ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il Tar Lazio e la tutela del patrimonio culturale
(nota alle sentenze Tar Lazio, II-quater, 27 maggio 2020, n. 5646; 29 maggio 2020, n. 5757; 5 giugno 2020, n. 5972)
di Clara Napolitano
Sommario: 1. Beni culturali e nodi nevralgici: cenni. – 2. L’accesso ai finanziamenti per il c.d. Terzo settore da parte delle fondazioni: la vicenda del FAI. – 2.1. Bando di finanziamento PON: finalità e obiettivi. – 2.2. Clausola escludente le fondazioni: un esempio di discriminazione. – 3. Un fast food alle Terme di Caracalla: la vicenda tra sovrapposizioni normative ed effetti paradossali. – 3.1. Il potere provvedimentale del Direttore generale. – 3.2. Norme di legge e atti di pianificazione: il piano non ha portata derogatoria. – 4. Ex Cinema America: la dichiarazione d’interesse culturale e il criterio relazionale. – 4.1. Il vincolo relazionale: quando il bene è testimone del tempo, non di un evento storico specifico. – 4.2. Pregio, rappresentatività e rarità: la tutela dei beni architettonici simbolo di un’epoca che non c’è più.
1. Beni culturali e nodi nevralgici: cenni. Il nostro ordinamento reca tra i principi fondamentali della sua Carta costituzionale, all’art. 9, il dovere di tutelare il patrimonio storico e artistico per le finalità di promozione e sviluppo della cultura. Per la precisione, questo dovere ricade sulla Repubblica, non soltanto intesa come lo Stato italiano, bensì letta in un prisma inclusivo di tutti i livelli territoriali – anche quelli sub-statali – nonché dei privati cittadini che la compongono.
È storia sin troppo nota la stratificazione diacronica delle norme sulla tutela del patrimonio culturale: dalla c.d. legge Legge Nasi, 12 giugno 1902, n. 185, istitutiva del “Catalogo unico” dei monumenti e delle opere d’interesse storico, artistico e archeologico di proprietà statale, eccessivamente ambiziosa, poco applicata; alla c.d. Legge Rosadi-Rava, 20 giugno 1909, n. 364, la quale disponeva l’inalienabilità delle antichità e delle belle arti; alla c.d. Legge Bottai, 1 giugno 1939, n. 1089, la quale mirava a tutelare beni («le cose», ex art. 1) che presentassero carattere di particolare pregio artistico, storico, archeologico o etnografico; la l. 29 giugno 1937, n. 1497 sulla tutela delle bellezze paesistiche; fino al primo t.u. dei beni culturali e ambientali, d.lgs. n. 490 del 1999; per approdare, infine, al d.lgs. n. 42 del 2004, il vigente Codice dei beni culturali e del paesaggio.
La protezione del patrimonio culturale intercetta valori non di rado confliggenti: alla tutela, in genere di stampo conservativo e vincolistico («statica»), si contrappone la valorizzazione («tutela dinamica»), la quale invece guarda al bene culturale nella sua potenzialità fruitiva quale vettore identitario di conoscenza ma anche di produttività economica; alla protezione di singole “cose” si è gradualmente sostituita l’idea che i beni culturali non vadano considerati uti singuli bensì anche come universalitas identificativa di un paesaggio, di un orizzonte, di un contesto; ancora, l’idea che la tutela dei beni culturali debba esser legata alla loro rappresentatività di un singolo evento storico ha ceduto gradualmente il passo a quella – di più ampio raggio – secondo la quale è sufficiente che il bene, perché possa esser tutelato, sia rappresentativo di un’epoca, un frangente storico, le cui testimonianze si fanno progressivamente più rare nel tempo e, dunque, più preziose.
Alcuni di questi nodi sono stati sciolti già dal legislatore costituzionale. Per esempio tramite la separazione di competenze: nell’art. 117 Cost., la tutela del patrimonio culturale è affidata allo Stato, mentre la valorizzazione alle Regioni. Oppure, tramite una rinnovata vitale applicazione del principio di sussidiarietà orizzontale ai sensi dell’art. 118, co. 4, Cost.: si pensi alle operazioni di partenariato pubblico-privato finalizzate proprio alla tutela dei beni culturali.
Altri punti nevralgici sono affidati alla complessa commistione tra la disciplina legislativa ex d.lgs. n. 42 del 2004 e quella amministrativa dei decreti ministeriali (per esempio il d.m. n. 537/2017, come si vedrà meglio infra), o anche quella degli atti di pianificazione che regolano interventi su centri storici o nuclei di eccezionale rilievo necessitanti peculiare tutela.
Questi aspetti sono stati variamente affrontati dal Giudice amministrativo del Lazio in un trittico di sentenze che meritano attenta analisi, alla quale si passa – ordinandole secondo un criterio cronologico – senza ulteriori indugi.
2. L’accesso ai finanziamenti per il c.d. Terzo settore da parte delle fondazioni: la vicenda del FAI. La prima sentenza alla quale ci si riferisce è quella emanata dal Tar Lazio, II-quater, 27 maggio 2020, n. 5646. La vicenda è presto detta. Ricorrente è il FAI (Fondo Ambiente Italiano), nota fondazione senza scopo di lucro, dotata di personalità giuridica autonoma e riconosciuta con D.P.R. n. 941 del 1975, la quale svolge attività di conservazione e valorizzazione di beni o luoghi di particolare pregio artistico, storico, paesaggistico, ambientale e culturale – acquisiti in proprietà o godimento grazie ad atti di liberalità o a titolo oneroso – e con la finalità di renderli disponibili alla fruizione pubblica.
Proprio a questo fine, nella vicenda al vaglio del Giudice amministrativo del Lazio, il FAI intendeva partecipare al bando di ammissione ai contributi del Programma Operativo Nazionale (c.d. PON) «Cultura e Sviluppo», erogati con il sostegno del Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR) – Asse II. Attivazione dei potenziali territoriali di sviluppo legati alla cultura – linea di intervento 3 c)[1].
Il bando era stato pubblicato con d.m. del MiBACT 11 maggio 2016[2] e selezionava la platea dei potenziali beneficiari dei contributi, individuandoli tra gli enti del c.d. Terzo Settore ed escludendo da questi proprio le fondazioni.
Invero, quel bando, all’art. 16, nell’individuare i soggetti che potevano presentare domanda di ammissione al contributo, limitava la partecipazione solo ad alcuni soggetti del Terzo Settore, prevedendone tre macrocategorie, ovvero «ONLUS di diritto» (organizzazioni di volontariato iscritte nei registri istituiti dalle regioni e dalle province autonome, ex l. n. 266 del 1991, che non svolgono attività commerciali diverse da quelle marginali indicate nel decreto 25 maggio 1995; organizzazioni non governative – ONG – riconosciute idonee ex l. n. 49 del 1987; cooperative sociali iscritte nella “sezione cooperazione sociale” del registro prefettizio ex l. n. 381 del 1991; consorzi costituiti interamente da cooperative sociali); «soggetti che hanno acquisito la qualifica di ONLUS in seguito all’iscrizione all’Anagrafe delle ONLUS» ex d.lgs. n. 460 del 1997; infine, «imprese sociali di cui al decreto legislativo 24 marzo 2006, n. 155». Nessuna traccia delle fondazioni.
Di poi, la direttiva operativa[3] in esecuzione del bando forniva ai richiedenti le istruzioni per la partecipazione tramite piattaforma e modulo online: modulo che bloccava la procedura già nella fase di compilazione della parte di dichiarazione dei requisiti, in caso in cui l’istante non potesse selezionare una delle categorie sopraindicate.
Il FAI, pertanto, non aveva potuto selezionare nel modulo la propria categoria giuridica di appartenenza e, dunque, non aveva potuto presentare con tale modalità la richiesta di contributo per promuovere e valorizzare l’”attrattore” culturale costituito dal Complesso dell’Abbazia Santa Maria di Cerrate in provincia di Lecce – peraltro previsto tra quelli “sovvenzionabili” mediante quel contributo PON – in quanto la domanda di partecipazione mediante la procedura online sul portale internet non prevedeva l’opzione «fondazioni»; in un estremo tentativo, il FAI aveva presentato comunque via PEC la propria istanza, rimasta – ça va sans dire – inesitata.
Di qui il ricorso avverso il decreto ministeriale e la direttiva operativa in esecuzione del medesimo, nella parte in cui escludevano le fondazioni dalla partecipazione al procedimento per la concessione del beneficio PON (nella specie, un contributo a fondo perduto di importo non superiore a € 400.000,00, in regime de minimis, concesso in base a procedura valutativa “a sportello”, per realizzare programmi di investimento con copertura della spesa ammessa fino all’80% e, per le imprese femminili o giovanili, fino anche al 90%).
2.1. Bando di finanziamento PON: finalità e obiettivi.
L’accoglimento nel merito delle censure mosse dal FAI è preceduto da un attento e particolareggiato vaglio del PON, le cui finalità e i cui obiettivi sono poi confluiti nel bando. Secondo il Giudice, per vagliare la legittimità della clausola del d.m. MiBACT escludente le fondazioni, è fondamentale una preliminare lettura interpretativa della strategia PON «Cultura e sviluppo» nella sua complessità.
Anzitutto, il PON riconosce il «valore strategico» della cultura come potenziale «fattore di promozione dello sviluppo», che ha indotto a valorizzare il «ruolo» dei beni culturali come «attrattori» di investimenti nell’ambito dell’obiettivo «investimenti in favore della crescita e dell’occupazione» per il conseguimento della coesione economica-sociale-territoriale e ha, tra i diversi obiettivi, anche quello di «sviluppare il potenziale delle imprese che operano nel settore delle industrie culturali e creative», incluse quelle attive «nell’ambito del privato sociale».
Riconoscendo la cultura come volano per l’economia e per l’occupazione, il PON si pone un obiettivo ancor più specifico rispetto all’incremento del PIL nazionale: esso è inteso a promuovere il recupero del Sud intervenendo anche «a favore della componente imprenditoriale del privato sociale che opera nell’ambito del settore culturale». In tale prospettiva il PON mira a «sostenere e promuovere il rafforzamento e l’insediamento di attività (imprenditoriali e del terzo settore) della filiera delle imprese creative e culturali» e per, conseguire tale obiettivo, si concreta su interventi miranti alla «valorizzazione deli attrattori del patrimonio culturale» (Asse I) concentrando sull’area di pertinenza gli interventi volti a «promuovere il rafforzamento e l’insediamento di iniziative in grado di attivare la domanda culturale e turistica e alimentare attività in grado di generare valore aggiunto e occupazione» (Asse II azioni 3 b e 3 c); mentre l’intervento a favore delle industrie culturali (Asse II azione 3 a) «ha natura settoriale e si applica a livello nazionale».
Viene in rilievo, sotto questo profilo, il c.d. secondo pilastro della strategia PON («Sostenere l’attivazione di attività economiche connesse alle dotazioni culturali»), articolato in tre «priorità di investimento»: «nascita e consolidamento delle micro, piccole, medie imprese»; «consolidamento, modernizzazione e diversificazione dei sistemi produttivi territoriali»; «diffusione e rafforzamento delle attività economiche a contenuto sociale».
La realizzazione di quest’ultimo obiettivo avviene in direzione sia settoriale – tramite la promozione delle imprese culturali – sia territoriale – ritenuta più inclusiva poiché associa alle realtà imprenditoriali anche il c.d. «privato sociale» costituito dai soggetti del Terzo Settore – per la promozione di prodotti e servizi innovativi e per rafforzare l’offerta territoriale nell’area degli “attrattori”.
Ora, l’analisi deve vertere sulle misure a sostegno delle realtà non profit: il PON si muove infatti su un sistema binario, con alcuni interventi mirati alle piccole e medie imprese nel settore culturale e altri invece indirizzati al mondo del Terzo Settore.
Il PON si propone di sostenere queste realtà alla luce del ruolo-chiave che esse possono assumere nella promozione del territorio, oltre che «per ampliare e migliorare la fruizione culturale», anche «attraverso forme di partecipazione della Comunità» per «conseguire più ampi obiettivi di inclusione e coesione sociale»: questa è la ratio del sostegno alle organizzazioni non profit nell’ambito dei beni culturali.
A differenza del sostegno alle piccole e medie imprese culturali, viste prevalentemente come entità meritevoli di sostegno in quanto capaci di per sé di attivare processi di sviluppo economico, l’intervento in favore degli enti non profit è infatti finalizzato non solo al «sostegno» delle attività «socio-culturalmente utili» da questi rese, isolatamente considerate come meritevoli di sostegno per la loro utilità intrinseca, ma anche e soprattutto in funzione «strumentale», in considerazione del particolare ruolo che le formazioni del «privato sociale» possono giocare per «la valorizzazione del territorio» come fattore di promozione di un «contesto socio-ambientale» favorevole allo sviluppo e come «detonatore» per la crescita socio-economico culturale della comunità territoriale.
Già da questi profili teleologici del PON si rileva la perplessità della scelta ministeriale di escludere le fondazioni dal novero dei soggetti che possono avere accesso agli incentivi.
Ma le incertezze più rilevanti sorgono proprio in relazione alla delimitazione della platea interessata tra tutti gli enti non profit che si occupano di patrimonio culturale: l’ambito soggettivo del PON è invero delineato in modo molto ampio, senza distinzioni aprioristiche tra le forme giuridiche degli enti del Terzo Settore, così rispecchiando anche l’intentio legislatoris della l. delega n. 106 del 2016 e del d.lgs. attuativo della medesima, n. 117 del 2017 (c.d. Codice del Terzo Settore).
La ricca compagine di questi enti, estremamente variegata al suo interno sia per struttura organizzativa sia per consistenza economico-finanziaria, non accorda preferenza ad alcune forme giuridiche rispetto ad altre; piuttosto, assegna indicativamente a ciascuna tipologia una funzione, riservando quella di «advocacy» (intesa quale tutela delle fasce deboli della popolazione) alle associazioni e ai comitati, quella «produttiva» alle cooperative e alle imprese sociali, quella «erogativa» alle fondazioni.
Quest’ultima funzione assume per il Giudice importanza cruciale: posto che il PON chiarisce che la finalità da esso perseguita è quella di rafforzare l’attività produttiva del Terzo Settore, l’esclusione delle fondazioni deriva dall’apodittica assegnazione a loro della sola funzione erogativa, mentre le attività di produzione di servizi culturali sarebbero proprie delle sole cooperative e delle imprese sociali: una concezione ormai superata, per la quale le fondazioni non sarebbero in grado di produrre redditività, o non sarebbero astrattamente chiamate a farlo, e dunque meriterebbero d’essere escluse dal beneficio PON.
Pertanto l’esclusione delle fondazioni sarebbe dovuta a questo “pregiudizio all’origine” – di ritenerle enti meramente erogativi – poi riverberatosi nella compilazione del bando cui era stato demandato, tra l’altro, di definire le categorie dei soggetti beneficiari.
Vero è, peraltro, che il PON giustificava la concessione del contributo anche in un’ottica di rafforzamento di realtà del Terzo Settore più deboli: le quali, così, sarebbero state in grado di produrre redditività. Tuttavia, il Collegio ribadisce che la produzione di reddito non è l’obiettivo principale della creazione e del mantenimento in vita degli enti non profit, in quanto l’azione di sostegno di settore ha intenti «strumentali» finalizzati anche alla «promozione del territorio» e della Comunità ivi insediata, mediante lo svolgimento dell’attività di gestione dei beni culturali e l’offerta di servizi culturali, la quali vanno oltre lo sviluppo economico e l’occupazione.
La misura insomma si propone di essere una incubatrice di realtà non profit, sicché essa intende consolidare quelle già operanti, ma ancora marginali, rafforzandone l’imprenditorialità.
L’ampio richiamo ai passaggi chiave del PON e del d.m. applicativo da parte del Giudice lascia il passo a una puntuale individuazione dei punti di contrasto interpretativo e di incongruenze che hanno condotto il Ministero all’esclusione delle fondazioni: «solo dalla lettura complessiva dell’insieme dei passi sopra riportati si può comprendere se la clausola di esclusione può trovare un’adeguata “base giuridica” nell’interpretazione logico sistematica del PON».
Anzitutto, la molteplicità di scopi: i quali non sono tra loro alternativi, bensì cumulativi.
Il PON ha una prima finalità di sostegno alla promozione del territorio mediante la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio culturale, con conseguente “indifferenza” rispetto alla natura, dimensioni, caratteri dell’organizzazione non profit; come tale, questa finalità indirizza la misura di sostegno preferibilmente agli operatori deboli del Terzo Settore, sostenendoli nello sforzo di dotarsi di una dimensione imprenditoriale mediante l’erogazione del contributo, che fornisce i mezzi finanziari necessari per lo svolgimento di quelle attività produttive meritorie che da sola una ONLUS non riuscirebbe a sostenere.
Di poi la seconda finalità, cumulativa e consequenziale alla prima: il sostegno ai soggetti deboli perché raggiungano una dimensione imprenditoriale non è lo scopo ultimo, ma è funzionale alla sopravvivenza autonoma della organizzazione perché questa possa, poi, agire per la valorizzazione del bene culturale considerato come attrattore di investimenti.
Insomma: la ratio dell’intervento a favore del non profit è complessa, operando una commistione tra un dato oggettivo quale la debolezza dei soggetti e il sostegno a una loro imprenditorialità, e un dato invece finalistico e sociale di valorizzazione degli attrattori culturali e dello sviluppo della comunità ivi insediata, che dovranno essere perseguiti quando l’ente che ha ricevuto il contributo sarà in grado di operare e generare redditività autonomamente senza bisogno di sussidi pubblici.
Scelte critiche: non sindacabili dal Giudice per via della loro matrice essenzialmente politica, riservate alla competente Autorità Nazionale.
Le molteplici finalità avrebbero dovuto esser conseguite, peraltro, tramite la definizione delle categorie di beneficiari da parte dell’Autorità nazionale competente, ovvero il Ministero: circoscrivendo l’ambito di scelta e i “limiti” posti al redattore del bando, affinché «garantiscano il contributo delle operazioni al conseguimento degli obiettivi e dei risultati specifici della pertinente priorità; siano non discriminatori e trasparenti; tengano conto dei principi generali di parità fra uomini e donne e non discriminazione e dello sviluppo sostenibile».
L’Autorità si è invece limitata a indicare quali beneficiari del contributo in questione indistintamente «i soggetti del Terzo settore», senza svolgere ulteriori specificazioni utili per circoscrivere tale ambito ai soli soggetti indicati dal bando: criteri estremamente generici, compensati da una maggiore attenzione prestata alla fase della valutazione del progetto, che richiedeva caratteristiche oggettive ma anche soggettive relative al soggetto proponente, imponendo all’Autorità nazionale di tener conto, nella valutazione della meritevolezza del progetto, della capacità tecnico-organizzativa e della solidità economico-finanziaria del soggetto proponente.
Quest’ultima precisazione, in particolare, ha posto al redattore del bando un problema di coordinamento con le finalità e le condizioni previste dal PON, dato che valorizza, ai fini dell’individuazione dei criteri di selezione dei progetti da finanziare, proprio quella autonoma capacità imprenditoriale del soggetto proponente che invece il PON ritiene carente e che intende promuovere con l’azione di sostegno in esame.
In tale quadro di oggettiva problematicità interpretativa, il bando, con la clausola escludente in contestazione, pare voler recuperare la filosofia di fondo del PON, operando una riduzione dell’ambito soggettivo dei potenziali beneficiari escludendone le fondazioni, in quanto, come dalla stessa Amministrazione chiarito in sede di giudizio, le ha ritenute non bisognose, in quanto tali, di supporto al fine dello sviluppo delle loro caratteristiche imprenditoriali.
2.2. Clausola escludente le fondazioni: un esempio di discriminazione. Questo è stato, dunque, l’elemento di criticità che ha reso illegittima la clausola di esclusione, poiché la stessa dà per scontato che le fondazioni già abbiano, solo perché rivestono tale forma giuridica, quelle capacità e caratteristiche che invece l’intervento in contestazione si propone di promuovere, per cui verrebbe meno la necessità della misura di sostegno.
Un assunto apodittico e assiomatico alla base della esclusione, che ha provocato – afferma il Giudice del Lazio – una vera e propria discriminazione di questi soggetti rispetto a tutti gli altri appartenenti alla categoria del Terzo Settore; dei quali – altrettanto assiomaticamente – è stata invece presunta la mancanza di qualità imprenditoriali, tecnico-organizzative ed economico-finanziarie.
In altre parole, anche condividendo la finalità di rafforzare la stabilità e imprenditorialità di soggetti non profit che rischiano di scomparire o agire in condizioni di sub-efficienza, l’Autorità nazionale si è proposta di conseguirla tramite un’apodittica selezione dei soggetti bisognosi che non trova riscontro nella base giuridica del PON.
Il Ministero ha dunque presunto che le fondazioni – avendo funzione erogativa – non possano essere soggetti deboli e bisognosi del contributo: la selezione è avvenuta sulla base di considerazioni in astratto, che guardavano al tipo di soggetto, alla sua forma giuridica, aprioristicamente e senza alcun riscontro nella realtà; senza giustificazione normativa; sulla base dell’indimostrato assunto che le fondazioni non svolgano attività produttive o comunque ritenendo che queste, per loro stessa natura, non necessitino di “sviluppare la dimensione imprenditoriale”, assunto del pari indimostrato, ipotizzando, con pari assiomaticità, la carenza di tali dimensioni nelle altre figure ammesse a contributo.
È peraltro del tutto evidente che le “caratteristiche imprenditoriali”, la capacità di autonoma vitalità e raggiungimento dello scopo istituzionale, l’entità della dotazione, etc. non possono essere desunte in astratto dall’appartenenza all’una o all’altra categoria, ben potendo darsi associazioni che possono disporre di notevoli capitali, ricca struttura organizzativa, e fondazioni con modesto patrimonio ed ambito d’azione marginale.
Di qui la discriminatorietà dei requisiti soggettivi richiesti dal Ministero.
Quella clausola ha, pertanto, l’effetto di escludere immediatamente le fondazioni e, come tale, ricade in quel coacervo di clausole di bando la cui legittimità non può esser valutata in astratto: il suo carattere escludente dev’essere verificato e apprezzato in concreto[4], anche in relazione allo specifico punto di vista della fondazione stessa, alla sua struttura organizzativa, alle funzioni da essa disimpegnate. Ne deriva anche un profilo – squisitamente processuale – di ampliamento della legittimazione a ricorrere, impugnandola, nei confronti di quel soggetto che non abbia partecipato al bando, essendone escluso proprio in ragione di quella stessa clausola[5].
Ma v’è di più. Il Giudice amministrativo riconosce la illegittimità di quella clausola sotto il profilo della sua discriminatorietà: questa censura è generalmente rivolta a quelle clausole che sottopongono immotivatamente a oneri differenti i partecipanti a un medesimo bando o ne escludano espressamente alcune categorie (c.d. discriminatorietà diretta)[6] o che, pur non apparentemente discriminatorie, abbiano comunque l’effetto esclusivo di alcune categorie di soggetti dalla partecipazione a bandi o, per esempio, dalla fruizione di servizi (c.d. discriminatorietà indiretta)[7].
In questo caso, il rilievo discriminatorio dell’esclusione delle fondazioni – e in particolare di quella ricorrente, il FAI – dal beneficio previsto dal PON emerge nella mancanza di ragionevolezza della clausola, la quale poggia su assunti astratti e apodittici privi di un riscontro nella realtà, in particolare sull’assunta mancanza di necessità di sostegno da parte delle fondazioni, essendo queste – asseritamente – enti “forti” aventi, per loro natura, funzione esclusivamente erogativa. Così non è: la fondazione può avere anche una funzione produttiva, può incarnare anche caratteristiche imprenditoriali ed essere meritevole di un beneficio economico che la sostenga perché poi, in un secondo momento, possa adempiere al proprio scopo socio-culturale in piena autonomia.
3. Un fast food alle Terme di Caracalla: la vicenda tra sovrapposizioni normative ed effetti paradossali. La seconda sentenza d’interesse è Tar Lazio, II-quater, 29 maggio 2020, n. 5757. Il caso oggetto di controversia è assurto agli onori della cronaca nazionale che ha urlato allo scempio per l’installazione di un fast food, appartenente a una nota catena di ristorazione veloce, nel parco adiacente al complesso storico delle Terme di Caracalla.
Gli interventi realizzativi di quest’attività commerciale e di ristorazione avrebbero dovuto essere eseguiti su un immobile – appositamente ceduto in locazione dalla società proprietaria – precedentemente destinato all’attività di commercio e coltivazione florovivaistica, composto di un’area destinata alla vendita, un’altra a ufficio e l’ultima a serra.
Le opere edilizie e di modificazione di destinazione d’uso s’inserivano in un più ampio progetto di riqualificazione e risanamento ambientale della zona, il quale prevedeva la realizzazione e l’avvio di un fast food con modalità drive through la cui conformazione si sarebbe dovuta inserire armoniosamente nel contesto, senza alterarne la consistenza e l’impatto visivo con strutture o insegne invasive.
Il complesso procedimento realizzativo del progetto aveva portato al rilascio degli atti di assenso ritenuti necessari da parte delle Amministrazioni competenti: la Regione Lazio, la Soprintendenza Speciale per il Colosseo e l’Area Archeologica di Roma; la Soprintendenza Capitolina ai Beni Culturali; il Comune di Roma; infine – e in particolare – la Soprintendenza Speciale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Roma, la quale aveva rilasciato parere favorevole.
In seguito al clamore mediatico suscitato dalla vicenda – che avrebbe visto la realizzazione di un fast food a ridosso di un complesso monumentale tutelato anche come Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO – il Direttore generale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio ha poi annullato d’ufficio quel parere favorevole della Soprintendenza Speciale, disponendo altresì l’immediata sospensione dei lavori e avocando a sé il potere di provvedere per valutare la compatibilità dell’intervento con l’interesse pubblico alla tutela dell’integrità del patrimonio delle Terme di Caracalla, così diffidando la società privata a non riprendere i lavori fino al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica prescritta dall’art. 146, d.lgs. n. 42 del 2004, e sollecitando il Comune a provvedere alle relative valutazioni e a comunicarne le risultanze al Direttore generale.
Il provvedimento è dunque oggetto d’impugnazione sotto plurimi profili che possono essere declinati secondo due crinali: il primo concerne la competenza del Direttore generale ad annullare d’ufficio e ad avocare a sé i poteri della Soprintendenza, nonché il fondamento normativo del potere di sospensione dei lavori; il secondo, che costituisce poi il cuore giuridico della vicenda, riguarda invece il paradosso derivante dalla stratificazione delle disposizioni concernenti il complesso monumentale, la quale rischia di tradursi in un vuoto di tutela proprio per le aree che necessitano di una maggiore attenzione.
3.1. Il potere provvedimentale del Direttore generale. I ricorrenti contestano anzitutto la mancanza di competenza del Direttore generale, sostenendo che esso non avrebbe alcun potere di annullare il parere reso dal Soprintendente e di avocare a sé una procedura autorizzativa già definitivamente conclusa in senso a loro favorevole.
In particolare, le parti eccepiscono che il Direttore generale abbia esorbitato dalla propria sfera di attribuzioni facendo applicazione dell’art. 16, comma 1, lett. e), d.lgs. n. 165/2001, in assenza dei presupposti che legittimano il suo potere sostitutivo.
A questa specifica censura si accompagnano quelle più generali consistenti nella asserita violazione dell’art. 21-nonies, l. n. 241/’90, laddove la disposizione prevede che vi debba essere un organo appositamente investito per legge del potere di annullamento d’ufficio, circostanza non sussistente nel rapporto tra Direttore generale e Soprintendente.
Il Collegio non condivide alcuna delle censure mosse su questo piano dalle ricorrenti, poiché – chiarisce – il provvedimento del Direttore generale risponde non a un’inerzia della Soprintendenza, bensì a una più generale esigenza di ripristino dell’ordine violato – tramite appunto l’annullamento di un parere soprintendentizio contra legem – che ben può legittimare il potere di avocazione dell’organo di vertice nei confronti degli organi sotto-ordinati. Esigenza, questa, ben protetta dall’ordinamento proprio in materia di beni culturali, i quali hanno un rilievo costituzionale e sono tutelati da un’apposita Amministrazione.
Questo principio è peraltro leggibile anche nel Regolamento organizzativo del Ministero di cui al d.p.c.m. 29 agosto 2014, n. 171: il quale, all’art. 15, conferisce alla Direzione generale nei confronti della Soprintendenza «poteri di direzione, indirizzo, coordinamento, controllo e, solo in caso di necessità ed urgenza, informato il Segretario generale, avocazione e sostituzione, anche su proposta del Segretario regionale», in linea con il modulo organizzativo del Ministero che vede le Soprintendenze quali organi periferici sottoposti alla vigilanza della Direzione generale[8].
Viene, dunque, all’esame la sussistenza del presupposto per l’esercizio del potere, attivabile «in caso di necessità e urgenza».
Secondo il Collegio, il Direttore generale ben può esercitare il suo potere di avocazione per bloccare lavori che erano stati illegittimamente autorizzati dalla Soprintendenza al di fuori del procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica ex art. 146, d.lgs. n. 42 del 2004. Di più: questa è la «causa tipica» che legittima l’organo centrale ad attivarsi, specie quando i lavori autorizzati – come nella fattispecie de qua – siano indirizzati alla realizzazione di un progetto destinato a impattare su un’area – le Terme di Caracalla – protetta quale patrimonio UNESCO, dotata di un indiscusso valore storico, culturale e, soprattutto, identitario.
Il Collegio rafforza ulteriormente questo dato: il provvedimento del Direttore generale è un «atto dovuto» per rispetto della Convenzione UNESCO[9]. Sicché, era imprescindibile la previa valutazione della compatibilità delle opere con i valori simbolici tutelati dalla Convenzione alla quale lo stesso Stato italiano ha aderito, proponendo poi di inserire quel complesso monumentale tra i siti protetti dall’UNESCO. Le verifiche, insomma, sono necessarie per la salvaguardia di quel «bene» che condivisibilmente assurge, nelle parole del Giudice amministrativo, a «comune».
Quanto, poi, alle eccezioni delle parti ricorrenti in relazione all’esercizio del potere di sospensione dei lavori, il Collegio rammenta preliminarmente che – in effetti – l’area specificamente interessata dalle opere non è vincolata sotto il profilo storico-culturale, nonostante la sua prossimità all’importante complesso delle Terme di Caracalla: essa, tuttavia, offre diversi elementi meritevoli di attenzione quali punti panoramici e bellezze d’insieme con valore paesaggistico di “quadro naturale” ai sensi dell’art. 136, d.lgs. n. 42 del 2004, oltre che ai sensi dell’art. 7-bis del Codice sulla protezione UNESCO, quale testimonianza materiale del bene del patrimonio culturale ideale della Civiltà romana.
L’assenza di un vincolo di quel tipo, pertanto, non preclude il potere cautelare di sospensione delle opere, poiché questo integra una tutela interinale nelle more della valutazione ai fini dell’apposizione di un futuro vincolo sulla zona in questione. Lo conferma l’art. 150, d.lgs., n. 42 del 2004, che conferisce alla Regione e al Ministero poteri cautelari d’inibizione di avvio di lavori sine titulo «o comunque capaci di recare pregiudizio al paesaggio», nonché poteri di sospensione di lavori già iniziati. Si tratta di un potere sospensivo utilizzato quale anticamera di un futuro vincolo: potere il cui esercizio diventa peraltro dovuto laddove si pensi che, nella specie, l’area di sedime è comunque tutelata da un vincolo paesistico imposto ex art. 134, co. 1, lett. c), d.lgs. n. 42 del 2004.
Il potere di annullamento d’ufficio, quello di avocazione dei poteri e quello di sospensione dei lavori sono stati, pertanto, legittimamente esercitati dalla Direzione generale: poco o nulla ha a che vedere l’esercizio del potere con l’opinione pubblica, la quale – secondo il Collegio – è servita soltanto a portare all’attenzione dell’Autorità amministrativa la situazione; ciò che ne è seguito è stato un corretto uso del potere dal punto di vista giuridico.
3.2. Norme di legge e atti di pianificazione: il piano non ha portata derogatoria. Viene poi all’esame un’ulteriore questione: il rapporto tra fonti che disciplinano l’area di sedime, tra loro stratificate e identificantisi in norme di piano, norme di legge nazionale, norme pattizie internazionali.
Val la pena di rifarsi ancora alle censure mosse. Secondo le ricorrenti, il provvedimento contestato sarebbe stato adottato in violazione della normativa sostanziale applicabile all’area di sedime. Il Direttore generale avrebbe cioè tenuto conto esclusivamente delle previsioni del Piano Territoriale Paesistico (PTP) e non invece di quelle – asseritamente prevalenti[10] – del Piano Territoriale Paesistico Regionale (PTPR) adottato. Il quale, per l’area del Patrimonio UNESCO, all’art. 43, co. 15, opera un rinvio di disciplina al «Piano generale di gestione per la tutela e la valorizzazione previsto dalla Convenzione UNESCO»: piano non approvato e non riguardante, comunque, la finalità di tutela. In assenza del quale, peraltro, la disciplina di riferimento – secondo le ricorrenti – resterebbe quella delle NTA del PRG comunale, le quali prevedono di acquisire solo il parere consultivo della Soprintendenza, già ottenuto in senso favorevole.
Ecco, dunque, svelarsi il paradosso.
Questa la concatenazione dei fattori. L’area di sedime ospita beni paesaggistici individuati ai sensi dell’art. 134, co. 1, lett. c), d.lgs. n. 42 del 2004; su di essa ricadono le previsioni di piano del PTP e del PTPR; la disciplina del PTPR prevale su quella del PTP; l’art. 43 del PTPR prevede una deroga all’obbligo di autorizzazione paesaggistica ex art. 146, d.lgs. n. 42 del 2004 per le zone protette dall’UNESCO, rinviando per esse a un inconferente Piano di gestione UNESCO.
Con il risultato – paradossale, indubbiamente – che per i borghi storici e qualunque altra area che ricada nella disciplina del Codice dei beni culturali esiste un obbligo di valutare la compatibilità delle opere con i valori paesaggistici tramite il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica ex art. 146 del Codice; per le aree UNESCO, per definizione patrimonio dell’Umanità e necessitanti un’attenzione ulteriore e una protezione più elevata, un rinvio al Piano di gestione UNESCO – piano mai approvato, peraltro – sottrae gli interventi all’obbligo di autorizzazione paesaggistica e crea un vuoto di tutela.
I beni ricadenti sotto la disciplina del Codice dei beni culturali risultano, insomma, più tutelati di quelli che rientrano nel patrimonio UNESCO.
Ecco la questione centrale: comprendere se, per le opere assentite alla società di fast food, fosse necessaria la previa autorizzazione paesaggistica.
Il Collegio, qui, rammenta la rilevanza ex art. 9 Cost. dei beni paesistici e culturali e dei valori che essi esprimono: sicché le previsioni di legge a tutela di questi beni non consentono al PTPR di vanificare il vincolo loro apposto mediante norme derogatorie come quella prevista dall’art. 43 PTPR della Regione.
L’obbligo sancito dal legislatore statale all’art. 146 del Codice di sottoporre i progetti di lavori comportanti l’alterazione dello stato dei luoghi di una località protetta alla valutazione di conformità e compatibilità della Soprintendenza – a salvaguardia di beni tutelati dall’art. 9 della Costituzione, ritenuti dal Ministero dei Beni Culturali di interesse assolutamente eccezionale tanto da sollecitarne l’inserimento nella lista UNESCO – non è suscettibile di essere arbitrariamente derogato dallo strumento pianificatorio. Una tale deroga, ove mai prevista, si porrebbe in contrasto con l’art. 135, d.lgs. n. 42 del 2004: dalla lettura del quale emerge la sottoposizione del piano alle previsioni poste da fonte di rango primario, che possono essere solo attuate e mai disattese.
Nella specie, l’art. 43 del PTPR viola proprio l’art. 135, d.lgs. n. 42 del 2004: ai sensi del quale il piano paesaggistico definisce previsioni e prescrizioni ordinate alla individuazione di linee di sviluppo urbanistico ed edilizio che siano compatibili con i valori paesaggistici «con particolare attenzione alla salvaguardia […] dei siti inseriti nella lista del patrimonio mondiale dell’UNESCO».
Il PTPR regionale, invece di disciplinare gli usi compatibili, rinvia al Piano di gestione UNESCO, “delegando” la disciplina paesaggistica dei beni rientranti in quel patrimonio a uno strumento previsto «dalla legge n. 77/2006, che ha oggetto diverso e che è indirizzato a tutt’altra finalità rispetto a quella perseguita dal PTPR».
Quel rinvio, del tutto disancorato dalla normativa di riferimento nonché dai valori paesaggistici che il PTPR dovrebbe proteggere, determina per il Collegio un pericoloso vuoto di tutela proprio per aree di maggior valore, addirittura di livello universale – dichiarate “Patrimonio Comune dell’Umanità” proprio in base al riconoscimento della loro assolutamente “eccezionale” importanza (quindi di un’importanza di grado superiore rispetto all’importanza di grado solo “notevole” richiesto nell’ordinamento interno per la sottoposizione a vincolo paesistico ai sensi dell’art. 136 del d.lgs. n. 42/2004) – «con evidenti risultati paradossali, inammissibili sul piano logico, ancor prima che giuridico».
Sul piano logico, perché – ricorda il Collegio – l’inserimento di un bene nel patrimonio UNESCO avviene su richiesta del Ministero competente e previo vaglio di un apposito Comitato intergovernativo: il mantenimento del bene in quel patrimonio mondiale è dunque compito anzitutto del Ministero richiedente, che deve accordare a questo una tutela superiore in considerazione del suo valore “assolutamente eccezionale per l’Umanità intera”.
Sul piano giuridico, perché si finirebbe, così, per non assicurare a luoghi di valore simbolico “assolutamente eccezionale” per l’umanità nemmeno la stessa tutela che deve essere garantita a un qualunque altro bene vincolato ai sensi dell’art. 136, d.lgs. n. 42 del 2004: un qualunque «grazioso borgo», afferma il Collegio, in ragione di un valore molto più modesto, riceverebbe dunque una tutela paradossalmente superiore, con conseguente palese violazione del principio di ragionevolezza e proporzionalità dei mezzi di tutela rispetto al valore del bene tutelato.
Proprio per evitare questo risultato, il Giudice amministrativo territoriale rigetta i ricorsi e sancisce la piena legittimità del provvedimento del Direttore generale: le opere dovranno dunque essere sottoposte al suo vaglio di compatibilità con i valori paesaggistici ai fini del rilascio dell’autorizzazione ex art. 146, d.lgs. n. 42 del 2004.
4. Ex Cinema America: la dichiarazione d’interesse culturale e il criterio relazionale. La terza pronuncia – Tar Lazio, II-quater, 5 giugno 2020, n. 5972 – concerne una vicenda anch’essa molto nota, d’indiscusso rilievo socioculturale: la tutela dell’ex Cinema America in Roma.
Brevemente, la sua storia. Il Cinema America è in attività fino al 1999; dopo il suo fallimento, resta abbandonato, andando in rovina per anni. Fino a quando, nel 2002, la società Progetto Uno s.r.l. ne acquisisce la proprietà per ricavarne un mini complesso di appartamenti di lusso e un garage. È il 2012 quando, a ridosso delle autorizzazioni per l’avvio dei lavori, la cittadinanza più attiva occupa l’immobile per impedirne la trasformazione. Seguono diciotto mesi di conflitti ma anche di cura – tutta su base volontaristica – dell’immobile, gradualmente rinnovato nel rispetto del suo valore culturale: se ne ricavano una biblioteca, un’aula studio, un’area d’interesse comune.
Sulla scorta di ciò, è avviato dall’Amministrazione comunale l’iter procedimentale per la dichiarazione d’interesse culturale della sala cinematografica e dei suoi arredi interni, al fine di vincolarla e proteggerla quale bene culturale.
Le dichiarazioni, reiterate, sono oggetto d’impugnazione da parte della società proprietaria del bene dinanzi al Giudice amministrativo territoriale, il quale le annulla tutte per vizio di motivazione. Fino all’ultima: che invece – lo si dice sin da subito – subisce sorte felicemente opposta.
Più nello specifico, la quaestio sottoposta al vaglio giurisdizionale concerne l’applicabilità alla sala cinematografica del c.d. «criterio relazionale» per la dichiarazione di interesse culturale ex art. 10, co. 3, lett. d), d.lgs. n. 42 del 2004, delle «cose immobili e mobili, a chiunque appartenenti, che rivestono un interesse particolarmente importante a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte, della scienza, della tecnica, dell’industria e della cultura in genere […]».
Invero, posto che dal 2016, con l’art. 8, l. n. 220, il legislatore ha esteso la dichiarazione di interesse culturale particolarmente importante, ai sensi dell’art. 10, co. 3, lett. d), anche alle sale cinematografiche e d’essai, assume peculiare rilievo il criterio mediante il quale la dichiarazione può essere legittimamente espressa a fini vincolistici.
Secondo il Giudice anche per la dichiarazione d’interesse delle sale cinematografiche trovano applicazione i criteri di valutazione – pregio, rappresentatività e rarità del bene – cristallizzati nel d.m. MiBACT 6 dicembre 2017, n. 537. Questi criteri, peraltro, necessitano di adattamento laddove abbiano per oggetto beni immobili di valore architettonico o anche arredi interni: in quest’ultimo caso opera, infatti, il criterio relazionale dell’inserimento del bene nel contesto di appartenenza, inteso quale area circostante in cui sono inseriti gli immobili da vincolare.
Quel d.m. n. 537 del 2017, invero, concerne il rilascio dell’attestato di libera circolazione delle cose che rivestono interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico: al di là della finalità specifica, esso prescrive tuttavia elementi di valutazione utilizzabili in via generale. Rilevano, così, per la dichiarazione di particolare interesse culturale di un bene, la qualità artistica dell’opera[11], la sua rarità[12], la rilevanza della rappresentazione[13], la sua appartenenza a un complesso e/o contesto storico-artistico[14], la sua testimonianza particolarmente significativa per la storia del collezionismo[15], la sua testimonianza di relazioni tra diverse aree culturali[16].
È sulla base del d.m. n. 537 del 2017 che la Direzione generale del MiBACT provvede, dichiarando il vincolo sulla base dell’interesse culturale del Cinema America ai sensi dell’art. 10, co. 3, lett. d), d.lgs. n. 42 del 2004. Provvedimento impugnato dalla società ricorrente, proprietaria dell’immobile, con ricorso palesemente infondato rigettato con sentenza semplificata ex art. 60 c.p.a.: al di là delle censure di tipo procedimentale e squisitamente processuale, sotto il profilo sostanziale rilevano due aspetti, ovvero l’ampiezza del criterio relazionale e l’adattamento dei criteri ex d.m. n. 537 all’immobile per cui è causa.
4.1. Il vincolo a tutela delle sale cinematografiche: quando il bene è testimone del tempo, non di un evento storico specifico. Uno dei motivi d’impugnazione sostanziali sui quali si fonda il ricorso riguarda l’asserita assenza di un vincolo relazionale tra l’ex Cinema America e un evento storico preciso. Nelle censure della ricorrente, la Direzione generale del Ministero si sarebbe limitata a reiterare – con formulazioni diverse o apparentemente più articolate – le dichiarazioni d’interesse precedentemente annullate dal Giudice amministrativo, incorrendo così in una elusione del giudicato. In particolare, secondo parte ricorrente il Giudice d’appello nelle controversie precedenti avrebbe annullato quelle dichiarazioni escludendo che potesse esistere un vincolo relazionale tra l’ex Cinema ed eventi storici di rilievo, sì da impedire in toto che quell’immobile potesse esser suscettibile di vincolo.
Circostanza, questa, seccamente smentita dal Giudice amministrativo, il quale – al contrario – in più passaggi motivazionali della sua sentenza afferma che le precedenti dichiarazioni erano state annullate solo per vizio di motivazione: ovvero per non avere il Ministero sufficientemente motivato le ragioni che lo inducevano a vincolare la sala cinematografica. Carenze ampiamente sanate, poi, dal provvedimento oggetto di giudizio.
Deve darsi atto, tuttavia, che in un’altra sentenza[17] – sempre su impugnazione di una precedente dichiarazione d’interesse culturale dell’ex Cinema America – il Consiglio di Stato aveva effettivamente statuito che non sussistevano i presupposti di legge per imporre il vincolo. La statuizione, pur chiara e di piana lettura, aveva sfumato i propri contorni nel prosieguo di quella pronuncia: non era certo se, in fatto, quel vincolo sussistesse o meno; certamente esso non emergeva dal provvedimento dichiarativo ministeriale, il quale non delineava alcun vincolo relazionale tra l’immobile ed eventi storici, i quali – seppur d’impatto locale o di storia minore – devono essere comunque ben individuabili nella motivazione.
Ciò in quanto il vincolo relazionale s’impone su beni che, di per sé, sono privi di pregio artistico o storico, ma lo acquisiscono – rendendosi così necessaria la tutela vincolistica – per un loro riferimento con la storia: purché si tratti, appunto, di eventi passati precisi.
L’avviso del Tar nella sentenza in commento – pur collocandosi apparentemente in continuità con la pronuncia del Consiglio di Stato che ne costituisce il precedente immediato – mostra invece un lieve cambio di rotta. Perché il Giudice territoriale prende atto che – tra le vecchie dichiarazioni e quella oggetto del giudizio de quo – è sopravvenuta una normativa a tutela specifica delle sale cinematografiche; sicché il vincolo relazionale di cui al Codice dei beni culturali non è rilevante nella vicenda dell’ex Cinema America: questo bene è stato oggetto di una dichiarazione d’interesse culturale, strumentale alla tutela ex art. 8, l. n. 220 del 2016, che ha una funzione e una natura differenti da quelle previste ex art. 10, co. 3, lett. d), Codice, in applicazione del quale erano state emanate le precedenti dichiarazioni annullate per carenza motivazionale.
Ciò implica che l’annullamento degli altri provvedimenti dichiarativi d’interesse non precludeva certo una nuova valutazione dell’interesse storico artistico del bene, specie alla luce del fatto che il Consiglio di Stato, pur ritenendo insufficienti le ragioni per sottoporre a vincolo storico la Sala, aveva già in nuce evidenziato gli aspetti di pregio ritenuti significativi per il vincolo artistico: i quali necessitavano, però, di una più approfondita disamina e una più articolata motivazione da parte del Ministero competente.
Ne è derivata, nella sentenza in commento, una positiva valutazione della dichiarazione d’interesse da parte del Giudice territoriale, stante il fatto che la l. n. 220 del 2016, sopravvenuta, è dettata a tutela dello specifico interesse storico-culturale delle sale cinematografiche e d’essai, distinto dal più generico interesse relazionale precedentemente previsto dal Codice: il Ministero, secondo la sentenza, ha operato un approfondito e argomentato riesame degli elementi ritenuti rilevanti ai fini dell’assoggettamento a vincolo dell’immobile in parola.
Si tratta, pertanto, di un vero e proprio «nuovo provvedimento» rispetto alle precedenti dichiarazioni (dunque non una reiterazione che dissimula una elusione del giudicato), riformulato su nuove basi e a seguito di un approfondita rivalutazione degli elementi di giudizio precedentemente considerati, espresso con motivazione approfondita e coerente, che vale a sanare le carenze motivazionali rilevante nelle precedenti pronunce.
4.2. Pregio, rappresentatività e rarità: la tutela dei beni architettonici simbolo di un’epoca che non c’è più. Ora, posto che la dichiarazione d’interesse dell’ex Cinema, alla luce della normativa sopravvenuta, non deve necessariamente dar conto di un vincolo relazionale tra la Sala cinematografica e uno specifico evento storico, è pur vero che quel provvedimento deve rispondere ai criteri generali – espressi dal d.m. n. 537 del 2017 – appositamente adattati alla peculiarità di quell’immobile e della funzione socio-culturale da esso rivestita nel tempo.
Stavolta, il Collegio decidente non indugia a qualificare la dichiarazione d’interesse come «plurimotivata», «articolata», «fondata», «convincente», dotata di una «motivazione ricca e approfondita», basata su valutazioni tecniche «aggiuntive» e «differenti» rispetto a quelle in precedenza effettuate. Ciò in quanto – al di là di una prima descrizione dell’edificio, che non può per sua natura ontologica esser differente – la relazione tecnica mostra chiaramente come e perché l’ex Cinema America deve esser dichiarato bene d’interesse culturale.
Si tratta di un’opera significativa degli anni ‘50 del secolo scorso, reca caratteri distintivi – anche negli arredi e nell’architettura – ormai rari e irripetibili: la pensilina slanciata sul prospetto, il tetto apribile nella sala, l’insegna luminosa che domina l’ingresso.
La motivazione del provvedimento impugnato evidenzia quegli elementi caratteristici che la rendono significativa nella storia dell’architettura-arte anni ‘50: si tratta di una testimonianza unica del rinnovamento dello stile e soprattutto dell’integrazione funzionale delle varie parti della struttura, delle diverse dimensioni dell’arte visiva (superfici, lettere, etc.). Queste caratteristiche sono attentamente considerate nella relazione tecnica ministeriale sia per il loro pregio in rapporto allo specifico edificio in sé considerato, sia in rapporto all’universo generale della categoria di appartenenza, cioè delle sale cinematografiche dell’epoca in questione, con cui in origine il Cinema America condivideva le medesime caratteristiche, che però le altre sale hanno perduto nel tempo a causa delle modifiche architettoniche intervenute.
La dichiarazione d’interesse fa dunque corretta applicazione dei criteri di pregio, rappresentatività e rarità incastonati nel d.m. n. 537 del 2017: i quali «costituiscono la condizione imprescindibile per formulare giudizi sul valore storico-artistico delle opere validi ed attendibili» e «valgono in generale per la dichiarazione dell’interesse dei diversi tipi di beni culturali, tenendo conto della loro particolare natura […] con adattamenti che tengano conto della loro natura in particolare per le opere d’arte minore, come nel caso dei mobili dichiarati beni culturali, in cui rileva anche il criterio “relazionale” dell’inserimento nel contesto di appartenenza […] e valgono anche per dichiarare “beni culturali” gli immobili di particolare interesse storico-artistico-architettonico». Lo conferma la ricca giurisprudenza sul punto, richiamata anche dalla sentenza qui in commento[18].
Nello specifico, la dichiarazione d’interesse dell’ex Cinema America è ampiamente motivata circa il pregio e la rappresentatività dell’edificio, che risulta significativamente «emblematico del connubio arte-architettura delle sale cinematografiche», ma soprattutto circa la sua rarità, trattandosi di uno dei pochi esempi di sala cinematografica anni ‘50 – simbolo di un’epoca che non esiste più – rimasti fedeli, nei loro caratteri, alla consistenza originaria.
I motivi che giustificano l’assoggettamento a vincolo dell’ex Cinema America sono dunque, per il Collegio, incontestabili: legati al suo pregio intrinseco, alla sua rappresentatività per la storia dell’architettura e delle sale cinematografiche – a prescindere, quindi, dal collegamento a particolari eventi storici o sociali ivi avvenuti – di cui esso costituisce una rara testimonianza. Quell’immobile è, insomma, un «raro esempio di un certo tipo di cinema».
Questi criteri, così applicati e motivati dal Ministero, costituiscono per il Collegio espressione dei principi di ragionevolezza e proporzionalità applicati ai beni culturali. Irragionevole, al contrario, è la pretesa di motivare la dichiarazione elencando i singoli episodi rilevanti del mondo cinematografico, «essendo notorio che il quartiere Trastevere, in quanto luogo caratteristico della città della “dolce vita”, aveva a quell’epoca attratto l’attenzione dei cineasti (oltre che dei turisti), per cui, anche sulla base dell’esperienza comune dello spettatore di film, la frequenza nella filmografia del centro storico è superiore a tutti gli altri quartieri romani (che peraltro avevano allora appena iniziato a svilupparsi)».
Altrettanto rari e di pregio si delineano gli elementi architettonici e gli arredi interni della sala cinematografica, anch’essi meritevoli di vincolo: la pensilina che si slancia sulla facciata, segno di un linguaggio architettonico ormai quasi del tutto scomparso[19]; il tetto apribile, ormai scomparso dalle moderne sale cinematografiche; gli arredi tutti, testimonianza di un’epoca passata e irripetibile.
Anche in questa occasione, dunque, il Giudice amministrativo ha fatto sapiente applicazione di disposizioni a tutela dei beni culturali, per offrire nuovo spazio e nuova dignità a quegli esempi, ormai rari, che non soltanto sono “cose” del passato, ma rappresentano valori che – senza nostalgia e con consapevolezza – meritano d’esser salvaguardati e custoditi gelosamente nella memoria nazionale.
[1] Il documento è pubblicato in https://ponculturaesviluppo.beniculturali.it/my_uploads_pcs/2018/06/Asse-II-Criteri-per-la-selezione-delle-Operazioni.pdf; una sua sintesi si rinviene all’indirizzo https://ponculturaesviluppo.beniculturali.it/my_uploads_pcs/2018/06/Sintesi_PON_Cultura_e_Sviluppo_2014-2020.pdf. Il PON è stato approvato con decisione della Commissione europea del 12.2.2015 e cofinanziato dal FESR in ottemperanza all’art. 125, par. 3, Reg. UE n. 1303/2013.
[2] Decreto pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 27 luglio 2016, n. 174, recante «Istituzione del regime di aiuto per sostenere la filiera culturale e creativa e rafforzare la competitività delle micro, piccole e medie imprese, finalizzato allo sviluppo ed al consolidamento del settore produttivo collegato al patrimonio culturale italiano – Asse Prioritario II del Programma Operativo Nazionale “Cultura e Sviluppo 2014-2020”».
[3] Direttiva operativa n. 55 del 20 luglio 2016, firmata dal Dirigente del Servizio II – Segretariato generale – Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo – Autorità di gestione del PON Cultura e Sviluppo, recante «Termini e modalità di presentazione delle domande per l’accesso alle agevolazioni in favore di iniziative imprenditoriali nell’industria culturale e creativa – PON cultura e sviluppo 2014-2020 Asse II “Attivazione dei potenziali territoriali di sviluppo legati alla cultura, e indicazioni operative in merito alle procedure di concessione ed erogazione delle agevolazioni”».
[4] È noto il filone giurisprudenziale sulle clausole di partecipazione al bando che abbiano carattere immediatamente escludente: non astrattamente illegittime, ma la cui legittimità va verificata e apprezzata in concreto. V. per esempio, ex multis, Cons. Stato, III, 20 marzo 2020, n. 2004, sul carattere immediatamente escludente di una clausola di un bando di gara pubblica che prevede un importo a base d’asta insufficiente alla copertura dei costi.
[5] Ex multis, Tar Campania, Napoli, III, 3 dicembre 2019, n. 5677: «La certezza del pregiudizio determinato dal bando di gara rende superflua la domanda di partecipazione alla gara e l’adozione di un atto esplicito di esclusione. Peraltro, la legittimazione spetta, in questo caso, non già a tutti gli imprenditori del settore, genericamente intesi, ma ai soli soggetti cui è impedita la partecipazione, in virtù di una specifica clausola escludente del bando. Sussiste, pertanto, la legittimazione alla proposizione del ricorso avverso le clausole escludenti del bando di gara, anche in assenza di presentazione della domanda di partecipazione alla stessa».
[6] Si pensi alle clausole legate alla cittadinanza dei partecipanti, che riservano un trattamento diverso agli stranieri: quelle che, per esempio, impediscono – per la partecipazione a uno stesso bando – agli stranieri di presentare autocertificazioni, invece consentite ai cittadini italiani. In proposito v. Trib. Milano, sez. I, 20 marzo 2020, secondo il quale, in tema di bandi per l’accesso all’edilizia residenziale pubblica, la previsione per i soli cittadini stranieri dell’inammissibilità di autocertificazioni in ordine all’assenza di proprietà immobiliari e l’obbligo di esibire documenti ufficiali legalizzati che attestino tale assenza, costituisce una condotta discriminatoria ai danni degli stranieri, obbligati a fornire una certificazione non richiesta ai richiedenti italiani, posto che tale previsione pone pacificamente a carico degli stranieri un onere documentale non richiesto ai cittadini italiani. O ancora si pensi alla clausola di un bando di pubblico concorso che impedisca la partecipazione ai dipendenti pubblici a tempo indeterminato, quando essa sia immotivata, violativa dei principi di ragionevolezza e imparzialità, nonché ininfluente ai fini dell’obiettivo perseguito dalla procedura di selezione delle migliori professionalità: Tar Lazio, III, 16 gennaio 2020, n. 548.
[7] V’è in proposito, tra gli altri, un consistente filone giurisprudenziale – per esempio – in tema di programmazione delle ore scolastiche di sostegno agli alunni disabili, nella fattispecie in cui il piano educativo individuale abbia assegnato un numero di ore ritenute necessarie per il sostegno e poi l’Amministrazione scolastica non vi provveda. V. per esempio, Cass., Sez. un., 8 ottobre 2019, n. 25101: «Una volta che il piano educativo individualizzato del minore disabile abbia fissato il numero di ore ritenute necessarie per il sostegno, l’amministrazione scolastica non può assegnare un monte ore inferiore, non sussistendo in tal caso alcun potere discrezionale. La mancata assegnazione delle ore di sostegno corrispondenti al piano individuale contrasta cioè con il diritto fondamentale del minore che versa in una situazione di handicap a una pari opportunità nella fruizione del servizio scolastico. Una tale evenienza integra una discriminazione indiretta posta in essere dalla pubblica amministrazione, la cui repressione spetta al giudice ordinario. Ad affermarlo sono le sezioni Unite della Cassazione che si sono pronunciate con regolamento di giurisdizione su di un caso che vedeva un Comune contravvenire a quanto previsto dal piano dinamico funzionale di un minore disabile, disponendo l’assistenza nei suoi confronti per un massimo dì dieci ore settimanali al posto delle 22 stabilite. Per i giudici di legittimità, nella fattispecie l’ente locale non ha alcun potere discrezionale, trattandosi di una condotta discriminatoria posta in essere nei confronti dell’alunno, la cui cognizione è competenza del giudice ordinario».
[8] In tal senso militano anche gli artt. 31 e 35 del Regolamento, d.p.c.m. 29 agosto 2014, n. 171.
[9] Conferma il Collegio che v’è una «esigenza chiara di rispettare gli impegni internazionali scaturenti dall’inserimento dell’area nella “lista del patrimonio mondiale” redatta dall’UNESCO, dato che la “Convenzione sulla protezione del patrimonio culturale e naturale mondiale”, firmata a Parigi il 10 novembre 1972 e ratificata con legge 6 aprile 1977, n. 184, obbliga lo Stato di appartenenza ad assicurarne la salvaguardia avvalendosi anche dei contributi economici e tecnici messi a disposizione dall’Unesco; benefici e riconoscimenti che rischierebbero di essere revocati in caso di perdita o degrado del sito protetto».
[10] La prevalenza del PTPR è motivata sulla scorta dell’art. 7, co. 5, delle NA di quel piano, ai sensi del quale «Per la parte del territorio interessato dai beni paesaggistici, immobili ed aree tipizzati e individuati dal PTPR ai sensi dell’articolo 134, comma 1, lettera c), del Codice [dei beni culturali, n.d.r.] si applica, a decorrere dalla adozione, esclusivamente la disciplina di tutela del PTPR, anche in presenza di classificazione per zona ai fini della tutela contenuta nei PTP vigenti».
[11] Secondo il d.m., la qualità artistica va valutata sulla base delle caratteristiche dell’opera (magistero esecutivo, capacità espressiva, invenzione e originalità) tramite gli strumenti di storia dell’arte, critica, archeologia e antropologia.
[12] La rarità, ai sensi del d.m. citato, va valutata sotto il profilo qualitativo, legato al pregio eccezionale dell’opera, e quantitativo, legato invece all’esistenza di opere simili o uguali e alla loro diffusione.
[13] Per il d.m. ciò significa che la cosa presenta un non comune livello di qualità e/o importanza culturale legata alla iconografia o all’esistenza di testimonianze anche documentali storiche e di costume.
[14] Secondo il decreto, questa dev’essere provata e devono esser chiari gli aspetti pertinenziali della cosa rispetto al suo contesto – attuale o storicizzato – di appartenenza.
[15] Per il d.m., ciò implica che il complesso di appartenenza del bene deve esser caratterizzato da una intenzione collezionistica riconoscibile, sicché la cosa deve costituire testimonianza significativa di una collezione privata rilevante.
[16] Questo requisito dettato dal d.m. concerne beni di qualunque epoca e di qualunque provenienza geografica che costituiscano testimonianza di dialoghi tra la cultura artistica, antropologica, archeologica italiana e il resto del mondo.
[17] Cons. Stato, VI, 14 giugno 2017, n. 2920: «il riferimento con la storia non necessariamente coinvolge fatti di particolare importanza, potendo essere sufficiente anche il ricordo di eventi della storia locale, come appunto la valorizzazione di un quartiere in precedenza disagiato, ovvero della storia minore, cui rimandano le mappe di un tratto di campagna. Si tratta però pur sempre di fatti specifici, bene individuati come tali. Si potrebbe anzi affermare che proprio in questo carattere specifico sta la differenza fra il vincolo in esame e quello storico artistico, dato che, all’opposto, i valori artistici sono espressione del generico gusto di un’epoca, non necessariamente ricollegabile a fatti determinati».
[18] E plurimis, Tar Lazio, II-quater, 8 gennaio 2019, n. 221; Id., 14 marzo 2019, n. 3402; Id., 19 maggio 2019, n. 6783; Id., 9 ottobre 2018, n. 9826; Id., 1 marzo 2011, n. 1901.
[19] Tar Lazio, II-quater, 5 dicembre 2018, n. 11798, sempre sul pregio architettonico di alcuni elementi strutturali dell’ex Cinema America.
Il dialogo Habermas-Günther riletto dalla cultura giuridica italiana. I civilisti (parte seconda): R.Natoli intervista Francesco Denozza e Pasquale Femia
Giustizia insieme, dopo avere ospitato il confronto fra Habermas-Günther messo a disposizione dal settimanale tedesco Die Zeit, nella sua versione italiana - Jürgen Habermas e Klaus Günther Diritti fondamentali: “Nessun diritto fondamentale vale senza limiti”- ha deciso di promuovere un dialogo a distanza fra i due pensatori tedeschi e la cultura giuridica italiana.
Sono state già pubblicate le interviste a Gaetano Silvestri, Il dialogo Habermas-Günther riletto dalla cultura giuridica italiana, parte prima.Intervista di Roberto Conti a Gaetano Silvestri e Il dialogo Habermas-Günther riletto dalla cultura giuridica italiana, parte seconda. I giuspubblicisti. Intervista di F. Francario a D. Sorace, F.G. Scoca e G.Montedoro.
Roberto Natoli ha raccolto le riflessioni di quattro autorevoli civilisti: Francesco Busnelli, Aurelio Gentili, Francesco Denozza e Pasquale Femia. La seconda parte è dedicata alle risposte di Denozza e Femia.
Proseguendo il dibattito indotto dal dialogo tra Habermas e Günther, in questa intervista, che continua idealmente quella, già pubblicata, a Francesco Busnelli e Aurelio Gentili, si confrontano un insigne commercialista e un raffinato civilista, i quali, pur partendo dalle riflessioni degli autori tedeschi, ampliano il raggio del ragionamento, investendo temi ulteriori e non meno delicati. Denozza, dopo aver evidenziato che Covid-19 ha messo in chiara evidenza l’inevitabile conflitto tra l’assegnazione di un diritto e la soddisfazione di un altro, anche di pari rango, spinge l’indagine più in profondità, chiedendosi sulla base di quali presupposti, politico e istituzionali, si sia arrivati fin qui. Lungo questa scia, Denozza ci ricorda che Covid-19 ha fatto stragi in alcune realtà territoriali più che in altre perché in quelle realtà, più che in altre, sono state operate, in passato, scelte che hanno reso fertile il campo al dilagare delle conseguenze umane e sociali della pandemia. In particolare, sono stati i meccanismi impersonali di mercato l’humus dei successivi drammatici accadimenti: le nefaste conseguenze del deficit di reparti di terapia intensiva, costruiti solo quando il mercato ha creato la domanda, ne sono esempio davvero eloquente. Proseguendo nel suo ragionamento, Denozza osserva che, anche nel caso di Covid-19, il problema non è di astratto conflitto tra valori pari ordinati, ma di concreto conflitto tra persone portatrici di interessi diversi; ed è un problema, prosegue, di teoria della giustizia, prima ancora che di teoria del diritto. Sotto questo profilo la riflessione di Femia, pur condotta da una specola differente, si salda perfettamente alla riflessione di Denozza. La sua riflessione è ritmata dalla presenza di quel “qualcosa di marcio” che nel diritto alberga e che il giurista abituato a indagare gli ingranaggi del macchinario che usa, e soprattutto a chiedersi quale sia il fine del viaggio che quel macchinario consente, non può, a un certo punto, non intuire. Covid-19, sotto questo profilo, rappresenta un punto di non ritorno, perché mette a nudo, sotto gli occhi non dei soli specialisti ma di ognuno, la distanza “tra le promesse di giustizia e la volgare crudezza dell’agire” fatalmente insita in tutte le procedure giuridiche, costruite per mettere “al riparo dalla guerra civile, non dalla crudeltà”; una distanza che si fa davvero infinita se la crudeltà, questa volta, non è dell’uomo, ma di nuove forme di vita dell’uomo nemiche.
DENOZZA
Il Covid-19 ha reso evidente la tragicità di alcune delle scelte che la società deve compiere sia con riferimento alla impossibilità di assicurare generale soddisfazione a certi diritti (qui, soprattutto, il diritto a non essere lasciato morire, che durante la pandemia sembra non sia stato, in certe situazioni, possibile assicurare a tutti) sia con riferimento all’incompatibilità tra la soddisfazione di diritti diversi (qui, soprattutto, tra quello alla difesa delle probabilità di immediata sopravvivenza e quelli alle varie libertà, di movimento, economiche, ecc.).
In verità, chi ha prestato attenzione alle implicazioni culturali di decenni di predominio (a volte esplicito, a volte strisciante) della filosofia propria dell’analisi economica del diritto, nocciolo teorico duro del pensiero giuridico neo-liberale, certamente non si stupisce di fronte alla scoperta di queste incompatibilità. L’analisi economica ci ha infatti reso edotti del fatto che tutti i diritti hanno costi[1].
Come non esistono pasti gratis, così non esistono diritti a costo zero. Il soddisfacimento di un diritto implica sempre costi, che possono essere prettamente monetari (come nel caso del diritto alla salute, posto di fronte ai sacrifici che qualcuno deve fare per procurare gli investimenti necessari ad assicurarne la soddisfazione) ma anche di altro genere (come nel caso della libertà di manifestazione del pensiero, posta di fronte ai sacrifici che occorre fare per sopportare manifestazioni del pensiero che si concretizzano in fake news o in hate speech) [2].
Questa riflessione ci dice che il ruolo della tecnica è sicuramente fondamentale, ma non decisivo. Là dove le soluzioni che la tecnica rende possibili richiedono grande impiego di risorse, il ruolo decisivo finisce per essere giocato dall’economia. La tecnica dice cosa è astrattamente fattibile. L’economia, intesa come studio dell’allocazione di risorse scarse, dice cosa si può in concreto fare. Ed è qui, sul piano della concreta fattibilità, che entrano in gioco i veri conflitti.
Ciò non toglie che è proprio la prospettiva tecnica che ci spiega perché il diritto alla salute, inteso, ovviamente, non come il diritto ad essere mantenuti sani[3], ma ad avere accesso alle cure più adeguate, presenta alcune notevoli peculiarità. La prima attiene al fatto che mentre il costo che deve essere sopportato per la soddisfazione di altri diritti fondamentali (al cibo, protezione, educazione, ecc.) raggiunge comunque limiti (in un certo senso anche fisici), nel caso del diritto ad essere curati, la tecnica (con gli orientamenti e le caratteristiche che le ha dato uno sviluppo della ricerca centrato per lo più sugli incentivi brevettuali[4]) arriva a rendere astrattamente possibili trattamenti la cui diffusione generalizzata ha costi che tendono a correre verso l’infinito[5].
A ciò ovviamente si aggiunge che mentre un certo livello di parziale soddisfazione di certi diritti può essere considerato in date circostanze soddisfacente, il diritto ad essere curati opera spesso in contesti in cui la “sufficienza” non c’è, o non viene percepita come tale, per il semplice fatto che è difficile considerare sufficiente qualunque soluzione che comunque accetti il verificarsi di esiti letali che sarebbero tecnicamente evitabili (credo che mentre molti considererebbero migliorabile, ma soddisfacente, la situazione per cui viene assicurato un certo livello di istruzione a tutti, sino ad una certa soglia di studi, non credo che altrettanti considererebbero soddisfacente l’esplicita dichiarazione per cui la cura generalizzata è assicurata a tutti solo per malattie fino ad una certa soglia di gravità, mentre per il resto ciascuno deve arrangiarsi per suo conto).
Tornando alla prospettiva generale, se si accetta l’idea che i diritti costano, un’ovvia conseguenza immediatamente segue. Dato che la società dispone di risorse materiali e immateriali limitate, il conflitto per l’assegnazione dei diritti diventa endemico[6], e diffusa diventa la possibilità che l’assegnazione e la soddisfazione di un diritto impediscano l’assegnazione o la soddisfazione di un altro.
Che questa prospettiva coinvolga anche i diritti fondamentali (compresi, come chiarisce l’esempio della manifestazione del pensiero, quelli che proteggono c.d. libertà negative) è del tutto ovvio, come ovvia è la possibilità che in certe situazioni la scelta su quali diritti soddisfare possa diventare tragica. Come ci aveva ricordato parecchi anni fa il celebre libro di Calabresi e Bobbit, la quantità di scelte tragiche che la società compie, spesso in maniera occulta, è in realtà molto elevata[7].
Il Covid-19 si è limitato ad esplicitare in maniera drammatica problemi che sono in realtà pressoché quotidiani (quando la sanità pubblica non riesce, come pure succede anche in tempi di non pandemia, ad assicurare la tempestività di analisi e interventi, o la quantità di cure, che la situazione clinica richiederebbe, non si compie una continua “scelta tragica”?). Osservato a livello mondiale, il fatto che quotidianamente vengano lasciate morire persone che tecnicamente potrebbero essere salvate è frequentissimo e, da un punto di vista morale, non mi sembra vi sia una ragione per preoccuparsene tanto solo quando diventa evidente che il fenomeno riguarda anche i nostri concittadini e noi stessi.
Il punto va sottolineato non per contrapporre emotività ad emotività, ma per acquisire consapevolezza dei termini razionali del problema. Il fatto è che, in fondo, per restare all’ambito medico, ogni risorsa investita in ricerca, invece che in cura immediata, sacrifica vite attuali per salvare vite future, così come ogni risorsa investita nel perseguimento di certi obiettivi di cura (ridurre la mortalità infantile) invece che altri (ridurre la disuguaglianza sanitaria) salva alcune vite e non altre. Il fatto che in questi esempi il sacrificio non riguardi persone presenti e individuate, ma soggetti statistici, anche futuri, non credo elimini i profili razionali di tragicità della scelta.
In questa prospettiva, è forse opportuno distogliere l’attenzione dalle formulazioni più retoricamente disperanti e pensare invece ad un razionale inquadramento di un problema che trae origine dalla finitezza dell’esistenza umana e che necessariamente ci accompagna, così come purtroppo allo stesso modo ci accompagna l’assenza di enti metafisici disposti a fornirci gratis tutti i pasti che vorremmo.
Il primo punto che mi sembra allora di dover sottolineare, è che impostare il problema (come avviene pure nel dialogo tra Habermas e Günther) in termini di conflitti tra valori, è fuorviante. Le scelte tragiche per lo più non pongono il problema di un astratto conflitto tra valori, ma di un concreto conflitto tra persone portatrici di interessi diversi.
Il tipo di conflitto che socialmente più spesso si pone non è assimilabile a quello in cui chiunque può trovarsi quando deve decidere se rinunziare ad attività redditizie, o piacevoli (per esempio andare, in tempi di pandemia, a teatro o nei musei, a migliorare la sua cultura) che possono però mettere a rischio la sua salute. Qui si ha in effetti il conflitto tra due beni e se lo riferiamo ad un singolo individuo, o ad un gruppo di individui con caratteristiche ed interessi omogenei, possiamo anche parlare dell’astratto conflitto tra il valore e le esigenze della cultura e il valore e le esigenze della salute.
Non è però questo il tipo di conflitto che in genere sta dietro alla necessità di bilanciare pretese fondate su diritti contrapposti. In questi bilanciamenti si tratta piuttosto di risolvere il conflitto tra soggetti diversi, portatori di interessi e di preferenze diverse, che non possono essere soddisfatte separatamente. I valori di libertà, o altro, non entrano qui in conflitto con un’astratta aspirazione alla salute (aspirazione supposta comune, più o meno nella stessa misura, a tutti gli esseri umani), ma con le aspirazioni di coloro che, per loro personali ragioni, considerano prioritaria la difesa della salute, e non possono però realizzare questa aspirazione se non a condizione che sia limitata (oltre alla loro) anche la libertà di altri.
Anche qui, decenni di dominio di orientamenti utilitaristi (come quelli che stanno alla base dell’analisi economica del diritto) hanno forse abituato molti a non prendere sul serio – come fa la filosofia utilitarista nel rimprovero mossole da Rawls – la separatezza tra le persone[8].
Se tale separatezza si prende invece sul serio, come è ovviamente doveroso, si scopre subito che il conflitto non è tra astratti valori, ma tra persone portatrici di interessi divergenti.
Non si tratta di una precisazione pedante, svalutabile dicendo che ovviamente tutti pensano che dietro ai valori ci sono esseri umani, in assenza del che non staremmo neanche a discutere. Questo è naturalmente ovvio. Il fatto però di discutere di conflitti di interessi tra concrete persone, invece che di conflitti tra astratti valori, ci dà subito una indicazione importante, e cioè che il conflitto che, posto in termini di valori, sembra porsi come sempre uguale a se stesso, ben può presentarsi, se si tiene conto della diversità dei contesti in cui viene di volta in volta ad inquadrarsi, in termini che possono risultare anche radicalmente diversi.
Restiamo pure al Covid-19 e al conflitto tra tutela della libertà e tutela della salute. Questo conflitto lungi dall’ avere una portata ontologica trascendente (come a volte sembra in alcune drammatizzate contrapposizioni) ha caratteristiche che variano enormemente in rapporto alle caratteristiche della società in cui si pone[9].
È ovvio che un problema di scelta tra i due diritti può, in tempi di pandemia, porsi come ineludibile in qualsiasi società. Chiunque si rende però immediatamente conto che i termini del problema si pongono in maniera molto, molto, diversa in una società che è in grado di assicurare a tutti uguali probabilità di, qualitativamente analoga , sopravvivenza fisica ed economica, rispetto ad una società dove invece alcuni possono comunque permettersi di sopravvivere senza lavorare, e senza perciò porre a rischio la propria salute, mentre altri non hanno questa possibilità di scelta; in cui alcuni sono in grado di provvedere da soli, o comunque privatamente, alla loro assistenza e cura in sicurezza, mentre altri non lo sono e sono comunque costretti a rischiare; in cui alcuni possono proteggersi isolandosi in luoghi confortevoli e altri no; in cui alcuni possono dotare se stessi, e i loro figli, di sofisticati mezzi di comunicazione e di sviluppo intellettuale, mentre altri no, e così via.
È ovvio che queste enormi differenze tendono a sfuggire all’analisi giuridica, per necessità concentrata sulla soluzione di casi specifici. Si tratta però, come chiunque vede, di differenze che se si ragiona in una prospettiva di giustizia, possono risultare fondamentali e contribuire a rendere più o meno tragiche le pur inevitabili scelte.
Altro aspetto rilevante, che tende anch’esso a restare nascosto ai giuristi, riguarda le vicende da cui la situazione che impone la scelta tragica origina. Talvolta la necessità di compiere scelte tragiche è frutto di circostanze largamente al di fuori del nostro controllo. Altre volte il modo in cui la scelta si propone è in tutto o in parte frutto di scelte precedenti e del modo in cui la società è complessivamente organizzata.
Come ricorda Martha Nussbaum in diversi lavori[10], già Hegel aveva intuito che di fronte alle situazioni tragiche è importante chiedersi: come mai ci si trova a dover fronteggiare questa situazione, e quale cambiamento istituzionale e politico può contribuire ad evitare di doverla fronteggiare di nuovo?
La risposta a queste domanda non elimina la necessità di compiere nell’immediato la scelta, e neppure aiuta gran che ad orientarla, ma rappresenta ugualmente un importantissimo passaggio.
La prima domanda (come siamo arrivati qui?) conta perché stiamo parlando di scelte che comportano sofferenze, e il modo cui si è arrivati alla situazione che ingenera sofferenza non è irrilevante, né dal punto di vista di chi la sofferenza direttamente la subisce, né da quello di chi è costretto ad assistervi impotente. Una sofferenza dovuta a cause che sono, e sono percepite, come incontrastabili, è comunque diversa dalla sofferenza causata dall’egoismo o dall’avidità di qualcuno. Le ragioni che hanno condotto alla situazione tragica contano.
Prendiamo l’esempio dei posti di terapia intensiva. La predisposizione di risorse per la terapia intensiva, in una misura che vada al di là delle esigenze dei tempi normali, ha un costo ovvio. Ciò può determinare, in situazioni eccezionali, una scarsità che nessuna ragionevole politica può prevenire. La mia tesi è che sono però ben diverse la situazione in cui tutti sanno che l’entità della scarsità è dipesa da una filosofia che ha preferito investimenti in medicina di base sul territorio (e in questo modo ha salvato le vite di molti), e la situazione in cui tutti sanno che l’entità della scarsità è dipesa da una filosofia per cui l’ efficienza consiste nel seguire pedissequamente la domanda e quindi nel costruire posti di terapia intensiva, magari in maniera veloce e costosa, solo quando si presenta un numero sufficiente di persone disposta a pagare per averli.
L’esempio ci dice che ragionare sulle domande di Hegel è importante, perché esistono atteggiamenti (tipicamente quelli che danno spazio ai meccanismi impersonali di mercato) che tendono ad ignorare le peculiarità delle scelte tragiche e così, da una parte, arrivano in maniera sostanzialmente non consapevole alle situazioni in cui è necessario compiere tali scelte, e dall’altra finiscono per far dipendere dal mercato anche gli esiti delle scelte stesse.
Ciò premesso, accettato che alcune scelte tragiche possono essere prevenute o almeno numericamente ridotte, e che a volte si può cercare di evitare che le scelte tragiche si cumulino ad altre specifiche ingiustizie, è però certamente ben difficile immaginare una società che non sia costretta a prendere un gran numero di decisioni gravide di conseguenze potenzialmente tragiche. Le riflessioni che precedono non indicano soluzioni e probabilmente nessun criterio sostanziale è in grado di orientare tutte queste scelte in una maniera che possa essere condivisa da ogni persona ragionevole[11]. Ampi margini di dissenso, e quindi di conflitto, resteranno sempre presenti.
Un’ ultima osservazione però si può fare e riguarda ancora una volta il contesto sociale in cui la necessità delle scelte si pone. Un contesto caratterizzato da radicato individualismo finirà per esasperare i conflitti che stanno dietro a qualsiasi scelta ( un esempio tragicomico si è avuto da noi con il tema dell’interpretazione della nozione di “congiunti” utilizzata dall’ articolo 1, comma 1, lettera a), del Dpcm del 26 aprile 2020, dove ogni possibile interpretazione suscitava immediatamente rancorose proteste in nome dei possibili esclusi, dagli amici del cuore ai fidanzati occasionali). Un contesto in cui domini un senso di ragionevolezza e solidarietà, dove chi deve sopportare il peggio non abbia la sensazione che ciò accade perchè qualcuno ha approfittato, o ha lasciato che gli eventi approfittassero, della sua debolezza, potrà aiutare a rendere meno insopportabili gli eventi percepiti come inevitabili.
Credo che queste ultime osservazioni già anticipino in parte la risposta alla seconda domanda. Prima delle esigenze di adeguatezza e proporzionalità vengono le esigenze di giustizia. Una misura si giudica non solo in base al rapporto tra l’ entità dei costi e dei benefici che ingenera, ma soprattutto in base al modo in cui li distribuisce. Se si parte dal presupposto che coloro che non sono stati economicamente toccati dalle misure di contenimento della pandemia ( o che se ne sono stati addirittura avvantaggiati) debbano tenersi quello che hanno, e agli altri debba provvedere lo stato, è ovvio che ogni, anche relativamente minima, scelta, diventa altamente drammatica, posto che lo stato non è, come invece sembrano pensare alcuni, un’entità astratta con un sacco pieno di soldi, cui si può chiedere sempre di più, senza dare mai niente.
Se ci si mette, e ci si fosse messi sin dall’inizio, nella prospettiva per cui i sacrifici non devono essere lasciati là dove cadono, ma devono essere equamente divisi ( e quindi, tanto per essere chiari, che occorre introdurre una tassazione speciale con finalità di riequilibrio) i termini del discorso cambiano. Se si parte dalla condivisione del fondamentale presupposto per cui comunque vada ( si chiuda tanto o si chiuda poco) è necessario che i costi conseguenti siano divisi equamente tra tutti, la prospettiva muta radicalmente e una, possibilmente pacata , discussione sulle ragioni in favore dell’una o dell’altra opzione, può prendere il posto dello scontro sugli interessi, scontro che facilmente porta alla dissennata contrapposizione in cui qualcuno chiede sempre di più ( di volta in volta, più chiusure o più quattrini, senza peraltro chiarire adeguatamente dove prenderli) mentre qualcun altro difende i privilegi che gli consentono di sopportare, più o meno tranquillamente, le chiusure e le aperture che gli sembrano di volta in volta più confacenti alle sue esigenze.
FEMIA
Trovo molto opportuno il richiamo di Roberto Natoli, nell’incipit dell’intervista a Francesco Busnelli e Aurelio Gentili, alla Critica della violenza di Walter Benjamin. In quel saggio la violenza (Gewalt) è forma di manifestazione del diritto, risolto nelle mani del potere sovrano. Più che in qualsiasi altro atto, il diritto – dice Benjamin – si manifesta nell’esercitare la Gewalt di vita e di morte: questa volta l’orecchio italiano tradurrebbe, non più “violenza”, ma “potere”. Il fascino del diritto (quando c’è) per i non giuristi consiste in questo: ai loro occhi è manifestazione visibile di una creazione sovrannaturale, fatta di riti e linguaggi umani. Ai giuristi la lettura del diritto come destino sovrano piace (o piaceva) assai meno, poiché li sospinge fin dentro la sofferenza del decidere. Il diritto messo in trono è l’ombra della giustizia, è la politica, la sovranità, il potere che salva: è il linguaggio di un sovrano – e nelle parole di Benjamin sembra talvolta che il diritto sia soltanto la proprietà di chi governa – segno della civilizzazione dell’autonomia dell’umano.
Poi un invisibile groviglio di molecole – ibrido tra vita e veleno, parassita che uccide uccidendo se stesso per moltiplicarsi – si fa strada attraverso il nostro respiro e ci ricorda che l’uomo è semplicemente una specie animale tra le altre; e che la sua vita, alla pari di tutti i viventi, è soltanto una risorsa aggredita da altre forme di vita. Ridotta a pura immanenza, la vita dell’uomo – lo insegna Gilles Deleuze[12] – è pre-soggettiva: quanta soggettività giuridica si manifesta in una terapia intensiva? In quel luogo, vivi e deposti, ci sono uomini, storie, valori; ma sono lì come corpi, esemplari di una specie vivente che lotta per sopravvivere. Che anche nell’immanenza tra malati e medici, e tutti noi, si aprano spazi culturali ed emotivi profondi fa parte della meravigliosa emergenza dell’umano nell’uomo. Ma nessuna umanità libererà l’uomo dal suo essere animale vivente.
Il diritto che decide della vita e della morte, per riprendere allora il passaggio benjaminiano, risplende e si offusca della luce e delle ombre del potere sovrano. La politica, divenuta programma di governo, agisce con il linguaggio del diritto. Non tutto è politica; il virus non lo è. Nelle reazioni infastidite degli scorsi mesi di chi ha denunciato il diritto emergenziale sanitario quale pretesto per instaurare una sorveglianza biopolitica – e questo anche ai massimi livelli filosofici: penso soprattutto a Giorgio Agamben[13] – sembra cogliersi il disagio di dover affrontare un fenomeno naturale: l’emersione di una nuova forma di vita nemica degli uomini. È ovvio che tale durissimo fenomeno abbia nel mondo umano ripercussioni politiche; e che tali politiche siano mediate dal diritto. Tutto questo viene però dopo: dopo la franca presa di coscienza che, ancora una volta (non è certo la prima pandemia nella storia), un evento inatteso consegna la ‘nuda vita’ non alla Politica, ma alla Natura.
Qui torna davvero utile proseguire con Benjamin nella ricerca del disagio del diritto[14]. Non esiste solo lo splendore della forma, il destino della sovranità: nel diritto c’è qualcosa di marcio (etwas Morsches). È proprio nel suo incidere sulla vita e sulla morte che si manifesta, a chi guardi con sensibilità, il marcio: nelle procedure giuridiche disgusta la distanza infinita tra le sue promesse di giustizia e la volgare crudezza dell’agire.
Cosa fare, affinché il diritto non divenga il lessico dell’orrore? Come fare del diritto uno strumento per risolvere problemi e non per crearli?
Non esiste un punto entro il quale un ordinamento costituzionale possa legittimamente scegliere di allocare in modo preponderante le proprie risorse sul sistema sanitario. Il diritto non può indicare una ed una sola soluzione corretta; ciò che un ordinamento costituzionale deve promuovere è piuttosto l’apprendimento sociale ricostruito dal diritto, soprattutto nei contesti di conflitto.
Fa parte di tale apprendimento sociale innanzitutto la condizionalità della vita, la sua dipendenza dall’ambiente. Se c’è una differenza che colpisce nel guardare al dibattito sulla pandemia in Italia e Germania è proprio la preponderante attenzione tedesca a legittimità e limiti del bilanciamento tra vita, dignità e salute; là dove l’attenzione italiana sembra volersi concentrare in prevalenza sul rapporto tra livelli regionali e statali e, soprattutto, su Governo e Parlamento (un correlato tedesco si coglie in Germania nella voce di Christoph Möllers[15]). Capisco queste preoccupazioni, ma le trovo viziate di idealismo: non si deve ignorare la situazione reale della formazione e applicazione delle leggi. Ovvio che nessuna forma costituzionale può essere mai derogata da una pretesa ‘sostanza’ che la superi (sappiamo che questo è il vocabolario della tirannide); ma altrettanto vero che nessuna interpretazione delle leggi vigenti può prescindere dall’analisi reale delle condizioni di elaborazione e ricezione delle norme. Dal Parlamento vien fuori il testo della legge; ma la sua scienza è altrove.
Il luogo privilegiato, in un sistema democratico, è la comunicazione sociale; di tale comunicazione il dibattito tra Jürgen Habermas e Klaus Günther – meritoriamente e prontamente tradotto da Giustizia insieme – è parte estremamente significativa.
Non v’è autentica contrapposizione tra i dialoganti: Habermas, l’attuale, e sovente discusso, praeceptor Germaniae (titolo che nella tradizione tedesca è spettato tra l’altro a Melantone), è universalmente noto; Günther, anche se forse meno conosciuto al pubblico italiano (rispetto, ad esempio, a Robert Alexy), appartiene alla schiera di teorici del diritto immediatamente riferibili, anche criticamente, alle posizioni francofortesi. Con riflessi di reciproco condizionamento: basti pensare a quanto l’opera fondamentale di Günther, Der Sinn für Angemessenheit, abbia inciso sulla teoria del diritto di Habermas.
Sia pure con accenti in parte diversi, entrambi convergono sul rifiuto dell’asserzione recisa, secondo la quale il valore della vita sarebbe bilanciabile come qualsiasi altro. Le libertà di circolazione, riunione, professione religiosa – si è detto nel dibattito mediatico – valgono quanto il diritto alla vita, e possono restringerlo. Il motore segreto di tali discorsi è la bilanciabilità della salute con il lavoro e l’impresa (come bene l’esperienza Ilva ha insegnato a noi italiani); ma nel contesto tedesco ciò prende una piega preoccupante: asserisce il Presidente del Bundestag ed ex ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble che la vita non sia il valore fondamentale[16]. Fondamentale sarebbe la dignità, unico valore costituzionale assoluto, inviolabile: e la dignità «non esclude», prosegue Schäuble, «che noi dobbiamo morire». Se queste parole non provenissero da un esponente della democrazia tedesca che fra breve compirà 78 anni e da quasi trenta ha perso l’uso delle gambe in seguito ad un attentato, sarebbe facile voltarsi sdegnati (è il caso di dire), bollare queste affermazioni come frutto di narcisistico edonismo o, molto peggio, come un piano inclinato, al termine del quale si collocano le nazionalsocialiste ‘vite indegne di essere vissute’. Non si tratta però di questo: si tratta di eroismo tragico mal riposto.
La morale dell’eroe tragico riscatta l’individuo dalla colpa (ucciderai) o salva l’innocenza (non subirai alcun male)[17]. Pensa quindi il collettivo a partire dall’individuo. La socialità si regge sulla innocenza individuale. È impossibile ragionare nel momento delle scelte tragiche. Tragiche sono le scelte immediate; quelle nella quali il decidente non può cambiare le alternative né le conseguenze. In questi contesti ci affidiamo soltanto all’intuizione (la tradizione e la speranza) e alla memoria (regole progettate in tempi diversi). Poi nel tempo della riflessione riprenderemo a ragionare. Ed è a questo tempo secondo della tragedia che si riferisce la tassonomia del fondamentale Tragic Choices di Calabresi e Bobbitt (opportunamente intervistato in questa rivista)[18].
Affermare che la dignità non tuteli (sempre) la vita avrebbe potuto essere una ragionevole razionalizzazione della meritevolezza del martirio in una società scarsamente secolarizzata. Una educata trasfigurazione nel lessico costituzionale della violenza identitaria che scorre sotto tutte le religioni, incluse quelle atee. Affermare che basti morire degnamente (e come? strozzati dall’assenza di respiro, tra i volti terrorizzati dei congiunti? fissando il muro sporco di una corsia di ospedale, senza aver più voce né voglia di chiedere un impossibile aiuto?) per soddisfare le esigenze assiologiche costituzionali significa, inoltre, che la soddisfazione delle esigenze di consumo dei (provvisoriamente) sani sarebbe più importante della sopravvivenza dei (provvisoriamente) malati. E quindi che sia più degno consentire ad alcuni di guadagnare abbastanza da fare, anche quest’anno, una bella vacanza, tanti begli aperitivi con tanti bei vestiti nuovi, piuttosto che offrire ad altri la possibilità di vivere ancora qualche anno, o mese, tra artrosi, pantofole e Tv del pomeriggio. E che se per lasciar consumare a pieno i provvisoriamente sani si debbano lasciar morire i provvisoriamente malati, amen: sarebbe il rischio di vita, virile accettazione dell’essere per la morte (altrui).
Ma che consumare molto sia più degno che consumare poco è, costituzionalmente parlando, semplice oscenità. Si comprende allora che, dietro le retoriche dignitarie, dietro l’esibizione di un civile eroismo del sacrificio nella morte, si nasconde null’altro che la pretesa di uno spostamento al vertice della assiologia costituente: non la vita né la dignità dell’uomo, ma la necessità del consumo. Si riesce a produrre soltanto se qualcuno consuma, si vende soltanto se vi sia chi compra: ecco che il diritto vorrebbe lasciare la produzione nell’anomia e collocare il consumo nella immunità costituzionale da ogni interferenza, persino della vita. Noi liberi (di consumare); voi morite pure.
La dignità eroico-tragica è, quindi, evocata del tutto a sproposito in queste logopatie costituzionali, che sono quanto di più incostituzionale possa ascoltarsi; l’eroe tragico, forte, moriva per salvare gli altri, deboli; qui si vorrebbe uccidere il debole per lasciare intatto il godimento dei forti.
Non basterebbe convincersi della incostituzionalità della tragedia. Il diritto nella tragedia non allontana le colpe, ma le prende su di sé; e sceglie.
La scelta non è tra vita e dignità. Il confronto – avverte Stephan Wagner[19] in un intervento dedicato alla questione – non si svolge mai in astratto tra valori, ma in concreto: solo con riferimento a misure legislative concrete è possibile valutare adeguatezza e necessità. Ha quindi ragione Oliver Lepsius[20] quando avverte che non si tratta di bilanciare vita e morte, ma di un aspetto del diritto alla salute: evitare il sovraccarico del sistema sanitario. Ha però torto nel pensare di avere in tal modo evitato la difficoltà di bilanciare la vita: è, certo, una scelta concreta che riguarda un problema particolare (blocco della mobilità, destinazione delle terapie intensive) e non investe il destino globale di comunità o valori. Ovvio che ogni scelta sia criticabile, perché sarebbe possibile altro; ma se molte scelte sono (allo stato dell’incertezza dominante) equivalenti, allora qualcuno deve prenderne qualcuna. Non si lascia morire per un vantaggio ipotetico.
Dobbiamo pertanto scegliere tra pratiche e investimenti sanitari e libertà, economiche e non. Ma è anche vero che questa scelta particolare è possibile soltanto ricorrendo alle idee generali, benché il loro significato non sia mai interamente disponibile né descrivibile da alcuno. Non sceglieremo tra le idee, ma sceglieremo tra pratiche guardando (bilanciando) le idee.
Indegno è che una vita decida di un’altra vita, questo sembra il filo conduttore del dialogo Habermas/Günther. Habermas, in verità, diffida delle gerarchie di valori; e diffida, in generale, del discorso assiologico introdotto direttamente nel diritto. Egli, tuttavia, costruisce dignità e personalità (inclusa la vita) come le determinanti di tutti i diritti fondamentali (non esse stesse diritti fondamentali) e per questa ragione non limitabili legislativamente. Non a caso Günther gli risponde sottolineando che la vita sia un diritto. La costruzione di Habermas, in fondo, restaura una concezione della vita e della dignità come valori giuridici fondativi di diritti. Sottolineare che esse siano diritti serve a ‘salvare’ il pensiero del Maestro: aveva appena sostenuto che nella costituzione vi siano diritti e non valori.
Günther – interpretando Habermas, che si dice d’accordo – immagina i cittadini come co-legislatori dei diritti fondamentali: i cittadini devono conformare non soltanto i propri diritti fondamentali ma anche, e soprattutto, le limitazioni legislative (introdotte per regolamentare i casi di conflitto tra diritti fondamentali) a personalità e dignità. Insomma per Habermas personalità e dignità sono la costituzione dei diritti fondamentali e questi ultimi devono essere interpretati in modo conforme ad esse.
Come scegliere, allora, tra alternative possibili, affinché siano preservate e la vita e la dignità? I due pensatori non indicano livelli ottimali né metriche confrontabili; essi credono che la risposta sia nella procedura, non nel risultato: la validità (e/o la vigenza) dei diritti fondamentali dipende dal loro inserimento nelle procedure democratiche. Significativamente Habermas conclude: «soltanto se l’obbedienza dei cittadini provenga da leggi che, essi stessi e tutti insieme, democraticamente si siano date, non potranno allora, tali cittadini, approvare una politica che, in spregio all’eguaglianza, metta a rischio la vita di uno per favorire gli interessi di tutti gli altri» [traduzione modificata][21].
Non esiste, quindi, il punto ottimale di equilibrio tra sacrificio delle vite dei malati e beneficio delle vite dei sani. Conta, dicono Habermas e Günther, che i cittadini decidano democraticamente; e nessuna decisione democratica potrebbe rendere le vite dei malati sacrificabili.
Questi cittadini, tuttavia, dovranno pur sapere su cosa decidono, quando riconoscono o negano la legittimità ad una pratica sanitaria o a una restrizione di libertà. Essi sanno che discorrono della loro ed altrui vita. Cosa sarebbe il discorso giuridico senza la vita?
Diritto alla vita non significa che la vita abbia bisogno del diritto per esistere, ma che nessuno abbia il potere di toglierla agli altri. Le pratiche mediche hanno inventato il potere di mantenerla, e non c’è alcuna novità nel fatto che esse siano scarse; né questo dipende dal progresso tecnico-scientifico: se gli uomini fossero convinti che un filtro magico salverebbe loro la vita, anch’esso ben presto sarebbe una risorsa scarsa e il problema giuridico non muterebbe. Del resto, erano (e sovente sono) scarsi gli antibiotici o i vaccini per i poveri in un mondo globale senza centro. In sintesi: il problema giuridico dell’allocazione della terapia è indipendente dalla falsificabilità scientifica della sua efficacia (tutto ciò che non è ancora falsificato, ed è creduto, è scarso).
Abbiamo tolto molte certezze: ma di quale vita dovremo allora parlare nelle nostre conversazioni costituzionali? Giungiamo al punto fondamentale: non della nostra, ma della vita in sé. Il tratto terribile della pandemia in atto è che l’apparentemente sano (il positivo asintomatico) può uccidere semplicemente respirandoci accanto. Mai era così chiaramente accaduto che la soggettività vivente fosse un’antifrasi heideggeriana: essere per la morte altrui. Tra i pochi fatti di felicità dell’intelletto di questo orrendo periodo dobbiamo ricordare la diffusa civile solidarietà della popolazione: il pericolo del contagio non ha prodotto la devastazione distopica, l’anarchica sopraffazione, che tanta narrativa aveva immaginato quale esito della modernità. Si è scoperta una nuova dimensione, nella quale l’attenzione al prossimo è data dalla distanza: una solidarietà, secondo la bella definizione di Massimo Recalcalti[22] (10), introversa eppure forte. È bastato, purtroppo, un minimo allentamento della paura, per far riemergere tutti gli egoismi furbastri degli imbecilli, che tutti giuravano non avrebbero mai più messo in campo.
La conseguenza giuridica immediata dell’introversione della solidarietà nella distanza è, per converso, il riemergere della dimensione collettiva della salute. Qui noi civilisti abbiamo non poche responsabilità: abbiamo per decenni privilegiato nell’art. 32 cost. il momento individuale della salute, trascurandone la dimensione pubblica, quasi si trattasse per quest’ultima di pura tecnica di amministrazione sanitaria. Il pubblico quale organizzazione della domanda privata di salute ha finito per corrompere l’immagine giuridica del diritto soggettivo: la salute, costruita unicamente nella prospettiva della richiesta del paziente di terapie e farmaci, ha generato un modello iperprivatistico, dominato dal mercato sanitario. Il malato, reale o potenziale, come un consumatore del bene salute si inscrive nel mercato sanitario: tutto ciò porta in secondo piano gli interventi di medicina sociale. Ecco che l’insistenza sui diritti soggettivi ha incrementato le opportunità per avvocati e assicuratori, ha offerto fin troppe tentazioni a uomini spregiudicati, ha generato la medicina difensiva, ha demolito il tessuto collettivo della vita. È tempo di ripensare a fondo, entro il diritto civile, la dimensione collettiva e internazionale della regolazione della salute: nessun diritto soggettivo alla salute propria può essere esercitato se confligge con la salute altrui, sarebbe carenza di solidarietà. L’eterodestinazione solidale di parte dei risarcimenti per danni, quando essi siano conseguenza di scelte illecite incidenti su collettività, potrebbe evitare azioni pretestuose e offrire un incentivo al riequilibrio tra dimensione individuale e collettiva del benessere.
Dobbiamo essere solidali, dobbiamo agire per salvare noi stessi attraverso la salvezza degli altri. Ma adesso bisogna decidere se i negozi restino chiusi, e quali; se alcune professioni possano essere vietate; se si possano celebrare i funerali, se si possa andare a passeggio. Per quanti giorni, per quante persone, in quali luoghi? Pensare che il bilanciamento dei valori offra una risposta precisa, e soprattutto unica, sarebbe follia. Dà forma, rende controllabili i nostri discorsi, replica chi crede nel bilanciamento: non li genera, ma li assiste, evita che degenerino in logomachie violente. Affronteremo meglio la questione. Adesso abbiamo invece strumenti sufficienti per cogliere da questo evento un modo diverso di ragionare giuridicamente sulla vita.
Tutta l’organizzazione sociale è retta sulla mortalità e l’incertezza della fine della vita di ciascuno. “Tutti dobbiamo morire” è sentito come Natura; Klaus Günther l’ha chiamata la «riserva del possibile»: nessun ordinamento può destinare tutte le sue risorse economiche al sistema sanitario. Eppure, se davvero esistesse una tecnologia per renderci immortali, impiegheremmo tutti tutte le risorse per averla (e ci sarebbe una guerra nella quale si uccide per l’immortalità). La disponibilità di tecnologie per l’allungamento della vita implica che esse saranno prodotte in quantità proporzionale alla percezione sociale dell’elevatezza del rischio di doversene servire. Se la pandemia proseguisse col ritmo di marzo/aprile 2020 in Italia, le terapie intensive crescerebbero cento volte.
La vera differenza introdotta dall’accelerazione tecnologica della medicina è che essa lavora sul confine tra vita e morte, prima reputato indisponibile. Le nostre scelte di vita non avvengono in un ambiente naturale; la morte è naturale, non lo è più la mortalità. Viviamo un’epoca nella quale la natura delle cose, l’equilibrio sociale spontaneo e indipendente dalle scelte dei singoli attori non ha più senso. Forse (forse) in passato ciascuno agendo per proprio conto dava alla realtà un contributo sempre diversificato, sì che produzioni, modi di vivere, opere si differenziassero coprendo l’intero arco di quella che si chiamava vita comune. Oggi ogni possibilità richiede scelte che muovono patrimoni e persone tali che ogni progetto intrapreso condanna alla scomparsa ogni progetto tralasciato. È un effetto della complessità sociale: se qualcosa per essere realizzata richiede lunghe progettazioni, immane divisione del lavoro, enormi investimenti, la differenziazione sociale non è più trattabile come un processo spontaneo.
Non possiamo prima chiederci (o chiedere all’ordinamento giuridico) se la salute sia un fine e se il distanziamento sociale sia un mezzo adeguato, necessario e proporzionato. La complessità ha eroso il dualismo di mezzi e fini, un universo nel quale le scelte di valore avrebbero dovuto riguardare soltanto i secondi. Quando un fine è definito da un mezzo, la scelta del mezzo è scelta del fine. E pertanto il giudizio di valore sul fine non è indipendente dal giudizio razionale sul mezzo. Il dualismo mezzo/fine riflette un mondo burocratico nel quale la produzione della vita vive nella società (meglio: nel mercato) ed è indipendente dalla decisione politico-giuridica che fornisce meramente la cornice. La produzione di macchine e pratiche sanitarie, invece, dipende da investimenti, dalle risorse destinate alla ricerca e alla formazione universitaria, e pensare di valutare la salute pubblica senza valutare quanto spendere e come sarebbe assurdo.
E allora, l’influenza?
Forse l’argomento più forte contro le pretese di collocare la difesa della vita al primo posto – quali che siano i costi per le altre libertà e il sistema economico – consiste nella mancata adozione di blocchi alla circolazione ecc., durante le “normali” epidemie influenzali di ogni inverno. Anche in quel caso qualcuno morirà; perché non bloccare tutti per tre mesi?
Se riconosciamo con franchezza che sono soltanto i numeri, i molti morti in più a fare la differenza (forse persino ancor più l’onta simbolica di un sistema sanitario che respinge i malati sulle scale degli ospedali), allora dobbiamo ammettere che non è la vita a dover essere protetta in ogni momento e contro tutto, ma soltanto una certa quantità di vita contro una certa quantità di limitazioni. La vita e la morte sono innanzitutto un racconto. Le nostre narrazioni sul rischio di morire nelle influenze ordinarie immaginano pochi soggetti in gravi condizioni di salute, sì che la loro ridotta aspettativa di vita e l’incertezza sul grado di efficienza causale dell’influenza nella multifattorialità di un decesso (“è morto di influenza? sì, ma era anziano e malato…”) pongono la fine della loro vita entro una cornice di storia naturale. La pandemia rompe gli schemi, presenta una serie di narrazioni imprevedibili (anziani che sopravvivono, giovani che muoiono) e soprattutto azzera quasi del tutto la multifattorialità (delle patologie pregresse).
Ad ogni evento facciamo quindi della ragioneria vitale? Confrontiamo incerte quantità di vita con incerte restrizioni alle libertà e opportunità di gioia e arricchimento? Può non piacere, come tutto ciò che è transpersonale. Ma è quello che dobbiamo fare: aver paura di perdere qualcosa e, pur di non perderla, sacrificarne un’altra. Nella perdita compromettiamo un valore; e chiamiamo ‘bilanciamento’ la nostra speranza di non aver perso per sempre ciò che si è lasciato andare. Piuttosto che affondare nel terzetto di proporzionalità, necessità e adeguatezza è meglio impegnarsi a definire ciò che si guadagna e si perde, quali le informazioni elaborate, quali le strategie, le prognosi, le verifiche, i criteri di correzione.
Ecco perché, per concludere sulla questione, nei conflitti di regolazione dell’attuale pandemia il punto di equilibrio tra vita e libertà non esiste. La vita della quale si qui parla non è quella del titolare del diritto, ma la vita che si propaga attraverso le generazioni; la libertà è invece quella dell’individuo, che però non avrebbe alcun senso se non fosse esercitata in un ambiente sano. Scegliamo per confronto tra opzioni concrete, non per atti di fede nei valori, senza i quali comunque non si potrebbe scegliere. Veniamo fuori dalla tragedia del decidere unicamente mediante la disposizione all’apprendimento sociale: qualsiasi norma viene giudicata assiologicamente efficiente non per quello che dice, ma per quello che fa. Non leggi la norma e dichiara, ma: osserva, decidi, osserva ancora e correggi[23].
Per rispondere finalmente alla domanda se le misure di contenimento sono state effettivamente informate ai principî di proporzionalità e adeguatezza cui si è, fin dall’inizio dell’emergenza, fatto riferimento, il ricorso ai criteri di bilanciamento (proporzionalità e adeguatezza) non offre soluzioni; l’unica strategia giuridica possibile è facilitare le condizioni di controllo dell’effettività.
Habermas mostra aperta diffidenza verso il bilanciamento, reputandolo (a torto) incompatibile con il linguaggio dei diritti (ma i diritti vengono dopo che le norme bilanciate li abbiano imputati quali effetti di fattispecie). Non mancano critiche all’inadeguatezza del bilanciamento rispetto alla complessità (così Karl-Heinz Ladeur)[24]; esso sarebbe soltanto una «metafora» (così Günter Frankenberg)[25] – con l’intento di renderlo solo un modo per consentire operazioni di autoapprendimento del diritto. Altri ancora ne negano in radice ogni utilità – è il caso di Alexander Somek[26] – convinti che il bilanciamento sia soltanto un modo di esprimere le nostre rappresentazioni abituali di ordine: perché, quando le cose vanno come sempre (il consueto mondo della vita), allora non c’è nulla da bilanciare, tutte le relazioni mezzo/fine restano implicite; quando, invece, tutto salta, allora si scoprono le relazioni mezzo/fine, ma proprio in quel momento non si riesce a ragionare, ci si affida alla tradizione o all’utopia, alla memoria o alla speranza.
È significativo osservare che la difesa delle ragioni del bilanciamento – presentata da Stephan Wagner nello scritto prima ricordato – asserisce che caratteristica saliente del bilanciamento è l’imprevedibilità dei suoi esiti: questa sarebbe garanzia della sussistenza dello stato democratico. La tesi è forte e coraggiosa; ma indebolire le capacità del bilanciamento significa indebolirne la legittimazione come forma necessaria della razionalità giuridica. Una volta che si riconosca che col bilanciamento si possa fare (se non tutto) molto, perché affidarsi ad esso e non tentare altre strade? Se il bilanciamento non individuasse la soluzione corretta, ma smascherasse soltanto, come dice Wagner, gli «errori evidenti», sarebbe agevole replicare che il gioco non vale la candela.
La bilancia ha due bracci, i valori sono molti, meglio: sono innumerabili. Come si pesano molteplici punti di vista in un’impossibile bilancia dai bracci infiniti? Il bilanciamento non è una metafora della morale o della giustizia, ma semplicemente del processo, ove i principi ammessi al bilanciamento sono null’altro che il senso normativo delle allegazioni delle parti. La bilancia del diritto ha due piatti, perché binaria è la struttura del processo. Il suo strumento principale, la proporzionalità, è un criterio di razionalità rispetto allo scopo, che finisce per realizzare soltanto gli scopi compatibili con la forma burocratica dell’agire. Ma se la distinzione mezzo/fine si incrina nella complessità, nel senso sopra indicato, si perde la capacità euristica del criterio. Questo traspare persino dall’analisi di Klaus Günther, il tentativo del quale di strutturare la proporzionalità come criterio di riduzione minimale dei diritti fondamentali in contesti di incertezza si infrange di fronte alla constatazione della perenne asserita dipendenza dei processi razionali dal consenso democratico.
Non è questa la sede per avviare una critica compiuta del bilanciamento. Ma anche in questo caso sembra davvero possa affermarsi che proprio là dove le scelte sono tragiche, perché distruttive di valori, e maggiore sarebbe l’esigenza di equilibrio e proporzione che tale metodo vorrebbe prometterci, più cocente è la delusione: non soltanto col bilanciamento non si riduce e talvolta persino si moltiplica l’incontrollabilità razionale del giudizio (poiché nessun bilanciamento ha un solo esito possibile), ma soprattutto si offre a strategie di sopraffazione (quella che asserisca improduttivo mantenere terapie intensive aperte occupate da anziani e fabbriche chiuse con operai non licenziabili): un comodo artificio retorico per chiamare ‘dignità umana oltre la vita’ la difesa di ricchezze individuali e posizioni di privilegio.
La pandemia rivela un altro lato debole del bilanciamento, sul quale i critici poco avevano prima portato l’attenzione: la velocità di reazione, l’effettività del rimedio della dichiarazione di illegittimità della norma ‘sbilanciata’ in contesti nei quali il tempo è fattore decisivo per l’effettività della norma. Se è decisivo per valutare la norma, è decisivo anche per il rimedio. Le ponderazioni richiedono tempo. E vincolare le ponderazioni alla sorveglianza dei loro effetti (è la conseguenza del discorso di Lepsius, che parla, come un Pascal involontario, di «scommessa») significa renderle ineffettive. Nessun sistema di controllo può intervenire quando una correzione (all’esito del controllo) giungerebbe troppo tardi per produrre qualunque effetto migliorativo. Una disposizione “emergenziale” è imponderabile ex post. Ex ante può essere prudente.
Resta allora il problema: se non serve ponderare, come valutare una regola emergenziale? Riconoscendo apertamente che essa è una scelta tra valori, legittimata dall’effettività. Chiariamo, perché ‘effettività’ significa fin troppe cose: la norma emergenziale (non diversamente ma soltanto più di qualsiasi norma) è una strategia, serve a; il controllo sull’effettività è la misurazione dei suoi risultati.
Quando gli effetti dell’inerzia non consistono in un protrarsi di disagi, ma nell’incremento esponenziale del numero di morti, i modelli decisionali hanno una dipendenza rispetto al tempo misurabile in pochi giorni, non mesi o anni. Il legislatore che governa flussi dinamici e incerti deve essere riflessivo. Agisce rapidamente raccogliendo le informazioni che può; e corregge la rotta, a seconda del flusso di informazioni, che nel frattempo prosegue, e sugli effetti delle misure prese e sulle potenzialità, nel frattempo apprese, proprie di misure alternative.
Ma come reagire contro un governante irriflessivo? Attraverso una rete di comunicazioni polisistemiche. Non sarà la dichiarazione di illegittimità di un decreto a fermare o correggere il governo. Sarà il timore di perdere il controllo: dell’evento, del consenso e del flusso informativo. La magistratura – piuttosto che mettersi a compitare la ragioneria dei valori che troppo spesso circola nelle retoriche della ponderazione (con giudizi dagli esiti incerti, controvertibili e fin troppo sensibili alle ideologie) – dovrebbe con determinazione proteggere il circuito di tali comunicazioni, impedendo qualsiasi tentativo di distorsione (fake news, manipolazione occulta del consenso mediante tecniche psicometriche come in Cambridge Analytica), soprattutto sui canali informativi non editoriali (i social media: Facebook, Instagram, Twitter), la cui potenza formativa della sfera pubblica è assai maggiore di qualsivoglia rete televisiva o giornale. Un buon flusso di informazioni agevolerà la diffusione di ricerche e critiche, migliorerà la conoscenza della sensibilità sociale, consentirà di controllare le sovra- e sottoinclusività proprie di ogni strategia regolativa, secondo la distinzione analizzata da Frederick Schauer[27].
C’è qualcosa di impietoso in questo discorrere serale, mentre svanisce la memoria dei morti. Forse un’eco del marcio nel diritto, del prima evocato Benjamin. Ragionare in mezzo al dolore degli altri e alla propria paura: eppure non c’è altro mezzo per umanizzare la vita della specie umana che si difende, a prescindere dai suoi soggetti. Siamo chiamati ad essere umani decidendo della quantità di vita, con informazioni approssimative, sensazioni e tentativi. Forse l’umanità è null’altro che fragilità. Il dolore collettivo può generare mostri. Il diritto mette al riparo dalla guerra civile, non dalla crudeltà: non riesce a ragionare con le categorie del male, se non attraverso lo schermo della colpa. Deve adesso umilmente apprendere dall’esperienza dei suoi fallimenti.
[1]I diritti attribuiscono ai loro titolari la possibilità di avanzare sulle risorse, materiali o immateriali, pretese che, data la scarsità naturale, e l’alto livello di interdipendenza esistente nelle moderne società complesse, possono entrare sistematicamente in conflitto con le preferenze di altri. DENOZZA, Francesco. Norme efficienti: l'analisi economica delle regole giuridiche. Giuffrè, 2002, p. 4ss.
Con specifico riferimento al diritto alla salute, v. EPSTEIN, Richard A., Living Dangerously: A Defense of "MortalPeril", U. of Illinois L. Rev., 1998, 909,914 il quale rileva che la resistenza nei confronti dell’idea che le persone possono essere lasciate morire non tiene conto del fatto che le risorse spese per tenere in vita una persona possono essere spesso alternativamente impiegate per curarne molte altre. Sempre a titolo esemplificativo v. anche POSNER, Eric A, Human Welfare, Not Human Rights, in Columbia L.Rev. 2008, 1758, 1771, che sottolinea i possibili conflitti tra l’impiego di risorse in spese per la salute, per l’educazione o per la sicurezza pubblica.
[2]Non si tratta del noto discorso relativo alle diverse generazioni di diritti e ai loro differenti costi strettamente materiali (predisposizione di apparati per la loro attuazione, ecc.: v. in argomento il famoso lavoro di HOLMES, Stephen; SUNSTEIN, Cass R. The cost of rights: why liberty depends on taxes. WW Norton & Company, 2000). Il discorso dell’analisi economica del diritto si muove ad un livello più profondo e più generale che considera costo qualsiasi diminuzione del benessere di qualunque soggetto coinvolto.
[3]Office of the High Commissioner for Human Rights, CESCR General Comment No.14, The right to the highest attainable standard of health, E/C.12/2000/4, Para 8.
[4]Quando si afferma, giustamente, che occorre una urgente correzione di politiche che hanno fortemente ridotto la spesa sanitaria in generale e quella pubblica in particolare, bisognerebbe anche aprire un discorso, molto più complicato, che valuti criticamente il modo in cui si formano i cosi che la sanità deve affrontare. Tornando al tema del rapporto diritti – costi ( e alle osservazioni e citazioni di cui alla nota 1) è stato polemicamente osservato che se è vero che “ all rights have a cost“ così è anche vero che “ All Costs Have a Right” ( tale è il titolo dell’intervento di McCluskey, Martha T., in Pasquale, F.; Palladino, L.; McCluskey, M. T.; Haskell, J. D.; Kroncke, J. J.;Moudud, J. K.; Carrillo, R.; Grey, R.; Varellas, J.; Dibadj, R. , Eleven things they don't tell you about law economics: An informal introduction to political economy and law, Law and Inequality: Journal of Theory and Practice, 2019, 97-148). Il fatto è che il modo in cui viene organizzato un certo sistema ( distribuendo titoli giuridici, limitando libertà, creando istituzioni, ecc.) è il primo fattore che determina i costi che poi verranno invocati contro la possibilità di riconoscere altri diritti. Dietro i costi che impediscono di riconoscere un diritto ad alcuni, c’ è spesso, non una legge naturale, ma un diritto riconosciuto ad altri.
L’esempio dei brevetti per i medicinali è in questo senso chiarissimo. Se viene smantellata la ricerca pubblica, e tutto viene affidato al costosissimo sistema brevettuale ( si pensi, al riguardo, anche solo alle duplicazioni e ai conseguenti sprechi implicati dalla ricerca competitiva) è poi inevitabile che la sanità venga ad avere un costo a priori indefinibile e spesso insopportabile.
Non basta perciò affermare la giusta necessità di potenziare la sanità pubblica. Occorre anche pensare a come riformare tutta l’organizzazione del sistema “privato” che ci sta dietro, e che contribuisce a determinarne i costi.
[5]Come osservava ARROW, Kenneth, ‘Some Ordinalist-Utilitarian Notes on Rawls’s Theory of Justice’, in Journal of Philosophy , 1973, 245, 251, in polemica con il criterio rawlsiano del maximin “...there can easily exist medical procedures which serve to keep people barely alive but with little satisfaction and which are yet so expensive as to reduce the rest of the population to poverty”
[6]Mi riferisco ovviamente al conflitto che si manifesta a livello di policy, là dove si decide in prima battuta sull’assegnazione delle risorse più che al conflitto tra diritti in senso tecnico. Sulla distinzione v.ad es. ZUCCA, Lorenzo. Conflicts of fundamental rights as constitutional dilemmas. Sant’Anna Legal Studies, n. 16/2008, in partic. p. 26.
[7] CALABRESI, Guido; BOBBITT, Philip. Tragic choices. 1984; v. pure BOBBITT, Philip; CONTI, Roberto, Tragic choices, 42 anni dopo. Philip Bobbitt riflette sulla pandemia, in questa Rivista (https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/1049-tragic-choises-43-anni-dopo-philip-chase-bobbitt-riflette-sulla-pandemia)
[8]RAWLS, John, A Theory of Justice. 1971, 27.
[9]Da un punto di vista diverso da quello illustrato di seguito nel testo, il dato per cui l’esistenza e la natura della scelta tragica dipendono dal tipo di società in cui la scelta si pone è sottolineato anche da Calabresi e Bobbitt, n. 6, 177 ss.
[10]NUSSBAUM, Martha. Tragedy and human capabilities: a response to Vivian Walsh. Review of Political Economy, 2003, 15.3: 413, 415; Flawed foundations: the philosophical critique of (a particular type of) economics. The University of Chicago Law Review, 1997, 64.4: 1197,1203 n.17.
[11]Questa è la conclusione cui è pervenuto uno studioso, che ha dedicato all’approfondimento di questi problemi importanti lavori e che è ha finito per attribuire prevalente importanza al modo in cui la scelta viene elaborata ( v. la sintesi dell’evoluzione del suo pensiero al riguardo in DANIELS, Norman. Health justice, equality and fairness: Perspectives from health policy and human rights law. The Equal Rights Review, 2011, 6: 127-138.
[12] Gilles Deleuze, L’immanence: une vie..., in Philosophie, 47 (1995), pp. 3-7 (trad. it. di F. Polidori, Immanenza: una vita…, Mimesis, Milano 2010)
[13] Giorgio AGAMBEN, Biosicurezza e politica (11 maggio 2020), in https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-biosicurezza
[14] Walter BENJAMIN, Zur Kritik der Gewalt [1921], in ID., Gesammelte Schriften (R. Tiedemann - H. Schweppenhäuser, Hrsgg.), II, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1991, pp. 179-203
[15] Christoph MÖLLERS, Parlamentarische Selbstentmächtigung im Zeichen des Virus, in VerfBlog, 2020/3/26, https://verfassungsblog.de/parlamentarische-selbstentmaechtigung-im-zeichen-des-virus/
[16] Wolfgang SCHÄUBLE, Schäuble will dem Schutz des Lebens nicht alles unterordnen (Interview), in Der Tagesspiegel, 26/04/2020, https://www.tagesspiegel.de/politik/bundestagspraesident-zur-corona-krise-schaeuble-will-dem-schutz-des-lebens-nicht-alles-unterordnen/25770466.html
[17] Carla BAGNOLI, Teoria della responsabilità, il Mulino, Bologna 2019
[18] Philip BOBBITT, CONTI, Roberto, Tragic choices, 42 anni dopo. Philip Bobbitt riflette sulla pandemia, cit.
[19] Stephan WAGNER, Leben in der Abwägung, in VerfBlog, 2020/5/14, https://verfassungsblog.de/leben-in-der-abwaegung/
[20] Oliver LEPSIUS, Vom Niedergang grundrechtlicher Denkkategorien in der Corona-Pandemie, in VerfBlog, 2020/4/06, https://verfassungsblog.de/vom-niedergang-grundrechtlicher-denkkategorien-in-der-corona-pandemie/
[21] Klaus GÜNTHER e Jürgen HABERMAS, Kein Grundrecht gilt grenzlos, in Die Zeit, 20/2020, 7. Mai 2020
[22] Massimo RECALCATI, Una comunità di solitudini, in DoppioZero, 19 marzo 2020, https://www.doppiozero.com/materiali/una-comunita-di-solitudini
[23] Margrit SECKELMANN, Evaluation und Recht: Strukturen, Prozesse und Legitimationsfragen staatlicher Wissensgewinnung durch (Wissenschafts-)Evaluationen, Mohr, Tübingen 2018
[24] Karl-Heinz LADEUR, Kritik der Abwägung in der Grundrechtsdogmatik, Mohr, Tübingen 2004
[25] Günter FRANKENBERG, COVID-19 und der juristische Umgang mit Ungewissheit, in VerfBlog, 2020/4/25, https://verfassungsblog.de/covid-19-und-der-juristische-umgang-mit-ungewissheit/
[26] Alexander SOMEK, Die neue Normalität, in VerfBlog, 2020/5/06, https://verfassungsblog.de/die-neue-normalitaet/
[27] Frederick SCHAUER, Playing by the Rules: A Philosophical Examination of Rule-Based Decision-Making in Law and in Life, Clarendon, Oxford 1991 (trad. it. Le regole del gioco, il Mulino, Bologna 2000)
L’informazione antimafia come “frontiera avanzata” (nota a sentenza Consiglio di Stato Sez. III n. 3641 dell’08.06.2020)
Renato Rolli
Sommario: 1. Premessa: la vicenda contenziosa - 2. I presupposti dell’informativa antimafia ed il principio del più probabile che non - 3. Riflessioni conclusive: la informazione antimafia come frontiera avanzata.
1.Premessa: la vicenda contenziosa
Circa l’ampiezza dei poteri del Prefetto nell’applicazione della misura amministrativa dell’informazione antimafia[1] è doveroso segnalare una importantissima pronuncia del Consiglio di Stato: la numero 3641 del 2020.
Il Consiglio di Stato è stato chiamato a decidere, in sede di appello, sulla riforma della sentenza del Tar Reggio Calabria dell’11.02.2019, il quale aveva respinto il ricorso proposto per l’annullamento, tra l’altro, di una informazione interdittiva antimafia emessa nei confronti di una società di gastronomia da asporto e di somministrazione di alimenti e bevande.
Fin da subito è doveroso evidenziare che il provvedimento prefettizio prende le mosse da un quadro indiziario piuttosto preoccupante: la società appellante annoverava come amministratore unico una signora, dipendente di una altra società destinataria, a sua volta, di certificazione antimafia interdittiva; la signora in questione aveva svolto nel 2015 attività domestica familiare al servizio di un certo personaggio, socio unico e amministratore unico nel 2016 della seconda società summenzionata, nonché notariamente legato, per vincoli familiari e non, a soggetti appartenenti alla cosca della ‘ndragheta; tale soggetto ha avuto una partecipazione sociale anche nell’ambito della società appellante; le due società, poi, vantavano la medesima sede legale; esisteva un rapporto di continuità lavorativa tra le due società, in quanto la società appellante aveva rilevato la totalità dei beni della prima società colpita da interdittiva, mettendovi, dunque, a capo un soggetto privo di mezzi e di esperienza, il quale, peraltro, ha rassegnato le dimissioni successivamente al rigetto (in I e II grado) dell’istanza di sospensione degli atti avversati.
Pertanto, la Prefettura, valorizzando tali elementi, ha reputato sussistente un rapporto di continuità tra le due società tale da far emergere il malcelato fine di nascondere il reale assetto gestionale delle stesse e da far ritenere che la società appellante potesse essere condizionata dalla criminalità organizzata.
Il Tar ha dato seguito a questa ricostruzione, sulla scorta del principio “imperatore” in materia di interdittiva antimafia, ovverosia quello del più probabile che non.
La interpretazione del I grado ha trovato, poi, conferma in sede di appello, ove il Consiglio di Stato ha sic et simpliciter ampliato l’impianto motivazionale a fondamento del rigetto del gravame, contestando puntualmente ogni eccezione dell’appellante, non senza il supporto della folta giurisprudenza pregressa, contraddistinguendosene, nello stesso tempo, per aver posto l’accento – come vedremo - sulla funzione di frontiera avanzata dell’informativa antimafia[2].
2. I presupposti dell’informativa antimafia ed il principio del più probabile che non
Tanto testé premesso, è opportuno ripercorrere le tappe fondamentali dell’iter logico che hanno condotto i Giudici di Palazzo Spada a rigettare l’appello proposto dalla società interdetta all’auspicato fine di fare luce sul complesso bilanciamento degli interessi in gioco: tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica, da un lato, e libertà di iniziativa economica riconosciuta dall’art. 41 Cost., dall’altro[3].
Bilanciamento, quest’ultimo, che deve esser sempre ponderato durante la valutazione giudiziale, onde evitare la sciagurata degradazione attuativa da diritto amministrativo della prevenzione a diritto della paura e del sospetto (quest’ultimo di tipo certamente afflittivo)[4].
Partendo dal dato normativo, l’art. 84, co.3, del d.lgs. n. 159 del 2011 (Codice antimafia), nel definirne il concetto, riconosce quale elemento fondante l’informativa antimafia la sussistenza di “eventuali tentativi” di infiltrazione mafiosa “tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate”.
Dunque, la ratio di tale norma, e, di riflesso, di tutto il diritto amministrativo della prevenzione[5], risiede incontrovertibilmente nella finalità di scongiurare ogni minaccia per la pubblica sicurezza, l’infiltrazione mafiosa nell’attività imprenditoriale e la probabilità che siffatto “evento” si realizzi, e non nel sanzionare fatti penalmente rilevanti nè nel reprimere condotte illecite. D’altro canto, il pericolo dell’infiltrazione mafiosa non può sostanziarsi in un mero sospetto, ma deve ancorarsi a condotte sintomatiche e basarsi su una serie di elementi fattuali, taluni tipizzati dal legislatore (art. 84, co.4, codice antimafia), mentre altri, “a condotta libera”, lasciati al prudente e motivato apprezzamento dell’autorità amministrativa[6].
A fronte di quanto disposto dal legislatore della prevenzione, la giurisprudenza è granitica nel ritenere che l'informazione antimafia implica una valutazione discrezionale da parte dell'autorità prefettizia in ordine al pericolo di infiltrazione mafiosa, capace di condizionare le scelte e gli indirizzi dell'impresa. Tale pericolo, però, richiede una valutazione da fondarsi su di un ragionamento induttivo, di tipo probabilistico, che non richiede, pertanto, di attingere un livello di certezza oltre alla soglia del ragionevole dubbio (tipica dell'accertamento finalizzato ad affermare la responsabilità penale), e quindi fondato su prove, ma implica una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza, sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti, sì da far ritenere “più probabile che non”, appunto, il pericolo di infiltrazione mafiosa.
Ed invero, l'interdittiva antimafia, per la sua natura cautelare e per la sua funzione di massima anticipazione della soglia di prevenzione, non richiede la prova di un fatto, ma solo la presenza di una serie di indizi in base ai quali non sia illogico o inattendibile ritenere la sussistenza di un collegamento con organizzazioni mafiose o di un condizionamento da parte di queste[7].
Tali orientamenti giurisprudenziali rappresentano il fulcro motivazionale della sentenza di II grado: nel caso in esame, le “spie d’allarme” rivelatrici della continuità lavorativa tra la società appellante e altra società già interdetta sono molteplici e disseminate nei diversi frammenti di cui si compone la fattispecie, dall’intimo legame[8] dell’amministratore della prima con l’amministratore della seconda, quale soggetto notoriamente affiliato all’ambiente mafioso, alla condivisione della sede legale tra le due società, le quali non possono dirsi estranee l’una all’altra per la mera differenza dell’oggetto sociale.
Il Consiglio di Stato apprezza il richiamo compiuto dal Tar ai legami familiari che hanno caratterizzato la gestione delle due società interessate, poiché “le decisioni del responsabile di una società e la sua attività possano essere influenzate, anche indirettamente, dalla mafia attraverso la famiglia, o da un affiliato alla mafia mediante il contatto con il proprio congiunto”.
Quanto al fondamento del pericolo di infiltrazione mafiosa sui legami familiari intercorrenti tra i soci delle due società, è bene osservare che se da un lato, vi è parte della giurisprudenza che sostiene che in sede di interdittiva antimafia il criterio del c.d. “più probabile che non” non può giungere ad affermare che l’imprenditore, il quale abbia rapporti di parentela, anche molto prossimi, con un indiziato di appartenenza mafiosa, sia permeabile all’infiltrazione se alla mera relazione familiare non si accompagnino, in concreto, anche elementi indicativi di stretti collegamenti[9], dall’altro lato, si rileva come nella specie questo orientamento non venga affatto disatteso. Ed invero, ai legami familiari si accompagnano tutti gli elementi summenzionati, tra cui la presenza, seppur con diverso peso, in entrambe le compagini societarie considerate di un soggetto affiliato alla mafia, e la comune residenza di tale soggetto e dell’amministratore unico, poi dimessosi, della società appellante, così da integrare, peraltro, il presupposto dalla stabile convivenza ex art. 84, comma 4, lett. f), d.lgs. n. 159 del 2011. Tanto considerato non può che avere l’effetto di ritenere che tra le due società vi sia una continuum di attività imprenditoriale[10].
Orbene, se il mero legame di parentela non è di per sé sufficiente a contaminare con i sospetti di contiguità alla criminalità organizzata, nel caso in esame, i giudici hanno tenuto giustificatamente in considerazione che ai legami familiari si accompagnano ulteriori fattori di rischio: la condivisione di aspetti della vita quotidiana, le cointeressenze economiche o comunque alcuni collegamenti tali da far supporre una comunanza di attività[11].
I Giudici di Palazzo Spada, infatti, ben descrivono, soprattutto nelle realtà locali, la mafia come fenomeno organizzativo di tipo particellare in grado di manipolare ed influenzare i comportamenti di chi vi entra in contatto direttamente o indirettamente.
Né sarebbe potuto essere argomento convincente[12] quanto eccepito circa la “fedina penale pulita” dell’amministratore unico, poi dimessosi, della società appellante colpita da interdittiva, poiché tale provvedimento risponde ad una logica probatoria diversa da quella tipica degli accertamenti di natura penale e non deve necessariamente collegarsi a provvedimenti giurisdizionali o a misure preventive di altro tipo, la cui proposta di adozione o il cui provvedimento di applicazione, siano esse misure di natura personale o patrimoniale, non a caso figurano tra gli elementi dai quali è possibile desumere il rischio di infiltrazione mafiosa[13]; né, a fortiori, è richiesto un accertamento penale definitivo[14].
E’ innegabile, quindi, che nella specie sussistano prepotentemente i gravi, precisi e concordanti indizi circa il pericolo di infiltrazione mafiosa, in ossequio, appunto, al criterio del più probabile che non, e come tali indizi siano stati ben assunti a fondamento dell’informazione antimafia dal Prefetto di Reggio Calabria.
All’uopo, è doveroso rammentare come l’informazione antimafia rappresenti una forma di documentazione avente un duplice contenuto: per un verso trattasi di un contenuto vincolato simile a quello della comunicazione antimafia ( altro atto che compone la documentazione antimafia) che conferma la sussistenza o meno di cause impeditive all’esercizio dell’attività imprenditoriale, per altro verso trattasi di un contenuto di tipo discrezionale, nella parte in cui il Prefetto valuta la sussistenza o meno di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa nelle attività d’impresa, desumibili secondo la sussistenza o meno degli elementi indizianti di cui all’art.84, c.4, d.lgs. 159/2011[15].
3. Riflessioni conclusive: l’informazione antimafia come “frontiera avanzata”
Il particolare pregio del dictum giudiziale risiede non solo nell’aver messo in luce con esaustività i tratti salienti degli eventi susseguitesi nella specie e nell’aver ricostruito il lungo iter giurisprudenziale che ha condotto ad una più compiuta individuazione dei presupposti di operatività dell’interdittiva, ma anche nell’averne evidenziato la veste e la funzione di “frontiera avanzata” per la tutela dei valori fondanti la democrazia. Nozione, questa, che, nella sua singolarità, riassume perfettamente la natura, da sempre controversa, dell’informazione antimafia.
In particolare, in merito alla discrezionalità prefettizia sottesa alla valutazione degli elementi sintomatici dell’infiltrazione mafiosa, il Giudice di II grado afferma che: “la sopra richiamata funzione di “frontiera avanzata” dell’informazione antimafia nel continuo confronto tra Stato e anti-Stato impone, a servizio delle Prefetture, un uso di strumenti, accertamenti, collegamenti, risultanze, necessariamente anche atipici come atipica, del resto, è la capacità, da parte delle mafie, di perseguire i propri fini. E solo di fronte ad un fatto inesistente od obiettivamente non sintomatico il campo valutativo del potere prefettizio, in questa materia, deve arrestarsi” (Cfr. Cons. St., Sez. III, 30 gennaio 2019, n. 758).
Se, pertanto, da un lato, il potere prefettizio non debba concretizzarsi mai nella cd. “pena del sospetto”, dall’altro, si osserva come la libertà “dalla paura”, obiettivo al quale devono tendere gli Stati democratici, si realizza smantellando ex nuce le fitte reti e le gabbie che le mafie costruiscono, a scapito dei cittadini, delle imprese e talora anche degli organi elettivi delle amministrazioni locali[16].
Strumentale a tale fine, non può non essere, talvolta, e con tutti i rischi che ne derivano, una legge formulata volutamente in termini più o meno vaghi, e tanto sulla scorta dell’insegnamento della Corte Europea dei diritti umani circa il concetto di legittimità sostanziale: “la legge deve essere in grado di tenere il passo con il mutare delle circostanze”, conseguendone che “molte leggi sono inevitabilmente formulate in termini che, in misura maggiore o minore, sono vaghi”, sicchè da garantire una certa discrezionalità, seppure non illimitata, in capo all’autorità amministrativa[17] di valutare ogni elemento, anche atipico, al fine di tutelare con effettività l’interesse pubblico. Discrezionalità prefettizia che chiaramente non può mai divenire arbitrio, ma è tenuta sempre ad ancorarsi ad un equilibrato apprezzamento del rischio infiltrativo in chiave di prevenzione secondo corretti canoni di inferenza logica[18].
L’informazione antimafia riveste il ruolo di frontiera avanzata poiché è la più immediata barriera posta dall’ordinamento al fine di persuadere la mafia dall’intento di avvicinarsi, tramite le società, alla cosa pubblica[19]. Uno Stato, infatti, è veramente solido nella sua struttura istituzionale quando, fiducioso dei suoi mezzi, non consente ad agenti patogeni esterni di aggredirne il sistema, attivandosi previamente per scongiurare ogni rischio[20] in tal senso.
La valutazione prefettizia in materia deve essere, quindi, scudo quando si innesca per difendere il buon andamento della res publica dalla minaccia di infiltrazione mafiosa, che, come un cancro con le sue metastasi, “infetterebbe” vene e circuiti della P.a. (soprattutto nell’ambito degli appalti[21]), e spada nel momento in cui, in concreto, reprime questa minaccia prima che sia troppo tardi mediante l’adozione della informativa antimafia.
In altri termini, la finalità di anticipazione della tutela del sostrato economico-sociale, che contrassegna l’interdittiva antimafia, svincola la potestà prefettizia dalle logiche penalistiche di accertamento «oltre ogni ragionevole dubbio», dovendo valutare il pericolo di inquinamento mafioso dell’impresa, sulla base del giudizio preventivo e discrezionale del richiamato canone del più probabile che non[22].
Avendo delineato la ratio del provvedimeno interdittivo, non v’è dubbio che la sentenza n. 3641 del 2020, nel confermare l’apprezzamento di I grado sull’operato del Prefetto di Reggio Calabria, certamente, si pone nella medesima ottica.
[1] Di recente sul tema, O.Morcavallo, L’informazione interdittiva antimafia, Giuffrè, 2019.
[2] Dall'alternatività dei criteri Engel discende altresì che, in applicazione questa volta del criterio della severità, devono essere ricondotte alla nozione di “materia penale” anche le sanzioni di natura ripristinatoria che incidono in modo rilevante sulla sfera giuridica dei soggetti cui vengono irrogate. […]
Sempre in virtù del criterio della severità, dovrebbero essere considerati di “natura penale” anche tutti quei provvedimenti, come ad esempio le informative interdittive antimafia e i provvedimenti di commissariamento delle imprese disposti ai sensi dell'art. 32 del D.L. n. 90/2014, che, pur non avendo teoricamente funzione sanzionatoria (136) , finiscono, comunque, per comportare gravissime conseguenze economiche nei confronti dei loro destinatari. Tali provvedimenti, infatti, quali che sia la loro funzione (preventiva o punitiva), sembrano indubbiamente presentare qual carattere di severità bastevole per la giurisprudenza della Corte EDU analizzata in precedenza per considerare una data misura comunque sottoposta alle garanzie di matrice penalistica (P. Provenzano, Note minime in tema di sanzioni amministrative e “materia penale”, in Rivista Italiana di Diritto Pubblico Comunitario, fasc.6, 1 dicembre 2018, p. 1073).
[3] Cons. di Stato, Sez. III, 6 marzo 2019, n. 1553; dello stesso tenore, di recente, il T.A.R. Napoli , sez. I , 13/01/2020 , n. 155: “La formula elastica adottata dal legislatore nel disciplinare l'informativa interdittiva antimafia su base indiziaria rinviene dalla ragionevole esigenza di bilanciamento tra la libertà di iniziativa economica riconosciuta dall' art. 41 Cost. e l'interesse pubblico alla salvaguardia dell'ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della P.A.”.
[4] Sul punto, il Consiglio di Stato, Sez.III, con sentenza n. 6105 del 5 settembre 2019, in merito al corretto esercizio del potere prefettizio di adozione dell’informativa antimafia, ha chiarito che il sistema della prevenzione amministrativa antimafia non costituisce e non può costituire, in uno Stato di diritto democratico, un diritto della paura, perché deve rispettare l’irrinunciabile principio di legalità, non solo in senso formale ma anche sostanziale.
[5] La nuova legislazione antimafia persegue, per finalità di sicurezza pubblica e di contrasto alla criminalità organizzata di stampo mafioso, l'obiettivo di prevenire le infiltrazioni mafiose nelle attività economiche non solo nei rapporti dei privati con le pubbliche amministrazioni (contratti pubblici, concessioni e sovvenzioni), mediante lo strumento delle informazioni antimafia (art. 90-95 del d. lgs. n. 159 del 2011), ma anche quello di inibire l'esercizio dell'attività economica, nei rapporti tra i privati stessi, mediante lo strumento delle comunicazioni antimafia (artt. 87-89 del d. lgs. n. 159 del 2011), richieste per l'esercizio di qualsivoglia attività soggetta ad autorizzazione, concessione, abilitazione, iscrizione ad albi, o anche alla segnalazione certificata di inizio attività (c.d. s.c.i.a) e alla disciplina del silenzio assenso (art. 89, comma 2, lett. a) e lett. b) del d. lgs. n. 159 del 2011) (in questi termini, M.Noccelli, I più recenti orientamenti della giurisprudenza amministrativa sul complesso sistema antimafia, in Foro Amministrativo (II), fasc. 12, 1 marzo 2017, p. 2524).
[6] Cons. di Stato, Sez.III , 3 aprile 2019, n.2212.
[7] T.A.R. Napoli , Sez. I , 1 febbraio 2019 , n. 553.
[8] I due soggetti, oltre ad essere parti di un rapporto di lavoro domestico, condividono la medesima residenza.
[9] Sul punto cfr. T.A.R. Bari, Sez. III, 16 luglio 2018, n. 1084.
[10] Sul punto il Consiglio di Stato sez. III, 27/12/2019, n.8882 ha chiarito che: “uno degli indici del tentativo di infiltrazione mafiosa nell'attività d'impresa - di per sé sufficiente a giustificare l'emanazione di una interdittiva antimafia - è identificabile nella instaurazione di rapporti commerciali o associativi tra un'impresa e una società già ritenuta esposta al rischio di influenza criminale, in ragione della valenza sintomatica attribuibile a cointeressenze economiche particolarmente pregnanti”.
[11] G.Romano, Interdittiva antimafia, il semplice legame di parentela non dimostra contiguità alla criminalità organizzata, in SalvisJuribus, 6 agosto 2018.
[12] D’altronde, il Consiglio di Stato sez. III, con sentenza del 09/04/2019, n.2324, ha ritenuto che l'interdittiva antimafia può essere superata soltanto se sono dimostrati fatti che attestino l'inattendibilità della situazione rilevata in precedenza (“Il superamento del rischio di inquinamento mafioso è da ricondursi non tanto al trascorrere del tempo dall'ultima verifica effettuata senza che sia emersa alcuna evenienza negativa, bensì al sopraggiungere di fatti positivi che persuasivamente e fattivamente introducano elementi di inattendibilità della situazione rilevata in precedenza”).
[13] Ex multis cfr. T.A.R. Napoli, Sez. I , 2 marzo 2020 , n. 970.
[14] Cfr. T.A.R. Catanzaro, Sez. I, 24 febbraio 2020, n. 350.
[15] Si veda C. Venturi, Le certificazioni, le comunicazioni e le informazioni previste dalla normativa antimafia, in Tuttocamere – Normativa antimafia, 20 Febbraio 2008.
[16] Cfr. Consiglio di Stato, Sez. III, 5 settembre 2019, n. 6105.
[17] Corte eur. dir. uomo, 23 febbraio 2017, De Tommaso c. Italia.
[18] M. A. Sandulli, Osservatorio sulla Giustizia Amministrativa, in Foro Amministrativo (Il), fasc.9, 1 settembre 2019, p. 1377.
[19] Sul punto, si rammenti che l’informativa antimafia ha conseguenze giuridiche piuttosto notevoli. Ed invero, l'interdittiva prefettizia, che provoca “una particolare forma di incapacità giuridica, e dunque la insuscettività del soggetto (persona fisica o giuridica) che di esso è destinatario ad essere titolare di quelle situazioni giuridiche soggettive (diritti soggettivi, interessi legittimi) che determinino (sul proprio cd. lato esterno) rapporti giuridici con la Pubblica Amministrazione (Cons. Stato, sez. IV, 20 luglio 2016 n. 3247). Si tratta di una incapacità giuridica prevista dalla legge a garanzia di valori costituzionalmente garantiti e conseguente all'adozione di un provvedimento adottato all'esito di un procedimento normativamente tipizzato e nei confronti del quale vi è previsione delle indispensabili garanzie di tutela giurisdizionale del soggetto di esso destinatario. Essa è: — parziale, in quanto limitata ai rapporti giuridici con la Pubblica Amministrazione, ed anche nei confronti di questa limitatamente a quelli di natura contrattuale, ovvero intercorrenti con esercizio di poteri provvedimentali, e comunque ai precisi casi espressamente indicati dalla legge (art. 67 d.lgs. n. 159/2011); — tendenzialmente temporanea, potendo venire meno per il tramite di un successivo provvedimento dell'autorità amministrativa competente (il Prefetto) (così, G. Leone, L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato alle prese con l'interdittiva prefettizia antimafia e la teoria dell'interpretazione, in Foro Amministrativo (II), fasc. 6, 1 settembre 2018, p. 1103).
[20] Non si è mancato di osservare l’informativa antimafia come una misura particolarmente afflittiva che si colora di carattere sia amministrativo, sia, in un’ottica sostanzialistica, penale, attesa anche la sua natura a carattere indiziante. All’uopo, si fa riferimento alla concezione sostanzialistica della Corte Edu in tema di sanzioni penali, affermata in primis dalla sentenza della Grande Camera, 8 giugno 1976 (ric. 5100/71; 5101/71; 5102/71; 5354/72; 5370/72), Engel e altri c. Paesi Bassi, §82 (8 giugno 1976, serie A n. 22); ma sul punto si ricorda anche il dibattito sulla natura sostanzialmente penalistica, o para-penalistica, da attribuire alle sanzioni da responsabilità amministrativa delle società e degli enti di cui al d.lgs. 231/2001, su cui v., ex multis, C.E.Paliero, La responsabilità penale della persona giuridica nell’ordinamento italiano: profili sistematici, in F.Palazzo (a cura di), Societas puniri potest, Padova, 2003, p. 19 s.; T.Padovani, Il nome dei principi e il principio dei nomi: la responsabilità “amministrativa” delle persone giuridiche, in G.De Francesco (a cura di), La responsabilità degli enti: un nuovo modello di giustizia “punitiva”, Torino, 2004, pp. 16 e ss.; nonché N.Selvaggi – A. Fiorella, Compliance programs e dominabilità 'aggregata' del fatto. Verso una responsabilità da reato dell'ente compiutamente personale, in Diritto Penale Contemporaneo (Riv. trim.), 2014, III-IV, pp.105 e ss.
[21] V.Di Iorio, Informative interdittive antimafia, in l’Amministrativista – Il Portale sugli appalti e i contratti pubblici, 10 gennaio 2017.
[22] P.M.Zerman, Lotta alle infiltrazioni nelle imprese, vanno valutati fatti concreti, in ilSole24 ore, 25 settembre 2019.
L’etica del magistrato. Esiste ancora? di Alfonso Amatucci
Intervista di Giuseppe Amara ad Alfonso Amatucci
Alfonso Amatucci. Un altro giudice che ha segnato la storia della giurisdizione ordinaria italiana degli ultimi anni mettendo al servizio della funzione giudiziaria, nei diversi gradi in cui essa si declina, intelletto, acutezza intellettuale, spirito di servizio anche nelle funzioni di autogoverno e, ci piace dirlo, etica nella funzione.
Ascoltare le risposte a domande in parte originate da alcuni colloqui avuti con lui è particolarmente utile, depurando il clima reso irrespirabile dalle note vicende che hanno colpito al cuore il sistema giustizia ed aiutando non a nascondere i problemi ma semmai ad evitare che si ripetano, che continuino a rimanere striscianti, sottotraccia, irrisolti.
L'intervistatore, giovane sostituto procuratore a Modena, ha così attivato un canale di collegamento con chi si è messo al servizio della sua generazione e che ha inteso trasmettergli tutto il suo essere alto magistrato serio, colto, non autoreferenziale ed equilibrato.
G. Amara
Caro Alfonso, un dialogo sull’etica del Magistrato, la cui idea è nata il giorno dell’espulsione, dall’A.N.M., di un ex presidente dell’A.N.M., è un tema su cui doverosamente tutti dobbiamo confrontarci, in ossequio al dovere costituzionalmente previsto, dal comma 2 dell’art. 54 della Carta, di adempiere le funzioni pubbliche cui siamo affidati, con disciplina ed onore, rifuggendo, nell’esercizio della giurisdizione, da altri criteri, quali la ricerca del consenso, diversi dall’applicazione della legge. E ciò anche a fronte del pubblico disappunto come più volte, anche di recente, manifestato nei confronti di Magistrati che hanno adempiuto con rigore a tale precetto.
Cosa significa, oggi, per un magistrato l’obbligo di fedeltà alla Repubblica di cui parla l’art.54 c.2 Cost.?
Noti differenze significative in base all’esperienza personale che hai maturato in Magistratura per un lungo periodo di tempo?
A.Amatucci
Agli studenti delle scuole per le professioni legali ed ai magistrati in tirocinio negli incontri di Scandicci ho spesso detto che chi si fosse determinato al concorso in ragione dei buoni stipendi dei magistrati, avrebbe operato una scelta economicamente migliore se avesse scelto di fare l’idraulico o se avesse aperto un buon negozio di ferramenta; chi fosse stato attratto dal desiderio di notorietà avrebbe fatto meglio a calcare le scene piuttosto che frequentare le aule dove ci si affanna a ius dicere. Naturalmente ignoro quanto l’uno o l’altro aspetto potessero incidere sulle scelte individuali future o abbiano inciso su quelle passate, ma ho rilevato con soddisfazione che il discorso è stato apprezzato e, non senza meraviglia, che molti dei MOT presenti alla Scuola per la magistratura mi hanno ringraziato, addirittura affermando che “avevano bisogno di sentirsi dire quelle cose”. Il che significa che non gliele aveva mai dette nessuno o che non erano state dette con sufficiente incisività, né prima del concorso né durante il tirocinio. Beninteso, non il riferimento all’idraulico o al negozio di ferramenta, ma il privilegio di aver avuto la ventura di esercitare il più bel mestiere del mondo, dove il potere di incidere fortemente sulle vite degli altri non può non essere bilanciato da un assoluto rigore morale, da un profondo impegno allo studio e al continuo perfezionamento, dal costante sforzo di capire con autentica umiltà quali siano le speranze, i timori, le aspettative che si nascondono dietro ogni carta processuale e quali le loro ragioni.
Altro che adempiere il munus publicum con disciplina ed onore! Il dovere del magistrato è enormemente superiore, ieri come oggi. Per quelli della mia generazione (sono entrato in magistratura nel 1971) era assolutamente scontato e dovrebbe esserlo sempre. So bene che non lo è mai stato davvero per tutti e che la valenza dell’orgoglio e del peso di essere magistrato si è andata attenuando nel tempo, man mano che nel Paese, a torto o a ragione, diminuiva il rispetto per le istituzioni e rifaceva capolino il magistrato-burocrate che tiene molto allo stipendio, moltissimo alla carriera, ancor di più alla notorietà, e un po’ meno alla determinante importanza della funzione ed ai suoi riflessi sulla qualità della vita delle persone.
Credo – e rispondo alla tua prima domanda – che il dovere di fedeltà alla Repubblica, proclamato dall’art. 54 Cost. per tutti i cittadini, debba essere letto alla luce dell’art. 1 della Carta, che definisce l’Italia una Repubblica “democratica”, con tutte le implicazioni che l’aggettivo comporta. La via verso la democrazia, secondo le più attuali accezioni semantiche del termine, non finisce mai. Bisogna che ogni magistrato lo sappia e lo senta quando interpreta ed applica la legge. Ed occorre che glielo si spieghi subito, a fondo, in ogni sede ed in ogni contesto. Serve che di deontologia gli si parli immediatamente, prima e più ancora che di diritto; che gli si chiarisca perché il rigoroso rispetto delle regole deontologiche è condizione della credibilità del magistrato e perché la credibilità del magistrato è essenziale all’accettazione da parte della società della autonomia e dell’indipendenza della magistratura, che non costituiscono un grazioso regalo fatto dai costituenti ad un gruppo di privilegiati, ma che sono a loro volta funzionali alla pronuncia di decisioni imparziali. Si dica loro, appena vincono il concorso (e se possibile prima, nelle università e nelle scuole preparatorie) che l’autonomia e l’indipendenza bisogna sapersele meritare e che – come affermò in un celebre discorso Franco Bile – il primo dovere del giudice è “stare dentro le cose tenendosene rigorosamente fuori”.
***
Amara
Quotidianamente, dobbiamo confrontarci con una proliferazione di articoli di stampa che, muovendo dalle condotte dei singoli, rischiano di gettare ombre sull’intero operato della Magistratura di fronte la società civile. Anche il Presidente Mattarella, nel discorso tenuto lo scorso 19 giugno, nel celebrare le figure di Magistrati che, al servizio, hanno donato la vita, ha dichiarato che, quanto emerso dall’indagine di Perugia, sembra presentare “l'immagine di una Magistratura china su se stessa, preoccupata di costruire consensi a uso interno, finalizzati all'attribuzione di incarichi” ed inoltre, pur ribadendo come queste siano logiche che non appartengono alla Magistratura nel suo insieme, nonché come “la stragrande maggioranza dei magistrati è estranea alla “modestia etica” – di cui è stato scritto nei giorni scorsi - emersa da conversazioni pubblicate su alcuni giornali e oggetto di ampio dibattito nella pubblica opinione” ha rinnovato l’invito alla Magistratura ad “impegnarsi a recuperare la credibilità e la fiducia dei cittadini, così gravemente messe in dubbio da recenti fatti di cronaca”, evidentemente ritenendo questo sia effettivamente occorso.
Abbiamo perso la fiducia dei cittadini?
Qual è la nostra immagine nella società civile?
E quella che emerge dai fatti balzati alla cronaca è una fotografia sbiadita, sfocata o bruciata?
Amatucci
I fatti recenti hanno avuto e stanno avendo l’effetto di una deflagrazione. Certo che abbiamo largamente perso fiducia. Certo che la nostra immagine è assai più che offuscata. Come sempre accade, la notizia che tiene banco sovrasta poi ogni altra considerazione, e la sacrosanta osservazione del Presidente Mattarella, relativa alla estraneità della stragrande maggioranza dei magistrati alla modestia etica emersa dalle conversazioni pubblicate, contribuisce assai poco a lenire gli effetti micidiali di quanto si va leggendo.
Quante volte abbiamo del resto sentito dire, quando è emerso un fatto di corruzione a carico di esponenti politici, che … sono tutti uguali! Non è vero per i politici, non è vero per i fatti che talora coinvolgono gli esponenti delle forze dell’ordine, non è vero per gli scandali sessuali che hanno interessato la chiesa cattolica e non è vero per i magistrati. Non sono affatto tutti uguali, mai. La stragrande maggioranza (ripeto: la stragrande maggioranza) dei magistrati è frastornata, benché degli accordi tra gruppi associativi consiliari molti sapessero e benché sia noto da sempre che l’appoggio di un gruppo è spesso determinante anche per ottenere quello cui si ha diritto. Direi dunque che la foto è sfocata, nel senso che mette a fuoco il peggio ed offusca tutto il resto. Ma il resto c’è, grazie al cielo.
Ed il peggio non è, prevalentemente, in chi chiede appoggi correntizi per ottenere un risultato. Il peggio sta in chi l’appoggio offre. Il questuante si sente spesso costretto ad essere tale perché sa, o gli viene detto, che se non chiede è molto improbabile che ottenga, quand’anche i suoi titoli e i suoi possibili meriti siano in ipotesi superiori a quelli altrui. Molti diventano attivi o presenti nelle correnti per questa specifica ragione. E, quando non lo fanno, al bisogno si rivolgono a chi attivo o presente è, ed ottiene per questo maggior ascolto “colà dove si puote”. Il punto è perché colà, cioè al CSM, si presta ascolto alla richiesta, diretta o mediata che sia. Credo che l’unica possibile risposta logica che si possa dare sia la seguente: per acquisire gratitudine; e dunque, per dirla più crudamente, per ragioni di potere. Di potere associativo nella stragrande maggioranza dei casi, in funzione della propria futura carriera; di potere tout court in alcuni più sparuti casi, come emerge dalle intercettazioni che quotidianamente leggiamo, sulle quali si va peraltro formando l’opinione che i cittadini hanno oggi della magistratura.
***
Amara.
Le correnti. Stigma, espressione di tutte le distorsioni della Magistratura o luogo di confronto che consente la dialettica fra posizioni diverse, espressione di pluralismo culturale e, dunque, luogo che rappresenta una ricchezza, un potenziale arricchimento? Nel postulato, ormai credo ineludibile, della degenerazione del sistema correntizio, è doveroso interrogarsi sul significato da attribuire, oggi, all’associazionismo. Ritengo sia necessario mantenere la presenza di un luogo ideale, dove il doveroso tecnicismo, cui dobbiamo tendere in un’ottica, tendenziale, di uniforme interpretazione normativa, sia integrato dal confronto sul senso e sui riflessi dell’esercizio della giurisdizione.
Tu cosa ne pensi?
E se degenerazione c’è stata, è un fenomeno del nostro tempo o ha avuto carattere endemico?
Ed ancora, come da taluno sostenuto, per negarlo, un magistrato preparato può riuscire ad esprimere tutte le sue potenzialità al servizio della giustizia senza l’aiuto delle correnti?
Sul punto, responsabilità, se ve ne sono, sono da ravvisarsi anche nella formazione iniziale?
Amatucci
Sulla prima domanda: la penso esattamente come te.
Sulla seconda: la degenerazione è stata progressiva, è stata esaltata dall’abbassamento della anzianità di carriera per l’accesso ai posti di prestigio e non ha riguardato con la stessa intensità tutte le correnti, ma alcune assai più di altre.
Sulla terza: un buon magistrato può certamente raggiungere posizioni ambite anche senza l’aiuto delle correnti, ma può non averne occasione, soccombendo nelle valutazioni comparative. Benché accada raramente che un magistrato mediocre rivesta posti di grande prestigio e responsabilità, nondimeno succede. E capita anche che magistrati di assoluto valore, anche persone che meriterebbero nomine unanimi da parte del CSM, vedano ritardata la loro ascesa (comunque frustrata per quelle specifiche funzioni direttive in una sede determinata) perché il posto per la cui copertura avevano concorso “spettava” (?!) ad altri per ragioni di equilibrio tra correnti. Questo è inammissibile e frustrante, non solo per chi concorre ma anche per chi osserva dall’esterno, che ne trae negative lezioni su come regolarsi in futuro, così alimentando il perverso meccanismo della richiesta e della offerta di tutela.
Di quanto la formazione iniziale possa concorrere a delineare la veste del magistrato ho già detto. E’ certamente importante che la Scuola, gli incontri di studio, le riunioni periodiche si soffermino a fondo anche sugli aspetti di cui stiamo dicendo. Sai, io credo che l’abito concorra a fare il monaco se al novizio si spiega a fondo il valore ed il significato di quello che farà. Ho spesso riflettuto su quale sarebbe stata la mia concezione dell’etica professionale, quella profonda e non solo quella codificata, se invece del magistrato avessi fatto l’avvocato. E lì ho capito che fenomeni come la piaggeria verso il giudice, il desiderio di accattivarsene la benevolenza e la critica inviperita quando sbaglia o non capisce è connaturato al ruolo che si riveste nel processo. L’avvocato vuole vincere la causa, o far assolvere il cliente o far condannare l’imputato se assiste la parte civile. E’ ovvio che sia così. Il giudice ha un’altra funzione, altri obiettivi, altri doveri.
Devo aggiungere che questo servirà, ma non basterà a cambiare in modo determinante le cose se non si saprà fare in modo che il CSM muti registro. Le responsabilità sono spesso diffuse, è vero, ma credo che sia velleitario sperare che la soluzione dei problemi possa trovarsi solo nella formazione di una nuova cultura, nella sensibilizzazione dei singoli magistrati a questi temi e nella responsabilizzazione degli elettori (per il CSM). Ma ne ho già detto abbastanza.
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Amara.
La fiducia dei cittadini nel sistema giudiziario, oltre che sugli articoli di stampa, si forma sull’esperienza di chi, con l’esercizio delle funzioni, volente o nolente, ha dovuto confrontarsi. Dalla conduzione dell’udienza, con le sue forme e la sua ricerca di sostanza che si riflettono nel rapporto con le parti privati e pubbliche, alla redazione dei provvedimenti che, della giurisdizione, sono il punto di arrivo.
Quale deve essere il rapporto del magistrato con l’atto giudiziario e come rifuggire dai rischi di tecnicismo, ipertrofismo e solipsismo?
E come spiegare il magistrato nel processo e nell’aula di udienza, teatro della giustizia?
Amatucci
Chi si comporta con dignità ottiene solitamente rispetto, purché a sua volta ne abbia verso chi lo circonda. Ed il rispetto che gli sarà dato ridonderà sulla funzione che svolge. Credo sia una regola elementare e provo vivo disappunto ogniqualvolta la vedo ignorata. V’è chi pensa di aver “diritto” al rispetto perché va rispettata la sua qualifica di magistrato, ma spesso si tratta solo di un modo per dissimulare la propria ipertrofia dell’io, che in magistratura è purtroppo un male abbastanza diffuso. In quarantacinque anni non mi è mai capitato di percepire mancanza di rispetto. Non so se si sia trattato di fortuna, ma ho sempre pensato che gli avvocati vadano rispettati anche quando si crede che non se lo meritino e che le parti e i testimoni devono poter percepire un clima di serena serietà e devono poter apprezzare l’impegno del giudice ad ascoltare e comprendere. Certo, talora non è stato affatto facile, ma è possibile ed è assolutamente doveroso. L’arroganza suscita immediato dispetto in chi la subisce, la frettolosità un’insopportabile sensazione di mancanza di interesse e di superficialità da parte di chi, pure, ha il potere di decidere. Il risultato è la diffusione di un clima di sfiducia prim’ancora che intervenga una qualsiasi decisione. Tra cittadini in primo luogo e, in seconda battuta, tra gli avvocati. Anche questo tipo di insegnamenti andrebbe impartito, tenendo conto dei casi in cui il MOT non abbia potuto contare, per sua sfortuna, sulla semplice emulazione di quanto abbia visto fare dai colleghi presso i quali ha svolto il tirocinio.
E veniamo alla redazione degli atti, dove tecnicismo, ipertrofismo e solipsismo costituiscono un cocktail inutilmente e stupidamente velenoso, perché la fatica della redazione non solo non è compensata da alcun beneficio per i destinatari degli atti (parti e avvocati), ma è produttiva di un danno anche per l’immagine di chi il cocktail abbia preparato (il giudice). Dalle scuse espresse in una celebre lettera da Cicerone per aver scritto a lungo perché … non aveva avuto abbastanza tempo discendono varie verità.
La prima è che scrivere di meno per dire le stesse cose che si direbbero con un lungo scritto è doveroso. La seconda è che il pensiero di chi scrive (ratio decidendi nel caso di una sentenza o di altro provvedimento giurisdizionale) è colto più facilmente da chi legge se lo scritto è breve ed incisivo; dunque non solo dalle parti ma anche dal giudice dell’impugnazione, che a sua volta capirà meglio e prima, con ovvie, benefiche conseguenze a valle della decisione. La terza verità è che la sintesi costa fatica, ma solo fino a quando non si impara ad essere sintetici. Da noi – mi riferisco ovviamente ai miei tempi, ma le cose non sono molto cambiate a quanto vedo – prevalgono abitudini opposte: si tende a pensare che è meritevole chi scrive molto, che è doveroso dar conto di tutto anziché solo di quello che davvero rileva, che più si scrive meglio è, quasi a retaggio dell’opinione diffusa che, per superare il concorso, gli scritti devono essere adeguatamente lunghi. E’ vero l’esatto contrario. Il bravo magistrato è quello che scrive poco (e bene, dicendo tutto quel che serve) anche quando il caso giustificherebbe uno scritto diffuso, mentre non è certamente meritevole di apprezzamento chi riempie dieci cartelle quando ne basterebbe una, o cento quando ne basterebbero dieci. Col “copia e incolla” si raggiungono poi vette inimmaginabili. Viene poi fatto di pensare che l’ipertrofia di uno scritto spesso si accompagna alla ipertrofia dell’io, cui ho fatto sopra riferimento. E poiché raramente accade che chi è affetto da tale sindrome sia anche intelligente, appare anche legittima la conclusione che chi scrive sempre molto, probabilmente non è annoverabile fra coloro che si collocano ai livelli più alti della scala. Ecco, se se si diffondesse questa convinzione, se nelle (spesso agiografiche) relazioni periodiche si conferisse maggior rilievo alla “mirabile capacità di sintesi” che alla “lodevole scrupolosità di analisi”, si farebbe forse un passo avanti nel convincere il corpo giudiziario (e, di riflesso gli avvocati, che tendono a fare come noi) che essere brevi si deve ogni volta che si può.
Il tecnicismo è un altro grave male, che connota l’intero apparato burocratico del nostro Paese e, purtroppo, anche la magistratura, benché dovrebbe essere chiaro a tutti (quantomeno dai tempi del congresso di Gardone del 1965) che il giudice … non è un burocrate. In Italia, del resto, i carabinieri non vanno ma si portano, nelle ZTL i varchi sono attivi quando non si può passare, nelle stazioni ferroviarie il biglietto si oblitera, nelle linee guida sulla riapertura anticovid delle scuole la distanza va assicurata tra le rime buccali degli studenti, e nelle sentenze è rarissimo che una vettura slitti sull’asfalto bagnato e invece molto frequente che il conducente ne perda il controllo perché il manto stradale era stato reso viscido dalla pioggia battente sulla carreggiata. Mi sono chiesto spesso il perché e mi sono risposto che lo si fa per dimostrare di essere capaci di utilizzare un linguaggio che non è da tutti, per senso di appartenenza ad una cerchia “colta”, sostanzialmente per vanità. Non è facilissimo intaccare un costume consolidato, ma credo possa aiutare la riflessione sulla funzione della motivazione: che è anzitutto quella di dar conto del processo logico percorso per arrivare ad una decisione controllabile, ma che è anche quella di persuadere, per quanto possibile. Fatto sta che controllo e persuasione presuppongono la comprensione, che dovrebbe essere tendenzialmente agevole anche per chi non sappia di diritto (le parti), così come le leggi dovrebbero essere tendenzialmente comprensibili per tutti.
L’individualismo estremo (solipsismo) dovrebbe essere estraneo alla cultura propria del giudice, che lavora sempre sugli altri, essendo egli istituzionalmente esperto in doveri altrui, in quanto deve sempre spiegare ex post quello che, alla stregua delle regole giuridiche del sistema ordinamentale, si sarebbe dovuto fare ex ante. Il giudice individualista non solo non può rendere un buon servizio alla società ma, in ragione dell’enorme potere che ne connota la funzione, può arrivare ad essere addirittura pericoloso. Un collega della Procura generale della Corte di cassazione affermò una volta che ogni giudice, prima di decidere, dovrebbe chiedere scusa (alle parti) e dire grazie (allo Stato): scusa per essere sul punto di incidere in qualche modo sulle vite delle persone; e grazie per essere stato investito del potere di farlo. Deve essere, per dirla con un ossimoro, orgogliosamente umile.
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Amara
Un altro tema che, occasionalmente, torna all’attenzione della cronaca, talvolta con una curiosità più prossima alla morbosità che al bisogno di approfondimento, in assenza di condotte di rilevanza penale, ovvero disciplinare, è il comportamento del magistrato fuori dal processo. Tema che, oggi, anche a mente l’art. 6 del Codice Etico dell’A.N.M., deve necessariamente trovare confronto, fermo il principio di piena libertà di manifestazione del pensiero, con l’interrogativo del come declinare i criteri di equilibrio/dignità/misura nell’uso dei mezzi di comunicazione di massa, a mente la loro rapidità e diffusività, nonché la loro, tendenziale, irreversibilità.
Ma c’è un’etica del magistrato? E qual’è?
Incide anche al di fuori dell’esercizio delle funzioni?
Ed ancora, sul punto, noti delle differenze tra magistrati giovani e meno giovani?
Amatucci
Per chi colga che il giudice non ha costituzionalmente ragione di essere se non è imparziale, che l’indipendenza serve a consentire che possa esserlo, che potrà essere indipendente finché la magistratura avrà autonomia, che nel lungo periodo essa resterà autonoma se sarà credibile e che la credibilità della magistratura dipende dal comportamento di tutti i magistrati e dunque (anche) di ognuno di loro, il parametro è delineato. Aggiungo che si tratta di un parametro variabile, nel senso che quanto maggiore è, in un determinato momento storico, il pericolo di perdita di credibilità, tanto più rigorosa dovrà essere la valutazione di ciò che al magistrato è consentito o vietato, sia all’interno che all’esterno delle funzioni. Quella stessa variabilità è ovviamente correlabile anche alle caratteristiche dei mezzi di comunicazione cui fa riferimento l’art. 6 del codice etico dell’ANM.
Quello che stiamo vivendo è un momento estremamente grave. I fatti di cui si sta occupando la Procura di Perugia intaccano la credibilità dell’organo di autogoverno e, di riflesso, della magistratura tutta, che nell’opinione comune assegna i posti di vertice in base a criteri lottizzatori. Non che questo abbia, a ben vedere, ricadute dirette sulla credibilità dell’attività giurisdizionale (almeno non quante ne ha, gravissime, all’interno della magistratura), ma si tratta di un sottile distinguo, che diventa difficile da spiegare alla luce dei collegamenti emersi con appartenenti alla classe politica estranei al CSM. Ai miei tempi (ho fatto parte del CSM dal 1990 al 1994) non sarebbe stato neppure pensabile che componenti togati del CSM incontrassero esponenti politici estranei al Consiglio per discutere di nomine future e, magari, per delineare linee di condotta. Sarebbe stato considerato un errore di grammatica istituzionale non solo il farlo, ma anche il solo sentirselo chiedere. E però un quarto di secolo è un quarto di secolo ed io sono in pensione già da qualche anno. Fatto sta che, rispetto al passato, il degrado è certo. Non credo, però, che dipenda dalla minore qualità etica dei magistrati più giovani rispetto ai più vecchi o addirittura agli ex - e qui mi scuso se talvolta mi sfugge un abusivo noi quando mi riferisco ai magistrati -; dipende, come ho sopra accennato, pressoché esclusivamente dalla qualità etica di chi a quelle pratiche si è prestato.
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Amara
Mi consentirai un piccolo ricordo personale riemerso in questi giorni. Durante il mio esame orale, ormai dieci anni fa, l’ultima domanda era quella di ordinamento giudiziario. Sulle materie precedenti avevo risposto correttamente e vedevo i volti dei commissari compiaciuti, ormai era andata. Mi fu chiesto di parlare del C.S.M.; iniziai, con sincero orgoglio, ritenendomi, oramai, quasi parte del tutto, rappresentando come fosse l’istituzione espressione massima e baluardo dell’Autogoverno, dell’Indipendenza e dell’Autonomia della Magistratura. Sul momento, ho percepito, distintamente, come alcuni volti assumessero un’espressione diversa, meno compiaciuta, ho creduto di aver suscitato, quasi, una certa infantile tenerezza di cui, allora, non mi vergognavo; dopo, pensai di essermi sbagliato, di aver frainteso, ma forse non era così.
Ed oggi, il C.S.M. rimane il presidio delle guarentigie della Magistratura?
Il sistema elettorale come può essere ricondotto ad equità ed “eticità”?
Amatucci
E’ l’unico presidio possibile: l’assenza del CSM costituirebbe un’alternativa assai peggiore del suo cattivo funzionamento. Altra questione, e non poco complessa, è se la sua riconduzione ad eticità possa essere perseguita attraverso una riforma del sistema elettorale del tipo di quelle che si vanno profilando.
Francamente, non lo so. Ma è certo che alchimie quali quelle che si sono viste nelle numerose riforme succedutesi negli anni servono a poco, o non servono affatto. Le correnti esistono, è bene che esistano in quanto espressione di diverse concezioni della funzione giurisdizionale e delle sue modalità operative, è inevitabile che esistano e che tendano all’affermazione delle proprie impostazioni culturali. E’ dunque assolutamente ovvio che una corrente tenda a far eleggere i propri esponenti in occasione delle elezioni per la formazione della componente togata dell’organo di autogoverno o che comunque si adoperi perché, in prima o seconda battuta in caso di doppio turno elettorale, riesca ad influire sulla scelta degli eletti. Ed è altrettanto scontato che ci riesca, come la storia degli ultimi 25 anni inconfutabilmente attesta. Il punto è come fare ad evitare che diventino uno strumento di prevalente gestione del potere. Non ho ricette risolutive, ma credo che un sistema elettorale dovrebbe mirare ad incidere sul classico e, ahimé, del tutto umano meccanismo che vede l’eletto grato all’elettore o al gruppo che sull’orientamento degli elettori riesce ad incidere (le correnti). Se si attenua quel vincolo, il più è fatto.
Mi chiedo allora se, in astratto, abbia maggiori ragioni di gratitudine un magistrato di elevato valore, apprezzato dai colleghi, destinato ad una brillante carriera per le sue doti e per il suo impegno o, invece, un magistrato il cui “merito” primario (non dico esclusivo) sia quello di aver militato in un gruppo associativo. La domanda è evidentemente retorica e la risposta scontata: il primo. Si tratta allora di pensare ad un sistema che solleciti l’interesse di ciascun gruppo (corrente) a candidare i magistrati più stimati, che spesso sono anche i migliori e che, in quanto tali, hanno meno bisogno di appoggi correntizi in funzione della carriera, e sono dunque anche meno condizionabili dal gruppo che li ha candidati. Anzi, dovrebbe farsi in modo che siano paradossalmente i gruppi ad essere semmai grati a loro per aver accettato di candidarsi! Per esempio, con un sistema di questo tipo: a) si vota una sola volta in collegi territoriali costituiti dai distretti di corte d’appello, per uno solo dei candidati facenti parte di una delle liste presentate da un numero tendenzialmente elevato di elettori; b) il numero dei seggi assegnato a ciascuna lista è determinato con criterio strettamente proporzionale sulla base del numero dei voti complessivamente riportati su base nazionale; c) gli eletti di ciascuna lista vengono individuati sulla base dei migliori quozienti tra voti complessivamente espressi in ogni collegio (per tutte le liste) e voti riportati da ogni candidato della lista in considerazione in ciascun collegio (sembra complicato ma è in realtà assai semplice), col limite probabilmente superfluo di non più di un eletto per lista in ogni collegio.
L’interesse (“che muove il sole e l’altre stelle”) di ogni gruppo a candidare, in ogni distretto, i magistrati più noti e stimati sarebbe una diretta conseguenza della regola sub b), giacché il numero dei seggi ottenuti dipenderebbe dalla somma dei voti riportati in tutti i collegi. La regola sub c) garantirebbe o aumenterebbe rilevantemente le probabilità che davvero accedano al CSM i magistrati con elevato prestigio, noti ed apprezzati sul piano territoriale, e per questo eletti. Al contempo consentirebbe anche ai piccoli distretti di poter avere un eletto al CSM, considerata la regola del miglior quoziente in comparazione con i quozienti di tutti gli altri collegi. E, ancora, attenuerebbe di molto la propensione a militare in un gruppo al fine di far carriera e magari accedere all’agognato traguardo del CSM, giacché non sarebbe la militanza a facilitare quei risultati ma il prestigio conseguito mediante l’esercizio del mestiere di giudice.
Ho, peraltro, appena letto di un autorevole suggerimento di Gustavo Zagrebelsky, che in sostanza propone di diminuire il numero dei componenti del CSM per aumentarne il grado di responsabilità individuale. Mi pare anche questa una buona idea, che tuttavia presuppone che la “responsabilità” (non in senso giuridico) sia dagli stessi effettivamente avvertita. E tanto più lo sarebbe quanto maggiori fossero gli effetti negativi sulla loro immagine di comportamenti non assolutamente lineari; quanto meno, insomma, a loro convenisse fare favori. Ma la minor convenienza di comportamenti di favore e la maggior convenienza di comportamenti retti dipende sempre dal giudizio altrui, in definitiva dalla cultura degli altri. Di tutti gli altri.
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Amara
Il magistrato all’esterno, nella società civile ed in particolare nel mondo della formazione, settore dove asservire le competenze maturate con le funzioni svolte, all’esigenza di accrescimento, oltre che individuale, anche degli operatori del diritto.
Pensi che rispetto agli incarichi extragiudiziari si opportuno promuovere la gratuità come modello virtuoso per recuperare credibilità?
Amatucci
No, non è quello della gratuità l’aspetto determinante. Gli incarichi extragiudiziari possono essere utili alla società ed a chi li svolge, ma non possono e non devono essere il criterio di valutazione decisivo per il conferimento di incarichi direttivi. Sia perché nulla più dell’attività giurisdizionale ben svolta può determinare l’idoneità a continuare a svolgerla, sia perché va frenata la corsa dei magistrati … a non fare i magistrati! Quella corsa esiste (talora anche solo per riavvicinarsi alla città di provenienza o per interporre una pausa a ritmi di lavoro insostenibili), ma non va invogliata con una sorta di assicurazione a chi smette per qualche tempo di fare il mestiere che aveva scelto in origine di avere migliori probabilità di tornare poi a farlo a livelli più alti. Questo non significa affatto, sia chiaro, che chi sia per qualche tempo collocato fuori ruolo vada addirittura penalizzato quando rientra: un’eccellenza resta spesso un’eccellenza, dovunque svolga il suo lavoro. Significa, piuttosto, che non bisogna consentire che le conoscenze acquisite e i rapporti instaurati “fuori” abbiano poi un peso determinante “dentro”.
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Amara
Dell’epoca del terrorismo, delle stragi, dell’uccisione di magistrati simbolo nel contrasto alla criminalità organizzata, fenomeni che hanno segnato la Repubblica ed alla cui lotta la Magistratura ha apportato un contributo fondamentale, il ricordo personale, con l’incedere dei d.m. di nomina, sfuma nello studio storico e, a volte, nella personale curiosità e ricerca. Viverli in prima persona deve aver consentito una prospettiva diversa, oggi, probabilmente, esaminata e ripensata con la formazione acquista.
Pensi che alcuni grandi eventi accaduti in Italia abbiano inciso sul modo di intendere la professione?
Amatucci
Senz’altro, e non poco, soprattutto per i magistrati che si occupano del penale e, specificamente, di criminalità organizzata. Nell’aula magna della Corte di cassazione, dove si tengono le udienze delle sezioni unite civili e penali, al limite dell’emiciclo dove siedono i consiglieri giudicanti, alle spalle del banco del procuratore generale, v’è una lapide con i nomi di tutti i magistrati uccisi durante o a causa di indagini sul terrorismo e sulla criminalità organizzata. Il pensiero di persone alle quali lo svolgimento dello stesso mestiere che fa l’osservatore è costato la vita non può non suscitare sentimenti di profondo dolore e di desiderio emulativo nel modo di intendere la funzione del magistrato.
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Amara
Ad un Magistrato della tua esperienza, se mi consenti, vorrei poi formulare alcune domande che, inevitabilmente, toccano la sensibilità del Singolo, come maturata nella propria esperienza privata e professionale. Grazie.
Vedi mutato il rapporto fra le generazioni vecchie e nuove di magistrati?
Come hai trovato e come hai lasciato la Corte di Cassazione, dove ti ricordano come persona colta e raffinata, ma anche dotata di notevole fermezza anche nei rapporti con i colleghi?
Come pensi che vivano le nuove generazioni il rapporto con il giudice di legittimità?
Sinceramente, sei pessimista o ottimista sul futuro della Magistratura italiana?
Amatucci
Mi dicono, ma relata refero, che sì, in Corte di cassazione qualcosa è mutato. Nel senso che l’approccio dei nuovi arrivati è meno umile di quello di una volta. Sarà che quando, nel 1995, misi piede nella terza sezione civile presieduta da un gigante (buono) qual era Bile, vi trovai magistrati del livello di Iannotta, Vittoria, Lupo, Preden e molti altri, a fronte dei quali mi sentivo davvero piccolo e dai quali avevo solo da imparare. Anche oggi vi sono professionalità eminenti, ma spesso si sentono eminenti anche quelli che arrivano e questo può creare qualche problema. Ti racconto una storiella. Prima di arrivare in Corte di cassazione mi ero occupato ed avevo scritto in materia di effetti della mora nelle obbligazioni di valuta e di valore e fui naturalmente portato, quando me ne capitò l’occasione, a decidere in modo conforme alle mie idee. Iannotta mi disse che la mia impostazione era degna di ogni attenzione, ma che la Corte aveva reiteratamente affermato il contrario e che egli intendeva tenere la barra dritta. Non insistetti in alcun modo perché la rotta fosse mutata. Lo feci solo 10 anni dopo, ma in sede di sezioni unite. Ecco, mi si dice che oggi non è sempre facilissimo far cogliere agevolmente a tutti quanto sia importante la stabilità delle soluzioni, da cui dipende la certezza del diritto. E non è certo un bene. La cosa influisce fortemente anche sul prestigio della Corte e, indirettamente ma in modo rilevantissimo, sul numero dei ricorsi, essendo innegabile l’effetto moltiplicatore connesso alla speranza dei ricorrenti che la Corte muti o riveda i propri indirizzi. E, a valle, sull’intensità o sulla flebilità del vincolo avvertito dai giudici di merito a non discostarsi dai precedenti di legittimità.
Sul futuro della magistratura sono, nonostante tutto, tendenzialmente ottimista. Credo che la tempesta che ci ha investito (mi scuso di nuovo per il “ci”) passerà e spero che ci avrà insegnato qualcosa. Ne abbiamo avute altre e c’è voluto meno tempo del previsto per uscirne. E dipenderà (non solo, ma) soprattutto dalla magistratura. Ripeto: autonomia ed indipendenza bisogna sapersele meritare.
Grazie a te per aver voluto conoscere la mia opinione.
Stefania Caggegi
L’esecuzione della pronuncia silenziosa.
Nota a Consiglio di Stato, Sezione V, Ordinanza del 14/04/2020 n. 2413
1.- Premessa. 2.1.- I problemi dell’esecuzione del giudizio sul silenzio.2.2.- Il problema del contraddittorio a fronte della domanda di nomina del commissario ad acta. 2.3.- Il provvedimento sopravvenuto: il carattere interlocutorio o decisionale e la discrezionalità. 3. L’accertamento concretamente operato nella fase di cognizione può giustificare la nomina del commissario ai sensi dell’art 117 cpa.
1.- Premessa. L’ordinanza n 2413/2020, resa dalla Sezione Quinta del Consiglio di Stato, merita di essere segnalata per i principi affermati in materia di esecuzione delle pronunce rese nell’ambito del rito sul silenzio, con particolare riferimento all’ipotesi in cui, dopo la sentenza conclusiva della fase cognitiva che abbia ordinato all’Amministrazione di provvedere, sia stato emanato un provvedimento espresso che sia però ritenuto non conclusivo del procedimento.
Nella fattispecie l’ordinanza accoglie l’istanza per la nomina del commissario ad acta presentata dalla Società dei Parchi S.p.A., la quale deduce l’inottemperanza della sentenza pronunciata dalla stessa Sezione V del Consiglio di Stato (n. 5022 del 17 Luglio 2019), che aveva disposto “l’obbligo del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti di adottare un provvedimento espresso che compiutamente concluda il procedimento di aggiornamento/revisione del P.E.F. entro il termine […] fissato nella data del 30 ottobre 2019”.
Preliminarmente, l’ordinanza chiarisce che il rimedio dell’ottemperanza ovvero quello dell’istanza volta alla nomina di un commissario ad acta ai sensi dell’art 117 c.p.a. sono rimedi concorrenti, tra loro alternativi, a disposizione della parte qualora l’amministrazione intimata non ottemperi ad una sentenza dispositiva di un obbligo di provvedere e che nel caso di specie la domanda di esecuzione era da intendersi “proposta ai sensi dell’art. 117, comma 2, Cod. proc. amm., sicché è da intendersi introduttiva della fase esecutiva del processo sul silenzio, la cui fase di cognizione si è conclusa con la sentenza”.
2.1.- I problemi dell’esecuzione del giudizio sul silenzio.
L’art. 2 della L. n. 241/1990, sancisce il dovere della Pubblica amministrazione di concludere ogni procedimento mediante l'adozione di un provvedimento espresso, ove il procedimento consegua obbligatoriamente ad una istanza, ovvero debba essere iniziato d'ufficio, colorando, quindi, di illegittimità il mancato esercizio del potere amministrativo[1].
Del resto, il silenzio della P.A. – inteso come omesso esercizio dei poteri cui la medesima è investita per la cura degli interessi pubblici – costituisce una delle più grandi disfunzioni dell’apparato amministrativo, in quanto l’inerzia dell’Autorità preposta a provvedere si ripercuote gravemente sulla sfera del privato[2].
Per evitare che l’inottemperanza al dovere di cui all’art. 2 pregiudichi irreparabilmente la posizione del privato, l’ordinamento prevede due forme di tutela[3]: quella di tipo pretensivo che si ha quando il legislatore interviene per prevenire lo stesso prodursi di effetti pregiudizievoli connessi all’inerzia, riconoscendo un significato legale tipico alla mancata adozione del provvedimento espresso e quella di tipo successivo, che si ha quando l’ordinamento consente al privato di reagire attraverso l’azione giudiziaria per ovviare agli effetti negativi prodotti dall’inerzia.
Del resto, è di piena evidenza l’intima connessione tra la doverosità dell’azione amministrativa e i rimedi contro il suo mancato rispetto[4].
Difatti, in virtù del generalizzato dovere di cui all’art. 2 L. 241/1990, il legislatore ha previsto all’art. 31 c.p.a. la possibilità per chi ne abbia interesse di chiedere l'accertamento dell’obbligo dell’amministrazione di provvedere[5] e all’117 c.p.a. che, in caso di accoglimento del ricorso avverso il silenzio, il Giudice ordina all’Amministrazione di provvedere entro un termine (solitamente non superiore a trenta giorni) e ove occorra nomini un commissario ad acta con la sentenza conclusiva del giudizio o successivamente su istanza della parte interessata.
L’azione avverso il silenzio, come costruita dal combinato disposto degli artt. 31 e 117 c.p.a., può essere considerata concettualmente scindibile in due domande: la prima, di natura dichiarativa, volta all’accertamento dell’obbligo; l’altra, inquadrabile nel novero delle azioni di condanna, diretta ad ottenere una sentenza che condanni l’amministrazione inadempiente all’adozione del provvedimento esplicito, previo accertamento della spettanza del bene della vita nei casi in cui venga in rilievo l’esplicazione di un potere discrezionale[6].
Nei casi in cui l’amministrazione intimata perduri nell’inerzia, si pone il problema dell’esecuzione del giudizio conclusosi con l’accertamento dell’obbligo e la conseguente condanna a provvedere.
Il legislatore permette al privato di censurare anche la successiva inottemperanza del disposto della sentenza.
In tali ipotesi, non si ha un vero e proprio giudizio di ottemperanza, tant’è che l’art. 117 c.p.a. (come, prima, l’art. 21 bis della Legge T.A.R.) non rinvia alle norme che lo contemplano, ma si limita a prevedere la nomina di un commissario ad acta. Si ha più propriamente un’ottemperanza “anomala” o “speciale”, dove la specialità risiede nella circostanza per la quale si prescinde dal passaggio in giudicato della sentenza, e, soprattutto, si ammette l’intervento del commissario senza la necessità di un ricorso ad hoc, essendo sufficiente una semplice istanza al Giudice che ha dichiarato l’illegittimità del silenzio[7].
In dottrina (Picozza) è stato affermato in proposito che, qualora l’amministrazione non provveda, il giudizio di cognizione si allarghi con una fase (e non un giudizio autonomo) di esecuzione[8].
È prassi ormai consolidata nei Tribunali di merito, disporre sull’eventuale mancata esecuzione della sentenza dispositiva dell’obbligo di provvedere, già a conclusione del giudizio instaurato avverso il silenzio ab origine.
Difatti, in ossequio al principio di economia processuale, contestualmente all’accertamento dell’obbligo e alla condanna di provvedere, il giudice nomina un commissario ad acta, che intervenga in caso di inadempienza.
Tale modus operandi elimina, di fatto, la necessità che la parte sia gravata dell’onere di proporre l’ulteriore istanza a causa della perdurante inerzia dell’amministrazione[9], ragion per cui è considerato preferibile provvedere in maniera unitaria.
Resta il fatto che normativamente è prevista la possibilità di percorrere indifferentemente entrambe le strade, sicché spetta al Giudice decidere quale intraprendere.
2.2.- Il problema del contraddittorio a fronte della domanda di nomina del commissario ad acta. A prescindere dalla qualificazione teorica della natura del procedimento instaurato con l’istanza di nomina del commissario ad acta - che sia un nuovo autonomo giudizio ovvero piuttosto una fase dello stesso - ciò che risulta irrinunciabile è il dovere gravante sulla parte che propone l’istanza di instaurare correttamente il contraddittorio.
Difatti, nella pronuncia in commento il Consiglio di Stato afferma a chiare lettere che l’autonoma istanza per la nomina di un commissario ad acta, avanzata dopo la pubblicazione della sentenza che ha concluso la fase di cognizione, deve essere ritualmente notificata all’amministrazione intimata, non rilevando - ai fini della corretta instaurazione del contraddittorio - la circostanza che fosse stata già proposta col ricorso, dal momento che la sentenza non l’ha accolta.
2.3.- Il provvedimento sopravvenuto: il carattere interlocutorio o decisionale e la discrezionalità. L’ordinanza in commento offre un interessante spunto di riflessione in ordine alla questione concernente il provvedimento sopravvenuto nelle more del giudizio sull’istanza di nomina del commissario - quale quello di rigetto emanato dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti -, essendo stato questo dichiarato dal Consiglio di Stato inidoneo a determinare la conclusione del procedimento amministrativo in corso tra le parti.
Come è noto, prerogativa del processo sul silenzio è che il giudice, nel decidere, si limiti a valutare l’esistenza o meno di un preciso obbligo dell’amministrazione intimata di provvedere in merito ad un’istanza, concludendo il procedimento evocato dalla parte entro il termine astrattamente previsto per lo stesso e a nominare, nel caso di inadempienza, un commissario che provveda.
Non gli è, infatti, concesso sindacare il merito del procedimento amministrativo non portato a compimento, poiché ciò significherebbe invadere lo spazio che la legge ha riservato alla discrezionalità dell’amministrazione.
All’inizio del nuovo secolo, il ricorso avverso il silenzio venne codificato con la legge n. 205/2000, che introdusse l’art. 21 bis della L. TAR, ora riscritto, con modifiche non sostanziali per i limiti della legge delega, negli artt. 31 e 117 del Codice del Processo Amministrativo[10].
Il Codice - nel recepire in gran parte le indicazioni della precedente giurisprudenza in materia[11] - ha, tuttavia, segnato un ampliamento dei poteri di sindacabilità originariamente previsti nel rito ex art. 21 bis, ben oltre la semplice azione di accertamento, fino a ricomprendervi anche la possibilità per l’organo giudicante di valutare la fondatezza della pretesa dedotta in giudizio, deliberando dunque, in sede di valutazione, anche in merito alla concreta spettanza del bene della vita.
È stata prevista, difatti, all’art. 31 comma 3, la possibilità che il giudice si pronunci su questa, nei casi in cui si tratti di attività vincolata o quando risulti che non residuino ulteriori margini di discrezionalità e non siano necessari ulteriori adempienti istruttori.
Il ricorso avverso il silenzio è stato così disegnato come tendente non soltanto all’accertamento dell’illegittimità del silenzio, ma all’accertamento, ove possibile, della spettanza della pretesa fatta valere dal privato.[12]
Di contro, la fattispecie oggetto dell’ordinanza in commento, coinvolge attività procedimentali connotate dall’esercizio di ampi poteri discrezionali[13], che quindi, attenendo ai profili di merito dell’azione amministrativa, dovrebbero essere escluse dal potere di sindacabilità del Collegio.
Nel caso di specie, il Giudice ha dapprima disposto l’obbligo di provvedere a fronte del quale - nelle more del giudizio sull’istanza di nomina del commissario ad acta - l’Amministrazione intimata ha emanato un provvedimento di rigetto che lo stesso Giudice, in sede di decisione, ha (correttamente) valutato privo di carattere decisorio, ossia non idoneo a determinare la conclusione del procedimento.
A tal proposito è utile ricordare che l’obbligo della pubblica Amministrazione di provvedere sull'istanza del privato si considera adempiuto solo con l’adozione di una decisione espressa sulla pretesa avanzata, con la conseguenza che la determinazione che vale a interrompere l’inerzia è solo quella idonea a concludere il procedimento e non anche l’adozione di un atto meramente soprassessorio, interlocutorio o endoprocedimentale[14].
Nel concetto di “decisione espressa” contemplato dall'art. 2 della legge n. 241/1990, infatti, rientra una substantia che va ben oltre la forma apparente della decisione: è necessario, cioè, che tale decisione sia in grado di definire la materia trattata senza lasciare margini indeterminati in ordine alla necessaria sistemazione degli interessi oggetto del procedimento.
La tutela in materia di silenzio è, in essenza, il correlato espressivo del principio del contraddittorio, fondamento della trasparenza nei rapporti inter partes, in applicazione della buona fede in ambito procedimentale.
Pertanto, il Consiglio di Stato, accogliendo l’istanza di nomina del commissario ad acta, non ha invaso lo spazio di discrezionalità dell’amministrazione entrando nel merito del suo operato, piuttosto si è occupato di svolgere una valutazione sulla natura dell’atto emanato, qualificandolo come interlocutorio.
Tale conclusione è stata determinata da precisi elementi, quali la circostanza che il procedimento non possa dirsi definito poiché “non risulta essersi concluso con alcuna determinazione di merito”, ovvero il fatto che lo stesso provvedimento contenga la “riserva di assumere ogni determinazione conseguente”, elemento questo che, a detta del Consiglio, permetterebbe di richiamare “le valutazioni già espresse riguardo al provvedimento di analogo contenuto del 5 gennaio 2018, n. 175 - nella sentenza 17 luglio 2019, n. 5022”, relative alla natura di atto interlocutorio.
Peraltro, la società ricorrente - probabilmente convinta anch’essa della natura interlocutoria del provvedimento emanato dal MIT - non si è avvalsa della possibilità prevista al comma 5 dell’art. 117 c.p.a., che consente, nel caso di un atto sopravvenuto ritenuto illegittimo, la proposizione dei motivi aggiunti nello stesso rito avverso il silenzio.
È altrettanto vero però che, il provvedimento emanato dal MIT dispone il rigetto dell’istanza presentata dalla Società dei Parchi S.p.A.; pertanto, potrebbe sembrare forzata una qualificazione dello stesso come atto interlocutorio o ancora come non incidente sul definitivo assetto degli interessi coinvolti.
Di sicuro, la pronuncia in commento sembra suggerire che il confine tra la mera valutazione circa l’adempimento di un obbligo di provvedere e la valutazione nel merito circa l’attitudine di un provvedimento a determinare effetti esterni - che di fatto determina una valutazione dell’attività discrezionale dell’amministrazione - sia in realtà più che mai labile.
3. L’accertamento concretamente operato nella fase di cognizione può giustificare la nomina del commissario ai sensi dell’art 117 cpa.
In sede di prima analisi, si potrebbe concludere che seguire la linea interpretativa espressa dal Consiglio di Stato possa generare il rischio che la fase esecutiva del processo sul silenzio sia di fatto mutuata in una indagine sul contenuto e/o sulla natura del provvedimento emanato - finalizzata a valutare gli effetti dispositivi dello stesso -, fino a far dipendere dal risultato della suddetta indagine la qualificazione di un provvedimento di rigetto, ad esempio, come atto interlocutorio.
È lo stesso Giudice, nel motivare la propria decisione, a richiamare quanto già statuito con la sentenza conclusiva della fase di cognizione; ciò in quanto l’attività di accertamento svolta in tale precedente fase, può legittimamente fondare l’accoglimento dell’istanza di nomina del commissario.
Pertanto, nella fase esecutiva del processo non viene svolto un nuovo accertamento: piuttosto, sulla base di quanto già accertato, viene valutata l’istanza di nomina, la quale, come è noto, risponde all’esigenza di assicurare al privato la sola decisione amministrativa in grado di incidere sulla sua sfera giuridica. Difatti, l’iter logico seguito dal Giudice, nel caso di specie, emerge con maggiore chiarezza puntando l’attenzione su quanto lo stesso aveva già precisato nella sentenza conclusiva della fase cognitiva (la n. 5022 del 17 Luglio 2019), affermando che la “determinazione che vale ad interrompere l’inerzia facendo venire meno l’interesse del ricorrente avverso il silenzio della pubblica amministrazione può essere soltanto quella che conclude il procedimento, con effetti definitivi e decisori, tali da superare lo stallo procedimentale e da porre con il provvedimento conclusivo la decisione amministrativa per il definitivo assetto degli interessi coinvolti”.
Ed è proprio in virtù di tale accertamento già svolto che il Consiglio di Stato – accogliendo l’istanza di nomina del commissario – ritiene non concluso il procedimento per l’aggiornamento/revisione del Piano Economico Finanziario, qualora venga emanato un provvedimento di rigetto non contenente alcuna determinazione di merito adottata dal competente Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e, ancorché il provvedimento stesso disponga che il rigetto della proposta di PEF determini la conclusione del relativo procedimento amministrativo.
Si tratta di una soluzione che pare coerente con il principio di effettività della tutela, declinato nell'ambito della patologia omissiva che il silenzio determina in uno alle ipotesi “di contorno” di cui si è sopra fatto cenno, laddove l'Amministrazione si pone in una posizione borderline rispetto al dovere di concludere il procedimento secondo i dettami dell'art. 2 della legge n. 241 del 1990.
Se, infatti, la tutela in materia di silenzio è, in tesi, ormai emancipata dalle incertezze della disciplina precedentemente enucleata dalla sola giurisprudenza a partire dall'intervento riformatore del 2005 sull'art. 2 (poi, come noto, trasfuso nell'ambito del Codice del processo amministrativo), non vi è dubbio che nell'orbita delle inerzie amministrative gravitano una serie di fattispecie site al confine tra adempimento e inadempimento degli obblighi anzidetti, rispetto ai quali, ancora una volta, il Consiglio di Stato apporta il suo significativo contributo, evitando elusioni in grado di incidere sulle posizioni giuridiche protette e, in ultima analisi, sui beni della vita correlati alle pretese proprie dello stesso interesse legittimo.
[1] A. POLICE, Il dovere di concludere il procedimento e il silenzio inadempimento, commento all’art. 2 della Legge 7 agosto 1990 n. 241, in Codice dell’azione amministrativa (a cura di) M.A. SANDULLI, Milano 2017, 283 ss.;
[2] S. COGLIANI, Il giudizio avverso il silenzio della P.A.: i nuovi poteri del Giudice Amministrativo, in Codice
dell’azione amministrativa (a cura di) M.A. SANDULLI, Milano 2017, 309 ss.;
[3] R. MANCUSO, L’inerzia delle Pubblica Amministrazione, www.altalex.it 2013;
[4] si veda in proposito G. MARI, L’obbligo di provvedere e i rimedi preventivi e successivi alla relativa violazione (artt. 2, 17-bis e 20 l. n. 241 del 1990 s.m.i.), in Principi e regole dell’azione amministrativa (a cura di) M.A. Sandulli, Milano 2015;
[5] N. PAOLANTONIO Commento all’art. 31, in Codice della giustizia amministrativa (a cura di) G. MORBIDELLI, Milano 2015;
[6] Cons. St., sez. V, 28 Aprile 2014 n. 2184;
[7] Cons. St., Sez. VI, 25 giugno 2007, n. 3602;
[8] N. SAITTA, Sistema di Giustizia Amministrativa, Napoli 2015, 577;
[9] sull’irragionevolezza della separazione del procedimento ex multis, per primo, Cons. St., Sez. V, 16.01.2002 n. 230;
[10] sul punto si vedano, fra i molti, F.G. SCOCA, Il silenzio della Pubblica Amministrazione alla luce del nuovo trattato processuale, in Il diritto processuale amministrativo 2002, 245 ss.; F. FRACCHIA Riti speciali a rilevanza endoprocedimentale, Torino 2003, 63 ss.; G. MONTEDORO Il giudizio avverso il silenzio, in Codice della giustizia amministrativa (a cura di) G. MORBIDELLI, Milano 2005, 251 ss.; N. PAOLANTONIO, I riti speciali, in Giustizia Amministrativa F.G. SCOCA, Torino 2013, 499 ss;
[11] v. ex multis Cons. St., Sez. V, n. 4939/2008;
[12] sulla modifica legislativa v. M. OCCHINEA, Riforma della legge 241/1990 e nuovo silenzio rifiuto: del diritto v’è certezza, www.giustamma.it 2005;
[13] in riferimento ad analoghe vicende cfr. TAR Lazio – Roma, Sez. I, 02.11.2016 n. 10815; T.A.R. Piemonte, Sez. II, 09.02.2016, n. 182;
[14] cfr. ex multis Cons. Stato, sez. VI., 17 dicembre 2013, n. 6037.
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