ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Idee per la Giustizia civile nel Piano nazionale di ripresa e resilienza*
di Franco De Stefano
Occorre un cambio radicale di prospettiva: prendere conoscenza del fatto che non si può inseguire ciecamente la domanda di giustizia, ma occorre, sia pure agendo nel frattempo per ridurre il più possibile lo spaventoso arretrato, una progettualità per il futuro che tenda a razionalizzarla e a renderla sostenibile. I nuovi fondi devono quindi consentire riforme strutturali sull’organizzazione e sul processo, ma pure sul diritto sostanziale: riforme che possano proiettare verso un sistema più efficiente e che solo indirettamente potranno conseguire l’abbattimento delle pendenze; senza l’eliminazione di queste il sistema è destinato comunque a fallire, ma sarebbe miope ed incongruo destinare tutte le risorse allo smaltimento dell’arretrato, senza riformare il sistema in modo che tenda ad evitare che questo si formi nuovamente.
Occorre spendere queste risorse per rattoppare alla meno peggio i guasti già provocati, senza agire sulle loro cause, significa soltanto sprecarli: occorre prendere coscienza della necessità di destinare la maggior parte delle risorse a riforme strutturali e solo una parte ad interventi eccezionali.
Occorre puntare ad una Giustizia che tenda ad assicurare risposte di sistema su diritti fondamentali ed inviolabili della persona ed in vista dell’uguaglianza sostanziale e della dignità umana, nella consapevolezza che le risorse sono comunque limitate e, comunque, che non potrebbero mai essere adeguate ad una domanda indefinitamente ed esponenzialmente crescente di Giustizia.
Occorre privilegiare non la quantità dell’offerta di Giustizia, ma la sua qualità, per incidere a medio termine sulla quantità e conseguire solo come effetto indiretto la riduzione delle pendenze.
Occorre concepire come eccezionali gli strumenti di deflazione o di smaltimento dell’arretrato, nel senso di destinare risorse (umane e materiali, tra cui quelle digitali) al momento progettuale di individuazione delle aree di intervento – ipotizzando anche programmi di definizione delle pendenze individuati in modo condiviso con Avvocatura e Personale, col sistema dei Protocolli o sull’esperienza degli Osservatori di Carlo Verardi – ed alla preparazione del materiale per la decisione col sistema delle cause pilota; valutare forme di coazione anche formale di vincolatività dei precedenti e moderate sanzioni processuali (art. 96 co. 3?), oppure concordando con sistemi di soft law (i detti Protocolli e Osservatori) standardizzazioni di atti e segmenti processuali per la loro razionalizzazione.
Occorre investire nell’organizzazione:
- non incrementare le piante organiche del personale decidente, meno che mai (ed assolutamente non) con giudici onorari o temporanei, anche per quanto risulterà dalla imminente pronuncia della Consulta sull’incostituzionalità di una sistematizzazione dell’integrazione dei Collegi con tali giudici
- semmai, una moderata, ma ultimativa ed eventualmente anche solo temporanea (anche mediante incentivi economici), aggregazione di risorse interne all’organico di Cassazione, quali i Magistrati del Massimario od altri da destinare in applicazione o supplenza alle Sezioni della Cassazione a maggiore sofferenza;
- incrementare invece la presenza del personale ausiliario, coprendo le piante organiche esistenti di personale amministrativo od incrementandole e prevedendo figure ausiliarie nuove, in campo informatico e gestionale;
- investire in Intelligenza Artificiale quale strumento di sostegno ad attività di preparazione della decisione: giustizia predittiva e strumenti di comparazione e di studio dei fenomeni sociali sottesi; elaborazione di modalità telematiche vere e proprie di gestione del processo e delle attività preparatorie (ricerca di precedenti ed elaborazioni di simulazioni, etc.);
- formazione sui temi dell’Intelligenza Artificiale nel processo, della calcolabilità giuridica, della conciliazione e della ADR, ma eliminando la sua obbligatorietà
- investire in Intelligenza Artificiale per la ricerca dei beni dei debitori e per l’efficientamento anche del processo esecutivo civile, rafforzando e professionalizzando il ruolo degli organismi pubblici che vi intervengono (UNEP e uffici del giudice dell’esecuzione, semmai rafforzando la specializzazione di questi ultimi, con una concentrazione territoriale più marcata): fin dalla ricerca dei beni del debitore (accesso a banche dati) e dalla gestione automatizzata dei processi esecutivi, non limitandola al segmento pubblicitario, salve le esigenze di tutela di soggetti vulnerabili e pubbliche amministrazioni per compiti istituzionali;
- investire sull’efficientamento della Cassazione civile, consapevoli della sua ambigua collocazione istituzionale tra giudice di terza istanza e garante dell’uniformità del diritto e della necessità di mantenere l’attuale previsione costituzionale dell’art. 111, ma con decisa propensione a perseguire l’uguaglianza sostanziale e la dignità del singolo attraverso un Diritto tendenzialmente stabile e quindi rafforzando la nomofilachia a tutela di quei valori (nomofilachia sostenibile): ciò che passa non attraverso la rincorsa fordista alla domanda di Giustizia di legittimità, ma il miglioramento qualitativo della risposta e le conseguenze solo in apparenza indirette sulla prima: unificazione dei riti camerali, se del caso rimodulazione dei contributi unificati in modo seriamente progressivo, digitalizzazione moderna ed efficiente del rito di legittimità, applicazione dell’Intelligenza Artificiale nella fase preparatoria di tutti i ricorsi (ufficio del processo con personale specificamente preparato nell’IA in via definitiva o almeno, se in via transitoria, a progetto per un congruo numero di anni).
In pratica, poi, in via transitoria, potrebbero essere utili:
- assunzioni o studi mirati di definizione di specifici arretrati;
- studi di fattibilità ed organizzazione di programmi di smaltimento soprattutto in Cassazione nei settori di maggiore sofferenza, quale il tributario, la protezione internazionale e il previdenziale (spoglio generalizzato di tutto l’arretrato pendente in Cassazione ed adozione di programmi per aree di intervento con personale o apporti transitori ed occasionali, del tipo di consulenze, articolati su sistemi automatizzati di ricerca, analisi ed implementazione delle ipotesi di definizione)
- misure premiali per le conciliazioni delle liti pendenti, a cominciare dall’abbuono del contributo unificato e dall’esenzione da imposte e tasse dei relativi verbali; se condiviso, in settori implicanti rilevanti crediti pubblici ammettere definizioni agevolate, con rinuncia a parte di questi (pro quota o pro parte)
- investire nella ricerca: iniziative di studio, approfondimento e confronto sotto l’egida dei fondi pubblici (anche sotto specie di contributi agli organizzatori privati) sulle tematiche di diritto sostanziale di maggiore impatto sui diritti fondamentali e su quelli inviolabili delle persone, ad iniziare dalla contrattualistica sui rapporti di maggiore impatto sulla vita quotidiana (contratti di lavoro e in generale di durata relativa a beni essenziali; sotto il profilo dello studio delle ricadute dell’emergenza sanitaria sugli istituti tradizionali della impossibilità sopravvenuta e della responsabilità da inadempimento) e senza dimenticare la disciplina della responsabilità extracontrattuale, verosimilmente la nuova frontiera dei prossimi anni: gli istituti della sopravvenienza (presupposizione e impossibilità sopravvenuta); in particolare nei campi dei contratti: di lavoro, altri di durata (soprattutto locazione); categorie generali: buona fede, solidarietà. Della responsabilità extracontrattuale: (non) imputabilità e sua nozione; danno risarcibile; prova; riflessi sulla responsabilità sanitaria; diritto alla vita, anche nell’ottica della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo.
* Intervento al seminario di Area "Giustizia civile, pandemia e riforme, pensare a lungo termine" - webinar 16 febbraio 2021
Giudici onorari europei a confronto. L’anomalia italiana
di Alessia Perolio*
L’esperienza in seno ad Enalj (European neatwork of honorary and lay judges) in qualità di Future President, prima e di Present President oggi, mi ha permesso di conoscere le varie realtà comunitarie concernenti la magistratura laica ed onoraria.
Da uno studio da me condotto, confrontando le diverse realtà europee ne è emerso che la situazione dei Giudici onorari italiani, rappresenta, nell’intero arco comunitario, un caso isolato, oserei dire un’anomalia, con peculiarità tali da distinguerla nettamente dai colleghi europei.
Dal rapporto del 2014 della Cepej (Commissione Europea per l’Efficienza della Giustizia, costituita dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa nel settembre del 2002) riferito ai dati del 2012, emerge che i giudici non professionali o giudici laici (lay judges) sono in linea generale volontari, sono compensati per le spese da loro sostenute e, solo in alcuni casi, anche per il lavoro estemporaneamente reso; assumono, comunque, decisioni vincolanti nei Tribunali e possono giudicare sia all’interno delle Corti componendo i collegi formati dai giudici professionali, sia come giudici monocratici.
Il rapporto Cepej fornisce anche un altro dato interessante al fine di ricavare informazioni comparative utili, e cioè il rapporto fra il numero di onorari ed il numero di togati per ogni 100.000,00 abitanti: nei paesi nordici, tradizionalmente vicini ai sistemi di common law, il numero degli onorari è di gran lunga superiore a quello dei togati con il picco massimo in Norvegia, dove sono stati registrati 850 onorari su 100.000,00 abitanti.
In Italia, invece, abbiamo il numero più basso di giudici onorari, e cioè 5,5, su 100.000 abitanti
Il giudice non professionista (o laico) nei vari paesi europei è comunemente caratterizzato da instabilità e non prevede né un inquadramento professionale né una pregressa formazione finalizzata allo svolgimento dell’attività giudiziaria: l’onorarietà si fonda sulla volontarietà in relazione ad una riconosciuta esperienza ed onorabilità professionale. Non è necessaria una formazione giuridica pregressa, non è necessaria una laurea in giurisprudenza, requisiti, invece necessari per poter accedere al Concorso per titoli che in Italia è necessario per accedere alla funzione di Giudice Onorario.
Prima di affrontare il caso italiano, è necessario descrivere le singole realtà europee, solo così sarà possibile cogliere immediatamente la grande differenza tra i giudici onorari italiani ed i colleghi europei.
In Belgio non è necessaria una laurea in giurisprudenza per diventare giudice onorario. La funzione svolta va ad affiancarsi a quella di un’altra attività professionale già esercitata e svolta in via prevalente. I Giudici ricevono un rimborso pari ad € 40,75 per udienza, con una sessione di minima di 3 ore. Le somme percepite non contengono alcun importo relativo alla quota pensionistica in quanto in qualità di giudice laico non vi è diritto ad alcun contributo pensionistico relativo a questa funzione e la previdenza riguarda il lavoro principale.
I giudici onorari quando sono malati o assenti per qualsiasi motivo debbono scegliere e/o indicare il nominativo di un collega che prenda temporaneamente il loro posto, ed in quel caso, per il periodo in cui sono assenti dal lavoro non ricevono alcuna indennità e spetta al singolo giudice onorario trovare un reddito sostitutivo attraverso il loro lavoro professionale. In caso di malattia infine non vi è un numero massimo di giorni di assenza dall’incarico a seguito dei quali si decade dalle funzioni. Le stesse regole previste per la malattia valgono anche in caso di infortunio. Per quanto concerne la maternità, non esiste un contributo di maternità.
La designazione come giudice laico in materia commerciale è di 5 anni. Se non si ha la possibilità di ricoprire la carica, si deve chiedere al giudice professionale del tribunale di farsi sostituire per il tempo di cui si ha bisogno. Ci si può anche dimettere o chiedere di non vedersi prolungato l’incarico dopo la fine del mandato. Infine, in materia di sanzioni legate alle funzioni svolte, poiché non sorge alcun rapporto di lavoro né vi è un contratto, i giudici onorari belgi non sono soggetti a sanzioni.
In Polonia non è richiesta la laurea in giurisprudenza e tutti i giudici laici sono onorari, non vi sono figure professionalizzate. Ogni giudice laico ha pertanto in essere, un altro rapporto di lavoro oppure è in pensione e svolge tale funzione. Per quanto concerne le tutele previdenziali e pensionistiche, queste sono a carico del datore di lavoro principale e non del Tribunale. L’incarico dura 4 anni e l’impegno richiesto, per legge, prevede che egli possa essere chiamato in Tribunale per prestare il proprio apporto fino ad un massimo di 12 volte in un anno. Per ogni giorno trascorso in tribunale, il giudice laico ottiene il rimborso delle spese di viaggio e regime, che è impostato al 2,7% dello stipendio del giudice professionista. Attualmente si tratta di una somma di circa € 25,00 al netto delle tasse.
In Danimarca l'amministrazione danese della Corte, autorità amministrativa che si occupa dell'amministrazione generale dei Tribunali danesi, da me contattata, mi ha fornito alcune informazioni relative al trattamento dei giudici laici e dei giurati nei processi penali. Innanzitutto non occorre essere laureati in giurisprudenza per ricoprire la funzione. In alcuni processi penali, il sistema giudiziario danese utilizza giudici laici e giurati. Nei processi penali i giudici laici ed i giurati fanno parte dei giudici legali. I giudici laici e i giurati sono nominati per un periodo di quattro anni, dopo di che è possibile essere riconfermati per altri quattro anni. Quando si serve come giudice laico o giurato, non si è considerati quali impiegati dai tribunali danesi. La Corte precisa che il termine "giudice onorario" non esiste nel sistema giudiziario danese, dove si parla di giudici laici. Quanto al compenso ricevuto, i giudici laici ed i giurati sono pagati 1.100,00 Corone danesi al giorno (circa 140,00 euro) e 120,00 Corone danesi a notte (circa 16,00 euro). I giudici e i giurati laici possono ottenere il rimborso delle spese alberghiere e di viaggio. Essere un giudice laico od un giurato nei processi penali è un dovere civico. Quando si è chiamati a servire come giudice laico o giurato in un processo penale, il datore di lavoro può tagliare il salario per il periodo in cui non si è stati in grado di attendere al lavoro. Il pagamento dei giudici laici e dei giurati è disciplinato nell'atto amministrativo numero 712 del 17 novembre 1987 con successive modifiche. L'atto amministrativo relativo al pagamento dei giudici e dei giurati laici non include la menzione della pensione. È possibile richiedere l'esenzione dall'essere un giudice laico od un giurato se non è possibile adempiere al dovere senza rischiare la salute. La base giuridica di tale esenzione si trova nella legge sull'amministrazione della giustizia sezione 71. Se non si è in grado di servire come giudice laico o giurato in un processo penale, in un giorno specifico, perché malati o perché ci si trova fuori dal paese, si deve informare il tribunale il prima possibile. Se non è possibile fornire una scusa valida per essere assente, si sarà multati.
Anche in Danimarca non è necessario il requisito della laurea in giurisprudenza.
Per quanto concerne la Scozia, ho contattato la Scottish Justices Association, che è l'organo rappresentativo dei Giudici di Pace (JP) in Scozia. Tutti i JP in Scozia sono giudici laici e, in quanto tali, non ricevono alcuna remunerazione per il loro lavoro di giudici negli uffici del giudice di pace. Essi sono volontari e ricevono solo il rimborso delle spese per il loro lavoro. La misura delle spese è decisa a livello centrale ed è fissata a livelli relativamente bassi, il che significa che in alcuni casi l'intero importo delle spese effettive non viene rimborsato. I giudici di pace sono selezionati tramite un colloquio a seguito di pubblicazione di pubblicità volte a reclutare nuovi giudici di pace. Tutti i giudici di pace sono tenuti a ricevere 24 ore di formale formazione legale prima di prendere servizio e non è previsto il requisito di una laurea in giurisprudenza.
Successivamente i giudici di pace sono tenuti a partecipare per un minimo di 12 ore di formazione ulteriore ogni anno e gestiscono solo casi con limiti di valore relativamente bassi, ossia reati relativamente minori. Infatti la pena massima che un giudice di pace può imporre è limitata a 60 giorni di reclusione, 100 ore di servizio comunitario, una multa di 2.500 sterline, sospensione di tre anni dalla guida. I giudici di pace, in definitiva, si occupano solo di processi penali e non possono trattare cause di diritto civile. Se un giudice non sta bene o non può andare in tribunale per qualsiasi motivo, spetta ai tribunali trovare un sostituto per quel giorno.
E’ interessante notare che i giudici di pace scozzesi prestano servizio per un massimo di 12 occasioni separate ogni anno e che una sessione mattutina o pomeridiana contano individualmente, quindi se un giudice di pace presta servizio per un'intera giornata, questo conta come due sedute.
Altresì interessante è che i giudici di pace scozzesi debbono prestare servizio unitamente ad un consulente legale, soggetto che sia legalmente qualificato e che è necessario al fine di assicurare che tutte le rigorose questioni legali siano gestite correttamente.
Poiché i Giudici di Pace non ricevono alcun salario o indennità, non vi è alcun diritto ad alcuna pensione, né indennità di maternità o qualsiasi altra indennità di questo tipo. Quando il Giudice si trova in Tribunale, il datore di lavoro (il Servizio giudiziario scozzese - SCTS) ha il dovere di prestare attenzione ai tribunali, in relazione alla prevenzione di infortuni. la Scottish Justices Association non è a conoscenza di eventuali giudici di pace feriti in Tribunale, ma essi, qualora lo fossero, avrebbero il diritto di chiedere il danno nei tribunali civili.
Anche in Svezia non è richiesta la laurea in giurisprudenza al fine di divenire giudici onorari. Il compenso ricevuto è di 250 Corone svedesi (euro 23,40) per mezza giornata (3 ore) di lavoro o 500 Corone svedesi (euro 46,80) per un'intera giornata.
Non viene riconosciuto alcun contributo pensionistico e i giudici onorari possono scegliere la forma previdenziale privata che ritengono.
In caso di malattia e quindi di assenza dal lavoro, spetterà alla Corte di trovare un sostituto. In caso di infortunio sul lavoro o di incidente in itinere, i giudici onorari svedesi non ricevono alcuna indennità, così come non ricevono un contributo di maternità e non è possibile ottenere un’aspettativa dal lavoro per altri motivi.
In tutte le giurisdizioni in Germania, i giudici volontari - in varia misura - prendono parte alle udienze principali o alle udienze orali. Secondo i requisiti che i giudici onorari devono portare al loro ufficio, è necessario operare una distinzione tra Giudici laici che, in quanto rappresentanti delle persone, non devono soddisfare altri requisiti tecnici oltre all'esperienza di vita generale, la conoscenza della natura umana, la capacità di ragionare logicamente e la capacità di prendere decisioni (giudici laici in materia penale nelle cause contro adulti, giudici onorari presso i tribunali amministrativi), e giudici che devono avere competenze ed esperienze speciali (non legali) (giudici commerciali, giudici junior, giudici onorari in contenzioso del lavoro, sociale, finanziario e agricolo); nonché giudici che, in rappresentanza di uno specifico ramo professionale, partecipano alle procedure e alle decisioni di giurisdizione riguardanti la propria professione.
In Germania esistono diversi modi per diventare un giudice onorario nelle diverse giurisdizioni. I giudici onorari sono eletti o nominati per un periodo di 5 anni ed è consentita una successiva elezione o nomina.
Tutti i giudici laici e onorari non sono pagati per la loro carica. Chi è altresì un dipendente o un funzionario, ha diritto ad un'esenzione. Ciò significa che il datore di lavoro non deve pagare lo stipendio per il tempo in cui il proprio dipendente partecipa ad un processo. Il dipendente viene, quindi, rimborsato del mancato guadagno dal tribunale, ma solo fino a un importo di 24,00 € lordi l'ora. Se il dipendente guadagna più di 24,00 €/h, il datore di lavoro deve pagare l'importo aggiuntivo. Tuttavia, in alcuni contratti di lavoro è esclusa la continuazione del pagamento, cosicché questi dipendenti perdono denaro a causa dell'attività in tribunale. Poiché i lavoratori autonomi guadagnano generalmente più di 24,00 €/h, subiscono anche perdite finanziarie. Il risarcimento per la perdita di guadagno aumenta fino a € 46,00 l'ora se il processo richiede più di 20 giorni e fino a € 61,00 se il processo richiede più di 50 giorni, ma mai più della perdita effettiva di guadagno. Le casalinghe ricevono sempre 14,00 € l'ora se almeno un'altra persona vive nella famiglia. Questa compensazione è tassabile come il reddito normale. Ogni giudice onorario riceve inoltre 6,00 € l'ora come risarcimento per il tempo impiegato. Questa compensazione è esentasse.
Poiché il risarcimento per mancato guadagno è pagato al lordo, include anche le quote per i contributi previdenziali - come pensione e assicurazione sanitaria - e l'imposta sul salario. Tuttavia, i dipendenti possono richiedere che il datore di lavoro versi i contributi previdenziali alla compagnia di assicurazione così come se il dipendente avesse ricevuto la sua intera retribuzione. Il datore di lavoro deve accogliere la domanda. Ma ciò significa che alla fine della giornata il dipendente paga la quota per la sicurezza sociale, perché il suo stipendio era stato decurtato prima e il datore di lavoro invia i soldi solo all'assicurazione sociale. I lavoratori autonomi versano la quota dei contributi previdenziali derivanti dalla loro indennità alla loro compagnia di assicurazione privata.
Da alcuni anni, l'Associazione Federale Tedesca dei Giudici Laici chiede che la legge sia modificata. I dipendenti dovrebbero avere diritto a una retribuzione continuativa e chiedono che il datore di lavoro sia completamente risarcito dalla magistratura come avviene in altri uffici pubblici onorifici, come ad esempio nella protezione civile. I giudici onorari sono esentati dal comparire in tribunale se sono impediti o se è irragionevole comparire ed in caso di malattia, il giudice impedito sarà sostituito da un altro giudice onorario da una lista speciale. Durante il viaggio per recarsi in tribunale i giudici volontari sono legalmente assicurati contro gli infortuni. Questa assicurazione legale sussiste se nessun'altra assicurazione contro gli infortuni risarcisce il danno. Sono assicurate solo lesioni personali, nessun danno alla proprietà.
In generale, l'obbligo di assistere alle sedute giudiziarie ha la precedenza su tutti gli altri obblighi. Solo se la partecipazione è irragionevole il Presidente può esonerare il giudice onorario dalla partecipazione e convocare un altro giudice onorario. Nei processi penali, in particolare, tale esenzione è strettamente controllata dagli avvocati della difesa. La ragione di ciò è scritta nell'articolo 101 della Legge fondamentale (Costituzione tedesca): "Nessuno può essere rimosso dal suo giudice legale". La nomina del tribunale che include i giudici onorari rappresenta "il giudice legale". Questa nomina può essere modificata solo per importanti motivi previsti dalla legge. Altrimenti la sentenza può essere impugnata. L'esonero dalla partecipazione deve essere richiesto separatamente per ogni processo.
Infine occorre specificare che in Germania i giudici laici partecipano solo ai negoziati orali e devono solo presenziare, essi non prendono parte alla preparazione del negoziato o alle misure al di fuori del negoziato. Pertanto, non vi è alcun collegamento tra la magistratura e i giudici onorari su qualsiasi questione di diritto sociale o del lavoro, ad eccezione del risarcimento e dell'assicurazione contro gli infortuni. In definitiva i giudici onorari tedeschi sono rappresentanti delle persone (con o senza competenze speciali) nell'assunzione di prove e nel formulare giudizi.
In Italia si è creato un sistema anomalo perché il funzionamento della giurisdizione affidato, secondo il disegno costituzionale, a magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme dell’ordinamento giudiziario (102 Cost.), con previsione solo residuale di magistrati onorari (art. 106 Cost. ) di cui viene ammessa la nomina anche elettiva – si fonda, attualmente, su una significativa presenza dei giudici onorari senza la quale alcuni uffici si paralizzerebbero. L’istituzione dei giudici onorari di Tribunale nel 1998 ha rappresentato, nella sostanza, la creazione di un sostanziale precariato fondato su reiterate proroghe negli incarichi e caratterizzato da un trattamento retributivo ritenuto, insufficiente e caratterizzato dall’assenza di ogni copertura previdenziale ed assistenziale.
Tale situazione, del tutto normale rispetto ai giudici laici europei la cui presenza nelle corti è saltuaria o, comunque, del tutto volontaria (con assenza, quindi, di veri compensi e con la corresponsione di meri rimborsi spese), risulta incongruente nella realtà nazionale se solo si pensi che i giudici onorari italiani, che accedono alla funzione a seguito di un concorso per titoli per il quale è necessitano il requisito della laurea in giurisprudenza, gestiscono nel settore civile il 40% della giurisdizione, in molti casi con presenze anche bisettimanali, ma in molti casi giornaliere, in udienza a cui consegue la stesura dei provvedimenti assunti.
I Giudici onorari di Tribunale ed i Vice Procuratori Onorari, istituiti con il D.lvo 51/1998 (c.d. legge Carotti) modificato con la L. 127/2008, sono ancora in attesa di un riordino complessivo del loro ruolo, modificato con D.Lgst. 116/17, c.d. Legge Orlando, già oggetto di revisione.
I Giudici onorari di Pace, questa è la nuova formulazione letterale, sono soggetti, che a differenza dei colleghi europei, sono ben inquadrati nella compagine dei vari tribunali di cui fanno parte. La loro presenza è regolamentata, la loro attività è inserita nelle Tabelle che vengono redatte dai tribunali al fine di regolamentare l’attività svolta e gli impegni previsti. L’attività dei giudici onorari è soggetta a valutazione ogni quattro anni al fine della conferma nell’incarico, e la procedura è molto simile a quella utilizzata per la valutazione di professionalità dei magistrati ordinari. La relazione sulla loro attività è sottoposta al vaglio del Consiglio Giudiziario ed infine inviata al Consiglio Superiore della Magistratura per la decisione definitiva.
I giudici onorari sono soggetti alle direttive dei capi degli uffici, partecipano alle riunioni periodiche di sezione e del tribunale. Inoltre, a differenza della maggior parte dei colleghi europei, i giudici onorari italiani scrivono provvedimenti ed emettono Sentenze nel nome del Popolo Italiano.
Infine, cosa non di poco conto, sono soggetti all’obbligo di formazione e debbono partecipare agli eventi formativi sia a livello nazionale presso la Scuola Superiore di Magistratura, sia a livello di formazione decentrata presso i distretti di Corte d’Appello cui appartengono, e la presenza agli eventi formativi è valutata ai fini della riconferma nell’incarico.
Da quanto fin qui detto emerge che l’onorarietà in Italia è ben diversa da quella esistente nel resto d’Europa, posto che ci sono giudici onorari che prestano servizio presso lo stesso ufficio da più di 20 anni e che vengono stabilmente utilizzati in sostituzione dei giudici ordinari assenti od insufficienti.
L’impegno richiesto ai giudici onorari giunge in alcuni casi a 4/5 giorni alla settimana ed è comunque richiesta una quantità tale di lavoro fuori udienza (non remunerato in alcun modo, per lo meno per quanto concerne i giudici onorari di pace di tribunale) da rendere difficilmente conciliabile lo svolgimento di qualsiasi altra attività, per cui, di fatto, questa risulta essere la principale, o l’unica attività svolta.
L’intento della Riforma Orlando era quello di creare, anche in Italia, un giudice onorario più aderente al modello di giudice laico europeo, tuttavia la specifica situazione italiana è nettamente differente da quel modello e di ciò se ne doveva e se ne deve tenere conto.
*Presidente in carica di Enalj: European Network of Associations of Lay Judges
L’assetto pluralistico delle giurisdizioni tra Costituzione e diritto dell’Unione Europea
L’ordinanza delle Sezioni Unite n. 19598/2020 ha dato forte impulso al dibattito sul tema dei confini delle giurisdizioni, compresa quella comunitaria.
Tra le diverse iniziative intraprese sull’onda delle recente ordinanza delle Sezioni Unite si segnala il convegno organizzato dall’Università degli Studi di Milano al quale hanno partecipato Riccardo Villata, Guido Corso, Franco Scoca, Margherita Ramajoli, Dari de Pretis, Roberto Bin, Nicolò Zanon e Luca Bertonazzi.
Giustiziainsieme mette a disposizione dei propri lettori la videoregistrazione del convegno.
Natura e regime della responsabilità civile della pubblica amministrazione al vaglio dell’adunanza plenaria (nota a Consiglio di giustizia amministrativa, sez. giur., 15 dicembre 2020, n. 1136) di Michele Trimarchi
Sommario: 1. La vicenda e la ricostruzione del nesso di causalità. La prima questione sollevata – 2. La proposta di una rivisitazione del paradigma della responsabilità dell’amministrazione lungo due direttrici – 3. Prima direttrice. La riconduzione della responsabilità della pubblica amministrazione al modello della responsabilità contrattuale – 3.1. Il regime attualmente applicato dalla giurisprudenza e la sua sostanziale vicinanza a quello della responsabilità contrattuale – 3.2. Argomenti teorici a sostegno dell’adozione del modello della responsabilità contrattuale – 3.3. Conseguenze della piena applicazione del modello della responsabilità contrattuale – 4. Seconda direttrice. L’inquadramento della responsabilità contrattuale nell’ambito del rapporto di diritto pubblico – 4.1. Interesse legittimo e potere amministrativo nel rapporto di diritto pubblico – 4.2 Impatto dei caratteri del rapporto di diritto pubblico in punto di valutazione del danno evento e del danno conseguenza – 5. Le questioni sottoposte all’adunanza plenaria alla luce della proposta di revisione del paradigma della responsabilità civile della pubblica amministrazione – 6. Brevi considerazioni – 6.1. Sullo stile e la tecnica argomentativa – 6.2. Sull’inquadramento della proposta del C.g.a. nel perdurante dibattito sulla risarcibilità dell’interesse legittimo – 6.3. Sull’utilizzo di schemi privatistici per la ricostruzione della responsabilità della pubblica amministrazione.
1. La vicenda e la ricostruzione del nesso di causalità. La prima questione sollevata
Una impresa presenta istanza di autorizzazione unica ambientale per l’insediamento di un impianto fotovoltaico. Ottiene il rilascio della stessa solo in esecuzione di plurime sentenze che hanno accertato la formazione del silenzio-inadempimento sull’istanza e ordinato all’amministrazione di provvedere. La correlata richiesta di risarcimento del danno è dichiarata inammissibile dal T.a.r. Sicilia, ma la stessa è riproposta davanti al C.g.a. dal momento che, nelle more del rilascio dei provvedimenti autorizzatori, il legislatore ha sostanzialmente azzerato gli incentivi per gli impianti fotovoltaici, rendendo di fatto impossibile l’iniziativa imprenditoriale del ricorrente. Di qui la decisione di non provvedere con la realizzazione degli impianti e la conseguente richiesta risarcitoria in termini di danno emergente e soprattutto lucro cessante.
Osserva il C.g.a. che, applicando al caso di specie la teoria della c.d. condizionalità materiale – secondo la quale “la condotta umana è causa dell’evento se senza di essa (rectius, “con la condotta obbligatoria”) l’evento non si sarebbe verificato (formula positiva), mentre può ritenersi causalmente rilevante quando, senza di essa (con essa), l’evento si sarebbe verificato ugualmente (formula negativa)” –, l’amministrazione andrebbe considerata responsabile, in quanto senza la sua condotta omissiva (id est, con la condotta lecita) la lesione del bene della vita di cui la ricorrente è titolare non si sarebbe realizzata (essa avrebbe conseguito il finanziamento e avviato l’iniziativa imprenditoriale).
Nondimeno – rileva la sentenza in commento – la giurisprudenza è solita applicare correttivi al criterio della causalità materiale, al fine di evitare una incontrollata espansione dei risarcimenti a fattispecie nelle quali il danno è in realtà imputabile anche ad una c.d. concausa. A ciò mirano la teoria della causalità adeguata, la teoria della causalità umana e quella della imputazione obiettiva dell’evento[1].
Nel caso di specie, è vero che, se l’amministrazione avesse agito in tempo, l’aspettativa sostanziale dell’impresa sarebbe stata soddisfatta, ma è pur vero che, in concreto, quella aspettativa è frustrata non dalla inerzia degli uffici, ma dalla sopravvenienza normativa: se quest’ultima non fosse intervenuta, l’inerzia dell’amministrazione avrebbe potuto ledere soltanto il bene tempo, non l’aspettativa sostanziale (il c.d. bene della vita relativo all’an della iniziativa imprenditoriale)[2].
Da qui il dubbio del C.g.a. che la sopravvenienza, innescando un decorso causale atipico, sia da considerare interruttiva del nesso causale e quindi escluda la responsabilità dell’amministrazione. Ecco allora la prima questione sottoposta all’adunanza plenaria: “se il nesso di causalità della fattispecie risarcitoria di tipo omissivo sia interrotto o meno se, successivamente all’inerzia dell’Amministrazione su istanza pretensiva del privato, di per sé foriera di ledere il solo bene tempo, si verifica una sopravvenienza normativa che, impedendo al privato di realizzare il progetto al quale l’istanza era preordinata, determina la lesione dell’aspettativa sostanziale sottesa alla domanda presentata all’Amministrazione, che sarebbe stata comunque soddisfatta, nonostante l’intervenuta nuova disciplina, se l’Amministrazione avesse ottemperato per tempo”[3].
Il C.g.a. non manca di far trasparire la sua opinione: se si vuol evitare di pervenire alla conclusione, altrimenti ineluttabile, che la sopravvenienza normativa interrompe il nesso causale, l’unica soluzione possibile consiste nell’applicare la teoria dello scopo della norma violata (una variante della teoria della imputazione obiettiva dell’evento), alla cui stregua la condotta può considerarsi causa dell’evento “quando determina un evento che costituisca concretizzazione dello specifico rischio che la norma […] mira a prevenire”[4]. A questo proposito il C.g.a. osserva che l’obbligo di concludere il procedimento entro il termine previsto dall’art. 2 della l. n. 241/1990 non rappresenta un “mero canone generale dell’attività amministrativa”, bensì una precetto nel cui scopo rientra “la finalità di evitare le vicende normative che intervengono sul bene della vita finale nel periodo di inottemperanza dell’amministrazione”. Su queste premesse, il mancato rispetto dei termini di conclusione del procedimento può essere considerato causa del danno lamentato dalla ricorrente, in quanto col suo ritardo l’amministrazione ha esposto il privato al rischio che la norma violata intendeva scongiurare[5].
2. La proposta di una rivisitazione del paradigma della responsabilità dell’amministrazione lungo due direttrici.
Individuata la prima questione da sottoporre all’adunanza plenaria, il C.g.a. propone una ricostruzione alternativa del sistema della responsabilità civile della pubblica amministrazione, largamente sovrabbondante rispetto alla decisione del caso di specie, ma comunque rilevante per la stessa in quanto nell’ambito di tale ricostruzione alternativa anche la questione della sopravvenienza riceve una sistemazione diversa da quella sin qui presa in considerazione.
La ricostruzione alternativa che il C.g.a. sottopone alla adunanza plenaria si articola lungo due direttrici: la qualificazione della responsabilità dell’amministrazione come responsabilità contrattuale e il riconoscimento di un ruolo decisivo nella fattispecie risarcitoria ai caratteri del rapporto giuridico di diritto pubblico.
Più esattamente, secondo il C.g.a. la responsabilità della pubblica amministrazione per l’esercizio, o il mancato esercizio, dei poteri autoritativi alla medesima intestati è assimilabile alla responsabilità contrattuale, e gli effetti di tale inquadramento si devono apprezzare “in relazione al rapporto di diritto pubblico sotteso alla nascita della obbligazione risarcitoria”[6].
3. Prima direttrice. La riconduzione della responsabilità della pubblica amministrazione al modello della responsabilità contrattuale.
3.1. Il regime attualmente applicato dalla giurisprudenza e la sua sostanziale vicinanza a quello della responsabilità contrattuale
Quanto alla qualificazione della responsabilità della pubblica amministrazione come responsabilità contrattuale, il C.g.a., dopo aver richiamato i noti orientamenti della Corte di Cassazione in questa direzione[7], osserva che la giurisprudenza amministrativa, malgrado si attenga sul piano teorico al modello della responsabilità extra contrattuale, ha ormai delineato un regime derogatorio rispetto a quel modello, tanto che “le modalità pratiche attraverso le quali vengono scrutinati i requisiti della fattispecie risarcitoria avvicinano la suddetta responsabilità alla categoria della responsabilità contrattuale, prima e senza che tale assimilazione venga sancita a livello teorico”[8].
Ed infatti:
a) gli oneri di allegazione e di prova a carico del cittadino non differiscono, “quanto a portata e a difficoltà integrativa”, dagli oneri del contraente che si assume leso dall’inadempimento della controparte. In entrambe le fattispecie, fatti salvi casi particolari, è sufficiente la dimostrazione dell’inadempimento (contrattuale o alle regole procedurali) e la prova della esistenza della situazione giuridica soggettiva (credito o interesse legittimo);
b) quanto alla dimostrazione dell’elemento soggettivo, essa è fornita con la semplice allegazione della illegittimità del provvedimento amministrativo, la quale integra una presunzione semplice in ordine alla colpa dell’amministrazione; mentre, nella materia degli appalti, la prova dell’elemento soggettivo non è proprio richiesta. Tutto ciò “imprime un connotato oggettivo ad un requisito per definizione soggettivo quale quello della colpa”. La responsabilità è ascritta all’amministrazione secondo un criterio oggettivo, tipico del regime della responsabilità contrattuale;
c) quanto ai rapporti tra tutela per equivalente ed in forma specifica, il C.g.a. osserva che, a fronte del danno arrecato dall’esercizio o dal mancato esercizio del potere pubblico, “la giurisprudenza accorda prevalenza allo svolgimento e alla rinnovazione dell’attività amministrativa rispetto al risarcimento per equivalente”, nel senso che la sentenza del giudice (di condanna o di annullamento, in questo caso attraverso l’effetto conformativo) impone all’amministrazione di provvedere, quindi di soddisfare “l’interesse specifico di cui è portatore il privato e, solo in seguito all’accertata impossibilità di provvedere in tal senso, è accordata la tutela risarcitoria per equivalente”. Pertanto, nella responsabilità dell’amministrazione non si riscontra quella sorta di preferenza per il risarcimento per equivalente rispetto al risarcimento in forma specifica che è tipica della responsabilità extracontrattuale, laddove la soddisfazione in forma specifica del danneggiato è subordinata alla valutazione di eccessiva onerosità per il debitore;
d) sul piano della funzione, la responsabilità della amministrazione risponde ad una logica meramente compensativa, analogamente alla responsabilità contrattuale. Alla responsabilità dell’amministrazione non è possibile riconoscere anche funzioni di deterrenza e sanzionatorie, che invece si riscontrano nella responsabilità extracontrattuale, in quanto ciò comporterebbe aggravi aggiuntivi di spesa pubblica[9]. “D’altro canto, la funzione afflittiva e di deterrenza è presidiata nei confronti dei dipendenti pubblici che concretamente agiscono”.
3.2. Argomenti teorici a sostegno dell’adozione del modello della responsabilità contrattuale
Per quanto sin qui visto, la riconduzione delle responsabilità della amministrazione. allo schema della responsabilità contrattuale, secondo il C.g.a., è già nelle cose. Ma il Collegio di questo non si accontenta e passa quindi a enucleare le ragioni teoriche che, a suo avviso, rendono preferibile la adesione al modello della responsabilità contrattuale[10].
La premessa è che la responsabilità contrattuale interviene nell’ambito di un rapporto (il rapporto obbligatorio) in cui gli “interessi in gioco hanno già trovato una loro regolamentazione quanto a misura e modalità di soddisfazione. Di conseguenza, l’inadempimento del debitore integra al contempo il non iure, essendo violativo della regola contrattuale, e il contra ius, essendo lesivo dell’interesse sotteso alla obbligazione”[11]. È per questo che è il danneggiato non ha altro onere che quello di allegare l’inadempimento.
Viceversa, la responsabilità extracontrattuale “interviene in ambiti dove la regolamentazione dell’interesse non è precedente al fatto dannoso”[12]. Di conseguenza, per configurare la responsabilità non basta che la condotta sia in spregio alla regola del neminem laedere (il che integra il requisito nel non iure), ma occorre verificare anche la meritevolezza dell’interesse e l’offesa arrecata a quest’ultimo (contra ius), nonché il relativo nesso di causalità.
Ora, la responsabilità dell’amministrazione presenta le caratteristiche della responsabilità contrattuale, in quanto sorge nell’ambito di un rapporto giuridico (di diritto pubblico) nel quale “sono indicate le norme di condotta che l’Ente deve osservare”: sicché, “violando le regole dell’azione amministrativa e del provvedimento, la parte pubblica ignora norme ben più precise e circostanziate del generico dovere di neminem laedere”[13].
La violazione di queste regole “integra […] il requisito del non iure senza soluzione di continuità” e, dando luogo ad un uso illecito del potere, si traduce automaticamente nell’offesa della situazione giuridica del privato, poiché il potere pubblico costituisce lo strumento a disposizione del titolare dell’interesse legittimo per soddisfare il bene della vita a cui aspira.
In sostanza, nella responsabilità dell’amministrazione non iure e contra ius coincidono esattamente come nell’inadempimento del debitore nell’ambito del rapporto obbligatorio; coincidono, nel senso che entrambi i requisiti sono soddisfatti nel momento in cui l’amministrazione viola una regola di condotta, protettiva dell’interesse legittimo[14].
3.3. Conseguenze della piena applicazione del modello della responsabilità contrattuale
Le novità che questo inquadramento comporta rispetto all’assetto consolidato della giurisprudenza, che per molti versi è già assimilabile al regime della responsabilità contrattuale, sono essenzialmente due, e il C.g.a. è interessato soprattutto alla seconda[15].
La prima è che, per ottenere il risarcimento, si impone la previa costituzione in mora dell’amministrazione, che cessa di essere ex re, come è nella responsabilità extracontrattuale.
La seconda è “l’applicabilità del canone della prevedibilità del danno (art. 1225 c.c.), nel senso che, in caso di colpa, è risarcibile solo il danno prevedibile al momento in cui è sorta l’obbligazione”.
Nei rapporti interprivati questa limitazione ha la funzione di mettere le parti in condizione di predefinire il rischio connesso alle reciproche prestazioni e quindi di calcolare il valore delle stesse soppesando le conseguenze di un eventuale inadempimento.
La prevedibilità del danno come criterio limitativo della responsabilità è strumento congeniale anche alla amministrazione, in considerazione del principio per cui essa essa deve attendere agli interessi pubblici con una efficiente organizzazione delle risorse a sua disposizione. Ed infatti, la circostanza di non poter essere chiamata a rispondere dei danni imprevedibili la mette nelle condizioni di soppesare le conseguenze delle proprie azioni, comprensive anche di eventuali esborsi conseguenti a responsabilità[16].
4. Seconda direttrice. L’inquadramento della responsabilità contrattuale nell’ambito del rapporto di diritto pubblico
4.1. Interesse legittimo e potere amministrativo nel rapporto di diritto pubblico
L’altra direttrice su cui si articola lo sforzo teorico del C.g.a. consiste nell’inquadramento della responsabilità dell’amministrazione, come responsabilità contrattuale, nell’ambito del rapporto di diritto pubblico sotteso alla obbligazione risarcitoria[17].
Qui il C.g.a. offre una puntuale ricostruzione dell’interesse legittimo, definito come la “pretesa del privato a che l’Amministrazione faccia quanto l’ordinamento giuridico le consente per soddisfare le esigenze sostanziali, meritevoli di tutela, di cui è portatore (il c.d. bene della vita)”[18].
Esso è la risultante della “imposizione di limiti agli ambiti di intervento pubblico e di regole finalizzate a considerare la posizione e l’esigenza dei destinatari dell’azione pubblica”; regole, comprensive di obblighi comportamentali, che peraltro sono poste anche a presidio dell’amministrazione.
Secondo la definizione che ne è data, l’interesse legittimo è strumentale alla soddisfazione di una situazione sottostante, detta situazione di base, che può avere consistenza di diritto costituzionalmente protetto, diritto soggettivo, diritto potestativo, aspettativa, situazione di fatto meritevole di tutela[19].
La situazione di base è dunque una situazione esterna, diversa dall’interesse legittimo; ma il collegamento di strumentalità di quest’ultimo alla prima è elemento costitutivo dell’interesse legittimo medesimo, in quanto “non vi è riconoscimento di interesse legittimo se non in quanto il titolare abbia, in base all’ordinamento giuridico, la chance di ottenere la soddisfazione della pretesa sostanziale”[20].
Di conseguenza, non può ritenersi che l’interesse legittimo abbia quale unico contenuto le prerogative procedimentali di partecipazione al procedimento in quanto esse, neppure ”in potenza” sono idonee a offrire soddisfazione all’esigenza del privato”; esigenza che può invece trovare soddisfazione soltanto attraverso l’esercizio del potere pubblico, il quale pertanto costituisce il contenuto dell’interesse legittimo, in quanto “unica risorsa a disposizione del privato per ottenere soddisfazione piena in forma specifica”[21].
Se il collegamento con la situazione di base è requisito dell’interesse legittimo, l’interesse legittimo d’altra parte non assicura la soddisfazione della pretesa sostanziale, poiché essa potrebbe rimanere insoddisfatta pur nel rispetto dei doveri di comportamento del soggetto pubblico. Ciò dipende dal fatto che “l’interesse sostanziale al bene della vita del privato è tutelato compatibilmente con gli altri interessi, pubblici e privati, che l’Amministrazione è tenuta a considerare”. Infatti “la persona giuridica pubblica è connotata proprio dal fatto che il suo statuto soggettivo è fisiologicamente permeato dalla pluralità di interessi da perseguire e bilanciare e financo, in caso di interesse pubblico, da individuare nella loro compiuta conformazione”[22].
4.2. Impatto dei caratteri del rapporto di diritto pubblico in punto di valutazione del danno evento e del danno conseguenza
Rispetto al tema della responsabilità, il C.g.a. sottolinea che il rapporto di diritto pubblico è caratterizzato da un “coacervo di interessi” privati e pubblici, all’interno del quale l’amministrazione occupa una “difficile posizione”, essendo “per natura […] esposta a un rischio elevato di volare situazioni giuridiche soggettive”[23].
Questa caratteristica del rapporto comporta che nel giudizio di accertamento del danno evento debbano trovare applicazione i principi di tolleranza e solidarietà, alla stregua dei quali la lesione dell’interesse legittimo, che scaturisce automaticamente dalla condotta illecita dell’amministrazione (come abbiamo visto, non iure e contra ius coincidono e sono integrati dalla violazione della regola di condotta), può dar luogo a risarcimento solo se la posizione complessiva del privato sia stata “incisa, al pari di quanto accade per il danno non patrimoniale, oltre una certa soglia minima, cagionando un pregiudizio serio”[24].
“Ne deriva che difficilmente può ottenere tutela, già nella fase dello scrutinio del danno evento, la violazione di meri canoni procedurali che non corrispondono, attraverso l’interesse legittimo, a una violazione della situazione di base”. Al contrario, il danno evento si configura solo ove la condotta dell’amministrazione “colpisca in modo serio l’interesse legittimo, intersecando la situazione di base”, il che “si verifica quando la fondatezza della pretesa sostanziale è accertata da un provvedimento amministrativo (come nel caso di specie) o da una pronuncia giurisdizionale”; per quanto non si escluda che, “in determinate situazioni di particolare gravità dell’offesa, possano trovare tutela situazione di base non meritevoli di essere soddisfatte dal potere pubblico”[25].
Sotto il profilo del danno conseguenza, le caratteristica del rapporto – ovvero la presenza di un “composito insieme di interessi coinvolti dall’attività amministrativa” – comporta che nel giudizio di responsabilità si debba tenere presente non soltanto la posizione della vittima, ma anche quella delle “ulteriori soggettività coinvolte nell’azione di amministrazione attiva e della stessa Amministrazione, in quanto portatori di interessi meritevoli di tutela”. In particolare, per quanto riguarda la posizione dell’amministrazione, va tenuto presente che, in ragione della scarsità delle risorse dell’erario, “l’uso dei mezzi finanziari per risarcire il danneggiato drena denaro pubblico dalle funzioni che deve perseguire per legge” e che il giudizio di ottemperanza è capace di assicurare un livello di tutela maggiore a tutti gli interessi coinvolti, a fronte di un minor dispendio di risorse.
Occorre considerare “in ultima analisi, gli interessi pubblici intestati all’Amministrazione, già offesi dalla condotta illecita congiuntamente all’interesse privato di cui si chiede la riparazione, subiscono un ulteriore conseguenza sfavorevole dall’adempimento dell’obbligo risarcitorio, specie allorquando lo Stato, inteso in senso complessivo, è fortemente indebitato e il costo del debito è superiore al tasso di crescita del PIL”[26].
Conclusivamente, se le novità derivanti dalla applicazione piena del regime della responsabilità contrattuale consistono nella applicazione del criterio della prevedibilità del danno, nei termini visti, “le novità giurisprudenziali che derivano dalla considerazione attribuita al rapporto di diritto pubblico nell’ambito della nascita dell’obbligazione risarcitoria attengono al rigoroso scrutinio richiesto al fine di valutare il danno evento e il danno conseguenza”[27].
5. Le questioni sottoposte all’adunanza plenaria alla luce della proposta di revisione del paradigma della responsabilità civile della pubblica amministrazione.
La seconda questione che il C.g.a. sottopone alla plenaria è se il paradigma proposto (incentrato sulla natura contrattuale della responsabilità e sulla teoria del rapporto di diritto pubblico) sia da accogliere, con le conseguenze illustrate in punto di applicazione del criterio di prevedibilità e quantificazione del danno[28].
In caso di risposta positiva, con la terza questione il C.g.a. chiede se la sopravvenienza normativa vada presa in considerazione a proposito della prevedibilità del danno o della quantificazione dello stesso. Nel primo caso, la sopravvenienza normativa escluderebbe la responsabilità della pubblica amministrazione in quanto essa non è imputabile all’amministrazione[29].
Nel secondo caso, cioè ove la sopravvenienza andasse presa in considerazione a proposito della quantificazione del danno, si dovrebbe tener conto di quanto visto a proposito del particolare rigore con cui i danni devono essere apprezzati nell’ambito del rapporto di diritto pubblico.
In particolare, andrebbe considerato che il ritardo dell’amministrazione nel provvedere, sia pur integrando una condotta illecita, “si è risolto nel soddisfacimento in massimo grado dell’interesse (nuovo) fatto proprio dal Legislatore e sfociato nella norma primaria preclusiva alla incentivazione”. Stando così le cose, il ristoro de danno lamentato della ricorrente non può che arrestarsi “al momento in cui fa ingresso il factum principis”, altrimenti “verrebbe tutelata una […] posizione contrastante con l’interesse primario come determinato dall’assetto di interessi rinnovato dal Legislatore, specie in ragione della scarsità delle risorse pubbliche (che quindi verrebbero indirizzate verso un interesse non più attuale a discapito di esigenze attuali”[30].
In altre parole, i danni “verificatesi dopo che l’ordinamento nel suo complesso non ha ritenuto più meritevole di tutela l’interesse leso” non andrebbero risarciti in quanto “costituirebbe inspiegabile antinomia” quella per cui l’amministrazione “debba rispondere di danni cagionati al privato istante per avere (con la propria colposa inerzia) cagionato l’evento “voluto” – seppure ex post rispetto al momento in cui la stessa avrebbe dovuto deliberare – dal legislatore”[31].
In ogni caso, con la formulazione della quarta questione (“se debba o meno essere riconosciuta la responsabilità della Regione per il danno da mancata vendita dell’energia nei termini, anche probatori sopra illustrati”) il C.g.a. propone di distinguere tra il danno da mancata percezione dell’incentivo, che sarebbe liquidabile, dal danno da mancata vendita dell’energia. Di quest’ultimo l’amministrazione non potrebbe essere ritenuta responsabile poiché la particolare natura dell’interesse legittimo “impedisce il risarcimento del danno afferente alle libere scelte imprenditoriali, anche se è provato che le conseguenze dannose prodotte sul versante imprenditoriale abbiano quale fonte la condotta dell’ente, in quanto la lesione dell’interesse legittimo da parte dell’amministrazione col provvedimento tardivo “interviene soltanto sulla portata pubblicistica dell’interesse del privato”[32].
Secondo il C.g.a. la teoria del rapporto di diritto pubblico ha riflessi sul regime della responsabilità dell’amministrazione, e in particolare sulla quantificazione del danno anche se non si accogliesse la tesi della natura contrattuale della responsabilità. Da qui le ulteriori questioni sollevate, la quinta e la sesta, presentati in via subordinata per il caso che l’adunanza plenaria non condividesse la qualificazione della responsabilità come r. contrattuale[33].
Con la quinta questione sollevata si chiede se, malgrado l’applicazione del regime della responsabilità aquiliana, si possa sollevare l’amministrazione dalla responsabilità per i danni derivanti dalla sopravvenienza normativa in quanto trattasi di fatto imprevedibile. In caso di risposta negativa, si domanda se ciò non sia incompatibile con l’art. 81 comma 3, Cost., atteso che un’azione risarcitoria svincolata dal parametro del danno prevedibile “comporterebbe un aggrazio ed una imprevedibilità di costi, impedendo una corretta programmazione della spesa pubblica”.
6. Brevi considerazioni
6.1. Sullo stile e la tecnica argomentativa
Un primo ordine di considerazioni che la lettura della sentenza suscita attiene allo stile e alla tecnica argomentativa utilizzata.
Si deve al riguardo premettere che, per precise ragioni storiche, nel nostro ordinamento “non esiste un autentico stylus sententiae”, per cui in linea di massima la tecnica argomentativa è rimessa “alla prudenza dell’estensore”[34]. Detto questo, non si può non rilevare che la sentenza in commento integra a tutti gli effetti il modello della sentenza-trattato dottrinale additato da Gorla. Essa testimonia l’estesa cultura giuridica dell’estensore, mostra l’apertura del giudice amministrativo alle esperienze degli altri settori dell’ordinamento, denota una spiccata sensibilità al confronto con le impostazioni della dottrina. Nondimeno, la motivazione è prolissa e sovrabbondante nelle argomentazioni e nelle dissertazioni in diritto, contiene numerosi obiter dicta, spesso indugia su considerazioni di carattere generale, talora inconferenti rispetto alle stesse pretese di rifondazione dogmatica dell’istituto che muovono il C.g.a.. In breve, non sembra sia stata tenuta a mente “la regola aurea che la chiarezza e l’incisività espositiva è data anzitutto dall’economia espositiva”, tanto che il lettore è chiamato a un notevole impegno per ricostruire “l’ordine degli argomenti, la loro coesione”[35].
È dubbio quanto una siffatta motivazione sia conforme all’art. 3 del codice del processo amministrativo, per il quale (comma secondo) “Il giudice e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica, secondo quanto disposto dalle norme di attuazione”[36]: come è stato osservato, il fatto che tale precetto abbia trovato specificazione in un Decreto del Presidente del Consiglio di Stato solo per i “ricorsi e […]gli altri atti difensivi”, cioè solo per le parti[37], “non degrada per il giudice il precetto a suggerimento e non lo esime dal dovere di sinteticità, pur in assenza di quelle regole analitiche: come al rispetto, insieme a quello, del parallelo e complementare dovere di chiarezza […]”[38].
Del resto, le sentenze-trattato suscitano perplessità anche alla luce di considerazioni più profonde, di cui la stessa dottrina togata, nelle sue massime espressioni, si è fatta raffinato interprete. Il punto essenziale è che la sentenza-trattato “tende a perdere la sua configurazione come tale”[39] in quanto si preoccupa “di argomentare e di divagare, invece che adempiere al compito proprio del giudice, che è quello di decidere”[40]. È stato ricordato in proposito che “La sentenza è la sede formale ove la legge viene portata a compimento, cioè, ove la regola è attuata e la disposizione diviene norma. La chiarezza della sentenza è essenziale, quindi, sia per la sua funzione endoprocessuale, cioè per la comprensione delle parti della soluzione del caso, sia per quella extraprocessuale di precedente giurisprudenziale che indica come la fonte normativa si attua. La tendenziale uniformità di interpretazione della legge, nelle sue funzioni di certezza del diritto (prevedibilità delle conseguenze di un comportamento), eguaglianza dei soggetti di fronte alla legge (eguale applicazione della legge in eguale situazione), unità del diritto dello Stato (eguale applicazione della legge da parte dei giudici), ha un suo presupposto necessario nella chiarezza e comprensibilità della sentenza. Chiarezza e comprensibilità della sentenza sono anche indici della qualità della democrazia dell’ordinamento”[41].
A fronte di tutto ciò è vero che “lo spostamento del sindacato giudiziario dall'atto al rapporto, la complessità e l'apertura degli ordinamenti giuridici, la trasparenza nei rapporti tra cittadino e amministrazione in una rinnovata visione del procedimento sono tutti fattori che tendono a rendere più complessa, e quindi anche più “lunga” la sentenza amministrativa, rispetto a un rigido e semplice modello impugnatorio del relativo giudizio”[42]. Nella valutazione del caso di specie si deve anche considerare che, per definizione, le sentenze di rimessione alla adunanza plenaria ai sensi dell’art. 99 c.p.a. non risolvono una controversia, ma sollevano questioni di diritto; e che presupposti di queste pronunce sono la complessità e l’incertezza del quadro giuridico di riferimento, nonché la presenza di indirizzi giurisprudenziali contrastanti. Per queste ragioni si può certamente comprendere l’esigenza della sezione rimettente di approfondire i profili in diritto della motivazione – il che, del resto, è utile agli operatori del diritto per “cogliere gli orientamenti culturali del giudice in un dato momento storico”[43] –, ma non perciò avallare uno scostamento significativo dal modello letterario di riferimento per gli atti del potere giudiziario, considerato che “Lo stile espositivo della motivazione è intrinseco alla connotazione giuridica della sentenza e la sentenza si imputa tutta allo Stato, con cui il magistrato è in rapporto di servizio e non di mandato. Lo stile pertanto deve corrispondere alle esigenze proprie dell’atto. Non è appannaggio autonomo e indefinito della poietikè téchne dell’estensore. Il tema della motivazione della sentenza e dell’inerente tecnica di redazione si inserisce così nel tema generale della qualità della risposta di giustizia”[44].
Per esser chiari, al C.g.a. sarebbero probabilmente bastate meno parole per sollevare la questione in ordine alla riconducibilità della responsabilità della pubblica amministrazione al modello della responsabilità contrattuale, in considerazione della relazione procedimentale che sussiste tra amministrazione e privato e che non consente di qualificare il secondo come semplice “passante”. Anche le implicazioni di questo inquadramento – o quelle che il C.g.a. ritiene esser tali – avrebbero potuto essere individuate con maggiore sintesi, ad esempio tramite il riferimento puntuale ai diversi elementi costitutivi della fattispecie risarcitoria. Quanto infine alle esigenze di tutela della casse pubbliche, che pervadono l’intero apparato argomentativo della sentenza, forse sarebbe stato preferibile limitarsi a segnalarne la serietà, senza spingersi nel tentativo di ammantarle di argomenti giuridici che introducono elementi spuri nell’ambito dell’istituto della responsabilità civile dell’amministrazione.
6.2. Sull’inquadramento della proposta del C.g.a. nel perdurante dibattito sulla risarcibilità dell’interesse legittimo
In secondo luogo, possiamo domandarci come la posizione del C.G.A. si collochi nell’ambito dell’attuale dibattito giurisprudenziale e dottrinale sul risarcimento dei danni per lesione dell’interesse legittimo.
Nell’argomentare la natura contrattuale della responsabilità dell’amministrazione, il C.g.a. sostiene con chiarezza che la violazione di una norma procedimentale (regola di condotta) integra contestualmente, come è proprio di quel modello di responsabilità, il requisito del non iure e del contra ius. Per il C.g.a., quindi, la violazione della regola di condotta è di per sé lesiva dell’interesse legittimo ed è sufficiente a determinare la responsabilità dell’amministrazione.
La ricostruzione così proposta si discosta da quella operata dalle sezioni unite della Corte di cassazione nella sentenza n. 500 del 1999, secondo cui la condotta non iure non è sufficiente a esporre l’amministrazione alla responsabilità (extracontrattuale), occorrendo in aggiunta la c.d. lesione del bene della vita, che sussiste quando l’amministrazione abbia illegittimamente sottratto un bene della vita già appartenente al patrimonio giuridico del danneggiato (interesse oppositivo), oppure quando sia accertato tramite il giudizio prognostico che al privato spettasse il provvedimento richiesto (interessi pretensivi). Il distacco dallo schema prospettato dalla sentenza 500 si coglie proprio nel fatto che il C.g.a. non fa menzione del giudizio prognostico sulla spettanza del bene finale come requisito della fattispecie, quasi a dire che l’obbligazione risarcitoria dell’amministrazione si perfeziona a prescindere da una valutazione di questo tipo.
Ora, si deve considerare che, secondo autorevole dottrina, la sentenza n. 500 del 1999 finiva per negare ciò che programmaticamente affermava, ovvero la risarcibilità dell’interesse legittimo: ammettere il risarcimento del danno solo quando la violazione della regola di condotta comporta il pregiudizio al c.d. bene della vita significa, infatti, considerare risarcibile non l’interesse legittimo in sé, bensì il diritto estinto dal provvedimento negativo, ed eventualmente riemerso dopo l’annullamento (si dice eventualmente, stante la proponibilità anche in via autonoma dell’azione risarcitoria, caduta la pregiudizialità amministrativa)[45], o la aspettativa del cittadino preesistente al provvedimento di diniego (se non, addirittura, il diritto al provvedimento favorevole)[46]. La vera e propria responsabilità per lesione dell’interesse legittimo, secondo questa diversa impostazione, che ha trovato qualche eco nella giurisprudenza[47], trae origine nel contatto tra amministrazione e privato all’interno del procedimento e scaturisce dalla violazione della regola di condotta da parte dell’amministrazione. Essa prescinde dalla c.d. spettanza del bene finale e si aggiunge alla responsabilità derivante dalla lesione del diritto soggettivo o della aspettativa ingiustamente sacrificati dall’esercizio dell’azione amministrativa[48]. Non mancano peraltro voci autorevoli secondo cui la situazione giuridica che beneficerebbe del risarcimento in ragione della violazione della regola procedimentale da parte dell’amministrazione sarebbe non l’interesse legittimo, bensì una situazione diversa, denominata interesse procedimentale[49] o diritto procedimentale[50].
La ricostruzione proposta dal C.g.a. riecheggia questo modello di responsabilità – che potremmo qui definire responsabilità da violazione della regola procedimentale, senza indugiare sul dibattito in ordine alla natura di diritto soggettivo o interesse legittimo della situazione protetta dalla regola procedimentale[51] -, ma sostanzialmente se ne discosta. Lo riecheggia perché, come si è visto, la violazione della regola di condotta è ritenuta sufficiente ad integrare la fattispecie della responsabilità contrattuale, dove non iure e contra ius coincidono senza soluzione di continuità. Se ne discosta, tuttavia, perché secondo il C.g.a. la quantificazione del danno da risarcire deve essere comunque condotta in relazione alla situazione di base, alla quale l’interesse legittimo è strumentale: al punto che se la lesione della prima non è seria, il risarcimento può essere azzerato.
In altre parole, nella logica proposta dalla sentenza in commento, la responsabilità dell’amministrazione deriva dalla semplice violazione procedimentale (che integra lesione dell’interesse legittimo), ma in pratica il risarcimento può essere riconosciuto solo se sia stata lesa dall’amministrazione anche la situazione sottostante (alla quale l’interesse legittimo è strumentale)[52]. Per la giurisprudenza amministrativa, la violazione della regola procedimentale rimane non sufficiente a generare la responsabilità dell’amministrazione: a ben guardare, il risarcimento continua a riguardare soltanto quella che il C.G.A. denomina situazione di base, diritto soggettivo o aspettativa.
Il distacco dal modello di responsabilità tracciato dalla sentenza 500 sotto questo importante profilo è più apparente che reale; ed anzi si può registrare un passo indietro, perché se quella sentenza applicava un criterio di selezione normativa dei danni risarcibili ben preciso, ancorché criticabile quanto si voglia, rappresentato dal giudizio prognostico[53], la pronuncia in commento sembra rimettere al prudente e soggettivo apprezzamento del giudice se il danno inferto all’interesse legittimo sia serio, tale essendo quando interseca la situazione di base, o non sia serio, tale essendo quando esaurisce la sua rilevanza sul piano procedimentale.
Quel che invece sembra doversi riscontrare è la distanza che attualmente intercorre tra l’orientamento del giudice amministrativo, sostanzialmente confermato dalla sentenza in commento, e quello della Corte di cassazione. Il primo collega la fattispecie risarcitoria alla lesione dell’interesse al bene della vita: e tendenzialmente esclude la responsabilità da mero comportamento, fatta eccezione per significative aperture nell’ambito della fase terminale delle procedure di scelta del contraente, in virtù della assimilazione di questa fase alle trattative pre-negoziali[54], La Corte di Cassazione invece ammette la responsabilità da mero comportamento, cioè una responsabilità che si configura a prescindere dalla lesione del bene della vita, e che deriva dalla violazione del principio di correttezza nell’ambito del procedimento[55]. Si può certamente discutere, e molto si discute, se sia esatto qualificare come diritto soggettivo la situazione giuridica fatta valere nei confronti del comportamento procedimentale scorretto, e dunque la sussistenza della giurisdizione amministrativa su questo tipo di vertenze[56]. Ma si deve riconoscere che la responsabilità dell’amministrazione da mero comportamento illecito, riconosciuta dalla giurisprudenza civile, dà luogo ad una tutela risarcitoria allo stato non pienamente attingibile davanti al giudice amministrativo.
6.3. Sull’utilizzo di schemi privatistici per la ricostruzione della responsabilità della pubblica amministrazione
Le ultime brevi considerazioni concernono l’utilizzo di schemi privatistici nell’ambito diritto amministrativo, con particolare riferimento all’istituto della responsabilità.
La riconduzione della responsabilità dell’amministrazione al modello della responsabilità contrattuale e il continuo riferimento a categorie privatistiche da parte del C.g.a. sono testimonianza dello sforzo di costruire un regime unitario della responsabilità dell’amministrazione, unitario nel senso di applicabile indipendentemente dal giudice munito di giurisdizione sulla singola controversia[57].
Tuttavia nelle argomentazioni del C.g.a. si possono riscontrare alcune forzature.
Ad esempio, non corrisponde allo stato delle cose che gli oneri di allegazione e prova del danno a carico del cittadino siano uguali a quello del creditore che subisce l’inadempimento nell’ambito del rapporto obbligatorio. Sotto questo profilo è una forzatura affermare che il regime attualmente applicato alla responsabilità dell’amministrazione sia quello della responsabilità contrattuale.
Parimenti, l’osservazione che la giurisprudenza amministrativa accorda il risarcimento per equivalente solo quando è materialmente impossibile la tutela dell’interesse in forma specifica tramite la riedizione del potere, pur in sé esatta, non dimostra affatto la generale preferenza per la tutela in forma specifica nell’ambito della responsabilità dell’amministrazione – il che, secondo il C.g.a. sarebbe un motivo di assimilazione alla responsabilità contrattuale – , poiché delle due l’una: o tale affermazione viene riferita ai rapporti tra le azioni (e quindi tra la tutela costitutiva e quella risarcitoria), cioè a un tema più esteso e comunque diverso da quello rappresentato dall’alternativa tra risarcimento in forma specifica o per equivalente[58]; oppure viene riportata all’ambito proprio della responsabilità, riferendosi in questo caso ad una ipotesi specifica, quella della monetizzazione dell’obbligo di esecuzione[59], dalla quale, per quanto significativa[60], non si possono trarre indicazioni sull’assetto generale della responsabilità civile dell’amministrazione e sui rapporti tra tutela risarcitoria per equivalente e in forma specifica.
Ancora più perplessi lascia l’interpretazione molto lata del requisito della prevedibilità del danno; nonché la tesi secondo cui la limitazione della responsabilità al danno prevedibile, e il particolare rigore nella quantificazione del pregiudizio risarcibile, troverebbero una sponda nello statuto costituzionale dell’amministrazione e in particolare nel principio dell’equilibrio di bilancio (art. 81 Cost): molto discutibilmente convertito da regola di garanzia per le generazioni future in regola a presidio di un debitore speciale[61].
Ma al di là di questi e ulteriori aspetti particolari, sui quali non si può qui indugiare, all’osservatore non può sfuggire un dato di carattere generale, ovvero che la qualificazione della responsabilità dell’amministrazione come responsabilità contrattuale e l’insistenza sulla dimensione relazionale dell’attività procedimentale si risolvono entrambe in una limitazione ulteriore delle già oltremodo ristrette vie del risarcimento dei danni nei rapporti di diritto pubblico: conseguenza del carattere contrattuale della responsabilità è infatti che l’amministrazione non risponde dei danni imprevedibili; mentre conseguenza dell’applicazione di questi schemi nel rapporto di diritto pubblico è una quantificazione oltremodo stringente del danno risarcibile, che spesso ne giustifica l’azzeramento.
In prospettiva emerge quindi la pressante esigenza di evitare forzature degli istituti privatistici in danno al cittadino, esigenza che si aggiunge a quella di evitare il consolidamento in punto di responsabilità della pubblica amministrazione di “due costruzioni del sistema tra loro divergenti, dovute rispettivamente alla Cassazione e al Consiglio di Stato, a seconda che il danno lamentato sia o meno riconducibile all’esercizio di un potere”[62].
Se il giudice amministrativo intende incamminarsi con convinzione nella costruzione di un regime della responsabilità dell’amministrazione improntato agli schemi civilistici, regime che coesiste con gli ambiti attualmente riconosciuti alla giurisdizione civile in questa materia, appare arduo non prendere in considerazione la proposta di affidare alla Corte di cassazione la funzione nomofilattica sulle questioni risarcitorie, quale presidio dell’effettiva unitarietà del regime della responsabilità a fronte della dualità delle giurisdizioni che si occupano della materia.
Una soluzione di questo tipo, del resto, consentirebbe di rispondere alla domanda, che altrimenti soffia nel vento, se il riscontrato effetto di limitazione della tutela risarcitoria derivante dall’applicazione di dogmatiche di estrazione civilistica nel diritto amministrativo sia ineluttabile[63]; o se piuttosto, quantomeno nell’ambito della responsabilità, esso non consegua ad un certo e strumentale impiego che delle stesse fa la giurisprudenza amministrativa; in altre parole, di dissipare il dubbio che sia una certa interpretazione distorta delle categorie privatistiche da parte del giudice amministrativo, più che le categorie medesime, a sbarrare la strada verso una amministrazione responsabile.
Non si tratta però dell’unica strada possibile per dare maggiore coerenza al tormentato assetto della responsabilità della pubblica amministrazione.
Ove si ritenesse che il giudice ordinario sia quello più attrezzato a giudicare della responsabilità civile della pubblica amministrazione, varrebbe la pena di considerare l’ipotesi che la gran parte delle questioni risarcitorie nei rapporti tra cittadino e amministrazione concerne in realtà diritti soggettivi (vuoi perché la lesione dell’interesse legittimo integra la fattispecie dell’art. 2043 c.c., dalla quale sorge il diritto soggettivo al risarcimento[64]; vuoi perché il modello di responsabilità introdotto con la sentenza n. 500 comporta, per le ragioni viste, il risarcimento dei soli diritti) e che, non essendo il risarcimento materia di giurisdizione esclusiva (vi ricade solo il danno da ritardo), le relative controversie spettano al giudice ordinario.
Si tratterebbe di una soluzione drastica, certamente coerente al suo interno, che risolverebbe in radice il problema della torsione degli istituti civilistici, perché l’intera responsabilità dell’amministrazione verrebbe consegnata al diritto privato e al suo giudice naturale. Essa però si pone in contrasto con quanto statuito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 204/2004, la quale ha configurato il risarcimento del danno come strumento di tutela ulteriore dell’interesse legittimo, e con gli sviluppi anche normativi dell’ultimo decennio (basti il riferimento all’art. 30, c.p.a.).
Infine, una soluzione per certi versi antitetica a quest’ultima, ma probabilmente più coerente con l’attuale assetto del diritto positivo, a cominciare dall’art. 7, c.p.a., consiste nel riconoscere la sussistenza della giurisdizione amministrativa su tutte le controversie risarcitorie scaturenti da attività amministrativa di diritto pubblico, tanto che la fonte del danno sia il provvedimento tanto che sia il comportamento procedimentale[65], eventualmente accettando la configurazione di una ipotesi di giurisdizione esclusiva implicita[66].
Questa soluzione, per un verso, limiterebbe al massimo la concorrenza di due regimi di responsabilità della pubblica amministrazione, poiché la giurisdizione del giudice civile si occuperebbe esclusivamente della cognizione dei danni prodotti dall’amministrazione nella sua attività di diritto privato, e, per altro verso, potrebbe consentire al giudice amministrativo di perfezionare il regime della responsabilità della pubblica amministrazione con un certo grado di autonomia rispetto alla tradizione civilistica, riducendo il rischio di interpretazioni discutibili di categorie del diritto privato in danno al cittadino. In questo scenario sarebbe auspicabile, a mio avviso, che la giurisprudenza amministrativa aprisse con più convinzione alla responsabilità da comportamento, ammettendo il risarcimento dei danni per comportamento scorretto anche oltre l’ambito della contrattazione pubblica.
[1] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 17.4.
[2] ‘C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 17.3.
[3] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 17.4.
[4] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 17.4.
[5] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 17.4.
[6] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, parr. 20 e seguenti.
[7] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 25.
Nella giurisprudenza civile è da segnalare la recente sentenza Cass. civ., sez. un., 28 aprile 2020, n. 8236, secondo cui la responsabilità dell’amministrazione nasce nell’ambito di un rapporto tra soggetto pubblico e soggetto privato, laddove il secondo fa affidamento nella correttezza del contegno del primo. In questa ottica il fatto dannoso, suscettivo di generare la fattispecie risarcitoria pur in assenza di provvedimento, è rappresentato dal comportamento complessivamente scorretto tenuto dalla pubblica amministrazione all’interno del procedimento. La situazione lesa è il correlato diritto soggettivo del privato che fa affidamento sulla correttezza dell’azione amministrativa: donde la giurisdizione del giudice ordinario. La responsabilità è da contatto e trova applicazione il regime della responsabilità contrattuale.
Con questa pronuncia la Corte di cassazione si pone nel solco della sua giurisprudenza precedente, la quale aveva ritenuto che spetta al giudice ordinario la questione concernente la responsabilità dell’amministrazione per danni arrecati al privato con il ritiro di un provvedimento favorevole in violazione dell’affidamento, poiché in tal caso il fatto generatore dell’illecito non è il provvedimento ma il comportamento ondivago e scorretto della pubblica amministrazione, comportamento che non sarebbe neppure mediatamente riconducibile al potere (Cass. sez. un. ordd. nn. 6594, 6595 e 6596 del 2011, su cui, per tutti, M.A. Sandulli, Il risarcimento del danno nei confronti delle pubbliche Amministrazioni: tra soluzione di vecchi problemi e nascita di nuove questioni (brevi note a margine di Cons. Stato, ad. plen. 23 marzo 2011 n.3, in tema di autonomia dell’azione risarcitoria e di Cass. SS. UU.23 marzo 2011 nn. 6594, 6595 e 6596, sulla giurisdizione ordinaria sulle azioni per il risarcimento del danno conseguente all’annullamento di atti favorevoli), in www.federalismi.it, 2011).
Rispetto a questo orientamento, la sentenza n. 8236 segna un avanzamento della tutela risarcitoria, poiché con essa la Cassazione estende la propria giurisprudenza in tema di tutela dell’affidamento e giurisdizione del giudice ordinario ai casi in cui l’amministrazione, pur senza intervenire con un provvedimento espresso lesivo dell’affidamento stesso, ponga in essere nel corso del procedimento un comportamento ondivago (sempre ritenuto non riconducibile, neppure mediatamente al potere), sfiancando il privato con indicazioni contraddittorie e defatiganti.
La sentenza della Cassazione n. 8236/2020 è annotata da G. Tropea – A. Giannelli, Comportamento procedimentale, lesione dell’affidamento e giurisdizione del g.o. Note critiche (Nota a Cass., Sez. un., 28 aprile 2020, n. 8236), in www.giustizia-insieme.it, 15 maggio 2020, cui si rinvia anche per una sintetica ma puntuale ricognizione degli orientamenti della Cassazione in tema di responsabilità dell’amministrazione per violazione dell’affidamento del cittadino, nonché dei rilievi prevalentemente critici della dottrina amministrativistica nei riguardi della posizione espressa dalla Cassazione a proposito della qualificazione come diritto soggettivo della situazione soggettiva del privato a fronte di un comportamento procedimentale illecito della pubblica amministrazione. A questo proposito gli AA, rilevano che il comportamento dell’amministrazione, lesivo dell’affidamento, è comunque riconducibile all’esercizio di un potere pubblicistico: non potendo questo essere “derubricato alla stregua di un comportamento materiale”, la situazione giuridica soggettiva del privato, di cui si chiede il risarcimento, avrebbe consistenza di interesse legittimo e non di diritto soggettivo. Per l’idea che l’elemento decisivo per radicare la giurisdizione amministrativa sia sempre e comunque la riconducibilità dell’azione dell’amministrazione all’esercizio del potere, essendo invece irrilevante se l’azione stessa sia qualificata come atto o come comportamento, v. già M. Mazzamuto, La Cassazione perde il pelo ma non il vizio: riparto di giurisdizione e tutela dell’affidamento, in Dir. proc. amm., 2011, 899.
Invero questa sembra essere la strada imboccata da Cons. Stato, ad plen., 4 maggio 2018, n. 5, la quale ha configurato una tutela risarcitoria, autonoma dalla spettanza del bene della vita, nel caso in cui l’amministrazione violi le regole (di diritto privato) che concernono il comportamento della pubblica amministrazione, tra le quali spicca il principio di buona fede, distinguendo nettamente queste regole da quelle (di diritto pubblico) che regolano l’esercizio del potere e la formazione del provvedimento e che sono presidiate dalla tutela di annullamento. Va però segnalato che la sentenza non ammette la responsabilità da comportamento scorretto in termini generali, bensì in un contesto particolare, rappresentato dalla fase conclusiva delle procedure di aggiudicazione dei contratti pubblici, in virtù della assimilazione di questa fase alle trattative precontrattuali.
[8] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 31 e relativi sotto-paragrafi.
[9] Questa osservazione del C.g.a. conferma quanto osservato in dottrina a proposito della centralità che il tema della funzione riveste nell’ambito delle diverse ricostruzioni della responsabilità della pubblica amministrazione. Ed invero, “Le argomentazioni tecnico-giuridiche addotte rispetto a specifici profili problematici in tema di responsabilità vanno […] esaminate tenendo conto del fatto che in gran parte dei casi la loro veridicità non può apprezzarsi in termini astratti, ma solo in rapporto al tipo di “aspettative” che, in concreto, si ripongono nel “sistema risarcitorio” dei danni cagionati dalle pubbliche amministrazioni” (M. Renna, Responsabilità della pubblica amministrazione: A) Profili sostanziali, in Enc. dir. ann., Milano, 2016, par. 2).
[10] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, parr. 32,33 e 34.
[11] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 32.
[12] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 32.
[13] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 33. La sentenza precisa che stante la infungibilità della prestazione dell’amministrazione, la quale comporta che il privato non abbia altra scelta che rivolgersi alla stessa per ottenere il bene, le regole di condotta vanno intese come “precisi obblighi di protezione rispetto ai portatori di interessi coinvolti dall’agire pubblico”.
[14] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 34.
[15] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 38 e relativi sotto-paragrafi.
[16] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 38.3.
[17] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, parr. 28 e 29.
[18] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 29.
[19] La tesi del diritto soggettivo come presupposto dell’interesse legittimo, come noto, si deve a E. Cannada Bartoli, Interesse (dir. amm.), in Enc. dir., XXII, Milano, 1972, 9 ss., ed è ripresa da ultimo da F. Francario, Quel pasticciaccio brutto di Piazza Cavour, Piazza del Quirinale e Piazza Capodiferro (la questione di giurisdizione), in www.giustiziainsieme.it, 11 novembre 2020, spec. nota 20; Id., Quel pasticciaccio della questione di giurisdizione. Parte seconda: conclusioni di un convegno di studi, in www.federalismi.it., 2020, 104 ss., dove peraltro sono svolte osservazioni critiche nei riguardi della c.d. “patrimonializzazione” dell’interesse legittimo.
[20] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 29.
[21] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 29.
[22] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 29.
[23] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 37.
[24] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 37
[25] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 37.
[26] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 37.
[27] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 37.
[28] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 39.
[29] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 40.
[30] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 40.
[31] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 40.
[32] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 41.
[33] C.g.a., sez. giur., n. 1136/2020, par. 42 e relativi sotto-paragrafi.
[34] G. Severini, La trasparenza delle decisioni e il linguaggio del giudice. La prevedibilità e la sicurezza giuridica, in www.giustizia-amministrativa.it., 2019, 6.
[35] Sulla regola aurea di cui al testo, e per diverse preziose indicazioni sullo stile delle sentenze, cfr. G. Severini, op. cit., 14.
[36] Sull’art. 3 c.p.a. cfr. P. Carpentieri, I provvedimenti del giudice, in B. Sassani - R. Villata, a cura di, Torino, 2012, 1083 ss.; M. Sinisi, Il giusto processo amministrativo tra esigenze di celerità e garanzie di effettività della tutela, Torino, 2017, 107 ss.
[37] Decreto del Presidente del Consiglio di Stato 22 dicembre 2016 ai sensi dell’art. 13 -ter dell’allegato II al d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104.
[38] G. Severini, op. cit., 13.
[39] F. Patroni Griffi, Forma e contenuto delle sentenze del giudice amministrativo, in Dir. proc. amm.,2015, 26, il quale aggiunge che aggiunge che la sentenza “prolissa” ha ulteriori “evidenti inconvenienti: fa perdere tempo a chi la scrive, ma anche a chi la legge e deve decidere se impugnarla (la parte) o se confermarla o riformarla (il giudice di appello); è generalmente meno chiara, perché meno consequenziale sul piano espositivo e logico; corre il rischio paradossale, ma non tanto , di esporsi a revocazione, anche per omessa pronuncia; rende quasi impossibile la corretta enucleazione del principio di diritto che va sempre rapportato al caso concreto deciso”.
[40] Sono le caustiche parole Gorla, riprese da F. Patroni Griffi, op. cit., 26.
[41] G. Barbagallo, Per la chiarezza delle sentenze e delle loro motivazioni, in Il linguaggio della giurisprudenza, in Foro it., 2016, parte V.
[42] F. Patroni Griffi, op. cit., 25.
[43] È quanto rileva A. Cassatella, La Plenaria limita i casi di rinvio al giudice di primo grado, in in Giorn. dir. amm.,2019, 207 ss., in relazione alle pronunce dell’adunanza plenaria, specie laddove siano esercizio della funzione nomofilattica prevista dall’art. 99 c.p.a. L’A peraltro prosegue osservando correttamente che “Le eccedenze argomentative potrebbero tuttavia essere assimilate ad osservazioni di politica del diritto estranee all’oggetto dell’intervento della Plenaria, come individuato dall’art. 99 c.p.a.”.
[44] G. Severini, op. cit., 11.
[45] F. G. Scoca, Divagazioni su giurisdizione e azione risarcitoria nei confronti della pubblica amministrazione, in Dir. proc. amm., 2008, 6 ss.
[46] F. G. Scoca, L’interesse legittimo, Storia e teoria, Torino, 2017, 301: “ove si rifletta a fondo, il riferimento all’interesse al bene della vita, la cui lesione (essa sola, sebbene congiunta con la lesione dell’interesse legittimo), apre la strada al risarcimento del danno, potrebbe risultare (e, sul piano logico, certamente risulta) un modo inedito per negare ancora una volta la risarcibilità degli interessi legittimi, nel senso che la loro lesione non “giustifica” di per sé il risarcimento”.
[47] Cass. civ., sez. I, 10 gennaio 2003, n. 157.
[48] F.G. Scoca, L’interesse legittimo, cit., 311 s., 314-316: “Quanto alla risarcibilità degli interessi oppositivi, la distinzione tra lesione dell’interesse legittimo e lesione del diritto soggettivo, che sia stato illegittimamente estinto (o ridotto), è molto semplice: il diritto soggettivo, preesistente all’azione dell’amministrazione, viene leso dal provvedimento ablatorio che si assume illegittimo; l’efficacia, anzi l’esecuzione, di questo provvedimento comporta il mancato godimento del diritto, da parte del suo titolare, per il tempo in cui perdura l’effetto del provvedimento illegittimo. Il mancato godimento del bene non costituisce danno riferibile al (la lesione del) l’interesse legittimo, ma propriamente danno riferibile al (la lesione del) diritto soggettivo. La lesione dell’interesse legittimo, in quanto tale, si ha, invece, in relazione al comportamento dell’amministrazione, che sia lesivo dell’interesse ad avere un provvedimento tempestivo, che non sia ingiustificatamente sfavorevole ,e la cui formazione risponda alle regole procedimentali e ai principi di correttezza e buona fede […] La lesione dell’interesse (oppositivo), che ben può aggiungersi a quella del diritto soggettivo […] attiene all’andamento del procedimento: è determinata dal mancato rispetto delle norme che lo disciplinano, dall’inadempimento dei doveri che ne derivano, dall’ingiustificato annullamento della sua durata, dal suo inutile appesantimento con incombenti non necessari e non utili, dal suo contenuto ingiustificatamente sfavorevole. Se si tiene e distinto ciò che attiene al bene (finale) della vita da ciò che costituisce l’oggetto dell’interesse legittimo, risulta chiaro che il risarcimento per lesione dell’interesse legittimo si può avere anche se il bene della cita legittimamente non spetta al privato”.
“Per gli interessi pretensivi si ha un quadro differente rispetto a quello che è proprio dell’interesse oppositivo: non c’è un bene della vita che possa essere leso, dato che la sua acquisizione passa necessariamente per (è condizionata dal) l’adozione di un provvedimento amministrativo che accolga la domanda del privato. L’illegittimità del procedimento di diniego si riflette, in linea di principio, sull’interesse legittimo, il quale può risultare leso dal mancato rispetto delle regole di comportamento dell’amministrazione, come nel caso dell’interesse oppositivo. L’ipotesi di maggior spicco è il risarcimento del danno da ritardo nell’adozione del provvedimento; danno che (ormai) si verifica, anche se il provvedimento tardivo è negativo, e lo è illegittimamente- […] Può aggiungersi, nel caso dell’interesse pretensivo, al danno propriamente riferibile alla lesione dell’interesse legittimo, anche un danno riferibile al(la aspettativa al) bene della vita?”. Secondo l’illustre Autore la risposta da dare a questa domanda è positiva: “occorre prendere in considerazione la disciplina positiva sul grado di “spettanza” del bene richiesto, che può desumersi, in negativo. (ma con buona approssimazione), dalla misura della discrezionalità attribuita all'amministrazione. Non si tratta di ipotizzare giudizi prognostici, bensì di valutare la disciplina specifica applicabile al caso concreto, tenendo contro sia della sussistenza dei necessari presupposti di fatto (che può essere dimostrata dall’interessato), sia delle scelte e della valutazioni eventualmente già fatte dall’amministrazione […] IN conclusione, si può affermare che il danno, nel caso degli interessi pretensivi, riguarda la lesione del bene (finale) della vita, soltanto in caso della sua “spettanza virtuale””.
[49] A. Romano Tassone, Risarcimento del danno per lesione di interesse legittimo, in Enc. dir. agg., Milano, 2001, par. 11; M. Renna, op. cit., par. 5, secondo cui le norme sul procedimento “impongono all’amministrazione di porre in essere determinati adempimenti i quali, oltre ad avere un valore intrinseco alla procedura (determinandone i passaggi e le tempistiche), hanno anche — e spesso soprattutto — un valore ulteriore, poiché assicurano alle parti del procedimento utilità autonome rispetto all’esito sostanziale della attività amministrativa. Si pensi alle norme che sanciscono l’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento, di concludere il procedimento entro termini predeterminati, di comunicare i motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza, di consentire l’accesso agli atti. Poiché l’assolvimento di questi obblighi “non è condizionato ad alcun tipo di apprezzamento discrezionale […]” la mancata osservanza degli stessi, “ai quali si contrappongono autentici diritti”, va sussunta nel paradigma della responsabilità da inadempimento, la quale, come riconosciuto anche dalla contemporanea dottrina civilistica [….] vanta un ambito di applicazione più ampio rispetto al perimetro dei rapporti stricto sensu contrattuali”. Sul punto sia consentito il rinvio a M. Trimarchi, La validità del provvedimento amministrativo. Profili di teoria generale, Pisa, 2013, 185-187, 240 s.
[50] E. Follieri, Il rapporto giuridico amministrativo dinamico, in www.giustamm.it., dicembre 2017, 9 ss., 13 s.
[51] La responsabilità dell’amministrazione per violazione delle regole di diritto privato che governano il comportamento della pubblica amministrazione, tra le quali spicca il principio di buona fede è affermata da Adunanza plenaria, la quale distingue queste regole da quelle (di diritto pubblico) che regolano l’esercizio del potere e la formazione del provvedimento e che sono presidiate dalla tutela di annullamento.
[52] Del resto, la tesi che collega la responsabilità da lesione dell’interesse legittimo (o del diritto procedimentale) alla violazione di una regola di condotta indubbiamente individua una fattispecie di responsabilità diversa da quella derivante dalla lesione della situazione sottostante, ma si espone a un inconveniente pratico. Una volta negata l’esistenza di una relazione tra la fattispecie risarcitoria, generata dalla lesione dell’interesse legittimo, e il bene della vita (o meglio, identificato questo bene nell’interesse immediatamente protetto dalla norma procedimentale), diventa infatti problematica l’individuazione del parametro da prendere in considerazione per la quantificazione del danno: dando fiato alla giusta osservazione che, così ragionando, il cittadino che abbia presentato istanza all’amministrazione per ottenere l’autorizzazione all’avvio di uno stabilimento industriale, e nel corso del procedimento abbia subito la lesione dell’interesse legittimo per via della condotta dell’amministrazione, avrebbe diritto ad una somma di denaro identica a quella che spetterebbe al cittadino che abbia presentato istanza per ottenere l’autorizzazione ad ampliare un balcone e abbia subito la stessa violazione procedimentale da parte dell’amministrazione.
Allo stato del diritto positivo, se si vuol dar consistenza alla pretesa risarcitoria collegata alle mere situazioni procedimentali, si dovrebbe accentuare la funzione punitivo-sanzionatoria della responsabilità, poiché ciò consentirebbe di condannare al risarcimento l’amministrazione che non rispetti le situazioni procedimentali anche indipendentemente dall’eventuale pregiudizio patrimoniale patito dal singolo. Questa soluzione, considerata la notevole elasticità che il sistema italiano della responsabilità civile ha dimostrato nel tempo (basti pensare alla vicenda del danno punitivo o alla lettura evolutiva degli artt. 2043 e 2059 cc.), è meno fantasiosa di quanto potrebbe apparire a prima vista. Essa nondimeno evoca una deviazione della responsabilità della pubblica amministrazione dal modello civilistico tradizionale, e dunque si inscrive nella prospettiva generale della responsabilità amministrativa di diritto pubblico.
[53] A questo proposito si può ricordare che la rete di contenimento degli interessi legittimi risarcibili costruita dalla Cassazione con la sentenza n. 500 si ispirava al pensiero di F.D. Busnelli, Lezione di interessi legittimi: dal «muro di sbarramento» alla «rete di contenimento», in Danno e resp., 1997, 271, secondo il quale “alla auspicata caduta del ‘muro’ della irrisarcibilità del danno da lesione di interessi legittimi non deve […] seguire una apertura indiscriminata alla risarcibilità, affidata esclusivamente al prudente apprezzamento equitativo da parte del giudice; deve, invece, corrispondere la costruzione di una ‘rete di contenimento’ a valle, giustificata e fondata sul principio della ingiustizia del danno, reso flessibile dall’abbandono della concezione tradizionale incentrata sulla lesione dei diritti soggettivi (assoluti), ma pur sempre espressione di un filtro normativo dei danni risarcibili”.
[54] Cons. Stato, ad plen., 4 maggio 2018, n. 5.
[55] Cass. civ., sez. un., 28 aprile 2020, n. 8236.
[56] Per una sintesi del dibattito si rinvia ancora a G. Tropea – A.Giannelli, op. loc. cit.
[57] Uno sforzo di questo genere è vano secondo E. Follieri, Il modello di responsabilità per lesione di interessi legittimi nella giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo: la responsabilità amministrativa di diritto pubblico, in Dir proc. amm.,2006, 20 s., secondo cui “le responsabilità previste dal codice civile e che si articolano in extracontrattuale e contrattuale non possono applicarsi per il risarcimento da lesione di interessi legittimi. Le responsabilità previste dal codice civile sono manifestazioni di rapporti che si svolgono all'insegna dei diritti soggettivi, dei doveri e degli obblighi in un contesto diverso da quello proprio del diritto amministrativo.
Favorevole al regime speciale della responsabilità di diritto pubblico, sulla scorta della tradizione francese, anche M. Mazzamuto, A cosa serve l’interesse legittimo?, in Dir. proc. amm., 2012, 75, il quale considera “del tutto naturale che il giudice speciale del diritto pubblico ricostruisca in termini pubblicistici anche il diritto della responsabilità, così come è avvenuto in Francia, e come era nei desiderata degli antichi Maestri del nostro diritto amministrativo”.
[58] I rapporti tra tutela risarcitoria in forma specifica ed per equivalente presuppongono l’accertamento e la commissione di un illecito da parte della pubblica amministrazione. Si tratta pertanto di una questione interna al tema della responsabilità, da non confondere con quella più generale dei rapporti tra tutela costitutiva e tutela risarcitoria.
[59] Su cui cfr. Cons. Stato, ad. plen., 12 maggio 2017, n. 2., per l’interpretazione dell’art. 112, comma 3, c.p.a.
[60] Cfr. E. Follieri, Il modello di responsabilità, cit., 23, secondo cui il risarcimento dei danni in diritto amministrativo copre l'area dell'interesse al bene della vita che non ha ricevuto integrale soddisfazione dalla sentenza di annullamento, nonostante il ricorrente, in diritto, avrebbe dovuto ottenere soddisfazione del suo interesse perché illegittimamente leso dall'atto amministrativo, non rispettoso delle regole previste per la sua produzione e la situazione di fatto dovrebbe essere ripristinata in toto. La situazione può essere risarcita solo in via eventuale, quando l'effetto ripristinatorio dell'annullamento non ha modo di dispiegarsi pienamente in conseguenza di eventi e fatti, ormai accaduti, e che non possono essere rimossi retroattivamente. Dello stesso A. v. già la monografia Risarcimento dei danni per lesione di interessi legittimi, Chieti, 1984, 175, dove il risarcimento dei danni da lesione dell’interesse legittimo è concepito come “un modo di adempimento della P.A. all’obbligo di conformarsi al giudicato”. Il risarcimento pertanto va chiesto al giudice dell’ottemperanza.
[61] Del resto non bisognerebbe dimenticare che per la tutela dell’erario esiste uno strumento apposito, che è la responsabilità amministrativo-contabile, per quanto oggi se ne richieda da più parti un uso prudente per evitare fenomeni di burocazia difensiva.
[62] R. Villata, Scritti di giustizia amministrativa, Milano, 2015, 536.
[63] M. Mazzamuto, I principi costitutivi, cit., e molti altri lavori dello stesso A.
[64] È la tesi di R. Villata, Scritti, cit., 67 ss., 396 s., che infatti critica la sentenza della Corte costituzionale n. 204/2004, nella parte in cui configura il risarcimento come strumento di tutela ulteriore dell’interesse legittimo.
[65] M. Mazzamuto, A cosa serve l’interesse legittimo?, cit., 63 ss.
[66] F.G. Scoca, Divagazioni, 7-10.
Omaggio al Prof.Marongiu, padre nobile dello Statuto dei contribuenti
di Roberto Succio
Il prof. Marongiu è stato mio docente di diritto tributario nell’a.a.1990/1991 presso l’Università di Genova, in quella che era allora la Facoltà di Giurisprudenza.
Allora le lezioni del suo corso, come degli altri, iniziavano a novembre e terminavano a maggio/giugno; se non ricordo male (tempus fugit) si tenevano nelle mattinate del lunedì e del mercoledì.
Il Professore teneva le lezioni in un’aula piccola: seguivano il suo corso solo una trentina di studenti perché già allora il diritto tributario, per il suo tecnicismo e la sua complessità, forse affascinava pochi. Era come esser tornati al Liceo; il ritmo delle lezioni infatti portava chi seguiva a conoscersi tutti, tra gli studenti; ci si scambiava sovente gli appunti, per controllarne il contenuto e magari per supplire a una lezione mancata a causa di sovrapposizioni con altri corsi o per imprevisti “ferroviari” per chi, come me, viaggiava tra casa e Università con ritmo quotidiano.
Spesso il suo esame, che era facoltativo per gli studenti del terzo/quarto anno del corso, veniva inserito nel piano di studi non senza una certa premeditazione, derivante da una forma di predisposizione perversa (o benedetta, dipende dai punti di vista) per lo studio dei tributi. Infatti, per argomenti e istituti da trattare, “diritto tributario” era assai affine a “scienza delle finanze”, che prevalentemente constava di diritto finanziario, ed era un corso tenuto dal Prof. Magnani. Sia pur con alcune differenze di contenuto e metodo, si potevano affrontare lo studio e fare gli esami in modo parallelo, per ambedue i corsi.
Era però, almeno per me e per altri colleghi, del tutto diversa la sollecitazione che mi spingeva a seguire il suo corso. Intanto, il tam – tam della Facoltà tra studenti riferiva di lezioni avvincenti, quasi romanzesche: il Professore era descritto come un grande narratore della storia dei tributi -(rimando ai suoi volumi “Storia del fisco in Italia. Vol. 1: La politica fiscale della Destra storica (1861-1876)”; “Storia dei tributi degli enti locali (1861-2000)”, il recente “Il fisco e il fascismo”)- e molti di noi, me incluso, subivano ancora fortemente il fascino delle epoche passate.
Inoltre, e soprattutto, le sue lezioni, per analiticità, chiarezza e completezza, ben potevano sostituirsi al manuale adottato; pertanto avevamo la sensazione che una adeguata conoscenza del loro contenuto potesse ben fungere da adeguato usbergo protettivo contro ogni strale possibile in sede d’esame.
A differenza di ora, a quei tempi non si usavano certo le slides e il Professore non predisponeva appunti per sé. La sua lezione presupponeva e manifestava il ricordo perfetto di quanto trattato nella lezione precedente, che era punto di partenza per quella che si accingeva a iniziare e – in qualche occasione – la lettura dei testi normativi. Quando era opportuno citarne letteralmente una porzione a fini didattici, il Professore apriva il corposo codice tributario che portava con sé, rimuoveva gli occhiali e avvicinandosi al testo desiderato (risultando quindi vittorioso sulla sua miopia, come ora faccio anch’io, e pluribus) leggeva quanto necessario alla sua illustrazione del tema.
Questa operazione, però, era sempre preceduta da una sottolineatura, che mi è rimasta indelebile: il Professore rammentava con essa l’importanza del dato legislativo dal quale prender le mosse anche in una materia in cui esso cambia quasi quotidianamente, specialmente con riguardo a quegli elementi autenticamente definitori (il presupposto dei tributi, il concetto di reddito, la nozione di impresa, di base imponibile, e quant’altro). Ed era una sottolineatura verbale precisa: all’atto di rimuovere gli occhiali per reperire il testo normativo, esordiva con un “come loro sanno, l’articolo…..”. Per noi studenti la sottolineatura era duplice: si dava per conosciuto un elemento (e quindi se non lo ricordavamo, immediatamente noi studenti ci appuntavamo la necessità di rivederlo per memorizzarlo) e ci si rivolgeva a noi con il “loro”.
Ora, non credo che ciò derivasse da una mera forma di amore per le parole desuete, almeno non solo.
Ritrovando il Professore qualche anno fa, tra un’udienza e l’altra, ne ho avuto la prova da lui stesso, mentre ci avvicinavamo alla macchinetta del caffè che volle, da genovese atipico, offrimi.
Era un modo istintivo, ma consapevole, per dare conto all’uditorio del rispetto portato, della cura destinata nell’insegnamento, che richiedeva specularmente e giustamente da noi analogo rigore nello studio in preparazione all’esame; era indice dell’attenzione alla meticolosa chiarezza espositiva a fronte della quale egli esigeva dagli studenti, in modo sinallagmatico, il giusto approfondimento degli argomenti e la loro padronanza in sede di esame.
Certo, l’espressione ottocentesca in parola lo aveva in almeno un caso posto a rischio di divertenti fraintendimenti.
Mi raccontò infatti quanto avvenne durante la sua campagna elettorale al termine della quale fu eletto al Parlamento, in occasione di un incontro con i frequentatori di un circolo operaio genovese, ai quali, anche in quell’occasione, si rivolse ripetutamente con l’amato “loro”.
L’effetto, percepito anche da chi lo accompagnava sedendo nel pubblico e lo riferì al Professore (segnalando con sano buon senso che forse in quella come in altre sedi era meglio esser meno risorgimentali nell’eloquio), fu disorientante.
Due uditori infatti, pur apprezzando e condividendo il contenuto del discorso “programmatico” del candidato Professore, iniziarono a chiedersi “chi fossero” questi “loro”; per sentirsi poi chiarire da un vicino che i “loro” erano “noialtri”, vale a dire proprio i presenti.
Al Professor Marongiu si deve – oltre alle pubblicazioni sulle quali sorvolo, trattandosi di un Maestro e bastando una ricerca in Internet – anche l’introduzione nel nostro ordinamento tributario dello Statuto dei diritti del Contribuente di cui alla L. n. 212 del 2000, al quale dedicò sempre attenzione specialmente nelle interpretazioni adottatene dalla giurisprudenza.
Qualche tempo fa, in una conversazione telefonica propedeutica a un convegno, mi accennò del suo intento di proporre al Legislatore modifiche e integrazioni allo stesso, anche alla luce della Giurisprudenza costituzionale e unionale; alla non tenera età sua, il Professore ha mantenuto sempre l’interesse, vivo e acuto, per il diritto dei tributi, nelle sue multiformi espressioni anche quelle più complesse e problematiche; di diritto tributario ha sempre scritto e argomentato ad alto livello, con passione e senza amor di pura polemica.
Ricordo, durante una riunione della Rivista “Diritto e Pratica tributaria”, quando gli chiesi una indicazione di metodo riguardante un articolo che stavo scrivendo in tema di autotutela: era appena stato pubblicato il d. M. n. 37 del 1997, che forniva importanti prescrizioni regolamentari in ordine al procedimento amministrativo in materia. Il Professore, che del d. M. aveva copia sulla scrivania, me ne consegnò il testo con alcune sue sottolineature, rammentandomi di tenerne conto particolarmente nella redazione dell’articolo, per le ragioni che mi suggerì e che feci subito mie.
Non l’ho dimenticato.
Ho ritrovato di recente il Professore nei ricorsi per cassazione che in alcune occasioni ho esaminato e deciso quale consigliere della Corte Suprema; ne ho nuovamente apprezzato - e a fronte di altri atti, non di rado rimpianto - il tono e i contenuti che ricordavo nelle sue lezioni, da studente: anche da difensore si è sempre dimostrato straordinariamente colto (e non solo in materia tributaria), sempre pacato e chiaro nell’argomentare e sempre altrettanto agevole da comprendere.
Gianni Marongiu ha concluso la sua corsa; ha certamente combattuto la buona battaglia: i suoi studenti hanno avuto un grande Professore e gli sono grati, i suoi clienti un difensore e un gentiluomo di eccezionale livello professionale e dovrebbero ricordarlo con eguale sentimento di gratitudine.
Per quanto ho potuto conoscerlo, penso non abbia mai perso la speranza di un sistema tributario, se non perfetto (il suo pragmatismo intelligente glielo avrebbe impedito), quantomeno perfettibile.
Grazie, Professore.
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