua Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta (1936), dove le conseguenze paradossali della parsimonia sono spiegate con un linguaggio così letterariamente godibile quale mai più si sarebbe apprezzato in un testo di economia. Sulla insensatezza dei parametri fissati nell’«Annesso» al Trattato di Maastricht (e diciamo “insensatezza” per carità di patria; e patria europea, beninteso), il riferimento obbligato è invece L. L. Pasinetti, The myth (or folly) of the 3% deficit/gdp Maastricht “parameter”, in «Cambridge Journal of Economics», n. 22 (1998), p. 103 ss.
[23] G. Guarino, Pubblico e privato nella economia. La sovranità tra Costituzione e istituzioni comunitarie, in «Quaderni costituzionali», 1992, n. 1, p. 42 ss.
[24] Il riferimento s’intenda per tutti a R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Torino, Einaudi, 2002.
[25] K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica [1857-58], Firenze, La Nuova Italia, 1978, vol. 1, p. 97.
[26] K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista [1848], Torino, Einaudi, 1989, p. 103. Innominato e innominabile Marx, s’è detto: ma, come si vede, non per noi.
[27] Per una affilata critica della quale rinviamo a R. Bin, Critica della teoria dei diritti, Milano, Franco Angeli, 2018.
[28] Si veda H. Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto [1934], Torino, Einaudi, 2000, spec. p. 80-81.
[29] R. Conti, Scelte tragiche e Covid-19, intervista a L. Ferrajoli, A. Ruggeri, L. Eusebi e G. Trizzino, in «Giustizia Insieme.it», 24 marzo 2020.
[30] Si veda sul punto C. Cupelli, Emergenza COVID-19: dalla punizione degli “irresponsabili” alla tutela degli operatori sanitari, in «Sistema Penale.it», 30 marzo 2020.
[31] Lo si rilegga in R. von Jhering, La lotta per il diritto [1891], in Id., La lotta per il diritto e altri saggi, a cura di R. Racinaro, Milano, Giuffrè, 1989, spec. p. 89-90.
[32] «Non è più possibile scrivere: si riscrive», rispondeva Sciascia a Claude Ambroise (14 domande a Leonardo Sciascia, in L. Sciascia, Opere 1956-1971, a cura di C. Ambroise, Milano, Bompiani, 2004, p. xvi).
[33] Siamo debitori della suggestione etimologica a R. Esposito, Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero, Torino, Einaudi, 2013, p. 227-228.
Il “Pianeta carcere” nei giorni del COVID 19 ed il Pubblico Ministero. Nota del Procuratore Generale Presso la Corte di Cassazione di Stefano Tocci
Sommario: 1. Premesse - 2. La custodia cautelare -3. L’esecuzione penale
1.Premesse
La nota del Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione costituisce un primo ed importante documento di orientamento emesso dal superiore ufficio nella prospettiva di suggerire riflessioni e soluzioni pratiche al più drammatico dei problemi che il mondo giudiziario è chiamato ad affrontare in piena emergenza COVID 19, ossia la carcerazione e la gestione del “pianeta carcere”.
È noto come per il nostro Paese la gestione della dimensione carceraria costituisca una emergenza permanente, mai risolta nonostante molteplici interventi settoriali che il Legislatore ha provato a mettere in opera da dieci anni a questa parte, anche sollecitato dalle note pronunce CEDU (a partire dalla sentenza “Sulejmanovic”, per passare alla “Torregiani” e così via), che è ora ulteriormente aggravata dal sopraggiungere della devastante emergenza sanitaria. La pandemia COVID 19 ha indubbiamente provocato uno stravolgimento delle ordinarie regole ed abitudini del vivere quotidiano, in senso molto più restrittivo, ed il rischio che il protrarsi della situazione emergenziale nel tempo trasformi gli attuali pesanti disagi in una vera e propria “bomba sociale” sono altissimi. La ripercussione di ciò sulla dimensione carceraria, già ipotizzabile in astratto, ha purtroppo già trovato una sua prima manifestazione nei tumulti verificatisi nei giorni scorsi presso numerosi istituti carcerari, che hanno peraltro avuto anche costi in termini di vite umane.
Evidente quindi, in assenza – del tutto o quasi - di specifiche disposizioni legislative, la necessità che gli uffici del pubblico ministero, demandati all’iniziativa cautelare ed esecutiva, nonché partecipi al contraddittorio nei procedimenti di sorveglianza, condividano un orientamento operativo comune in tema di misure precautelari e cautelari, nonché di esecuzione delle pene nella fase iniziale ed in quella gestionale.
La nota del Procuratore Generale risponde quindi a detta esigenza, ponendosi non come linea guida ma come riflessione, maturata anche attraverso l’interlocuzione interna all’Ufficio nonché con quelli periferici, diretta a suggerire criteri condivisi di valutazione da adoperare nella quanto mai difficile ponderazione, in questa situazione emergenziale, delle esigenze di cautela sociale con la straordinaria necessità di attenuare il più possibile il peso dell’endemico sovraffollamento carcerario alla luce della grave situazione sanitaria.
Le indicazioni fornite con la nota sono caratterizzate da una attenta lettura del dato normativo alla luce della prospettiva di trovare soluzioni ermeneutiche che consentano un “alleggerimento” degli istituti penitenziari senza forzature che stravolgano l’attuale quadro giuridico e risultino eccessivamente recessive rispetto alle esigenze di tutela sociale.
La nota si suddivide per argomento: a) la custodia in carcere, scrutinata nei corollari della misura precautelare, della richiesta di misura cautelare e della revoca della misura cautelare; b) l’esecuzione delle pene detentive; c) la fase penitenziaria dell’esecuzione.
2. La custodia cautelare
Il tema della custodia in carcere è affrontato alla luce del principio di residualità della carcerazione già sancita dalla L.n. 47/2015, che oggi va valutata anche alla stregua della oggettivizzazione della situazione di inapplicabilità della misura, determinata dal rischio epidemico ed in ragione della tutela della salute pubblica. La massima misura appare quindi sconsigliabile per tutti quei casi che esulano dal novero dei reati rientranti nel perimetro presuntivo di pericolosità ovvero rientranti nella sfera operativa del “codice rosso”. Tale soluzione è sicuramente coerente al principio giurisprudenziale secondo cui il giudice - accertate in concreto le esigenze peculiari di cautela sociale e processuale - è tenuto a scegliere, fra quelle normativamente previste, la misura che si riveli come la più idonea ad evitare - da un canto - la compromissione delle necessità di natura processuale o di tutela della collettività e - dall'altro - a consentire il minor sacrificio per il bene della libertà dell'imputato, tenendo presente che la custodia in regime carcerario costituisce la extrema ratio e, pertanto, può essere disposta o mantenuta solo se risultino incongrue tutte le altre misure ad essa alternative. Ed il ricorso a misure “alternative” è quanto espressamente consigliato dal Procuratore Generale, il quale peraltro si sofferma sull’opportunità di evitare anche l’applicazione della misura dell’obbligo di presentazione alla PG (art. 282 c.p.p.), risultando la stessa del tutto incongrua rispetto all’attuale situazione epidemica, ed apparendo piuttosto maggiormente adeguata la misura dell’obbligo di dimora, sicuramente più coerente alle disposizioni di distanziamento sociale attualmente in vigore.
Per le misure precautelari in nota si evidenzia la necessità di un rigorosissimo rispetto delle condizioni di applicazione di cui agli artt. 381 – 382 c.p.p., di una attenta valutazione dei presupposti dell’art. 384 c.p.p. con particolare riferimento al pericolo di fuga, da ponderarsi anche in riferimento alle norme eccezionali di contenimento disposte dal Governo in ragione dell’epidemia in corso. Si suggerisce quindi di adottare ogni soluzione più confacente all’interesse, ormai generale, di scongiurare o limitare al massimo la presenza dell’arrestato o fermato in carcere, prediligendosi la custodia al domicilio dell’arrestato ai sensi dell’art. 558 comma 4 bis c.p.p. e la più rapida presentazione dell’arrestato innanzi al giudice per lo svolgimento del rito direttissimo, e ribadendosi al contempo la necessità che particolari reati, caratterizzati proprio dalle fenomenologie conseguenti all’attuale situazione di emergenza, conoscano adeguata e ferma risposta (ad es. rapina a farmacia o in danno di persona anziani a cui l’agente si presenti come addetto della protezione civile). Essenziale quindi in questo momento, più del solito, la concertazione con PG.
Detti principi meritano altresì applicazione con riferimento alla richiesta di misura cautelare, per cui la ricorrenza delle esigenze cautelari deve essere attentamente valutata con riferimento alle priorità di tutela della salute pubblica. La regola di giudizio anche qui suggerita è quella di evitare il più possibile forme di contenimento incompatibili con le regole di distanziamento sociale. Consigliata è altresì la posticipazione di richieste cautelari – o esecuzione delle stesse - che concernono fatti risalenti nel tempo o che comunque sono caratterizzati da aspetti da ritenersi recessivi rispetto alle necessità di distanziamento sociale oggi sussistenti per motivi sanitari, esigenze da valutarsi anche in caso di revoca o sostituzione della misura cautelare.
3. L’esecuzione penale
Più complessa appare la lettura in chiave emergenziale della materia dell’esecuzione penale, del tutto non considerata dalla produzione normativa di questi ultimi giorni.
Il Procuratore Generale, esaminate le situazioni processuali ed esecutive ipotizzabili, rappresenta che, alla luce della generale sospensione dei termini processuali di cui all’art. 83 comma 2 d. L. 18/2020, nel caso in cui il soggetto passibile di esecuzione, sia in stato di libertà e la pena da eseguire sia inferiore a quattro anni, l’ordine di esecuzione con contestuale sospensione dell'esecuzione stessa ai sensi dell'art. 656 comma 5 c.p.p., conosce, ai sensi della norma emergenziale suddetta, la sospensione del termine di trenta giorni per la richiesta di misura alternativa alla detenzione. Medesima soluzione si presta per il caso di cui all’art. 656 comma 10 c.p.p. per il caso in cui il titolo esecutivo rientri nella dimensione applicativa del comma 5 dell’art. 656 c.p.p.. Per ogni caso di esecuzione di pena non suscettibile di sospensione in virtù della norma processuale, l’art. 83 comma 2 cit. non offre alcuna soluzione definita per cui in nota il Procuratore Generale invita a valutare in modo “ragionato” l’opportunità dell’immediata emissione dell’ordine di carcerazione per il condannato in stato di libertà, evidenziando che comunque le esigenze di tutela dal rischio di contagio in ambiente carcerario devono ritenersi recessive nel caso in cui si tratti di situazioni in ordine alle quali si configura un pericolo concreto ed attuale che un differimento dell’esecuzione della pena possa comportare rischi per l’incolumità e la sicurezza delle persone (si pensi al reato di maltrattamenti in famiglia).
Quanto alla fase penitenziaria, in nota si sottolinea la rilevanza della “nuova” misura alternativa alla detenzione, contemplata dall’art. 123 d. L. 18/2020, ossia la detenzione domiciliare di emergenza, misura quasi analoga alla previsione normativa di cui alla L.n. 199/2010, all’epoca introdotta al fine di “sfollare” le carceri del Paese, evidenziando le problematicità correlate alla disponibilità di “braccialetti elettronici”. Qualora ricorra la detta criticità, la soluzione proposta è conforme all’insegnamento della Corte Suprema, in tema di misure cautelari, secondo cui “Il giudice investito da una richiesta di applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari con il c.d. braccialetto elettronico o di sostituzione della custodia cautelare in carcere con la predetta misura, deve, preliminarmente, accertare la disponibilità del congegno elettronico presso la polizia giudiziaria e, in caso di esito negativo, dato atto della impossibilità di adottare tale modalità di controllo, valutare la specifica idoneità, adeguatezza e proporzionalità di ciascuna delle misure, in relazione alle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto” (Cass. SS.UU. n. 20769/2016). La misura quindi potrà essere applicata provvisoriamente in modo “ordinario”, fino al momento dell’intervenuta disponibilità del “braccialetto elettronico”
In riferimento alla normativa penitenziaria già vigente, il Procuratore Generale invita ad una applicazione “adeguata” all’attuale situazione di emergenza sanitaria delle disposizioni già esistenti. In particolare, ferme restando le ostatività normativamente stabilite e non eliminate, nemmeno con norma temporanea, dalla legislazione emergenziale, in questo momento storico è auspicabile un ricorso più massiccio dell’applicazione provvisoria delle misure alternative in via cautelare previste dagli artt. 47 comma 4 , 47 ter comma 1 quater OP e 94 comma 2 D.P.R. n. 309/90.
Quanto all’affidamento in prova al servizio sociale, il magistrato di sorveglianza può allocare il soggetto in condizione extracarceraria qualora questi disponga almeno di una abitazione, imponendo severe prescrizioni, pur in assenza di un programma trattamentale completo di attività lavorativa o risocializzante.
Tale allagamento ermeneutico, giustificabile alla luce della attuale situazione emergenziale (che si prevede investirà anche la dimensione economica della nostra società), può comunque trovare avvallo giurisprudenziale alla luce dell’insegnamento della Suprema Corte secondo cui il lavoro non è un requisito per l’accesso alla misura previsto dalla Legge ma ai fini della concessione dell'affidamento in prova al servizio sociale, lo svolgimento di un'attività lavorativa è soltanto uno degli elementi idonei a concorrere alla formazione del giudizio prognostico favorevole al reinserimento sociale del condannato, ma non può rappresentare una condizione ostativa di accesso alla misura qualora lo stesso non possa prestare tale attività per ragioni di età o di salute (Cass. Sez. 1 - , Sentenza n. 1023 del 30/10/2018 Cc. -dep. 10/01/2019-) Rv. 274869 – 01).
Perplessità nutre il Procuratore Generale sulla possibilità di una applicazione “allargata” dell’art. 47 ter comma 1 lett. c) OP, nel caso in cui un detenuto o un operatore penitenziario sia riscontrato positivo al virus, per allocare ai domiciliari gli altri detenuti della sezione che, comunque, devono essere posti in isolamento fiduciario. Si ritiene in nota che tale norma, alla luce della giurisprudenza della Suprema Corte, non appare suscettibile di applicazione generalizzata richiedendosi una valutazione specifica delle condizioni di salute di ogni singolo detenuto in rapporto anche alla possibilità di gestione della criticità da parte dell’amministrazione penitenziaria. La nota del Procuratore Generale quindi, seguendo una linea di grande sensibilità per le criticità del sistema penitenziario, oggi ancor più messo a dura prova dall’epidemia COIV 19 in corso, costituisce sostanzialmente un invito agli uffici del pubblico ministero del Paese ad operare, ora più che mai, secondo regole di buon senso. In linea generale, laddove non vi è norma espressa, si consiglia di valutare ogni caso concreto alla luce della attuale situazione emergenziale, da una parte evitando soluzioni troppo rigorose che possano mettere ulteriormente in crisi l’attuale difficilissima situazione degli istituti penitenziari, dall’altra ampliando tendenzialmente la dimensione ordinaria di applicazione del principio del favor libertatis, che permea di sé l’intero sistema penale e quello esecutivo – penitenziario in particolare, senza tralasciare le esigenze di tutela sociale, specificatamente quelle dirette a proteggere la vita e la sicurezza delle persone, e dell’efficacia della risposta di giustizia
per i fatti più gravi.[1]
In via interpretativa di più probabilmente non è possibile fare, non spettando certo alla magistratura il compito di forzare il sistema giuridico ed assumere decisioni che di fatto si traducano in scelte di politica penale che spettano, invero, ad altri organi dello Stato.
[1] “l’idea di fondo che ispira il documento è che l’esigenza di tutelare la salute pubblica, prevenendo la diffusione del contagio nelle sovraffollate carceri italiane, è in questo momento una priorità, che suggerisce ai pubblici ministeri l’opportunità di valutare le diverse opzioni che la legislazione vigente mette a disposizione per ridurre la popolazione penitenziaria. Il documento si propone quindi di mettere a fuoco le principali vie di deflazione penitenziaria offerte dal sistema, anche attraverso l’interpretazione estensiva o analogica di disposizioni del codice di procedura penale o della legge sull’ordinamento penitenziario, che può trovare supporto nel diritto vivente” Sistema Penale 03.04.2020.
La formazione dei magistrati al tempo dell’emergenza da covid-19
Ernesto Aghina e Costantino De Robbio
Sommario: 1. Preambolo - 2. La Scuola Superiore della Magistratura di fronte all’emergenza - 2.1. L’esplosione dell’emergenza sanitaria del Covid-19 ed il primo impatto sulla Scuola Superiore della Magistratura - 2.2 La formazione iniziale della S.S.M. e la prima sperimentazione dei corsi a distanza - 2.3 La formazione permanente - 3. La formazione dei m.o.t. negli uffici giudiziari - 4. La formazione dei tirocinanti ex art.73 d.l. n. 69/2013.
1. Preambolo
L’esplosione della pandemia che stiamo vivendo in queste settimane costituisce un avvenimento senza precedenti in tempi moderni e le criticità che ne derivano non sono limitate solo alle attività giudiziarie in senso stretto ma anche al delicato e complesso settore della formazione.
Si tratta di un’emergenza del tutto imprevedibile nel suo sorgere e di cui ancora non è possibile pronosticare né i tempi della sua conclusione né gli effetti nel lungo periodo e che ha costretto la Scuola Superiore della Magistratura ad una risposta immediata, anche in relazione alla legittima “ansia formativa” dei magistrati ordinari in tirocinio, oltretutto in un momento in cui sono in corso di espletamento i tirocini di due differenti concorsi.
Ciò nonostante, si può serenamente affermare che la Scuola ha reagito con prontezza e profondità di sguardo, riuscendo a non limitare la sua risposta solo al contingente ma approntando con coraggio e apprezzabile celerità una completa rimodulazione del suo modulo formativo.
Non sembra esagerato parlare dunque di una vera e propria rivoluzione copernicana, cui la Scuola è stata chiamata ex abrupto ed in un momento particolarmente difficile per l’organizzazione anche del lavoro ordinario: basti pensare al fatto che tutte le attività sono svolte in sinergia dalla struttura amministrativa, da quella informatica e dal Comitato Direttivo della Scuola “da remoto”, che costituisce l’unico strumento comunicativo con la vastissima platea dei soggetti coinvolti nell’attività formativa.
Per non parlare delle difficoltà in cui si sono trovati i formatori decentrati, i magistrati affidatari dei m.o.t. e dei tirocinanti ex art. 73, tutti accomunati dalla improvvisa necessità di non interrompere il percorso formativo intrapreso e di adeguarsi anche con originalità alla nuova situazione.
Si è così determinata negli uffici giudiziari una iniziale “risposta” formativa di carattere estemporaneo, variegata ed in una prima fase ineludibilmente affidata al dinamismo individuale, ma che ora occorre pianificare in modo adeguato ed organizzato, creando una “rete” di collegamenti anche all’interno dei singoli uffici.
Va detto peraltro come la necessità di far fronte all’emergenza in una fase così drammatica potrebbe anche portare ad una crescita qualitativa dell’offerta formativa.
Occorrono però a tal fine un veloce cambio di passo nella informatizzazione della magistratura e la decisione di dotare la Scuola e gli uffici giudiziari di personale e mezzi all’altezza della sfida che ci aspetta.
Non tutti sembrano avere piena consapevolezza del rilievo dell’impegno assunto e dei risultati raggiunti in un tempo eccezionalmente breve, probabilmente anche a causa della difficoltà di veicolazione all’esterno di quanto è stato fatto e si sta per fare.
Anche a questo scopo potrebbe servire il presente articolo.
2. La Scuola superiore della magistratura di fronte all’emergenza
2.1. L’esplosione dell’emergenza sanitaria del Covid-19 ed il primo impatto sulla Scuola Superiore della Magistratura.
L’attività della Scuola Superiore della Magistratura ha continuato a pieno ritmo anche se, come è intuibile, l’impatto della pandemia attualmente in corso sulla complessa macchina della formazione dei magistrati è stato devastante sin dalla sua prima fase.
L’esplosione dei primi focolai di contagio nelle zone presto individuate come “zone rosse” ha avuto un’immediata conseguenza su un’attività complessa e variamente articolata quale quella in esame.
Il dato comune a pressoché tutti i settori della formazione dei magistrati è da sempre il continuo spostamento dei discenti e dei docenti da ogni parte d’Italia verso la sede didattica ove si tengono i corsi.
Nel momento in cui sono esplosi i primi segnali dell’emergenza sanitaria erano in calendario numerosi corsi che prevedevano l’affluenza a Scandicci di centinaia di utenti, oltre ad altri previsti in varie sedi, tra cui un importante evento formativo previsto proprio a Milano, a pochi chilometri dal primo focolaio italiano del virus.
Il primo effetto della pandemia sulla formazione è stato dunque indiretto, ma estremamente forte: prima ancora che il divieto di movimento dalle zone più colpite del territorio nazionale venisse sancito da un provvedimento avente portata generale, una semplice regola di buon senso ha portato in pochi giorni un numero sempre crescente di relatori a comunicare la revoca della disponibilità a tenere la relazione.
Al contempo, una fetta sempre più rilevante di partecipanti ai corsi ha presentato domanda di esonero, per motivi più o meno direttamente ricollegabili al coronavirus.
Il primo provvedimento adottato dal Comitato Direttivo della Scuola è stato il monitoraggio dei discenti e dei docenti provenienti dalle zone più a rischio, per evitare che la concentrazione dei partecipanti e dei docenti divenisse involontaria occasione di propagazione del virus; si è pertanto deliberato di concedere a chiunque avesse validi motivi la possibilità di richiedere di essere esonerati dalla partecipazione ai corsi in programmazione.
La situazione sanitaria nel frattempo, rivelatasi molto più grave di quanto inizialmente apparso, ha portato ben presto ad un numero di defezioni tra docenti e discenti talmente elevato da imporre l’immediata sospensione dei corsi in programmazione per la formazione permanente per le successive due settimane.
L’idea iniziale di continuare l’attività anche in condizioni così drammatiche, per dare un segnale di tenuta dell’istituzione, ha dovuto cedere di fronte alle pressanti esigenze di tutela della salute, procedendosi così all’annullamento dei corsi, inizialmente di settimana in settimana, in attesa di verificare gli sviluppi dell’emergenza.
L’annullamento di un corso, va detto per inciso, comporta a sua volta una procedura complessa comprendente la comunicazione di centinaia di annullamenti di prenotazioni alberghiere e di biglietti aerei e ferroviari, un numero pari di notifiche a discenti e relatori, agli organismi di formazione territoriale e agli altri organismi istituzionali coinvolti ed agli uffici di appartenenza dei soggetti coinvolti, la discussione del pagamento di eventuali penali e così via, attività che è venuta a gravare sulla struttura amministrativa in aggiunta a quella ordinaria.
Al contempo, in alcuni dei maggiori Tribunali d’Italia i Presidenti delle Corti di Appello disponevano la chiusura di tutte le aule destinate alla formazione al fine di evitare assembramenti forieri di possibili contagi, imponendo indirettamente l’immediata sospensione di tutti i corsi organizzati in sede territoriale ed il blocco totale degli stage.
Diverso il provvedimento adottato dalla Scuola Superiore della Magistratura per la formazione iniziale, di cui si dirà in seguito.
In conseguenza di questi primi provvedimenti la macchina amministrativa della Scuola si è trovata ad affrontare un’enorme mole di adempimenti e alla diramazione urgente di avvisi ai discenti, ai docenti, alle strutture alberghiere, alle compagnie ferroviarie ed aeree ed alla riprogrammazione dei corsi nelle nuove date.
Anche il Comitato direttivo è stato costretto a familiarizzare con la piattaforma telematica Teams, per continuare le sue riunioni periodiche e mantenere il collegamento con il personale amministrativo.
Nelle more, essendo i provvedimenti iniziali limitati alle successive due settimane, è continuata l’attività di organizzazione dei corsi successivi, con predisposizione dei programmi, contatti con i relatori (sempre più difficilmente disponibili), prenotazioni, nomina di esperti formatori e così via, il tutto per l’organizzazione di corsi forzatamente destinati a successivo annullamento.
Con l’acquisizione di una emergenza non più contingente, il 19 marzo è stata disposta la sospensione di tutti i corsi di formazione permanente e di quelli in sede decentrata fino alla data del 1 luglio e la riprogrammazione dei corsi di formazione iniziale nelle forme della partecipazione a distanza.
Dopo un travagliato periodo di incertezza (nel corso dei quali ai partecipanti italiani a corsi all’estero è stato impedito il ritorno in Italia o addirittura in alcuni casi disposto l’isolamento in albergo) anche la formazione internazionale ha patito uno stop completo fino a data da destinarsi.
2.2 La formazione iniziale della S.S.M. e la prima sperimentazione dei corsi a distanza.
Le caratteristiche della formazione iniziale impediscono la sospensione dei corsi a tempo indeterminato: il tirocinio dei m.o.t. deve iniziare e terminare in un periodo di tempo predeterminato per legge, sicché la sospensione delle settimane di frequenza dei corsi della Scuola fino al 1 luglio come disposto per gli altri settori di formazione avrebbe comportato la perdita secca della possibilità di espletare il tirocinio per i m.o.t., con conseguente loro immissione in servizio senza formazione o con periodi di formazione fortemente compromessi.
In questo momento sono in attività formativa iniziale due concorsi, uno nella fase del tirocinio mirato (D.M. 12.2.2019) ed uno in quello di tirocinio generico (D.M. 3.1.2020), con conseguente sovraccarico della struttura centrale di formazione.
Per altro verso, la chiusura pressocché totale degli uffici giudiziari ha fortemente limitato sia la parte del tirocinio in affiancamento agli affidatari – nonostante lo sforzo di molti di essi, tuttora lodevolmente in atto, di dedicarsi ai propri m.o.t. da remoto – sia la possibilità di effettuare gli stage.
La trasformazione delle settimane di frequenza presso la Scuola in corsi a distanza per i m.o.t. è dunque apparsa l’unica soluzione in grado di continuare l’espletamento del tirocinio per i due concorsi, anche se in forma diversa da quella tradizionale.
Va peraltro rilevato che alcune forme di formazione a distanza erano già state sperimentate con successo dalla Scuola nel suo primo quadriennio di attività: sia per la creazione di corsi e-learning sulla piattaforma Moodle (sulla quale è ancora a disposizione un’enorme mole di materiali fruibili da tutti i magistrati), sia per la videoregistrazione di numerosi corsi (di cui è ragionevole auspicare la rinnovata disponibilità sul sito web).
Nelle scorse settimane si è dunque deciso - stante anche l’impossibilità di rinviare ulteriormente i corsi in un calendario già affollato al limite della possibilità di gestione - di accelerare il progetto di organizzare corsi di formazione da remoto.
Un piano di lavoro già in fase di studio da tempo, sia per la formazione iniziale che per quella permanente, e a tale scopo la Scuola Superiore della Magistratura aveva già stipulato un contratto con la Microsoft per l’acquisto di un pacchetto di servizi comprendente la piattaforma Teams, particolarmente versatile a fini didattici.
La prima settimana del tirocinio generico del D.M. 2020 si è così trasformata in una settimana di formazione a distanza: il primo corso è in fase di espletamento proprio in questi giorni, dal 30 marzo al 3 aprile e ad esso seguirà un secondo corso (ogni settimana di questo DM, come si è detto, si divide in due tranche da 120 MOT ciascuno) dal 20 al 24 aprile.
Com’è evidente, l’urgenza dell’intervento, sollecitato anche con delibera del 26.3.2020 dal C.S.M., che ha anche rimodulato l’intero calendario del tirocinio, demandano alla Scuola di anticipare la propria attività didattica, nella forma “a distanza”, ha determinato non pochi problemi.
Si è costretti difatti ad affrontare una sfida inedita e suggestiva, dalle indubbie potenzialità, ma anche a superare gli ostacoli costituiti dall’innovazione rispetto ai moduli formativi tradizionali, alla divulgazione delle utilità di un software esterno alla quotidianità giudiziaria, al coinvolgimento a distanza della platea degli utenti.
La partecipazione attiva d’altronde costituisce da sempre una peculiarità percipua della formazione iniziale, laddove alla relazione frontale si alternano anche nel corso della stessa sessione i momenti in cui i MOT lavorano, in piccoli gruppi di 20-25 persone, con colleghi più esperti (c.d. tutor) nella risoluzione di casi pratici, processi simulati ed insieme approfondiscono gli aspetti che si troveranno di lì a poco ad affrontare nelle aule giudiziarie.
E’ fondamentale il rapporto personale che i tutor e gli stessi relatori riescono ad instaurare con i giovani colleghi, di cui divengono punto di riferimento spesso anche dopo la fine del corso.
Si tratta di uno modello formativo positivamente sperimentato sin qui dalla Scuola che può apparire difficilmente conciliabile con la formazione a distanza, per l’inevitabile perdita della fisicità (lato sensu intesa) , che ciascuno di noi ricollega istintivamente alla creazione dell’empatia.
Tuttavia, si tratta a ben vedere della semplice instaurazione di modalità differenti di comunicazione, conseguenti ad uno strumento inedito o poco utilizzato fino a questo momento.
A fronte di questi ostacoli, la nuova modalità di formazione presenta indubbi aspetti positivi che possono aumentare sensibilmente il livello qualitativo dell’offerta didattica.
Lo stiamo verificando in questi giorni, tra questi la possibilità per i discenti di chattare con i relatori nel corso della relazione, che dà a tutti la possibilità di scrivere domande nel momento in cui una questione si affaccia alla loro mente, senza dover attendere la chiusura della relazione ed il momento del dibattito.
Il relatore può leggere le domande e rispondere oralmente al termine della relazione o – se è particolarmente bravo e veloce (smart, si potrebbe dire) – inserire la soluzione al quesito nel corso dell’esposizione che sta svolgendo.
Una delle grandi incognite tecniche che affronteremo nei prossimi giorni per organizzare le settimane di formazione a distanza di cui si è detto è stata di verificare quanto potesse reggere la piattaforma telematica all’impatto di 140 soggetti connessi contemporaneamente per un certo numero di ore consecutive, soprattutto in un momento storico in cui le linee nazionali sono al limite della capacità e quelle domestiche spesso ben oltre (per l’occupazione simultanea da parte dei componenti del nucleo familiare)
A tal fine la Scuola ha pensato di offrire ai relatori la possibilità di registrare la prima parte del proprio intervento: tale soluzione impedirebbe cadute di linea e ritardi che, in un corso caratterizzato dalla molteplicità di interventi quotidiani in un ritmo estremamente cadenzato, comporterebbe uno sforamento progressivo dei tempi, ferma restando la connessione live per rispondere alle sollecitazioni degli utenti.
Ulteriore vantaggio offerto dalla piattaforma Teams è dato dalla possibilità di caricare i documenti e condividere lo schermo con quello di tutti i soggetti connessi: se ben usata, questa opzione potrà consentire di mostrare in tempo reale ai discenti una sentenza della Cassazione o di merito o un articolo di dottrina mentre li si cita e di arricchire l’intervento con slide di Power Point per compensare la perdita di contatto visivo.
Tutte le sessioni interventi saranno comunque registrate ed offerte alla consultazione on line.
Anche le valutazioni sono state informatizzate: alla fine di ogni sessione i discenti compileranno in forma anonima un modulo online con votazione alfanumerica e giudizi su relatori e corso che sostituisce quello cartaceo sinora in uso.
Quanto al rapporto personale tra tutor e discenti, vero nodo cruciale del passaggio dalla formazione tradizionale a quella da remoto, potrebbe uscirne addirittura rafforzato laddove i primi riusciranno a padroneggiare la teleconferenza e le sue molteplici potenzialità: la coabitazione nella stanza virtuale, laddove abilmente gestita, può favorire legami personali come e più di quanto avveniva in passato.
Le due direttive principali su cui la Scuola si sta muovendo sono costituite sono: la formazione dei formatori e l’incremento delle strutture.
Quanto al primo tema, si sta procedendo in questi giorni a formare i relatori ed i discenti attraverso riunioni online ad essi dedicate, invio tramite mail di tutorial per garantire a ciascuno di essi l’acquisizione del livello minimo di conoscenze informatiche necessario per ottimizzare l’uso della piattaforma telematica.
Accanto ai componenti del Comitato Direttivo, va menzionato il ruolo fondamentale dei componenti amministrativi dell’area informatica della Scuola, cui è demandato il ruolo di assistenza tecnica nei giorni precedenti ciascun corso nonché il servizio di helpdesk a disposizione di docenti e partecipanti durante i giorni del corso.
Una mole di lavoro ingente gestita allo stato da sole quattro unità di personale che dovranno essere necessariamente implementate (si pensi che l’organico amministrativo della Scuola consta oggi di sole 27 unità rispetto alle 50 previste nella pianta organica).
Anche se naturalmente qualsiasi valutazione è del tutto prematura, tuttavia i primi riscontri sono comunque estremamente incoraggianti: il corso di formazione a distanza dei m.o.t. in via di completamento procede senza intoppi ed è confortato sia dalla sorprendente duttilità dei primi docenti di adeguarsi al nuovo modello didattico, sia (e soprattutto) dalle valutazioni estremamente lusinghiere espresse dai m.o.t.
Mentre i relatori sono riusciti in breve tempo ad impadronirsi delle potenzialità di Teams ed a fornire relazioni coinvolgenti ed approfondite, i m.o.t. (nativi telematici), al loro esordio nella Scuola, hanno affrontato con entusiasmo questa nuova proposta formativa da remoto che ha anche incrementato la loro partecipazione al dibattito, tradizionalmente “timida” nelle prime iniziative di formazione frontale.
La temuta perdita di empatia pare non essersi verificata, rectius sembra essere sostituita da un tipo di interazione diversa e per certi versi addirittura più ricca di quanto sperimentato in passato.
In generale, se pure con le ovvie riserve derivate da un campione di osservazione necessariamente circoscritto, può rilevarsi come i m.o.t., coscienti della decisiva importanza della formazione, che li vuole anche “soggetti attivi” per la rilevanza dell’obiettivo da perseguire, abbiano affrontato questo impegno imprevisto e del tutto originale con grande maturità ed entusiasmo, consapevoli dello sforzo organizzativo realizzato dalla Scuola in tempo contenuto.
Se è pur vero che “una rondine non fa primavera”, in questa difficilissima stagione (anche) della comunità giudiziaria, l’esordio della formazione a distanza deve ritenersi foriero di sviluppi confortanti, probabilmente oltre le attese della vigilia.
2.3 La formazione permanente
La felice sperimentazione dei moduli di formazione a distanza per i corsi di formazione iniziale di cui si è detto fungerà da apripista anche per i corsi di formazione permanente.
E’ difatti in corso di ultimazione la (nuova) calendarizzazione dei corsi del 2020, che prevederà inevitabilmente la sperimentazione di corsi da remoto anche in questo nevralgico settore della formazione.
3. LA FORMAZIONE DEI M.O.T. NEGLI UFFICI GIUDIZIARI
L’attuale e quasi generalizzata sospensione dell’attività ha naturalmente comportato pesanti ricadute anche sulla “quota” di tirocinio comprendente la gestione dei MOT da parte degli affidatari nei vari uffici giudiziari.
Non v’è dubbio che la pratica in udienza costituisca un elemento indispensabile nel processo formativo del neomagistrato, e l’improvvisa cesura di un percorso appena iniziato (sia per i MOT in tirocinio ordinario che per quelli in tirocinio mirato) evidenzia criticità fin qui mai sperimentate.
In particolare, l’impossibilità di coinvolgere i MOT nella concreta gestione della funzione corrispondente alla scelta da poco operata al termine del tirocinio ordinario, determina un vulnus di rilevante portata nella fase più importante del loro processo formativo.
Il C.S.M., cui inevitabilmente compete il difficile governo di questo periodo ha, con delibera dell’11.3.2020, confermato la prosecuzione dei tirocini in atto, raccomandando che ” l’attività formativa si svolga tramite collegamenti a distanza o l’assegnazione di attività da compiersi in ambiente domestico”, rimodulando i calendari sin qui approntati ma senza incidere, sin qui, sulla complessiva tempistica.
Vengono in rilievo, rispetto alla già prospettata richiesta di disporre una proroga del tirocinio, molteplici ed apparentemente inconciliabili esigenze, collegate all’acquisizione di un compiuto processo formativo ovvero a soddisfare le richieste di sollecita copertura dell’organico specie da parte di uffici periferici in difficoltà.
Inevitabilmente, specie se l’attuale situazione emergenziale perdurerà, il Consiglio sarà chiamato ad operare una scelta difficile (naturalmente di concerto con il Ministro della Giustizia e la Scuola), attesa l’obiettiva rilevanza degli interessi in gioco, che si connota anche quale scelta “culturale” laddove intesa, come sembra ineludibile, alla concezione stessa del valore e del significato della formazione, intesa come connotato essenziale del modello di magistrato.
Specie con riguardo ai m.o.t. in tirocinio mirato tuttavia, possono sollevarsi dubbi (proseguendo l’attuale situazione di paralisi dell’attività giudiziaria) sull’opportunità di una immissione in servizio attivo secondo i tempi prestabiliti.
Nel frattempo, se pure non sia agevole una compiuta ricognizione al riguardo, appare concreta e quasi generalizzata la sperimentazione negli uffici giudiziari di forme di gestione a distanza dell’udienza (quasi sempre con riferimento alla convalida degli arresti), operata utilizzando la piattaforma di comunicazione Teams, cui partecipano attivamente i m.o.t.
Naturalmente si presenta come urgente ed indispensabile un’attività di formazione di tipo informatico generalizzata e non contingente, che il CSM ha affidato con delibera dell’11.3.2020 alla Scuola in collaborazione con i RID.
Il presente ci consegna una realtà complessa, per la distribuzione territoriale dei m.o.t., affidati al tradizionalmente proficuo rapporto unipersonale con i magistrati affidatari, cui competono ora compiti inediti e complessi, affidati ad una peculiare “creatività” formativa da remoto ancora da elaborare compiutamente e necessariamente diversamente praticabile in riferimento alla peculiarità delle funzioni svolte.
La pregressa esperienza maturata dalla Scuola a riguardo, se pure in un contesto non certo emergenziale, consente di indicare soluzioni didattiche a distanza che possono essere scelte tra la soluzione di “casi”, la redazione di ordinanze (anche a seguito di questioni preliminari o eccezioni “virtuali”), la stesura di provvedimenti definitori, il confronto live su sentenze, criteri giurisprudenziali, questioni dibattute, articoli di dottrina, ecc.
Si tratta di un mero elenco esemplificativo che potrà essere convenientemente arricchito da ciascun magistrato affidatario, anche mediante la predisposizione di relazioni su stanze Teams appositamente realizzate per i m.o.t.
Naturalmente il coordinamento di questa attività formativa insorta in questi giorni in modo del tutto spontaneo competerà inevitabilmente alle articolazioni formative decentrate, cui è demandata una parte importante dell’attività formativa, e che potranno utilmente predisporre materiali e moduli didattici utili per agevolare gli affidatari impegnati in un ruolo del tutto imprevisto e che, soprattutto all’inizio, può avere determinato qualche incertezza rispetto alla domanda formativa inesorabilmente proveniente dai m.o.t. (peraltro in questa fase impegnati nei corsi di formazione a distanza organizzati dalla Scuola di cui si è detto in precedenza.
Anche in questo settore, sono stati mossi i primi passi per un’attività di formazione dei formatori che nei prossimi giorni vedrà importanti e decisivi sviluppi.
4. La formazione dei tirocinanti ex art.73 d.l. N. 69/2013.
La paralisi dell’attività formativa non ha escluso naturalmente anche l’articolata platea dei giovani neolaureati impegnati (in numero sempre crescente) presso gli uffici giudiziari nel tirocinio formativo previsto dall’art. 73 d.l. n. 69/2013.
Non si rinvengono indicazioni sulle modalità di adeguamento del tirocinio all’emergenza da parte del Ministero.
L’unico riferimento in proposito (sinora) è nella delibera del C.S.M. del 1.3.2020 che in sede di “Ulteriori linee guida in ordine all’emergenza sanitaria Covid-19 all’esito del d.l. n.11 dell’8.3.2020”, esplicitamente evidenzia l’opportunità “..nell’attuale contingenza, che i dirigenti consentano l’espletamento de tirocinio, ex art. 73 d.l. 69/2013 con modalità da remoto”, prevedendo, ove questo non sia possibile (e quindi solo in ipotesi subordinata) che “..favoriscano il recupero delle ore di tirocinio non svolte in un momento successivo alla piena ripresa delle attività, sì da evitare che ne venga posticipata la conclusione”.
La ratio della disposizione risiede in tutta evidenza nella volontà di non determinare alcuna penalizzazione in danno dei tirocinanti, per larga parte proiettati verso le prove di esame del concorso di accesso alla magistratura che, in caso di posticipazione del tirocinio (derivante da una sua possibile sospensione), potrebbero non risultare legittimati allo svolgimento delle prove (scritte) del concorso.
Si tratta di una preoccupazione legittima, e accolta positivamente dagli utenti interessati, anche se è lecito ritenere che i tempi dei prossimi concorsi per la magistratura possano essere posticipati.
Nelle due alternative offerte dal C.S.M. appare ragionevolmente preferibile l’opzione che preveda una continuazione del tirocinio con modalità da remoto, essendo implausibile alcuna prognosi relativa al pur possibile “recupero” di un periodo di sospensione che non si è in oggi grado di preventivare, senza contare che l’intensificazione dell’attività dei tirocinanti in un periodo più prossimo alle prove concorsuali potrebbe determinare palesi criticità.
Anche per i tirocinanti quindi, come per i m.o.t., il modello didattico a distanza appare quello necessariamente privilegiato in questo difficile contesto.
Non mancano naturalmente le iniziative spontaneamente insorte a tale riguardo: l’entusiasmo dei tirocinanti per il lungo (e difficile) itinerario intrapreso ha “contagiato” la gran parte dei magistrati affidatari e, specie negli uffici periferici dove i m.o.t. non sono presenti, non vi è stata che una breve sospensione del rapporto interindividuale.
La familiarità dei tirocinanti con la telematica ha fatto sì che spesso si è offerto un contributo formativo “inverso”, questa volta da parte dei tirocinanti al magistrato di affidamento, funzionale ad un utile e celere apprendimento della piattaforma di teleconferenza Teams, cui i tirocinanti possono accedere come ospiti anche laddove non siano muniti di un account “giustizia”.
La pluralità dei modelli formativi è svariata ed analoga a quella descritta con riferimento al tirocinio dei m.o.t., che potrà essere dilatata dalla comunicazione interattiva precipua dei tirocinanti, adusi a fare “rete” tra loro per scambiarsi esperienze, provvedimenti, ecc.
Anche la possibilità di assegnare “temi” sul modello concorsuale potrà contribuire alla loro formazione preconcorsuale ed acquisire padronanza di un linguaggio tecnico adeguato, lontano da quel giuridichese “esoterico” che purtroppo connota molti degli operatori del diritto.
Particolarmente preziosa a questo riguardo potrà essere l’utilizzazione del materiale formativo approntato dalla Scuola, sia con riferimento a quanto esistente sulla piattaforma Moodle, sia riguardo ai corsi oggetto di videoregistrazione sia, da ultimo, alle attività allestite nei corsi a distanza inaugurati per i m.o.t., il cui materiale potrà essere reso fruibile per una più ampia e proficua platea di discenti.
In definitiva l’investimento formativo operato verso i tirocinanti potrà costituire una sorta di laboratorio esportabile anche verso i m.o.t.
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