ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La giustizia civile di fronte all’emergenza epidemiologica. Parte II
Intervista ad Antonello Cosentino (Corte di Cassazione), Franco Petrolati (Presidente Sezione VII C.d.A. Roma), Paola Del Giudice (Presidente Tribunale di Paola), Antonella Magaraggia (Presidente Tribunale di Verona)
di Riccardo Ionta
La rivista, con l’intento di offrire uno sguardo diretto sull’attività giudiziaria, ha chiesto a quattro magistrati appartenenti a diversi ruoli e realtà giurisdizionali di esprimere il proprio punto di vista sul presente e futuro della giustizia civile di fronte all’emergenza epidemiologica. La Parte II intervista Antonello Cosentino (Corte di Cassazione) e Franco Petrolati (Presidente Sezione VII C.d.A. Roma).
1. La giustizia civile che verrà; 2. Prima dell’epidemia; 3. La proroga della sospensione; 4. Giustizia civile e penale; 5. Il lavoro agile e le (non) agevolazioni per le cancellerie; 6. L’alternativa del lavoro in presenza; 7. La tutela delle professionalità; 8. Trattazione scritta e da remoto; 9. Il ruolo dei presidenti; 10. Il primo mese e la proroga; 11. Frammentazioni possibili e frammentazioni esistenti; 12. Esigenze di uniformità; 13. Insegnamenti
1. La giustizia civile che verrà
Migliaia di procedimenti civili sono stati e saranno rinviati a causa della sospensione dell’attività giudiziaria. Altri saranno rinviati per effetto e della sospensione dei termini ed altri ancora sono già pronti ad essere iscritti dopo il lungo fermo delle attività. Come si prospetta il prossimo futuro della giustizia civile, anche considerando il ruolo che le spetta nel difficile periodo economico alle porte?
Antonello Cosentino
E’ necessaria una premessa: l’universo della giustizia civile italiana è molto variegato.
La capacità del nostro apparato giudiziario di rispondere con la necessaria tempestività alla domanda di giustizia che proviene dalla società è molto diversa non solo nelle diverse aree del Paese ma - anche all’interno di una medesima area geografica - nei diversi distretti che la compongono e, addirittura, nei diversi uffici giudiziari di uno stesso distretto.
Non è questa la sede per analizzare le ragioni di tali differenze; qui voglio limitarmi a svolgere due considerazioni, che desidero sottolineare perché mi pare che debbano essere tenute presente anche nei ragionamenti sul futuro della giustizia italiana dopo il Covid 19.
La prima è che gli uffici giudiziari italiani sono organismi bicefali, che rispondono, da un lato, alla dirigenza giudiziaria e, d'altro lato, alla dirigenza amministrativa. Questi due vertici sono a propria volta inseriti in catene di comando diverse, la prima facente capo al sistema dell'autogoverno della magistratura e, in ultima analisi, al C.S.M.; la seconda facente capo al Ministro della giustizia. È evidente che far funzionare una struttura con due teste è più complicato che farne funzionare una con una testa sola. Ed è altrettanto evidente che per limitare tale complicazione è essenziale che il C.S.M. ed il Ministero della giustizia cooperino sinergicamente in un clima di effettiva - e fattiva - leale collaborazione.
La seconda considerazione è che la cultura dell'organizzazione ha cominciato a farsi strada nella magistratura italiana da tempi relativamente recenti. Quando io sono entrato in magistratura, nel 1986, le variabili quantità/tempo erano pressoché irrilevanti nella percezione che i magistrati avevano del proprio lavoro: il focus era ancora interamente concentrato sulla qualità del lavoro, cioè in sostanza (io ho sempre fatto il magistrato giudicante) sulla qualità delle sentenze.
Solo sul finire degli anni ’90 - un po' perché l'inefficienza della giustizia civile era diventata sempre meno sopportabile per il sistema produttivo e, in generale, per l'opinione pubblica, un po' per effetto del dibattito sul processo civile sollevato dalla riforma recata dalla legge 353/90 (entrata in vigore nel 1995), un po' per il pungolo derivante dalla giurisprudenza della CEDU sulla ragionevole durata del processo (la legge Pinto è del 2001) - il tema dell'efficienza del servizio giudiziario ha smesso di essere declinato esclusivamente in termini di denuncia della mancanza di mezzi e di personale ed ha cominciato a generare una riflessione seria, dentro la magistratura italiana, sul tema dell'organizzazione del lavoro giudiziario. Ma abbiamo dovuto aspettare il 2006 per l'istituzione delle prime “commissioni flussi” presso le corti d'appello e, poi, il 2010 per la costituzione della Struttura Tecnica per l'Organizzazione presso la VII Commissione del C.S.M.. L'idea che le tabelle di organizzazione degli uffici servano non soltanto a garantire anche all'interno di ciascun ufficio l'attuazione del principio costituzionale di precostituzione del giudice ma anche a favorire, nell’interlocuzione tra i diversi attori del procedimento tabellare, la scelta del modulo organizzativo più efficiente risale ai "programmi di gestione" di cui all'articolo 37 del decreto legge n. 98 del 2011: ha meno dieci anni di vita.
Creare una cultura dell'organizzazione e, soprattutto, farla penetrare uniformemente in tutti gli uffici giudiziari italiani é un processo che richiede tempo. Quello che si è fatto in questi ultimi quindici anni è moltissimo, ma non è ancora abbastanza.
Alla luce di queste premesse, credo che la risposta alla domanda su come si prospetta il futuro della giustizia civile dopo la pandemia debba, prima di tutto, evidenziare che probabilmente gli uffici non reagiranno in modo uniforme sull'intero territorio nazionale; anche perché non uniformi sull'intero territorio nazionale saranno i danni causati dalla pandemia al tessuto produttivo e sociale.
A me pare, tuttavia, che ormai in moltissimi uffici si siano sviluppate professionalità, culture, capacità di lavorare in sinergia con l'Avvocatura (penso al fiorire dei protocolli d’intesa a cui assistiamo già in queste settimane) che consentono di guardare al futuro con un cauto ottimismo. Probabilmente sarà necessario anche negli uffici giudiziari, come ora sta succedendo negli ospedali, operare un triage, creare corsie preferenziali per i procedimenti che riguardano i diritti fondamentali della persona o la cui ritardata trattazione possa produrre grave pregiudizio alle parti; probabilmente per qualche anno dovremo tutti tenere sotto gli occhi la tavola di valori indicata dal Legislatore nel terzo comma dell’articolo 83 del decreto legge n. 18 del 10 marzo 2020.
Franco Petrolati
La Corte di appello civile, come giudice di seconda ponderazione del merito della causa, è chiamata a fronteggiare ordinariamente le criticità socio-economiche a distanza di tempo rispetto alla loro emersione: accade così, specie nelle Corti corrispondenti alle città metropolitane, che in molte cause la fondatezza delle “ragioni” debba essere accertata essenzialmente ai fini della regolazione delle spese processuali o la rimodulazione del risarcimento accessorio del danno piuttosto che per l’effettiva definizione dell’assetto degli interessi delle parti. Tale degenerazione del processo è, da un lato, un vantaggio perché rende tollerabile il rinvio oltre il termine ragionevole di durata, dall’altra, però, impedisce di far emergere il residuo contenzioso che è, invece, ancora vivo e meritevole di una corsia preferenziale.
2. Prima dell’epidemia
La giustizia civile stava riuscendo nella riduzione dell’arretrato e nella riduzione dei tempi dei procedimenti.
Antonello Cosentino
Si. Lo testimoniano le indicazioni offerte dal Primo Presidente della Corte di cassazione nella relazione svolta per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2020, nella quale si riferisce di una «tendenziale flessione delle pendenze dinanzi a tutte le magistrature di merito» (pag. 32) e di una riduzione della durata media dei processi, che nell’anno 2018/2019 è scesa del 13,9% per le corti di appello, del 7% per i i tribunali e del 10,6% per i giudici di pace.
Certo la strada da fare era ancora lunga e dopo la pandemia lo sarà di più.
Voglio aggiungere un'ulteriore considerazione. La capacità di definizione degli uffici, soprattutto in primo grado, è molto cresciuta negli ultimi anni. Ma quando si registra (ovviamente con soddisfazione) la riduzione delle pendenze è comunque sempre opportuno verificare se essa dipenda anche, ed in qual misura, da una riduzione delle sopravvenienze (ciò che per esempio è avvenuto per i tribunali e le corti d'appello, ma non per i giudici di pace, tra il 2018 il 2019). Per capire davvero come funziona la giustizia civile in relazione alle esigenze della società sarebbe poi necessario capire, di fronte ad una riduzione delle sopravvenienze, quale ne sia la causa. La riduzione delle sopravvenienze è assiologicamente neutra; essa è positiva se deriva dalla riduzione delle tensioni sociali che generano contenzioso o se deriva dall’ aumento della quota di contenzioso che viene definita attraverso modalità alternative di risoluzione delle controversie; non è positiva se deriva dalla rinuncia dei cittadini a far valere i propri diritti davanti ad un giudice per mancanza di fiducia nell'effettività della tutela giudiziaria. La fuga dalla giustizia civile non è mai una cosa buona.
Franco Petrolati
Il progressivo rientro nei margini della durata ragionevole del processo è verificabile soprattutto in primo grado; in minor misura in grado di appello, quanto meno nelle città metropolitane. Ad esempio presso le Sezioni civili ordinarie della Corte di Appello di Roma (con esclusione, quindi, delle Sezioni Lavoro) pendono al 31 marzo di quest’anno oltre 15 mila processi da più di due anni (come noto corrispondente alla durata ragionevole del grado di appello). La causa principale di tale minore efficienza risale ancora alla riforma istitutiva del giudice unico di primo grado, venti anni or sono, che ha fatto confluire nelle corti di appello tutti i gravami avverso le decisioni di pretori e tribunali di ciascun distretto: si è cioè ampliato il cluster della corte senza provvedere ad una coerente integrazione dell’organico dei magistrati.
3. La proroga della sospensione
Il periodo di sospensione delle attività giudiziarie è stato prorogato dopo già un lungo, inevitabile, periodo di fermo. Il legislatore aveva comunque previsto la possibilità di rinviare le cause civili e di utilizzare, per le stesse, forme alternative di trattazione, sfruttando al massimo le potenzialità del processo telematico ed evitando così la frequentazione dei palazzi di giustizia. Era necessaria la nuova proroga anche per i procedimenti civili?
Antonello Cosentino
Il Governo ha operato in una situazione caratterizzata da livelli di drammaticità e imprevedibilità assolutamente straordinari e ha ritenuto, sulla base delle indicazioni fornitegli dalle tecnostrutture sulle quali si appoggia, di dover mandare al Paese, con molta forza, il segnale dello "stare a casa". Certo, come è stato notato nel dibattito di questi giorni, la sospensione delle udienze ordinarie fino a quasi metà maggio rischia di far passare nell'opinione pubblica un messaggio di non essenzialità del servizio giustizia. Però dobbiamo considerare anche la pressante necessità di bloccare la diffusione del contagio in un segmento di popolazione, quello che lavora nei palazzi di giustizia di tutta Italia, nel quale i magistrati rappresentano una minoranza ma che conta, tra personale amministrativo ed avvocati, molte decine di migliaia di persone. D'altra parte la trattazione delle urgenze è stata comunque garantita.
In definitiva, mi pare che ciò che conta veramente, più che la durata della sospensione, sia il modo in cui la stessa viene utilizzata per attrezzare gli uffici alla ripartenza con modalità che ci consentano di "convivere" con il Covid 19 (come, temo, dovremo fare per parecchio tempo). Aggiungo che quando parlo di "attrezzare gli uffici" non mi riferisco solo ad interventi logistici o a dotazioni strumentali, come la sanificazione degli ambienti, l'istituzione di controlli all'accesso nei palazzi di giustizia, l’ organizzazione degli spazi di lavoro in modalità funzionali alle esigenze del distanziamento sociale, la dotazione di supporti informatici che consentono la diffusione del lavoro da remoto etc.. Mi riferisco anche all'attrezzatura professionale e psicologica necessaria per cambiare in modo drastico, e in tempi brevissimi, le abitudini di lavoro dei magistrati, del personale amministrativo, degli avvocati. Non è una cosa facile e, voglio sottolinearlo, la responsabilità di quest'operazione non grava solo sul Ministero della giustizia, sul C.S.M., sui Consigli giudiziari e sui magistrati titolari di incarichi direttivi e semidirettivi; tale responsabilità grava su tutti i magistrati individualmente e collettivamente perché tutti i magistrati sono partecipi, nel bene come nel male, del governo autonomo della magistratura.
Franco Petrolati
Probabilmente no. Molti uffici giudiziari, in vista della “fase 2” originariamente decorrente dal 16 aprile, avevano già adottato direttive e modelli operativi per la trattazione dei processi civili con udienza da remoto o, più spesso, con modalità solo scritta, in conformità alle opzioni delineate dalle lettere F) ed H) dell’art. 83, comma 7, D.L. n. 18/20. Lo stesso CSM, con successive delibere plenarie, a partire dal 26 marzo, aveva già fornito le linee guida per la gestione delle udienze civili, indicando schemi di decreti per l’avvio della trattazione scritta e modalità da remoto per le udienze civili presso il tribunale per i minorenni.
4. Giustizia civile e penale
La giustizia civile ha strumenti e principi diversi dalla giustizia penale. Una distinzione di disciplina per il periodo emergenziale sarebbe stata opportuna o così inopportuna?
Antonello Cosentino
Certamente la giustizia civile si presta meglio di quella penale ad una gestione compatibile con l'esigenza di limitare i contatti degli avvocati e delle parti con i magistrati e con il personale amministrativo che lavora negli uffici giudiziari. La differenza del processo civile da quello penale, per la verità, la vedo più negli strumenti che nei principi; appartengo, infatti, ad una generazione di giudici civili che è maturata professionalmente nella stagione della rivalutazione dell'oralità portata dalla legge n. 353/90. Negli strumenti, però, è innegabile che il processo civile è assai più pronto di quello penale a recepire i cambiamenti che si renderanno necessari per poter convivere, come dicevo prima, con il Covid 19. La giustizia civile, infatti, già dispone, negli uffici di merito, di un processo telematico sufficientemente collaudato, che tutti gli operatori sono ormai abituati ad utilizzare correntemente. In questo senso è vero che alla giustizia civile si può chiedere un passo più rapido che a quella penale.
Franco Petrolati
Nel giudizio civile, specie nei gradi ulteriori, la componente “argomentativa” del processo ha un peso largamente prevalente rispetto a quella propriamente “rappresentativa” affidata a prove “costituende” e, quindi, finisce per assumere un ruolo minore il rapporto di immediatezza spaziale e temporale con il soggetto che fornisce oralmente gli elementi di prova.
Sarebbe stato opportuno, quindi, in luogo di un ulteriore rinvio generalizzato, consentire agli uffici giudiziari la selezione tra i giudizi civili suscettibili di continuare con modalità alternative all’udienza ordinaria e quelli, invece, da rinviare a data successiva al periodo transitorio.
5. Il lavoro agile e le (non) agevolazioni per le cancellerie
Lo sfruttamento pieno delle potenzialità del processo civile telematico implica l’intensificazione del lavoro di c.d. back office per le cancellerie. Il Ministero tuttavia, consente al personale l’accesso “da casa” solo per taluni degli applicativi (protocollo e spese di giustizia) ma non dei registri di cancelleria. Dal recente tavolo tecnico tra C.S.M. e Ministero è emerso che l’accesso da remoto è limitato per ragioni di sicurezza dei dati. Esiste una soluzione?
Antonello Cosentino
Francamente non ho elementi per poter interloquire in ordine alla possibilità di garantire la sicurezza degli accessi da remoto ai registri di cancelleria. Ho visto che la creazione di meccanismi che consentano tali accessi al personale amministrativo degli uffici fa parte delle richieste avanzate dalla Giunta Esecutiva Centrale dell’A.N.M. nel corso del tavolo tecnico convocato dal Ministro della giustizia in conference call su "emergenza coronavirus e c.d. fase 2" . È evidente che l'introduzione di questa possibilità potenzierebbe grandemente la possibilità di lavoro da remoto del personale amministrativo e, quindi, consentirebbe di migliorare l'operatività degli uffici pur continuando a mantenere alta la guardia sulla tutela della salute delle persone che vi lavorano o che comunque li frequentano. Altrettanto evidente, tuttavia, è che una operazione del genere non può essere realizzata senza le necessarie garanzie di sicurezza in ordine alla inaccessibilità dei registri a soggetti diversi da quelli autorizzati.
Franco Petrolati
Non sono in grado di esprimere un parere qualificato sul tema: tuttavia è ragionevole assumere che una soluzione che contemperi accessibilità da remoto dei registri di cancelleria e sicurezza/tracciabilità dei flussi sia senz’altro praticabile al livello informatico, anche se in tempi non brevi. Nelle more occorre, quindi, senz’altro intervenire sulle condizioni concrete degli ambienti di lavoro negli uffici.
6. L’alternativa del lavoro in presenza
E’ possibile garantire il lavoro “in presenza” degli uffici di cancelleria in piena sicurezza?
Antonello Cosentino
Credo che la risposta a questa domanda debba tener conto della specificità delle singole situazioni. Ci sono uffici giudiziari collocati in immobili che potrebbero consentire interventi di ridefinizione dell'uso degli spazi tali da garantire il necessario "distanziamento sociale"; in altri uffici questo probabilmente non è possibile o, almeno, non è possibile in un orizzonte cronologico di poche settimane. In questi casi si potrebbe forse pensare a far svolgere da remoto quelle mansioni per le quali tale modalità lavorativa sia praticabile, così da aumentare lo spazio a disposizione del personale le cui mansioni richiedano comunque la presenza in ufficio. Il problema però mi sembra più complicato rispetto alla - comunque non semplice - riorganizzazione degli spazi dei palazzi di giustizia. E’ tutta l'organizzazione dei nostri orari di vita e di lavoro che andrebbe ripensata in una prospettiva funzionale alla convivenza con il virus. Ha poco senso realizzare uffici dove il personale può lavorare nel rispetto delle prescritte distanze fra le persone se il viaggio necessario per raggiungere quegli uffici viene fatto in un autobus, o in una metropolitana, o in un treno, dove si viaggia appiccicati gli uni agli altri.
7. La tutela delle professionalità
E’ concreto il rischio che il Ministero lasci “a casa” molti dipendenti svuotandoli in sostanza delle proprie mansioni in violazione dell’art. 52 del T.U. sul pubblico impiego e conseguentemente anche dell’art. 2087 c.c.?
Antonello Cosentino
Anche nella prospettiva della disciplina dettata dall’art. 52 d.lgs. 165/2001 credo sia necessario un approccio mirato alla realtà dei singoli uffici. Più che il Ministero, mi pare che qui conti il dirigente amministrativo del singolo ufficio giudiziario, la sua capacità di dialogare con il personale e di elaborare modelli organizzativi che funzionino. Allo stesso tempo, specularmente, conta la capacità di interlocuzione e di proposta delle rappresentanze sindacali del personale nonché, ovviamente, la capacità del sindacato di supportare la tutela dei diritti individuali e collettivi dei lavoratori.
Franco Petrolati
Anche su tali problematiche non sono certamente un esperto. Ritengo, tuttavia, che le questioni relative alla tutela della sicurezza e della professionalità del personale di cancelleria possono essere entrambe ridimensionate dal superamento delle tradizionali modalità operative di magistrati ed avvocati, con la marginalizzazione dei casi di udienze e camere di consiglio “in presenza” ed il completamento della digitalizzazione del processo. E’ evidente, infatti, che se gli atti sono depositati e scambiati in telematico, se restano vuote le aule di udienza e di camera di consiglio, diviene più agevole la predisposizione di un ambiente di lavoro sicuro nel quale ciascun dipendente può svolgere in loco le proprie mansioni.
8. Trattazione scritta e da remoto
La trattazione scritta e da remoto sono strumenti adeguati, costituzionalmente e processualmente, per affrontare il periodo emergenziale?
Antonello Cosentino
Nella prospettiva emergenziale non avrei dubbi né sulla legittimità né sull'opportunità della trattazione scritta e della trattazione da remoto. Se l'alternativa è quella tra non fare i processi e farli rischiando di ammalarsi e di far ripartire i contagi, mi pare del tutto proporzionato e ragionevole adottare la “terza via” delle modalità di celebrazione dei processi che - fermo il rispetto del principio del contraddittorio - consentano di evitare l'accesso delle parti e dei loro difensori nei palazzi di giustizia.
Altro discorso, a mio avviso, è quello che concerne la fase - che penso non sia vicina ma spero non sia nemmeno eccessivamente lontana - del ritorno al regime di normalità. Ma su questo ternerò dopo.
Franco Petrolati
La trattazione scritta e da remoto sono trattazioni “per equivalente” rispetto a quella ordinaria, che non è allo stato praticabile per ragioni di salute umana: allo stesso modo, sul piano sostanziale, la reintegrazione in forma specifica è sostituita dalla sanzione risarcitoria ove non sia “in tutto od in parte possibile” (art.2058 c.c.).
Non può, inoltre, dubitarsi della congruità in sé del ricorso al decreto-legge per introdurre una disciplina in deroga alla legislazione sul processo civile per un periodo transitorio, essendo evidente che la pandemia da Covid-19 integri uno dei “casi straordinari di necessità e d’urgenza” che legittimano il Governo ad adottare norme “con forza di legge” ai sensi dell’art.77 Cost..
9. Il ruolo dei presidenti
Il legislatore, per la prima volta, ha rimesso alla magistratura una normativa processuale di dettaglio ed ha affidato ai presidenti degli uffici molti poteri. Una scelta adeguata o inadeguata?
Antonello Cosentino
Io credo si tratti di una scelta inevitabile. Come ho già detto più volte, la realtà della giustizia italiana non è uniforme sul territorio, come non è uniforme la società italiana. Certe scelte quindi non possono che essere demandate ai singoli uffici, anche perché sono inevitabilmente condizionate, per un verso, dalle specificità delle situazioni locali (a partire, ovviamente, dai differenti livelli allarme sanitario) e, per altro verso, dalle esigenze e dalle scelte dei soggetti che rappresentano gli abituali interlocutori degli uffici giudiziari, quali gli avvocati, le forze dell'ordine, gli enti locali. I presidenti, poi, non sono soli; essi costituiscono un nodo della rete dell'autogoverno della quale, come già detto, tutti noi magistrati facciamo parte, anche quando non ricopriamo uffici direttivi o semidirettivi; poi ci sono i presidenti di sezione, i RID, i MAGRIF, i consigli giudiziari, il C.S.M. Tutta la magistratura, ora, deve mettersi in gioco e dimostrare quello che sa fare.
Franco Petrolati
In linea di principio potrebbe dubitarsi della compatibilità costituzionale dell’attribuzione a ciascun Capo dell’ufficio di un potere regolativo in deroga del processo civile : un potere diffuso da esercitare bensì in via provvisoria ma entro maglie non sufficientemente predeterminate da una fonte di rango primario nonostante, come noto, l’art. 111 Cost. preveda, al primo comma, che “il giusto processo” sia “regolato dalla legge”.
Tuttavia tali dubbi potrebbero essere ridimensionati ove si intendano le misure dei Capi degli uffici circoscritte alle modalità alternative di svolgimento delle udienze nei limiti attualmente imposti in rerum natura ma senza alcuna irrimediabile preclusione alla riespansione del diritto di difesa, all’esito del periodo transitorio, attraverso rimessioni in termini e rinnovazioni di attività processuali, secondo le modalità ordinarie, ove rese necessarie da una non adeguata trattazione “per equivalente”.
Sembra evidente, infatti, che le maggiori criticità siano ipotizzabili con riguardo al primo grado, ove si acquisiscono le prove, con conseguente possibilità che eventuali lacune od alterazioni delle risultanze probatorie possano essere fronteggiate nelle sedi di gravame.
10. Il primo mese e la proroga
Gli uffici, nell’arco del primo mese di sospensione, hanno reagito in modo diverso rispetto alla “fase 2”, taluni con provvedimenti o protocolli dettagliati, taluni con provvedimenti ripetitivi delle disposizioni legislative, taluni non hanno provveduto. Questo come ha influito sulla proroga della sospensione?
Antonello Cosentino
Secondo un’ antica regola della marineria, la velocità di un convoglio è la velocità della sua nave più lenta. Ritengo del tutto plausibile che la scelta di prorogare la sospensione delle udienze sia derivata anche dalla constatazione che non tutti gli uffici giudiziari erano stati in grado di dispiegare immediatamente una strategia di risposta alle esigenze gestionali sorte a causa dall'epidemia. D'altra parte non credo che sarebbe stato saggio differenziare le modalità di funzionamento dell'amministrazione della giustizia sul territorio nazionale. Mi sembra che in questo momento l'Italia di tutto abbia bisogno, tranne che di ulteriori differenziazioni normative territoriali.
Franco Petrolati
Dalle linee guida adottate, come già detto, al livello periferico e centrale, con delibere plenarie del CSM, emergeva un apprezzabile disponibilità della giustizia civile ad assicurare una continuazione “per equivalente” dei processi. Non mi sembra, quindi, che la proroga della “fase 1” sia giustificata da un ritardo nella autoregolazione da parte dei magistrati.
11. Frammentazioni possibili e frammentazioni esistenti
Il potere attribuito ai dirigenti degli uffici in tema di politica dei rinvii, di tempistica delle azioni e di regolamentazione delle forme alternative di trattazione delle cause civili si presta all’idea di una giustizia civile frammentata? E questo come incide sulle frammentazioni già esistenti?
Antonello Cosentino
Ho appena detto che l'Italia di tutto ha bisogno, tranne che di ulteriori differenziazioni normative territoriali. Ciò però riguarda, appunto, le differenziazioni normative. Avrei guardato con contrarietà ad una disposizione legislativa che sospendesse le udienze in certe regioni e non in altre.
Altro, però, è il discorso che riguarda i provvedimenti organizzativi dei dirigenti degli uffici. Qui torniamo alla necessità di calibrare la risposta giudiziaria alle esigenze di ciascun territorio. È un'operazione che non può essere fatta dal legislatore nazionale ma richiede un processo che parte dalla realtà del singolo ufficio, si arricchisce nel dialogo con gli stakeholders (a partire, ovviamente, dal locale consiglio dell'ordine degli avvocati) e si coordina con le scelte degli altri uffici del distretto e con le linee guida nazionali del C.S.M..
Franco Petrolati
Il valore della uniformità mi sembra francamente giocare allo stato un ruolo recessivo. Si tratta, infatti, di una scelta case by case che deve essere operata sulla base della effettiva cognizione della lite pendente al fine di stabilire, ad esempio, se sono da assumere prove “rappresentative” che meritino di formarsi in presenza effettiva dei soggetti del processo o siano sufficienti note “argomentative” da scambiare.
Assolve, piuttosto, un ruolo essenziale l’esigenza di ridurre l’impatto sulla durata di ciascun processo, tenuto conto che altro valore costituzionalmente tutelato, nell’ambito del “giusto processo”, è la sua ragionevole durata.
12. Esigenze di uniformità
Il C.S.M. ha redatto delle linee guida in cui, almeno per la trattazione scritta, i punti maggiormente problematici non sono stati affrontati. La SSM, impegnata nell’attività di formazione e supporto, non si è vista assegnare il compito di formulare delle linee guida nonostante il ruolo scientifico che le spetta. Da un lato c’è chi invoca l’aiuto del legislatore, dall’altro c’è chi invoca una soft law che s’imponga per forza culturale ed autorevolezza della fonte. Se una tendenza all’uniformità appare necessaria, come raggiungerla?
Antonello Cosentino
Bisogna tener conto di una cosa. Per espressa disposizione costituzionale, il giudice è soggetto soltanto alla legge. Le linee guida, chiunque le elabori, non potranno mai vincolare l’ interpretazione della legge processuale. Possono, e devono, orientare le scelte organizzative degli uffici. Per il resto, io sono sempre stato un convinto sostenitore della soft law, dell'uniformità che si raggiunge imperio rationis piuttosto che ratione imperii. Credo che questa contingenza possa rappresentare un grande momento di crescita del dialogo tra magistrati e avvocati, nel solco tracciato dall'esperienza, ormai quasi ventennale, degli Osservatori sulla giustizia civile: una ricerca comune di soluzioni condivise tra curia e foro, sia organizzative che interpretative. Già lo vediamo con i numerosi protocolli che si stanno stipulando un po' in tutta Italia, compresa la Corte di cassazione. L'elaborazione di prassi comuni nascerà a livello locale e sarà seguita, commentata, discussa, supportata dalla dottrina (la diffusione delle riviste giuridiche on line ha ormai drasticamente ridotto i tempi di risposta della riflessione dottrinaria alle novità che provengono dalla produzione normativa e giurisprudenziale).
E’ qui che io vedo il ruolo della S.S.M. e del C.S.M..
La funzione della Scuola non è, a mio parere, quella di proporre soluzioni alle questioni interpretative poste dalla normativa dell’emergenza, bensì quella di favorire lo sviluppo del dibattito tra magistrati, avvocati e docenti di tutta Italia, offrendo spazi - mi verrebbe fatto di dire “contenitori” - per un proficuo confronto tra le diverse esperienze ed opinioni, affinché, un po' alla volta, si aggreghino orientamenti interpretativi che saranno tanto più solidi quanto più ampia sarà stata la discussione da cui sono emersi. È quella che mi piace chiamare nomofilachia dal basso. L’importante è che i processi vadano avanti nei modi più fluidi possibili, nel rispetto dei principi del contraddittorio, della parità delle parti, della ragionevole durata; poi, se servirà, anche la Cassazione dirà la sua; ma, intanto, i giudizi sono stati definiti, le cause sono state decise, i diritti sono stati tutelati.
Quanto al C.S.M., il suo ruolo è quello di guida e orientamento delle scelte organizzative e gestionali; naturalmente - proprio per quello che ho già detto sulla condivisione della responsabilità dell’autogoverno tra tutti i magistrati - il flusso comunicativo tra il C.S.M. e gli uffici non è soltanto unidirezionale. Il Consiglio orienta gli uffici ma, al contempo, ne recepisce gli stimoli, le idee innovative, le prassi virtuose. Nel sito istituzionale del C.S.M. è presente una pagina denominata “organizzazione innovazione e statistiche” dove, tra l’altro, vengono raccolte e rese consultabili le buone prassi degli uffici; il Consiglio può vagliare queste diverse esperienze, confrontarle fra di loro, valutare la possibilità di esportarle in realtà diverse da quelle dove sono nate; ecco, dalla riflessione sulle prassi che saranno adottate dagli uffici di fronte all’emergenza Covid 19, dall’analisi dei relativi punti di forza e di debolezza, il Consiglio potrà trarre utili spunti per l’esercizio della propria funzione di guida, di stimolo e di coordinamento, in una circolarità virtuosa tra centro e periferia.
Franco Petrolati
Ad una uniformità di criteri si può pervenire solo a posteriori dopo l’esperienza e l’elaborazione ascrivibile alla periferia dell’organizzazione giudiziaria. E’ difficile che dall’alto possano essere imposte in tempi brevi prescrizioni adeguate alla concreta articolazione del contenzioso nelle diverse fasi, nei vari gradi, con riguardo alle effettive offerte di prova ecc.. In tal senso si può trarre argomento dall’esperienza storica delle tabelle per la liquidazione del danno biologico, che pur con talune criticità hanno rivelato la capacità della giustizia civile di autoregolarsi a partire dagli indirizzi adottati al livello locale. Sul versante propriamente processuale non è, poi, casuale che il legislatore, laddove ha avuto bisogno di un rito efficiente, è frequentemente ricorso proprio al procedimento in camera di consiglio di cui agli artt. 737 e segg. c.p.c., vale a dire ad un rito del tutto informale, affidato alla governance giudiziale, che resiste in vigore e prospera nonostante gli strali della dottrina.
13. Insegnamenti
Il riflesso sulla giustizia civile dell’emergenza epidemiologica ha già chiarito qualcosa e insegnato qualcosa?
Antonello Cosentino
L’insegnamento più evidente è che siamo in grave ritardo sul processo civile telematico. Sebbene nel civile la digitalizzazione degli atti processuali sia molto più avanzata che nel penale, anche nel civile c’è ancora molto da fare. In primo luogo è urgente portare il processo civile telematico in Cassazione; è francamente inspiegabile che proprio la Corte di cassazione sia rimasta l’unico ufficio escluso dal processo civile telematico, sebbene sia proprio l’ufficio in cui l'introduzione del processo civile telematico sarebbe, per un verso, di maggiore utilità pratica (perché la maggior parte dei giudici e degli avvocati che operano in Cassazione non vive a Roma) e, per altro verso, di maggiore semplicità (perché nel giudizio di legittimità si tiene, di norma, una sola udienza, le parti depositano soltanto l'atto introduttivo ed eventualmente una memoria in prossimità dell'udienza e il giudice, a propria volta, deposita soltanto il provvedimento decisorio). Altrettanto urgente è coprire quei segmenti del contenzioso civile di merito tuttora esclusi dalla digitalizzazione. Insomma, bisogna completare l’opera, manca poco e va fatto presto.
Il discorso si fa più complesso quando il ragionamento si sposta dal fascicolo - gli atti - all’udienza e alla camera di consiglio.
In linea generale io credo che, a regime, il contatto personale tra il giudice e la parte, i suoi difensori, i testimoni, così come fra i giudici di un organo collegiale, sia un valore da salvaguardare. Osservare dal vivo l’interazione tra le parti, percepirne gli stati d’animo, guardare negli occhi un testimone, scorrere un atto, in camera di consiglio, fianco a fianco con il collega, sono tutti arricchimenti della cognizione del giudice e della collegialità delle decisioni e penso che una parte di questi arricchimenti si perda se la comunicazione interpersonale viene schermata dal video - dallo schermo, per l’appunto - di un computer. Questa dispersione di contenuti cognitivi ed emotivi è un prezzo che mi pare ragionevole pagare per continuare a fare processi in sicurezza sanitaria durante la pandemia; ma, cessato l’allarme sanitario, penso che i cittadini e i magistrati debbano tornare negli uffici giudiziari; secondo la felice formula di Elisabetta Cesqui, “dematerializziamo le carte, non le persone”.
Penso anche, però, che su questo tema sia bene rifuggire da schieramenti troppo rigidi. Credo che sia necessario che tutti ci concediamo il beneficio del dubbio, ci prendiamo il tempo di verificare gli esiti dell’esperienza pratica che faremo prossimi mesi tenendo udienze e camere di consiglio da remoto. Il budino, come dicono gli inglesi, si giudica mangiandolo e non mi sento di escludere che, magari dopo una fase di rodaggio, ci si accorga che i meccanismi di comunicazione interpersonale attraverso il video del computer funzionano meglio di quanto ora si possa immaginare. Voglio anche aggiungere che non tutte le cause e non tutti i procedimenti richiedono in egual modo il contatto personale tra giudice e parti; altro è una causa di divorzio, altro è una causa tra due banche su un contratto di borsa; altro è un’udienza di trattazione in primo grado, altro è un’udienza di appello; altro è la discussione che un difensore fa in un procedimento cautelare, altro è la discussione che lo stesso difensore fa nel giudizio di legittimità.
Un punto, tuttavia, mi pare che meriti un approfondimento specifico. La celebrazione di un processo - civile o penale che sia - ha sempre, comunque, una portata, direi una forza, simbolica; è il momento del contatto tra il giudice e il cittadino, il quale si reca nel palazzo di giustizia per sentir entrare nella propria vita la forza della legge, protettiva o cogente a seconda della posizione in cui egli si trova. Credo che prima di abolire questo gesto, trasformando la partecipazione all’udienza di un processo civile in uno dei mille incombenti che si possono svolgere in call conference, convenga riflettere.
Insomma, se nell’eredità che ci lascerà il Covid 19 ci sarà anche l’istituzionalizzazione dell’udienza da remoto, mi pare presto per dirlo.
Franco Petrolati
Sembra prematuro esprimere allo stato valutazioni sugli effetti di tale regime emergenziale. Tuttavia credo che possano consolidarsi talune delle modalità operative consentite in via transitoria in quanto senz’altro più agili e rispettose della parità nella dialettica processuale oltre che dell’economia dei mezzi. Penso, ad esempio, che la trattazione scritta possa sostituire tante udienze nelle quali gli avvocati sono costretti a comparire solo per “riportarsi” od “insistere” ovvero contestare apoditticamente la controparte; come pure è auspicabile il superamento del mito della lettura del dispositivo in udienza, all’esito di una discussione orale che si svolge avanti ad un giudice monocratico che ha già scritto la sentenza o davanti ad un collegio che già ha svolto la camera di consiglio. In tal senso la vera novità dovrebbe essere costituita, specie nei gradi superiori, dalla trattazione scritta piuttosto che dall’udienza “da remoto”, la quale talvolta affascina solo perché sembra più simile alla “vecchia” udienza piuttosto che per la sua effettiva utilità.
La Giustizia da remoto: adelante … con juicio – prima parte-
intervista di Franco De Stefano a Filippo Donati e Giorgio Spangher
L’applicazione intensiva della tecnologia per le attività da remoto nella gestione delle ordinarie attività processuali incontra più diffidenza e ostilità che favore e apprezzamento.
L’esperienza della pandemia, che sta sconvolgendo consolidati stili di vita e la stessa concezione di rapporti interpersonali, ha inevitabilmente investito anche il mondo del Diritto e quindi la Giustizia.
Nei primi si è scoperto un ruolo assolutamente nuovo delle potenzialità offerte dalla tecnologia e soprattutto dalle capacità di mantenere le interconnessioni tra gli individui, sia pure all’ovvio prezzo della smaterializzazione dei contatti: dal biasimo e dalla riprovazione, dai timori di alienazione o di manipolazione dell’opinione del pubblico indifferenziato di una massa potenzialmente indeterminata di fruitori si è passati alla riscoperta della capacità di stabilire invece efficienti contatti e relazioni nonostante le difficoltà di una fisica contiguità.
Un impatto contraddittorio quella stessa tecnologia pare avere sulla Giustizia …
Giustizia Insieme, consapevole della diversità di approccio da parte degli operatori della Giustizia anche all’interno dell’Avvocatura e della Magistratura, ha messo a confronto sul punto tre professori ed un presidente di tribunale, identificando alcuni temi di discussione. L’intervista ha suscitato appassionate reazioni e, soprattutto, si è imbattuta nella novità del decreto legge del 30 aprile 2020, che è intervenuto pesantemente, in recepimento di un ordine del giorno del Parlamento in sede di conversione del precedente, introducendo una figura di udienza da remoto assai depotenziata.
L’intervista raccoglie, sulle stesse tematiche, prima le risposte dei professori Donati e Spangher e, successivamente, quelle del professore Costantino e del presidente Orlando.
Le domande
1) In linea generale, come giudica l’impiego dei più moderni mezzi tecnologici per l’attività da remoto nella gestione delle ordinarie attività processuali?
2) Quali i suoi rapporti coi diritti fondamentali della persona e poi coi valori fondanti e con le esigenze concrete del processo civile e del processo penale, tenuto conto della vasta diversificazione degli oggetti e di quella conseguente dei riti già solo all’interno dell’uno e dell’altro?
3) Quali sono i rischi maggiori di quell’impiego? Ad esempio, in termini di sospetto o concreto pericolo di manipolazione delle singole attività, anche solo quanto a genuinità e segretezza ovvero tutela della riservatezza?
4) Quali sono i vantaggi maggiori di quell’impiego? Ad esempio, in termini di efficienza e affidabilità della risposta di Giustizia?
5) Come giudica l’impiego finora fatto della tecnologia nella gestione della cosiddetta fase uno dell’emergenza sanitaria?
6) Quali le prospettive dei mezzi offerti dalla tecnologia in tema di prestazioni di attività da remoto come strumenti per disegnare un ordinario nuovo regime anche del processo civile e penale, per la fase della ripartenza e dei nuovi assetti sociali, caratterizzati comunque da una radicale trasformazione dell’esistente?
7) Quali misure pensa sia opportuno sollecitare al Legislatore o al Ministro o al Consiglio Superiore della Magistratura?
Prima parte – professor Filippo Donati e professor Giorgio Spangher
1) In linea generale, come giudica l’impiego dei più moderni mezzi tecnologici per l’attività da remoto nella gestione delle ordinarie attività processuali?
Donati: Sicuramente positiva è stata l’esperienza del processo telematico, da tempo operante nel campo civile e amministrativo. L’impiego dei collegamenti telematici permette oggi di effettuare depositi e accessi ad atti e documenti senza più bisogno, come in passato, di recarsi materialmente nelle cancellerie. Il processo telematico consente inoltre a avvocati, magistrati, personale amministrativo, tecnici di parte e consulenti d’ufficio di scambiare in tempo reale e senza costi di atti e documenti rilevanti, con evidente beneficio in termini di economicità ed efficienza nella gestione del processo.
I nuovi strumenti tecnologici per la partecipazione da remoto alle attività giudiziarie si prestano, peraltro, anche ad altri usi.
La eccessiva durata dei processi, com’è noto, scoraggia gli investimenti, ostacola lo sviluppo economico, impedisce di tutelare in maniera adeguata i diritti delle persone. È per tale motivo che Richard Susskind, nel suo recente libro sul futuro della giustizia, sostiene la necessità di passare, nel settore civile, a Tribunali interamente online cui devolvere le controversie di minor valore. È questa, tuttavia, una prospettiva per noi inaccettabile. Le ragioni dell’efficienza non possono prevalere sulla necessità di garantire in maniera effettiva i principi costituzionali del giusto processo, indipendentemente dal valore della causa.
Soltanto con la partecipazione fisica delle parti e dei difensori si può realizzare un contraddittorio effettivo e una tutela piena del diritto di difesa. Ciò è particolarmente evidente per il processo penale, dove sono in gioco la libertà personale, la sicurezza dei consociati e i diritti delle vittime dei reati. Ma analoghe considerazioni valgono anche per gli altri processi.
Per tale motivo ha fatto molto discutere l’introduzione, ad opera della legislazione emergenziale, delle cosiddette udienze online. A mio avviso, la superiore necessità di impedire la diffusione del contagio può, eccezionalmente e transitoriamente, giustificare misure per ridurre al minimo le forme di contatto personale all’interno dei palazzi di giustizia, tra cui l’obbligo di partecipazione da remoto alle udienze. La garanzia piena del diritto di difesa, però, può subire solo limitazioni che siano giustificate dall’esigenza di tutelare il supremo diritto alla salute e che risultino proporzionate rispetto a tale obiettivo.
Se, nel periodo dell’emergenza sanitaria, la partecipazione da remoto può essere ammessa, nella misura in cui sia effettivamente necessaria a tutelare il fondamentale diritto alla salute, una volta passata questa fase si dovrà tornare all’udienza fisica.
Alla regola della presenza personale in udienza si potrebbero ammettere, tuttavia, alcune eccezioni, nella misura in cui le stesse non comportino una limitazione del contraddittorio ed una attenuazione dei principi del giusto processo.
Affronterò il punto nella risposta alla quarta domanda.
Spangher: Giudico positivamente il ricorso a mezzi da remote per l’attività di cancelleria, di deposito e accesso agli atti, come indicato da ultimo nella riforma delle intercettazioni. Anche se la tecnica, come emerge anche da alcune trasmissioni televisive di informazione che hanno raggiunto un livello di perfezione notevole, mentre altre evidenziano i limiti che l’attività giudiziaria da remoto attualmente manifesta, ritengo che il processo abbia una sua sacralità che va conservata. Nel processo penale si tratta di libertà della persona. Accusa e difesa non sono titolari di diritti e poteri analoghi. Il contraddittorio non può essere virtuale.
Per capire di cosa parliamo bisogna leggere l’art. 146 disp. att. che disciplina l’aula di udienza dibattimentale. Non è una norma di arredamento ma rappresenta l’essenza del processo.
Anche io faccio lezioni, esami e tesi in via telematica, da remoto. Non è la stessa cosa dell’attività in presenza. Potrei dilungarmi sulle differenze. Per il processo penale mi riconosco in quello che ha scritto Borgna, che condivido pienamente.
2) Quali i suoi rapporti coi diritti fondamentali della persona e poi coi valori fondanti e con le esigenze concrete del processo civile e del processo penale, tenuto conto della vasta diversificazione degli oggetti e di quella conseguente dei riti già solo all’interno dell’uno e dell’altro?
3) Quali sono i rischi maggiori di quell’impiego? Ad esempio, in termini di sospetto o concreto pericolo di manipolazione delle singole attività, anche solo quanto a genuinità e segretezza ovvero tutela della riservatezza?
4) Quali sono i vantaggi maggiori di quell’impiego? Ad esempio, in termini di efficienza e affidabilità della risposta di Giustizia?
Donati: La domanda sollecita una riflessione sui vantaggi e sui rischi della partecipazione da remoto all’attività processuale.
Partiamo dai rischi.
Il primo, il più grave, riguarda la possibile limitazione dei principi costituzionali del giusto processo. Questo rischio va assolutamente evitato, come ho indicato nella risposta alla domanda precedente. Per questo motivo non è, a mio avviso, possibile estendere le udienze online alla fase post emergenziale.
Vi è poi il problema della riservatezza e del controllo dei dati personali.
La questione si pone innanzi tutto per le udienze online, previste dalla disciplina emergenziale. È pur vero che per le udienze vale, di norma, il principio di pubblicità. Tuttavia, ogni forma di trattamento dei dati deve avvenire nel rispetto delle regole sancite dal regolamento generale sulla protezione dei dati personali e dei provvedimenti adottati dall’autorità di settore. Di qui l’esigenza assicurare il rispetto di tali regole da parte dei gestori delle piattaforme telematiche impiegate per la partecipazione da remoto alle udienze.
Il problema della riservatezza è stato sollevato anche con riguardo alle camere di consiglio “virtuali”. Il collegamento da remoto, si è detto, non garantisce la segretezza della camera di consiglio. È tuttavia possibile replicare che, ad oggi, le sempre più sofisticate tecniche di intercettazione ambientale non mettono al sicuro neppure le camere di consiglio “fisiche”. Spetta comunque al Ministero della giustizia verificare che le soluzioni tecniche per i collegamenti telematici offrano un adeguato livello di sicurezza.
Spangher: Quanto ai rischi, sono questioni sicuramente possibili, personalmente mi preoccupano di meno. Una volta evidenziate sono suscettibili di essere tecnicamente superate, anche attraverso l’attività delle varie Autority. Si può anche dire che la tracciabilità delle attività è una garanzia. Se poi qualcuno vuole manipolare, non ci sono limiti all’attività illecita.
Quanto ai vantaggi, in termini di efficienza e affidabilità della risposta di Giustizia, si tratta del dato sicuramente di maggior rilievo. La macchina giudiziaria, soprattutto nella parte amministrativa va sburocratizzata e l’informatizzazione può contribuire significativamente. Lo si vede in tanti aspetti, già ora, legati all’informatizzazione.
5) Come giudica l’impiego finora fatto della tecnologia nella gestione della cosiddetta fase uno dell’emergenza sanitaria?
Donati: Non è possibile, oggi, dare una risposta attendibile alla domanda.
Occorrerà attendere la fine del periodo emergenziale e valutare l’esperienza complessivamente maturata.
Spangher: Negativamente il processo da remoto (v. risposta 1), esclusa l’attività urgente con scansioni temporali suscettibili di determinare la perdita di efficacia dei provvedimenti; positivamente relativamente all’attività di cancelleria, al deposito degli atti, istanze, richieste. Resto contrario al direttissimo conseguente alla convalida, anche se giustificato dall’accesso all’abbreviato e al patteggiamento. Giudico molto negativamente l’attività probatoria e la discussione dibattimentale che dovrebbe subire una prossima modifica normativa, giusto l’o.d.g. approvato alla Camera dei deputati.
6) Quali le prospettive dei mezzi offerti dalla tecnologia in tema di prestazioni di attività da remoto come strumenti per disegnare un ordinario nuovo regime anche del processo civile e penale, per la fase della ripartenza e dei nuovi assetti sociali, caratterizzati comunque da una radicale trasformazione dell’esistente?
Donati: Ogni crisi deve però essere guardata non solo per i danni e le sofferenze che arreca, ma anche per le nuove opportunità che può aprire. Occorre quindi capire quanto l’esperienza di oggi potrà servire al futuro.
Ritengo che la fase dell’emergenza non possa giustificare l’avvio di un percorso volto a imporre la partecipazione in via telematica alle udienze. Il nostro sistema giudiziario, tuttavia, non può rinunciare ad avvalersi, per il futuro, dei nuovi strumenti messi a disposizione dal progresso della tecnologia. Entro certi limiti, infatti, il loro impiego potrebbe contribuire a un miglioramento complessivo della qualità e dell’efficienza della nostra giustizia.
Spangher: Rafforzare l’uso informatico relativamente alle attività del p.m., della p.g. e del giudice che non riguardino le parti private; estendere l’informatizzazione ai lavori di cancelleria; consentire alla difesa lo svolgimento delle attività di cancelleria, di deposito atti, anche di impugnazione, di istanze e di richieste.
7) Quali misure pensa sia opportuno sollecitare al Legislatore o al Ministro o al Consiglio Superiore della Magistratura?
Donati: Per alcune ipotesi, la previsione di forme di partecipazione da remoto all’attività processuale potrebbe risultare ragionevole e compatibile con l’esigenza di garantire i principi del giusto processo.
Di ciò potrebbe tenere conto il legislatore, quando sarà chiamato a valutare se, ed in che modo, estendere alla fase post emergenziale le novità introdotte, in via temporanea, per limitare la diffusione dell’epidemia.
La partecipazione fisica all’udienza non sempre appare indispensabile. Per alcuni reati minori, ad esempio, spesso la vittima è chiamata a comparire in udienza soltanto per confermare il fatto. In casi come questi, se l’interessato vive o lavora lontano dal luogo di svolgimento del processo, il giudice, sentiti i difensori, ben potrebbe autorizzarne il collegamento da luoghi in cui sia possibile garantire la sua identificazione e l’assenza di condizionamenti esterni (una sede consolare o una stazione di polizia giudiziaria, ad esempio).
Non ci sono poi ragioni per impedire al difensore, che non possa o non ritenga necessario partecipare all’udienza, di chiedere la partecipazione da remoto. Analoga possibilità potrebbe valere per i consulenti. Il giudice, sentiti i difensori delle parti, potrebbe permettere la partecipazione da remoto quando, ad esempio, si tratti soltanto di effettuare il conferimento dell’incarico.
Al giudice potrebbe inoltre essere lasciato il compito di valutare, sentiti i difensori delle parti, se accogliere una eventuale richiesta dell’imputato di partecipare all’udienza da remoto, pur non versandosi in uno dei casi previsti dall’art. 146-bis disp. att. c.p.p. Analoga possibilità potrebbe essere concessa per le parti del processo civile quando il giudice, sentiti i difensori delle parti, in considerazione dell’età o delle condizioni di salute o di altre circostanze, ritenga giustificato il collegamento da remoto.
Non sarebbe poi irragionevole permettere lo svolgimento dell’udienza in via telematica laddove tutti i partecipanti fossero d’accordo.
Nessun ostacolo parrebbe infine sussistere per la partecipazione in via telematica alle camere di consiglio. Sul problema della segretezza già si è detto. È stato osservato che la camera “virtuale” impedirebbe una effettiva collegialità. Neppure la camera di consiglio “fisica”, però, può escludere che, in singoli casi, di fatto la proposta del relatore finisca per essere accolta senza particolare discussione. La collegialità, in sostanza, può e deve essere garantita indipendentemente dal carattere, fisico oppure online, della camera di consiglio.
Spetterà infine al legislatore valutare se, nel processo civile di merito, estendere anche alla fase post-emergenziale le udienze “figurate”, in cui le parti possono scambiare memorie scritte, senza discussione orale. Si tratta di un istituto già sperimentato da tempo, con successo, nel giudizio dinanzi alla Corte di Cassazione, a seguito dell’entrata in vigore del nuovo art. 380 bis c.p.c., introdotto dall’art. 1-bis del d.l. n. 168 del 2016. Non vi è dubbio che il giudizio di legittimità è assai diverso da quello di merito. Qui l’udienza assume un ruolo centrale per consentire che la ricostruzione del fatto e l’inquadramento giuridico dello stesso avvengano nel pieno contraddittorio tra le parti e con la massima garanzia del diritto di difesa. Non sono però infrequenti i casi nei quali i difensori partecipano alle udienze in maniera formale, limitandosi a richiamare i propri scritti difensivi. Si potrebbe quindi consentire al Giudice la possibilità di proporre, d’ufficio o su istanza di parte, che un’udienza si svolga in modo “figurato”, salva però la facoltà delle parti di chiederne lo svolgimento effettivo. In questa prospettiva si è del resto mosso il Consiglio di Stato (Sezione VI, ordinanza n. 2359 del 21 aprile 2020) che, in una recentissima decisione, assunta in una camera di consiglio virtuale, ha ritenuto l’udienza meramente cartolare non possa essere imposta, in mancanza di consenso tra le parti.
Al Ministero si può chiedere, innanzi tutto, di garantire l’adeguatezza delle soluzioni tecniche previste per i collegamenti da remoto, con riguardo alla sicurezza, al rispetto della disciplina sul trattamento dei dati personali e alla qualità delle comunicazioni, nonchè l’adeguatezza delle risorse per i giudici e gli ausiliari di giustizia, a partire dalla dotazione di computer portatili. Sempre al Ministero si dovrebbe chiedere di promuovere il completamento del processo telematico, estendendolo anche al processo penale, al giudizio di cassazione e ai procedimenti davanti ai giudici di pace.
Il CSM ha approvato le “linee guida agli Uffici giudiziari in ordine all’emergenza Covid-19”, volte a fornire indicazioni agli uffici giudiziari, di carattere non vincolante, per l’attuazione della nuova disciplina emergenziale. Una volta terminata la fase emergenziale, al CSM spetterà, nell’ambito delle proprie competenze, accompagnare e favorire la ripresa della normale attività giudiziaria.
Spangher: Si potrebbero rafforzare le interlocuzioni tra le parti, anche tra difesa e p.m.. Escluderei ogni attività di merito e probatoria. In ogni caso sarebbe necessario l’intervento del Legislatore. Il Ministero potrebbe istituire una Commissione per analizzare i problemi, con la partecipazione delle parti, oltre ad accelerare i lavori di quelle tecniche esistenti.
Il C.S.M. potrebbe dedicare approfondimenti a queste tematiche sia nelle Commissioni, sia sollecitando l’attività della Scuola superiore.
Fine prima parte
L’organizzazione della Giustizia nell’emergenza pandemica. Fase 2
Intervista di Paola Filippi a Barbara Fabbrini
Sommario: 1.Introduzione - 2 Le domande - 3. Le risposte - 4. Conclusioni.
1.Introduzione
“Un nuovo virus che si diffonde in tutto il mondo e contro il quale la maggioranza degli uomini non ha difese immunitarie”, questa è la definizione di pandemia, secondo l’Organizzazione Mondiale della Salute.
L’11 marzo 2020 l’epidemia da coronavirus è stata ufficialmente dichiarata pandemia, il virus si è diffuso in tutto il pianeta, si salva solo l’Antartide.
I decessi accertati come causati dal Covid 19 sono 277.708 nel mondo, di questi 30.739 sono italiani: l’Italia è la nazione con la più alta percentuale di morti dopo la Spagna, mentre la Lombardia è la regione del mondo in assoluto più colpita (dati del bollettino delle 18,00 del 11 maggio 2020).
Il mondo si è dovuto riorganizzare, la herd imunity vaticinata da Boris Johnson è un'utopia: il Regno Unito con le sue 31.600 vittime ha registato più decessi dell'Italia (sebbene su una popolazione più ampia) e potrebbe uscire dalla pandemia con una mortalità più elevata dell’Italia.
In Italia, primo paese in Europa attaccato dal virus, il lockdown è iniziato il 12 marzo. Nonostante ciò, si continua a contare un quotidiano aumento del numero dei decessi, (allo stato, attestato ai livelli di metà marzo) e il numero dei contagi non è ancora sceso a zero. In regioni quali la Lombardia e il Piemonte il numero quotidiano dei contagi fatica a scendere.
Tutti i paesi del mondo hanno riorganizzato la vita nel periodo di lockdown, ed hanno selezionato l’essenziale e il voluttuario nel distanziamento sociale e nella relegazione, dando impulso al remoto e al processo di digitalizzazione.
Nel difficile bilanciamento tra il diritto alla salute e il diritto al processo giusto e di ragionevole durata sono stati garantiti i servizi essenziali.
Con l’emergenza ci si è resi conto degli effetti dei mancati investimenti in vari settori pubblici, primo fra tutti certamente nel settore sanitario, ma anche nel settore giustizia. Il ritardo nella modernizzazione, il ritardo nella digitalizzazione del servizio, in taluni settori è più elevato che in altri, in quello penale più di quello civile. In taluni uffici più di altri, la Cassazione nel settore penale é rimasta incredibilmente indietro.
In questo contesto il Ministero della Giustizia e, in particolare, il Dipartimento dell'organizzazione giudiziaria, del personale e dei servizi, ha affrontato il lockdown: la fase 1 che si è appena conclusa. Fondamentale é stata in questo contesto l’attività svolta dalla magistrata che dirige il Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria: Barbara Fabbrini, la quale alla fine di febbraio si è trovata ad affrontare un’emergenza senza precedenti nella gestione organizzativa del settore giustizia e che grazie alla sua esperienza e la sua determinazione è riuscita ad affrontare, con ottimi risultati, quello che lei stessa ha definito "il tornado" che ha travolto il settore giustizia.
2. Le Domande
1. Quali sono state le questioni organizzative e i problemi che il dipartimento dell’organizzazione giudiziaria si è trovata ad affrontare dal 23 febbraio 2020?
2. Quali sono state in grandi linee le direttive impartite?
3.Quale era lo stato della digitalizzazione avviata anteriormente all’emergenza COVID-19?
4.Quali sono le maggiori criticità connesse allo smart working con riguardo al personale amministrativo?
5.Quali sono stati i risultati raggiunti?
6. Gli Uffici giudiziari in Italia sono inseriti in realtà geografiche differenti, con diverse modalità di gestione e organizzazione delle risorse modalità che risentono spesso delle diverse capacità organizzative dei dirigenti, a queste si aggiunge una diversa situazione sanitaria in termini di pericolo di contagio, quali sono sotto questo profilo le problematiche che hanno reso più difficile l’organizzazione?
7. Il 1 maggio 2020 Tedros Adhanom Ghebreyesus il direttore generale dell'Organizzazione mondiale della sanità (Oms), ha dichiarato che "La pandemia da Covid-19 rimane un'emergenza di sanità pubblica a livello internazionale", il 4 maggio inizia la fase due, il diverso numero dei contagiati nelle diverse regioni d’Italia da l’idea che occorre attuare un’organizzazione diversa sul territorio nazionale per assicurare una cura individuale del distanziamento, quali sono le linee direttive che dal dipartimento avete adottato o adotterete?
8. Cosa rimarrà come dote strutturale degli uffici giudiziari dell’organizzazione adottata nella fase 1 e che sarà adottata nella fase 2?
3. Le risposte
1. Quali sono state le questioni organizzative e i problemi che il dipartimento dell’organizzazione giudiziaria si è trovata ad affrontare dal 23 febbraio 2020?
Barbara Fabbrini: L’emergenza sanitaria ci ha investito con la potenza di un tornado e all’inizio ci ha stordito.
Il Dipartimento e uffici giudiziari si sono trovati, nella fase inziale, a dovere superare difficoltà impensabili; mancavano proprio i parametri di riferimento rispetto ad un’emergenza nazionale, anzi mondiale, di tale portata.
Siamo abituati ad affrontare, anche come Ministero, situazioni emergenziali di altro tipo, quali terremoti, alluvioni, tutti eventi però dove la difficoltà è stata pur sempre contingente, territorialmente e temporalmente, superabili con strumenti rientranti in un quadro normativo e organizzativo noto e già praticato.
Il COVID-19 ha rotto ogni schema di riferimento organizzativo anche nella Giustizia.
Il tema poi del distanziamento sociale, quale misura regina della prevenzione sanitaria, contrasta con molta parte del lavoro nei nostri uffici, che in modo analogo a quello che avviene per tutta la pubblica amministrazione, è impostato invece sul “contatto sociale” tra i vari operatori.
Tutto ciò è stato scardinato dall’irrompere del fenomeno pandemico che è entrato anche nella vita degli uffici.
Non avevamo una cornice quadro di riferimento organizzativo né precedenti che ci potessero orientare nell’azione, ed anche le informazioni inziali erano all’inizio scarse, come ben ci ricordiamo.
Il 23 febbraio ho provveduto ad emanare la prima circolare informativa, con primissime indicazioni di carattere operativo e sanitario, tenendo contestualmente contatti diretti con gli uffici interessati. Ricordo come fosse ora che dopo le prime telefonate agli uffici lombardi e la prima riunione presso la protezione civile. Ebbi la chiara sensazione che ci trovavamo difronte a qualcosa di assolutamente inedito e che occorreva rallentare l’attività ordinaria del Dipartimento per dirigerla velocemente sulla gestione dell’emergenza.
All’epoca il Lazio e tutti i territori diversi dalla Lombardia e del Veneto non erano coinvolti nell’epidemia e la percezione che il resto dell’Italia aveva era ben diversa dalla consapevolezza raggiunta oggi.
La prima e più grave difficoltà incontrata è stata proprio quella di offrire un quadro di riferimento di prevenzione sanitaria per l’epidemia, un contesto del tutto nuovo per gli uffici. Non si trattava di fornire direttive in tema di prevenzione della salute dei nostri lavoratori, qui si dovevano dare indicazioni su come prevenire il contagio da una pandemia anche in luoghi di lavoro quali i nostri uffici giudiziari.
Difficile poi è stato comprendere con rapidità il contesto istituzionale di riferimento.
Voglio dire che il Ministero della giustizia, e il Dipartimento dell’organizzazione in particolare, non ha come interlocutori istituzionali abituali il Ministero della salute e la protezione civile.
Non si può prescindere dalle indicazioni sanitarie e dalle competenze del Ministero della Salute e delle Regioni in questa vicenda, le prescrizioni sanitarie hanno conformato le modalità organizzative degli uffici per la fase uno, e questo intreccio di competenze sarà un filo rosso che vedremo percorrerà anche la fase due.
In tale contesto, essere stati immediatamente inseriti, già da fine febbraio, nel tavolo di coordinamento della protezione civile su cui sedeva Salute e il comitato scientifico, è stato fondamentale per presidiare al meglio le criticità territoriali, per avere noi informazioni in tema di protocolli sanitari da tenere, per comprendere come orientarci sugli acquisti, sulle procedure di sanificazioni. Tutte informazioni che riversavamo poi in periferia.
In tale contesto infatti, ad esempio il Commissario straordinario ci ha sin da subito abilitato a procedere con gli acquisti in via prioritaria dopo Sanità e le forze dell’ordine, e pur con molti problemi all’inizio del percorso. Ora gli uffici hanno gli strumenti e i protocolli di acquisto collaudati per la fornitura di materiale igienizzante, dispositivi di protezione personale ed quanto altro necessario per la fase dopo il 12 maggio.
Ben presto si è palesata poi la necessità di creare un quadro di riferimento normativo per la fase di emergenza che ha portato, come noto, al decreto-legge 8 marzo 2020, n. 11 e poi al decreto-legge 17 marzo 2020, n.18. Un quadro normativo che ha individuato due fasi per l’amministrazione della giustizia negli uffici: un primo periodo (dal 9 marzo all’11 maggio) con sospensione di termini e delle attività, mantenendo solo quelle indifferibili ed urgenti; una seconda fase, quella che tra poco si aprirà a partire dal 12 maggio, nella quale i Capi dell’ufficio possono riattivare le attività giudiziarie, tramite linee guida, con l’adozione di un ventaglio di soluzioni processuali e organizzative, delineate da tale articolato e con misure organizzative da altre che abbiamo indicato noi come Dipartimento in questo periodo.
2. Quali sono state in grandi linee le direttive impartite?
Barbara Fabbrini: Tante le indicazioni contenute in circolari che hanno tracciato il ritmo della fase uno per gli uffici dal 23 febbraio sino a pochi gironi fa.
Francamente credo però che prima del contenuto delle direttive e circolari, ancora più si è rivelata fondamentale la modalità trovata per offrire informazioni rapidi ed efficaci agli uffici.
Un contesto, quale quello che ci siamo trovati ad affrontare, nel quale l’emergenza pandemica mutava e si evolveva di giorno in giorno, con grandi diversità territoriali, specie nella fase inziale, richiedeva qualcosa di ulteriore e di diverso rispetto alle circolari istituzionali, certamente doverose ma che risentono inevitabilmente di lentezza e burocratizzazione.
Il Dipartimento ha pensato quindi, sin dalla prima settimana di emergenza, di creare due canali informativi, con modalità magari meno “ortodosse”, ma indubbiamente più efficaci delle circolari:
-una chat di colloquio con i vertici dei vari distretti;
-una serie di call conference settimanali, a tema, partecipate dai Capi degli uffici di vertice distrettuale, dai dirigenti amministrativi e dai Presidenti COA ove ritenuto opportuno.
Sono questi gli strumenti che ci hanno permesso di informare con velocità dirigenza e vertici degli uffici. Le circolari, le direttive sono arrivate sempre all’esito della call, si sono nutrite insomma del confronto con le reali esigenze dei territori.
La nostra preoccupazione è stata poi anche quella di mettere in contatto gli uffici più in difficoltà per il contesto pandemico con gli altri che invece ancora tale emergenza non vivevano, perché i protocolli sanitari, le misure organizzative, la politica degli acquisti della fase emergenziale, oggi potessero essere uniformi e scattare al momento del bisogno.
Ed il metodo ha funzionato al centro e al sud, nel momento in cui sono emersi casi di positività o altra necessità.
L’istituzione poi di una unità di crisi al Dipartimento con help desk dedicato, è stata utile per gli uffici per segnalazioni varie, e a noi per monitorare ed intervenire dove davvero serviva.
Le direttive impartite nelle circolari, sono andate principalmente nelle seguenti direzioni:
a)La creazione di cabina di regia, o di protocolli di interlocuzioni in sede territoriale con l’Autorità sanitaria locale, competente sul tema ed in grado di aiutare gli uffici in sede locale.
b)Indicazioni sulle misure sanitarie da seguire.
c)Indicazioni in tema di acquisti di dispositivi di protezione personale (mascherine e guanti), di fornitura del materiale igienizzante, di procedure per le pulizie e sanificazioni.
d)Indicazioni su misure inerenti all’organizzazione dei servizi degli uffici giudiziari.
e)Indicazione in tema di ampliamento all’uso di strumenti informatici da remoto:
f)Indicazioni in tema di organizzazione del lavoro del personale, sullo smart woking e altri strumenti di flessibilità.
Il tutto è riassunto di recente nell’ultima circolare emessa il 2 maggio scorso che contiene informazioni riepilogative del lavoro effettuato con gli uffici, e prime direttive per avvio fase due.
3.Quale era lo stato della digitalizzazione avviata anteriormente all’emergenza COVID-19?
Barbara Fabbrini: In questi giorni vedo che si afferma spesso che il Ministero della giustizia è indietro nella digitalizzazione. In realtà è uno dei settori della pubblica amministrazione tra i più digitalizzati; fatto questo da anni riconosciuto anche in sede internazionale.
Forse di dimentica che primi in Italia abbiamo investito in strumenti di digitalizzazione per i concorsi: ricordo che il concorso di assunzione di assistenti giudiziari con 300 mila domande e 76.000 partecipanti si è concluso in soli 11 mesi dal bando anche grazie all’informatizzazione dei nostri sistemi.
E così una procedura di una riqualificazione, 3 procedure di progressione economica, alcune procedure di mobilità territoriali in tre anni a fronte di un vuoto di oltre 20 anni, non si sarebbero potute svolgere senza l’infrastruttura e gli applicativi informatici dedicati.
Abbiamo digitalizzato la gran parte dei processi lavorativi a carattere amministrativo, al pari e a volte al meglio di altre amministrazioni: Sicoge, Siam il protocollo amministrativo, sono da tempo digitalizzati ed in uso presso gli uffici. Siamo l’unica amministrazione pubblica ad avere una piattaforma e-learning dedicata a tutto il proprio personale, parliamo di 34.000 persone.
Negli uffici da anni si fanno le comunicazioni telematiche in ambito civile e anche penale, e da settembre anche presso gli uffici giudiziari.
Giustizia gode di infrastrutture di sicurezza dei sistemi che nulla hanno da invidiare ad altre amministrazioni, perché si è investito fortemente in tale direzione con capacità di visione da parte di tutti coloro che hanno ricoperto ruoli chiave al Ministero della giustizia: la tenuta dei sistemi dopo 6 anni che il processo civile telematico, che ricordo è una realtà in primo e secondo grado, indicano anche che i nostri sistemi sono correttamente impostati.
Il Ministero della giustizia però ed indubbiamente, a differenza di altre amministrazioni, non gestisce solo pratiche amministrative, ma anche processi e procedimenti giudiziari. Non vi è dubbio che questo è un elemento di complessità che la rende del tutto differente dal resto della pubblica amministrazione, per utenti coinvolti, per delicatezza dei dati trattati e per processi da presidiare.
Quindi se vogliamo affermare che il Ministero della giustizia, per non avere ancora attivato il processo penale telematico sia in ritardo nella digitalizzazione della giustizia italiana, per carità allora vi è del vero, ma tale affermazione tradisce una visuale ristretta e limitata di cosa sia e implichi l’informatizzazione dell’Amministrazione giudiziaria, semplicemente non considera l’intero panorama.
La verità, o meglio il punto di riflessione che dobbiamo tenere presente oggi, in questa contingenza, credo però risieda altrove. La pandemia ci ha posto difronte a logiche di processi organizzativi e lavorativi legati alla digitalizzazione del tutto innovativi e necessariamente diversi rispetto a quelli impostati in precedenza in Giustizia e nelle amministrazioni centrali.
Premesso che per il lavoro giudiziario di magistrati ed avvocati la scelta di remotizzazione è da tempo operata, il lavoro del personale da remoto passa nell’amministrazione giudiziaria, al pari di altre amministrazioni, da una struttura organizzativa che, se anche fortemente digitalizzata, ha il suo perno nella “presenza” in sede del dipendente. La sede di lavoro è ancora presidio nei contratti collettivi e nella normativa del pubblico impiego. Il telelavoro e lo smart working del personale sono ancora confinate nella sperimentazione o in rigide regole di applicazione che non le rendono estensibili a tutta la popolazione del pubblico impiego e, non dobbiamo dimenticare, persino avversate al loro avvio da alcune parti sociali.
Oltre a ciò Giustizia, come altre amministrazioni ha da tempo impostato, condividendole con gli interlocutori nazionali competenti, logiche di sicurezza dei propri sistemi incentrate nella fisicità della propria rete (cd. R.U.G.)
La pandemia ha certamente rovesciato questi schemi.
Nel momento in cui si parla di contingentamento e di distanziamento sociale, anche la remotizzazione del lavoro del personale amministrativo può certamente rientrare tra i presidi di prevenzione dell’epidemia, prima ancora che essere una virtuoso misura organizzativa del lavoro dei nostri dipendenti.
E’ ovvio che una remotizzazione integrale di una popolazione di 34.000 dipendenti amministrativi, che interagisce con circa 10.000 magistrati, oltre 200 mila avvocati e circa un milioni di professionisti, comporta quella che non stento a definire, con un paragone preso dal mondo aziendale, una vera e propria riconversione industriale dell’organizzazione del lavoro giudiziario.
In questa cornice, quindi prima ancora che le politiche di sicurezza e le questioni di carattere tecnico, molto potranno le scelte che si andranno a delineare in tema di flessibilità del lavoro dipendente per la cd. “fase tre” in tutta la pubblica amministrazione, un contesto dal quale il Ministero non può prescindere.
Nel frattempo comunque 7.600 abilitazioni sugli applicativi di gestione amministrativa, 30.000 utenti delle piattaforme di call conference di (teams e skype), 26.000 utenti sulla piattaforma e-learning, in una con la possibilità di altri strumenti di flessibilità organizzativa possono certamente assicurare, per la fase emergenziale, ampio ricorso allo smart working nei termini indicati dall’articolo 87, letto alla luce dell’articolo 83 del decreto legge 18/2020.
Inoltre i nostri 34.000 dipendenti non sono tutti costantemente ed esclusivamente dedicati al solo scarico dei registri, la realtà è molto più complessa e sfaccettata.
In ogni caso, sono fermamente convinta che occorra progredire nel percorso di maggiore remotizzazione del lavoro dei nostri dipendenti, certamente per garantire soluzioni di maggore flessibilità in futuro ma anche per futuri scenari emergenziali.
Metteremo a disposizione a giorni una più ampia scelta di applicativi informatici da remoto: SNT per il settore penale e consolle assistente per il settore civile, stiamo acquistando PC portatili anche per il personale ed infine stiamo interloquendo con le altre istituzioni nazionali coinvolte per le dovute verifiche per evoluzioni delle logiche dei nostri sistemi nazionali.
Insomma guardiamo avanti.
Un dato comunque è certo. La pandemia ha portato ad accelerare scelte tecnologiche, già operate, finanziate e programmate dall’Amministrazione in tema di processo telematico, ma che stentavano a vedere il varo, per varie resistenze o timori.
Mi riferisco al deposito telematico degli atti introduttivi in PCT, al pagamento obbligatorio dei diritti di cancelleria, alle notifiche penali in SNT anche agli avvocati di fiducia di parti diverse dalle parti offese, all’avvio del PCT in Cassazione per gli avvocati. Infine, confesso buttando il cuore oltre all’ostacolo, con il decreto-legge 30 aprile 2020, 26, abbiamo introdotto il deposito di telematico di istanze, memorie, indicate dall’articolo 415 bis c.p.p., insomma il tanto agognato avvio processo penale telematico. Per noi il suo avvio doveva logicamente conseguire al varo della nuova disciplina delle intercettazioni, ma la pandemia ci ha costretto a rovesciare gli schemi e chissà che questo avvio, per ora in forma di valore legale del deposito telematico - come è stato l’avvio del PCT -, non ci aiuti ad evolverle velocemente; in questo caso non mancano le risorse, è già tutto finanziato da le ultime leggi di stabilità.
Al netto di sterili polemiche, osservo infine come il tema della remotizzazione dell’udienza invece non era nell’agenda del Ministero, anche perché la remotizzazione dell’udienza non è certo il processo telematico. Il processo telematico è realtà infrastrutturale molto più complessa, basata su flussi e conservazione di documenti nativi digitali, atti digitalizzati e multimediali, non certo su conversazioni on line.
Tuttavia in un momento in cui debbono evitarsi affollamenti, anche negli uffici giudiziari, ci è parso doveroso prevedere la remotizzazione dell’udienza basata su strumenti già in possesso dell’Amministrazione.
Si tratta in altre parole di applicativi di mere call conference, offerti esclusivamente per la fase emergenziale.
Sono convinta che nell’ambito del loro potere organizzativo, e con la giusta interlocuzione con l’avvocatura, gli uffici sapranno modulare al meglio tale opportunità.
4. Quali sono le maggiori criticità connesse allo smart working con riguardo al personale amministrativo?
Barbara Fabbrini: Come dicevo, lo smart working di questa fase emergenziale è un’assoluta novità, non tanto per lo strumento in quanto tale, ma per la quantità e le modalità del suo utilizzo.
Lo smart working immaginato sino al 31 luglio dall’articolo 87 del decreto-legge 18/2020, è in realtà in prevalenza un istituto di programmazione del lavoro che consente di evitare l’accesso all’ufficio; visto sotto altro profilo potremmo affermare che si tratta più di una misura di prevenzione dell’epidemia, che di una virtuosa modulazione del rapporto di lavoro.
Si è necessariamente perso il riferimento agli obiettivi da raggiungere, alla programmazione, ai criteri e di priorità nella, alla qualità dei progetti assegnati, che erano contenuti nella previsione originale della disciplina.
La maggiore criticità per i nostri uffici è stata quindi certamente quella di dovere calare velocemente, massicciamente progetti di lavoro agile.
Lo smart working, nella sua originaria configurazione, è poi strumento che si attaglia bene al personale di terza area, funzionari e direttori amministrativi.
L’amministrazione giudiziaria, invece, caso quasi unico nel panorama delle amministrazioni centrali, ha un personale per la maggior composto di qualifiche di prima e seconda area, con mansioni di tipo operativo e anche molto settoriali: tenuta dei registri, assistenza all’udienza, per non parlare delle mansioni dei commessi e degli autisti. Come adattare questa popolazione, che annovera circa 20.000 delle 34.000 unità allo smart working ?.
E’ indubbiamente un altro elemento di seria complessità, di fronte al quale si sono trovati gli uffici in questo periodo.
Ciò premesso, il fatto di avere “liberato” il lavoro agile da alcune condizioni vincolati della disciplina normativa originale (la legge 124/2015 e la legge 81/2017), unitamente alla circostanza che per la prima volta, anche se per necessità, ne facciamo un uso massivo è per noi un’occasione unica che non va persa.
Ho considerato da sempre lo smart working, istituto mutuato dalla disciplina del lavoro aziendale, una seria opportunità anche per il lavoro nell’amministrazione giudiziaria e sono convinta che nella cd. “fase due”, il monitoraggio, la riflessione con la dirigenza amministrativa e i sindacati, ci porteranno ad un percorso assolutamente interessante nella direzione di una maggiore applicazione anche per il lavoro giudiziario del nostro personale amministrativo.
Il Ministero però si sta muovendo in modo anche diverso rispetto ad altre amministrazioni in questo momento, non segue solo il modello della categorica divisione tra lavoro agile e lavoro in presenza che sembra proporre l’articolo 87 del decreto-legge 18/2020.
L’articolo 83 del medesimo detta come sappiamo una cornice del tutto peculiare per l’attività degli uffici giudiziari, prevedendo peraltro indubbiamente una ripartenza dell’amministrazione giudiziaria più sostenuta rispetto alle altre amministrazioni.
Che fare allora?
Anche qui, stiamo cercando di trarre dall’emergenza un’opportunità per avviare modelli organizzativi poco praticati in passato, per tanti motivi che sarebbe lungo illustrare.
Sono anni che nella pubblica amministrazione tutta non si fa uso di alcuni strumenti contrattuali previsti nei CCNL, che consentono di offrire complessiva flessibilità al lavoro, e possono essere utili per assicurare una continuità di orario dei servizi di segreteria e cancelleria, deflazionando l’afflusso di utenza e presenza in ufficio.
Rotazione nei servizi di cancelleria, orario multiperiodale, turnazione, possibilità di dividere l’orario di giornata in mattina e pomeriggio, remotizzazione del lavoro in sede differente da quella di servizio ma più vicina alla residenza del dipendente, sono tutti istituti poco applicati che ora stanno tornado utili in una logica di flessibilità complessiva dell’organizzazione del lavoro.
I nostri uffici li stanno finalmente sperimentando, accanto al lavoro agile, con difficilissimi ma quantomai interessanti, ordini di servizio che sono convinta possano costituire un valido scenario anche per il futuro.
E’ stato come riprogrammare un’azienda in pochi giorni senza avere potuto neanche approntare il piano di riconversione industriale.
La strada è faticosa, siamo partiti con tante incertezze, in un contesto difficile quale quello della pandemia, ma confidiamo nel fatto che si siano aperte nuove prospettive anche per la maggiore flessibilità del lavoro nell’Amministrazione giudiziaria.
5.Quali sono stati i risultati raggiunti?
Barbara Fabbrini: All’inizio nelle prime riunioni in call conference leggevamo incertezza, tensione, fatica nei colleghi e nella dirigenza amministrativa. Inevitabile a situazione data.
L’altro giorno in alcune ultime call alcuni colleghi Capi di ufficio hanno affermato: “Ci hai fatto fare una grande fatica ma abbiamo fatto un buon lavoro e ci sentiamo pronti”.
I dati raccolti nel rapporto sulla fase uno, che abbiamo ieri pubblicato sul sito del Ministero testimoniano di questo grande lavoro:
a) Le richieste pervenute all’unità di crisi mostrano che orami non da circa 20 gg non riceviamo più richieste di aiuto per spiegazioni sulle modalità organizzative e sui protocolli di prevenzione sanitaria da adottare; insomma il lavoro svolto durante la fase uno ci ha permesso di essere un pò più preparati per la fase due.
b) Come già detto finalmente si parla di flessibilità del lavoro, si sperimenta il lavoro agile e non solo. 77 % è la media nazionale dei dipendenti in smart working negli uffici giudiziari italiani, perfettamente in linea con la media nazionale pubblicata dalla Ministra Dadone qualche giorno fa che ammonta a 73,8%.
c) Le abilitazioni da remoto sugli applicativi informatici stanno crescendo e larghissimo è l’uso della piattaforma e-learning per la formazione a distanza;
d)Tante sono le linee guida già emesse dagli uffici in vista della fase due.
e) Gli acquisti per il materiale sanitario ci risultato fatti e sono conosciute orami le procedure di acquisto.
Direi però che anche altri sono i risultati a cui dobbiamo guardare.
Si sta riaprendo un dibattito in tema di organizzazione giudiziaria e digitalizzazione che francamente era anni che non vedevo così animato. Dopo l’entrata in vigore del processo civile telematico, nel luglio 2014, è come se il mondo della giustizia fosse soddisfatto, si usa lo strumento ma non si riflette sulla sua potenzialità di evoluzione.
Ora invece il dibattito è ripartito.
E dall’organizzazione del lavoro si sposterà presto anche sull’architettura del processo civile e penale, ne sono convinta.
Infine ma non in ultimo, seppure tragicamente costretti, si ragiona anche di sicurezza della salute dei lavoratori e ambientale.
Credo che tale processo e tali risultati vada poi accompagnati ad altri atti di “coraggio” che competeranno al Ministero e alle altre istituzioni centrali.
Mi riferisco alla necessità di riprendere velocemente le politiche di reclutamento assunzionale. Per la prima volta avevamo un programma assunzionale finanziato per più di 10.000 risorse. Stiamo immaginando e occorrono procedure concorsuali semplificate adattate ai tempi del COVID-19.
Dobbiamo concludere con il Consiglio superiore della magistratura il lavoro sulle piante organiche ordinarie e su quelle flessibili. Pensiamo quanto sarebbero stati utili risorse di magistratura che rispondono a logiche di flessibilità distrettuale in un momento come questo.
Infine, ma non in ultimo dobbiamo portare a termine il processo di revisione del decentramento amministrativo con la costituzione di direzioni territoriali dedicate all’edilizia e agli acquisti. Pensiamo a quanto sarebbero servite ora. I pochi tecnici (ingegneri e architetti) che siamo miracolosamente riusciti ad assumere a giugno sono stati davvero fondamentali in questa delicata fase in cui la sicurezza dei locali e la logistica degli spazi di lavoro assume un nuovo ruolo.
6. Gli Uffici giudiziari in Italia sono inseriti in realtà geografiche differenti, con diverse modalità di gestione e organizzazione delle risorse modalità che risentono spesso delle diverse capacità organizzative dei dirigenti, a queste si aggiunge una diversa situazione sanitaria in termini di pericolo di contagio, quali sono sotto questo profilo le problematiche che hanno reso più difficile l’organizzazione?
Barbara Fabbrini: Questo è verissimo.
Il COVID- 19 purtroppo è come se avesse funzionato anche da lente di ingrandimento dei vari contesti territoriali, facendo risaltare differenze culturali, istituzionali e sociali nazionali, prima ancora che dei nostri uffici.
Sono dati di cronaca le differenti misure per la prevenzione dell’epidemia prese dalle Regioni, che ricordo sono le autorità sanitarie competenti sul territorio, legittimamente ma spesso distoniche anche dal quadro nazionale.
A prescindere da ogni valutazione sul punto, tale situazione si è indubbiamente riflessa anche sull’organizzazione degli uffici giudiziari, e crea ancora un certo disorientamento. Alcune regioni richiedono la misurazione della temperatura all’ingresso degli uffici pubblici, altre no, alcune fanno i test sierologici anche al personale dell’amministrazione giudiziaria, alcune richiedono misure di distanziamento sociale più rigorose del metro previsto dalle norme nazionali, solo per fare qualche esempio.
Ovvio che tutto ciò, spesso disorienta ed ha costituto una delle maggiori difficoltà anche per il Ministero che dal centro cerca di supportare i territori in modo uniforme.
Ecco perché la prima indicazione e prescrizione che abbiamo dato agli uffici, specie a quelli di vertice distrettuale, è quella di operare in stretto contatto con l’ATS locale, creando ove possibile una vera e propria “cabina di regia”.
Una considerazione ne discende anche per una chiave di lettura della fase che si sta aprendo.
In genere il contesto organizzativo è del tutto servente rispetto all’attività giudiziaria da svolgere. Purtroppo credo che nella fase due, invece l’agenda delle attività giudiziarie contenuta nelle linee giuda di cui all’articolo 83 del decreto-legge 18/2020 risentirà molto dell’emergenza sanitaria e del contesto territoriale.
L’uso di mascherine, il necessario distanziamento sociale, le sanificazioni periodiche dei locali, le logistiche delle aule rivisitate, finiranno indubbiamente per influire sull’articolazione e svolgimento delle udienze, dei processi e delle altre attività giurisdizionali.
Insomma ad una certa differenza tra misure territoriali dovremmo necessariamente abituarci, è inevitabile in questa fase.
Ciò che è importante però è che il paradigma sia uniforme, che i protocolli siano omogenei quanto a tipologia di misure adottate.
Altri sono gli aspetti a cui dovremmo guardare in vista del superamento della fase due e del superamento di particolarismi territoriali.
Il COVID-19 è stato, e lo sarà ancora di più nella seconda fase, un duro banco di prova dei rapporti con l’Avvocatura locale, determinerà una ripresa delle istanze sindacali per i nostri dipendenti nel del legittimo tentativo di contrattare crescenti misure di flessibilità.
La nostra dirigenza, complessivamente intesa, è chiamata ad un grande sforzo di sintesi tra tali momenti.
Mai come ora la doppia dirigenza è chiamata ad una gestione fortemente innovativa e complessa, ad un confronto con le varie istituzioni e parti sociali, ad una capacità di prendere decisioni rapide ed efficaci per il contesto e il momento di riferimento.
Non è un quadro però negativo quello che ho potuto osservare in questi giorni, i timori sono tanti, la situazione è eccezionale, ma gli uffici e i loro vertici stanno rispondendo in modo assolutamente efficace.
Il Ministero segue tale evoluzione anche per cercare di uniformare eccessive differenze organizzative e soprattutto per supportare gli uffici giudiziari in questo momento.
Semmai scontiamo una sicura inadeguatezza dell’architettura della nostra dirigenza amministrativa, del tutto insufficiente numericamente rispetto agli uffici da gestire.
Abbiamo avviato anche un ciclo di incontri dedicati alla dirigenza amministrativa.
7. Il 1 maggio 2020 Tedros Adhanom Ghebreyesus il direttore generale dell'Organizzazione mondiale della sanità (Oms), ha dichiarato che "La pandemia da Covid-19 rimane un'emergenza di sanità pubblica a livello internazionale", il 4 maggio inizia la fase due, il diverso numero dei contagiati nelle diverse regioni d’Italia da l’idea che occorre attuare un’organizzazione diversa sul territorio nazionale per assicurare una cura individuale del distanziamento, quali sono le linee direttive che dal dipartimento avete adottato o adotterete?
Barbara Fabbrini: Si, con la “fase due” entriamo in un periodo che credo sia, se possibile, forse ancor più delicato per gli uffici giudiziari. Si rientra negli uffici riprendendo gradualmente l’attività ma doverosamente mantenendo tutte quelle prescrizioni di carattere sanitario che sappiamo essere il cuore della prevenzione del COVID-19.
Come detto all’inizio, sono state molte le circoli e direttive emesse dal Dipartimento a seguito dell’inizio dell’epidemia, materiale tutto che può trovarsi sul sito del Ministero.
Con la circolare emessa il 2 maggio scorso, in particolare si detta una cornice quadro di orientamento degli uffici.
Abbiamo prescritto misure logistiche e operative, al fine di assicurare una migliore gestione degli spazi lavorativi, che vanno dal censimento degli spazi i, all’acquisto di paratie in plexiglass per gli sportelli aperti al pubblico, all’adozione di percorsi obbligati per l’utenza esterna.
Si sono invitatati gli uffici ad adottare le soluzioni organizzative per contenere l’afflusso di utenza esterna: orari rivisti degli sportelli aperti al pubblico, prenotazione e appuntamento per l’utenza e così via.
Il rispetto delle prescrizioni igienico-sanitarie sono poi il nucleo centrale delle indicazioni offerte agli uffici: si ricorda di mantenere tutte le prescrizioni contenute nella circolare del ministro della Salute del 22 febbraio e dal d.P.C.M. del 26 aprile scorso e sui allegati[1].
Si è ricordato di procedere al Documento di Valutazione dei Rischi.
Si sono offerte indicazioni sugli acquisti per materiale sanitario e sulle modalità di igienizzazione locali. Si sono date raccomandazioni di procedere al mantenimento dell’utilizzo del lavoro agile, anche se in quantità e modalità differenti rispetto alla fase uno, e di accompagnare ad esso l’utilizzo degli altri istituto contrattuali di flessibilità lavorative a cui facevo riferimento prima.
Ovviamente il Ministero, con le sue direzioni generali offre supposto concreto agli uffici in tale quadro prescrittivo, appronta i servizi (specie per gli acquisiti e per le abilitazioni informatiche), interloquisce con le dirigenze per declinare in modo corretto gli ordini di servizio per il personale.
In tale contesto ricordo che la spesa sino ad oggi effettuata supera i 5 milioni di euro per le procedure di sanificazione e di acquisto di materiale sanitario per gli uffici.
La seppur ridotta attività degli uffici giudiziari ha quindi permesso, in un certo senso, di approntare quanto necessario per l’avvio della fase due.
8. Cosa rimarrà come dote strutturale degli uffici giudiziari dell’organizzazione adottata nella fase 1 e che sarà adottata nella fase 2?
Barbara Fabbrini:Quanto ho illustrato sopra già dice molto sul punto.
Non dobbiamo illuderci di essere usciti dal contesto epidemiologico; gli scienziati, l’istituto superiore della sanità e il Governo su questo sono stati assolutamente chiari.
Non dobbiamo quindi neanche illuderci che il 12 maggio sia una data a cui corrisponda una completa ripresa dell’attività giudiziaria, e penso che cautela e progressività debbano essere le parole d’ordine della ripresa del lavoro nei nostri uffici in questa seconda fase.
Temo che sarà poi inevitabile che il rallentamento a cui sono stati costretti gli uffici, porterà a momenti di conflitto e imporrà di trovare soluzioni non solo organizzative, ma di revisione processuale e di scelte prioritarie che richiederanno una forte capacità di dialogo tra i vari attori del mondo della giustizia.
Ci portiamo come insegnamento dalla prima fase per la fase due, e anche per il futuro, innanzi tutto qualcosa di non scontato nell’organizzazione giudiziaria: la consapevolezza della necessità di una legislazione e organizzazione dell’emergenza, in grado di scattare e operare in varie circostanze, tale da assicurare continuità nell’esercizio della giurisdizione. Immagino un ventaglio di soluzioni di carattere tecnologico, organizzativo e normativo, in parte simili a quelle che stiamo sperimentando, da utilizzare in caso di terremoti e altre calamità e altri momenti critici.
Una riflessione questa che vale in realtà non solo per il lavoro giudiziario ma anche per altri contesti sociali e lavorativi: si pensi alle misure economiche, a quelle del lavoro nelle imprese, alla mobilità pubblica ecc.
La nuova spinta verso una digitalizzazione del processo, che ci conduce finalmente al completamento del processo civile telematico e all’avvio del processo penale telematico, la nuova visione di flessibilità lavorativa del personale tutto, costituiscono invece lo stimolo e la frontiera per le scelte del futuro. Un futuro in cui il contesto pandemico sarà terminato ma in cui credo che il “mondo” dell’amministrazione giudiziaria e degli uffici non sarà più lo stesso che abbiamo lasciato fermo alla data del 23 febbraio.
Questo va colto come un’opportunità.
Una fase quindi in cui ridisegnare diverse politiche del personale, dell’infrastruttura informatica e dell’organizzazione giudiziaria significa anche aprire ad una riflessione su una diversa architettura del processo, dotato di adeguata effettività per rispondere alle esigenze economiche e sociali che certamente emergeranno a fase emergenziale terminata.
Un percorso che è già iniziato, direi che basta solo percorrerlo.
4. Conclusioni
La pandemia da Covid 19 è stata paragonata all’influenza spagnola con nome che le deriva dalla prima nazione che, senza censura, denunciò l’arrivo del flagello.
La grande influenza del secolo scorso, tra la sua apparizione, nel 1918, e il termine, nel 1920, provocò la morte di 50 milioni di persone su una popolazione mondiale di circa 2 miliardi.
Come la spagnola, anche la pandemia Covid 19, ed e questa è la buona notizia, finirà.
Finirà per l’immunità di gregge o per la scoperta delle cura o per la scoperta del vaccino o, come insegna la storia delle influenze, improvvisamente così come finì la spagnola dopo tre ondate (si dice che il virus abbia subìto una mutazione verso una forma meno letale, perchè gli ospiti dei ceppi più letali tendono a estinguersi).
Ora siamo sospesi nella parentesi del distanziamento sociale.
Barbara Fabbrini ci ha chiarito i termini della “riconversione industriale dell’organizzazione del lavoro giudiziario” come attuata in vista della fase due. Ci ha fornito i numeri della remotizzazione della popolazione giudiziaria: 10.000 magistrati, oltre 200 mila avvocati e circa un milione di professionisti. Ci ha illustrato gli strumenti a disposizione affinchè l’attività giurisdizionale riprenda.
Occorre bilanciare gli interessi coinvolti: il diritto alla salute – antecedente logico del diritto alla vita https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/1055-epidemia-salute-carcere - e il diritto al giusto processo declinato in termini di ragionevole durata.
Nella parentesi del distanziamento sociale la remotizzazione, nel rispetto dei diritti di difesa, è l’unica via perché la giustizia non si fermi, con la promessa certo che tutto tornerà come prima a garanzia dei diritti di difesa e del giusto processo.
Il superamento della crisi economica che seguirà alla pandemia, come già ci avverte Barbara Fabbrini, passa d’altro canto anche attraverso una risposta di giustizia ragionevolmente breve.
Quando tutto questo sarà finito avremo un livello di digitalizzazione che mai ci saremmo aspettati e questo è l’effetto collaterale positivo del Covid 19.
a.Obblighi informativi per l’utenza e dipendenti sul decalogo del ministro della salute allegato alla circolare 22 febbraio 2020;
b.Obbligo del dipendente di non recarsi in ufficio ove vi sia alterazione di temperatura corporea superiore a 37,5 gradi (ribadito anche nel d.p.c.m. del 26 aprile 2020);
c.Necessità di assicurare il distanziamento sociale anche in ambito lavorativo;
d.Acquisto di materiale igienizzante e di materiale di pulizia, e di dispositivi di protezione secondo le prescrizioni di settore (riportate nella circolare apposita emessa in data odierna);
e.Obbligo di portare i dispositivi di protezione personale (mascherine) e precauzionalmente uso di guanti nei luoghi confinati pubblici ove non possibile mantenere il distanziamento (prescritto nel d.p.c.m. del 26 aprile 2020);
f.Obbligo di pulizia/igienizzazione profonda con i prodotti specifici e di sanificazione dei locali con il sorgere di positività di dipendenti, con le modalità indicate nella circolare del 22 febbraio del Ministro della salute.
ALLEGHIAMO IL RAPPORTO DEL DIPARTIMENTO DELL'ORGANIZZAZIONE GIUDIZIARIA SUI NUMERI DELLA GIUSTIZIA NELL'EMERGENZA COVID
Le Sezioni Unite sull'aggravante dell'agevolazione mafiosa e sul concorso esterno
di Andrea Apollonio
Sommario:1. Attività giudiziale e fenomeno mafioso - 2. Le Sezioni Unite "Chioccini" - 3. Il "confronto" con le Sezioni Unite "Thyssen" - 4. Il "confronto" con le Sezioni Unite "Demitry" e "Mannino" - 5. La complessiva ricostruzione - criminologica e dogmatica - dell'area della contiguità mafiosa.
1.Attività giudiziale e fenomeno mafioso
Uno dei più autorevoli studiosi del diritto penale e delle sue interazioni con l'ambito giudiziale metteva in luce qualche anno addietro come le disposizioni si estendano «per analogia con la costruzione di una nuova "dispositio": vale altrimenti (se non c’è analogia) la vecchia disposizione arricchita di casi nuovi»[1]. Partendo cioè dalle disposizioni, che sono enunciati normativi, si arriva al loro contenuto reale tramite l'interpretazione e l'applicazione ai casi. La norma, pertanto, è solo il risultato dell'interpretazione della disposizione astratta.
Nonostante la distinzione tra disposizione e norma risalga le basi del pensiero giuridico moderno ed involga l'intera teoria generale del diritto[2], è sopratutto nella materia criminale che i meccanismi giudiziali razionali, di tipo puramente sillogistico, rappresentano illusioni (e retaggi storici) di esatta calcolabilità del diritto[3]. Invero, l'esercizio del diritto giurisprudenziale, teso a riempire di significato precettivo la fattispecie a partire dal suo dato testuale, è - al di là del suo «indiscutibile successo»[4] di cui si parla in termini non rassicuranti in dottrina - inevitabile, per quei tipi giuridici che sintetizzano un universo criminologico estremamente denso e complesso.
E' sicuramente il caso della congerie di norme volte a contrastare il pervicace fenomeno mafioso, secondo alcuni interpreti configurate tramite una «tecnica di tipizzazione [che] sconta un certo grado di genericità»[5]. A ben vedere, poiché lo scarso rilievo semantico cade direttamente dai contorni poco nitidi della figura-madre, quella di cui all'art. 416-bis c.p. (metodo mafioso e agevolazione della consorteria), che fa riferimento ad un paradigma criminologico - quello appunto di "mafia" introdotto nel 1982 - di per sé poco definibile.
In questo panorama normativo assumono una decisiva rilevanza ermeneutica gli arresti delle Sezioni Unite (persino più che in altri campi del diritto penale): basti solo pensare che due fattispecie satellite del reato di associazione mafiosa - il c.d. "concorso esterno" e l'aggravante di cui all'art. 416-bis.1 c.p. - hanno visto ciascuna pronunciarsi tre volte il supremo consesso della Cassazione. Di talché, decisiva rilevanza assume la sentenza delle Sezioni unite penali, n. 8545 del 19 dicembre 2019 (dep. 2 marzo 2020), imp. Chioccini, dal momento che, pur dovendo affrontare una questio iuris attinente l'aggravante della c.d. "agevolazione" mafiosa, riapre cruciali questioni interpretative anche riguardo al concorso esterno: su cui, come noto, nell'ultimo ventennio si sono scatenate vere e proprie "guerre di religione"[6].
Adottata una tale prospettiva duplice, questa sentenza diviene giocoforza un riferimento interpretativo tra i più rilevanti degli ultimi anni: tanto che con i principi affermati su queste due figure (sebbene nel caso del concorso esterno valgano quali obiter dicta, non essendo questo il thema decidendum rimesso alle Sezioni Unite), l'ampia area della contiguità alla mafia può dirsi aver cambiato - per l'ennesima volta - le proprie fattezze.
2. Le Sezioni Unite "Chioccini"
L'art. 416-bis.1 c.p., prevede che «Per i delitti punibili con pena diversa dall'ergastolo commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'articolo 416 bis ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, la pena è aumentata da un terzo alla metà». Come detto, le Sezioni Unite intervengono per la terza volta sulla circostanza aggravante, affrontando adesso la questione che più d'ogni altra ha tenuto impegnati gli interpreti, se cioè la figura dell'agevolazione «abbia natura soggettiva concernendo le modalità dell'azione, ovvero abbia natura soggettiva concernendo la direzione della volontà». Sebbene infatti la struttura duplice della fattispecie faciliti una differente lettura delle condizioni delittuose - da un lato ci si deve oggettivamente valere del metodo mafioso, dall'altro le modalità dell'azione devono essere rivolte in senso teleologico all'agevolazione dell'attività dell'associazione mafiosa - ciò legittimando la dottrina a ribadire, con poche eccezioni[7], che «la prima ipotesi si connota in termini oggettivi, mentre quella consistente nella finalità agevolatoria è, all'opposto, da qualificarsi come soggettiva»[8], non mancano pronunce della Cassazione che hanno affermato per entrambe le figure la natura oggettiva, poiché la previsione de qua riguarderebbe, a ben vedere, una modalità dell'azione rivolta ad agevolare l'associazione mafiosa.
A seconda dall'inquadramento teorico prescelto discendono conseguenze pratiche di grande rilievo sotto il profilo concorsuale, perché ritenendo la circostanza oggettiva, attinente cioè alle modalità dell'azione ai sensi dell'art. 70 c.p., essa può essere estesa ai correi; diversamente, sottolineando la necessità di un atteggiamento di tipo psicologico dell'agente, tale da richiamare i motivi a delinquere, andrebbe applicata la regola di cui all'art. 118 c.p., secondo cui, versando in questo caso, la circostanza è valutata soltanto alla persona a cui si riferisce.
La sentenza dunque evidenzia anzitutto l'assenza di un chiaro statuto applicativo dell'aggravante in parola, emergendo per questa via problemi legati da un lato alla prevedibilità e all' accessibilità della norma penale nei suoi effettivi contenuti precettivi, dall'altro, sotto il profilo della colpevolezza, al rischio di configurare una responsabilità oggettiva, da posizione[9], volta a punire - aggravando il reato base perpetrato - la mera prossimità, anche in forme collaborative, con soggetti che, dal canto loro, agevolano gruppi mafiosi.
Si affronta quindi in prima battuta la questione della natura giuridica rimessa: «Non vi è dubbio [...] che il fine agevolativo costituisca un motivo a delinquere», dovendosi pertanto ritenere che «il dato testuale imponga la qualificazione della circostanza nell'ambito di quelle di natura soggettiva». Secondo la Corte, infatti, valutando più attentamente gli orientamenti giurisprudenziali si evince che la maggior parte delle posizioni ermeneutiche non arrivano al punto di escludere che la circostanza possa essere inquadrata tra quelle relative ai motivi a delinquere. Quando - proseguono i giudici sul loro filo argomentativo -sul piano dell'accertamento è richiesto - pur considerando l'aggravante di natura soggettiva - un ulteriore elemento di natura oggettiva, attinente alle modalità (recte: all'idoneità) dell'azione, questo non viene configurato come elemento costitutivo della fattispecie, ma come fatto da cui desumere la prova della sussistenza dell'elemento psicologico: non trattandosi quindi di un ulteriore elemento strutturale, nulla preclude la riconducibilità della previsione ai "motivi a delinquere" di cui all'art. 118 c.p. E, si aggiunge in sentenza, un tale approdo non sarebbe impedito neppure da chi valorizza l'elemento obiettivo «non a meri fini di prova del dolo specifico, bensì quale ulteriore elemento costitutivo dell'aggravante, nell'ottica di rendere la disposizione di cui all'art. 416-bis.1 c.p. maggiormente aderente al principio di offensività», postulando quindi - al più - una natura "mista" dell'aggravante.
E' solo adesso, accertata la natura soggettiva dell'aggravante, che la Corte può approcciarsi alla dommatica della figura circostanziale: si incarica pertanto di tracciare una linea di demarcazione, da un lato rispetto al tipo di dolo che deve caratterizzare colui che agisce per agevolare la compagine mafiosa, e dall'altro - più che per l'integrazione in sé della circostanza - ai fini dell'estensione della stessa ai concorrenti nel reato. In questo senso, la Corte prende atto dell'esigenza di riordino degli elementi costitutivi e di disciplina dell'aggravante in parola e differenzia le due forme di accertamento giudiziale.
Anzitutto, un accertamento di "primo livello", riguardante l'elemento soggettivo necessario ad integrare l'aggravante, che secondo alcuni - per lo più i fautori della teoria soggettivista - si sostanzierebbe in un marcato dolo specifico, in cui l'agente, oltre alla coscienza e volontà del fatto integrante l'elemento soggettivo del reato base, agisce per il fine particolare di agevolare l'associazione (a cui possono anche sommarsi altre finalità, più personali ed egoistiche), secondo altri - per lo più i fautori della teoria oggettivista - può ridursi alla mera consapevolezza della direzione della condotta e della sua idoneità ad agevolare l'attività della compagine. Si tratta quindi di stabilire, fuori dal problema dell'estensibilità ai concorrenti, la veste tassonomica del dolo proprio della circostanza aggravante - ontologicamente differente da quello del reato base - posto che, in ogni caso, tutte le chiavi di lettura proposte conferiscono rilievo ad una ricaduta oggettiva dell'aspirazione dell'agente, nel senso cioè che l'azione debba risultare oggettivamente idonea al perseguimento del fine agevolativo.
Un accertamento di "secondo livello" investe invece i concorrenti nel reato aggravato. In questo caso, rispetto al requisito necessario ad estendere a costoro l'aggravante, possono enumerarsi tre diverse possibilità applicative: la condotta del concorrente è improntata ad un dolo specifico uguale, simmetrico a quello che caratterizza la condotta effettivamente agevolativa dell'agente principale (entrambi quindi agiscono col fine particolare di agevolare l'associazione, oppure, postulando un diverso gradiente soggettivo, con il medesimo dolo diretto); il concorrente agisce nella consapevolezza che il proprio contributo stia accedendo ad una condotta altrui caratterizzata da dolo intenzionale, che sta agevolando un'associazione mafiosa (in questo caso differenziandosi i gradi del dolo nell'ambito del concorso di persone); in ultimo, il concorrente potrebbe versare in una mera ignoranza colposa (ed è questa la soluzione prospettata, in particolare, dai fautori della tesi oggettivista, che ritengono sufficiente - ex art. 59 c.p. - per tutti i correi l'ignoranza colposa dell'agevolazione della compagine mafiosa).
Occorre quindi chiedersi, in primo luogo, quale sia la forma del dolo richiesta dall'art. 416-bis.1, sub specie dell'agevolazione, e conseguentemente quanto debba essere rilevante presso i concorrenti del reato aggravato la copertura volitiva della funzionalizzazione dell'attività criminosa verso l'associazione mafiosa. In questo senso, la Corte è chiamata a configurare uno statuto applicativo che abbracci tanto la natura e il coefficiente psicologico della circostanza, in sé considerata, tanto il problema dell'estensione della stessa ai correi, alla luce della disciplina di cui all'art. 118 c.p.
3. Il "confronto" con le Sezioni Unite "Thyssen"
E' interessante notare che nel ripercorrere l'elemento soggettivo come sopra declinato, si fa riferimento alle note Sezioni Unite "Thyssen"[10] applicandone i principi; o, per meglio dire, declinando in maniera più netta le speculazioni sul dolo: «che nella forma diretta si limita alla rappresentazione e non alla volizione, oltre che dell'azione delle sue conseguenze».
Per il vero, la distinzione avanzata nella "Thyssen" all'interno dell'elemento psicologico più marcato - seppure in motivazione ed in guisa di obiter dictum: perché, anche lì, non era esattamente la distinzione tra dolo diretto e dolo intenzionale la questione da affrontare - la si potrebbe così sintetizzare: nel dolo intenzionale l'evento di reato è lo scopo stesso dell'azione, nel dolo diretto esso si pone come collaterale del fine perseguito, non direttamente voluto ma come tale senza dubbio accettato; in altre parole, questo si ha quando l'evento è ritenuto dall'agente altamente probabile o certo, e l'autore non si limita ad accettarne il rischio, ma accetta l'evento stesso, cioè lo vuole e con un'intensità evidentemente maggiore che nel dolo eventuale. E' dato comprendere che, nell'alveo della "Thyssen", nel dolo diretto coabitano ancora l'elemento rappresentativo e quello volitivo, sebbene il concetto stesso di "accettazione" diluisca inevitabilmente il secondo a favore del primo.
Come detto, la pronuncia in esame rielabora diversamente l'elemento doloso, con un passaggio che mostra di emanciparsi dalle più tradizionali letture dottrinali che hanno sempre interpretato il rapporto psicologico con l'evento in termini - pressoché inscindibili - di rappresentazione e volontà, persino con riferimento al dolo eventuale[11].
Questa scissione interna al dolo, questo - per meglio intenderci - ribaltamento delle letture tradizionali, che le Sezioni Unite "Thyssen" non avevano portato a compimento, rimanendo sul punto come sospese, preferendo giostrare il proprio percorso motivazionale sul bilanciamento tra rappresentazione e volontà (con particolare riguardo al primo elemento senza mai privarsi del tutto, nel campo del dolo non eventuale, del secondo), sembra invece essere stata conseguita - e scientemente perseguita - nella pronuncia in commento, in cui molti passaggi - finanche nel principio di diritto rassegnato - si riferiscono al dolo diretto in termini di mera consapevolezza (che l'azione arrivi obiettivamente ad agevolare l'associazione mafiosa).
Anche perché una ricostruzione "separata" di rappresentazione e volontà nel caso in esame si dimostra funzionale ad elaborare i principi di diritto infine rassegnati, connessi da un lato alla struttura dell'aggravante dell'agevolazione mafiosa, dall'altro alla sua estensibilità ai correi: «L'aggravante agevolatrice dell'attività mafiosa prevista dall'art. 416-bis.1 c.p. ha natura soggettiva ed è caratterizzata da dolo intenzionale; nel reato concorsuale si applica al concorrente non animato da tale scopo, che risulti consapevole dell'altrui finalità». Dolo intenzionale da un lato; dolo diretto (per il concorrente) dall'altro.
E' di tutta evidenza come, a dover essere approfondita alla luce dei principi generali, è sopratutto la posizione del concorrente, per la cui affermazione di responsabilità penale è sufficiente un gradiente psichico inferiore rispetto all'agente, per così dire, principale (l'autore del reato monosoggettivo).
E' anzitutto lumeggiato come l'insieme dei precetti che governano il tema delle circostanze aggravanti sia stato ridisegnato dalla novella contenuta nella legge 7 febbraio 1990, n. 19, che ha quale scopo precipuo quello di estirpare ogni residuo di responsabilità oggettiva, anche su elementi non costitutivi del reato: da ciò deve discendere un'attenzione costante al principio di colpevolezza nell'estendere la circostanza aggravante, che tuttavia - afferma la Corte - non impedisce di intendere in senso meno rigoroso il portato applicativo dell'art. 118 c.p., che «non prevede l'impossibilità di estensione delle circostanze soggettive tout court, ma opera un'indicazione autonoma», nella misura in cui questo tipo di circostanze, come afferma la norma, devono essere «valutate soltanto con riguardo alla persona a cui si riferiscono».
Occorre dunque - sembra dire la Corte - una valutazione in astratto sul tipo di circostanza ed una in concreto sulla vicenda delittuosa - da cui si possa evincere «la possibilità di estrinsecazione della circostanza all'esterno». E l'agevolazione mafiosa permetterebbe, in sostanza, una tale estrinsecazione. Cosicché, «qualora si rinvengano elementi di fatto suscettibili di dimostrare che l'intento dell'agente sia stato riconosciuto dal concorrente, e tale consapevolezza non lo abbia dissuaso dalla collaborazione, non vi è ragione per escludere l'estensione della sua applicazione, posto che lo specifico motivo a delinquere viene in tal modo reso oggettivo»[12].
La soluzione ermeneutica relativa alla comunicabilità della circostanza passa quindi da una vistosa deroga del principio scolpito all'art. 118 c.p., che fa rivivere la meno rigorosa dinamica estensiva di cui all'art. 59 cpv., ed è tutta improntata sul concetto già espresso di consapevolezza (recte: su una condotta caratterizzata da dolo diretto): il reato aggravato ex art. 416-bis.1 c.p. si applica al concorrente non animato da tale scopo ma che risulti consapevole dell'altrui finalità.
La regola di imputazione soggettiva (ex art. 59 c.p.) è dunque quel dolo diretto inteso come mera rappresentazione, priva del controcanto volitivo; definito, in altri termini, come rappresentazione e consapevolezza dello scopo altrui, con la doverosa specificazione che una siffatta cognizione delle cose non abbia frenato l'agire delittuoso. Una specificazione che tanto ricorda le molte formule adattabili al dolo eventuale, e che forse la include, se è vero che - come si premura di specificare la Corte - «per il coautore del reato, non coinvolto nella finalità agevolatrice, è sufficiente il dolo diretto, che comprende anche le forme del dolo eventuale».
4. Il "confronto" con le Sezioni Unite "Demitry" e "Mannino"
Dolo diretto del concorrente, che sembra essere lo stesso che caratterizza il concorso esterno nell'associazione mafiosa, figura con cui la Corte intende confrontarsi[13]. La sentenza infatti costruisce la differenza tra le due fattispecie considerate dalla dottrina prossime e promiscue[14], prendendo però in esame un modello di concorso esterno non armonico a quello di riferimento nell'attuale panorama interpretativo, quello delle Sezioni Unite "Mannino"[15]: sentenza rispetto ai cui principi essenziali il "diritto vivente" elaborato in seguito, pur specificando molte questioni lasciate aperte, aderisce con poche divergenze.
In particolare, rispetto all'elemento oggettivo del reato concorsuale, nella sentenza in commento si afferma che «elemento differenziale della condotta è l'intervento non tipico dell'attività associativa, ma maturato in condizioni particolari (la c.d. fibrillazione o altrimenti definita situazione di potenziale capacità di crisi della struttura)»: una forma di agevolazione in particolari frangenti temporali della vita associativa, quella cui ci si rifà, ritenuta qualificante dalle Sezioni Unite "Demitry" nel 1994 (le prime intervenute sull'istituto)[16], secondo cui è proprio nei momenti di crisi dell'associazione che l'apporto del concorrente (eventuale) raggiunge il suo scopo rafforzativo; tesi che tuttavia, per evidenti aporie logiche, era stata ampiamente superata - e di fatto mai più ripresa - dalla giurisprudenza successiva, infine cassata dall'ultimo approdo delle Sezioni Unite del 2005, secondo cui il concorso esterno nel reato di associazione mafiosa costituisce il normale modus operandi delle organizzazioni e non è invece legato, in alcun modo, a momenti di fibrillazione o a difficoltà contingenti.
Dalle Sezioni Unite "Mannino" sembra discostarsi anche l'affermazione per cui il concorso esterno necessita del dolo diretto, diversamente dalla figura circostanziale che è, come detto, legata al dolo intenzionale, sopratutto ove si consideri che in questa pronuncia la Corte si rifà ad un dolo diretto che, come già sottolineato, si limita alla rappresentazione e non alla volizione: una prospettazione, anch'essa, più vicina a quanto si diceva nella "Demitry" piuttosto che alle operazioni di puntellamento dell'elemento soggettivo eseguite nella "Mannino", che nettamente esclude forme psicologiche di mera rappresentazione nell'integrazione del concorso eventuale.
Anche questa interpretazione del concorso esterno, che sembra risalire agli esordi del processo di definizione pretoria della fattispecie, può essere intesa come il prodotto - forse, la conseguenza - della ricostruzione separata del dolo, che si emancipa dalla volizione dell'evento e delle conseguenze della propria condotta, pur senza sfociare (almeno da un punto di vista formale e tassonomico) nel problematico campo del dolo eventuale: sarebbe proprio questa forma di dolo diretto, secondo la Corte, il coefficiente di imputazione soggettiva sufficiente ad integrare il reato di concorso esterno, diversamente dalla circostanza de qua, che richiederebbe il combinato soggettivo di rappresentazione e volontà nella sua veste di dolo intenzionale (e specularmente, come già evidenziato, il dolo diretto per il concorrente).
5. La complessiva ricostruzione - criminologica e dogmatica - dell'area della contiguità mafiosa
La disamina della sentenza suscita taluni rilievi critici da avanzarsi rispetto alla necessità che alcuni passaggi fossero corredati da un più ampio apparato motivazionale. Necessità avvertita rispetto alla rivisitazione dei principi in tema di dolo delle Sezioni Unite "Thyssen", che comporta, proprio perché espresso dalle stesse Sezioni Unite qualche anno più tardi, un'oscillazione giurisprudenziale fatalmente oggetto di nuovo dibattito pretorio; come pure, qualche perplessità rimane nel tratteggio del concorso esterno effettuato dalla sentenza in commento, che sembra rimettere in pista una giurisprudenza abbandonata dagli interpreti da oltre un ventennio: così amplificando l'esigenza, da tempo pressante, di un intervento legislativo chiaro e puntuale sul concorso esterno[17].
Nondimeno, appaga la complessiva ricostruzione - giuridica e criminologica, l'una natura discendendo dall'altra - dell'area della contiguità mafiosa. Quel cordone di contenimento dell'agevolazione mafiosa, steso dal legislatore penale del 1991 (anche) con l'introduzione di questa peculiare figura aggravatrice, non può dunque limitarsi a comprendere le condotte di chi abbia un collegamento diretto con l’associazione e voglia attivamente sostenerne gli obiettivi, ma deve coinvolgere e sanzionare anche altre categorie di agenti: anzitutto chi, sulla base di risultanze probatorie obiettive, risulti consapevole che il proprio contributo vada ad agevolare, seppur occasionalmente, seppur con un'unica condotta perpetrata, la compagine mafiosa.
Con quest'ampliamento casistico ci si avvicina molto – sempre discorrendo sul piano criminologico - alla cerchia dei professionisti, dei colletti bianchi, a cui il mondo mafioso si appoggia con notevole profitto, sopratutto con riguardo alle attività economiche poste in essere dalle "mafie imprenditrici". E' anche a questi tipi d'autore, fortemente caratterizzati (e basti solo pensare ai riciclatori dei capitali mafiosi), che la Corte pone mente definendo la circostanza aggravante dell’agevolazione mafiosa in senso soggettivo, agganciandola però ad elementi obiettivi di condotta che lumeggino tanto il profilo offensivo tanto il grado di dolo mostrato, e soprattutto permettendone l’estensione, veicolandola attraverso un elemento soggettivo meno marcato ma comunque doloso: in tal modo, le Sezioni Unite scolpiscono su una norma che «rappresenta garanzia di maggiore efficacia della funzione preventivo-repressiva del fenomeno mafioso» (così la Corte, nella sua premessa), un principio di diritto dall'elevato tasso general-preventivo, sopratutto rispetto al vasto mondo dei "consigliori", dei professionisti e dei funzionari pubblici "a disposizione"[18], i cui comportamenti contigui all'associazione mafiosa saranno adesso valutati, tra l'altro, nel largo alveo interpretativo dell'art. 416-bis.1 c.p., sub specie dell'agevolazione.
Da quest'approccio teorico-applicativo a base criminologica si dipana la ricostruzione dogmatica della circostanza, da trattare - almeno rispetto ai suoi elementi di struttura - come fattispecie autonoma, dal momento che essa non vale soltanto a configurare la condotta illecita come più gravemente offensiva, con riferimento al peculiare bene protetto, ma spesso riesce ad assorbire il disvalore del reato a cui accede[19], tanto da determinare - la circostanza - conseguenze di grande rilievo sostanziale, processuale, penitenziario[20].
Emerge una figura circostanziale caratterizzata, per quanto appena detto, da pericolo astratto, nondimeno costruita su di una condotta offensiva, obiettivamente idonea allo scopo, e, sul versante soggettivo, da dolo (anche) di pericolo, nonché da un dolo specifico marcatamente anticipatorio[21]. Ciò, volendosi sanzionare quell'agevolazione che produca «l'effetto del rafforzamento, se non concretamente della compagine, del pericolo della sua espansione»: non si spiegherebbero altrimenti i condivisibili richiami ad un altro scopo della norma: quello di evitare «fenomeni emulativi, essi stessi forieri di un rafforzamento della tipica struttura mafiosa», ad ulteriore riprova della collocazione della fattispecie nel campo del pericolo astratto. Il tema dei fenomeni "emulativi" richiamati in sentenza ha un connotato criminologico che, in questo senso, è davvero illuminante, perché chi emula opera su di un piano parallelo a quello dell'associazione, ritenendo possibile il contatto e l'apporto materiale: ciò può avvenire, ma è più logico che non accada.
D'altronde, si tratta di un'anticipazione della tutela penale necessitata dalla fisionomia dell'oggetto di tutela[22] che nel caso di specie notoriamente richiede, accanto ad un'attività di elaborazione delle leggi e della loro interpretazione, il massimo grado di attenzione e di sforzo delle istituzioni politiche e sociali.
[1] Donini, Il diritto giurisprudenziale penale. Collisioni vere e apparenti con la legalità e sanzioni dell'illecito interpretativo, in Dir. pen. cont., 3, 2016, p. 8.
[2] Cfr. Crisafulli, Disposizione (e norma) (voce), in Enc. Dir., XIII, 1964, p. 195 ss.
[3] Sul punto sia sufficiente il pensiero ad un noto teorico della "crisi della fattispecie": Irti, Calcolabilità weberiana e crisi della fattispecie, in Riv. dir. civ., 2014, p. 987 ss.; Id., Per un dialogo sulla calcolabilità giuridica, in Riv. dir. proc., 2016, p. 917 ss.
[4] Donini, Il diritto giurisprudenziale, cit., p. 4.
[5] Così Fiandaca, Commento all'art. 1 della Legge 13 settembre 1982, n. 646 (Norme antimafia), in Leg. pen., 1983, p. 263
[6] Il riferimento testuale è al lucido contributo di Fiandaca, Il concorso esterno tra guerre di religione e laicità giuridica, in Dir. pen. cont., 1, 2012, p. 252
[7] Ad esempio si concentra sull'aspetto più concreto ed immediato dell'offesa Fondaroli, Commento sub art. 7 D.L. 152/91, in Palazzo – Paliero (diretto da), Commentario breve alle leggi penali complementari, Cedam, 2007, p. 820; vd. anche Squillaci, La circostanza aggravante della c.d. agevolazione mafiosa nel prisma del principio costituzionale di offensività, in Arch. pen., 2011, p. 15.
[8] Guerini - Insolera, Diritto penale e criminalità organizzata, Giappichelli, 2019, p. 132.
[9] Una forma di responsabilità che si pone, come noto, in contrasto con i principi di legalità e colpevolezza: sul punto si veda Pelissero, Il concorso doloso mediante omissione: tracce di responsabilità di posizione, in Giur. it., 2010, p. 978 ss.; con riferimento alle forme di responsabilità da posizione nel contesto associativo e mafioso, cfr. Iacoviello, Il concorso eventuale nel delitto di partecipazione ad associazioni per delinquere, in Cass. pen., 1995, p. 263.
[10] Sez. un., 24 aprile 2014, n. 38343, in Cass. pen., 2015, p. 4624 ss., con nota di De Francesco, Dolo eventuale e dintorni: tra riflessioni teoriche e problematiche applicative, che, come noto, ha suscitato un variegato dibattito nel campo dottrinale: cfr. anche Bartoli, Luci ed ombre della sentenza delle Sezioni unite sul caso "Thyssenkrupp", in Giur. it., 2014, p. 2566 ss.; De Vero, Dolo eventuale e colpa cosciente: un confine tuttora incerto. Considerazioni a margine della sentenza delle Sezioni Unite sul caso ThyssenKrupp, in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, p. 77 ss.
[11] Bricola, Dolus in re ipsa. Osservazioni in tema di accertamento e di oggetto del dolo, Giuffré, 1960, p. 28; Pecoraro Albani, Il dolo, Jovene, 1955, p. 325 ss.; da ultimo Pulitanò, Diritto penale, V° ed., Giappichelli, 2013, p. 315: «Il contenuto tipico del dolo eventuale deve avere un afferrabile contenuto intellettivo e volitivo». Peraltro, una ricostruzione in questo senso della nozione di dolo eventuale sarebbe operativa già sul terreno della tipicità penale, ex artt. 42 e 43 c.p.: così Raffaele, op. cit., p. 420, anche sulla scorta del pensiero di Canestrari, Dolo eventuale e colpa cosciente. Ai confini tra dolo e colpa nella struttura delle tipologie delittuose, Giuffré, 1999, p. 71.
[12] Ad una simile conclusione applicativa era giunto il Pubblico Ministero nelle sue note d'udienza, passando però da una diversa lettura della norma, che non transitava dai "motivi a delinquere": la circostanza dovrebbe essere classificata «come “oggettiva” in quanto ex art. 70 c.p. afferente a “la gravità del danno o del pericolo”, se si facesse riferimento al bene giuridico preso in considerazione nella previsione normativa», applicando in tal modo ai compartecipi «il generale regime di imputazione minimo delle aggravanti di cui al secondo comma dell'art. 59 c.p.».
[13] Confronto che d'altro canto era stato sollecitato dal Pubblico Ministero, per cui la Corte avrebbe dovuto vagliare, tra l'altro, la questione dei «rapporti tra la ritenuta necessità di un dolo specifico dell’aggravante qualificata, come soggettiva e la giurisprudenza di codeste sezioni unite che hanno considerato il dolo specifico di agevolazione dell’associazione come componente strutturale del reato di concorso esterno in associazione mafiosa».
[14] Ad es. Siracusano, Il concorso esterno e le fattispecie associative, in Cass. pen., 1993, p. 1875, afferma che una volta elaborato per via giurisprudenziale o addirittura tipizzato, il concorso esterno potrebbe soppiantare la speculare figura circostanziale di carattere agevolativo.
[15] Sez. un., 12 luglio 2005, n. 33748, in Cass. pen., 2005, p. 3732 ss.
[16] Sez. un., 5 ottobre 1994, n. 16, in Cass. pen., 1995, p. 842 ss.
[17] Sul punto De Vero, Il concorso esterno in associazione mafiosa tra incessante travaglio giurisprudenziale e perdurante afasia legislativa, in Dir. pen. e proc., 2003, p. 1327 ss.; Maiello, Concorso esterno in associazione mafiosa: la parola passi alla legge in AA.VV. Scenari di mafia, a cura di Fiandaca e Visconti, Giappichelli, 2010, p. 172; volendo, si veda inoltre Apollonio, Potere politico e leggi antimafia nella Seconda Repubblica, in Apollonio (a cura di), Processo e legge penale nella Seconda Repubblica, Carocci, 2015, p. 142.
[18] Amarelli, La contiguità politico-mafiosa. Profili politico criminali, dommatici e applicativi, Dike, 2016, p. 62, afferma che l'ampiezza applicativa dell'aggravante in parola generalmente riesce a fornire una «risposta sanzionatoria proporzionata alla gravità dei fatti rispetto a tutte le condotte, oggettivamente o soggettivamente, riconducibili nella sfera della contiguità politico-mafiosa». Un'affermazione che oggi rinviene nuova linfa nella sentenza in commento.
[19] Sarebbe limitativo, non fosse altro che per il disvalore che promana ed il bene giuridico protetto (lo stesso del reato di associazione mafiosa), indicarla come un elemento che sta "attorno" al reato, al pari di qualsiasi altra circostanza.
[20] Una tesi che, volendo, è già stata evocata in Apollonio, Il metodo mafioso nello spazio transfrontaliero. Il problema dei rapporti tra l'aggravante di cui all'art. 7 d.l. 152/1991 e quella della transnazionalità (art. 4 L. 146/2006), in Dir. pen. cont., 1, 2018, p. 11.
[21] Una tale tecnica compilativa nei reati a sfondo mafioso, con riferimento alla tipizzazione dell'elemento soggettivo, è stata presa in esame da Marino, "Il "filo di Arianna". Dolo specifico e pericolo nel diritto penale della sicurezza, in Dir. pen. cont., 6, 2018, p. 61: «l’apicalità dei beni coinvolti nei settori, ad esempio, della mafia e del terrorismo, spiega il ricorso legislativo al paradigma anticipatorio».
[22] Se è vero che occorre sempre calibrare il giudizio sul bene giuridico tutelato, sfuggendo alla tentazione - che da sempre aleggia nel campo dei reati di pericolo astratto o presunto - di giungere a conclusioni perentorie «su base ontologica»: così Manes, Il principio di offensività nel diritto penale. Canone di politica criminale, criterio ermeneutico, parametro di ragionevolezza, Giappichelli, 2005, p. 289; Fiandaca, La tipizzazione del pericolo, in Dei delitti e delle pene, 1984, p. 454 ss.
Lo smart working in tempo di covid-19
di Antonella Occhino - prof. ordinario diritto del lavoro facoltà di economia Università Cattolica del Sacro Cuore
Sommario: 1. Smart working, lavoro subordinato a distanza e patto di lavoro agile. - 2. Smart working e fase 2 Covid-19 nel sistema delle fonti. - 3. Concertazione sociale e contrattazione collettiva per la disciplina del lavoro a distanza. – 4. La tenuta della legge 81/2017 sul contratto di lavoro agile. - 5. Prove tecniche di subordinazione a distanza.
1. Smart working, lavoro subordinato a distanza e patto di lavoro agile.
L’applicazione straordinaria in tempo di Covid-19 dello smart working è senza dubbio una situazione eccezionale per l’estensione della misura e per l’incrocio delle fonti che regolano in Italia il lavoro a distanza. La disciplina di tutela, per espresso rinvio delle fonti che nel frattempo sono intervenute, rimane quella prevista dalla legge 81/2017 che regola il lavoro cd. agile nel quadro dei rapporti particolari di lavoro subordinato in virtù di una clausola individuale pattuita tra le parti e che determina adattamenti coerenti delle tutele applicabili, in primis in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, incluso il rispetto della disciplina sui riposi come estensione del diritto alla salute, e poi circa i limiti ai poteri datoriali, con particolare riferimento ai controlli a distanza. L’avvio della modalità a distanza nel lavoro subordinato, cd. smart working, resta così affidata dalla legge all’apposizione consensuale di un “patto di lavoro agile” al contratto di lavoro subordinato, qualunque altra clausola lo caratterizzi ulteriormente, ovvero sia esso a tempo indeterminato o determinato, a tempo pieno o parziale, in apprendistato – in tal caso con gli adattamenti necessari all’assolvimento dell’obbligo formativo - o altrimenti qualificato dalla volontà delle parti.
2. Smart working e fase 2 Covid-19 nel sistema delle fonti.
Nella stretta attualità dell’avvio della cd. fase 2 delle misure di contrasto e contenimento del contagio da Covid-19 due documenti di rilievo nazionale hanno affrontato il tema dello smart working per le imprese del settore privato, a valle della tenuta della legge n. 81/2017. Rispetto ad essi la disciplina di legge si integra con quanto viene concordato nei testi prodotti dalla concertazione tripartita tra Governo e Parti sociali (Protocollo del 24 aprile 2020) e dalla contrattazione bilaterale di ogni livello (CCNL e contratti collettivi decentrati, cui lo stesso Protocollo rinvia) e con una fonte di rango regolamentare (DPCM) del 26 aprile 2020, G.U. n. 108 del 27 aprile 2020) che ne adatta i contenuti senza poterla contraddire, non avendo la “forza di legge” necessaria (come hanno i DL e i D.LGS). A conferma, quando il legislatore ha inteso modificare la disciplina dello smart working in deroga alla legge 81/2017 ha operato tramite DL, come è avvenuto per le sole pubbliche amministrazioni con l’art. 87, commi 1-4, DL 18/2017.
Nel Protocollo del 24 aprile 2020 si promuove la diffusione del lavoro agile nel rispetto del principio della consensualità della trasformazione del contratto dalla modalità in presenza a quella a distanza, secondo formule totali o alternate. Ad esempio vi si afferma che “il documento contiene linee guida”, che si tratta della “possibilità per l’azienda di ricorrere al lavoro agile”, che nel DPCM dell’11 marzo 2020 si era previsto che per le attività di produzione “tali misure raccomandano: sia attuato il massimo utilizzo da parte delle imprese di modalità di lavoro agile per le attività che possono essere volte al proprio domicilio o in modalità a distanza”. L’efficacia del Protocollo è affidata alla implementazione tramite i vincoli associativi che legano le imprese alle associazioni firmatarie, rafforzate dalla affermazione che “le imprese adottano il presente Protocollo”.
Il DPCM del 26 aprile 2020 esclude l’acquisizione del consenso del lavoratore come momento necessario per il passaggio dalla modalità in presenza a quella a distanza, là dove all’art. 1, comma 1, lettera gg) dispone che “fermo restando quanto previsto dall’art. 87 del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, per i datori di lavoro pubblici, la modalità di lavoro agile disciplinata dagli articoli da 18 a 23 della legge 22 maggio 2017, n. 81, può essere applicata dai datori di lavoro privati a ogni rapporto di lavoro subordinato, nel rispetto dei principi dettati dalle menzionate disposizioni, anche in assenza degli accordi individuali ivi previsti” (aggiungendosi solo che “gli obblighi di informativa di cui all’art. 22 della legge 22 maggio 2017, n. 81, sono assolti in via telematica anche ricorrendo alla documentazione resa disponibile sul sito dell’Istituto nazionale assicurazione infortuni sul lavoro”), con una disposizione che, ferme le ragioni emergenziali, modifica tuttavia un aspetto fondamentale dell’istituto come previsto dalla legge 81/2017, ovvero la necessaria contrattualità del passaggio alla modalità a distanza, tipica del “patto di lavoro agile”. E’ pur vero che la fattispecie del lavoro agile è definita dalla legge 81/2017 (art. 1) “quale modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa.
Benché non sia del tutto coerente al sistema delle fonti che una disposizione regolamentare deroghi alla legge sulla necessaria consensualità del passaggio dalla modalità in presenza alla modalità a distanza (vista la previsione del DPCM per cui “la modalità di lavoro agile … può essere applicata … a ogni rapporto di lavoro subordinato .. anche in assenza degli accordi individuali ivi previsti”) è pur vero che la ratio della norma si giustifica sia nel quadro delle misure sulla limitazione degli spostamenti, incluso il commuting casa-lavoro, sia di quelle che impongono il distanziamento fisico nei luoghi di lavoro, con conseguente riduzione dei possibili spazi di compresenza effettiva negli ambienti di lavoro. Ed è anche da considerare che l’implementazione della modalità a distanza definisce a contrario i presupposti di ricorso alla Cassa integrazione guadagni in deroga (cd. CIGD), poiché essi sussistono a fronte di sospensioni dell’attività lavorativa che invece lo smart working, almeno in parte, consente di evitare.
3. Concertazione sociale e contrattazione collettiva per la disciplina del lavoro a distanza.
Il Protocollo del 24 aprile 2020 si intitola “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”, ed è stato firmato dal Presidente del Consiglio e dai Ministri del lavoro e delle politiche sociali, dello sviluppo economico e della salute, da Cgil, Cisl, Uil, Ugl, Confindustria, Rete Imprese Italia (Confesercenti, Casartigiani, CNA, Confartigianato, Confcommercio), Confapi, Alleanza Cooperative (Legacoop, Confcooperative, AGCI), Confimi, Federdistribuzione, Confprofessioni, ad integrazione dell’omonimo Protocollo del 14 marzo 2020. Si tratta di un documento di concertazione sociale tripartita condiviso da tutte le principali sigle associative rappresentative del mondo del lavoro e delle imprese, il che conferisce indubbiamente ai suoi contenuti una ampia legittimazione sociale.
Al punto 8 - organizzazione aziendale (turnazioni, trasferte e smart working, rimodulazione dei livelli produttivi) - si prevede che “in riferimento al DPCM 11 marzo 2020, punto 7, limitatamente al periodo della emergenza dovuta al COVID-19, le imprese potranno, avendo a riferimento quanto previsto dai CCNL e favorendo così le intese con le rappresentanze sindacali aziendali:” (ex plurimis): “disporre la chiusura di tutti i reparti diversi dalla produzione o, comunque, di quelli dei quali è possibile il funzionamento mediante il ricorso allo smart work, o comunque a distanza”; “utilizzare lo smart working per tutte quelle attività che possono essere svolte presso il domicilio o a distanza nel caso vengano utilizzati ammortizzatori sociali, anche in deroga, valutare sempre la possibilità di assicurare che gli stessi riguardino l’intera compagine aziendale, se del caso anche con opportune rotazioni”.
Il rinvio alla contrattazione collettiva per la effettiva implementazione dello smart working – cui anche il Protocollo fa espresso riferimento - si conferma come la via più efficace per la realizzazione degli obiettivi dichiarati, sia perché in assenza di una propria forza normativa il Protocollo non potrebbe incidere sugli obblighi delle imprese se non per via del vincolo associativo con l’organizzazione firmataria, sia perché sul piano sostanziale la contrattazione collettiva si conferma la fonte di origine sociale reciprocamente complementare di quella statuale/regionale per ogni aspetto di disciplina dei rapporti di lavoro. D’altronde proprio in tema di smart working la contrattazione collettiva è stata la vera protagonista delle prassi aziendali che già prima della legge 81/2017 ne avevano promosso la diffusione, benché la legge abbia omesso - sia per l’apposizione del patto di lavoro agile sia per la relativa disciplina – il rinvio ai contratti collettivi - passati, presenti, futuri - senza per questo escluderne l’efficacia sui singoli rapporti di lavoro, in virtù dei meccanismi normali che presiedono alla loro applicazione.
In effetti lo smart working in Italia origina proprio dall’esperienza di alcune grandi imprese, agli inizi prevalentemente nel settore del credito (banche e assicurazioni), ma anche in altri importanti settori del secondario (alimentari) e del terziario (trasporti), dove si era già sviluppata - prima della legge 81/2017 - una vivace contrattazione aziendale sullo smart working, destinato agli inizi per lo più al personale impiegatizio e direttivo, e poi estesa a tutti i lavoratori, nei limiti del possibile, secondo diversi piani di HRM. Se l’informatica ha indubbiamente favorito le prime e ancora attuali applicazioni del lavoro a distanza, la robotica in prospettiva può incrementare ulteriormente la diffusione dello smart working anche nelle fasi più operative dei processi produttivi.
4. La tenuta della legge 81/2017 sul contratto di lavoro agile.
L’espressione smart working, tipicamente italiana, equivale a quella in uso nei paesi anglosassoni cd. home working o working at home, e si è affermata nel nostro ordinamento come una derivazione del telelavoro, anche in linea con l’aumento delle aspettative delle persone di fruire maggiormente di tempi e spazi di libertà, sia per obiettivi classici come la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, sia per obiettivi diversi, dichiarati in alcuni contratti aziendali, come la tutela ambientale legata alla riduzione degli spostamenti casa-lavoro, e quindi dell’inquinamento. E la legge 81/2017 avrebbe raccolto queste indicazioni definendo la modalità agile in relazione allo “scopo di incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro” (art. 18, comma 1).
L’ampiezza del fenomeno del lavoro a distanza si coglie a partire dal dato che il luogo di lavoro nei rapporti di lavoro subordinato è modificabile per decisione unilaterale del datore di lavoro senza altro limite che le “comprovate ragioni tecniche, organizzative, produttive” previste dall’art. 2103 c.c. (anche dopo la modifica operata dall’art. 3, d. lgs. 81/2015, che ha modificato i limiti dello jus variandi con riguardo alle mansioni), dove ai commi 9 e 10 si prevede che “il lavoratore non può essere trasferito da un’unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative, produttive” e che “… (omissis) ogni patto contrario è nullo”. Tuttavia il riconoscimento di un potere unilaterale di modifica del luogo della prestazione da parte del datore di lavoro trova fondamento nel suo potere organizzativo come riflesso della libertà di iniziativa economica privata di cui all’ art. 41 Cost., in modo che alle decisioni di investimento corrisponda il potere di disegnare i luoghi di lavoro e la assegnazione ad essi dei singoli lavoratori: principio utile quanto meno nei casi di delocalizzazione degli impianti sul territorio e anche di riorganizzazione logistica o in attuazione di policies di HRM che comportino il mutamento del luogo di lavoro anche in linea con eventuali modifiche delle mansioni.
Ora come allora la disposizione dell’art. 2103 c.c. vale ad impedire i trasferimenti disciplinari, discriminatori e comunque arbitrari, col richiedere le “comprovate ragioni” per l’esercizio del potere di variazione del luogo di lavoro senza il consenso del lavoratore, ma di un potere da intendersi limitato agli spostamenti decisi all’interno dei luoghi aziendali (sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo, secondo la definizione di unità produttiva di cui all’art. 35 dello Statuto dei lavoratori), non arrivando a permettere il potere unilaterale di variazione della modalità di lavoro da quella in presenza a quella a distanza, intesa come da svolgersi in un luogo di disponibilità del lavoratore. Lo conferma la legge 81/2017 che per tale passaggio impone che al contratto di lavoro sia annessa una specifica clausola individuale pattuita tra le parti, che è appunto il “patto di lavoro agile”.
5. Prove tecniche di subordinazione a distanza.
Le origini della legislazione italiana sul lavoro a distanza affondano le radici nel lavoro a domicilio. Ancora diffuso nel manifatturiero si tratta di una modalità di svolgimento a distanza dell’attività lavorativa senza quel collegamento telematico che invece caratterizza il telelavoro e il lavoro agile. Per esso la nozione di subordinazione fu corretta, in deroga all’art. 2094 c.c., dalla legge 877/1973, che la limitò a “quando il lavoratore a domicilio è tenuto ad osservare le direttive dell’imprenditore circa le modalità di esecuzione e le caratteristiche e i requisiti del lavoro da svolgere nella esecuzione parziale, nel completamento o nell’intera lavorazione oggetto dell’attività dell’imprenditore committente” (art. 1, comma 2).
Nel lavoro a distanza (telelavoro o lavoro agile, ovvero smart working nel lessico comune) la subordinazione può riconoscersi normalmente, poiché il collegamento telematico compensa la distanza fisica permettendo l’interazione costante tra il datore di lavoro e il lavoratore e quindi l’esercizio dei poteri datoriali che qualificano la sub-ordinazione, intesa come etero-direzione (potere direttivo e di riflesso potere di controllo e disciplinare) e la dipendenza di cui all’art. 2094 c.c. Fuori dalla nozione normale di subordinazione e quindi fuori dall’esercizio dei poteri datoriali, sono solo i collaboratori coordinati e continuativi, cd. co.co.co. (per i quali la legge 81/2017 ha integrato la nozione dell’art. 409, n. 3, c.p.c. aggiungendo che “la collaborazione si intende coordinata quando, nel rispetto delle modalità di coordinamento stabilite di comune accordo dalle parti, il collaboratore organizza autonomamente l’attività lavorativa”) cui, in presenza o a distanza, normalmente le tutele della subordinazione non sono riconosciute, per la naturale differenza tra il lavoro subordinato e il lavoro autonomo.
Poiché la diffusione dello smart working, da un lato, e la reciproca diffusione delle co.co.co. che si svolgono nei locali aziendali sono due fenomeni che hanno posto al centro dell’attenzione la questione del luogo di lavoro in modo diverso dal passato (subordinati in azienda vs. autonomi altrove), nel riaffermare che lo smart workging appartiene all’area del lavoro subordinato per completezza va ricordato che un giudizio di equivalenza del pari bisogno di tutela è stato alla base della disposizione che (art. 2, d. lgs. 81/2015) per cui “a far data dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro prevalentemente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente” (ovvero ai co.co.co. cd. etero-organizzati), aggiungendosi che “le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche digitali”.
Il collegamento a distanza e la modalità telematica di esecuzione del lavoro, lungi dall’attrarre nella subordinazione casi che di per loro non lo sarebbero (e quindi restando autonome le collaborazioni non caratterizzate dagli indici della subordinazione né considerate equivalenti per meritevolezza delle tutele in quanto etero-organizzate ai sensi dell’art. 2 d. lgs. 81/2015), diventa una modalità alternativa alla presenza del lavoratore nella sede aziendale e rappresenta un carattere modale della prestazione di lavoro che circa il luogo, e quindi anche il tempo, viene considerata compatibile con la fattispecie e gli effetti della subordinazione, con le varianti specificamente previste dalla legge.
L’indicazione del legislatore sarebbe proprio quella di ammettere una subordinazione a distanza caratterizzata dall’allentamento del legame temporale e spaziale della prestazione di lavoro e tuttavia, espressamente, riconducibile alla nozione dell’art. 2094 c.c., di subordinazione a tutti gli effetti, con la precisa intenzione di trattenere i lavoratori agili all’interno dello schema del lavoro subordinato e pertanto garantendo loro la conservazione delle tutele tipiche della subordinazione, in un certo senso, per questa via, rafforzando la loro posizione, e non il suo contrario. In tale scenario lo smart working, riferendosi a fattispecie sicure di subordinazione del tipo del telelavoro e del lavoro agile, può contribuire ad un possibile ripensamento delle categorie fondamentali del diritto del lavoro, che si è costruito in un periodo storico dove era netta la distinzione tra il bisogno di tutela di chi svolge la propria attività lavorativa all’interno dell’azienda, in condizioni classiche di subordinazione ai poteri datoriali, e di chi lavora in luoghi di propria disponibilità, in condizioni classiche di autonomia, sebbene non solo occasionalmente ma anche con una certa continuità.
L’emergenza in quanto tale non modifica la struttura normativa del diritto dei rapporti di lavoro, ma offre certamente elementi normativi e fattuali che sollecitano una riflessione a partire dagli attuali “campi” di applicazione delle tutele, i quali in misura piena riguardano sia i lavoratori subordinati, anche se a distanza, sia gli autonomi continuativi etero-organizzati, non gli altri co.co.co. né gli autonomi occasionali. Se la subordinazione a distanza sembra attenuata, tanto quanto l’autonomia in presenza, il tema della coerenza complessiva tra fattispecie astratte e bisogni concreti apre ad una riflessione ampia sul riassetto delle tutele che non potrà non tener conto, nel quadro dei fenomeni economici e sociali del tempo, della importante diffusione dello smart working (rectius telelavoro e ora lavoro agile) che è già in atto e che si annuncia in espansione nel breve, medio e forse anche lungo periodo.
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