ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Figli maggiorenni e mantenimento: la Cassazione cambia orientamento?
Nota a Cass. Civ. (ord.) Sez. I, 16 luglio/14 agosto 2020, n. 17183.
di Rita Russo
Sommario: 1. Un caso (quasi) di scuola: un figlio adulto ed una madre protettiva - 2. Il diritto al mantenimento del figlio maggiorenne - 3. La digressione sulla automatica estinzione del diritto al mantenimento. - 4. Considerazioni conclusive.
1. Un caso (quasi) di scuola: un figlio adulto ed una madre protettiva
Lo scenario è quello consueto delle separazioni irrisolte nel contesto delle crescenti difficoltà economiche di molte fasce sociali: un padre mette in discussione il dovere di contribuire al mantenimento del figlio maggiorenne versando alla madre un assegno periodico e l’assegnazione a quest’ultima della casa familiare. La madre, di contro, ritiene applicabile al suo caso il principio, consolidato nella giurisprudenza di merito e legittimità, che l’obbligo di mantenere il figlio non cessa automaticamente con il raggiungimento della maggiore età, ma si protrae, qualora questi, senza sua colpa, divenuto maggiorenne, non abbia raggiunto la piena indipendenza economica e in tal caso il genitore già affidatario e convivente con il figlio è legittimato, iure proprio (ed in via concorrente con la diversa legittimazione del figlio) ad ottenere dall’altro coniuge un contributo per il mantenimento del figlio maggiorenne [1].
Non è un big money case: l’uomo ha sessant’anni ed ha chiuso il negozio di ferramenta, tornando a vivere con la propria anziana madre; l’assegno di mantenimento per il figlio ammontava a 300,00 euro mensili, importo che il giudice di primo grado ha ridotto alla cifra di 200,00 euro e che la Corte d’appello, su ricorso del padre, ha totalmente eleminato, revocando anche la assegnazione della casa familiare.
Il figlio lavora come insegnante precario, non essendo ancora abilitato, in una provincia diversa da quella dove vive la madre e quindi anche la coabitazione con la stessa si è rarefatta. Il reddito del giovane, nell’anno in cui ha insegnato, è pari a poco più di 20.000,00 euro e non è chiara la ragione per la quale non abbia frequentato il tirocinio abilitativo, che gli consentirebbe di ottenere l’incarico come insegnante di ruolo, posto che pare abbia scelto definitivamente la carriera dell’insegnamento, sebbene il suo ambito professionale (musica) gli consentirebbe anche di perseguire altri progetti. Ma ha passato i trent’anni (trentatré nel 2018), e la Corte d’appello gli ricorda, o meglio ricorda alla madre, che non è più il tempo delle ambizioni adolescenziali e che ad una certa età si presume che la persona sia in grado di mantenersi, salvo situazioni eccezionali che nella specie non sono però allegate.
La madre ricorre per cassazione e osserva che il figlio non può considerarsi economicamente indipendente perché conclude soltanto dei contratti a tempo determinato e pertanto non ha conseguito una appropriata collocazione lavorativa, adeguata alle sue aspirazioni e all’altezza della sua professionalità.
Il motivo, in verità, almeno così come esposto e riassunto nella ordinanza in esame, sembra già di per sé evanescente e contraddittorio. Se effettivamente il figlio ha prescelto la carriera dell’insegnamento, alla quale si è già avviato con le supplenze annuali e se per raggiungere la posizione di insegnante abilitato gli basterebbe un tirocinio formativo il cui costo non è irrisorio ma neanche proibitivo, non si vede per quale ragione debba considerarsi escluso da una collocazione del mondo del lavoro conforme alla sua formazione e quali siano le diverse e più alte aspirazioni per le quali ha (ancora) bisogno del sostegno dei genitori. Non è dato sapere se -e ai fini del giudizio di merito avrebbe avuto una sua rilevanza- egli abbia diligentemente tentato i test di accesso ai tirocini formativi (TFA) e con quale esito, e se la ragione della mancata frequenza sia stato il diniego del padre a contribuire alla spesa. Sullo sfondo, la questione della assegnazione della casa familiare: non troppo esplicitata nelle argomentazioni difensive, posto che all’età di trentatré anni e con una vita scandita dai trasferimenti lavorativi non può parlarsi di esigenze di mantenimento dell’habitat domestico, ma considerata alla stregua di un corollario della dimostrazione della non conseguita indipendenza economica [2].
Questo è probabilmente il vero motivo del contendere: in molti casi la partita si gioca non già sulle aspirazioni di carriera dei giovani adulti e sulla loro capacità di mantenersi da soli o di trattare direttamente con i genitori un contributo, ma sul diritto del genitore già convivente con i figli e quindi assegnatario della casa familiare, in proprio ma nell’interesse della prole, a mantenere un sia pur modesto contributo mensile e la casa.
Non si sa cosa ne pensi della vicenda il giovane insegnante di musica: non è infatti obbligatoria la partecipazione del figlio maggiorenne al giudizio di revisione delle condizioni di separazione o divorzio tra i genitori ma pure, in qualche caso, sembra essere opportuna[3].
Tornando alla carriera del giovane e al suo inserimento nel mondo del lavoro, delle ambizioni adolescenziali di cui parla la Corte d’appello la madre sembra tacere: nulla sappiamo di eventuali impegni di studio o di attività svolte al fine di intraprendere una diversa e più brillante carriera, ad esempio nel mondo dello spettacolo. Sicché la condizione del giovane è esattamente quella per la quale la consolidata giurisprudenza di merito e di legittimità nega il diritto al mantenimento[4]: una persona decisamente adulta, che ha concluso gli studi, ha avviato il suo inserimento nel mondo del lavoro in conformità alle sue aspirazioni e che -seppure ha mancato il passaggio dell’ascensore sociale- non sembra avere peggiorato la condizione di origine, se il padre era proprietario di un negozio di ferramenta che non ha retto l’impatto della crisi economica.
Sembra quindi che la vicenda possa risolversi con un richiamo ai consolidati orientamenti sulla necessità di evitare che il diritto al mantenimento divenga rendita parassitaria, il che consentirebbe di dichiarare inammissibili i motivi, atteso che in cassazione non è consentito una revisione del giudizio di fatto e i principi invocati dalla ricorrente sono in definitiva gli stessi che la Corte di merito ha applicato per negare il diritto al mantenimento.
Così pare avviata la soluzione del caso: il provvedimento in esame è una ordinanza, resa in esito alla camera di consiglio, il che significa che prima facie non sono state ravvisate questioni a rilievo nomofilattico, tali da richiede la pubblica udienza, e, in effetti, si esordisce affermando che i motivi sono in parte inammissibili e per altra parte infondati, richiamando la consolidata giurisprudenza in materia; una parte conclusiva tuttavia è dedicata allo sviluppo di una teoria innovativa in tema di cessazione del diritto al mantenimento del figlio e di onere della prova.
2. Il diritto al mantenimento del figlio maggiorenne
L’ordinanza in esame richiama una ampia rassegna della giurisprudenza di legittimità sui parametri utilizzati per decidere sul diritto al mantenimento del figlio maggiorenne, ovvero sul diritto del genitore convivente con il figlio maggiorenne ma non economicamente autonomo a pretendere un contributo al mantenimento da parte dell’altro genitore [5].
In particolare si sottolinea l’importanza dell’età e come la valutazione debba necessariamente essere condotta con "rigore proporzionalmente crescente, in rapporto all'età dei beneficiari, in modo da escludere che tale obbligo assistenziale, sul piano giuridico, possa essere protratto oltre ragionevoli limiti di tempo e di misura” [6].
La questione dell’età è importante in quei contesti in cui sono scarse le possibilità di accedere al mondo del lavoro dopo la scuola dell’obbligo e dove è forte l’istanza sociale di avviarsi ad una professione intellettuale, di regola ritenuta più prestigiosa, meno faticosa e più remunerata delle attività manuali. Un bisogno sociale coerente con quella idea dei padri costituenti che hanno voluto assicurare il bene della istruzione di alto grado anche ai capaci e meritevoli privi di mezzi, e, in genere, con l’idea che la crescita dell’individuo e quindi la sua capacità di contribuire al progresso della società cui appartiene dipende anche dal grado di cultura e formazione cui gli consente di accedere la formazione sociale di origine e cioè la famiglia: anche per questo si è finora escluso l’automatismo tra raggiungimento della maggiore età e cessazione degli obblighi genitoriali, pur dovendosi trovare un punto di equilibrio tra doveri dei genitori e diritti dei figli [7].
Punto di equilibrio che il legislatore ha individuato nella indipendenza economica, formula che lascia all’interprete il compito di elaborare le concrete risposte alla varietà dei casi che possono presentarsi nella realtà dei fatti. Indipendenza economica significa stesso tenore di vita dei genitori? O significa soltanto capacità di provvedere ai bisogni essenziali? E se il figlio aspira a migliorare la sua condizione di origine? Essere capaci e meritevoli impegna i genitori ad avviare il figlio verso i “gradi più alti degli studi”? e se dopo gli studi il figlio non trova lavoro? Quid iuris se l’indipendenza economica non viene raggiunta entro una certa età? E quale sarà mai questa certa età oltre la quale i desiderata dei figli non meritano più il contributo dei genitori?
L’elenco dei quesiti potrebbe continuare a lungo perché ogni vicenda è un caso a sé e in ogni vicenda si innestano variabili potenzialmente infinte oltre che indefinibili.
In linea generale può dirsi che uno dei compiti della giurisdizione è quello di assicurare la parità di trattamento, e che pertanto nell’individuare, nel singolo caso, il punto di equilibrio di cui si è detto si dovrebbe evitare di creare ingiuste discriminazioni in danno dei figli di genitori separati, posto che questi ultimi hanno i medesimi diritti dei figli di genitori non separati.
In concreto, l’accertamento non può che ispirarsi a criteri di relatività, e nel bilanciamento degli interessi il tempo della realizzazione delle ragionevoli aspirazioni dei figli può essere il fattore decisivo: ancora oggi resta valida l’affermazione che non può colpevolizzarsi il figlio che rifiuti una sistemazione lavorativa non adeguata rispetto a quella cui la sua specifica preparazione, le sue attitudini ed i suoi effettivi interessi siano rivolti, purché nei limiti temporali in cui dette aspirazioni abbiano una ragionevole possibilità di essere realizzate e sempre che tale atteggiamento di rifiuto sia compatibile con le condizioni economiche della famiglia[8].
Nella consapevolezza che ogni caso ha le sue specificità, per mettere ordine e creare delle griglie orientative, la pratica giurisprudenziale opera una distinzione tra i giovani che si fermano alla scuola dell’obbligo e coloro che intendono proseguire gli studi.
Ai primi si richiede, pur se giovanissimi, di attivarsi immediatamente nella ricerca di una occupazione lavorativa adeguata, pur tenendo conto del lasso di tempo necessario a costituirsi un curriculum di esperienze che consenta loro di trovare una occupazione adeguatamente retribuita e non occasionale, tenendo conto che il mercato del lavoro non è facilmente accessibile a chi non può vantare né formazione specifica né esperienze lavorative. Così ad esempio l’apprendistato non è, almeno di regola, ritenuto sufficiente a dimostrare il conseguimento della indipendenza economica e quindi a determinare la cessazione del diritto al mantenimento [9].
Per i giovani che studiano, l’età in cui hanno diritto a godere del mantenimento necessariamente si eleva e, di norma, è ritenuto doveroso -se c’è la possibilità economica- mantenere i figli agli studi universitari purché vi si dedichino con diligenza ed impegno[10]. Difficilmente però nella prassi giudiziale si consente il superamento del limite dei trenta anni, salvo che ricorrano situazioni eccezionali, puntualmente allegate e dimostrate[11].
I doveri di diligente impegno nel perseguimento della autonomia economica sussistono dunque in entrambi i casi, seppure acquistano diversa configurazione: nel primo caso si chiede la ricerca diligente di un lavoro, nel secondo il diligente impegno negli studi e la loro conclusione in tempi ragionevoli. In entrambi casi il progetto di vita, se da un lato deve essere rispettoso delle capacità, inclinazioni ed aspirazioni del figlio, deve essere "compatibile con le condizioni economiche dei genitori" [12].
Non sono ammesse, come sopra si diceva, le rendite parassitarie né l’ingiustificato rifiuto di occasioni lavorative una volta conclusi gli studi: ed infatti nella ordinanza in esame vi è un esplicito richiamo al principio della autoresponsabilità, che impone al figlio di non abusare del diritto ad essere mantenuto dal genitore, principio da tempo affermato nella giurisprudenza della Corte di legittimità. Le stesse sezioni unite, nel 2014[13], pronunciandosi in tema di assegnazione della casa familiare in comodato, hanno fatto riferimento a questo principio affermando che il figlio, in forza dei doveri di autoresponsabilità che su di lui incombono, non può pretendere la protrazione degli obblighi parentali oltre ragionevoli limiti di tempo e di misura, perché "l'obbligo dei genitori si giustifica nei limiti del perseguimento di un progetto educativo e di un percorso di formazione". Le sezioni unite hanno confermato e fatto proprio l’orientamento fino a quel momento sviluppato dalla prima sezione della Corte secondo la quale non si può prefissare in astratto un termine finale di persistenza dell'obbligo di mantenimento e il genitore obbligato è tenuto ad allegare e, ove sia contestato, a dimostrare (anche in via presuntiva) di aver posto il figlio nelle condizioni di raggiungere l'indipendenza economica, sfruttando al meglio le capacità e le competenze acquisite a conclusione del percorso formativo compiuto in sintonia con le sue aspirazioni e attitudini, salva ovviamente la possibilità per il figlio di dimostrare le specifiche ragioni, di tipo personale o economico-sociale, che gli hanno impedito di inserirsi nel mondo del lavoro e che giustificano la sua richiesta di prolungamento dell'obbligo genitoriale [14].
La indipendenza economica è quindi intesa come inserimento del mondo del lavoro secondo le aspirazioni, il percorso scolastico, universitario e postuniversitario del soggetto, aspirazioni da bilanciare con la situazione attuale del mercato del lavoro, con specifico riguardo al settore nel quale il soggetto abbia indirizzato la propria formazione e la propria specializzazione; equivalente alla conseguita indipendenza, al fine di escludere il diritto al mantenimento è il mancato svolgimento di un’attività produttiva di reddito o il mancato compimento del corso di studi che dipende da un atteggiamento di inerzia ovvero di rifiuto ingiustificato [15]; il tutto da valutarsi caso per caso e con rigore sempre crescente al progredire della età adulta[16].
L’ordinanza in esame richiama dunque, nella sua prima parte, principi già consolidati nella giurisprudenza e dei quali, in sostanza, la Corte d’appello aveva già fatto applicazione, valorizzando l’età, il conseguimento del titolo di studi e l’avviamento nella attività lavorativa. Sebbene questi argomenti siano già sufficienti a respingere il ricorso, il Collegio sviluppa però nella seconda parte del provvedimento un ulteriore ragionamento, divergente dal consolidato orientamento formatosi in tema di persistenza del diritto al mantenimento oltre la maggiore età e onere della prova.
3. La digressione sulla automatica estinzione del diritto al mantenimento
Il Collegio giudicante esamina l’art. 337 septies c.c. in tema di pagamento dell’assegno di mantenimento al figlio non economicamente indipendente, assumendolo, in sostanza, a norma centrale nel regolamento dei rapporti economici tra genitori e figli maggiorenni. Secondo la tesi sviluppata nel provvedimento, la legge si fonda sull'assunto secondo cui l'obbligo di mantenimento permane a carico dei genitori sino al momento in cui il figlio raggiunge la maggiore età; da questo momento in poi subentra la diversa disposizione di cui all’art 337 septies c.c. il cui significato sarebbe che l'obbligo non è posto direttamente ed automaticamente dal legislatore, ma è rimesso alla dichiarazione giudiziale alla stregua di tutte le "circostanze" del caso concreto.
Si legge infatti nell’ordinanza in commento: “Affinché la disposizione menzionata abbia un qualche effetto, occorre, invero, eliminare ogni automatismo, rimettendo essa al giudice la decisione circa l'attribuzione del diritto al mantenimento, prima di quel momento inesistente….. La legge, quindi, fonda l'estinzione dell'obbligo di contribuzione dei genitori nei confronti dei figli maggiorenni, in concomitanza all'acquisto della capacità di agire e della libertà di autodeterminazione, che si conseguono al raggiungimento della maggiore età”. Non è pertanto necessario stabilire in via legislativa un termine finale del diritto al mantenimento (salva l’obbligazione alimentare ex art 404 c.c.) perché “sulla base del sistema positivo, tale limite è già rinvenibile e risiede nel raggiungimento della maggiore età, salva la prova (sovente raggiunta agevolmente ed in via indiziaria) che il diritto permanga per l'esistenza di un percorso di studi o, più in generale, formativo in fieri, in costanza di un tempo ancora necessario per la ricerca comunque di un lavoro o sistemazione che assicuri l'indipendenza economica”.
E’ certamente innovativa la affermazione che il giudice può attribuire un diritto prima inesistente: sembra però che qui in realtà si discuta non già della inesistenza, ma della estinzione del diritto e dell’onere della prova sulle cause impeditive dell’effetto estintivo altrimenti prodotto dal conseguimento della maggiore età. L’ordinanza prosegue infatti affermando che l’onere della prova grava sul richiedente e cioè sul figlio maggiorenne, anche in virtù del principio della vicinanza alla prova, pur potendosi ricorrere a presunzioni favorevoli, in particolare quando la maggiore età è stata raggiunta da poco.
La regola che il diritto al mantenimento si estingua al sopravvenire della maggiore età, salvo che il figlio non offra la prova di essere diligentemente impegnato nella ricerca di un lavoro o in un percorso di studi compatibile con le risorse della famiglia, non è però esplicitamente affermata dall’ art. 337 septies c.c., che in verità non tratta neppure dei doveri dei genitori verso i figli maggiorenni ma solo della modalità con il quale il dovere di mantenimento si assolve – in taluni casi- nei confronti di costoro: e cioè con il pagamento di un assegno periodico, qualora non sia ancora conseguita l’autonomia economica, versato direttamente all’avente diritto, salvo diversa determinazione del giudice.
La norma è inserita nel capo secondo (esercizio della responsabilità genitoriale a seguito di separazione, scioglimento del matrimonio etc..) del titolo IX (diritti e doveri dei figli) il cui capo primo esordisce con l’ormai noto statuto dei diritti del figlio (artt. 315 e 315 bis), prosegue con l’art. 316 sulla responsabilità genitoriale e con l’art. 316 bis sul dovere di mantenimento dei figli, norme che precedono quella esaminata dal Collegio giudicante e ne definiscono il significato.
La lettura sistematica orienta verso l’affermazione che non è dall’art. 337 septies c.c. che discendono i doveri dei genitori verso i figli, stabiliti invece dai precedenti artt. 315 e ss., ma piuttosto che questa norma regola le modalità di esercizio dei diritti dei figli maggiorenni e di adempimento dei doveri genitoriali in caso di separazione, divorzio, cessazione della convivenza; in altre parole quando cessa lo spontaneo e concordato adempimento dei doveri genitoriali ed è necessario rivolgersi al giudice. Se i genitori convivono in armonia, i doveri verso i figli si assolvono con la prestazione diretta del mantenimento oltre che di assistenza morale e materiale. In una situazione di conflitto, quando si ricorre al giudice, quest’ultimo, può, valutate le circostanze, attribuire al figlio maggiorenne (o al genitore con lui convivente) un assegno di mantenimento: l’unico modo per rendere quantificabile e coercibile almeno una delle prestazioni genitoriali, posto che il diritto all’ assistenza morale e materiale, nella parte in cui è espressione del “diritto all’amore” dei genitori [17] è una prestazione infungibile e incoercibile, se non, forse ed entro certi limiti, con i mezzi indiretti.
La norma centrale sui diritti del figlio, che correlativamente definisce anche i doveri dei genitori, non è l’art. 337 septies, bensì l’art. 315 bis c.c. introdotto dalla legge di riforma della filiazione 10 dicembre 2012 n. 219/2012, che non distingue tra i diritti del figlio maggiorenne e del figlio minorenne se non al comma terzo, per il diritto di ascolto, proprio solo del figlio minorenne perché quest’ultimo non ha la capacità di agire e attraverso l’ascolto è comunque ammesso ad esprimere la propria opinione e le proprie esigenze sulle questioni che lo riguardano. Analogamente né l’art. 316 né l’art. 316 bis c.c. distinguono tra figli minorenni e figli maggiorenni.
La ragione di questa mancata distinzione ben si comprende ove si consideri che la riforma della filiazione, completata con il D.lgs. 28 dicembre 2013 n. 154, ha sostituito l’obsoleto istituto della potestà genitoriale con quello della responsabilità genitoriale, sostituzione che non è, come la più avveduta dottrina ha osservato, meramente terminologica, ma costituisce un cambio di rotta e una innovazione che testimonia una mutata considerazione del rapporto tra genitori e figlio nella quale vengono posti in primo piano i diritti di quest’ultimo [18].
La dottrina ha infatti sin dal primo momento evidenziato un particolare elemento di differenziazione sostanziale che caratterizza la responsabilità genitoriale rispetto alla potestà e ne testimonia il carattere più ampio e che si coglie sotto il profilo dell’assenza di una limitazione temporale, che era originariamente era fissato dall'art. 316 c.c. al compimento della maggiore età dei figli o alla loro emancipazione[19]. Pertanto, pur cessando i poteri di rappresentanza, la cura che il genitore deve prestare al figlio prosegue ben oltre il raggiungimento della maggiore età e fino al conseguimento della indipendenza economica. L’adempimento degli obblighi corrispondenti ai diritti previsti dall’art. 315 bis c.c., nel rispetto – o, comunque, tenendo conto – delle capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni del figlio, costituisce l’oggetto principale della “responsabilità genitoriale”: per cui, come sottolinea la relazione illustrativa, la responsabilità in quanto tale non viene meno con la maggiore età, ma perdura, quantomeno nella sua componente “economica”, sino a che il figlio non abbia raggiunto l’indipendenza [20].
Nella relazione illustrativa al D.lgs. 154/2013 è infatti esplicitamente affermato che “Rispetto alla precedente nozione di potestà genitoriale si è preferito non indicare un termine finale, che invece ritroviamo nella previgente formulazione del primo comma dell'articolo 316 …… Il concetto di responsabilità genitoriale è necessariamente più ampio, in quanto nella sua "componente" economica vincola i genitori al mantenimento dei figli ben oltre il raggiungimento della maggiore età, fino cioè al raggiungimento della indipendenza economica, come ormai pacificamente affermato nel diritto vivente. Si è scelto, pertanto, di eliminare ogni riferimento alla "durata" della responsabilità genitoriale inserendo tale specificazione solo dove necessario”. Se la responsabilità genitoriale non si estingue automaticamente al compimento della maggiore età, non si estinguono neppure, per questa causa, i doveri ad essa connessi; il conseguimento della maggiore età determina solo la cessazione dei poteri di rappresentanza, impensabili nei confronti di un soggetto che ha acquistato la capacità di agire.
4. Considerazioni conclusive
Se le premesse sulla responsabilità genitoriale sono corrette non può che conseguirne una considerazione: dire che la legge fonda l'estinzione dell'obbligo di contribuzione dei genitori all'acquisto della maggiore età, significa offrire una lettura dell’art. 337 septies c.c. non convalidata dalla lettera della norma e in contrasto con il sistema in cui essa si inserisce, poiché nessuna delle principali disposizioni che sanciscono i diritti dei figli (art. 30 Cost., artt. 315 bis e 316 c.c.) prevede limiti temporali predeterminati, e, come è stato recentemente osservato, i doveri nei confronti dei figli scaturiscono dalla filiazione e prescindono dall’esistenza di poteri nei loro confronti[21].
Del resto lo stesso principio di autoresponsabilità, cui richiamare il figlio per impedirgli di abusare del suo diritto [22], ha una valenza in quanto si giustappone al principio di responsabilità genitoriale, il quale postula che sia data tempestiva ed efficace soddisfazione alle esigenze di mantenimento del figlio, a prescindere dalla qualificazione dello status[23].
Ciò che si ricava da una lettura contestuale e complessiva della norme che regolano la filiazione, illuminate dalla disposizione contenuta nell’art. 30 della Costituzione, è che il ruolo di supporto dei genitori, pur diversamente modulandosi al conseguimento della maggiore età, termina solo nel momento in cui il figlio si inserisce (o avrebbe dovuto farlo secondo i paramenti di una diligente condotta) in modo indipendente ed autonomo nella società[24]. Di conseguenza, il significato dell’art. 337 septies c.c. non è quello di costituire ex novo il diritto al mantenimento del figlio maggiorenne, bensì quello di prevedere al tempo stesso una causa di estinzione (l’indipendenza economica) dei doveri genitoriali che altrimenti si protraggono ex lege oltre la minore età, e le modalità con le quali questo dovere -ove non sussista la predetta causa di estinzione- può essere assolto nei confronti dei figli maggiorenni in caso di separazione, divorzio etc.
Del resto, questa è l’interpretazione finora corrente e consolidata nella giurisprudenza di legittimità che da oltre vent’anni afferma che l'obbligo dei genitori di concorrere tra loro nel mantenimento dei figli non cessa automaticamente con il raggiungimento della maggiore età, ma continua invariato finché i genitori o il genitore interessato non diano la prova che il figlio ha raggiunto l'indipendenza economica, oppure finché non diano la prova che il figlio è stato da loro posto nelle concrete condizioni per poter essere economicamente autosufficiente, quand'anche poi non ne abbia tratto profitto per sua colpa[25].
Anche sotto il profilo processuale la tesi oggi esposta dalla Cassazione si rivela poco soddisfacente.
E’ già stato osservato che ipotizzare una automatica estinzione del diritto al mantenimento con la maggiore età salvo che il figlio chieda (e ottenga) il mantenimento, lascerebbe il figlio, proprio in concomitanza con il periodo in cui- anche secondo la stessa ordinanza in esame- gioca in suo favore la presunzione di giustificata assenza di indipendenza economica, privo sostegno per periodi più o meno lunghi, secondo i tempi processuali[26]. Tuttavia il provvedimento non afferma che il genitore onerato possa ipso facto smettere di pagare l’assegno il giorno del diciottesimo compleanno del figlio. Sembra anzi che si richieda una previa verifica giudiziale sulla sussistenza di una ragione ostativa alla ritenuta estinzione conseguente alla maggiore età. Ma, se è pur sempre necessario il ricorso al giudice, non si può identificare il convenuto con il soggetto passivo del rapporto, posto che spetterebbe comunque al genitore onerato dell’obbligo di mantenimento chiedere la predetta verifica, anche al fine di non rischiare che gli si addebiti la violazione degli obblighi di assistenza familiare. Sarebbe anche difficile qualificare “richiedente” il figlio che nel giudizio di revisione delle condizioni di separazione e divorzio non abbia spiegato neppure un intervento, e ancora di più il figlio divenuto maggiorenne nel corso di un giudizio di separazione o divorzio già instaurato; di contro, richiedente l’assegno potrebbe essere il genitore convivente, in virtù della legittimazione concorrente di cui si è detto, che in un giudizio volto a far dichiarare la cessazione dell’obbligo di mantenimento ha di regola posizione processuale di convenuto.
Ciò contribuisce a dimostrare che non ci si può sganciare dall’idea che non è la maggiore età, ma il conseguimento dell'indipendenza economica il fatto estintivo della obbligazione legale che grava sui genitori e che, come tutti i fatti estintivi del credito, deve essere provato dal debitore; non si può, perché la riforma della filiazione ha configurato la responsabilità genitoriale come priva del limite temporale già inerente alla potestà, dando così una chiara indicazione in proposito, e quindi si introdurrebbero nel sistema elementi di incoerenza.
Inoltre, lo stesso principio di vicinanza alla prova appare un richiamo più suggestivo che effettivo, considerati i parametri con i quali si valuta la diligente condotta del figlio nell’attivarsi per trovare una occupazione. Non può dirsi che per il genitore onerato è impossibile o oltremodo difficile procurarsi la prova delle attività del figlio e del suo più o meno diligente impegno. Se il figlio è studente universitario il genitore ha diritto di accesso a tutta la documentazione universitaria (iscrizione, indicazione di data degli esami sostenuti e della relativa votazione); se lavora, o ha lavorato, l’Agenzia delle entrate deve consentire di estrarre tutta la documentazione concernente i redditi del figlio [27]. Inoltre, il fattore tempo può giocare un ruolo decisivo nel raggiungimento della prova per presunzioni, che possono formarsi in favore dell’una o dell’altra parte.
Infine, resta il dubbio sulla necessità di una ricostruzione così divergente dai principi finora consolidati, posto che nella fattispecie il risultato finale era già agevolmente argomentabile con il richiamo dei precedenti; nulla cambia per il caso in esame, ma le affermazioni contenute nella ordinanza potrebbero essere invocate in ben altri scenari e con conseguenze, anche sull’aumentare del contenzioso, che al momento è difficile prevedere.
[1] Cfr. Cass. civ. 14.12.2018 n. 32529.
[2] Cfr. Cass. civ. 24.6.2013 n. 15753.
[3] Cass. civ. 19.3.2012 n. 4296.
[4] Cfr. per tutte Cass. civ. 22.6.2016 n. 12952.
[5] Cfr. Cass. civ., 10.1.2014, n. 359.
[6] Cass. civ. 22.2.2016 n. 12952 cit; Cass. civ. 5.3.2018 n. 5088.
[7] in dottrina si veda Fortino, Diritto di famiglia. I valori, i principi, le regole, Milano, 1997, 345 ss. e 384; Di Stefano, L'obbligo di mantenimento del figlio maggiorenne: tra esigenze di tutela e pericolo di parassitismo sine die, in Fam. pers. succ., 2009, 68 ss.
[8] Cass. civ. 3.4.2002 n. 4765.
[9] Cass. civ. 11.1.2007, n. 407; Trib. Roma 18.5.2020.
[10] Cass. civ. 1.2.2016, n.1858; App. Catanzaro 12.05.2020, n.437; App. Catania 13.7.2017.
[11] Cass. civ. 20.8.2014 n. 18076; Trib. Milano 29.3.2016.
[12] Cass. civ. 11.01.2007, n.407; App. Roma, 14.10. 2016 n.6080.
[13] Cass. civ. sez. un., 29.09. 2014, n.20448.
[14] Cass. civ. sez. I 20.8.2014 n. 18076.
[15] Cass. civ. 26.9.2011 n. 19589; Cass. civ. 8.8. 2013 n. 18794 e la già citata Cass. 12952/2016.
[16] Cass. civ. 6.12.2013 n. 27377; Cass. civ. 05.03.2018 n. 5088; Trib. Padova, 13.6.2018 n.1296.
[17] C. M. Bianca, Istituzioni di diritto privato, Milano, 2014, 775.
[18] Si veda: C. M. Bianca, Diritto civile, 2.1, La famiglia, V ed., Milano, 2014, 330; Id., Note introduttive, in Nuove leggi civ. comm., 2013, 437; M. Bianca, Tutti i figli hanno lo stesso statuto giuridico, in Nuove leggi civ. comm., 2013, 507 ss.; Berretta, Introduzione, in Filiazione. Commento al decreto attuativo, in M. Bianca (a cura di), Milano, 2014, XVII; M. Dossetti, M. Moretti, C. Moretti, La riforma della filiazione: aspetti personali, successori e processuali. L.10 dicembre 2012, n. 219, Bologna, 2013.
[19] Al Mureden, La responsabilità genitoriale tra condizione unica del figlio e pluralità di modelli familiari in Fam. e dir. 5, 2014, 466.
[20] In questi termini anche Salanitro, Riforma della filiazione, Treccani libro dell’anno 2015; l’A. peraltro rappresenta il dubbio se “il potere di indirizzo, consiglio ed orientamento, che costituiva il nucleo centrale dell’esercizio della potestà dei genitori, sia anch’esso limitato alla minore età, secondo la regola tradizionalmente accolta, o abbia una durata indefinita rispondente alle capacità e alle esigenze del figlio”.
[21] In questi termini, e con giudizio fortemente critico sull’ordinanza in esame v. De Marzo, Figli maggiorenni e diritto al mantenimento. Le ragioni del dissenso dalla recente pronuncia della S.C. in www.foroitaliano.it 24 agosto 202.
[22] sull’abuso del diritto al mantenimento v. anche Cass. 12952/2016 cit.
[23] Corte Cost. 13 maggio 1998 n. 166.
[24] Ulteriori riferimenti in Sesta, L’unicità dello stato di filiazione e i nuovi assetti delle relazioni familiari in Fam e dir. 3, 2013 237; si veda anche Arceri, Il mantenimento dei figli maggiorenni, in L’affidamento dei figli nella crisi della famiglia, a cura di Sesta e Arceri, 448 ess.; Bianca C. M. La nuova disciplina separazione dei genitori e affidamento dei figli in Dir. Famiglia 2006, 679.
[25] Cass. civ. 14.12.2018 n. 32529; Cass. civ. 26.9.2011 n. 19589; Cass. civ. 2.9.1996 n. 7990; Cass. civ. 7.5.1998 n. 4616; Cass. Civ. 7.4.2006 n. 8221.
[26] De Marzo, Figli maggiorenni e diritto al mantenimento. Le ragioni del dissenso, cit.
[27] TAR Puglia 2.5.2017, n. 872; Cons. Stato, 16.9. 2003, n. 5240.
“Non luogo a provvedere” sull’appello proposto avverso decreto presidenziale monocratico
Con il decreto 628 del 25 08 2020 il Presidente del Consiglio di Giustizia amministrativa Regione Siciliana ha dichiarato il “non luogo a provvedere” sull’appello proposto avverso un decreto presidenziale monocratico reso ai sensi dell’art. 56 c.p.a.
Nonostante l’appellabilità delle pronunce cautelari monocratiche sia testualmente esclusa dall’art. 56, c. 2, c.p.a., che qualifica esplicitamente come “non impugnabile” il decreto motivato con il quale il presidente o il magistrato da lui delegato provvede sulla domanda di parte ricorrente di concessione di misure cautelari provvisorie, non sono mancate pronunce che hanno ritenuto ammissibile l’appello di tali decreti (Cons Stato, Sez. IV, 7 dicembre 2018 n. 5971; Sez. III, 11 dicembre 2014 n. 5650; Id., 24 giugno 2019 n. 3246; Id., 30 marzo 2020 n. 1553. In dottrina per un primo commento v. M.A. Sandulli, Sugli effetti pratici dell’applicazione del’art 84 d.l. n. 18 del 2020 in tema di tutela cautelare: l’incertezza del Consiglio di Stato sull’appellabilità dei decreti monocratici, in Federalismi.it, Osservatorio emergenza Covid – 19, 31 marzo 2020).
La pronuncia del giudice di secondo grado siciliano si segnala pertanto per ribadire la chiara voluntas legis, nel senso della esclusione della possibilità di appellare il decreto cautelare monocratico.
Ma non solo.
La formulazione del dispositivo non si limita alla classica dichiarazione d’inammissibilità o irricevibilità dell’appello, ma statuisce il “non luogo a provvedere”. La motivazione ne chiarisce la ragione, sottolineando che era stato chiesto “un rimedio giuridico inesistente secondo il vigente tessuto processuale” e precisando che “sulle istanze di rimedi giuridici inesistenti non vi è luogo a provvedere, perché non vi è luogo a incardinare una fase o grado di giudizio, esulando dalle competenze presidenziali l’esercizio di qualsivoglia potere processuale non previsto da nessuna disposizione di legge, sia nel senso che non è possibile provvedere sul merito della richiesta, sia nel senso che non è possibile rimettere l’affare all’esame del collegio”.
Sul piano teorico, una pronuncia d’inammissibilità dell'appello, o anche, volendo sottolineare la mancanza di un presupposto o di un requisito essenziali per poter considerare esistente l’atto processuale, di sua irricevibilità, avrebbe a ben vedere creato meno problemi sotto il profilo del rispetto del principio della domanda o del divieto di non liquet, come normalmente avviene nel giudizio di primo grado allorquando si esclude che l’atto sia impugnabile.
L'atipicità del dispositivo non sembra peraltro trovare specifica giustificazione nella circostanza, parimenti messa in evidenza nella motivazione della pronuncia, che “il ricorso risulta depositato e iscritto a ruolo mediante una “forzatura” del sistema informatico, con attribuzione della classificazione errata quale “appello avverso ordinanza cautelare”, essendo inesistente la tipologia “appello avverso decreto cautelare””. Anche sotto questo profilo, una pronuncia di semplice inammissibilità avrebbe evitato di porre il problema della rilevanza e della esatta qualificazione della difformità dal modello di deposito predisposto dal sistema informatico, ipotesi per la quale non può a priori e in assoluto escludersi la possibilità di qualificazione anche in termini di mera irregolarità.
"Pensiero causale e pensare complesso". Il diritto penale di Salvatore Aleo
di Alessandro Centonze
Sommario: 1. Pensiero causale e pensare complesso e la crisi del diritto penale classico – 2. L’aggiornamento dei modelli di analisi della responsabilità penale del nostro ordinamento e l’inquadramento dei fenomeni criminali complessi – 3. Il modello causale nel sistema penale italiano e il diritto penale della complessità – 4. L’insufficienza del modello causale rispetto all’inquadramento dei fenomeni criminali concorsuali, collettivi e organizzati: l’analisi del molteplice – 5. Conclusioni.
1. Pensiero causale e pensare complesso e la crisi del diritto penale classico
La recente pubblicazione di Pensiero causale e pensare complesso[1] di Salvatore Aleo, presso la Casa editrice Pacini di Pisa, ci offre lo spunto per riflettere sul tentativo portato avanti con successo nell’ultimo ventennio da questo Autore sulla crisi del diritto penale classico e sulle soluzioni perseguibili per adeguare i modelli provenienti dall’esperienza giuridica del secolo scorso, ormai insufficienti a inquadrare i fenomeni criminali complessi, concorsuali, collettivi o organizzati che siano, che dominano il mondo contemporaneo.
Questo lavoro, infatti, giunge a completamento di una lunga riflessione sulla necessità di adattare gli strumenti della repressione penale ai problemi della complessità posti dal mondo post-moderno, che, con specifico riferimento al tema delle applicazioni causali nel sistema penale, ha prodotto alcuni mirabili risultati scientifici, tra i quali ci si limita a citare le monografie, Sistema penale e criminalità organizzata[2], pubblicata nel 1999, Causalità, complessità e funzione penale[3], pubblicata nel 2003, Dei giuristi e dintorni[4], 2014, Codificazione e decodificazione[5], 2019, con le quali il presente lavoro si pone in una sorta di percorso omogeneo. È, del resto, lo stesso Salvatore Aleo a chiarire il significato scientifico più profondo di questa sua ulteriore riflessione sulla causalità – che ha il suo antecedente diretto nel citato Causalità, complessità e funzione penale – quando afferma nella prefazione della sua opera: «Non ho cambiato idea rispetto allo scritto di diciassette anni fa e anzi ne riproduco formalmente alcuni passaggi […], ma spero di riuscire sia ad allargare l’orizzonte conoscitivo e semantico, sia ad approfondire alcuni ragionamenti […]»[6].
Lo sforzo, dichiarato e riuscito, di Salvatore Aleo, dunque, è quello di affrontare il problema dell’insufficienza del modello causale a inquadrare le dinamiche dei fenomeni criminali complessi, tipici dell’epoca post-moderna, con i quali, da anni, il nostro Autore si confronta.
2. L’aggiornamento dei modelli di analisi della responsabilità penale del nostro ordinamento e l’inquadramento dei fenomeni criminali complessi
Per risolvere il problema dell’aggiornamento dei modelli di analisi della responsabilità penale del nostro ordinamento, infatti, non si può che partire dalle impostazioni teoriche proprie delle scienze giuridiche – tanto citate, quanto poco studiate[7], soprattutto dai giuristi delle nuove generazioni –, che l’Autore scandaglia in alcuni passaggi espositivi veramente esemplari, da cui partire per elaborare un percorso di rivisitazione che, pur partendo dalle scienze criminali, si avvale di altre discipline scientifiche in funzione di supporto alla teoria e definizione della responsabilità personale nel diritto penale.
L’Autore, infatti, ritiene che soltanto un approccio di natura multifunzionale, che tenga conto delle caratteristiche di diffusione e pervasività sul territorio dei fenomeni criminali complessi o particolarmente complessi, ci può fare comprendere la loro dimensione intrinsecamente sociale, la loro capacità di inquinamento dell’apparato economico e istituzionale, le connotazioni di pericolosità proprie di tali fenomenologie; e per fare questo, muovendo dai fondamentali studi ottocenteschi della dottrina tedesca sulla causalità, sviluppa un percorso epistemologico, che passa attraverso i diversi ambiti scientifici nei quali le teorie causali sono state applicate, con un attenzione particolare alla filosofia della scienza, alla quale si dedica l’intero ottavo capitolo, intitolato “Modelli di spiegazione nella filosofia della scienza e nei diversi ambiti scientifici”.
Secondo l’Autore, infatti, soltanto prendendo coscienza della complessità e della pervasività delle fenomenologie criminali dell’epoca post-moderna è possibile comprendere come la relazione giuridica tra due o più eventi è sempre la conseguenza della concomitanza di una pluralità di fattori, i quali si pongono in rapporto tra loro in termini non facilmente riconducibili ai modelli di analisi di tipo causale, soprattutto se ci si riferisce a condotte illecite multiformi e plurisoggettive. L’insufficienza delle analisi di tipo causale pone, però, il problema della necessità di accelerare la ricerca di modelli nuovi e più aggiornati, ma soprattutto idonei a rappresentare fenomeni criminali complessi o organizzati che non sono facilmente riducibili all’interno degli schemi con i quali le teorie sulla causalità storicamente tentano di inquadrare tutte le condotte delittuose: tanto quelle semplici quanto quelle complesse, tanto quelle individuali quanto quelle plurime, tanto quelle collettive quanto quelle associative.
Senza considerare che l’approccio causale appare inadeguato anche sotto un diverso profilo, rappresentato dal fatto che il concetto di causalità riguarda la spiegazione di eventi che interferiscono con il corso degli accadimenti che può essere considerato come normale; mentre, tale approccio appare inadeguato a spiegare fenomeni sociali di particolare complessità, che possono essere determinati da una pluralità di cause concomitanti, tra loro eterogenee, ovvero da una pluralità di elementi funzionalmente rilevanti. Tali considerazioni, portate avanti con esemplare lucidità, spingono Salvatore Aleo, in un passaggio fondamentale del suo lavoro, ad affermare, che la «causalità è uno schema logico-conoscitivo espressione di una logica di tipo semplice, binaria, e formale, che presuppone la predefinizione astratta e generale delle tipologie entro cui possono essere ricondotti gli eventi considerati […]», da cui discende che è «impossibile la tipizzazione di tutte le situazioni che possono capitare nella realtà, e le nozioni giuridiche finiscono così per essere […] criteri di orientamento del giudizio, e della relativa argomentazione […]»[8].
D’altra parte, è proprio l’esigenza di una conoscenza concreta delle dinamiche che sottostanno ai fenomeni criminali complessi dell’epoca post-moderna a mettere in crisi i modelli di analisi causale, in considerazione del fatto che gli stessi, inevitabilmente, finiscono per decontestualizzare la condotta illecita dall’ambiente circostante all’agente e dalle relazioni interpersonali che influenzano le sue azioni, individuando, allo scopo di realizzare queste condizioni astratte, un normotipo criminoso nella realtà inesistente e sfalsando così il punto di osservazione necessario per la valutazione dell’illiceità dei comportamenti criminosi che si pretende di spiegare, ma che invece non si riescono a inquadrare. Il percorso attraverso il quale si sostanzia l’analisi causale, a ben vedere, punta a soddisfare l’esigenza di dimostrare, in modo semplicistico, che la condotta di un agente, in un contesto illecito, può essere ritenuta la causa di un determinato evento delittuoso soltanto se, in sua assenza, l’evento medesimo non si sarebbe verificato, prescindendo da qualsiasi valutazione sui modelli operativi concretizzati utilizzati; semplificazioni che portano a risultati fortemente distonici nel sistema penale, come nei casi dell’esposizione di moltitudini di persone all’azione di sostanze patogene[9], della causalità dell’omissione[10], su cui l’Autore si sofferma confrontandosi con alcuni capisaldi del pensiero giuridico contemporaneo[11].
Così, però, difficilmente si riescono a enucleare da un contesto illecito le condotte individuali che possono essere ritenute condizione indispensabile per la costituzione o il mantenimento in vita del milieu criminale, in considerazione del fatto che in un contesto concorsuale, collettivo o organizzato, nessuna condotta può essere, salvo casi eccezionali, ritenuta indispensabile, essendo al contrario necessario che si prendano in considerazione, in termini di funzionalità, le loro relazioni di reciproco affidamento e il programma criminoso nell’ambito del quale gli stessi devono essere necessariamente inquadrati e valutati[12].
3. Il modello causale nel sistema penale italiano e il diritto penale della complessità
Il modello causale, invero, così come prefigurato dal sistema penale italiano, non tiene in debito conto il fatto che nelle interazioni sociali e soprattutto nei comportamenti concorsuali o riferibili alle collettività, non necessariamente organizzate, il singolo agente agisce sempre in modo simultaneo ai membri del contesto di riferimento, concorrenti o associati che siano, con la conseguenza che è plausibile che lo stesso abbia a disposizione più di una causa che potrebbe dare luogo a un determinato effetto. Nella stessa direzione, appare altrettanto probabile che il suo comportamento sia influenzato dalle condotte degli altri soggetti che condividono il progetto concorsuale o operano all’interno della stessa collettività e sia orientato dalla consapevolezza e dalla volontà di contribuire con la sua condotta funzionale alla realizzazione di uno scopo più o meno condiviso[13].
Il pensiero espresso dall’Autore, in quest’opera straordinaria, appare allora chiaro: le impostazioni ermeneutiche di ispirazione causale sono inadeguate a ricostruire e a inquadrare i fenomeni criminali complessi, anche in considerazione del fatto che, in presenza di più condotte riconducibili a un unitario disegno criminale, che ad esempio può costituire un progetto concorsuale articolato o la concretizzazione di una vasta e ramificata struttura associativa, non sempre risulta agevole selezionare le cause determinanti nel processo volitivo di un singolo agente, senza stravolgere le regole del suo percorso intellettivo che non è, se non raramente, conoscibile, con tutte le conseguenze negative che ne derivano in termini di accertamento dell’elemento soggettivo del reato.
La dimensione sociale di un fenomeno criminale concorsuale, collettivo o organizzato, infatti, influisce in modo significativo sulla valutazione delle condotte individuali dei soggetti che vi contribuiscono e lo alimentano, attraverso comportamenti non facilmente riconducibili a modelli generali e astratti, per le quali risulta indispensabile la preventiva valutazione del progetto su cui si fonda l’esistenza stessa della collettività e del grado di affidamento soggettivo preventivo, che nella dimensione – come detto concorsuale, collettiva o organizzata – ciascuno degli aderenti fa sul ruolo e sulla disponibilità soggettiva degli altri individui.
Secondo Salvatore Aleo, in questi casi, per valutare l’effettivo grado di coinvolgimento, penalmente rilevante, di ciascuna condotta illecita, a prescindere dalla sua riconducibilità a un modello normativo canonizzato dal sistema penale, ci si deve porre nelle condizioni idonee a potere valutare ognuna di tali condotte alla luce degli obiettivi illeciti perseguiti[14].
Di questo percorso sono esemplare rappresentazione le conclusioni formulate dall’Autore in tema di organizzazioni criminali, laddove afferma che è necessario comprendere che ogni singolo aderente deve potere fare preventivamente affidamento sulle prestazioni degli altri affiliati, il cui vincolo rappresenta la risultante della reciprocità delle aspettative sulle prestazioni dei consociati, valutabile in termini funzionali, nella prospettiva della realizzazione di un progetto criminoso che viene perseguito grazie alle loro prestazioni coordinate. Il singolo agente, quindi, può essere considerato il responsabile di uno delitto riconducibile alla consorteria di riferimento nella sola misura in cui la sua condotta è funzionale alla realizzazione del progetto associativo, con la conseguenza che il suo contributo alla realizzazione di una tale attività delittuosa può anche risultare di modesta entità e risultare ugualmente sanzionabile.
Si tratta, ritiene Salvatore Aleo, di una conclusione inevitabile, se si considera che un sodalizio criminale si avvale sempre di contributi soggettivi che si pongono in rapporto di collegamento funzionale diretto rispetto al programma della collettività organizzata, di modo che ciascun comportamento è comprensibile soltanto in funzione degli scopi illeciti perseguiti dall’organizzazione e appare giustificabile soltanto in relazione al perseguimento degli obiettivi programmati[15].
4. L’insufficienza del modello causale rispetto all’inquadramento dei fenomeni criminali concorsuali, collettivi e organizzati: l’analisi del molteplice
Il problema, tuttavia, è che queste condotte illecite, secondo il modello causale classico, sono di difficile inquadramento dal punto di vista della legge penale, in considerazione del fatto che nessuno tra i comportamenti che si sono presi in esame fino a questo momento possono essere ritenuti condicio sine qua non dei comportamenti criminosi connotati da complessità, concorsuale, collettivi o organizzati che siano. In queste ipotesi, infatti, nessuna di queste condotte può essere ritenuta indispensabile per il perseguimento degli obiettivi illeciti sanzionati dalla norma penale, in ragione del fatto che generalmente tali condotte non sono mai necessarie alla concretizzazione delle finalità sanzionate dalla fattispecie penale; il che ripropone il problema del sincronismo tra realtà criminale e tipicità formale, non del tutto risolto dalla scienza penalistica italiana, salvo autorevoli eccezioni[16].
Queste peculiarità sistematiche, d’altra parte, non devono mai impedire di ricercare la prova dell’illiceità dei singoli comportamenti delittuosi, evitando i rischi di un’inammissibile semplificazione probatoria, di cui l’Autore è pienamente consapevole, giustificata dall’esistenza di condotte – come detto concorsuali, collettive o organizzate – pericolose e dalla loro astratta riconducibilità a un progetto criminoso più o meno complesso. Un’opzione metodologica di questo tenore, infatti, finirebbe per determinare un inammissibile ricorso a criteri oggettivi in tema di valutazione della responsabilità penale del singolo agente[17].
Il problema principale, allora, è quello di prendere atto dell’insufficienza delle impostazioni causali, ai fini dell’inquadramento delle condotte illecite connotate da complessità esecutiva – come quelle concorsuali, collettive o organizzate –, in considerazione del fatto che lo stesso non sempre risulta idoneo, soprattutto nelle ipotesi più complesse, a spiegare le dinamiche dei comportamenti soggettivi, ma, cosa ancora più problematica, non riesce a fornire un modello di imputazione e di conseguente attribuzione della responsabilità coerente con le sue premesse scientifiche, dando vita a soluzioni applicative che, a prescindere dalla fedeltà semantica alle nozioni tipiche della causalità, finiscono per ricorrere a parametri eterogenei e non condizionalistici.
In questa cornice, esemplari appaiono i richiami effettuati da Salvatore Aleo alla sfera di operatività delle organizzazioni criminali, esaminata attraverso una prospettiva che, richiamando la teoria generale dell’organizzazione[18], consenta di valutare tutte le relazioni funzionali, oggettive e soggettive, esistenti all’interno del consesso criminale e il grado di reciproco condizionamento dei singoli apporti individuali. Soltanto questo modello di analisi funzionale del comportamento criminoso consente di differenziare la responsabilità dell’affiliato per i singoli reati-fine rispetto a quella per l’appartenenza al sodalizio, distinguendo ogni apporto in relazione alla struttura e al programma consortile[19].
Questa posizione ermeneutica, del resto, mi sembra non dissimile dalla giurisprudenza di legittimità consolidatasi nel corso dell’ultimo quindicennio, che, al di là degli incondizionati richiami semantici al principio di causalità, sembra avere superato una visione rigida della causalità penale per descrivere i più complessi fenomeni di criminalità organizzata, imponendo modelli di analisi della responsabilità penale più flessibili. La Corte di cassazione, dunque, sembra avere preso atto delle implicazioni negative che l’applicazione incondizionata del modello causale, in assenza di un’analisi approfondita delle peculiarità sistematiche delle figure delittuose associative, comporta per la valutazione della responsabilità penale, anche in conseguenza della particolare complessità dei fenomeni criminali attraverso i quali si concretizzano le condotte consortili[20].
Non è, pertanto, possibile imporre modelli di analisi dei fenomeni associativi – soprattutto se particolarmente complessi – senza avere compreso le dinamiche interpersonali che connotano tali realtà criminali e le interazioni funzionali esistenti tra le varie componenti del sodalizio considerato. Questa, del resto, è la ragione che induce a ritenere necessario per la comprensione dei comportamenti delittuosi consortili un modello di analisi che tenga conto delle peculiarità sistematiche di tali figure criminose, nelle quali l’illiceità di una condotta di contiguità a una consorteria può essere valutato soltanto ex post e con le garanzie proprie del processo penale[21].
5. Conclusioni
Consiglio sinceramente a quanti avranno la possibilità di farlo di leggere l’illuminante Pensiero causale e pensare complesso di Salvatore Aleo, accostandosi al suo percorso scientifico, al contempo originale e convenzionale, che aiuterà il lettore a meglio comprendere la crisi irreversibile del diritto penale classico e i possibili rimedi per fare fronte a questo inarrestabile processo, dall’interno del sistema penale e con le garanzie proprie del nostro impianto costituzionale.
[1] S. Aleo, Pensiero causale e pensare complesso, Pacini, Pisa, 2020.
[2] S. Aleo, Sistema penale e criminalità organizzata, Giuffrè, Milano, 1999.
[3] S. Aleo, Causalità, complessità e funzione penale, Giuffrè, Milano, 2003.
[4] S. Aleo, Dei giuristi e dintorni, Giuffrè, Milano, 2014.
[5] S. Aleo, Codificazione e decodificazione, Giuffrè, Milano, 2019.
[6] Si veda S. Aleo, Pensiero causale e pensare complesso, cit., p. 7.
[7] Il riferimento effettuato nel testo riguarda soprattutto gli scritti fondamentali – e come detto sempre meno approfonditi dalle nuove leve di studiosi delle scienze criminali – di M. von Buri, Über kausalität und deren Verantwortung, J.M. Gebhardt’s Verlag, Leipzig, 1883; nonché di K. Engisch, Die Kausalität als Merkmal der strafrechtlichen Tatbestände, Mohr, Tübingen, 1931, ai quali l’Autore si riferisce diffusamente in diversi passaggi della sua esposizione.
[8] Si veda S. Aleo, Pensiero causale e pensare complesso, cit., p. 203.
[9] Si veda S. Aleo, op. ult. cit., pp. 195-197.
[10] Si veda S. Aleo, op. ult. cit., cit., pp. 197-199.
[11] Ci si riferisce soprattutto a M. Taruffo, La prova dei fatti giuridici. Nozioni generali, Giuffrè, Milano, 1992; F. Stella, Giustizia e modernità. La protezione dell’innocente e la tutela delle vittime, Giuffrè, Milano, 2001.
[12] Si tratta di posizione già espresse in S. Aleo, Causalità, complessità e funzione penale, cit., pp. 34 ss.
[13] Si tratta di posizione già espresse in S. Aleo, op. ult. cit., pp. 34 ss.
[14] Si veda S. Aleo, Pensiero causale e pensare complesso, cit., p. 219.
[15] Si veda S. Aleo, op. ult. cit., pp. 219-222.
[16] Queste posizioni, tra l’altro, risultano espresse in S. Aleo, Sistema penale e criminalità organizzata, cit., pp. 20-22, che, con particolare, riferimento alla sfera di operatività delle organizzazioni criminali nostrane, costituisce il più lucido intervento presente in materia.
[17] Si veda S. Aleo, Pensiero causale e pensare complesso, cit., p. 219-220.
[18] Per la quale si rinvia, soprattutto, a L. von Bertalanffy, Teoria generale dei sistemi (1969), trad. it., Mondadori, 2010.
[19] Si rinvia, ancora, a S. Aleo, Sistema penale e criminalità organizzata, cit., pp. 20-22.
[20] Si veda Cass. pen., Sez. un., 12 luglio 2005, Mannino, n. 33478, in C.E.D. Cass., n. 231671-01
[21] Si veda Cass. pen., Sez. un., 12 luglio 2005, Mannino, n. 33748, cit.
"Rückkehr unerwünscht" [1]
Il fisioterapista dell’Ajax di Cruyff, le ferrovie e la Shoah.
di David Cerri
“Vedete, come potete lasciare che 25.000 ebrei, o persone o diciamo mucche, come potete lasciare che 25.000 bestie spariscano durante il tragitto? […] Avete mai visto 25.000 persone ammucchiate? […] Avete mai visto anche solo 10.000 persone ammucchiate? Equivalgono a cinque treni merci e mettiamo che stipaste i treni merci secondo il modello della polizia ungherese, con tutta la buona volontà non riuscireste a far entrare più di 3.000 persone in un treno.”
Gli interlocutori di Eichmann non riuscivano di certo a immaginare quanti problemi dovesse affrontare un organizzatore di un’operazione di sterminio.
“È incredibilmente difficile fare un carico su un treno, che si tratti di buoi o di sacchi di farina […] e quando si tratta di caricare delle persone le cose sono molto più complicate, soprattutto se si devono fare i conti con certe difficoltà.” [2]
Quando pensiamo alla Shoah, probabilmente una delle prime immagini che si affacciano alla mente è quella dell’ingresso di Auschwitz-Birkenau, con quei binari che si arrestano alla rampa sulla quale veniva operata la prima selezione dei deportati. Essa ha un significato tecnico, oltre che fortemente emotivo: scolpisce un indispensabile strumento dello sterminio, il trasporto ferroviario. Dai paesi dell’Europa occupata, dapprima le ferrovie nazionali curavano il viaggio di quelli che sarebbero presto diventati dei semplici Stücke (“pezzi”), poi dall’ingresso in territorio tedesco o direttamente amministrato (come la Polonia) la responsabilità ricadeva sulla Reichsbahn. Ebrei (la grande maggioranza), Sinti, Rom, erano caricati sui carri bestiame che tutti conosciamo dai media, e magari abbiamo anche visto di persona in qualche installazione espositiva.
Il ruolo giocato dalle ferrovie nella distruzione degli ebrei d’Europa [3] è già stato considerato dagli storici [4], ma se oggi ne riparliamo è a causa delle perenne attualità della Shoah, ferita che non si rimargina, e grazie ad un sopravvissuto che ha fatto della memoria di quei trasporti una battaglia per l’affermazione della responsabilità storica e giuridica degli enti che vi avevano collaborato, e per il conseguente risarcimento dei danni subiti.
Mi riferisco a Salo Müller, ebreo olandese oggi 84enne [5], ragazzino di 5 anni salvatosi per caso dal rastrellamento, che, dopo che ad Amsterdam i familiari erano saliti su quei carri, diretti dapprima al campo di transito di Westerbork, e di là ad Auschwitz [6], aveva evidentemente giurato a sé stesso di non tacere. Una vita di lavoro come (celeberrimo) fisioterapista dell’Ajax di Cruyff degli anni ’70 non gli ha fatto dimenticare i 107.000 ebrei olandesi - sì, tra di loro anche Etty Hillesum ed Anna Frank, la seconda con l’ultimo treno del settembre 1944 - che grazie alle ferrovie olandesi, le Nederlandse Spoorwegen, erano giunti ad una od all’altra delle famigerate rampe dei Lager.
93 treni erano partiti dall’Olanda tra il 1942 ed il 1944; e, colmo di una tragica beffa, con passeggeri che pagavano per andare alla morte. Il colossale sforzo organizzativo che ebbe come protagonisti figure note – come Adolf Eichmann – e meno note – come Albert Ganzenmüller – aveva infatti anche notevoli costi; e quale soluzione migliore di quella di farne pagare la maggior parte alle vittime, in particolar modo tramite i prelievi dai fondi delle comunità ebraiche ? i migliori clienti della Reichsbahn, Himmler e la Gestapo, avevano concluso buoni accordi con l’ente ferroviario, grazie ad una burocrazia del tutto cieca al loro contenuto ed attenta solo a conseguire la massima efficienza. Il costo era quello del biglietto di terza classe (4 Pfennig a testa per chilometro) ma – somma generosità – i bambini fino a dieci anni per quella sola andata pagavano la metà, ed i minori di quattro addirittura nulla…[7] ma la Gestapo (agenzia promotrice) non aveva fondi in bilancio appositamente stanziati e doveva ricorrere all’autofinanziamento; così gli oneri furono trasferiti sugli enti che gestivano la confisca delle proprietà ebraiche, oppure sulle stesse comunità.
La sorveglianza dei treni era affidata alla Ordnungspolizei, composta in buona parte da quegli “uomini comuni” da cui trae il titolo il noto volume di Browning; come egli scrive, questi poliziotti, tra i quali riservisti e personale di mezza età, vedevano in faccia i deportati, li fucilavano se tentavano fuggire, descrivevano nei loro rapporti i viaggi, senza apparentemente batter ciglio [8].
Eichmann tutti lo conoscono, ma solo le ricerche degli ultimi anni [9], con la scoperta di nuovo materiale documentario, ne hanno chiarito la figura propulsiva nel processo dello sterminio, contro l’abuso che si è fatto di una espressione pur straordinariamente efficace come quella coniata dalla Arendt nel suo resoconto del processo di Gerusalemme (la “banalità del male”), che nella realtà storica mal si attaglia ad un simile protagonista, principale organizzatore delle deportazioni all’interno della Reichssicherheitshauptamt (all’Ufficio IV B4 della RSHA, Direzione generale per la Sicurezza del Reich, uno dei dipartimenti delle SS); ma forse essa è più adatta alle migliaia e migliaia di ferrovieri, di diverse nazionalità, che non potevano ignorare quale compito stessero contribuendo a svolgere, ed ancor di più a tutto il personale aziendale che si occupava di una complessa operazione come quella della deportazione di massa. Ai loro vertici, in Germania, c’era l’ingegner Ganzenmüller, nazista della prim’ora (aveva partecipato con Hitler al fallito putsch di Monaco del ’23), che nel 1942 scriveva orgogliosamente, dalla sua scrivania di direttore generale f.f. della Reichsbahn (fresca nomina suggerita da Albert Speer[10]) all’aiutante personale di Himmler, Karl Wolff, di esser riuscito a realizzare il trasporto quotidiano di ebrei da Varsavia a Treblinka e di esser in procinto di garantire simili trasporti al campo di Sobibor; così garantendosi l’elogio ed il ringraziamento di Wolff: ”E’ con gioia tutta particolare (mit besonderer Freunde) che ho letto come da due settimane, ogni giorno, un treno con 5000 componenti del popolo eletto viene fatto partire per Treblinka…” [11]: il primo treno era arrivato a quel campo il 23 luglio 1942. L’ultimo Sonderzug (trasporto speciale) fu probabilmente quello del 15 aprile 1945, da Vienna a Theresienstadt, che nonostante tutte le difficoltà del momento gli impareggiabili uffici di Eichmann riuscirono a far partire.
Anche Ganzenmüller, per la cronaca, riparò in Argentina dopo la guerra, tornando poi in Germania nel 1955 e superando pressochè indenne un processo (grazie alle condizioni di salute), fino ad una morte (spero non serena) a 91 anni a Monaco [12].
“Il problema dei trasporti è fondamentale, e come tale deve essere risolto…Qui le buone maniere non servono. Io non so che farmene delle buone maniere, e non mi importa nel modo più assoluto di ciò che i posteri diranno dei metodi che ho dovuto impiegare”. [13]
Ora, quando si affrontano simili questioni - del come sia stato possibile per diecine, centinaia di migliaia di persone, facenti parte degli apparati burocratici ed aziendali coinvolti nello sterminio, gestire quotidianamente una simile impresa al pari della produzione e vendita, per es., di bulloni – talvolta si tende ad immaginare che sia stato un periodo eccezionale, straordinario; che la guerra in corso, l’indottrinamento continuo, la minaccia di severe sanzioni per i rifiuti, siano stati strumenti sufficienti per indurre all’obbedienza generalizzata. Forse (e purtroppo) non è esattamente così, e si possono evidenziare – senza alcuna ambizione di una vera analisi storico-sociologica, ovviamente – alcune caratteristiche del sistema dello stato totalitario nazista. Ho scritto ”purtroppo” perché alcuni tipi di organizzazione sociale sono probabilmente ripetibili, mutatis mutandis, anche in altri ordinamenti ed in altre epoche.
In primo luogo, seguendo l’interpretazione di uno dei più noti studiosi della Shoah, Raul Hilberg, va notato come anche nel caso dei trasporti l’assegnazione di specifici ruoli al personale (la “parcellizzazione”, per così dire, della complessa operazione) consentisse – ovviamente in presenza di un coordinamento centrale: ho ricordato solo alcune delle posizioni apicali dell’azienda, come Ganzenmüller, e della RSHA, come Eichmann, entrambi in stretto collegamento con Himmler attraverso la catena di comando – di superare ostacoli organizzativi di prima grandezza, senza rinunciare ad un attenta considerazione del rapporto costi/ricavi: la Reichsbahn era “preparata a trasportare ebrei, o qualsiasi altro gruppo, dietro compenso” [14].
Scrive ancora Hilberg: “Fondamentalmente, gli Ebrei furono distrutti come conseguenza di una molteplicità di atti eseguiti da una falange di funzionari in uffici pubblici od imprese private, e molte di queste misure, presa una ad una, si rivelavano essere burocratiche, immerse nell’abitudine, nella routine, e nella tradizione” [15].
I funzionari e gli impiegati, vorrei notare, non avevano alcuna specifica preparazione per la trattazione degli affari razziali: erano “tecnici” il cui lavoro, tra l’altro, non era tutelato da particolari misure di segretezza, a differenza – per esempio – dei trasporti militari (ma si veda tra poco un accenno alle “modalità” delle comunicazioni).
Lo svolgimento pratico dei trasporti evidenziava poi un – voluto, nella logica dello sterminio – effetto collaterale: come scrive[16] Hilberg, gli ebrei erano “gestiti (booked) come persone, e trasportati come bestiame”. Per chi non avesse presenti le condizioni all’interno dei carri bestiame, sarà sufficiente rileggere la lettera da Westerbork di Etty Hillesum del 24 agosto 1943 (“Se dico che stanotte sono stata all’inferno, che cosa ne potete capire voi?”[17]), o il primo Canto (“Canto della banchina”) de L’istruttoria di Peter Weiss, con la trascrizione in versi liberi dei verbali del processo di Francoforte[18].
La “carriera morale” del deportato, per riprendere un’espressione coniata da Erving Goofman a proposito delle “istituzioni totali” (come carceri, ospedali psichiatrici, orfanotrofi [19]) iniziava con la chiusura dei portelloni del vagone, al buio, senza aria, acqua, cibo, servizi di alcun genere, per giorni e giorni, nell’indescrivibile lezzo che era parte essenziale di quello che è stato descritto da uno studioso come “excremental assault”[20].
I burocrati tedeschi che con la loro competenza contribuirono alla distruzione degli Ebrei furono tutti parte integrante dell’Erlebnis [21], gli uni si incaricarono della parte tecnica – redigere un decreto o organizzare un convoglio -, gli altri appostati con fermezza alla porta di una camera a gas. Potevano percepire l’enormità dell’operazione fin dai ranghi più bassi. In ogni stadio del processo, diedero prova di stupefacenti talenti da pionieri in assenza di direttive, di coerenza nelle attività, quando mancava un’organizzazione giuridica, di una comprensione fondamentale del compito che dovevano eseguire, nel momento in cui non venivano date comunicazioni esplicite.[22]
Altra caratteristica, comune all’esecuzione della “soluzione finale” in tutti i suoi aspetti, era l’attenzione a non usare mai termini espliciti nella pur imponente documentazione scritta necessaria alla gestione del servizio. Il modello hitleriano di comando era usato anche nella pratica quotidiana; non sembra ci sia mai stato un ordine scritto del Führer di procedere allo sterminio, ma le sue indicazioni ai principali collaboratori (e a dire il vero le sue esplicite, benchè generiche, esternazioni pubbliche, da Mein Kampf al discorso al Reichstag del 30 gennaio 1939) erano ben chiare: stava a loro eseguirle, quando necessario “inventando” le strategie migliori. Così anche per ie deportazioni; rari i documenti come quelli citati (lo scambio tra Ganzenmüller e Wolff), classificati Geheim (segreti), ma inevitabili le anodine Fahrplananordnungen (tabelle di marcia), eloquenti per la ricostruzione dei fatti: riportavano il numero dei deportati, il percorso, la destinazione. Così, per esempio, dalla F. n.587 (che si vede in Shoah di Lanzmann, nell’intervista a Hilberg [23]) si ricava che il 1 ottobre del ’42, alle ore 11:24, 10.000 ebrei arrivarono a Treblinka, e che il treno (50 vagoni) ripartì vuoto.
La battaglia di Salo Müller aveva avuto un precedente nell’ammissione di colpa delle ferrovie francesi (SNCF): tra il 1941 ed il 1944 160.000 persone erano state deportate dalla Francia (76.000 delle quali per motivi razziali) [24]. Nel 2010 il presidente delle SNCF aveva ammesso che la SNCF, benchè costretta, era stata un ingranaggio della macchina di sterminio nazista; lo aveva fatto perché l’azienda era sotto pressione da alcuni stati U.S.A. perché ne fosse consentita la partecipazione ad importanti gare d’appalto: ma lo aveva fatto, creando un sistema per la presentazione di reclami e richieste di risarcimento, che nel 2014 avrebbe riconosciuto un totale di 49.000.000 di euro [25].
Nel 2018, sono state le ferrovie olandesi a capitolare di fronte alla campagna promossa da Müller, per conto dei circa 500 sopravvissuti allo sterminio, e di oltre 5.500 familiari di vittime, cui sono stati destinati poco meno di 50.000.000 di euro.
Ora è la volta della Deutsche Bahn, “erede” aziendale della Reichsbahn; gli avvocati di Müller si sono rivolti alla società e direttamente alla Cancelliera Angela Merkel, chiedendo che venga pubblicamente assunta la responsabilità morale e giuridica delle deportazioni; per ora, il governo tedesco ha dichiarato che “la Germania, ovviamente, è ritenuta responsabile dei crimini del regime nazista”, e che “Non dimenticheremo mai i crimini commessi dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale. Fino ad oggi ci riempiono di grande sgomento e vergogna”. Deutsche Bahn negli anni ’90 aveva in effetti creato una Fondazione per la Memoria, la Responsabilità e il Futuro, avviando nel 2010 un progetto a beneficio dei sopravvissuti alle deportazioni.
Tutto lascia pensare che Salo non si accontenterà di altre promesse.
[1] “Ritorno non desiderato”: la classificazione dei treni speciali per le deportazioni.
[2] B.Stangneth, La verità del male. Eichmann prima di Gerusalemme, LUISS U.P., 2017 ed.digit.
[3] Uso l’espressione di R.Hilberg, La distruzione degli Ebrei d’Europa, (1985) Einaudi, 1995.
[4] Tra tutti R.Hilberg-P.Hayes-C.Browning, German Railroads, Jewish Souls, Berghahn Books,2020; H.Lichtenstein, Mit der Reichsbahn in den Tod : Massentransporte in den Holocaust 1941 bis 1945, Bund-Verlag, 1985; v.la sintesi di S.Gigliotti, The Train Journey. Transit Captivity and Witnessing in the Holocaust, Berghahn Books, 2010. Sulle deportazioni in generale R.Hilberg, La distruzione degli Ebrei d’Europa, cap.VIII, p.417 ss.
[5] Il sito web di Müller: https://www.salomuller.nl/ (solo in lingua olandese).
[6]V. il suo libro See You Tonight and Promise to Be a Good Boy! (le parole con le quali sua madre lo salutò a scuola poche ore prima di essere arrestata) , Amsterdam Publishers, 2017.
[7] S.Gigliotti, op.cit., p.40. Per i “gruppi”, peraltro (e cioè quasi sempre: oltre i 400 viaggiatori) scattava lo sconto del 50%.
[8] C.Browning, Uomini comuni, (1992), Einaudi, 1995; in particolare il cap. IV, p.28 e ss. con alcuni esempi di relazioni degli ufficiali in comando dei trasporti.
[9] B.Stangneth, op. cit.
[10] Sul punto v. lo stesso A.Speer, Memorie del Terzo Reich, (1969), Mondadori, 1995 p.266 ss., e G.Sereny, In lotta con la verità, (195) Rizzoli, 1998, p.385 ss.
[11] R.Hilberg, op. cit., p.507.
[12] Per una sintesi della vita di Ganzenmüller v. la relativa voce in Wikipedia.
[13] Così Adolf Hitler, verbale del 1942, citato da A.Speer , op. cit. p.268-269.
[14] Hilberg lo afferma in German Railroads, Jewish Souls, riprodotto in R.Hilberg-P.Hayes-C.Browning, op.cit., p.26, e nel celebre film documentario di C.Lanzmann, Shoah (1985).
[15] R.Hilberg-P.Hayes-C.Browning, op. cit., p.1 (ns. trad.)
[16] R.Hilberg-P.Hayes-C.Browning, op. cit., p.26 (ns. trad.)
[17] E. Hillesum, Lettere 1942-1943, Adelphi, 1990, p. 132.
[18] P.Weiss, L’istruttoria, (1965), Einaudi, 1966, p.13-39. Tra il 1963 ed il 1965 si svolse a Francoforte il primo processo veramente significativo a carico di SS e funzionari di Auschwitz. E si noterà tra l’altro come alcuni dei testimoni, partecipi delle operazioni con le ferrovie all’epoca delle deportazioni, fossero attualmente (anni ’60) dirigenti delle ferrovie della Repubblica federale.
[19] E.Goffman, Asylums, (1961), Einaudi, 1968.
[20] T.Des Pres, The Survivor: An Anatomy of Life in the Death Camps. New York: Oxford U.P., 1976, p.51 ss.
[21] Erlebnis: “una realtà vissuta passo dopo passo da coloro che vi hanno preso parte”: R.Hilberg, op. cit., p.1075.
[22] R.Hilberg, op. cit., p.1075.
[23] Se ne legge nell’articolo di E.Äsbrink, The Holocaust Was an Attempt to Erase Millions of People, Time 21.04.2020 (https://time.com/5824342/holocaust-remembrance-documents/)
[24] S.Klarsfeld, Vichy-Auschwitz, La “solution finale” de la question juive en France, Fayard, 2001.
[25] Il comunicato di Guillaume Pepy del 4.11.2010 si legge in https://www.prnewswire.com/news-releases/statement-by-guillaume-pepy-chairman-of-sncf-regarding-sncfs-role-in-world-war-ii-wwii-106716278.html.
Titolo edilizio rilasciato in sanatoria e limiti temporali per l’annullamento d’ufficio (nota a Tar Lazio, Sez. II quater, 17 luglio 2020, n. 8258)
di Angelo Giuseppe Orofino
Sommario: 1. La vicenda fattuale e la soluzione accolta dal Tar. – 2. 2. La «ragionevolezza» del termine di adozione del provvedimento di ritiro prima delle riforme del 2015. – 3. Lo «sbarramento» dei diciotto mesi e la legittimità dell’annullamento. – 4. Il termine iniziale ed il termine finale. – 5. Il mancato decorso del termine per difficoltà collegate all’acquisizione del fascicolo procedimentale e le motivazioni dell’autotutela. – 6. Gli ambiti interessati dalla riforma. – 7. Riflessioni conclusive.
1. La vicenda fattuale e la soluzione accolta dal Tar
Con la sentenza che si annota il Tar Lazio si è pronunciato sulla legittimità di un atto di riesame per mezzo del quale un’amministrazione comunale ha disposto l’annullamento di ufficio di un titolo edilizio, dopo che era abbondantemente trascorso il termine previsto dall’art. 21 nonies della l. n. 241/1990 per l’esercizio dello ius poenitendi, e senza che l’ente avesse offerto una esplicitazione delle ragioni di interesse pubblico, ulteriori rispetto a quelle conseguenti al ripristino della presunta legalità violata, sottese all’adozione dell’autotutela.
La vicenda, in particolare, si è articolata nel corso di un decennio, ed ha avuto inizio con il rilascio di un permesso di costruire per mezzo del quale, nel 2009, l’amministrazione comunale aveva assentito la realizzazione di tre edifici residenziali.
È, però, accaduto che, all’esito di un sopralluogo effettuato nel 2010, la polizia municipale ha disposto il sequestro preventivo di due dei tre manufatti oggetto del permesso di costruire, per via di talune difformità tra quanto assentito nel titolo edilizio e quanto effettivamente edificato.
Ne è seguito l’avvio di un procedimento penale, definito solamente nel novembre 2018 con una sentenza di estinzione del reato, per intervenuta prescrizione.
Medio tempore il Comune, avendo qualificato le difformità contestate al costruttore come parziali rispetto all’intervento assentito, e ritenendo che esse non fossero eliminabili senza pregiudizio delle parti conformi degli edifici, ha provveduto ai sensi dell’art. 34 del d.P.R. n. 380/2001, alla cosiddetta «fiscalizzazione dell’abuso»; ciò ha consentito che nel 2010 l’ente rilasciasse un permesso di costruire in sanatoria.
All’esito del deposito, nel 2018, della sentenza di prescrizione dell’illecito, vi è stato un atto di impulso del privato costruttore, intenzionato a terminare la realizzazione degli edifici; a tale impulso ha fatto seguito un provvedimento con il quale il Comune ha, nel 2019, annullato in autotutela il procedente permesso di costruire in sanatoria, rilasciato nel 2010.
Giudicando sul gravame proposto dalla società destinataria del titolo edilizio, il Tar lo ha accolto, giacché ha ritenuto sussistenti due distinti profili di invalidità dell’atto di ritiro.
Un primo elemento invalidante è stato rinvenuto nel lungo lasso temporale (di circa dieci anni) intercorrente tra il provvedimento di sanatoria dell’abuso e quello di adozione del provvedimento di riesame. Ha ritenuto il Tar che non valesse a sospendere il decorso del termine la circostanza che medio tempore il carteggio relativo all’edificazione del fabbricato fosse stato acquisito dal giudice penale, per formare parte del fascicolo processuale. Si è affermato, infatti, nella sentenza che, per ovviare al problema causato dal sequestro dei documenti da parte dell’autorità giudiziaria, l’amministrazione avrebbe dovuto rendersi parte diligente attivandosi in via preventiva, con l’effettuazione di copie da mantenere presso gli uffici comunali, ovvero in via successiva, mediante la richiesta di un duplicato del fascicolo dibattimentale.
Ulteriore profilo invalidante, poi, è stato ravvisato nella circostanza che il Comune avesse adottato il provvedimento di secondo grado senza corredarlo di un apparato motivazionale che servisse a chiarire le ragioni di interesse pubblico, attuale e concreto, collegate alla rimozione del provvedimento di sanatoria, che fossero ulteriori e diverse rispetto a quelle collegate ad una presunta legalità violata e, soprattutto, prevalenti sull’affidamento medio tempore maturato in capo alla società destinataria del titolo edilizio.
2. La «ragionevolezza» del termine di adozione del provvedimento di ritiro prima delle riforme del 2015
Un primo profilo affrontato nella sentenza in esame è, dunque, quello relativo alla congruità del lasso temporale entro cui occorre adottare gli atti di riesame.
Come è noto, prima che con la l. n. 15/2005, in sede di riforma della l. n. 241/1990, si provvedesse ad una codificazione dei procedimenti di secondo grado, mancava una disciplina positiva dell’annullamento d’ufficio: la indicazione di termini per l’esercizio dei poteri di autotutela era recata solo da poche norme settoriali, ma non vi erano disposizioni di carattere generale.
Nel silenzio del legislatore, la fissazione dei tratti essenziali dell’istituto la si è dovuta al costante lavorio giurisprudenziale che, con il supporto ed il pungolo della dottrina, ha provveduto ad elaborare una serie di regole sull’autoannullamento.
Come è facilmente intuibile, i problemi di maggiore complessità si sono avuti con riferimento alla individuazione di un eventuale limite temporale entro il quale le funzioni di riesame dovessero essere esercitate e, contestualmente, con riferimento al rilievo da attribuire all’eventuale fiducia nutrita dal privato in ordine alla legittimità dei provvedimenti riesaminati.
Si trattava, all’evidenza, di questioni certamente ispirate anche da connotazioni ideologiche e dal modo di concepire il rapporto amministrativo ed il ruolo delle amministrazioni.
All’esito delle trasformazioni amministrative che hanno caratterizzato la seconda metà del secolo scorso, e che sono culminate con il riconoscimento di strumenti partecipativi e conoscitivi in capo ai cittadini, vi è stata una evoluzione pure degli istituti di autotutela, la cui fisionomia ha risentito certamente della esigenza di tutelare, oltre agli interessi pubblici, anche l’affidamento nutrito da cittadini in ordine alla legittimità dei provvedimenti ad essi favorevoli.
In un momento storico in cui si coltivavano dubbi sulla circostanza che il canone di buona fede potesse illuminare le relazioni tra cittadini ed amministrazioni[1], e l’interesse pubblico era ancora concepito come un qualcosa di interno all’amministrazione, che se ne faceva interprete ed esecutrice[2], le posizioni (ed aspirazioni) dei privati apparivano recessive rispetto all’esigenza di ripristino della legalità violata dall’atto riesaminando[3].
Si è, dunque, affermato che i procedimenti di ritiro «non incontrano né limiti di diritti quesiti, che non possono sorgere da atti invalidi, né limiti di tempo»[4], e che «il potere di annullamento […] non incontra alcun limite nei diritti od interessi spettanti ad altri soggetti, perché sopra gli atti invalidi non può basarsi nessun diritto o tutela giuridica»[5].
Con l’evolversi delle tutele ordinamentali, però, si è iniziato a riconoscere – dapprima cautamente, per via di alcune voci non allineate rispetto agli orientamenti maggioritari[6] e quindi, col trascorrere degli anni, più risolutamente e vigorosamente[7] – che a distanza di lungo tempo dalla emanazione dell’atto potrebbe assumere rilievo prevalente la valutazione in merito alla inopportunità di incidere su posizioni soggettive oramai consolidatesi: sotto questo profilo si è sostenuta la necessità di una attualità dell’interesse pubblico alla autotutela, intesa come apprezzamento sulla persistenza dei presupposti che giustificano il riesame, giacché non sarebbe sufficiente una ipotetica valutazione dell’interesse all’eliminazione dell’atto invalido compiuta con riferimento a situazioni sussistenti all’epoca in cui lo stesso venne emanato, ma cessate al momento della sua rimozione[8].
Sicché si è affermato che – pur non essendo il potere di riesame sottoposto a prescrizione – esso debba confrontarsi con il tempo passato dall’emanazione del provvedimento viziato, così che il maggior intervallo intercorso renda più disagevole la dimostrazione dell’interesse pubblico al ritiro[9].
L’evoluzione ordinamentale ha, come noto, portato ad una maggiore protezione delle esigenze di difesa dei cittadini e dell’affidamento da essi coltivato nel rapporto con i poteri pubblici[10], sicché – anche sulla spinta offerta dalle posizioni dottrinarie, e dalla giurisprudenza della Corte di giustizia[11] – una parte consistente della giurisprudenza ha attribuito sempre maggiore rilievo al decorso del tempo, quanto meno quando tale decorso avesse portato al consolidamento di posizioni in capo ai destinatari dell’atto riesaminando[12].
Ciononostante, sono persistiti orientamenti meno garantisti tesi a giustificare procedimenti di autoannullamento adottati a distanza di anni[13], soprattutto quando volti al recupero di somme indebitamente erogate[14].
Le oscillazioni sussistenti[15], hanno indotto a stigmatizzare la poca chiarezza degli approdi giurisprudenziali in materia[16], ed a sottolineare come le corti – lungi dall’aderire a posizioni ben definite – frequentemente hanno offerto soluzioni contingenti e, per così dire, di compromesso, perché ispirate dalla necessità di dare una risposta concreta alle varie vicende di volta in volta sottoposte alla loro attenzione[17].
È, dunque, apparso opportuno che, in sede di riforma della l. n. 241/1990[18], il legislatore disciplinasse i poteri di autoannullamento, con disposizione avente valenza generale[19], nella quale stabilisse le condizioni ed i limiti per l’esercizio di tale potere.
Tanto è stato fatto con l’introduzione dell’art. 21 nonies della l. n. 241/1990, in virtù del quale «il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell’articolo 21 octies può essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall’organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge».
La disposizione, dunque, ha confermato l’idea della delimitazione temporale dei poteri di autoannullamento.
E però, la locuzione «termine ragionevole» adoperata dalla norma recava in sé evidenti incertezze applicative connesse alla imprecisione del sintagma utilizzato[20], che lasciava aperte molte soluzioni pratiche in ordine alla valutazione in merito alla congruità del lasso temporale intercorso tra il primo provvedimento e il successivo ritiro.
In giurisprudenza si sono affacciate tesi non sempre collimanti[21].
Si è, quindi, affermato che la valutazione sulla ragionevolezza del termine di adozione del provvedimento di riesame va fatta tenendo conto dei contrapposti interessi in gioco, ma anche ponendo attenzione alla circostanza che il decorso del tempo contribuisce al consolidamento della posizione del privato, oltre che alla perdita di attualità dell’interesse pubblico alla rimozione dell’atto[22].
Si è, altresì, sostenuto che, ai fini della comparazione degli interessi, assume rilievo anche il profilo dell’efficacia del provvedimento, essendo evidente come la efficacia permanente o, comunque, non ancora esauritasi dell’atto (perché, ad esempio, differita o intermittente) esalta l’interesse alla sua eliminazione (onde evitare il prodursi di ulteriori effetti), laddove l’efficacia istantanea del provvedimento (ancorché con conseguenze permanenti) richiede una più accurata valutazione della ragionevolezza del termine di esercizio del potere e, dunque, della prevalenza dell’interesse pubblico[23].
Si è, poi, detto che l’art. 21 nonies della l. n. 241/1990 – con il richiamo al termine ragionevole – aveva posto un parametro indeterminato ed elastico, finendo così per lasciare all’interprete il compito di individuare in concreto la adeguatezza del termine, in considerazione del grado di complessità degli interessi coinvolti[24] e del relativo affidamento maturato dal privato, anche in ragione del lasso di tempo trascorso[25].
Come già accennato, l’evidente vaghezza del parametro adoperato, ha portato ad applicazioni perplesse e, per molti versi, contrastanti[26].
Pertanto, nel mentre si è ritenuto illegittimo l’annullamento di una concessione edilizia in sanatoria a distanza di undici anni dal suo rilascio[27], o di una Dia dopo quattro anni dal suo perfezionamento[28], ovvero ancora, la revoca dopo sette anni di un contributo, quando oramai l’intervento finanziato era stato già realizzato[29], si è contraddittoriamente affermato che, per quanto concerne l’annullamento dei permessi di costruire, la ragionevolezza del termine deve essere altresì rapportata a quanto prescritto dall’articolo 39 del d.P.R. n. 380/2001[30] il quale, nel disciplinare il potere regionale di annullamento dei provvedimenti comunali che autorizzano interventi edilizi, fissa in dieci anni dalla loro adozione il limite massimo entro cui la potestà può essere esercitata[31]. Parimenti, si è ritenuto legittimo il provvedimento con cui si è intervenuti in autotutela su di un intervento assentito sette anni prima, giacché i lunghi tempi occorsi all’amministrazione per emendare la propria azione avrebbero dovuto essere calati nella peculiarità della fattispecie concreta e nella complessità delle vicende che la hanno caratterizzata[32].
Quelli appena evidenziati sono solo alcuni dei molteplici orientamenti espressi dalla giurisprudenza amministrativa, che ovviamente non esauriscono la complessità degli indirizzi formatisi sul punto.
Ciononostante, appaiono sufficientemente paradigmatici di un approccio alla materia poco incline alla ricerca di soluzioni certe e prevedibili, ma al contrario spesso pervicacemente ancorato alle vicende contingenti, sottese al giudizio, oltre che alla maggiore o minore sensibilità del giudicante per gli interessi pubblicistici perseguiti con il provvedimento di riesame o, al contrario, per le ragioni di stabilità invocate dal privato.
3. Lo «sbarramento» dei diciotto mesi e la legittimità dell’annullamento
È apparsa, dunque, evidente la necessità di garantire soddisfazione all’esigenza di certezza nei rapporti fra amministrazione e privati, giacché non è sembrato plausibile che gli assetti di interessi fondati su di un provvedimento (quand’anche illegittimo) fossero rimessi in discussione a distanza di un lungo periodo, laddove oramai si fosse consolidato l’affidamento ingenerato dai privati sulla stabilità di tali assetti[33], irrobustito dal decorso del tempo[34].
È doveroso evidenziare che la stessa esigenza è alla base di un istituto come l’inoppugnabilità[35], il cui perfezionarsi rende incontestabile un atto amministrativo, pur quando illegittimo, senza che ciò crei scandalo o disappunto[36].
Onde soddisfare l’esigenza di porre un limite temporale alla potestà di adozione degli atti di ritiro, con l’art. 6, comma 1, lett. d), numero 1), della l. 124/2015, si è modificato l’art. 21 nonies, comma 1, della l. n. 241/1990[37], indicando il limite di diciotto mesi come termine massimo per l’adozione del provvedimento di riesame[38].
La formula adoperata dal legislatore della riforma ha suscitato non pochi interrogativi, innanzitutto con riferimento alla perentorietà del termine indicato dall’art. 21 nonies novellato.
Ci si è, cioè, domandati se il decorso dei diciotto mesi renda sempre e comunque invalido un intervento sul precedente provvedimento illegittimo, o se tale regola subisca dei temperamenti, ulteriori rispetto a quelli esplicitati dalla stessa disposizione[39].
Una risposta positiva all’interrogativo innanzi esposto, rischierebbe di creare troppa rigidità[40], non consentendo alle amministrazioni, quando se ne ravvisi la necessità (magari correlata alla tutela di particolarissime esigenze di interesse pubblico), di correggere i propri precedenti errori. Il che potrebbe persino porre problemi di costituzionalità della norma, per violazione dei canoni di buon andamento ed imparzialità, tutte le volte in cui l’inutile decorso del tempo concesso per il riesame, non consenta di rimediare a soluzioni palesemente inadeguate[41].
D’altro canto, una risposta negativa all’interrogativo, rischierebbe di vanificare la portata innovativa dell’intervento di riforma, e gli effetti benefici (soprattutto in termini di certezza dei rapporti giuridici) che tale intervento intende conseguire.
Il problema – messo in luce da autorevole dottrina[42] – si è manifestato nella sua evidente complessità anche alle corti chiamate ad applicare l’art. 21 nonies, ed ha dato luogo ad esegesi sofferte e contrastanti.
Secondo un primo indirizzo giurisprudenziale la disposizione in parola ha definito in maniera puntuale la scansione temporale entro cui le pubbliche amministrazioni possono esercitare il potere di autoannullamento, sicché il precedente e vago criterio del «termine ragionevole», ha assunto una dimensione temporale ben definita, coincidente con il limite dei diciotto mesi decorrente dal momento dell’adozione dei provvedimenti ampliativi della sfera giuridico patrimoniale del privato[43]. Si è addirittura proposta una esegesi della novella volta a valorizzarne il carattere interpretativo, piuttosto che novativo, con conseguente utilizzabilità delle disposizioni con essa recate anche per scrutinare la legittimità di provvedimenti adottati prima della sua entrata in vigore[44].
Non è mancato, però, chi ha interpretato riduttivamente (o, addirittura, disapplicato) la riforma. Con una attuazione particolarmente dilatata del principio tempus regit actum si è, quindi, detto che le nuove prescrizioni si applicano solamente quando anche i provvedimenti oggetto di riesame (e non solo quelli con i quali si interviene sui primi) siano venuti in essere in data successiva all’entrata in vigore della novella[45].
Un filone intermedio e maggioritario ha invece ritenuto che, per i provvedimenti adottati prima dell’entrata in vigore della riforma apportata all’art. 21 nonies per mezzo dell’art. 6, comma 1, della l. n. 124/2015, il termine dei diciotto mesi non può che cominciare a decorrere dalla data di entrata in vigore della novella legislativa, giacché una diversa interpretazione si porrebbe in contrasto con il principio di irretroattività della legge e finirebbe con il limitare in maniera eccessiva ed irragionevole l’esercizio dei poteri di ritiro, tutte le volte in cui i diciotto mesi per l’adozione dell’atto di secondo grado siano già decorsi (o siano prossimi al decorso) al momento in cui la riforma è entrata in vigore[46].
Infine, in talune occasioni, con una giurisprudenza poco ossequiosa dello sbarramento temporale previsto dall’art. 21 nonies, si è affermato che la complessità dell’azione svolta dall’amministrazione, in uno con la rilevanza degli interessi pubblici interessati dall’atto di riesame (nel caso di specie: pubblica incolumità e tutela paesaggistica), depongono in senso inversamente proporzionale rispetto alla brevità del termine ragionevole, dilatandone la durata in considerazione della preminenza degli interessi perseguiti[47].
Nella decisione in commento, il Tar non prende posizione tra gli orientamenti innanzi illustrati, ma si limita a stigmatizzare la irragionevolezza del lasso temporale adoperato per l’adozione dell’atto di ritiro, che – visto il periodo quasi decennale intercorso – appare certamente troppo ampio, anche quando non si ritenga di dover applicare il parametro dei diciotto mesi introdotti dalla riforma del 2015[48].
4. Il termine iniziale ed il termine finale
Ed è proprio l’ampiezza del lasso temporale (come detto, quasi decennale) all’esito del quale è intervenuto il provvedimento di autotutela, oltre che la mancanza di specifiche doglianze o eccezioni sul punto, a fare in modo che la sentenza in rassegna non prenda posizione su di un altro tema di evidente rilievo: quello relativo al limite massimo entro il quale deve essere adottato il provvedimento di secondo grado.[49]
Si tratta di questione non del tutto risolta, ancorché paia trovare (almeno in parte) una soluzione nel testo dell’art. 21 nonies, il quale dice chiaramente che i diciotto mesi vanno computati «dal momento dell’adozione dei provvedimenti» destinati ad essere rimossi in sede di riesame[50].
Si è, però, ritenuto che ai fini del decorso del termine non vada fatto riferimento al momento in cui l’atto è stato adottato, ma piuttosto a quello in cui ha acquisito efficacia[51]. Sicché, quando il ritiro abbia ad oggetto atti interni (come può essere un provvedimento di aggiudicazione provvisoria) il limite temporale non sarebbe applicabile[52].
Lo stesso limite non sarebbe invocabile, poi, quando il provvedimento riesaminando[53] sia stato ottenuto sulla base di una erronea rappresentazione dei fatti, dolosamente o colposamente prodotta dal privato[54], e sempre che l’amministrazione, per via di tale errata rappresentazione, non sia stata messa in condizione di percepire i profili di illegittimità posti alla base dell’atto di ritiro[55].
Quanto al dies ad quem, secondo un indirizzo minoritario, per il rispetto dell’art. 21 nonies è sufficiente che nel lasso temporale indicato dalla norma si dia avvio alle attività procedimentali volte a stimolare il riesame, così da evitare il formarsi di qualsivoglia affidamento in ordine alla legittimità ed alla stabilità dell’atto oggetto di ritiro[56].
A tale indirizzo ha fatto da contraltare un più corposo orientamento secondo cui dal testo letterale della norma si ricava che l’annullamento deve intervenire (e non solo essere preannunciato) entro i diciotto mesi[57], giacché una diversa esegesi della disposizione si presterebbe a prassi elusive quale sarebbe, ad esempio, quella di avviare un procedimento che si chiuda anni dopo[58].
Quest’ultima tesi appare preferibile, giacché più garantista e maggiormente aderente al testo della legge. La prima si manifesta, invece, ispirata dall’esigenza di salvaguardare gli interessi pubblici interessati dal procedimento di secondo grado, quando la comunicazione di avvio del procedimento di autotutela – fornendo consapevolezza in capo ai privati delle ragioni di illegittimità dell’atto da ritirare – impedisca il formarsi di affidamenti qualificati.
5. Il mancato decorso del termine per difficoltà collegate all’acquisizione del fascicolo procedimentale e le motivazioni dell’autotutela
Nella vicenda scrutinata nella pronuncia in rassegna, consapevole della difficoltà di spiegare la propria inerzia quasi decennale, l’amministrazione comunale afferma di non aver adoperato maggiore tempestività per via della indisponibilità del carteggio relativo al titolo edilizio, medio tempore acquisito agli atti del giudizio penale.
Nelle difese svolte dall’ente appare evidente il richiamo a quanto sostenuto dall’Adunanza plenaria, secondo cui non può iniziare a decorrere il termine quando l’amministrazione, incolpevolmente, non sia nelle condizioni di attivare i propri poteri di riesame. Ha, infatti, argomentato il supremo consesso che la locuzione «termine ragionevole» richiama un concetto non parametrico, ma relazionale, riferito al complesso delle circostanze rilevanti nel caso di specie, sicché la nozione di ragionevolezza deve essere strettamente connessa a quella di esigibilità di un onere di diligenza in capo all’amministrazione, e dunque sarebbe del tutto congruo che il termine decorra soltanto dal momento in cui la p.a. sia venuta a conoscenza (o avrebbe dovuto esserlo) dei profili fattuali posti alla base dell’atto di ritiro[59].
Invocando l’orientamento poc’anzi riassunto, il Comune intimato sostiene che il proprio ritardo sarebbe incolpevole giacché propiziato dal sequestro del fascicolo da parte dell’autorità penale.
Il Tar dissente da tale argomentazione, ed afferma che, ove solo l’ente avesse usato maggiore accortezza, avrebbe potuto trarre una copia di riserva dell’intera documentazione o, comunque, avrebbe potuto acquisirla presso il tribunale penale, senza dover intervenire tardivamente.
L’organo decidente, poi, stigmatizza la mancanza, nell’atto di riesame, di una motivazione specifica in merito all’interesse pubblico che sorregge l’adozione del provvedimento di ritiro, non ritenendo sufficienti le vaghe argomentazioni recate dall’ente in ordine alla persistenza degli abusi asseritamente realizzati dal costruttore[60].
Così operando, il Tar aderisce alla tesi già sostenuta dall’Adunanza plenaria[61] che, nel dissentire da un filone giurisprudenziale secondo cui l’interesse all’annullamento di un titolo invalido sarebbe in re ipsa e consisterebbe nel mero vantaggio collegato al ripristino della legalità violata[62], ha invece affermato che l’amministrazione deve esplicitare «le ragioni di interesse pubblico» che, ai sensi dell’art. 21 nonies, debbono essere poste in relazione con «gli interessi dei destinatari e dei controinteressati», e debbono essere rese note nel provvedimento di autotutela, così da consentirne un più penetrante sindacato giurisdizionale o, quanto meno, il vaglio da parte dei cittadini interessati.
La necessità di un robusto apparato motivazionale appare vieppiù necessaria quando l’atto riesaminando abbia già esplicato i suoi effetti, anche in considerazione della discrezionalità che caratterizza i procedimenti di riesame[63], a fronte della quale si rende più evidente la necessità di garantire un apparato di strumenti di controllo sull’esercizio di tale discrezionalità.
E l’impianto argomentativo deve essere ancora più vigoroso quando, con il trascorrere di un lungo lasso temporale, appare vivo l’affidamento coltivato sulla legittimità del titolo riesaminato e, nel contempo, più flebile l’interesse dell’amministrazione al ritiro[64].
In tal senso, dunque, appare perfettamente in linea con le enunciazioni rese dall’Adunanza plenaria il percorso argomentativo svolto nella sentenza in rassegna, laddove si stigmatizza l’invalidità, del provvedimento di riesame adottato dal Comune intimato.
6. Gli ambiti interessati dalla riforma
Ancorché la pronuncia in commento non affronti la questione, poche parole devono essere spese in merito ad un ultimo elemento di rilievo: quello relativo agli ambiti nei quali si applica il limite sancito dall’art 21 nonies.
La disposizione sembra circoscrivere lo sbarramento temporale dei diciotto mesi unicamente ai «provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici», laddove per gli altri provvedimenti varrebbe solo la soglia correlata alla ragionevolezza del termine.
La perplessità della formula usata dal legislatore risalta in tutta la sua evidenza ove si consideri che quello posto dall’art. 21 nonies è un limite dai confini molto labili visto che, per tracciarlo, occorre definire la nozione di «provvedimento di autorizzazione», e quella di «provvedimento attributivo di vantaggi economici».
Ma soprattutto, si tratta di limite dalla ratio incerta: quest’ultima può, forse, essere individuata nella necessità di concedere una tutela più vigorosa all’affidamento dei cittadini quando vengano in rilievo atti di autorizzazione o attributivi di vantaggi economici e, al contrario, nel garantire con maggiore attenzione gli interessi pubblici sottesi al riesame per tutti gli altri provvedimenti esclusi dal novero delle autorizzazioni o di quelli attributivi di vantaggi economici.
Anche la spiegazione appena offerta appare, però, poco convincente e foriera di incertezze.
Non è un caso se una parte della giurisprudenza – facendo leva sul carattere interpretativo, piuttosto che novativo, della riforma[65] – ha ritenuto applicabile la disposizione (con il termine che essa reca) a tutti i provvedimenti ampliativi della sfera giuridico patrimoniale di un soggetto[66], ed anche a quelli con cui si sia proceduto alla ridefinizione in peius del trattamento economico di un pubblico dipendente e al recupero delle somme medio tempore corrisposte[67].
Non è, però, mancato chi ha, invece, aderito a diversa opinione, ed affermato che sfuggano al limite temporale dei diciotto mesi i procedimenti non puntualmente inquadrabili tra quelli indicati dall’art. 21 nonies[68].
Il che impone di comprendere a quali categorie faccia riferimento la norma nel momento in cui parla di autorizzazioni e di provvedimenti attributivi di vantaggi economici.
Con riferimento alla prima categoria, parrebbe opportuno domandarsi se il legislatore dell’art. 21 nonies abbia inteso recepire l’elaborazione dottrinaria che ha costruito i provvedimenti autorizzativi come quelli volti a rimuovere un limite all’esercizio di un diritto, ovvero abbia adoperato il termine in maniera atecnica. E però, quale che sia la risposta data al quesito innanzi posto, rimarrebbero comunque rilevanti le perplessità suscitate dal testo normativo, ove si consideri che anche l’uso in senso proprio del vocabolo «autorizzazione» non offrirebbe solide basi esegetiche, se è vero che «la formula e i sistemi classificatori su di essa fondati appaiono sempre più insidiati e svuotati dall’evoluzione dell’ordinamento e dalla difficoltà di applicarli in modo soddisfacente»[69].
Ancora più incerta, poi, è la individuazione dei provvedimenti attributivi di vantaggi economici.
La locuzione usata dall’art. 21 nonies sembra fare riferimento alla formula adoperata dall’art. 12 della L. n. 241/1990, la cui rubrica reca, per l’appunto: «Provvedimenti attributivi di vantaggi economici». In virtù di quanto previsto dal testo della norma, sono ricompresi nella categoria disciplinata dall’art. 12 gli atti con cui si disponga «la concessione di sovvenzioni, contributi, sussidi ed ausili finanziari e l’attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati».
Secondo quanto affermato da autorevole dottrina, la previsione recata dall’art. 12, non avrebbe portata generale, ma sarebbe limitata alle erogazioni senza corrispettivo[70]; altri autori hanno, al contrario, ritenuto che la disposizione trovi spazio in tutte le obbligazioni pubbliche[71]
Anche la giurisprudenza è apparsa divisa: da un lato si è affermato che l’art. 12 sarebbe applicabile ai soli provvedimenti con cui si concedano finanziamenti, agevolazioni finanziarie o contributi pubblici[72], ma non anche alle abilitazioni all’esercizio di attività aventi rilievo economico e imprenditoriale[73], ed alle procedure in cui si applichino le norme sull’evidenza pubblica[74]. Talaltra si sono, invece, fatti rientrare nella categoria, in maniera generica e onnicomprensiva, tutti gli atti da cui derivassero «vantaggi economici» latamente intesi[75], come anche le assegnazioni di alloggi di edilizia residenziale pubblica[76], gli affidamenti di appalti di servizi «esclusi»[77], le concessioni di servizi pubblici[78], le procedure di selezione del personale[79].
Non essendo chiare le nozioni alle quali l’art. 21 nonies fa riferimento, era prevedibile che anche l’esegesi della disposizione desse luogo ad applicazioni contrastanti e sofferte.
Per averne riprova, basti considerare che, ai fini dell’autoannullamento, sono stati ritenuti riconducibili alla categoria del «provvedimento attributivo di vantaggio economico» gli atti di un appalto per la erogazione di servizi in ambito sanitario[80] , laddove si è, al contrario, ritenuto non vi rientrassero gli atti di una gara aperta avente ad oggetto la concessione di servizi per l’affidamento di una residenza sanitaria assistenziale[81].
È forse per superare le difficoltà di cui si è detto che spesso la giurisprudenza ha stigmatizzato l’illegittimità di provvedimenti di autotutela adottati oltre il termine di diciotto mesi, senza porsi il dubbio della loro riconducibilità alle due categorie (autorizzazioni e atti attributivi di vantaggi economici) richiamate dall’art. 21 nonies.
7. Riflessioni conclusive
La pronuncia in rassegna pare muoversi con disinvoltura nel complesso quadro innanzi tracciato, ispirata dalla giusta esigenza di dare adeguata tutela all’interesse di un cittadino, indebitamente inciso da un intempestivo esercizio dello jus poenitendi dell’amministrazione che, dopo aver concesso un permesso di costruire in sanatoria, a distanza di molti anni dall’adozione dell’atto oggetto di ritiro, ha ritenuto di rimeditare l’opinione precedentemente espressa, e lo ha fatto con un provvedimento che è apparso più ispirato ad un formale rispetto della legalità asseritamente violata, che al reale perseguimento di un interesse pubblico all’ordinato sviluppo edilizio del territorio.
Per questo, la sentenza appare molto legata alla peculiarità (e paradossalità) del caso concreto.
Ciononostante, quella annotata rimane una pronuncia certamente interessante ed utile ad offrire un contributo di chiarezza in un ambito nel quale si cerca di costruire certezze.
Il tema del decorso del tempo nella materia dell’autotutela è, del resto, strettamente collegato a quello della ricerca di punti fermi e, dunque, di stabilità.
Come già evidenziato da autorevole dottrina, le misure di liberalizzazione e di semplificazione, mediante le quali il legislatore intende stimolare lo sviluppo e la ripresa economica, rischiano di non produrre gli effetti desiderati, giacché «se le amministrazioni (o i giudici) possono negare sine die la validità e l’efficacia originaria dei titoli per difetto dei presupposti richiesti dal complesso e complicato quadro normativo di riferimento, i notai non stipulano, le banche non concedono mutui, gli investitori non possono disporre dei beni realizzati o conseguiti con l’indispensabile margine di tranquillità»[82].
È, dunque, oltremodo opportuno chiarire le modalità, i termini, ed i presupposti, entro i quali è possibile procedere in autoannullamento di precedenti atti, così da offrire alcune garanzie, necessarie anche per propiziare una (sempre più auspicabile) ripresa economica, ancor più necessaria all’esito delle ulteriori difficoltà create dalla situazione pandemica.
* * *
[1] Ricorda F. MERUSI, Introduzione, in ID., Buona fede e affidamento nel diritto pubblico. Dagli anni «trenta» all’«alternanza», Milano, 2001, 2, che «quando apparve L’affidamento del cittadino (1970) la dottrina italiana affermava che il principio di buona fede non era applicabile nel diritto amministrativo». Sulla tutela dell’affidamento v., da ultimo, M.T.P. CAPUTI JAMBRENGHI, Il principio del legittimo affidamento, in M. RENNA, F. SAITTA (a cura di), Studi sui principi del diritto amministrativo, Milano, 2012, 159, anche per indicazioni bibliografiche.
[2] V. OTTAVIANO, Poteri dell’amministrazione e principi costituzionali (1964), ora in ID., Scritti giuridici, vol. I, Milano, 1992, 13; ID., Cittadino e amministrazione nella concezione liberale (1988), ora in ID., Scritti giuridici, vol. I, cit., 33; F.G. SCOCA, Attività amministrativa, in Enc. dir., VI agg., Milano, 2002, 75.
[3] F. CAMMEO, Corso di diritto amministrativo (1911-1914), ristampa con note di aggiornamento a cura di G. Miele, Padova, 1960, 653, il quale, chiarendo le ragioni dei poteri di autotutela attribuiti alle amministrazioni, le individuava: a) nella circostanza che gli atti e le pretese delle p.a. possono presumersi conformi a giustizia; b) nell’importanza degli interessi (pubblici) perseguiti dalle amministrazioni; c) nel fatto che «l’amministrazione è una delle tre funzioni della sovranità epperò logicamente partecipa della coercizione, che alla sovranità è inerente e che in questo senso è una tradizione storica costante» (op. loc. ult. cit.). In termini L. RAGNISCO, Revoca e annullamento di atti amministrativi, in Foro it., III, 1907, 280 e spec. 302
[4] F. CAMMEO, Corso di diritto amministrativo, cit., 656.
[5] G. ZANOBINI, Corso di diritto amministrativo, VIII ed., vol. I, 1958, Milano, 323.
[6] A. DE VALLES, La validità degli atti amministrativi (1916), rist. anast. Padova, 1986, 401: «Non sembra che la facoltà di annullamento sia soggetta a decadenza; il decorso del tempo ha normalmente soltanto per effetto di assoggettarlo a maggiori formalità e garanzie». V., poi, S. ROMANO, Corso di diritto amministrativo, III ed., Padova, 1937, 291; ID., Annullamento (Teoria dell’) nel diritto amministrativo (1937), ora in ID, Scritti minori, vol. II, Milano, 1990, 327 e spec. 333: «Quando […] come risulta da parecchie disposizioni sopra citate, l’annullamento può aver luogo “in qualunque tempo”, non si ha di regola nessun ostacolo assoluto a che venga annullato un atto amministrativo che, nonostante la sua invalidità, si sia mantenuto lungamente in vita. Piuttosto è da valutarsi se questa sua persistenza attraverso un più o meno ampio periodo di tempo […] non abbia determinato il venir meno dell’interesse da parte della pubblica Amministrazione ad annullarlo».
[7] P. VIRGA, Il provvedimento amministrativo, IV ed., 1972, 452; A.M. SANDULLI, Diritto amministrativo, IX ed., Napoli, 1989, 731.
[8] In argomento v. E. CANNADA BARTOLI, Annullabilità e annullamento, in Enc. dir., vol. II; Milano, 1958, 484; F. BENVENUTI, Autotutela (dir. amm.), ivi, vol. IV, 1959, 537.
[9] R. VILLATA, L’atto amministrativo, in L. MAZZAROLLI, G. PERICU, A. ROMANO, F.A. ROVERSI MONACO, F.G. SCOCA (a cura di), Diritto amministrativo, vol. I, IV ed., Bologna, 2005, 767 e spec. 871.
[10] G. GALLONE, Annullamento d’ufficio e sorte del contratto, Bari, 2016, 21.
[11] V. CERULLI IRELLI, Introduzione, in N. PAOLANTONIO, A. POLICE, A. ZITO (a cura di), La pubblica amministrazione e la sua azione, Torino, 2005, 1 e spec. 37; D.U. GALETTA, Autotutela decisoria e diritto comunitario, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2005, 52; A. BARONE, Nomofilachia comunitaria e funzioni interne, Bari, 2008, 162; G. GRECO, Il potere amministrativo nella (più recente) giurisprudenza del giudice comunitario, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2009, 816 e spec. 839; M. SINISI, Il potere di autotutela caducatoria, in M.A. SANDULLI (a cura di), Principi e regole dell’azione amministrativa, Milano, 2015, 333; M.A. SANDULLI, Autotutela e stabilità del provvedimento nel prisma del diritto europeo, in P.L. PORTALURI (a cura di), L’amministrazione pubblica nel prisma del cambiamento: il codice dei contratti e la riforma Madia, Napoli, 2017, 125; C. NAPOLITANO, L’autotutela amministrativa. Nuovi paradigmi e modelli europei, Napoli, 2018, 188; P. OTRANTO, Autotutela decisoria e certezza giuridica tra ordinamento nazionale e sovranazionale, in Federalismi, n. 14, 2020, 235.
[12] Cons. St., sez. I, 23 ottobre 1981, n. 384; Cons. St., sez. VI, 16 ottobre 1995, n. 1141.
[13] Cfr. Cons. St., sez. V, 29 ottobre 1985, n. 353, dove si sostiene che in materia di esercizio dei poteri di autotutela non esistono termini perentori che limitino la p.a., essendo sufficiente che il potere stesso sia esercitato in ragionevole collegamento logico e causale con la situazione illegittima da rimuovere: di conseguenza si è reputato non illegittimo l’annullamento d’ufficio di una concessione edilizia per il solo fatto che l’amministrazione conoscesse ormai da alcuni anni l’abusività del fabbricato. In termini Cons. St., sez. V, 16 ottobre 1989, n. 641.
[14] Cons. St., sez. V, 31 dicembre 2003, n. 9263; Cons. St., sez. IV, 8 agosto 2003, n. 4043. In entrambi i precedenti innanzi richiamati viene detto che l’interesse pubblico all’annullamento in autotutela dell’illegittimo inquadramento di un pubblico dipendente è in re ipsa, poiché la permanenza dell’atto invalido implica un danno per la p.a., datrice di lavoro, consistente nell’esborso sine titulo di denaro pubblico.
[15] R. VILLATA, L’atto amministrativo, cit., 871.
[16] Il riferimento è al pensiero di M.S. GIANNINI, Diritto amministrativo, III ed., vol. II, Milano, 1993, 583.
[17] Vengono in mente le parole di A. PIRAS, Invalidità (dir. amm.), in Enc. dir., vol. XXII, Milano, 1972, 599: «La giurisprudenza non si è mai occupata di questioni teoriche, non si è mai preoccupata di giustificare gli orientamenti che ha seguito o gli atteggiamenti che ha assunto: ha anzi preferito lasciarsi guidare dalle esigenze pratiche dei giudizi lungo strade diverse da quelle battute dalle ricerche dogmatiche».
[18] La riforma è stata operata dalla l. 11 febbraio 2005, n. 15. In particolare l’art. 21 nonies della l. n. 241/1990 è stato introdotto dall’articolo 14, comma 1, della l. n. 15/2005.
[19] Cfr. C. DEODATO, Il potere amministrativo di riesame per vizi originari di legittimità, in Federalismi, n. 7, 2017, 1.
[20] Cfr. F. BASSI, Lezioni di diritto amministrativo, VIII ed., Milano, 2008, 135, il quale addebita la grossa confusione terminologica sussistente in materia di autotutela, nonché i contorni piuttosto sfumati sotto il profilo concettuale che caratterizzano l’istituto, alla sua genesi consuetudinaria ed alla mancanza, per lungo tempo, di un testo normativo che abbia provveduto a regolamentarlo compiutamente.
[21] Significativo quanto affermato da T.A.R. Puglia, Bari, sez. III, 14 gennaio 2016, n. 47, dove si legge: «È noto che l’espressione “entro un termine ragionevole”, contenuta nella versione originaria dell’art. 21 nonies, ha occupato non poco la dottrina e la giurisprudenza nell’opera di elaborazione, in assenza di parametri costituzionali di riferimento, di criteri uniformi di misurazione del tempo entro il quale la p.a. può esercitare lo ius poenitendi ed intervenire su posizioni giuridiche acquisite, valorizzandosi talora il tempo in sé, quando l’amministrazione ha chiari gli elementi fondamentali dai quali si deduce l’illegittimità del provvedimento, grazie all’attività istruttoria espletata in precedenza, altre volte gli effetti che medio tempore sono stati prodotti dal provvedimento. Con la disposizione in esame il legislatore ha inteso quindi dare certezza e stabilità ai rapporti che hanno titolo in atti amministrativi, individuando nel termine massimo di diciotto mesi il limite per l’annullamento d’ufficio, il quale sarebbe senz’altro illegittimo se sopravvenuto dopo il decorso di detto termine».
[22] Cons. St., sez. IV, 29 febbraio 2016, n. 816.
[23] T.A.R. Lazio, Roma, sez. II bis, 19 dicembre 2019, n. 14591.
[24] T.A.R. Lazio, Roma, sez. II, 2 settembre 2015, n. 11008.
[25] T.A.R. Liguria, Genova, sez. I, 17 marzo 2015, n. 292.
[26] Sul punto cfr. V. ANTONELLI, Commento all’art. 21 nonies, in N. PAOLANTONIO, A. POLICE, A. ZITO (a cura di), La pubblica amministrazione e la sua azione, cit., 662, ma anche N. PAOLANTONIO, Considerazioni su esecutorietà ed esecutività del provvedimento amministrativo nella riforma della l. 241/90, in Giustamm.it, 2005.
[27] Cons. St., sez. VI, 10 dicembre 2015, n. 5625; Cons. St., sez. VI, 14 novembre 2014, n. 5609.
[28] T.A.R. Lazio, Roma, sez. II quater, 9 gennaio 2015, n. 241.
[29] T.A.R. Sardegna, sez. I, 3 dicembre 2015 n. 1150.
[30] Lamenta il mancato coordinamento tra l’art. 21 nonies della l. n. 241/1990 e l’art. 39 del T.U. edilizia M.A. SANDULLI, Controlli sull’attività edilizia, sanzioni e poteri di autotutela, in Federalismi, n. 18, 2019, 1 e spec. 30.
[31] Così T.A.R. Campania, Napoli, sez. II, 27 maggio 2015, n. 2936; in termini T.A.R. Lazio, Roma, sez. II bis, 2 febbraio 2012, n. 1141; T.A.R. Lombardia, Milano, sez. II, 21 maggio 2013, n. 1338.
[32] Cons. St., sez. VI, 18 luglio 2016, n. 3173.
[33] Su questi temi v. già gli studi di F. MERUSI, L’affidamento del cittadino, cit., 92. Sulla necessità che le amministrazioni «riflessive» rivedano i termini delle proprie statuizioni, quando ciò sia necessario a fronteggiare situazioni di rischio v. A. BARONE, Il diritto del rischio, Milano, 2006, 85.
[34] Sul punto v. G. BARONE, Autotutela amministrativa e decorso del tempo, in Dir. amm., 2002, 690; A. GUALDANI, Il tempo nell’autotutela, in Federalismi, n. 12, 2017, 1.
[35] Cfr. E. CANNADA BARTOLI, Annullamento di ufficio ed inoppugnabilità dei provvedimenti amministrativi, in Foro amm., 1964, II, 143 che, annotando Cons. St., sez. VI, 30 settembre 1964, n. 654, afferma: «Secondo la Sezione deve escludersi l’interesse pubblico alla rimozione di provvedimenti amministrativi “oramai intangibili per decorso dei termini”. [….] Nella decisione che si pubblica si stabilisce una corrispondenza tra inoppugnabilità del provvedimento ed inammissibilità del suddetto annullamento, spiegandola con l’esclusione dell’interesse pubblico alla rimozione dei provvedimenti inoppugnabili. Ciò significa che il termine stabilito per ricorrere al giudice amministrativo vale anche per l’esercizio da parte della p.a. del potere di annullamento di ufficio. Un simile assetto non avrebbe alcunché di inaccettabile». Argomentazioni non dissimili sono state affermate da recente giurisprudenza che, riflettendo sullo sbarramento temporale dei diciotto mesi posto dall’art. 21 nonies della l. n. 241/1990 per l’annullamento d’ufficio, afferma che si tratta «di una regola speculare – nella ratio e negli effetti – a quella dell’inoppugnabilità dell’atto amministrativo, ma creata, a differenza di questa, in considerazione delle esigenze di certezza e per la tutela del privato» (T.A.R. Lombardia, Milano, sez. I, 2 luglio 2018, n. 1637).
[36] Cfr. M.S. GIANNINI, Atto amministrativo (1959), ora in ID., Scritti, vol. IV, Milano, 2004, 559, dove si legge: «La più strana, e per certi profili, ancor misteriosa, delle articolazioni dell’imperatività è l’inoppugnabilità. Essa è una qualità che si acquista al provvedimento per effetto del decorso del termine d’impugnativa […] e ne rende inattaccabili definitivamente gli effetti sostanziali. […] Il fondamento dell’inoppugnabilità si ravvisa normalmente in una ragione pratica: il bisogno di permettere all’amministrazione di procedere speditamente, senza essere esposta troppo a lungo al rischio di impugnative del proprio provvedimento. […] Può tuttavia ritenersi che il problema del fondamento dell’inoppugnabilità è apparente: l’inoppugnabilità non è affatto un tratto necessario e ineliminabile dell’imperatività, ma è piuttosto un istituto di diritto positivo, che serve a rafforzare ancor più la posizione della amministrazione». Sull’inoppugnabilità v. P. STELLA RICHTER, L’inoppugnabilità, Giuffrè, Milano, 1970; A. MARRA, Il termine di decadenza nel processo amministrativo, Milano, 2012, 53.
[37] Per completezza di informazione, può essere utile ricordare che l’art. 21 nonies era stato già modificato per mezzo dell’art. 25, comma 1, lett. b quater), nn. 1 e 2, del d.l. 133/2014; le modifiche introdotte nel 2014, però, non hanno avuto ad oggetto le disposizioni che disciplinavano i profili temporali dell’annullamento di ufficio.
[38] M.A. SANDULLI, Gli effetti diretti della L. 7 agosto 2015 n. 124 sulle attività economiche: le novità in tema di s.c.i.a., silenzio-assenso e autotutela, in Federalismi, n. 2, 2015, 1; F. FRANCARIO, Autotutela amministrativa e principio di legalità, in Federalismi, n. 20, 2015, 1. In argomento v. anche G. GALLONE, Annullamento d’ufficio e risoluzione del contratto pubblico, Roma, 2018, 39.
[39] È noto che l’art. 21 nonies, all’art. 2 bis prevede che il termine di diciotto mesi non si applica per «i provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato»
[40] D. SORACE, Diritto delle amministrazioni pubbliche, IV ed., Bologna, 2007, 371, ha osservato che la mancata indicazione di un periodo di tempo esattamente determinato per l’adozione del provvedimento di riesame è «un fatto inconsueto per la legislazione italiana […], ma non per questo criticabile, giacché il periodo di tempo entro il quale l’amministrazione può intervenire senza sacrificare oltre un limite di accettabilità gli interessi alla conservazione dell’atto è difficilmente determinabile in astratto, Il richiamo alla ragionevolezza […] è del resto riferimento ad un criterio che abbiamo visto essere centrale nell’esercizio delle attività discrezionali».
[41] In proposito è bene ricordare che Corte cost., 22 marzo 2000, n. 75, ha affermato che «il momento discrezionale del potere della pubblica amministrazione di annullare i propri provvedimenti non gode in sé di una copertura costituzionale. Lo strumento dell’autotutela deve sempre essere valutato nel quadro dei princìpi di imparzialità, di efficienza e, soprattutto, di legalità dell’azione amministrativa, espressi dall’art. 97 Cost.». Sempre con la stessa pronuncia, poi, si è detto che «la previsione d’un potere-dovere di annullamento dei provvedimenti che avevano disposto gli inquadramenti illegittimi […] si configura […] quale elemento fondante dell’azione amministrativa (in quanto corollario del principio di legalità), tra i cui fini deve intendersi compreso quello di evitare il consolidarsi di situazioni costituitesi contra legem». La decisione della Consulta è corredata da un sagace commento di F.G. SCOCA, Una ipotesi di autotutela amministrativa impropria, in Giur. cost., 2000, 824.
[42] Cfr. M.A. SANDULLI, Gli effetti diretti della L. 7 agosto 2015, n. 124 sulle attività economiche: le novità in tema di s.c.i.a., silenzio-assenso e autotutela, cit., 9.
[43] Così T.A.R. Sardegna, sez. I, 10 agosto 2016, n. 687; in termini Cons. St., sez. VI, 31 agosto 2016, n. 3762; T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 5 maggio 2016, n. 2242; T.A.R. Abruzzo, L’Aquila, sez. I, 9 giugno 2016, n. 362; T.A.R. Calabria, Reggio Calabria, sez. I, 22 luglio 2019, n. 463; T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 22 settembre 2016, n. 4373; T.A.R. Campania, Napoli, sez. III, 12 ottobre 2016, n. 4682.
[44] Cons. St., sez. VI, 31 agosto 2016, n. 3762; Cons. St., sez. VI, 20 marzo 2020, n. 1987.
[45] In tal senso T.A.R. Campania, Napoli, sez. II, 19 ottobre 2016, n. 4737, che argomenta: «La norma in esame ha sicuramente carattere innovativo, sicché si applica soltanto ai provvedimenti adottati successivamente alla sua entrata in vigore: ora, tenendo conto che tale disposizione riguarda soltanto provvedimenti di secondo grado e che, come si è detto, non ha valenza sanante dei provvedimenti (di primo grado) emessi antecedentemente ai 18 mesi precedenti alla sua entrata in vigore, tale disposizione – che introduce un regime temporale rigido di annullabilità dell’atto amministrativo – non può che riferirsi ai provvedimenti in autotutela di provvedimenti di primo grado adottati successivamente alla vigenza della legge. Depone a favore di tale interpretazione la stessa lettera della norma che, assumendo che l’annullamento in autotutela deve disporsi entro un termine “comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione”, afferma, in buona sostanza, che l’atto di secondo grado non potrà essere emanato dopo 18 mesi dal momento dell’adozione – momento che, attesa l’innovatività della norma, non può che essere successivo alla sua entrata in vigore – del provvedimento autorizzativo (di primo grado)». In termini T.A.R. Lazio, Roma, sez. I, 2 luglio 2018 n. 7272. Contra T.A.R. Puglia, Bari, sez. III, 14 gennaio 2016, n. 47: «Avuto riguardo ai provvedimenti per i quali, alla data di entrata in vigore della novella, il “termine ragionevole” per l’annullamento è ancora in corso, il collegio ritiene di escludere che il termine di diciotto mesi possa nuovamente decorrere da detta data, sia perché ciò sarebbe in contrasto con la natura interpretativa delle disposizione in rassegna sia perché, diversamente opinando, si ammetterebbe un’irragionevole rimessione in termini per la p.a., in palese contraddizione con l’intendimento del legislatore di stabilire un termine certo oltre il quale il provvedimento amministrativo non può essere annullato se non in sede giurisdizionale».
[46] Cons. St., sez. IV, 22 novembre 2019, n. 7962; Cons. St., sez. VI, 20 marzo 2020, n. 1987.
[47] T.A.R. Puglia, Bari, sez. III, 28 settembre 2016, n. 1141.
[48] Si legge al par. 10 della motivazione in diritto della pronuncia: «Ed invero, innanzitutto, il potere de quo è stato esercitato a quasi 10 anni di distanza rispetto all’adozione delle summenzionate determinazioni di fiscalizzazione dell’abuso e, quindi, entro un termine che – a prescindere dalla querelle circa l’applicabilità retroattiva della novella di cui all’articolo 6, comma 1, lettera d), numero 1) della Legge 7 agosto 2015, n. 124, che ha imposto alla p.a. il termine decadenziale di 18 mesi – non può certo dirsi, comunque, “ragionevole”, secondo quanto previsto anche dal vigente testo dall’art. 21 nonies sopra citato».
[49] C. DEODATO, L’annullamento d’ufficio, in M.A. SANDULLI (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, II ed., Milano, 2017, 983 e spec. 993.
[50] T.A.R. Lombardia, Milano, sez. I, 2 luglio 2018, n. 1637.
[51] V. ANTONELLI, Commento, cit., 662: «Se si approva l’orientamento che esclude l’annullabilità del provvedimento inefficace, il termine in esame non decorre dall’adozione, o meglio dalla perfezione del provvedimento, ma dall’assunzione di efficacia dello stesso». Sostiene che non possa propriamente parlarsi di autotutela in relazione agli atti non ancora efficaci G. GHETTI, Annullamento d’ufficio dell’atto amministrativo, in Dig. disc. pubbl., vol. I, 1987, 268.
[52] Così T.A.R. Campania, Napoli, sez. V, 21 ottobre 2016, n. 4824. In termini T.A.R. Puglia, Bari, sez. I, 7 luglio 2016, n. 867, che ha ritenuto di utilizzare come dies a quo da cui far decorrere i diciotto mesi, quello della approvazione degli atti di affidamento di un appalto per servizi sanitari. In argomento v. anche T.A.R. Marche, sez. I, 20 ottobre 2016, n. 574; T.A.R. Liguria, sez. I, 3 ottobre 2016, n. 970; T.A.R. Campania, Napoli, sez. II, 12 settembre 2016, n. 4229.
[53] Con riferimento alla Scia, invece, il termine dovrebbe decorrere da quando si è consolidato il titolo, senza che l’amministrazione abbia adottato motivate determinazioni di inibizione o conformazione, secondo M. LIPARI, La SCIA e l’autotutela nella legge n. 124/2015: primi dubbi interpretativi, in Federalismi, n. 20, 2015, 8.
[54] In tal senso v. quanto disposto dall’art. 21 nonies, comma 2 bis, della l. n. 241/1990: «I provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, possono essere annullati dall’amministrazione anche dopo la scadenza del termine di diciotto mesi di cui al comma 1, fatta salva l’applicazione delle sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445». La prevalente giurisprudenza ha ritenuto che il superamento del termine previsto dal comma 1 dell’art. 21 nonies è consentito in due distinte situazioni: a) nel caso in cui il provvedimento sia stato emanato sulla base di una falsa attestazione, inerente ai presupposti per il rilascio del provvedimento ampliativo, che abbia costituito il frutto di una condotta di falsificazione penalmente rilevante (indipendentemente dal fatto che siano state all’uopo rese dichiarazioni sostitutive): nel qual caso sarà necessario l’accertamento definitivo in sede penale; b) nel caso in cui l’(acclarata) erroneità dei ridetti presupposti risulti comunque non imputabile (neanche a titolo di colpa concorrente) all’amministrazione, ed imputabile, per contro, esclusivamente al dolo (equiparabile, per solito, alla colpa grave e corrispondente, nella specie, alla mala fede oggettiva) della parte: nel qual caso – non essendo parimenti ragionevole pretendere dalla incolpevole Amministrazione il rispetto di una stringente tempistica nella gestione della iniziativa rimotiva – si dovrà esclusivamente far capo al canone di ragionevolezza per apprezzare e gestire la confliggente correlazione tra gli opposti interessi in gioco (in tal senso, ex multis, Cons. St., sez. V, 27 giugno 2018, n. 3940). Critica su tale posizione M.A. SANDULLI, È inapplicabile il termine di 18 mesi per l’annullamento d’ufficio se la P.A. è stata indotta in errore da un comportamento doloso del privato, in Riv. giur. ed., 2018, 687. In argomento v. anche G. MANFREDI, Il tempo è tiranno: l’autotutela nella legge Madia, in Urb. app., 2016, 5, il quale ritiene che la previsione contenuta nel comma 2 bis tragga ispirazione dal § 48 della Verwaltungsverfahrensgesetz, recante «Rücknahme eines rechtswidrigen Verwaltungsaktes», il quale dispone che pone delle limitazioni al ritiro di atti amministrativi che, però, non valgono quando l’illegittimità dell’atto sia ascrivibile al privato che ha usato frode, minaccia o corruzione, ovvero quando ha fornito informazioni errate o incomplete, ovvero quando avrebbe dovuto essere a conoscenza dell’illegittimità dell’atto: «Auf Vertrauen kann sich der Begünstigte nicht berufen, wenn er: 1. den Verwaltungsakt durch arglistige Täuschung, Drohung oder Bestechung erwirkt hat; 2. den Verwaltungsakt durch Angaben erwirkt hat, die in wesentlicher Beziehung unrichtig oder unvollständig waren; 3. die Rechtswidrigkeit des Verwaltungsaktes kannte oder infolge grober Fahrlässigkeit nicht kannte».
[55] Se, dunque, l’errata percezione del fatto è frutto di un travisamento della p.a., non sussistono dubbi in merito alla decorrenza del termine per l’esercizio degli atti di ritiro: T.A.R. Veneto, sez. III, 22 marzo 2018, n. 336.
[56] Così T.A.R. Campania, Salerno, sez. I, 13 settembre 2016, n. 2171.
[57] T.A.R. Puglia, Bari, sez. III, 17 marzo 2016, n. 351; T.A.R. Lombardia, Milano, sez. I, 2 luglio 2018, n. 1637; T.A.R. Calabria, Catanzaro, sez. II, 10 aprile 2019, n. 716. In termini
[58] Così il Cons. St., comm. spec., 30 marzo 2016, n. 839/2016.
[59] Sul punto v. Cons. St., ad. plen., 17 ottobre 2017, n. 8, dove, però, si aggiunge: «Occorre tuttavia responsabilizzare le amministrazioni all’adozione di un contegno chiaro e lineare, tendenzialmente fondato sullo scrupoloso esame delle pratiche di sanatoria o comunque di permesso di costruire già rilasciato, e sul diniego ex ante di istanze che si rivelino infondate, nonché sull’obbligo di serbare – in caso di provvedimenti di sanatoria già rilasciati – un atteggiamento basato sul generale principio di clare loqui».
[60] Ricorda F. COSTANTINO, Annullamento d’ufficio, in A. ROMANO (a cura di), L’azione amministrativa, Torino, 2016, 869, che l’esplicitazione delle ragioni sottese all’adozione dell’atto di ritiro non può ridursi in una clausola di stile, ma deve dare conto della comparazione tra interesse alla caducazione ed interesse alla conservazione del provvedimento.
[61] Cons. St., ad. plen., n. 8/2017.
[62] Si legge in Cons. St., sez. V, 8 novembre 2012, n. 5691, che l’annullamento d’ufficio di una concessione edilizia non necessita di un’espressa e specifica motivazione sul pubblico interesse, consistendo questo nell’interesse della collettività al rispetto della disciplina urbanistica.
[63] Sosteneva che il ritiro di provvedimenti viziati fosse un potere dal carattere vincolato E. CANNADA BARTOLI, Annullabilità e annullamento, cit., 489. Osserva invece che «la teorica dell’interesse in re ipsa all’annullamento in autotutela del titolo edilizio illegittimo, laddove condivisa, finirebbe per rendere nei fatti vincolato l’esercizio del potere di autotutela che un consolidato orientamento giurisprudenziale (prima) e un’espressa previsione di legge (poi) hanno delineato come tipico potere discrezionale dell’amministrazione» Cons. St., ad. plen. n. 8/2017. Sulla doverosità dell’autotutela v., di recente, N. POSTERARO, Sulla possibile configurazione di un’autotutela doverosa (anche alla luce del codice dei contratti pubblici e della Adunanza Plenaria n. 8 del 2017), ivi, n. 2, 2017, 2; M. ALLENA, La facoltatività dell’instaurazione del procedimento di annullamento d’ufficio: un “fossile vivente” nell’evoluzione dell’ordinamento amministrativo, in Federalismi, n. 8, 2018, 2; ID., L’annullamento d’ufficio. Dall’autotutela alla tutela, Napoli, 2018, 20.
[64] D.U. GALETTA, I procedimenti di riesame, in V. CERULLI IRELLI (a cura di), La disciplina generale dell’azione amministrativa, Napoli, 2006, 393 e spec. 401.
[65] In tal senso Cons. St., sez. VI, 31 agosto 2016, n. 3762; contra T.A.R. Campania, Napoli, sez. II, 12 settembre 2016, n. 4229, cit.
[66] Così T.A.R. Sardegna, sez. I, 10 agosto 2016, n. 687; T.A.R. Campania, Napoli, sez. II, 11 febbraio 2020, n. 673. In dottrina v. M. D’ALBERTI, Lezioni di diritto amministrativo, II ed., 2013, 287; C. DEODATO, Il potere amministrativo, cit., 9.
[67] In tal senso T.A.R. Umbria, sez. I, 23 febbraio 2016, n. 156, dove pure si esclude che gli atti contestati in giudizio siano riconducibili alla categoria dei provvedimenti attributivi di vantaggi economici.
[68] Cfr. T.A.R. Lazio, Latina, sez. I, 19 ottobre 2016, n. 628, in materia di pianificazione urbanistica; contra Cons. St., sez. VI, 6 luglio 2020, n. 4302.
[69] Così A. ORSI BATTAGLINI, Autorizzazione amministrativa, in Dig. disc. pubbl., vol. II, Torino, 1987, il quale aggiunge: «Il punto di crisi più vistoso si registra proprio nel cuore del problema, rispetto cioè alla distinzione tra autorizzazione e concessione». Sul punto v. anche L. MAZZAROLI, Concessione e autorizzazione edilizia, in Dig. disc. pubbl., vol. III, Torino, 1989, 269, che si affretta a chiarire: «Perde importanza, e finisce col configurarsi come una questione più di nome che di sostanza, il riportare la concessione edilizia tra i provvedimenti di concessione o tra quelli di autorizzazione». In argomento v. F. FRACCHIA, Autorizzazione amministrativa e situazioni giuridiche soggettive, Napoli, 1996.
[70] A. POLICE, Prevedibilità delle scelte e certezza dell’azione amministrativa, in Dir. amm., 1996, 697.
[71] G. DELLA CANANEA, Lo Stato debitore e il diritto europeo, in Riv. trim. dir. pubbl., 2002, 341.
[72] Cons. St., sez. V, 23 marzo 2015, n. 1552.
[73] T.A.R. Toscana, sez. III, 2 luglio 2007 n. 1000.
[74] Cons. St., sez. VI, 15 marzo 2013, n. 1553.
[75] T.A.R. Puglia, Bari, sez. I, 7 novembre 2007, n. 2689.
[76] T.A.R. Umbria, sez. I, 22 gennaio 2013, n. 40.
[77] T.A.R. Umbria, sez. I, 14 marzo 2012, n. 96.
[78] T.A.R. Lazio, Roma, sez. III, 8 marzo 2004, n. 2154.
[79] T.R.G.A. Trento, sez. I, 12 marzo 2014 n. 86.
[80] T.A.R. Puglia, Bari, sez. I, 7 luglio 2016, n. 867; T.A.R. Campania, Napoli, sez. V, 21 ottobre 2016, n. 4824; T.A.R. Lombardia, Milano, sez. I, 2 luglio 2018, n. 1637.
[81] Cons. St., sez. III, 26 febbraio 2016, n. 791
[82] M.A. SANDULLI, Autotutela e stabilità del provvedimento nel prisma del diritto europeo, cit. 127.
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