ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Deontologia come habitus. Percorsi e sviluppi per la professione di assistente sociale
di Maria Pia Fontana
Riflettere con serietà e lucidità sull’habitus deontologico di una professione è un’operazione sfidante se si vive in un clima culturale segnato dal relativismo etico, dal pluralismo culturale e da marcate forme di individualismo che minano il senso del noi anche quando esso riguarda una categoria professionale. Eppure, se consideriamo la capacità umana di percepire i limiti e di discernere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato come una condizione essenziale della sana vita di relazione, non possiamo fare a meno dell’etica e, in particolare, di quell’etica pratica che si esprime anche attraverso il lavoro. Esiste un rapporto direttamente proporzionale tra l’aderenza alla deontologia e la qualità dell’agire professionale che, quando si ispira a dei criteri guida, conferisce sicurezza identitaria e credibilità al professionista e tutela i beneficiari dell’attività.
Sebbene le norme deontologiche abbiano una valenza extragiuridica (e non a caso vengono definite regole di soft-law) esse mantengono un carattere di cogenza interna alla categoria professionale che, pur essendo rafforzato dalla previsione di conseguenze sanzionatorie in caso di inosservanza, non può prescindere dall’interiorizzazione delle stesse regole. Ogni professionista dovrebbe quindi indossare l’habitus della deontologia non come ornamento discrezionale o estemporaneo, ma come disposizione interiore persistente, vitale e consapevole, nucleo adamantino su cui si innestano saperi, abilità e pratiche.
Da questi presupposti prende avvio la riflessione degli Autori del testo Deontologia come habitus. Introduzione al nuovo Codice deontologico dell’assistente sociale (FrancoAngeli, 2021), Marco Giordano, Antonella Gorgoni, Antonio Nappi e Maria Pia Fontana, impegnati in uno sforzo di analisi che è già di per sé etico non solo perché ha per oggetto l’agire di una professione che sul valore della dignità umana e della giustizia sociale ha fondato la sua ragion d’essere, ma anche perché sposa il metodo della cooperazione tra pari, che fa delle sensibilità, prospettive ed esperienze individuali una risorsa comune. Attraverso la lente del loro percorso professionale, in cui il lavoro di aiuto sul campo si integra con la responsabilità di formare gli studenti dei corsi di Laurea in Servizio Sociale, gli Autori osservano temi diversi della Carta codicistica o esplorano le sfumature di significato delle medesime norme deontologiche allo scopo di costruire un’analisi organica e originale, capace di preservare le specificità soggettive e di mantenere sempre il giusto equilibrio tra teoria e prassi.
La convinzione che l’assistente sociale dovesse dotarsi di chiari criteri etici di condotta (come ad esempio il rispetto della riservatezza a tutela dei soggetti coinvolti nella relazione di aiuto) così come di un solido corpo teorico, per analizzare problemi e risorse e per promuovere processi di cambiamento, appare già in qualche pioniere della professione, durante quella fase germinale del Servizio Sociale italiano che coincise con il secondo dopoguerra e con lo sforzo di ricostruire il Paese edificando al contempo il nuovo ordinamento democratico.
Dopo un vivace percorso di crescita e consolidamento professionale durato circa settanta anni, l’assistente sociale, grazie all’istituzione degli organi di rappresentanza[1] e alla formazione universitaria, che si articola sulla laurea triennale e magistrale, si presenta oggi con un volto armonico e omogeno sul territorio nazionale. Tuttavia, la categoria professionale riflette anche una grande eterogeneità interna, per le specializzazioni post lauream dei singoli operatori, per i diversi contesti organizzativi e istituzionali di intervento, sia nel settore pubblico che privato, per la molteplicità delle funzioni (prevenzione, sostegno, recupero, progettazione, organizzazione e coordinamento di servizi, formazione e consulenza) e per il crescente appeal di nuove tipologie professionali, anche con riferimento alla libera professione.
L’originaria vocazione e missione dell’aiuto nelle varie declinazioni e dimensioni dell’operatività (individui, gruppi e comunità) si è accompagnata ad un progressivo aumento delle attribuzioni, nel quadro della complessa storia del welfare italiano, segnato ancora da forti differenze regionali.
A fronte della precoce e spiccata sensibilità deontologica, l’adozione di formali Carte codicistiche avviene solo alla fine degli anni ’90. In poco più di un ventennio si sono susseguiti quattro Codici deontologici, nel 1998, nel 2002, nel 2009 e, l’ultimo, nel giugno del 2020, tutti segnati da una crescente complessità e articolazione. II nuovo Codice, oggetto dell’analisi del testo Deontologia come Habitus, costa di 9 Titoli e 86 articoli a fronte dei 7 Titoli e dei 69 articoli della versione precedente (2009).
Questa frequenza nell’aggiornamento della Carta codicistica, se da un lato può essere intesa come una sorta di «incertezza sperimentale», dall’altro, come osserva Antonio Nappi, è anche un indicatore di un positivo orientamento verso «un processo costante di apprendimento etico da parte della comunità professionale» (p.16). Chiaramente, nell’adeguamento del Codice entrano in gioco anche altri fattori, come alcune importanti modifiche legislative (vedi entrata in vigore della Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali, L.n.328/2000, che incoraggiò l’aggiornamento delle norme deontologiche adottate nel 1998) ma anche il dibattito sui temi etici professionali condotto a livello internazionale, i cambiamenti demografici e culturali, le nuove modalità gestionali e amministrative dei servizi sociali e i fenomeni sociali ed economici di portata sovranazionale (es. globalizzazione, migrazioni, ecc.).
La prima parte del libro Deontologia come Habitus analizza in modo sistematico i vari titoli della Carta deontologica ricorrendo talvolta ad uno sguardo sinottico tra i vari Codici susseguitisi nel tempo (Antonio Nappi) o approfondendo le radici culturali dei principi fondativi della professione (Antonella Gorgoni) inclusi nel Preambolo, che rappresenta una delle novità delle nuove norme deontologiche.
Vengono quindi esaminate le responsabilità generali dell’assistente sociale che trasversalmente interessano il professionista in tutti i settori di intervento, nonché quelle che entrano in gioco in modo specifico nel rapporto di aiuto con la persona (Maria Pia Fontana). Se significativa appare la sostituzione dei termini utente o cliente, con il termine persona[2], per valorizzare la dimensione relazionale del processo di aiuto e la soggettività del destinatario, residua un’eliminabile asimmetria di saperi, competenze e condizioni personali tra chi riceve sostegno e chi lo agisce. Tale simmetria a sua volta richiama la responsabilità dell’assistente sociale nel favorire processi di autodeterminazione, emancipazione e svincolo della persona dalla stessa relazione di aiuto, sebbene tale dinamica non sia esente da difficoltà.
Sempre nella prima parte del Codice troviamo l’esame delle responsabilità dell’assistente sociale verso la società, all’interno di un titolo che forse avrebbe meritato uno spazio maggiore, unitamente alle responsabilità verso i colleghi e gli altri professionisti (Marco Giordano), mentre chiude la parte analitica del libro l’analisi delle responsabilità verso l’esercizio della professione e verso la professione stessa (Antonio Nappi) con un riferimento anche ai possibili rischi di un’elencazione molto dettagliata di norme deontologiche, distinte per le diverse tipologie di assistenti sociali.
Se la parte sistematica del libro Deontologia come habitus procede metodicamente sottoponendo al vaglio i 9 Titoli della Carta codicistica attraverso le diverse traiettorie in cui si declina la responsabilità professionale, la seconda parte si apre ad alcuni approfondimenti tematici di grande attualità.
In particolare, Marco Giordano affronta la delicata questione, interna alla professione, dei dilemmi etici cui si imbatte il lavoro di aiuto quando l’operatore si trova a fronteggiare scelte problematiche e controverse, a causa del confliggere di valori contrastanti o per l’impossibilità di garantire alla persona soluzioni esenti da rischi. Sebbene da sempre i dilemmi etici siano stati connaturati all’operatività del Servizio Sociale, anche per il carattere polisemico dei suoi obiettivi e ambiti di intervento (si pensi alle diverse declinazioni e concezioni della corretta responsabilità genitoriale, dei bisogni educativi del minore o del benessere individuale) è un merito del nuovo Codice aver dedicato ai dilemmi etici una norma specifica (art.14, Titolo III). I metodi e le strategie di gestione delle situazioni che si presentano come «aree moralmente complesse» vengono esplorati dall’Autore con un riferimento alla casistica, tenendo conto anche dell’apporto che la letteratura ha dato sul tema.
Gli altri due approfondimenti tematici collocano invece l’operatività del Servizio Sociale nell’alveo di due cambiamenti epocali di ampia portata e di interesse generale: la rivoluzione digitale e lo sviluppo sostenibile.
Nello specifico, Maria Pia Fontana partendo dal riconoscimento codicistico della pari dignità dell’aiuto mediato dalla rete (art. 3, Titolo I) rispetto a quello agito attraverso relazioni dirette, prima di entrare nel merito dei rischi e delle potenzialità della relazione professionale on line, argomenta i motivi per cui la digital age solleva nuove sfide operative per il Servizio Sociale e impone l’acquisizione di nuove competenze. Infatti, se da un lato l’estensione dei diritti sociali e della democrazia, ma anche la dipendenza e la devianza si riconfigurano in senso digitale, mostrando come l’accesso alla rete sia un diritto ancora precluso a larghe fasce di popolazione ma che esso, in assenza di digital skills, possa sconfinare in abusi che il Servizio Sociale deve essere nelle condizioni di poter prevenire e recuperare, dall’altro lato si allarga l’area della disumanizzazione e si aggiunge la dimensione della disinformazione. Mentre la prima tradizionalmente coincideva con il contrasto ad ogni forma di sfruttamento, oppressione e umiliazione, oggi richiede anche di agire un ruolo di sentinella critica nei confronti degli sconfinamenti dei limiti della tecnologia che ledono la dignità umana. Inoltre, diventa necessario che pure il Servizio Sociale possa dare un apporto per contrastare la deformazione informativa sui temi sociali generata dalla comunicazione social e da internet, in quanto tale deriva nasce nella deprivazione socio-culturale e acuisce forme di accesa conflittualità e frattura sociale.
Di grande interesse sul piano degli scenari futuri del Servizio Sociale è anche la riflessione di Antonella Gorgoni, sull’intervento sociale integrato per uno sviluppo sostenibile che trova un ancoraggio nell’art.13 del Codice deontologico. Le intime correlazioni tra sviluppo integrale della persona, benessere sociale e tutela dell’ambiente sono il frutto di un percorso di riflessione teorica nonché di un’azione politica, condotto sotto la spinta dei movimenti ecologisti, che l’Autrice ricostruisce anche attraverso un’accurata prospettiva storica. È evidente infatti come le crisi e le catastrofi ambientali, i cambiamenti climatici, l’inquinamento, l’industrializzazione selvaggia e una crescita urbanistica sconsiderata, si riverberino negativamente sugli standard di vita dignitosi e acuiscano le forme di vulnerabilità sociale e di deprivazione.
La crescente sensibilità ai temi ambientali per uno sviluppo equo, sostenibile e solidale modificherà e arricchirà le pratiche e gli strumenti del Servizio Sociale di comunità e rappresenta sicuramente uno degli ambiti di intervento più originali, necessari e lungimiranti del prossimo futuro, anche per garantire una solidarietà (e responsabilità) intergenerazionale.
In definitiva il testo utilizza le norme codicistiche come opportunità di riflessione sul dinamismo di una professione che ha saputo evolversi sul piano delle dotazioni teoriche e degli strumenti di intervento modellandosi sui bisogni emergenti. Ma senza interiorizzare e praticare l’habitus deontologico a poco servono saperi e tecniche, perché solo il primo può offrire una cornice di senso e permettere di mantenere ferma la rotta verso la promozione della dignità e della irripetibile unicità di ogni soggetto in rapporto dinamico con il suo ambiente di vita e con le sue trasformazioni, rendendo vitale, creativa e vigile l’azione di aiuto.
[1] L’istituzione dell’Ordine Nazionale Assistenti sociali è stata prevista dalla legge n. 84 del 1993, recante norme su “Ordinamento della professione di assistente sociale e istituzione dell’albo professionale”.
[2] I termini di utente o cliente sono consentiti solo se si fa riferimento ad un «rapporto di committenza instaurato con una società professionale o multi-professionale o con un libero professionista» (dal Preambolo del Nuovo Codice Deontologico dell’assistente sociale)
Concessioni affidate alle società in house: una contradictio in adjecto
di Guido Greco
1. Si legge sovente in giurisprudenza che “l’affidamento in house costituisce modalità ordinaria e nient’affatto eccezionale della concessione di servizi”[1]. Del resto anche la Direttiva 2014/23/UE, in tema di aggiudicazione dei contratti di concessione, statuisce che una concessione aggiudicata ad una società in house (ivi indicata non nominativamente, ma per i requisiti che questa deve rivestire) “non rientra nell’ambito di applicazione della presente direttiva”: così confermando che sussiste compatibilità tra l’istituto della concessione e quello dell’in house, anche se la disciplina concernente il relativo affidamento fuoresce dal campo di applicazione della Direttiva.
Non dissimile è anche il tenore dell’art. 5 del nostro Codice dei contratti pubblici, che statuisce che “una concessione o un appalto pubblico, nei settori ordinari o speciali, aggiudicati da un’amministrazione aggiudicatrice o da un ente aggiudicatore a una persona giuridica di diritto pubblico o di diritto privato, non rientra nell’ambito di applicazione del presente codice quando sono soddisfatte tutte le seguenti condizioni”, che sono poi le condizioni perché si possa riconoscere a detta persona giuridica il carattere dell’in house. Sicché con tale soggetto può essere indifferentemente stipulato un contratto di appalto o di concessione.
Tuttavia tale acquisizione fa insorgere più di una perplessità, almeno per quel che concerne le c.d. concessioni in house. Infatti, per quanto si possa concepire una dissociazione tra forma e sostanza (sul punto si tornerà di qui a poco), un trattamento differenziato di tali aspetti può essere assecondato finché peraltro non vengano intrinsecamente a confliggere.
Scopo delle presenti note è un approfondimento del tema, appena accennato. Non senza prima ricordare che i contratti di concessione dovrebbero concorrere “al miglioramento della concorrenza in seno al mercato interno” e dovrebbero consentire “di beneficiare delle competenze del settore privato e contribuiscono a conseguire efficienza e innovazione” (Direttiva 2014/23/UE, considerando 3). Obbiettivi, questi, incompatibili con l’in house, che di per sé preclude in radice anche l’utilizzazione di investimenti privati: con la conseguenza che viene a mancare una caratteristica tradizionalmente tipica della concessione di costruzione e gestione o della concessione di servizi, soprattutto nel caso in cui si tratta di concessione che si inquadra nel più ampio contesto di un project financing.
2. Come si ricorderà l’istituto dell’in house è di origine giurisprudenziale (della Corte di giustizia) ed è stato concepito per escludere dal regime di affidamento dei contratti pubblici quei contratti intercorrenti tra un’amministrazione aggiudicatrice (o un ente aggiudicatore) ed una propria società, avente le caratteristiche di essere estremamente dipendente dalla prima (o dal primo), quanto a proprietà delle quote o delle azioni, quanto al controllo e alla destinazione dell’attività. Infatti, sin dalla prima sentenza in argomento, si ha affidamento in house “nel caso in cui, nel contempo, l’ente locale esercita sulla persona di cui trattasi un controllo analogo a quello da esso esercitato sui propri servizi e questa persona realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o con gli enti che la controllano”[2].
Si è infatti argomentato che, in presenza di tali condizioni, non sussiste una vera e propria distinzione (sostanziale) tra soggetto affidante e soggetto affidatario e, dunque, neppure quella composizione degli interessi tra soggetti diversi, che sta alla base del contratto. Mancando, dunque, un vero e proprio contratto (sempre secondo una visione sostanzialistica del fenomeno), mancherebbe anche il presupposto per l’applicazione della disciplina comunitaria e unionale dei contratti pubblici e si può pertanto procedere con l’affidamento diretto, senza gara.
Si tratta, dunque, come si è accennato di un caso particolarmente rilevante di dissociazione tra forma (pluralità di soggetti) e sostanza (immedesimazione di un soggetto nell’altro). E tale dissociazione consente un trattamento diverso del fenomeno, a seconda che lo si consideri sotto il primo profilo o il secondo, come è confermato anche dalla disciplina positiva come si vedrà.
La società in house è espressione della c.d. libertà di autoproduzione e cioè della “libertà degli Stati membri e delle autorità pubbliche di eseguire lavori o fornire servizi direttamente al pubblico o di esternalizzare tale fornitura delegandola a terzi”[3]. Il che non significa che si tratti di libertà assoluta, almeno per le singole autorità pubblica. Tant’è che, ad esempio, in Italia (ma lo stesso vale per altri Stati membri[4] la scelta dell’in house è assoggettata a precise condizioni, sia nella fase di costituzione di una società di tal fatta (art. 5, D. Lgs. 175/2016), sia all’atto dell’affidamento ad essa del singolo servizio (art. 192, c. 2, D. Lgs. n. 50/2016, a sua volta richiamato dall’art. 16, u. c., D. Lgs. 175/2016, nonché art. 34, c. 20, d.l.179/2012).
Si tratta essenzialmente dei casi in cui il ricorso al mercato non è possibile o non è idoneo a far fronte alle esigenze del singolo servizio -c.d. fallimento del mercato-, mentre una maggiore convenienza economica, sostenibilità finanziaria e vantaggi per i cittadini presenta la scelta dell’autoproduzione). Infatti, “l’opzione di fondo dovrebbe essere nel senso che, fermo restando specifiche prescrizioni imposte dal diritto europeo, la decisione di non esternalizzare l’attività deve essere rigorosamente motivata dimostrando che la scelta organizzativa interna si risolve in un maggior vantaggio per i cittadini”[5].
Ciò non significa sminuire l’importanza della società in house, quale modulo organizzativo che può rivelarsi molto efficace (come spesso è accaduto), soprattutto nella gestione dei pubblici servizi. Significa soltanto che la sua istituzione e i relativi affidamenti devono risultare davvero necessari per supplire alle carenza del mercato e non frutto di una scelta essenzialmente politica, diretta a creare, ceteris paribus, un’ennesima struttura a disposizione degli organi di governo dei singoli enti.
La disciplina nazionale, che pone precisi paletti al ricorso all’in house, è stata giudicata costituzionalmente legittima[6] e non in contrasto col diritto dell’Unione[7]. Infatti, sul versante nazionale è stata riconosciuta la coerenza con gli interessi costituzionalmente protetti della trasparenza e della concorrenza (ma, aggiungerei, con il principio di sussidiarietà orizzontale[8], che preclude interventi pubblici -e anche la creazione di moduli organizzativi pubblici- là dove è possibile ricorrere all’iniziativa dei privati). Sul versante dell’Unione è stata riconosciuta la libertà degli Stati membri di scegliere il modo di gestione ritenuto più appropriato[9].
A quest’ultimo proposito la Corte di giustizia ha parlato di “un’operazione interna, denominata anche «contratto in house»”, la cui conclusione è subordinata “all’impossibilità di indire una gara d’appalto e, in ogni caso, alla dimostrazione, da parte dell’amministrazione aggiudicatrice, dei vantaggi per la collettività specificamente connessi al ricorso all’operazione interna”[10]. Ma può un rapporto concessorio essere racchiuso in un’operazione meramente interna dell’ente pubblico?
3. Una volta costituita, la società in house presenta profili fortemente problematici sotto molteplici aspetti, sia dal punto di vista pubblicistico/organizzatorio, sia dal punto di vista privatistico/societario.
Sotto il primo profilo si è parlato, ad esempio, di società-organo e di delegazione interorganica, per rappresentare l’attenuazione della intersoggettività tra soggetti pur formalmente diversi, ma di cui l’uno sarebbe il braccio operativo dell’altro. Ma si tratta di qualificazioni non del tutto appaganti.
La società in house è pur sempre una persona giuridica e dunque un centro di imputazione di rapporti giuridici, con capacità giuridica e con capacità d’agire propria, sia pure con talune limitazioni, previste dalla disciplina di settore. Dunque non si può parlare di “organo” dell’ente pubblico (o degli enti pubblici) di appartenenza, perché l’organo (almeno nella concezione più rigorosa del termine) imputa all’ente gli atti e gli effetti della propria azione, mentre la società in house imputa tutto a se stessa e non può produrre conseguenze giuridiche dirette in capo all’ente o agli enti proprietari.
Espressione massima della alterità tra la società e l’ente proprietario è data dalla possibilità che sorga una controversia tra detti soggetti e che la stessa sia portata alla attenzione del Giudice, come non di rado è successo, almeno in passato. Del resto il consiglio di amministrazione della società in house ha pur sempre il dovere di salvaguardarne il patrimonio anche contro le eventuali inadempienze del suo socio unico e proprietario.
Anche dal punto di vista societario l’istituto è apparso fortemente border line[11]. Come è dimostrato “dalla totale assenza di un potere decisionale suo proprio, in conseguenza del totale assoggettamento dei suoi organi al potere gerarchico dell’ente pubblico, titolare della partecipazione societaria”[12]. E anche se tale assoggettamento non appare assoluto -per quanto più sopra riferito- è chiaro che si tratta pur sempre di un fenomeno ben diverso dal potere di indirizzo e coordinamento, spettante alla capogruppo di un gruppo societario, e più in generale una notevole attenuazione della soggettività della società, tale da non poter riconoscere in essa “un centro di interessi davvero distinto dall’ente pubblico che la ha costituita e per il quale essa opera”[13].
Espressione tangibile di tale semisoggettività - e dell’ambiguità di disciplina che essa comporta - è data, tra l’altro, dalla circostanza che la società in house è, da un lato, soggetta, almeno secondo l’opinione prevalente, al fallimento[14]. Ma, d’altro lato, è soggetta, come un soggetto pubblico, alla giurisdizione della Corte dei conti per il danno causato dai suoi amministratori e dipendenti (art. 12, c.1, D.Lgs. 175/2016).
L’assoggettamento al fallimento è espressione della natura privatistica della società, come tale sottoposta al regime (anche) codicistico dell’insolvenza, tipico delle società di capitale. L’assoggettamento degli amministratori alla giurisdizione della Corte dei conti è viceversa espressione del carattere pubblico del capitale sociale, costituito esclusivamente dai versamenti operati dall’ente pubblico-socio totalitario o dagli enti pubblici-soci, titolari (salve talune eccezioni marginali) dell’intero capitale sociale.
Sicché si può dire - conformemente del resto alla genesi dell’istituto - che la società in house è formalmente distinto dall’ente proprietario e, sempre formalmente, ha una propria soggettività, con le conseguenze di regime, che si sono tratteggiate, e con l’applicazione residuale della disciplina del codice civile (art. 1, c. 3, D. Lgs. 175/2016). Dal punto di vista sostanziale è una mera struttura dell’ente pubblico proprietario (organo, in senso lato), rispetto al quale sussistono vari aspetti di immedesimazione.
4. Tutto ciò non è stato mai apprezzato, a quanto consta, dal punto di vista della tipologia dei contratti che possono intercorrere tra amministrazione proprietaria (operante un controllo analogo a quello esercitato nei confronti dei propri uffici) e società in house. Una volta acquisito che in proposito si può parlare di contratto solo sotto il profilo formale e non sostanziale, è parso conseguenziale ritenere che, dal punto di vista, appunto, formale, l’affidamento può riguardare qualunque tipo di contratto: dunque, per quel che qui rileva, sia un contratto che “oggettivamente” sia inquadrabile nello schema dell’appalto o sia quello che presenta le prestazioni tipiche della concessione.
Il che poteva essere accettato finché la nozione di appalto e di concessione fosse rimasta quella originaria. Gli appalti, come “contratti a titolo oneroso stipulati per iscritto tra uno o più operatori economici e una o più amministrazioni aggiudicatrici aventi ad oggetto l’esecuzione di lavori, la fornitura di prodotti o la prestazione di servizi”[15]. Le concessioni di lavori o di servizi, come “un contratto che presenta le stesse caratteristiche di un appalto di lavori [o di servizi] ad eccezione del fatto che il corrispettivo dei lavori [o dei servizi] consiste unicamente nel diritto di gestire l’opera [o i servizi], o in tale diritto accompagnato da un prezzo”[16].
In tale contesto, ferma la peculiarità del rapporto (di quasi immedesimazione) tra i due soggetti “contraenti”, nulla impediva che dal punto di vista dell’oggetto “contrattuale” l’affidamento in house potesse presentare, indifferentemente, i caratteri dell’appalto o della concessione. Infatti, nulla impedisce di concepire di affidare ad un proprio organismo (formalmente distinto, ma sostanzialmente compenetrato) i compiti tipici dell’appalto o della concessione (basta ricordare l’esperienza delle aziende municipalizzate, costituenti organo dell’ente territoriale, prima della relativa trasformazione in aziende speciali, come tali dotate di personalità giuridica).
Ma tale indifferenza non pare che possa essere riconosciuta anche nell’attuale assetto definitorio della concessione.
5. Come è noto, infatti, l’attuale nozione della concessione di lavori o di servizi, da un lato ricalca quella tradizionale sopra richiamata, ma d’altro lato precisa che “l’aggiudicazione di una concessione di lavori o di servizi comporta il trasferimento al concessionario di un rischio operativo legato alla gestione dei lavori o dei servizi, comprendente un rischio sul lato della domanda o sul lato dell’offerta, o entrambi”, con la conseguenza che “non sia garantito il recupero degli investimenti effettuati o dei costi sostenuti per la gestione dei lavori o dei servizi” (art. 5, punto 1, c. 2, Direttiva 2014/23/UE). Analoga è la definizione della concessione dei lavori e della concessione di servizi contenuta nel nostro Codice dei contratti pubblici, che all’art. 3, punti uu e vv, aggiunge alle nozioni note la precisazione “con assunzione in capo al concessionario del rischio operativo legato alla gestione delle opere (o dei servizi)”.
Non si tratta di innovazione vera e propria, dato che da tempo la giurisprudenza della Corte aveva individuato l’assunzione del rischio operativo, come una caratteristica della concessione[17]. Ma sembrava trattarsi di una conseguenza naturale della gestione dell’opera o del servizio, mentre il suo inserimento nell’ambito definitorio dell’istituto fa sì che esso assuma una precisa (o più spiccata) valenza selettiva tra la concessione e l’appalto: nel senso che un contratto avente per corrispettivo dell’opera o del servizio unicamente il diritto della gestione dell’opera o del servizio (con o senza la previsione di un ulteriore “prezzo”) dovrebbe essere definito come appalto, in mancanza del trasferimento del rischio operativo[18].
Data dunque l’importanza preminente (ai fini della distinzione tra appalti e concessioni) del trasferimento del rischio operativo, occorre chiedersi se una tale vicenda è concepibile nel caso di (e compatibile con l’) affidamento in house. Ovvero, detta altrimenti, se nell’affidamento in house è possibile (non già soltanto l’affidamento dell’opera o del servizio, col diritto alla relativa gestione, ma anche) la traslazione del rischio operativo tra l’ente pubblico proprietario (da solo o con altri enti pubblici) della società e la società medesima.
A me pare che la risposta debba essere negativa.
Nell’affidamento in house l’ente pubblico non si spoglia affatto del rischio operativo, per la stessa ragione per la quale non vi è esternalizzazione nella gestione dell’opera o del servizio. In altri termini, l’ente proprietario non trasla a terzi detto rischio, dato che lo stesso rimane in capo alla società in house, che ne risponde col proprio capitale sociale e, dunque, con gli investimenti finanziari dell’ente pubblico stesso: infatti, come è stato giudicato “la distinzione tra il patrimonio dell’ente e quello della società si può porre in termini di separazione patrimoniale, ma non di distinta titolarità”[19] (da qui, come si è visto, l’assoggettamento alla giurisdizione della Corte dei conti delle questioni di responsabilità dei relativi amministratori).
Anche la giurisprudenza della Corte di giustizia riconosce il carattere “pubblico” del patrimonio e delle risorse messe a disposizione di una società di tal fatta. E, così, in un recente caso di impresa pubblica, il cui capitale era detenuto quasi al 100% da autorità pubbliche e i cui membri del consiglio di amministrazione erano nominati da dette autorità, la Corte non ha esitato a parlare di risorse pubbliche e, più specificamente, di “risorse statali”[20]. Con la conseguenza di individuare un caso di aiuto di Stato nell’uso di dette risorse al fine di alleviare gli oneri che normalmente gravano sul bilancio di (altra) impresa (collegata alla prima): infatti, “anche se le somme corrispondenti alla misura in questione non sono permanentemente in possesso dell’Erario, il fatto che restino costantemente sotto il controllo pubblico, e dunque a disposizione delle autorità nazionali competenti, è sufficiente perché siano qualificate come risorse statali”[21].
Ma se il patrimonio di una società interamente partecipata da enti pubblici non cessa di essere pubblico (nel senso che si è esposto), a maggior ragione ciò si verifica in una società in house, ove sussiste pure quel controllo analogo che annichilisce pressoché del tutto l’autonomia gestionale della società. Con la conseguenza che ogni rischio gravante su quest’ultima società finisce per ricadere nel patrimonio “erariale” degli enti proprietari: a parte, infatti, l’imputazione contabile al bilancio della società (e non a quello dell’ente pubblico), le conseguenze giuridiche ed economiche non potranno che gravare, in definitiva su quest’ultimo.
Vero è che l’ente proprietario non risponde dei debiti della società oltre il valore della quota di capitale da esso detenuto[22] (che peraltro corrisponde all’intero capitale sociale, dato che è praticamente esclusa la partecipazione di soggetti privati). Infatti, trattandosi di società di capitale, sussiste pur sempre l’autonomia patrimoniale della stessa.
Ma vero è che lo schermo societario potrà valere per limitare il rischio operativo, non per trasferirlo a terzi, che nella specie non vi sono. Entro tale limite, il rischio operativo rimane dunque interamente in capo all’ente pubblico proprietario della società in house, con la conseguenza che è impossibile conseguire l’oggetto stesso di un contratto di concessione.
E ciò a prescindere dal rilievo che un fallimento della società in house è un evento più teorico che pratico, posto che l’ente proprietario ben può intervenire con operazioni di salvataggio, attraverso sistematici aumenti del capitale sociale. Il che non è certo precluso (come l’esperienza dimostra), salvo il limite dell’aiuto di Stato[23], che peraltro a sua volta presuppone che l’intervento sia idoneo ad incidere sugli scambi tra gli Stati membri[24].
Ne deriva che quando la direttiva parla di concessioni escluse dall’ambito di applicazione della direttiva medesima (art. 17), perché intercorrenti tra un’amministrazione aggiudicatrice ed una società in house, dovrebbe forse più correttamente ricollegare tale esclusione all’impossibilità che vi sia (non solo sostanzialmente, ma anche giuridicamente) un tipo di contratto di tal fatta. In tali casi non solo manca un vero contratto (per la relazione intercorrente tra le parti dello stesso), ma manca altresì una vera concessione, perché si tratterebbe di trasferire il rischio operativo a se stessi: il che rappresenta, appunto, una contradictio in adjecto, che logicamente non può essere tollerata.
Il vero è che risulta inappropriato utilizzare schemi concettuali e tipi contrattuali, previsti per i rapporti veramente intersoggettivi, ad un fenomeno quale l’in house providing. In questo caso, più che di un contratto di concessione o appalto, bisognerebbe parlare puramente e semplicemente di un “contratto in house”, come si esprime la Corte di giustizia, ovvero di un mero contratto di servizio[25], diretto a disciplinare i rapporti tra i vari protagonisti dell’operazione: un contratto atipico, dunque, che potrà richiamare di volta in volta la disciplina propria degli appalti o delle concessioni, a seconda della maggiore o minore assimilazione, ma che non può identificarsi in tali tipologie.
In particolare, il caso delle concessioni pare espressivo di tale irriconducibilità ad una società in house. Infatti, a meno di non ricorrere a inaccettabili finzioni, non pare proprio che si possa dire che con l’affidamento in house l’amministrazione si spogli del rischio relativo all’intera operazione.
[1] Così, con. Riferimento ai servizi pubblici di trasporto, T.A.R. Lazio, Roma, sez. II, 7 febbraio 2020, n. 1680. Cfr. pure T.A.R. Liguria, Genova, sez. II, 7 ottobre 2019, n. 753;Cons. Stato, sez. VI, 31 maggio 2017, n. 2626; Cons. Stato, sez. III, 24 ottobre 2017, n. 4902; Cons. Stato, sez. V, 22 gennaio 2015, n. 257.
[2] Corte giust. 18 novembre 1999, in causa C-107/98, affare Teckal; Corte giust. 7 dicembre 2000, in causa C-94/99, affare ARGE.
[3] Così 5° considerando della Direttiva 2014/23/UE. Inoltre, si legge nell’art. 2, par. 1, della medesima direttiva che essa “riconosce e riafferma il diritto degli Stati membri e della autorità pubbliche di decidere le modalità di gestione ritenute più appropriate per l’esecuzione di lavori e la fornitura di servizi. In particolare, la presente direttiva non dovrebbe in alcun modo incidere sulla libertà degli Stati membri e delle autorità pubbliche di eseguire lavori o fornire servizi direttamente al pubblico o di esternalizzare tale fornitura delegandola a terzi”.
[4] La giurisprudenza della Corte di giustizia ha preso in considerazione, ad esempio, il caso della Lituania (cfr. sentenza 3 ottobre 2019, Irgita, in causa C-285/18,)
[5] Così Cons. Stato, Comm. Speciale, parere in data 21 aprile 2016, n. 968/2016, sullo schema di decreto legislativo sulle società a partecipazione pubblica, pag. 77, in relazione all’art. 16 di detto schema di decreto.
Rileva detto parere (pag. 78) che “il ricorso al mercato e non all’in house può, infatti, costituire esso stesso, permettendo l’accesso di nuovi operatori, un utile strumento di liberalizzazione economica”.
[6] Cfr. Corte Cost. 27 maggio 2020, n. 100, con nota di M. Trimarchi, La Corte costituzionale conferma l’eccezionalità dell’affidamento dei servizi pubblici a società in house, in Giustizia insieme, 2020.
[7] Cfr. Corte giust. 6 febbraio 2020, ordinanza in cause riunite C-89/19, 90/19,91/19, con nota di C. Deodato, gli ambiti dell’intervento pubblico nell’organizzazione e nella gestione dei servizi di interesse economico generale, in Giustamm., n. 10/2020.
[8] Principio che negli ultimi tempi è sovente dimenticato, nonostante la sua costituzionalizzazione (art. 118, u.c. Cost.). Viceversa era ben presente nel Regolamento dei servizi pubblici, di cui al D.P.R. 168/2010, che all’art. 2, c. 1, lo poneva come uno dei criteri basilari ai fini della “realizzabilità di una gestione concorrenziale dei servizi pubblici locali”.
[9] Si legge nell’ordinanza da ultimo citata, che richiama in proposito la precedente e già citata sentenza 3 ottobre 2019, Irgita, in causa C-285/18, che la direttiva 2014/23/UE “riconosce il principio per cui le autorità nazionali, regionali e locali possono liberamente organizzare l’esecuzione dei propri lavori o la prestazione dei propri servizi in conformità del diritto nazionale e dell’Unione. Tali autorità sono libere di decidere il modo migliore per gestire l’esecuzione dei lavori e la prestazione dei servizi per garantire in particolare un elevato livello di qualità, sicurezza e accessibilità, la parità di trattamento e la promozione dell’accesso universale e dei diritti dell’utenza nei servizi pubblici. Dette autorità possono decidere di espletare i loro compiti d’interesse pubblico avvalendosi delle proprie risorse o in cooperazione con altre amministrazioni aggiudicatrici e di conferirli a operatori economici esterni”.
[10] Cfr. ordinanza ult. cit., punti 41-42.
Ma già in altra occasione la Corte si era espressa in modo analogo (sentenza Irgita, C-285/18, punto 50, ove si legge che “l’articolo 12, paragrafo 1, della direttiva 2014/24 deve essere interpretato nel senso che non osta ad una norma nazionale con la quale uno Stato membro subordina la conclusione di un’operazione interna, in particolare, alla condizione che l’aggiudicazione di un appalto pubblico non garantisca la qualità dei servizi forniti, la loro accessibilità o continuità, sempre che la scelta espressa a favore di una particolare modalità di prestazioni di servizi, e effettuata in una fase precedente a quella dell’aggiudicazione dell’appalto pubblico, rispetti i principi di parità di trattamento, non discriminazione, riconoscimento reciproco, proporzionalità e trasparenza”.
[11] E così M. Antonioli pone il quesito se “L’in house providing identifica un modello societario? Antinomie e dissonanze dell’istituto dopo il decreto n. 175/2016”, in Riv. It. Dir. Pubbl. com., 2018, pag. 555 e ss.
[12] Cass., Sez. Un. 23 novembre 2013, n. 26283, punto 4.3.
[13] Cass., Sez. Un. 23 novembre 2013, n. 26283, cit., punto 4.3.
[14] Cfr. Cass., sez. I, 7 febbraio 2017, n. 3169.
[15] Così art. 1, c.2, lett. a) della Direttiva 2004/18/CE, ripetitiva, peraltro, di una definizione da tempo acquisita.
[16] Così art. 1, c.3 e 4 della Direttiva 2004/18/CE. La definizione di concessione di lavori, così configurata, è peraltro risalente almeno alla Direttiva 93/37/CEE, art. 1, punto d).u
[17] Cfr. già la “Comunicazione interpretativa della Commissione sulle concessioni nel diritto comuniatario”, in GUCE 29 aprile 2000, C 121/2. Cfr. anche la Comunicazione 15 novembre 2005, in tema di partneriato pubblico-privato.
[18] Sia consentito un rinvio allo scritto “La direttiva in materia di “concessioni””, in Riv. It. Dir. Pubbl. com., 2015, pag. 1095 e ss., pag. 1099.
[19] Corte Cass., Sez. Un., 23 novembre 2013, n. 26283, cit., punto 5 del diritto.
[20] Cfr. Corte di giustizia, sez. II, 10 dicembre 2020, in causa C-160/19 P, punti 30-32.
[21] Corte giust., ult. cit., punto 30.
[22] Così, tra gli altri, F. Caringella, Manuale di diritto amministrativo, Roma, 2020, pag. 859.
[23] Per un recente caso di tal fatta, cfr. Corte di giustizia, sez. II, 10 dicembre 2020, in causa C-160/19 P, cit.
[24] Inoltre, vi è quanto meno da dubitare che nel contratto tra ente proprietario e società totalmente controllata si possano pattuire veri rischi a carico di quest’ultima, esponendola effettivamente alle “fluttuazioni del mercato” (come richiesto dal 20° considerando della Direttiva 2014/23/UE). Trattandosi, infatti, di operazione compiuta “in famiglia” (e le cui conseguenze negative finirebbero per ripercuotersi sullo stesso ente proprietario), v’è da dubitare che il complesso dei compensi contrattuali (siano essi introiti tariffari, ovvero tout court contribuzioni pubbliche) non siano in grado di “coprire la totalità dei costi e degli investimenti sostenuti dal contraente per la fornitura del servizio” (Così la Direttiva 2014/23/UE, considerando 17): e ciò al di là di quanto si legge nei piani economici finanziari, che accompagnano gli affidamenti in house e che sono sovente prodighi di indicazioni in ordine ai rischi operativi, traslati più sulla carta che nella sostanza.
Perplessità analoghe si possono rinvenire persino in sede di giurisprudenza comunitaria. E così, ad esempio, si legge nella sentenza del Tribunale, III sez., 13 dicembre 2018, in T-167/13 (Comune di Milano), che “considerato che tra lo Stato e le imprese pubbliche sussistono relazioni strette, vi è un rischio reale che aiuti statali vengano concessi per il tramite di tali imprese pubbliche, in maniera poco trasparente e in violazione del regime previsto dal Trattato per gli aiuti statali” (sentenza, cit. punto 75).
[25] Cfr. art. 113, c. 11, del D. Lgs. 267/2000, nonché art. 114, c. 8, lett. a, del medesimo D. Lgs., con riferimento alle aziende speciali e alle istituzioni. Sul punto cfr. per tutti C. Iaione, Le società in house, Napoli, 2012, pag. 254 e ss.
Recensione a G. MONINA, Diritti umani e diritti dei popoli. Il Tribunale Russell II e i regimi militari sudamericani (1971-1976), Carocci, Roma 2020, pp. 245*
di Daniela Bifulco
Segnalatori d’incendio, li chiamava Benjamin: gli esuli, coloro che, costretti a un altrove in cui cercare riparo dalle dittature, si fanno carico dell’ingrato ruolo di allertare il mondo circa una catastrofe imminente o in corso. Dagli esuli brasiliani e dalla segnalazione dell’incendio che, divampato nel 1964 (anno del colpo di stato in Brasile, dove i militari ‘deposero’ il presidente democratico Joao Goulart), avrebbe poi funestato le sorti del mondo latino-americano, e dalla fortunata sinergia tra esuli e società civile globale, o opinione pubblica che dir si voglia, nacque il Tribunale Russell II. Il precedente esempio di Tribunale internazionale di opinione era stato offerto dall’antesignano ‘International War Crimes Tribunal’ (IWCT), meglio noto come ‘Bertrand Russell Tribunal’, fondato dal filosofo e matematico gallese Russell nel novembre del 1966, nell’ambito della campagna di solidarietà col Vietnam.
Del Tribunale Russell II - esperienza per molti versi straordinaria - ha scritto Giancarlo Monina in Diritti umani e diritti dei popoli. Il Tribunale Russell II e i regimi militari sudamericani (1971-1976), apparso, a fine 2020, nella collana ‘Studi storici’ di Carocci. Che il libro sia stato edito in quella collana appare tanto più significativo quanto sorprendente è stata, a oggi, la disattenzione della letteratura storiografica per il Tribunale Russell II (TRII, d’ora in poi). Al tema -ricorda l’A.- una certa attenzione è stata tributata dai giuristi -internazionalisti, soprattutto- ma nella stessa (e ormai fluviale) letteratura sui diritti umani, i riferimenti al TRII sono, in fondo, alquanto rari. Disattenzione bizzarra, in effetti, ove si consideri l’interesse suscitato nella comunità scientifica dalla ‘notte della democrazia latino-americana’ quale ‘fase e luogo emblematici della violazione dei diritti umani (p.10). Tanto più meritorio è, dunque, l’impegno profuso dall’Autore, professore di storia contemporanea presso Roma Tre, nel colmare una lacuna, raccontando genesi e vicende di questo tribunale d’opinione : il lettore giurista deve dismettere per qualche attimo i suoi costrutti mentali e considerare che lo scopo di tale ‘Tribunale’, autoproclamatosi tale, fu la denuncia delle dittature negli Stati latino-americani e la mobilitazione di un’estesissima rete di gruppi, attivisti e personalità eminenti del mondo politico e culturale, radicate nel continente americano così come in Europa.
Il TRII ebbe, sì, una struttura basata su organi (commissioni, giurie) e atti (sentenze) tipici dei tribunali intesi in un senso più strettamente giuridico, svolgendo i suoi lavori in tre sessioni, tra il 1974 e il 1976; ma lo spirito che ne mosse l’istituzione fu, innanzitutto, quello della denuncia dell’involuzione autoritaria dei paesi latino-americani che, come birilli, cadevano l’uno dopo l’altro sotto la scure di regimi dittatoriali e militari, degli effetti devastanti che il paradigma economico-politico neoliberista andava producendo in tutti i regimi latino-americani, della sensibilizzazione della comunità internazionale, e della mobilitazione della società civile globale a favore della democrazia, della tutela dei diritti umani e di quelli dei popoli.
La certosina ricostruzione dell’esperienza del TRII si è resa possibile grazie alla documentazione conservata presso gli archivi della fondazione Lelio e Lisli Basso, con sede a Roma, oggi presieduta da Franco Ippolito. Fu Lelio Basso, infatti, a svolgere un ruolo di primissimo piano in quell’esperienza, presiedendo, tra l’altro, la giuria del Tribunale, nucleo dell’attività di quest’ultimo. La seconda traiettoria decisiva per le attività del TRII fu impressa dalla glottologa, religiosa e missionaria in Brasile Linda Bimbi, che sarebbe divenuta fulcro dell’organizzazione del TrII e ‘instancabile tessitrice di relazioni internazionali’ (p. 44). Accanto a Basso, in giuria figurò un parterre di personalità tanto autorevoli quanto eclettiche, dal punto di vista di provenienza e attitudini culturali (Gabriel García Márquez, Julio Cortázar, Bruno Trentin e Andreas Papandrèu, per limitarsi ad alcuni nomi), mentre a presiedere il comitato d’onore della giuria stessa, fu chiamato Sartre (in compagnia, tra gli altri, di Sebastian Matta, Hortensia Bussi de Allende -vedova di Allende- e Simone de Beauvoir).
Quello dei nomi della personalità coinvolte è un aspetto che non può non colpire il lettore: il racconto è infatti intessuto anche di riferimenti a una serie impressionante di autorevolissime persone di ‘buona volontà’, come recitava l’Appello firmato da Enrico Berlinguer, mirato a far aderire al TRII i comunisti italiani, ma poi sottoscritto da un variegato mondo di sinistra, e non solo: Bobbio, ad esempio, Codignola, Nenni, Scola, Ramat, Terracini, Partito radicale, settori giovani della DC e del PRI, sindacati nazionali e di settore, Magistratura democratica, Associazione giuristi democratici, per quel che riguarda l’Italia (v. p. 147). Per la Francia, ricordiamo qui soltanto le adesioni di Mitterrand, Deleuze, Georges Casalis (teologo protestante, tra i protagonisti più attivi del TRII), lo storico Pierre Vidal-Naquet, Louis Joinet (fondatore, nel 1969, del sindacato della magistratura), Matarasso (avvocato anticolonialista e combattente della Resistenza, v. p. 134). Sebbene sia iniquo limitarsi alla citazione di Francia e Italia, dato che la mappa geografica delle personalità che aderirono, supportarono e parteciparono, più o meno attivamente, alle attività del TRII si estese, come detto, a molti paesi europei e all’intero continente americano, occorre mettere il punto all’elenco sconfinato dei nomi delle personalità che offrirono sostegno al TRII. Rinviamo perciò alla lettura del libro di Monina per aver piena contezza dell’effetto di mobilitazione -anche culturale- che il TRII fu in grado di esercitare.
Abbiamo definito ‘straordinaria’, al di là di ogni intento enfatico, l’esperienza del TRII: in effetti, leggendo il testo, si realizza come quell’esperienza diede forma a quel che Habermas ha definito ‘sfera pubblica’: un insieme di procedure atte ad assicurare una effettiva pubblicità e a rendere altresì intellegibili i dettagli tecnici (giuridici, ad esempio, o scientifici) di una certa materia. Se il punto più impervio della nozione di sfera pubblica secondo Habermas attiene, forse, alle condizioni empiriche di funzionamento del suo modello, ebbene, il TRII dimostra come quell’impervia pietra d’inciampo possa talvolta, e come d’incanto, superarsi. ‘Talvolta’, sì, e non ‘sempre’: perché la sfera pubblica, nel senso anzidetto, non è dimensione che si dia hic et nunc, essendo essa associata, invece, a forme di prassi politica che si manifestano soltanto in situazioni per qualche verso straordinarie, come straordinario fu il contesto (storico, culturale, politico) in cui si radicò l’avventura del TRII. Sfera pubblica, nell’accezione di Habermas, non coincide con ‘opinione pubblica’, e cioè con l’insieme di convinzioni, tendenze o umori di un certo pubblico, essendo essa, invece, la precondizione affinché un’opinione pubblica ragionata possa formarsi (il punto è ben illustrato da W.Privitera, in Sfera pubblica e democratizzazione, Laterza, 2003) .
Ebbene, quella forma di prassi politica che fu il TRII ebbe dalla sua una cultura politica d’eccezione, propria di un’epoca -anni Sessanta e Settanta- di grande fermento e di trasformazioni: la cultura politica fu quella, in primis, del socialismo di Lelio Basso, la cultura internazionalista del marxismo critico, del mondo cristiano (sia cattolico sia protestante) che andava ribellandosi alle dittature latino-americane, di quello pacifista, del comunismo ‘ufficiale’ (sovente più tetragono, però, a riconoscere e supportare il TRII). E, infine, ma non per importanza, la cultura e l’attivismo globale per i diritti umani, cultura ‘che stava allora emergendo come uno dei principali vettori della mobilitazione transnazionale. Connotati più per il loro contenuto morale che non ideologico-politico, i diritti umani furono assunti dal Tribunale come nuovo punto di partenza per un progetto internazionalista di liberazione umana che troverà la sua dottrina nel diritto dei popoli’ (p. 93). Il linguaggio dei diritti umani e la loro violazione in America Latina (p. 157 ss) furono oggetto della prima sessione del TRII, svoltasi a Roma presso la sede del CNR. Tra le violazioni dei diritti umani più attentamente vagliate vi furono la tortura e gli apparati repressivi (tra i relatori della prima sessione: Alessandro Pizzorusso, per il Cile, v. p. 177, Salvatore Senese, sul Brasile, p. 184, lo scrittore Renato Prada Oropeza per la Bolivia, il sociologo francese Alain Labrousse, per l’Uruguay, il giurista francese François Rigaux, Hortensia Bussi de Hallende, p. 208, e tanti altri). Riguardo all’immenso repertorio dell’orrore delle dittature (v. p. 168, 205 ss.), il salto decisivo per la qualità delle indagini svolte dal TRII, così come per l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale, si ebbe grazie al rapporto sulla tortura in Brasile di Amnesty International (p. 169). Nella prima sessione, emersero temi e prassi di indagine che sarebbero poi divenute centrali nella cultura dei diritti umani: il valore della testimonianza (sulla prassi del bearing witness, già il processo Eichmann aveva spianto la strada, come ricorda l’A., v. p. 182), l’intento anche pedagogico della giustizia resa da un tribunale, la centralità delle vittime nella ricostruzione della verità storica, la dimensione spettacolare del processo (già voluta per il processo Eichmann, che era stato trasmesso dalla televisione), la crucialità della verità e della memoria per la saldezza del viver civile.
Tale strabiliante amalgama -di ciò che non sapremmo definire se non nei termini di ‘cultura politica’- fece dunque appello alla mobilitazione delle ‘migliori energie di tutti i paesi: politici, giuristi, scienziati, economisti, sociologi, antropologi, e chiunque sia in grado di dare un contributo e cooperare al Tribunale nella ricerca dei fatti reali e delle loro interpretazioni’ (così, nel Memorandum ai compagni cubani, 20 ottobre 1972, cit. a p. 51; in forma di Memorandum furono fatti circolare nel mondo i primi documenti che presentavano struttura e funzioni del TRII, redatti nelle seguenti cinque lingue ufficiali: portoghese, spagnolo, inglese, italiano e francese).
Leggendo il libro di Giancarlo Molina, al giurista sorge spontanea la domanda, relativa alla legittimazione e al fondamento giuridico di un Tribunale auto-definitosi tale, che fu ben presente ai protagonisti della creazione del TRII, come risulta dalla dichiarazione costitutiva del Tribunale e dal discorso inaugurale del presidente Lelio Basso (‘Nel momento della sua costituzione, il Tribunale Russell deve esprimersi chiaramente sulla propria investitura’: v. p. 73). Il problema si rivelò più complesso di quanto sperimentato all’epoca della costituzione del primo Tribunale Russell, che si era occupato di una fattispecie più ‘semplice’, per così dire, ovverosia più definita (guerra d’aggressione); il TRII, invece, doveva confrontarsi con crimini non direttamente contemplati dalle norme del diritto internazionale vigente negli anni Settanta.
Confidando su una legittimazione che sarebbe intervenuta nel tempo, ‘a posteriori’ (p. 74), nella fase di preparazione del TRII si lavorò comunque, e alacremente, a un confronto serrato col diritto internazionale: da un lato, si misero a confronto i crimini della dittatura brasiliana con quelli definiti in base alla giurisprudenza di Norimberga (ad esempio, indicando la tortura e l’assassinio di oppositori e prigionieri politici come crimini contro l’umanità e il trattamento riservato agli indios come crimine di genocidio). Ma questa strada si rivelò accidentata, osserva l’A., posto che non tutte le corrispondenze individuate riuscivano a offrire salde basi giuridiche. D’altro lato, si percorse il sentiero che si sarebbe rivelato, nel corso del tempo, più fruttuoso: il richiamo, cioè, ai diritti umani, ai diritti dei popoli e al diritto internazionale consuetudinario. Con riguardo a quest’ultimo, venne invocata, ad esempio, la cosiddetta Clausola Martens. Recepita nelle 4 Convenzioni di Ginevra del 1949, tale clausola impegnava gli Stati contraenti a considerare l’opportunità che, in assenza di specifiche disposizioni e in attesa di una più completa e dettagliata disciplina normativa sulla guerra, le popolazioni e i belligeranti rimanessero sotto la protezione dei principi del diritto internazionale, ‘così come risultano dagli usi stabiliti dalle nazioni civili, dalle leggi di umanità e dalle esigenze della coscienza pubblica’ (p. 77).
Maturata in breve tempo la consapevolezza che occorresse individuare ‘un rapporto più dinamico col diritto internazionale, in evidente e dichiarata discontinuità con l’esperienza del primo Tribunale Russell’, apparve anche chiaro che la legittimazione del TRII dovesse ‘andare oltre la concezione tradizionale in cui solo gli stati erano soggetti di diritto internazionale e aderire al principio secondo cui esiste un potere diffuso che regola la sfera internazionale : non quello della morale, né degli Stati, né dei loro governi’, bensì un potere proprio della ‘comunità internazionale, intesa come coscienza dei popoli’ (p. 77, in cui si cita la Dichiarazione costitutiva del TRII).
Insomma, la fonte giuridica per eccellenza del TRII veniva individuata in quelle medesime ‘esigenze della coscienza pubblica’, di cui alla Clausola Martens citata poc’anzi, e nei principi accettati dalla comunità internazionale (per quanto sprovvisti di implementazione giuridica essi fossero).
In questo confronto col diritto internazionale risiede uno dei profili d’interesse (per i giuristi, soprattutto) dell’esperienza nota come TRII: tutti i punti di maggiore debolezza concernenti basi giuridiche, legittimazione e efficacia di quest’ultimo, che al giurista non possono sfuggire (e di cui qui si è soltanto accennato), costituirono in realtà le basi di uno sviluppo che, nei decenni successivi, avrebbe accompagnato le trasformazioni del diritto internazionale e delle relazioni internazionali. Il TRII fu infatti ‘promotore e specchio di una nuova concezione di comunità internazionale che, ‘a cavallo degli anni Sessanta e Settanta si andava costituendo, rivendicando una propria autonomia dagli Stati’ (p. 78): un mondo di relazioni ‘transnazionali’, diremmo oggi, dove protagonisti diventano anche attori e organizzazioni non statali, che andavano rivendicando una giustizia transnazionale, che sopperisse ai deficit d’intervento dei singoli Stati. Non a caso, il TRII profeticamente auspicò l’istituzione di un Tribunale penale internazionale, che sarebbe nato nel 1998. All’idea di una nuova giustizia transnazionale fece dunque da contraltare l’idea di tribunali transnazionali, vale a dire giurisdizioni che potessero rappresentare i cittadini di ogni paese, diversamente da quanto fatto fino ad allora dalle corti di giustizia internazionali, la cui competenza era limitata a crimini di guerra commessi da uno Stato o da singoli Stati in conflitto (v. p. 80-81).
Il TRII fu anche promotore di ‘una nuova visione delle relazioni internazionali, basata sul rispetto del diritto dei popoli all’autodeterminazione, al controllo delle loro risorse e del loro futuro economico e sociale’ (p. 78). L’azione del TRII cadeva nel contesto di un processo di decolonizzazione che stava, per un verso, modificando gli equilibri mondiali e, per l’altro, svelando l’inadeguatezza del diritto internazionale del tempo rispetto alle esigenze derivanti dal progressivo smantellamento (o, comunque, dalla messa in discussione) di logiche colonialiste e di accaparramento delle risorse dei paesi più svantaggiati. In tal senso, Il TRII incrociò sul proprio cammino l’evoluzione che stava portando l’ONU a riconoscere le ragioni dei paesi in via di sviluppo (l’A. ricorda, ad esempio, l’approvazione, nel 1974, della Carta dei diritti e dei doveri economici degli Stati e la Dichiarazione per un nuovo ordine economico internazionale, adottate dall’Assemblea Generale delle N.U.). Appare significativo, in tal senso, l’oggetto scelta per la seconda sessione del TRII, vale a dire le cause economiche della dittatura. I relatori della seconda sessione furono inviatati ‘a presentare contributi di taglio non puramente teorico, ma a concentrarsi sugli effetti dei processi economici’ (p. 195) negli assetti istituzionali dei paesi latinoamericani. In quella sede, il TRII, anticipando pure la prassi che sarebbe poi stata definita del ‘naming and shaming’, mise in luce il nefasto ruolo dei potentati economici statunitensi e delle compagnie multinazionali e transnazionali sulle economie dei paesi latinoamericani (p. 195 ss).
Il rapporto col diritto internazionale fu uno dei terreni su cui si consumò il confronto e, sovente, il disaccordo tra promotori del TRII e la galassia comunista: se il TRII tendeva a valorizzare le Risoluzioni delle Nazioni Unite e le fonti di diritto internazionale consuetudinario, intuendone il potenziale di trasformazione dei rapporti di forza, parte della cultura marxista terzomondista vedeva in ciò un mero ‘universo di cartapesta’, ‘espressione dell’ipocrisia delle potenze dominanti’ (p. 80). Ma, rispetto alle critiche talvolta avanzate da certi settori del comunismo ‘ufficiale’, o alle visioni terzomondiste più radicali che rifiutavano i diritti umani come espressione della cultura borghese (p. 163), la posizione del TRII fu sempre molto netta: esso assunse in piena coscienza ‘il linguaggio dei diritti umani, riconoscendone e amplificandone sia il valore in sé sia la funzione aggregante’, e fece proprio ‘il punto di vista delle opposizioni latinoamericane, cristiane e marxiste, che stavano acquisendo quel linguaggio nel pieno della lotta contro le dittature’(p. 163).
Anche rispetto al diritto dei popoli, il confronto con i comunisti fu talvolta teso: allorché giunsero al TRII alcune richieste di intervento a favore dei dissidenti dell’Unione Sovietica, il TRII replicò, attraverso le parole di Lelio Basso, che esso aveva come propria missione l’America Latina. In ‘polemica con il TRII, che ha sempre rifiutato di occuparsi delle violazioni dei diritti dell’uomo nei paesi comunisti’, l’Espresso diede notizia della costituzione del ‘Tribunale Sacharov’ (p. 151). Lelio Basso -racconta l’A.- si era assunto l’impegno di rispondere a ogni critica nei confronti del TRII; alla notizia riportata dall’Espresso, egli fornì allora una replica che vale la pena riportare per intero, poiché essa aiuta a far luce più piena sul senso dell’impegno del TRII a favore dei popoli : ‘Nello spirito di Bertrand Russell abbiamo sempre pensato che il nostro dovere era di affrontare il problema del luogo in cui i diritti dell’uomo erano più gravemente violati in quel momento: questo luogo era senza dubbio il Vietnam nel 1967, ed è senza dubbio oggi l’America Latina, dove la quasi totalità degli Stati è soggetta a regimi di ferrea dittatura militare a base di tortura’ (p. 151-152, corsivi nostri). Ove si consideri che le tracce del TRII si ritrovano oggi nell’azione del Tribunale permanente dei popoli (TPP), si comprenderà anche che la vocazione del TRII, per quanto universalista e cosmopolita, era quella di scendere in campo, in quel momento, per quei popoli. Anche dal punto di vista dell’impegno a favore dei diritti dei popoli, il TRII anticipò istanze che avrebbero poi trovato forme giuridiche più definite nel contesto del diritto internazionale: si pensi alla Dichiarazione delle NU sui diritti dei popoli indigeni, che sarebbe sopravvenuta soltanto nel 2007. Tra i principi considerati basilari dal TRII vi fu proprio ‘la difesa delle identità culturali autoctone come elemento imprescindibile dell’autonomia e dell’autogoverno di un popolo’ (p. 229). L’ultimo dei temi previsti dalla terza sessione, a fine lavori del TRII, fu, non a caso, il ‘genocidio’delle popolazioni indigene dell’America latina.
Peri vari motivi esposti fin qui, e per tutte le altre ragioni discusse estesamente nel libro di Monina, il TRII, potrebbe dirsi, corse in parallelo e, anzi, molto più velocemente del diritto internazionale. Giocò non soltanto in difesa, ma attaccando (attraverso la denuncia), così superando quel congenito ritardo del diritto che ripara, sì, ma spesso seguendo un ritmo d’azione e d’intervento molto lento. Riportiamo, in chiusura, parte dell’ultimo appello del TRII all’opinione pubblica mondiale, che fece seguito all’ultima sua sentenza di condanna delle ‘violazioni gravi, sistematiche e ripetute dei diritti dell’uomo e dei diritti dei popoli’ (p. 231) dai governi di Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Colombia, Guatemala, Haiti, Nicaragua, Paraguay, Repubblica dominicana, Uruguay. In quell’appello, è infatti racchiuso il significato dell’attacco, oltre che di difesa, di cui dicevamo: ‘non è in una prospettiva puramente difensiva che questo Tribunale ha ingaggiato la lotta per la difesa dei diritti minacciati e per la libertà dei prigionieri e dei torturati. Di fronte all’inesorabile offensiva dei nemici della dignità dei popoli, dei loro sfruttatori e dei loro carnefici, il Tribunale rivendica e proclama i suoi diritti e i suoi doveri di attaccare a sua volta coloro i quali usano l’umiliazione e l’oppressione come loro arma prediletta’ (corsivi nostri).
*Il presente contributo si inserisce tra i risultati parziali delle ricerche del PRIN 2017 Prot. 2017EWYR7A, ‘Reacting to mass violence: Acknowledgment, denial, narrative, redress’.
La CGUE riconosce il “diritto al silenzio” nei procedimenti sanzionatori dinnanzi alla Consob (Nota a CGUE, sentenza 2 febbraio 2021, causa C-481/19) di Maria Baldari
Sommario: 1. Premessa. – 2. Il procedimento sanzionatorio e la vicenda giudiziaria. – 3. La decisione della CGUE. – 4. Il principio del nemo tenetur se detegere: dal diritto penale al diritto amministrativo. – 5. Considerazioni sistematiche e spunti de iure condendo.
1. Premessa
Con la sentenza che qui si annota la Corte di Giustizia dell’Unione Europea si pronuncia su una importante questione destinata ad avere significative ripercussioni in ambito interno.
Si tratta del riconoscimento del “diritto al silenzio” nell’ambito delle procedure sanzionatorie dinnanzi alla Consob finalizzate all’accertamento degli illeciti anticoncorrenziali previsti dagli artt. 187-bis e ss. t.u.f.
Come si avrà modo di chiarire, la sentenza si inserisce in quel robusto filone giurisprudenziale tendente alla estensione dei principi e delle garanzie proprie del settore penale anche alle sanzioni amministrative dotate di carattere punitivo.
2. Il procedimento sanzionatorio e la vicenda giudiziaria
Nel 2012 la Consob infliggeva all’autore di un illecito amministrativo di abuso di informazioni privilegiate, composto da due condotte e commesso tra il 19 e il 26 febbraio 2019, due sanzioni pecuniarie dell’importo di euro 200.000 e di euro 100.000, unitamente alla sanzione accessoria della perdita temporanea dei requisiti di onorabilità per la durata di 18 mesi (art. 187-quater, co. 1 t.u.f.) e alla confisca per equivalente del profitto illecito o dei mezzi utilizzati per ottenerlo (art. 187-sexies t.u.f.).
Con il medesimo provvedimento l’Autorità irrogava altresì una sanzione pecuniaria dell’importo di euro 50.000 per l’illecito amministrativo previsto dall’art. 187-quinquiesdecies del t.u.f. in quanto lo stesso soggetto, convocato in qualità di persona informata sui fatti, si rifiutava di rispondere alle domande che gli erano state indirizzate.
L’interessato proponeva dapprima opposizione dinnanzi alla Corte d’Appello di Roma e, a seguito della decisione di rigetto, ricorso in Cassazione avverso tale ultima pronuncia. La Cassazione, con ordinanza del 16 febbraio 2018 sottoponeva alla Corte Costituzionale due questioni incidentali di legittimità.
La Corte Costituzionale da un lato dichiarava la illegittimità dell’art. 187-sexies t.u.f. «nella parte in cui prevede la confisca obbligatoria, diretta o per equivalente, del prodotto e dei beni utilizzati per commettere l’illecito, e non solo del profitto»[1]; dall’altro, sollevava una questione pregiudiziale in relazione alla validità e all’interpretazione dell’art. 14, par. 3 della direttiva 2003/6 e dell’art. 30, par. 1 lett. b), del regolamento (UE) n. 596 del 2014, i quali impongono agli Stati membri di prevedere l’obbligo di rendere le informazioni[2].
Nella sua decisione di rinvio la Corte Costituzionale sottolineava come la questione di costituzionalità dell’art. 187-quinquiesdecies t.u.f fosse stata sollevata in relazione a vari diritti e principi, taluni sanciti dal diritto nazionale ed altri riconosciuti dal diritto internazionale e dal diritto dell’UE.
Il rinvio si rendeva necessario proprio in quanto l’art. 187-quinquiesdecies t.u.f era stato introdotto in esecuzione di un obbligo specifico imposto dall’art. 14, par. 3 della direttiva 2003/6[3] e rappresenta oggi l’attuazione dell’art. 30, par. 1, lett. b) del reg. n. 596/2014[4]; con la conseguenza che, se tali disposizioni fossero intese nel senso di imporre agli Stati membri un obbligo di sanzionare il silenzio in siffatti procedimenti, una eventuale dichiarazione di incostituzionalità si sarebbe potuta porre in contrasto con il diritto UE.
La stessa Corte Costituzionale sottolineava, peraltro, come una simile interpretazione non apparisse compatibile con gli artt. 47 e 48 della Carta di Nizza[5], i quali sembrano riconoscere il diritto al silenzio entro i limiti analoghi a quelli risultanti dall’art. 6 Cedu e dalla Costituzione italiana. Nello specifico, l’obbligo di rispondere a quesiti di mero fatto potrebbe comportare una limitazione significativa del diritto dell’interessato, difficilmente conciliabile con il carattere penale che la Corte stessa ha riconosciuto alle sanzioni amministrative previste nell’ordinamento giuridico italiano in materia di abuso di informazioni privilegiate[6].
Per tali ragioni, prima di pronunciarsi sulla questione di costituzionalità, la Consulta sottoponeva alla Corte un quesito interpretativo in relazione all’art. 14, par. 3 della direttiva 2003/6 e all’art. 30, par. 1, lett. b) del reg. n. 596/2014 chiedendo in particolare se la loro esegesi consenta agli Stati membri di non sanzionare la persona fisica che si rifiuti di rispondere all’autorità competente, nei casi in cui possa emergere la propria responsabilità per un illecito punito con sanzioni amministrative di natura “punitiva”.
In caso di risposta negativa al primo quesito, la Consulta si interrogava inoltre sulla compatibilità delle disposizioni indicate con gli artt. 47 e 48 della Carta di Nizza, anche alla luce della giurisprudenza della Corte EDU in relazione all’art. 6 Cedu e delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri.
3. La decisione della CGUE
Preliminarmente la Corte dichiara ricevibili le questioni pregiudiziali, e ciò in quanto le questioni relative alla interpretazione del diritto dell’Unione sollevate dal giudice nazionale sono di regola assistite da una presunzione di rilevanza. Un eventuale rifiuto di statuizione sarebbe possibile solo nei casi in cui emergesse in modo manifesto che la richiesta di interpretazione non abbia alcun rapporto con l’oggetto del procedimento principale oppure quando la Corte non disponga degli elementi di fatto e di diritto necessari per rispondere utilmente alle questioni sottopostele.
Sul punto la Corte di Giustizia chiarisce come la Corte Costituzionale, a fronte della coerenza e del rapporto di continuità sussistente tra le due disposizioni comunitarie, abbia ritenuto di doversi pronunciare sulla costituzionalità dell’art. 187-quinquiesdecies t.u.f. non soltanto nella sua versione in vigore alla data dei fatti di cui al procedimento principale[7], ma anche nella sua versione attualmente in vigore[8]; la dichiarazione di incostituzionalità della prima avrebbe infatti una incidenza anche sulla validità della seconda, sicché anche la richiesta di interpretazione di quest’ultima possiede un rapporto con l’oggetto del procedimento principale.
Immediatamente dopo la Corte precisa come, sebbene la questione sia stata sollevata solo in relazione agli artt. 47 e 48 della Carta di Nizza che sanciscono il diritto a che la propria causa sia esaminata equamente nonché la presunzione di innocenza, la domanda pregiudiziale appaia riferita anche ai diritti previsti dall’art. 6 Cedu[9].
Nello specifico, l’art. 47, co. 2 della Carta possiede un contenuto analogo all’art. 6, par. 1 Cedu, mentre l’art. 48 della Carta è interamente sovrapponibile all’art. 6, parr. 2 e 3 Cedu[10], con la conseguenza che nell’interpretazione degli artt. 47 e 48 la Corte è chiamata a tenere conto dell’art. 6 Cedu così come sviluppato dalla giurisprudenza della Corte EDU[11].
Richiamando tale giurisprudenza, la Corte chiarisce come il “diritto al silenzio” rappresenti una norma di diritto internazionale generalmente riconosciuta la quale, seppur non menzionata espressamente dall’art. 6 Cedu, possiede un ruolo centrale nella nozione di equo processo[12].
Il diritto in esame risulterebbe violato se un soggetto sospettato di aver commesso un illecito deponesse o venisse punito in caso di mancata collaborazione; ma, affinché possa essere invocato, occorre che si tratti di procedure suscettibili di condurre alla applicazione di sanzioni amministrative aventi carattere penale.
Questa valutazione, da compiersi mediante l’applicazione dei criteri forniti dalla giurisprudenza Cedu, è rimessa in linea di principio al giudice del rinvio.
Ciononostante nell’ambito della motivazione la Corte dà comunque atto di come, tanto sulla scorta dei propri precedenti[13], quanto sulla base della giurisprudenza Cedu[14], possa essere riconosciuta una natura penalistica a talune delle sanzioni amministrative irrogate dalla Consob. Ebbene, da tale qualificazione deriva l’applicazione delle garanzie riconosciute dagli artt. 47, co. 2 e 48 Carta di Nizza tra le quali rientra, come precisato, anche il diritto al silenzio.
Una simile conclusione, prosegue la Corte, non sarebbe smentita da quell’orientamento secondo cui in materia di concorrenza l’impresa possa essere costretta a fornire tutte le informazioni relative ai fatti di cui la stessa dispone[15]. Quella stessa giurisprudenza aveva infatti chiarito come, in ogni caso, l’impresa non possa essere obbligata a fornire risposte dalle quali potrebbe derivare una propria responsabilità. A ciò si aggiunga che, trattandosi in quei casi di procedimenti esperiti nei confronti di imprese o associazioni di imprese, quegli approdi giurisprudenziali non potrebbero essere applicati analogicamente alle persone fisiche.
A questo punto la Corte si sofferma sulla interpretazione dell’art. 14, par. 3, della direttiva 2003/6 e dell’art. 30, par. 1, lett. b), del regolamento n. 596/2014 al fine di vagliarne la validità alla luce degli artt. 47 e 48 della Carta. A tal fine, precisa che ove il testo del diritto derivato dall’Unione si presti a più interpretazioni, occorre dare preferenza a quella che lo rende conforme al diritto primario.
Così, con riferimento all’art. 14, par. 3, della direttiva 2003/6, sebbene la formulazione della disposizione nella parte in cui invita gli Stati membri a fissare le sanzioni da applicare per l’omessa collaborazione alle indagini si presti ad includere anche le ipotesi in cui il soggetto si rifiuti per non fare emergere la propria responsabilità penale o per un illecito punibile con sanzioni amministrative aventi carattere penale, l’obbligo di interpretazione conforme induce a preferire l’opzione ermeneutica secondo cui tali casi si collochino fuori dal perimetro applicativo della norma.
In maniera analoga l’art. 30, par. 1, lett. b), del regolamento n. 596/2014, pur obbligando gli Stati a provvedere affinché le Autorità competenti possano esercitare i propri poteri di controllo e di indagine - inclusa la richiesta informazioni anche a coloro che abbiano partecipato alle operazioni di cui trattasi – , non impone l’applicazione di sanzioni alle persone fisiche che si rifiutino di collaborare in ragione della possibile emersione di una loro responsabilità penale o per un illecito amministrativo punito con sanzioni penali.
Sulla sorta di siffatte argomentazioni la Corte conclude nel senso che l’art. 14, par. 3 della direttiva 2003/6 e l’art. 30 par. 1 lett. b), del regolamento n. 596/2014, interpretati alla luce degli articoli 47 e 48 della Carta, consentano agli Stati membri di non sanzionare una persona fisica la quale, nell’ambito di un’indagine, si rifiuti di fornire all’autorità competente risposte che possano far emergere la propria responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative aventi carattere penale oppure per un illecito penale.
4. Il principio del nemo tenetur se detegere: dal diritto penale al diritto amministrativo
Affermatosi nel diritto inglese già dal XVI secolo[16], il principio del nemo tenetur se detegere si diffuse in Europa grazie all’Illuminismo, in controtendenza alle pratiche dell’Ancien régime fondate sulla tortura e sul giuramento del reo.
Nell’attuale contesto penalistico rappresenta un presupposto indefettibile del modello di processo di impianto accusatorio[17] in cui la deposizione dell’imputato è sottoposta a regole precise, tutte finalizzate ad evitare che questi diventi accusatore di sé stesso in spregio al riconoscimento del valore della dignità umana[18].
A fronte di tali considerazioni, potrebbe apparire distonico che l’unico riferimento normativo ad esso espressamente riferito sia contenuto nell’art. 14, par. 3, lett. g) del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966 nella parte in cui sancisce, appunto, il diritto di ciascun accusato a non essere costretto a deporre contro sé stesso o a confessarsi colpevole. In verità, ad un esame più approfondito non sfugge come il principio in esame possa essere considerato immanente al complessivo sistema costituzionale, euronitario e convenzionale.
Ciò risulta in parte confermato dall’ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale nel cui contesto la q.l.c. era stata sollevata in relazione ad una pluralità di parametri; i quali peraltro, in ragione della natura amministrativa del provvedimento di cui si trattava, risultano solo in parte coincidenti con quelli fondanti il diritto al silenzio in ambito penale[19].
In particolare, per quanto attiene all’ambito interno, il diritto de quo rappresenta innanzitutto un corollario dell’inviolabilità del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost.[20]; in quanto tale gode del rango di principio fondamentale ed è dunque idoneo ad integrare un controlimite nei rapporti con l’ordinamento europeo[21]. Secondariamente, un fondamento si rinviene nel principio di non colpevolezza ex art. 27, co. 2 Cost. inteso come principio cardine del processo penale che, nell’orientare l’intera attività processuale, osta alla imposizione di un dovere di cooperazione da parte dell’imputato stesso[22]. Inoltre, dalla nozione di equo processo di cui all’art. 111 Cost., e dal conseguente principio di parità delle parti, si ricava la regola secondo cui l’imputato non può essere costretto a rivelare al proprio accusatore elementi dai quali emerge la propria responsabilità[23]. Da ultimo, il diritto in questione rappresenta anche una estrinsecazione della libertà personale tutelata dall’art. 13 Cost. [24].
Nel contesto europeo, come anticipato, un appiglio normativo si ricava da un lato dall’art. 47, co. 2 CdfUE che sancisce il diritto ad un fair trial; dall’altro, dall’art. 48 CdfUE che consacra il principio di presunzione di innocenza e il diritto di difesa. Tali previsioni risultano peraltro attuate, a livello di diritto derivato, dalla direttiva (UE) 2016/343 dettata al fine di rafforzare taluni aspetti della presunzione d’innocenza[25].
Infine, a livello internazionale il diritto al silenzio costituisce uno degli elementi fondamentali su cui si erge la nozione di equo processo di cui all’art. 6 Cedu, così come più volte chiarito dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo[26].
Sulla scorta di siffatto apparato normativo, non stupisce allora che già la Corte Costituzionale nell’effettuare il rinvio pregiudiziale abbia mostrato di propendere per l’applicazione del diritto al silenzio anche ai procedimenti sanzionatori aventi natura “punitiva”[27] tra i quali rientrano, per l'appunto, quelli previsti dall’ordinamento italiano in materia di abuso di informazioni privilegiate[28].
Diversamente dalle ipotesi in passato sottoposte al vaglio della Consulta, la dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 187-quinquiesdecies t.u.f. avrebbe però posto l’ordinamento italiano in contrasto con quello europeo, da qui la necessità di richiedere l’intervento chiarificatore del giudice di Lussemburgo circa l’esatta portata del diritto derivato. È questo l’elemento di discontinuità tra la vicenda in esame e tutte le altre in cui, in ambito interno, si era posto il problema della estensione delle garanzie anche in settori diversi da quelli strettamente penalistici.
E la Corte di Giustizia, nella sostanza, si è collocata nel medesimo solco interpretativo: senza dichiarare la invalidità delle disposizioni della direttiva e del regolamento, ne ha fatto una interpretazione coerente con il contenuto della Carta di Nizza, estendendo anche alle sanzioni punitive un principio applicato fino a quel momento soltanto ai processi penali.
L’iter argomentativo seguito dalla Corte è piuttosto semplice e lineare: dagli artt. 47, co. 2 e 48 CdfUE - che in forza della clausola di omogeneità contenuta nell’art. 52, par. 3 CdfUE possiedono un significato analogo all’art. 6 Cedu, così come interpretato alla luce della giurisprudenza della Corte Edu – si ricava l’esistenza di un diritto al silenzio[29]; questo, pur essendosi affermato in un contesto di tipo penalistico, deve essere applicato analogicamente anche a quegli illeciti che, formalmente amministrativi, possiedono nella sostanza una natura penale alla luce dei criteri elaborati dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo[30].
Anzi, a ben vedere, la CGUE sembra andare anche oltre nella misura in cui precisa che, seppure non fosse riconosciuta la natura penalistica degli illeciti in questione, il diritto de quo dovrebbe essere comunque garantito in tutti quei casi in cui gli elementi raccolti nel procedimento amministrativo siano suscettibili di essere utilizzati in un processo penale[31]. E tale considerazione appare particolarmente significativa ove si rifletta sulla circostanza che le medesime condotte sanzionate con gli illeciti amministrativi di cui agli artt. 187-bis o 187-ter t.u.f., nei casi in cui siano concretamente idonee ad alterare il prezzo dello strumento finanziario, integrano i reati disciplinati dagli artt. 184 e 185 t.u.f.[32]
Inoltre, rilevante è il distinguo che la Corte effettua in relazione alle persone giuridiche le quali, secondo la propria costante giurisprudenza, possono essere costrette a fornire tutte le informazioni in relazione ai fatti anticoncorrenziali oggetto di accertamento[33].
Questa precisazione denota, da un lato, l’adesione dei giudici del Lussemburgo ad una concezione del diritto al silenzio in termini di facoltà posta a tutela della libertà dell’individuo nel rapporto con l’autorità pubblica, con conseguente maggiore tutela in relazione alle persone fisiche. Nel contempo, sembra porre l’insieme dei fondamenti normativi sopra indicati su un piano non paritario, attribuendo un ruolo prevalente all’art. 13 Cost.
Da ultimo, su un piano più strettamente amministrativo, la decisione della Corte è destinata ad incidere sull’annoso dibattito relativo alla natura e alla ratio della partecipazione nei procedimenti sanzionatori svolti dinnanzi alle Autorità Indipendenti.
Sul punto, è sufficiente ricordare come all’orientamento secondo cui la partecipazione mantenga una funzione analoga a quella propria del procedimento disciplinato in via generale dalla legge n. 241/1990 e dunque di natura mista (tanto difensiva quanto collaborativa) se ne contrappone un altro che, a fronte delle peculiarità del procedimento sanzionatorio, riconosce in questi casi alla partecipazione un ruolo essenzialmente difensivo.[34]
Ebbene la CGUE, riconoscendo lo ius tacendi in capo al privato, frustra in maniera significative le esigenze collaborative cui la partecipazione potrebbe essere funzionale nella fase istruttoria, finendo così per avallare il secondo orientamento.
Fermo restando che, come precisato dalla stessa Corte, il riconoscimento di siffatto diritto non equivale a legittimare ogni forma di omessa collaborazione; restano infatti suscettibili di sanzioni tanto il rifiuto di presentarsi ad un’audizione fissata dall’Autorità, quanto le condotte dilatatorie miranti a rinviare il colloquio stesso[35].
5. Considerazioni sistematiche e spunti de iure condendo
A conclusione dell’analisi, appare opportuno dare spazio a considerazioni di carattere più sistematico che aiutino a comprendere meglio la portata della vicenda in esame.
In prima battuta, è significativo che anche la Corte di Giustizia abbia aderito all’ormai consolidata tesi interpretativa volta a riconoscere alle sanzioni amministrative lo statuto proprio delle pene.
Com’è noto, si tratta di un orientamento nato in ambito internazionale, in particolare ad opera della Corte Edu che, a far data dal famoso caso Engel and Others v. the Netherlands 8 giugno 1976, aderiva ad una nozione sostanzialistica di «materia penale». Secondo il ragionamento della Corte di Strasburgo, le garanzie derivanti dagli artt. 6 e 7 della Cedu dovrebbero essere riconosciute non solo agli illeciti penali in senso proprio, ma altresì a quelli che, pur presentando una forma extrapenale, e dunque amministrativa, possiedano nella sostanza una connotazione penalistica[36].
Preliminare risulta dunque il riconoscimento della natura penalistica, da effettuare alla luce dei parametri indicati dalla Corte stessa e consistenti in: qualificazione data all'illecito nel diritto interno, natura del precetto violato e severità della sanzione[37].
Poco dopo la medesima strada veniva intrapresa anche in ambito interno grazie all’azione della Corte Costituzionale che, nel tempo, ha provveduto ad estendere alle sanzioni amministrative garanzie prima di allora limitate al settore penale[38]. Il processo di commistione tra le due aree, ad oggi, ha già interessato: il divieto di retroattività in pejus[39]; il principio di sufficiente precisione del precetto sanzionatorio[40]; ilprincipio di retroattività della lex mitior [41]; il principio di legalità in senso relativo[42]; il principio di proporzionalità[43].
Quest’ultimo peraltro è stato applicato proprio nell’ambito della medesima vicenda di cui la sentenza in esame rappresenta l’epilogo; tant’è che nell’ordinanza di rinvio pregiudiziale la Consulta ricalca in gran parte il ragionamento già seguito nella sentenza con cui, dopo aver disposto la separazione del giudizio, dichiarava - questa volta si, non esistendo ostacoli di origine sovranazionale - la incostituzionalità dell’art. 187-sexies t.u.f. nella parte in cui prevede la confisca obbligatoria, diretta o per equivalente, del prodotto dell’illecito e dei beni utilizzati per commetterlo, e non del solo profitto[44].
E anche la Corte di Giustizia, dal suo canto, aveva già in passato aderito allo stesso orientamento[45], contribuendo a dare seguito al quel percorso di progressivo superamento della distinzione tra i due modelli sanzionatori[46] oggi confluito nella sentenza in commento.
In secondo luogo è interessante sottolineare come la CGUE, nell’addivenire a tale conclusione, contribuisca ad assicurare la salvaguardia dei diritti fondamentali dei cittadini e rappresenti, per tale via, un esempio virtuoso di collaborazione tra Corti.
È infatti ormai noto che, all’indomani della adozione della Carta di Nizza e, soprattutto, dell’attribuzione ad essa del rango di principi fondamentali dell’UE, è sempre più frequente l’ipotesi in cui un atto interno che violi la Costituzione si ponga in contrasto anche con il diritto dell’UE. Sono i questi i casi di cd. “doppia pregiudizialità” di cui la Corte Costituzionale si è più volte occupata con un andamento non sempre lineare[47].
Nel caso di specie il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia era stato sollevato dalla stessa Corte Costituzionale. Nell’ordinanza, la Consulta mostrava di conoscere la copiosa giurisprudenza comunitaria che esclude la lesione del diritto di difesa – e dunque, del diritto al silenzio - in conseguenza dell’obbligo posto in capo all’impresa di fornire informazioni in relazione a «circostanze di fatto suscettibili di essere utilizzate a fondamento di un’accusa formulabile nei suoi confronti»[48].
Il rinvio pregiudiziale era suonato pertanto come una sorta di sollecitazione alla CGUE a rimeditare il proprio orientamento e a specificarne meglio la portata applicativa, in maniera non dissimile da quanto già accaduto in passato nella nota vicenda “Taricco”[49]. E ciò in un quadro di costruttiva e leale cooperazione fra i diversi sistemi di garanzia, al cui interno le Corti costituzionali sono chiamate a valorizzare il dialogo con la Corte di giustizia.
L’organo europeo, nel dare risposta ai quesiti sottopostigli, ha fatto proprie le considerazioni già svolte dalla Consulta contribuendo così a fornire il proprio apporto in un’ottica di tutela integrata e multilivello dei diritti fondamentali dei cittadini.
A questo punto non sussistono ostacoli alla dichiarazione dell’incostituzionalità dell’art. 187-quinquiesdecies t.u.f. con effetti erga omnes.
Peraltro, sulla portata intertemporale di tali effetti si apre, de iure condendo, un’ulteriore problematica che, in ragione dell’attinenza al regime giuridico delle sanzioni punitive, merita di essere rapidamente affrontata.
Com’è noto, la declaratoria di incostituzionalità sancisce la invalidità con effetti ex tunc, con la conseguenza che la norma non potrà essere oggetto di applicazione per il futuro e in relazione a tutti i procedimenti sub iudice[50]. Per i casi in cui sia già intervenuto il giudicato invece, il legislatore prevede la cessazione degli effetti della condanna limitatamente alle ipotesi in cui la norma oggetto di incostituzionalità contenga un precetto penale, e non anche allorquando si tratti di illeciti amministrativi come nel caso oggetto del giudizio in esame.
Su questo aspetto, potrebbe incidere l’eventuale accoglimento della q.l.c. sollevata dal Trib. di Milano in relazione all’art. 30, co. 4, l. 87/1953[51], che consentirebbe al giudice dell’esecuzione di sancire la cessazione degli effetti di una sanzione amministrativa (come è appunto quella prevista dall’art. 187-quinquiesdecies t.u.f.) in conseguenza della dichiarazione di incostituzionalità della norma relativa al trattamento sanzionatorio, anche quando – similmente a quanto accade nel diritto penale - sia stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna.
Sarebbe un ulteriore passaggio di avvicinamento dei due statuti disciplinari, in una sorta di effetto domino che sta profondamente riconfigurando i confini dei due settori.
***
[1] Corte Cost., sentenza n. 112 del 10 maggio 2019. Il presupposto della pronuncia in esame è rappresentato dal riconoscimento della natura punitiva alla confisca, diretta o per equivalente, del prodotto e dei beni utilizzati per commettere il reato cui consegue un sindacato effettuato alla luce del principio di proporzionalità. La circostanza che la stessa si aggiunga ad una sanzione amministrativa pecuniaria a sua volta di rilevante gravità (applicabile oggi fino a cinque milioni di euro) e la mancata graduabilità della stessa (il «prodotto» e i «beni utilizzati» sono infatti confiscabili per intero), conducono a risultati applicativi di gran lunga sproporzionati rispetto agli illeciti in questione. Per un commento della sentenza si rinvia a G. L. Gatta, Proporzionalità della pena, sanzioni amministrative ed oggetto della confisca in una pronuncia di accoglimento della Corte Costituzionale in materia di insider trading, in www.dirittopenalecontemporaneo.it; A. Anzon Demming,Applicazioni virtuose della nuova “dottrina” sulla “doppia pregiudizialità” in tema di diritti fondamentali (in margine alle decisioni nn. 112 e 117/209), in Osservatorio AIC, 2019, fasc.6.
[2] Corte Cost, ordinanza n. 117 del 10 maggio 2019.
[3] «Gli Stati membri fissano le sanzioni da applicare per l’omessa collaborazione alle indagini di cui all’articolo 12», id est le indagini condotte dall’Autorità compente nell’esercizio delle proprie funzioni sanzionatorie.
[4] «Fatti salvi le sanzioni penali e i poteri di controllo delle autorità competenti a norma dell’articolo 23, gli Stati membri, conformemente al diritto nazionale, provvedono affinché le autorità competenti abbiano il potere di adottare le sanzioni amministrative e altre misure amministrative adeguate in relazione almeno alle seguenti violazioni: a) […]; b) l’omessa collaborazione o il mancato seguito dato nell’ambito di un’indagine, un’ispezione o una richiesta di cui all’articolo 23, paragrafo 2», cioè nell’ambito dei poteri di controllo e di indagine.
[5] I quali sanciscono rispettivamente il diritto ad un ricorso effettivo e la presunzione di innocenza.
[6] CGUE, sentenza del 20 marzo 2018, Di Puma e Zecca (cause C-596/16 e C-597/16).
[7] «Fuori dai casi previsti dall’articolo 2638 del codice civile, chiunque non ottempera nei termini alle richieste della CONSOB ovvero ritarda l’esercizio delle sue funzioni è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro diecimila ad euro duecentomila», introdotto in sede di trasposizione dell’art. 14, par. 3, dir. 2003/6.
[8] «Fuori dai casi previsti dall’articolo 2638 del codice civile, è punito ai sensi del presente articolo chiunque non ottempera nei termini alle richieste della Banca d’Italia e della Consob, ovvero non coopera con le medesime autorità al fine dell’espletamento delle relative funzioni di vigilanza, ovvero ritarda l’esercizio delle stesse», per effetto della modifica introdotta dal decreto legislativo del 3 agosto 2017, n. 129 che dà attuazione all’articolo 30, paragrafo 1, lettera b), del regolamento n. 596/2014.
[9] Nonostante l’Unione non abbia ancora aderito alla Convenzione, i diritti fondamentali riconosciuti dalla Cedu fanno infatti parte dei principi generali dell’Unione, si v. in tal senso art. 6, par. 3, TUE «I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell'Unione in quanto principi generali». Peraltro, al fine di garantire una necessaria coerenza, i diritti riconosciuti dalla Carta di Nizza corrispondenti a quelli garantiti dalla Cedu hanno un significato ed una portata identica a questi in ossequio a quanto disposto dall’ l’art. 52, par. 3 della Carta: «Laddove la presente Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberà fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta Convenzione. La presente disposizione non preclude che il diritto dell'Unione conceda una protezione più estesa». Sulla tutela dei diritti fondamentali in ambito sovranazionale si rinvia a G.M. Flick, I diritti fondamentali e il multilevel: delusioni e speranze, in Cassazione Penale, 2019, fasc. 7, pag. 2401; B. Nascimbene, La tutela dei diritti fondamentali nella giurisprudenza della Corte di Giustizia: nuove sfide, nuove prospettive, in Rivista Italiana di Diritto Pubblico Comunitario, 2017, fasc. 2, pag. 323; G. Bronzini, La Cedu e la Carta dei diritti fondamentali. Overlap e distinzioni, in www.questionegiustizia.it; Id. L’Europa dei rimedi, in A. Guerra e A. Marchili (a cura di), Europa concentrica, Sapienza Università Editrice, Roma, 2016.
[10] Si ripropone il contenuto delle menzionate disposizioni al fine di consentire un più agevole confronto. Da un lato l’art. 47, co. 2 CDFUE «Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge. Ogni persona ha la facoltà di farsi consigliare, difendere e rappresentare» è in parte coincidente con l’art. 6, par. 1 Cedu «Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale deciderà sia delle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che le venga rivolta. La sentenza deve essere resa pubblicamente, ma l'accesso alla sala d'udienza può essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o parte del processo nell'interesse della morale, dell'ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della vita privata delle parti in causa, o nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicità puó pregiudicare gli interessi della giustizia». Dall’altro l’art. 48 CDUE « Ogni imputato è considerato innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata.2. Il rispetto dei diritti della difesa è garantito ad ogni imputato» ricalca l’art. 6, par. 2 e 3 Cedu: «2. Ogni persona accusata di un reato è presunta innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata. 3. In particolare, ogni accusato ha diritto a : a. essere informato, nel più breve tempo possibile, in una lingua a lui comprensibile e in un modo dettagliato, della natura e dei motivi dell'accusa elevata a suo carico; b. disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie a preparare la sua difesa; c. difendersi personalmente o avere l'assistenza di un difensore di sua scelta e, se non ha i mezzi per retribuire un difensore, poter essere assistito gratuitamente da un avvocato d'ufficio, quando lo esigono gli interessi della giustizia; d. esaminare o far esaminare i testimoni a carico ed ottenere la convocazione e l'esame dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico; e farsi assistere gratuitamente da un interprete se non comprende o non parla la lingua usata all'udienza».
[11] In tal senso, appaiono significative le sentenze Corte EDU del 21 maggio 2019, Commissione/Ungheria causa C-235/17; del 6 ottobre 2020, La Quadrature du Net e a., cause C-511/18, C-512/18 e C-520/18 nonché del 17 dicembre 2020, Centraal Israëlitisch Consistorie van België e a., causa C-336/19.
[12] Cfr. sul punto Corte EDU, 8 febbraio 1996, John Murray c. Regno Unito.
[13] In particolare, CGUE sentenze del 20 marzo 2018, Di Puma e Zecca, C-596/16 e C-597/16 nonché del 20 marzo 2018, Garlsson Real Estate e a., C-537/16.
[14] Nota in tal senso è la vicenda che ha portato alla sentenza Corte EDU, 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri c. Italia.
[15] Si v. in tal senso CGUE sentenze del 18 ottobre 1989, Orkem/Commissione, 374/87; del 29 giugno 2006, Commissione/SGL Carbon, C-301/04 e del 25 gennaio 2007, Dalmine/Commissione, C-407/04.
[16] Nello specifico, la sua formulazione risale ad una massima di Thomas Hobbes. Per una disamina più approfondita del principio nel diritto inglese si rinvia a C. Vettori, Il diritto al silenzio nell’ordinamento inglese e la giurisprudenza della Corte europea, in Dir. pen. proc., 2004, 1563 e ss; E. M. Catalano, Diritto al silenzio, right not to be questioned e tutela dalla autoincriminazione. Note storico-comparative, in Cass. pen., 2011, 4018 ss.
[17] Sul ruolo del principio de quo nel processo penale si rinvia a V. Grevi, «Nemo tenetur se detegere». Interrogatorio dell’imputato e diritto al silenzio nel processo penale italiano, Milano, 1972; G. Illuminati Nemo tenetur se detegere: il pilastro dell’autodifesa nel pensiero di Vittorio Grevi, in Riv dir. proc., 2012, 1263.
[18] Per un approfondimento sulle modalità di deposizione dell’imputato nel processo penale si rinvia A M. Chiavario, Diritto Processuale Penale, VIII Ed., Torino, 2019; F. Cordero, Procedura Penale, IX Ed., Milano, 2012; M. L. Bitonto, Esame dibattimentale e garanzie difensive dell’imputato, in Cass. Pen., Fasc.12, 2012, Pag. 4348B; P. Moscarini, Il silenzio dell'imputato sul fatto proprio secondo la Corte di Strasburgo e nell'esperienza italiana, in Riv. it. dir. e proc. pen., fasc.2, 2006, pag. 611; C. Conti, Profili penalistici della testimonianza assistita: l'esimente dell'art. 384 c.p. tra diritto al silenzio e diritto a confrontarsi con l'accusatore, in Riv. It. Dir. e Proc. Pen., Fasc.3, 2002, Pag. 840; A. Balsamo, L'istruttoria dibattimentale e l'attuazione dei principi costituzionali: efficienza, garanzie e ricerca della verità, in Cass. Pen., fasc.1, 2002, pag. 387.
[19] Come si evince dall’ord. n. 117/2019, pt. 1 del “Considerato in diritto”, la q.l.c. era stata sollevata: per quanto attiene all’ambito interno, in relazione agli artt. 24, co. 2 Cost., 111, co. 2 Cost.; con riferimento all’ambito sovranazionale ed europeo, in rapporto all’art. 6 CEDU, all’art. 14 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici e agli artt. 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, questi ultimi pure suscettibili di determinare l’illegittimità costituzionale della disposizione censurata in forza degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. In tale contesto dunque non verrebbero in rilievo gli artt. 13 e 27, co. 2 Cost. in quanto applicabili solo ai procedimenti penali in senso stretto.
[20] Così P. Moscarini, Silenzio dell’imputato (diritto al), in Enc. Dir., Annali, III, Milano, 2010, p. 1080 e ss.; V. Patané, Il diritto al silenzio dell’imputato, Torino, 2006, p. 81; V. Grevi, Nemo tenetur se detegere, cit., p. 46.
[21] Sul concetto di controlimiti v., ex multis, E. Albanesi, Che cosa il caso Taricco ha insegnato alla Corte Costituzionale. Un nuovo rinvio pregiudiziale a fronte dei controlimiti, in Giurisprudenza Costituzionale, fasc.1, 2020, pag. 425; C. Amalfitano (a cura di), Primato del diritto dell'Unione Europea e controlimiti alla prova della "Saga Taricco", Milano, 2018; M. Luciani, Intelligenti Pauca. Il Caso Taricco Torna (catafratto) a Lussemburgo, in Giurisprudenza Costituzionale, fasc.1, 2017, pag. 535; A. Anzon Demming, La Corte Costituzionale è ferma sui controlimiti, ma rovescia sulla Corte Europea di Giustizia l'onere di farne applicazione, bilanciando esigenze Europee e istanze identitarie degli Stati Membri, in Giurisprudenza Costituzionale, fasc.1, 2017, pag. 507; A. Celotto – T. Groppi, Diritto UE e diritto nazionale: primauté vs controlimiti, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., fasc.6, 2004, pag. 1309.
[22] Si v. in tal senso G. Illuminati, La presunzione d’innocenza dell’imputato, Zanichelli, Bologna, 1975; V. Grevi, Garanzie individuali ed esigenze di difesa sociale nel processo penale, in Alla ricerca di un processo penale «giusto», Milano, 2000, 7; M. Chiavario, La presunzione d’innocenza nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Giur. it., 2000, 1089; P. P. Paulesu, La presunzione di non colpevolezza dell’imputato, Torino, 2008, 68 ss.
[23] Così O. Mazza, L’interrogatorio e l’esame dell’imputato nel suo procedimento, Giuffrè, Milano, 2004, p. 63; P. Moscarini, Silenzio dell’imputato, cit., p. 1083.
[24] P. Moscarini, Silenzio dell’imputato, cit., p. 1082.
[25] Per un’analisi approfondita della direttiva in esame si rinvia a S. Lamberigts, The Directive on the Presumption of Innocence, in EU Crim, 1/2016, p. 36.
[26] Cfr. in questo senso Corte Edu, sent. 25 febbraio 1993, ric. n. 10588/83, Funke c. Francia; sent. 8 febbraio 1996, ric. 18731/91, Murray c. Regno Unito; sent. 29 giugno 2007, ric. n. 15809/02, O’Halloran e Francis c. Regno Unito; sent. 5 aprile 2012, ric. n. 11663/04, Chambaz c. Svizzera; e, da ultimo Corte Edu, sent. 13 settembre 2016, 50541/08, 50571/08, 50573/08 e 40351/09, Ibrahim e a c. Regno Unito.
[27] Corte Cost., ord. n. 117/2019, pt. 7.
[28] Sulla natura punitiva delle sanzioni de quibus, v. Corte Cost sentenze n. 63 del 2019, n. 223 del 2108 e n. 68 del 2017.
[29] CGUE, sent. 2 febbraio 2021, pt. 36-40.
[30] CGUE, sent. 2 febbraio 2021, pt. 42-43.
[31] CGUE, sent. 2 febbraio 2021, pt. 44.
[32] Sul rapporto tra illecito amministrativo ed illecito penale, nonché sulle conseguenze in materia di ne bis in idem, si rinvia a E. Basile, Il “doppio binario” sanzionatorio degli abusi di mercato in Italia e la trasfigurazione del ne bis in idem europeo, in Giurisprudenza Commerciale, fasc.1, 2019, pag. 129; F. Viganò, Le conclusioni dell'Avvocato generale nei procedimenti pendenti in materia di ne bis in idem tra sanzioni penali e amministrative in materia di illeciti tributari e di abusi di mercato, in Dir. pen. cont., fasc. 9/2017, pp. 206-210; P. Monalenti, Abusi di mercato e procedimento Consob: il caso Grande Stevens e la Sentenza CEDU, in Giurisprudenza Commerciale, fasc.3, 2015, pag. 478; G.M. Flick, Cumulo tra sanzioni penali e amministrative: doppio binario o binario morto? («Materia penale», giusto processo e ne bis in idem nella sentenza della Corte EDU, 4 marzo 2014, sul market abuse), in Rivista delle Societa', fasc.5, 2014, pag. 953; A. Natalini, Lungo i confini (incerti) del market abuse - Duplicazioni sanzionatorie a rischio caos - Dagli ermellini un criterio discretivo che aiuta a fare chiarezza, in DeG - Dir. e giust., fasc.22, 2006, pag. 96.
[33] CGUE, sent. 2 febbraio 2021, pt. 46-48. Sul punto la CGUE recepisce le indicazioni già fornite dall’Avvocato Generale Pikamäe nelle sue conclusioni del 27 ottobre 2020.
[34] Per un approfondimento, si rinvia a A. Giannelli, Giudice ordinario e decisione amministrativa, in Judicium: il processo civile in Italia e in Europa, fasc. 3, 2020; F. Trimarchi Banfi, La partecipazione civica al processo decisionale amministrativo, in Diritto Processuale Amministrativo, fasc. 1, 2019; C. Feliziani, Effettività della tutela nel processo o nel procedimento? Convergenze e divergenze tra il sistema italiano di giustizia amministrativa e la Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, in Diritto Processuale Amministrativo, fasc. 3, 2019; F. Tirio, Le garanzie nei procedimenti sanzionatori della Consob dopo la sentenza Grande Stevens e le successive modifiche regolamentari, in Banca Borsa Titoli di Credito, fasc. 4, 2018; F. Goisis, Un'analisi critica delle tutele procedimentali e giurisdizionali avverso la potestà sanzionatoria della pubblica amministrazione, alla luce dei principi dell'art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Il caso delle sanzioni per pratiche commerciali scorrette, in Dir. proc. amm., fasc. 3, 2013; M. Occhiena, Situazioni giuridiche soggettive e procedimento amministrativo, Giuffrè, 2002; F. Fracchia, Manifestazioni di interesse del privato e procedimento amministrativo, in Dir. amm., fasc. 1, 1996.
[35] CGUE, sent. 2 febbraio 2021, pt. 41.
[36] Sulla tematica si rinvia a F. Goisis, La tutela del cittadino nei confronti delle sanzioni amministrative tra diritto nazionale ed europeo, Torino, 2018; Id., La full jurisdiction sulle sanzioni amministrative: continuità della funzione sanzionatoria v. separazione dei poteri, in Dir. amm., 2018, pp. 1 ss; Id, La tutela del cittadino nei confronti delle sanzioni amministrative tra diritto nazionale ed europeo, Torino, 2015; Id, Verso una nuova nozione di sanzione amministrativa in senso stretto: il contributo della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, in Rivista Italiana di Diritto Pubblico comunitario, fasc.2, 2014, pag. 337; S. Cimini, Il potere sanzionatorio delle amministrazioni pubbliche. Uno studio critico, Editoriale Scientifica Napoli, 2017; P. Cerbo, La nozione di sanzione amministrativa e la disciplina applicabile, in A. Cagnazzo - S. Toschei - F.F. Tuccari (a cura di), La sanzione amministrativa, Milano, 2016; W. Troise Mangoni, L'esercizio retroattivo del potere amministrativo. Limiti e garanzie a tutela dell'individuo, Torino, 2016, pp. 187 ss.; A. Carbone, Il contraddittorio procedimentale. Ordinamento nazionale e diritto europeo-convenzionale, Torino, 2016.; M.A. Sandulli, Sanzioni non pecuniarie della pa, in Treccani. Il libro dell’anno del diritto, Istituto dell’Enciclopedia Italiana Roma, 2015; M. Allena, Il caso Grande Stevens c. Italia: le sanzioni CONSOB alla prova dei principi CEDU, in Giornale dir. amm., 2014, pp. 1053 ss.; Id, La sanzione amministrativa tra garanzie costituzionali e principi CEDU: il problema della tassatività-determinatezza e prevedibilità, in www.federalismi.it; B. Randazzo, I principi del diritto e del processo penale nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo. Quaderno predisposto in occasione dell'incontro trilaterale delle Corti costituzionale italiana, spagnola e portoghese (Madrid, 13-15 ottobre 2011), in www.cortecostituzionale.it
[37] Sul punto cfr., ex multis, sentenza Corte EDU del 20 marzo 2018, Garlsson Real Estate e a., C-537/16. Tali criteri, a ben guardare, sembrerebbero confluire nel parametro dell’afflittività e ciò conformemente alla nozione di sanzione in senso stretto accolta in ambito interno. Su tale nozione, si rinvia a M.A. Sandulli, La potestà sanzionatoria della pubblica amministrazione (Studi preliminari), Napoli, Jovene, 1981; A. Travi, Sanzioni amministrative e pubblica amministrazione, Padova, 1983.
[38] Si noti peraltro come già da tempo la dottrina aveva sottolineato le criticità derivanti dalla mancata previsione, nell’ambito della disciplina generale delle sanzioni amministrative dettata dalla legge n. 689/1981, di talune delle garanzie proprie del diritto penale. Cfr. sul punto M.A. Sandulli, Le sanzioni amministrative pecuniarie. Principi sostanziali e procedimentali, Napoli, Jovene,1983, p. 82.
[39] Corte Cost. sentenze nn. 223 del 2018, 68 del 2017, 276 del 2016, 104 del 2014 e 196 del 2010.
[40] Corte Cost. sentenze nn. 78 del 1967 e 121 del 2018.
[41] Corte Cost. sentenza n. 63 del 2019.
[42] Corte Cost. sentenza n. 5 del 2021.
[43] Corte Cost. sentenza n. 112 del 2019.
[44]Cfr., in particolare, Corte Cost. sentenza n. 112 del 2019 pt. 8.2-9. V. supra nota n. 2.
[45] Nello stesso senso, v. CGUE sentenze del 20 marzo 2018, Menci, C-524/15 e Garlsson Real Estate, C-537/16; del 20 marzo 2018, Di Puma e Zecca, C-596/16 e C-597/16.
[46] Così S. Licciardello, I principi che governano la irrogazione delle sanzioni amministrative, in A. Cagnazzo - S. Toschei - F.F. Tuccari (a cura di), La sanzione amministrativa, Milano, 2016, pp. 80 e ss.
[47] A riguardo, appare il caso di ricordare come in un primo momento la Corte avesse ritenuto prioritaria la proposizione della q.l.c. e ciò al fine di garantire il sindacato accentrato di Costituzionalità sancito dall’art. 134 Cost. (cfr. in tal senso Corte Cost. sentenza n. 269 del 2017). A distanza di appena due anni, il medesimo organo sembrava fare un passo indietro nella misura in cui, pur confermando la propria competenza ad esaminare nel merito questioni di legittimità sollevate con riferimento sia a parametri interni sia europei, riconosceva comunque «il potere del giudice comune di procedere egli stesso al rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE, anche dopo l’eventuale giudizio incidentale di legittimità costituzionale» con l’effetto di (così Corte Cost. sentenza n. n. 63 del 2019, punto 4.3 del Considerato in diritto). Sul tema della “doppia pregiudizialità” si rinvia a A. Ruggeri, Il giudice e la “doppia pregiudizialità”: istruzioni per l’uso, in www.federalismi.it, 24 febbraio 2021; S. Manacorda, ‘Doppia pregiudizialità' e Carta dei Diritti Fondamentali: il sistema penale al cospetto del diritto dell’Unione Europea nell'era del disincanto, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, 2020, fasc. 2, pag. 572; A. Anzon Demming, La Corte riprende il proprio ruolo nella garanzia dei diritti costituzionali e fa un altro passo avanti a tutela dei “controlimiti”, in Forum Quaderni Costituzionali, Consulta on line.
[48] Corte Cost., ordinanza n. 117/2019, pt. 9.1. Tra i precedenti richiamati dalla Corte Cost., v. CGUE sentenze del 18 ottobre 1989, causa C-374/97, Orkem; del 29 giugno 2006, causa C-301/04 P, SGL Carbon AG.
[49] Sulla questione si rinvia, ex multis, F. Viganò, Legalità ‘nazionale' e legalità ‘europea' in materia penale: i difficili equilibrismi della Corte di Giustizia nella sentenza M.A.S. (“Taricco II”), in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, fasc.4, 2017, p. 1281.
[50] Così art. 30, legge 11 marzo 1953, n. 87.
[51] Trib. Milano, ord. n. 887/2019 SIGE, con cui è stata sollevata la q.l.c. dell’art. 30, co. 4, l. 87/1953 nella parte in cui «non consente al giudice dell’esecuzione di rideterminare una sanzione amministrativa accessoria – la cui applicazione è demandata al giudice penale, unitamente alle sanzioni penali – oggetto di una declaratoria di illegittimità che ne abbia mutato di fatto la disciplina».
Recovery Plan e PA, tre linee d’azione per un salto di qualità
di Luigi Carbone
sommario: 1. Capitale umano. - 2. Semplificazione. - 3. Digitalizzazione.
Uno dei settori prioritari di intervento per il governo Draghi è la Pubblica Amministrazione: la sua efficienza incide sulla vita delle persone, sulla crescita economica, sulla competitività del Paese. Occorre un quantum leap: lo chiedono i cittadini, gli operatori, l’Europa. Il Recovery Plan (PNRR), in Parlamento dal 12 gennaio, fornisce alcune indicazioni per un intervento strutturale e innovativo sulla PA. Certo, si tratta di proposte da riconsiderare alla luce delle scelte del nuovo Governo. Ma si possono già cogliere tre linee di azione, strettamente connesse: capitale umano, semplificazione, digitalizzazione.
1. Capitale umano.
Vanno affrontate almeno quattro esigenze:
1. promuovere un ricambio generazionale e culturale nella PA: l'età media del personale pubblico è di 50,7 anni, il 16,9% di dipendenti è over 60 e solo il 2,9% under 30, con tutte le conseguenze anche sul livello di alfabetismo digitale. Il PNRR può finanziare reclutamenti connessi ai progetti, immettendo rapidamente giovani motivati (è già accaduto con successo per medici e infermieri nell’emergenza Covid); i più meritevoli potrebbero, nel tempo, entrare in ruolo, senza automatismi ma con meccanismi selettivi. Contestualmente, si dovrebbe riformare il reclutamento a regime: la cattiva abitudine dello scorrimento delle graduatorie degli idonei, che oggi si prorogano per anni e in cui restano i meno capaci, va superata con concorsi più mirati e più frequenti, con procedure semplificate;
2. investire sulla qualità e sulla motivazione dei dipendenti pubblici. Senza motivazioni, non si attraggono risorse di eccellenza e lo Stato adesso è più un employer of last resort che un best employer of choice. Bisogna riformare carriere oggi bloccate e incentivi stipendiali spesso distribuiti a pioggia, riconsiderandoli sulla base del merito e dei risultati (v. punto 3);
3. introdurre un effettivo sistema di valutazione delle performance, a partire da quelle nell’attuazione del PNRR, prendendo spunto dalle best practices delle aziende private e tenendo conto dell’opinione degli utenti. Solo così la meritocrazia diventa realtà e si migliora il servizio reso;
4. ripensare il sistema di formazione pubblica, puntando a competenze non prevalentemente giuridico-amministrative, ma più tecniche o più strategiche (project management, negoziazione, consultazione, policy making).
2. Semplificazione.
Oltre che sulle persone, bisogna intervenire sulle procedure burocratiche (eccesso di norme, moduli da compilare, enti da consultare). Alcune riforme, negli ultimi 25 anni, hanno introdotto strumenti importanti, come la Scia e la conferenza di servizi. Tuttavia, essi si collocano a valle di procedimenti autorizzativi complessi, regolati da normative pre-digitali, con vincoli obsoleti ma sedimentati nell’ordinamento. Occorre un censimento completo dei procedimenti a monte che conduca alla loro radicale semplificazione secondo i principi indicati dal Piano: soppressione degli adempimenti non più necessari, riduzione dei tempi e dei costi, trasparenza e affidamento, valorizzazione del behavioural approach, digitalizzazione integrale dei processi e interoperabilità digitale tra le amministrazioni. Inoltre, va combattuta la “paura della firma” dei decisori pubblici (oggi si preferisce “amministrare per legge” o “per sentenza”, come ha scritto Luisa Torchia).
3. Digitalizzazione.
La modernizzazione della PA passa per la sua digitalizzazione. Accanto agli investimenti infrastrutturali per lo sviluppo di Poli Strategici e di un cloud nazionale, in sinergia col progetto europeo Gaia-X, occorrono standard e strumenti che consentano, finalmente, la condivisione e l’interoperabilità delle informazioni e dei dati fra le amministrazioni.
La digitalizzazione va posta al servizio dei cittadini e delle imprese, attuando una volta per tutte il principio dello once only, secondo cui non si può chiedere al privato di fornire alla PA dati e certificati di cui essa è già in possesso. La stessa semplificazione deve avvenire non informatizzando le procedure esistenti, ma “ripensandole” interamente alla luce dell’interoperabilità. In parallelo, bisogna promuovere un’alfabetizzazione digitale di base, affinché le opportunità della digitalizzazione dei servizi pubblici siano colte a pieno da tutti. Su questi profili, i due Dicasteri responsabili potranno creare sinergie positive.
Un intervento che affronti queste esigenze presenta un vantaggio e uno svantaggio. Il vantaggio è che esso, a differenza di altri, è ampiamente condiviso, ha una natura bipartisan ed è relativamente poco costoso (anzi, è un investimento che restituisce valore). Lo svantaggio è che esso è molto complesso, perché semplificare non significa banalizzare. Non è una one shot policy: servono tempo, tecnica, pazienza, determinazione, condivisione con lavoratori, operatori e attori istituzionali.
È comprensibile la preferenza per interventi mirati ed efficaci rispetto a una (ennesima) “riforma” generale, lunga nei tempi e difficile nell’attuazione, ma va comunque mantenuta una visione strategica dell’intervento e una connessione tra i suoi vari profili.
Un contributo importante può venire dalla stessa cultura amministrativa. Nella sua relazione del 23 febbraio, il presidente del TAR del Lazio Savo Amodio ha messo in guardia proprio dalla “paura della firma”. Il presidente del Consiglio di Stato Patroni Griffi ha affermato che “l’efficienza del sistema amministrativo è uno snodo cruciale della ricostruzione” e ha proposto di affidare a quell’Istituto la semplificazione del codice degli appalti, eliminando il goldplating (lo stesso potrebbe valere per altri interventi di modernizzazione della PA).
C’è un’ulteriore, decisiva ragione per modernizzare la PA: è un intervento indispensabile per sostenere l’attuazione del Recovery Plan di cui si occuperà il Mef. E quindi, in ultima analisi, per contribuire in modo determinante alla “messa in opera” della strategia più importante del Paese dal dopoguerra ad oggi.
*Luigi Carbone - Presidente di sezione del Consiglio di Stato
Il contributo è stato pubblicato in data 23 febbraio dal sole24 ore https://www.ilsole24ore.com/art/recovery-plan-e-pa-tre-linee-d-azione-un-salto-qualita-ADybDRMB
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