ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Le modifiche in tema di esecuzione forzata di cui alla legge di riforma (n. 206/2021) della giustizia civile. Note a prima lettura
di Ernesto Fabiani e Luisa Piccolo
Sommario: 1. Premessa. - 2. Le modifiche dirette della legge n. 206/2021 apportate nell’ambito dell’espropriazione presso terzi. - 3. Segue: Il foro dell’espropriazione di crediti nei confronti delle pubbliche amministrazioni. - 4. Segue: La notifica, a pena di inefficacia, da parte del creditore pignorante al debitore esecutato e al terzo pignorato dell’avvenuta iscrizione a ruolo del pignoramento presso terzi. - 5. L’abrogazione della spedizione in forma esecutiva. - 6. La riduzione dei termini ex art. 567 c.p.c. - 7. Le modifiche in tema di delega delle operazioni di vendita forzata. - 8. Il controllo sugli atti del professionista delegato e in particolare l’impugnazione degli atti del delegato (la previsione del rimedio dell’art. 617, in luogo del reclamo al collegio ex art. 669 terdecies c.p.c.). - 9. La distribuzione del ricavato. -10. La custodia: l’anticipazione della nomina del custode terzo e la sinergia con l’esperto stimatore. - 11. La liberazione dell’immobile pignorato. - 12. La «vendita diretta»: un inedito istituto, alla luce della Relazione illustrativa. - 13. L’estensione degli obblighi antiriciclaggio nell’ambito delle vendite forzate e concorsuali. - 14. Le misure coercitive. - 15. L’istituzione, presso il Ministero della Giustizia, della “Banca dati per le aste giudiziali”.
1. Premessa
Siamo all’inizio di una nuova stagione di riforma della giustizia civile: nella seduta del 25 novembre 2021, la Camera dei Deputati ha approvato in via definitiva la legge delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie, nonché una serie di misure urgenti per la razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie e in materia di esecuzione forzata[1].
Al fine di comprendere il contesto di riferimento della riforma in atto, va ricordato che l’emergenza sanitaria da Covid-19 ha drammaticamente evidenziato le criticità della disciplina processuale attualmente vigente, imponendo interventi legislativi nell’immediato, onde far fronte alle esigenze postesi nelle differenti fasi dell’emergenza[2]. Non sempre, però, l’opera del legislatore è stata contraddistinta: per un verso, da un adeguato bilanciamento tra diritti contrapposti, con conseguente necessità di intervento da parte della Corte costituzionale[3]; per altro verso, da un reale effetto risolutore dei nodi irrisolti della disciplina vigente (si pensi, su tutti, alle norme in materia di liberazione dell’immobile, oggetto di esecuzione immobiliare, abitato dal debitore).
Al contempo, si è imposta l’esigenza di riforme che trascendano la fase emergenziale per superare la crisi che da ormai troppo tempo affligge la giustizia civile, con le note ricadute negative anche in ordine alla competitività del nostro Paese. Non è un caso che nell’ambito del “Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza” (c.d. PNRR), diretto ad acquisire risorse per superare i devastanti effetti economici dell’epidemia, un ruolo cruciale è stato riservato alle questioni relative alla amministrazione della giustizia e, in particolare, all’esecuzione forzata[4].
Da un punto di vista contenutistico, la legge delega presenta una prima peculiarità: per un verso, delega il Governo alla riforma del processo civile, dettando specifici principi e criteri direttivi; per altro verso, modifica direttamente alcune disposizioni sostanziali e processuali (relative ai procedimenti in materia di diritto di famiglia, esecuzione forzata e accertamento dello stato di cittadinanza) destinate a trovare applicazione a decorrere dal 180° giorno successivo all’entrata in vigore della legge stessa.
Una seconda peculiarità attiene al merito degli istituti su cui il legislatore interviene. Alcune modifiche costituiscono il frutto di elaborazioni dottrinali e giurisprudenziali che da tempo sollecitavano interventi legislativi: ne costituiscono esempio le proposte in tema di rafforzamento dell’istituto della delega delle operazioni di vendita forzata, restando impregiudicata, naturalmente, ogni valutazione in ordine alle disposizioni attuative della legge delega. Altre modifiche, invece, mirano ad introdurre nel nostro ordinamento nuovi istituti, alla luce di quanto previsto in ordinamenti stranieri: ne costituisce un esempio la previsione in tema di “vendita diretta da parte del debitore”.
Non sempre, però, come avremo modo di evidenziare meglio più avanti, il contenuto della legge delega sembra fissare i necessari principi e criteri direttivi alla stregua del rapporto, di matrice costituzionale, che deve intercorrere tra legge delega e decreto delegato. Al contempo, in altri casi giunge sino a conformare l’attività del legislatore delegato in ordine agli elementi procedurali nell’assenza di una effettiva cornice di principi direttivi.
In estrema sintesi, ci troviamo di fronte ad una legge delega caratterizzata dall’estrema eterogeneità: per un verso, sul piano dei contenuti e delle tipologie di intervento, talvolta legati alle contingenze del peculiare momento storico in cui si colloca e talaltra a ben più consolidate riflessioni ed elaborazioni dottrinali; per altro verso, sul piano strutturale, posto che, se talvolta è effettivamente strutturata nei termini della legge delega (ancorché con talune criticità sotto il profilo dei rapporti che, al livello costituzionale, dovrebbero intercorrere fra legge delega e decreti delegati), talaltra, invece, è strutturata nei termini di una legge avente contenuto ed efficacia immediatamente precettivi.
Di grande interesse è l’art. 1, comma 12, della legge in commento, relativo all’adozione di misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di esecuzione forzata, il quale, in estrema sintesi, prevede:
- l’abrogazione delle disposizioni che si riferiscono alla formula esecutiva e alla spedizione in forma esecutiva, nonché la sostituzione dell’iter di rilascio della formula esecutiva con la mera attestazione di conformità della copia al titolo originale;
- con riguardo al pignoramento, la sospensione dei termini di efficacia dell’atto di precetto che consenta al creditore, munito di titolo esecutivo e di atto di precetto, di predisporre un’istanza, rivolta al presidente del tribunale, per la ricerca con modalità telematiche dei beni da pignorare nonché la riduzione dei termini previsti per la sostituzione del custode nominato in sede di pignoramento;
- la riduzione del termine per il deposito della documentazione ipotecaria e catastale;
- l’accelerazione nella procedura di liberazione dell’immobile quando è occupato sine titulo o da soggetti diversi dal debitore;
- la riforma dell’istituto della delega delle operazioni di vendita al professionista delegato, individuando: un termine di durata (annuale) della delega, rinnovabile dal giudice; l’obbligo per il professionista di svolgere – in questo periodo – almeno tre esperimenti di vendita e di presentare una tempestiva relazione al giudice sull’esito di ciascuno di essi; il corrispondente obbligo del giudice di vigilare sull’operato del professionista, e sul rispetto dei tempi; l’obbligo del giudice di provvedere immediatamente alla sostituzione del professionista in caso di mancato o tardivo adempimento;
- la riforma dell’istituto della delega attribuendo al professionista delegato anche il potere di approvazione del progetto di distribuzione del ricavato;
- la riforma della disciplina del reclamo al giudice dell’esecuzione avverso gli atti del professionista delegato, attraverso l’introduzione di un termine di venti giorni per la proposizione dello stesso e della proponibilità dell’opposizione agli atti esecutivi di cui all’art. 617 c.p.c. avverso l’ordinanza con cui il giudice decide il reclamo;
- l’introduzione di un nuovo istituto avente ad oggetto la “vendita privata” del bene, nel procedimento di espropriazione immobiliare, “direttamente” ad opera del debitore, previa autorizzazione del giudice in tal senso;
- l’individuazione di criteri per la determinazione dell’ammontare, nonché del termine di durata, delle misure di coercizione indiretta;
- l’estensione degli obblighi antiriciclaggio anche agli aggiudicatari e l’introduzione dell’obbligo per il giudice di verificare l’avvenuto rispetto di tali obblighi ai fini dell’emissione del decreto di trasferimento;
- l’istituzione presso il Ministero della Giustizia della “Banca dati per le aste giudiziali”, dove confluiscono tutti i dati identificativi degli offerenti, del conto corrente usato per versare la cauzione e il prezzo di aggiudicazione, le relazioni di stima. Tali informazioni sono destinate ad essere messe a disposizione, su richiesta, dell’autorità giudiziaria.
Il contenuto del d.d.l. recepisce molte delle buone prassi che sono state riscontrate dal “gruppo di lavoro esecuzioni” del CSM, nominato con delibera del 30/12/2020, specie in tema di: dovere di collaborazione del custode per il controllo della documentazione ipo-catastale; nomina del custode col decreto che dispone l’udienza di cui all’art. 567 c.p.c.; pronuncia dell’ordine di liberazione al più tardi al momento dell’autorizzazione alla vendita; redazione di schemi di atti per la perizia e l’avviso di vendita; durata limitata della delega; delega della fase della distribuzione[5].
Come detto, non mancano, nell’ambito della legge in comento, ipotesi in cui il legislatore non delega al governo, dettando le direttive, ma modifica direttamente la disciplina vigente. Si tratta del:
- comma 29 dell’art. 1, il quale modifica direttamente l’art. 26 bis c.p.c., in tema di competenza per l’espropriazione di crediti della pubblica amministrazione;
- comma 32 dello stesso articolo 1, il quale modifica l’art. 543 c.p.c., in ordine alla notifica da parte del creditore pignorante dell’avviso al debitore esecutato e al terzo pignorato dell’avvenuta iscrizione a ruolo del pignoramento presso terzi.
Al fine di consentire al lettore di comprendere, al meglio, quale sia l’effettiva portata innovativa dell’intervento legislativo in esame, nonché di effettuare anche una valutazione delle novità introdotte, l’esame di queste ultime sarà sempre preceduto da quello della disciplina vigente e delle relative criticità, nonché del modo in cui le stesse sono state affrontate dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Ciò consentirà, peraltro, anche di evidenziare se, ed eventualmente in quale misura, l’intervento legislativo in esame sia in linea con gli auspici della dottrina per superare de iure condendo dette criticità e/o con le prassi instauratesi presso gli uffici giudiziari per farvi fronte.
2. Le modifiche dirette della legge n. 206/2021 apportate nell’ambito dell’espropriazione presso terzi
La legge di riforma prevede alcune norme di applicazione diretta in materia di espropriazione di crediti al fine di intervenire su due peculiari problemi emersi nella prassi con riguardo: per un verso, al foro dell’espropriazione di crediti nei confronti delle pubbliche amministrazioni; per altro verso all’inefficacia del pignoramento presso terzi per mancata o tardiva iscrizione a ruolo.
3. Segue: Il foro dell’espropriazione di crediti nei confronti delle pubbliche amministrazioni
È noto come il regime dell’esecuzione forzata contro la pubblica amministrazione sia stato interessato da un’evoluzione storica cui sono sottese le esigenze di tutela, non solo del diritto di credito, ma anche dell’interesse pubblico perseguito dalle pubbliche amministrazioni. Questo spiega le normative speciali, sia in ordine ai profili procedimentali, sia in ordine ai profili dell’oggetto dell’azione esecutiva[6].
In particolare, la legge di riforma in commento non affronta i tanti profili dubbi emersi nel panorama interpretativo[7], ma interviene sul foro dell’espropriazione di crediti nei confronti delle pubbliche amministrazioni, in conseguenza della scelta di accentrare a Roma, con funzioni di controllo della spesa pubblica, il servizio di tesoreria dello Stato e, contestualmente, di evitare la concentrazione presso il Tribunale di Roma di tutti i procedimenti di espropriazione forzata di crediti nei confronti della p.a.
3.1. Evoluzione della disciplina vigente
Fin dall’entrata in vigore del vigente codice di rito, l’art. 26 c.p.c. disciplinava, al suo secondo comma, la competenza territoriale per l’espropriazione di crediti, attribuendola al giudice del luogo di residenza del terzo debitore ovvero del terzo detentore dei beni pignorati.
Questa regola è stata abbandonata dal legislatore del 2014, che ha abrogato la relativa previsione contenuta nel secondo comma dell’art. 26 c.p.c., introducendo, per disciplinare la materia, il nuovo art. 26 bis c.p.c., rubricato “foro relativo all’espropriazione forzata dei crediti”. In particolare, il legislatore del 2014, completando la più ampia riforma dell’espropriazione presso terzi compiuta con la legge 24 dicembre 2012, n. 228, ha inteso rafforzare la tutela del credito favorendo il cumulo presso un unico foro del pignoramento di più crediti dello stesso debitore nei confronti di terzi residenti presso fori diversi: la competenza, infatti, viene attribuita al giudice del luogo di residenza, domicilio, dimora o sede del debitore principale. Quando, però, il debitore principale sia una pubblica amministrazione indicata dall’art. 413, c. 5, c.p.c., il foro è radicato in base alla residenza (domicilio, dimora o sede) del terzo debitor debitoris[8].
Nondimeno, come rilevato in dottrina[9], la previsione di cui all’art. 26 bis c.p.c. non è di agevole interpretazione.
La ragione giustificatrice, come enunciato nella relazione illustrativa, è di carattere pragmatico e risiede nella esigenza di evitare che i tribunali di alcune grandi città, tipicamente sedi di pubbliche amministrazioni, siano gravati da un eccessivo numero di procedure espropriative presso terzi. Più in particolare, collegando la competenza per territorio dei processi esecutivi promossi ex art. 543 c.p.c. nei confronti di una parte pubblica non alla residenza del debitore, bensì a quella del terzo, si scongiura il rischio che essi debbano essere incardinati prevalentemente a Roma.
Nondimeno, parte della dottrina[10] ha rilevato che nella gran parte dei casi l’espropriazione forzata di crediti, quando eseguita ai danni di soggetti pubblici, non può che essere compiuta presso il tesoriere. Alla luce della ratio deflattiva della norma, ha pertanto proposto che in caso di pignoramento di crediti vantati da enti sottoposti al servizio di tesoreria unica, territorialmente competente sia il giudice del luogo dove si trova la filale dell’istituto presso il quale è localizzato il servizio di tesoreria, poiché detta filiale, ove dotata di autonomia, è l’unica abilitata a compiere le operazioni volte a vincolare il relativo ammontare e ad assumere la veste di terzo. In questa prospettiva, la corte di legittimità, con riferimento all’ipotesi di contenzioso instaurato per accertamento dell’obbligo del terzo ex art. 548 c.p.c., ha affermato che, ove il terzo pignorato sia una persona giuridica che si avvalga di un servizio di tesoreria unica, è territorialmente competente il giudice ove il terzo pignorato abbia una filiale dotata di autonomia organizzativo-gestionale, essendo l’unica ad essere abilitata a compiere le operazioni volte a vincolare il relativo ammontare e retta da un preposto autorizzato a stare in giudizio[11]. Muovendosi nell’ambito di questo ordine di idee, la competenza alternativa e concorrente del giudice del luogo della sede principale e di quello della struttura decentrata varrebbe solo per la determinazione del foro generale delle persone giuridiche nei giudizi in cui le stesse siano convenute, ma sarebbe inestensibile alle ipotesi di pignoramento di credito, altrimenti uno stesso credito potrebbe essere pignorato presso giudici diversi[12].
Quanto all’ambito applicativo, si è posto il problema di verificare quale significato rivesta il riferimento all’art. 413, comma quinto, c.p.c., il quale potrebbe indurre a ritenere che resti competente a conoscere della espropriazione presso terzi il giudice del luogo di residenza del terzo quando il pignoramento venga eseguito ai danni delle pubbliche amministrazioni per la soddisfazione dei crediti vantati dai dipendenti in forza di un rapporto di lavoro.
Nondimeno, come osservato in dottrina[13], questa interpretazione non sembra plausibile se si considera che i processi esecutivi promossi in relazione a crediti per emolumenti retributivi fondati su rapporti di lavoro con la pubblica amministrazione sono minori rispetto a quelli promossi ai danni delle pubbliche amministrazioni debitrici dei privati in caso di inadempimento di obbligazioni sorti a vario titolo.
Pertanto, parte della dottrina e la giurisprudenza di legittimità ritengono che l’ambito operativo di questa norma debba riguardare tutte le esecuzioni forzate promosse ai danni delle pubbliche amministrazioni per la soddisfazione di uno qualunque dei crediti da esse non onorati[14]. In questa prospettiva non occorre considerare dirimente la natura del credito staggito, ma la qualità di pubblica amministrazione, considerando quanto dispone l’art. 1, comma 2, del d.lgs. 165/2001.
3.2.La modifica diretta dell’art. 26 – bis, comma primo, c.p.c.
Il comma 29 prevede la riscrittura dell’art. 26-bis, comma 1, cpc sul «Foro relativo all’espropriazione forzata di crediti» come segue: «Quando il debitore è una delle pubbliche amministrazioni indicate dall’art. 413, quinto comma, per l’espropriazione forzata di crediti è competente, salvo quanto disposto dalle leggi speciali, il giudice del luogo dove ha sede l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato, nel cui distretto il creditore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede».
3.3.Valutazione della riforma
Come spiegato dalla relazione illustrativa, la modifica è conseguenza della scelta di accentrare, con funzioni di controllo della spesa pubblica, a Roma il servizio di tesoreria dello Stato e, contestualmente, di evitare la concentrazione presso il Tribunale di Roma di tutti i procedimenti di espropriazione forzata di crediti nei confronti della pubblica amministrazione.
Si tratta di una scelta ragionevole, che considera l’esigenza di distribuire i carichi di lavoro tra gli uffici.
Nondimeno, secondo parte della dottrina[15], frutto di lapsus calami appare il richiamo alla «dimora» del creditore, in alternativa alla residenza o al domicilio. Per le persone fisiche il criterio della dimora è solo sussidiario, essendo invocabile solo quando residenza o domicilio siano ignoti (cfr. l’art. 18 c.p.c.). Conseguentemente, ritenere che il creditore possa procedere in executivis in qualunque luogo abbia una dimora, magari una seconda casa di vacanza, significa consegnare il criterio di competenza al più assoluto arbitrio e ripetere le gravi incertezze che abbiamo conosciuto in questo periodo di limitazioni pandemiche, avuto riguardo ai trasferimenti da e verso le seconde case.
4. Segue: La notifica, a pena di inefficacia, da parte del creditore pignorante al debitore esecutato e al terzo pignorato dell’avvenuta iscrizione a ruolo del pignoramento presso terzi
La legge di riforma interviene su un tema che ha suscitato diversi problemi applicativi; uno di questi è rappresentato dal rischio di non ottenere l’immediato svincolo delle somme a causa della mancata comunicazione del creditore al terzo debitor debitoris in seguito alla sopravvenuta inefficacia del vincolo.
4.1. La disciplina vigente in merito alla comunicazione dell’inefficacia del pignoramento al debitore e al terzo debitor debitoris
Il legislatore del 2014, apportando rilevanti modifiche alla fase iniziale dell’espropriazione forzata, ha fatto leva sul “principio dell’impulso di parte” per la prosecuzione dell’iter esecutivo dopo il compimento delle formalità del pignoramento, ponendo in capo al creditore procedente l’onere di provvedere all’iscrizione a ruolo della procedura esecutiva nei termini e nelle forme stabilite dalla legge, pena l’inefficacia del pignoramento, che ai sensi del 1° comma dell’art. 164 ter disp. att. c.p.c. opera di diritto.
Alla luce degli innovati artt. 518, 6° comma, 521, 5° e 6° comma, 543, 4° comma, e 557 c.p.c., in ciascuna delle diverse forme dell’espropriazione forzata, dopo il compimento delle operazioni di pignoramento, l’ufficiale giudiziario, infatti, non deve più provvedere al deposito dell’atto di pignoramento, del titolo esecutivo e del precetto, presso la cancelleria del giudice dell’esecuzione, ma è chiamato a consegnarli senza ritardo al creditore procedente, affinché quest’ultimo proceda all’iscrizione a ruolo, lasciando così ad esso la scelta di coltivare o meno l’intrapresa esecuzione[16].
Il legislatore, con la richiamata riforma del 2014, ha peraltro stabilito che gli effetti del pignoramento inefficace a causa della mancata o intempestiva iscrizione a ruolo vengano meno a prescindere dalla declaratoria giudiziale di estinzione, evidentemente al fine di scongiurare il rischio che il debitore subisca le conseguenze di una espropriazione inutile ed insuscettibile di sanatoria.
Nondimeno, anche se la cessazione degli effetti del pignoramento costituisce una conseguenza ope legis della scadenza del termine perentorio di cui agli artt. 518, 543 e 557 c.p.c., l’art. 164 ter disp. att. c.p.c. impone al creditore di redigere e notificare al terzo e al debitore apposita dichiarazione di mancata iscrizione a ruolo.
Più in dettaglio, con specifico riferimento al pignoramento presso terzi: per un verso, l’art. 543, comma quarto, c.p.c., prevede un’ipotesi di inefficacia per omessa o intempestiva iscrizione a ruolo del processo a cura del creditore pignorante; per altro verso, l’articolo 164-ter disp. att. c.p.c., prescrive che il creditore, entro cinque giorni dalla scadenza del termine per l’iscrizione a ruolo, provveda a fare, mediante notifica, apposita dichiarazione di mancata iscrizione a ruolo al debitore e all’eventuale terzo debitor debitoris affinché siano edotti della chiusura della procedura esecutiva, a causa della sopravvenuta inefficacia del pignoramento derivante dal tardivo o mancato deposito.
La ragione sottesa a questa norma è di impedire un’inerte pendenza sine die del pignoramento, consentendo una rapida liberazione dei beni già sottoposti a pignoramento, evitando il ricorso al giudice dell’esecuzione per sbloccare somme o cespiti non più vincolati alla soddisfazione del creditore in ragione dell’automatica cessazione degli obblighi di custodia in capo al terzo.
Nondimeno, considerata l’assenza di una sanzione relativa a questa disposizione, nella prassi è stato frequentemente constatato che la mancata informazione al terzo impedisca a quest’ultimo di avvedersi della già verificatasi liberazione dei beni. In tal guisa il terzo pignorato, non conoscendo l’esito della procedura, mantiene il vincolo sulle somme pignorate.
Si tratta di un fenomeno diffuso, che comporta, non solo conseguenze dannose per il debitore, ma anche per l’amministrazione della giustizia, costretta a sopportare i costi di contenziosi derivanti da pignoramenti inutilmente pendenti.
4.2. La notifica della avvenuta iscrizione a ruolo da parte del creditore al debitore e al terzo prevista dalla legge di riforma
L’art. 1, comma 32 aggiunge all’articolo 543, comma 4 del c.p.c., i seguenti commi: «Il creditore, entro la data dell’udienza di citazione indicata nell’atto di pignoramento, notifica al debitore e al terzo l’avviso di avvenuta iscrizione a ruolo con indicazione del numero di ruolo della procedura e deposita l’avviso notificato nel fascicolo dell’esecuzione. La mancata notifica dell’avviso di cui al precedente comma o il suo mancato deposito nel fascicolo della esecuzione determina l’inefficacia del pignoramento. Qualora il pignoramento sia eseguito nei confronti di più terzi, l’inefficacia si produce solo nei confronti dei terzi rispetto ai quali non è notificato o depositato l’avviso. In ogni caso, ove la notifica dell’avviso di cui al presente comma non è effettuata, gli obblighi del debitore e del terzo cessano alla data dell’udienza indicata nell’atto di pignoramento».
4.3. Valutazione della riforma
Secondo la Relazione illustrativa, la previsione testé riportata mira a completare il disposto dell’articolo 164-ter disp. att. c.p.c., primo comma. In effetti, si introduce la sanzione in correlazione all’adempimento relativo all’iscrizione al ruolo, posto che proprio la mancanza della sanzione ha comportato i problemi applicativi sopra considerati. Lo scopo della modifica normativa, che grava il creditore pignorante, a pena di inefficacia del pignoramento, di un ulteriore onere, è, dunque, di consentire al terzo di conoscere con certezza quale sia stato l’esito del pignoramento e di liberare le somme pignorate quando il vincolo non ha più ragione di essere.
È quanto mai opportuno che il legislatore abbia considerato[17], in via prioritaria, la posizione del terzo debitor debitoris e, con essa, la tutela del debitore, sebbene dubbi possano avanzarsi in ordine alla ragionevolezza del rapporto individuato dal legislatore, tra mezzo e scopo, nella previsione normativa in esame. Sembrerebbe, infatti, eccessivamente punitiva, come già rilevato dal parere formulato dal CSM in ordine alla riforma in commento[18], la sanzione dell’inefficacia del pignoramento.
5. L’abrogazione della spedizione in forma esecutiva
La legge di riforma in esame prevede l’abrogazione dell’istituto della spedizione in forma esecutiva, che, sia pur spesso oggetto di affermazioni contrastanti in ordine alla sua perdurante utilità nell’ambito del nostro ordinamento, rappresenta, come si è già avuto modo di evidenziare ampiamente in altra sede [19], non solo l’attività necessaria a far sì che il titolo giudiziale o quello notarile esplichino la funzione di titolo esecutivo, ma anche la sede in cui il pubblico ufficiale all’uopo deputato esercita un controllo che, sia sotto il profilo soggettivo che oggettivo, non può essere qualificato come un mero controllo formale, svolgendo, invece, un ruolo ben più significativo e pregnante.
È alla luce della consapevolezza delle funzioni che la spedizione in forma esecutiva assolve nel nostro ordinamento che va analizzato l’intervento previsto dalla legge di riforma in commento, analogamente a quanto avvenuto in merito a recenti interventi legislativi legati all’emergenza sanitaria da Covid -19, con riguardo alle copie telematiche delle copie esecutive.
5.1. La disciplina vigente
Gli artt. 475, 476 c.p.c. e 153 e 154 disp. att. c.p.c., c.p.c. disciplinano la cd. spedizione in forma esecutiva, formalità prevista per i titoli di formazione giudiziale nonché per gli atti pubblici, non invece per i titoli di credito e - stando al dettato normativo - per le scritture private autenticate il cui originale è di regola in possesso delle parti [20]. Per questi titoli, la spedizione in forma esecutiva è, i«nfatti, sostituita dall’obbligo di trascrizione integrale nell’atto di precetto ai sensi dell’art. 480, comma 2, c.p.c.
Di recente quest’istituto è stato fatto oggetto di attenzione da parte del legislatore alla luce di quanto previsto dal comma 9 bis dell’art. 23 del d.l. 137/2020, con il quale, al fine di fronteggiare l’emergenza epidemiologica in atto, si è prevista la possibilità che la copia esecutiva dei titoli giudiziali di cui all’articolo 475 c.p.c. possa essere rilasciata dal cancelliere in forma di documento informatico, previa istanza, da depositare in modalità telematica, della parte a favore della quale fu pronunciato il provvedimento [21].
5.2. La funzione della spedizione in forma esecutiva secondo la dottrina e la giurisprudenza
È controverso quale sia la funzione della spedizione in forma esecutiva e, soprattutto, l’effettiva rilevanza della stessa nell’ambito del nostro ordinamento.
In dottrina[22], in più occasioni, e talvolta anche in giurisprudenza[23], si è ritenuto che l’apposizione della formula esecutiva rappresenti un relitto storico, anche facendo leva sulle origini di quest’istituto, afferenti ad epoca in cui l’esecuzione non era attribuita al potere giurisdizionale, bensì a quello amministrativo[24].
Nondimeno, non sono mancate voci autorevoli che conferiscono all’istituto in esame un ruolo particolarmente pregnante, ritenendo che «prima che sia apposta la formula esecutiva, il diritto a procedere ad esecuzione forzata è soggetto ad una condizione impropria (condicio iuris) il cui avveramento soltanto ne consente l’esercizio»[25]. Recentemente queste voci hanno trovato eco, ancorché in modo tanto parziale da non rispecchiarne il senso, in una pronuncia della Corte di legittimità[26], la quale, da un canto, ha conferito fondamentale rilievo alla spedizione in forma esecutiva quale istituto che assegna efficacia esecutiva al titolo, d’altro canto ha qualificato i vizi come motivi di opposizione agli atti esecutivi.
A fronte di queste due impostazioni contrapposte, si riscontra, infine, un’ulteriore impostazione dottrinale che, pur non riconoscendo alla spedizione in forma esecutiva il ruolo di conferire esecutività al titolo, ritiene comunque che la stessa riveste «tuttora importanti funzioni» [27]. Si è ritenuto, in particolare, che la «funzione della spedizione in forma esecutiva è estremamente importante: tale funzione non risiede nella solenne formula esecutiva richiesta dall’art. 475, comma 3, c.p.c. (alla quale la dottrina concordemente riconosce valenza di “residuo storico”, privo ormai di ogni effettivo significato), ma piuttosto nell’esigenza di “contrassegnare” il documento al quale si attribuisce la funzione di attivare l’esecuzione forzata, e che - secondo un’incisiva metafora – “incorpora” l’azione esecutiva, alla stessa stregua del titolo di credito che incorpora il diritto di credito»[28].
5.3. Le incertezze interpretative registratesi nel corso del tempo in merito alla tipologia e al controllo in sede di spedizione in forma esecutiva
Non sussiste uniformità di vedute, in dottrina e giurisprudenza, neanche in ordine alla tipologia e ai confini del controllo esercitabile da parte del pubblico ufficiale in sede di spedizione del titolo in forma esecutiva.
Più in particolare, non risulta pacifico quale sia esattamente l’ambito del controllo richiesto al pubblico ufficiale in sede di rilascio della copia esecutiva, né tantomeno è chiaro se sussista una piena uniformità fra il controllo che compete al cancelliere con riferimento ai titoli esecutivi giudiziali[29] e quello che compete al notaio con riferimento agli atti dallo stesso ricevuti[30].
Significative incertezze si registrano in giurisprudenza.
Secondo l’orientamento più volte affermato dalla Corte di legittimità, l’apposizione della formula esecutiva attiene ai requisiti di regolarità formale del titolo esecutivo in senso documentale e non costituisce, al contrario, elemento essenziale per il dispiegarsi di un’efficacia esecutiva che è già interna al titolo[31]. Ulteriore funzione della spedizione in forma esecutiva, sottolineata in altra pronuncia, è quella di assicurare che un pubblico ufficiale eserciti il controllo, nel momento della spedizione del titolo, sulla legittimazione all’azione esecutiva da parte di colui a favore del quale è richiesta l’apposizione della formula esecutiva[32].
Più in dettaglio, alla luce della lettura congiunta della norma di cui all’art. 153 disp. att. c.p.c. con le norme sulle opposizioni esecutive, la giurisprudenza, nel corso del tempo, ha ritenuto che il pubblico ufficiale debba verificare se l’atto abbia i requisiti indicati nella formula, senza sindacarne il contenuto o l’efficacia[33]. Si tratterebbe, pertanto, di un controllo dal carattere meramente formale, come confermato dal fatto che la denuncia dell’errata apposizione della formula esecutiva configura un’ipotesi di opposizione ex art. 617 c.p.c. allorquando si faccia riferimento solo alla correttezza della spedizione del titolo in forma esecutiva, richiesta dall’art. 475 c.p.c., poiché in tal caso l’indebita apposizione della formula può concretarsi in una irregolarità del procedimento esecutivo o risolversi in una contestazione della regolarità del precetto ai sensi del primo comma dell’art. 617 c.p.c.[34]
Viceversa, allorché la denuncia sia motivata dalla contestazione dell’inesistenza del titolo esecutivo ovvero dalla mancata soddisfazione delle condizioni perché l’atto acquisti l’efficacia di titolo esecutivo, l’opposizione deve qualificarsi come opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 c.p.c.[35]. Anche i profili relativi all’adempimento dell’obbligo consacrato nel titolo esecutivo trovano la loro sede nell’opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c.
In senso singolare, rispetto a questi orientamenti, si è posta una recente pronunzia della Corte di legittimità, secondo la quale non è condivisibile la tesi dell’irrilevanza della spedizione in forma esecutiva affinché un atto possa valere come titolo esecutivo, ma è preferibile la tesi per cui la spedizione è una delle condizioni dell’azione esecutiva[36]. Questa pronuncia, benché sembri evocare (soltanto) testualmente una nota concezione[37] sulla spedizione in forma esecutiva, in verità ne muta il senso e i confini nella parte in cui articola il controllo da effettuarsi in sede di spedizione esecutiva e qualifica il vizio relativo alla irregolarità della spedizione in forma esecutiva.
5.4. L’acuirsi delle incertezze interpretative, sul versante della spedizione in forma esecutiva, derivanti dall’affermarsi del documento informatico
L’esigenza di identificare l’unica copia del titolo idonea a fondare l’esecuzione forzata è stata messa in crisi, negli ultimi anni, dall’affiancarsi al tradizionale documento cartaceo - su cui è incentrata la disciplina del codice di rito civile in tema di titolo esecutivo -, del documento informatico.
Inevitabilmente, una disciplina incentrata sulle tradizionali figure di documento e di copia cartacea solleva problematiche, tanto di ordine sistematico, quanto di ordine pratico-operativo, ove sia trasfusa in un differente contesto contraddistinto dal ricorso anche a documenti e copie non cartacei, che, a differenza del documento cartaceo, non nascono come esemplari unici.
Non a caso, si è ritenuto che, dopo l’entrata in vigore del cd. codice dell’amministrazione digitale e del processo telematico, la distinzione fra originale e copia «perde la tradizionale rilevanza … in quanto la copia di un file è di fatto identica all’originale» e che l’impossibilità di distinguere fisicamente l’originale dalla copia rischia di «rendere ormai residuali anche adempimenti formali tradizionali, quali, ad esempio, quelli relativi alla apposizione della formula esecutiva»[38].
Questa problematica è stata acuita dall’introduzione, nel nostro ordinamento, di una norma di carattere generale avente ad oggetto le copie informatiche di atti processuali (ossia l’art. 16-bis, comma 9-bis, del d.l. n. 179/2012) nonché dalle relative prassi applicative diffusesi presso i Tribunali specie in seguito all’insorgenza della emergenza epidemiologica.
La delicatezza di questa problematica è stata però accresciuta in modo dirompente dall’intervento del legislatore di cui al comma 9 bis dell’art. 23 del d.l. 137/2020, sopra richiamato, con il quale, al fine di fronteggiare l’emergenza epidemiologica in atto, si è prevista la possibilità che la copia esecutiva dei titoli giudiziali di cui all’articolo 475 c.p.c. possa essere rilasciata dal cancelliere in forma di documento informatico previa istanza, da depositare in modalità telematica, della parte a favore della quale fu pronunciato il provvedimento.
Si tratta, come precedentemente evidenziato[39], di una norma circoscritta ai soliti titoli giudiziali, in forza della quale non viene meno la competenza esclusiva del cancelliere in tema di controllo e spedizione del titolo in forma esecutiva, che ha carattere transitorio (essendo stata introdotta dal legislatore per fronteggiare l’emergenza epidemiologica) e non già una portata di ordine sistematico e stabile nel tempo.
Ciò nonostante, non è mancato chi, nel commentare la disposizione in esame, ha ritenuto che «l’opportunità introdotta dall’art. 23 “Decreto Ristori” non è, in ultima analisi, legata alla contingenza, ma scandita dall’evoluzione stessa dell’ordinamento e del processo»[40].
Indubbiamente, come già precisato in altra sede[41], esiste un’esigenza di lungo periodo di contestualizzare la disciplina del codice di rito civile in tema di spedizione del titolo in forma esecutiva, chiaramente incentrata sulla tradizionale figura di documento cartaceo, nell’ambito di un rinnovato contesto (anche) processuale in cui, accanto al documento cartaceo, ha trovato sempre più spazio il documento informatico.
Nondimeno, non sussiste in via di principio un’incompatibilità di fondo fra l’attuale disciplina del codice di procedura civile nella parte in cui vuole evitare la proliferazione delle copie del titolo esecutivo e la natura informatica (e non cartacea) del titolo e delle copie dello stesso, posto che detta esigenza può essere comunque salvaguardata, anche in quest’ultima ipotesi, attraverso l’individuazione di differenti modalità operative di rilascio delle copie rispetto a quelle tradizionalmente disciplinate dal codice che siano tali da scongiurare il suddetto rischio.
Una cosa è, in altri termini, l’esigenza innegabile di rivedere l’attuale disciplina codicistica in tema di spedizione del titolo in forma esecutiva ove questo non sia più rappresentato dal tradizionale documento cartaceo, altra cosa è ritenere che, in ragione delle differenti caratteristiche del documento informatico rispetto a quello cartaceo, detta disciplina debba essere necessariamente rivista nel senso di ridimensionare o eliminare radicalmente l’istituto della spedizione in forma esecutiva.
5.5. La rilevanza del controllo esercitato in sede di spedizione in forma esecutiva
In forza di un’ampia indagine di recente condotta [42], prendendo le mosse proprio dalla suddetta evoluzione (dottrinale, giurisprudenziale e normativa) e dalle relative incertezze determinatesi sia sul piano teorico – sistematico, sia sul piano pratico – operativo, è possibile sinteticamente evidenziare quanto segue con riferimento alle funzioni che la spedizione in forma esecutiva assolve nel nostro ordinamento e al controllo in tal sede esercitato dal pubblico ufficiale.
L’analisi effettuata ha consentito di contestualizzare e ridimensionare il significato delle affermazioni talvolta effettuate dalla dottrina più risalente nel tempo nel senso di considerare la spedizione in forma esecutiva un mero relitto storico. Trattasi, infatti, di affermazioni che trovano spesso la loro ragion d’essere nell’evoluzione storica dei titoli esecutivi stragiudiziali.
Al fine di cogliere la funzione della spedizione in forma esecutiva, in questa prospettiva di ricerca, si è rimarcata la necessità di considerare la scelta effettuata dal nostro ordinamento il quale, a differenza di quanto accade in altri ordinamenti, non subordina l’instaurazione del processo esecutivo ad un controllo giurisdizionale preventivo sulla idoneità del titolo esecutivo a dare luogo ad una legittima esecuzione forzata, essendo, invece, previsto (artt. 475 c.p.c. e 153 disp. att. c.p.c.) solo un controllo rimesso al cancelliere o al notaio (a seconda che a fondamento della pretesa esecutiva sia posto un titolo giudiziale o stragiudiziale), cui si affianca un ulteriore controllo attribuito all’ufficiale giudiziario, che (in forza del combinato disposto degli artt. 60, n. 1, c.p.c. e 108, 2° co., d.p.r. 15 dicembre 1959, n. 1229 t.u. sull’ordinamento degli ufficiali giudiziari) può legittimamente rifiutare l’esecuzione forzata richiestagli.
Queste brevi considerazioni: per un verso, implicano che il nostro ordinamento considera come fisiologica la possibilità che il diritto di procedere ad esecuzione forzata non sussista al momento dell’instaurazione del processo esecutivo e che ciò possa essere accertato in sede giurisdizionale solo a fronte di un’apposita iniziativa in tal senso del soggetto a ciò interessato nelle forme dell’opposizione (all’esecuzione o agli atti esecutivi); per altro verso, manifestano l’importanza del controllo esercitato (o esercitabile) in sede di spedizione in forma esecutiva, nel senso di deflazionare il contenzioso, sub specie di instaurazione di giudizi oppositivi volti a contestare il diritto consacrato nel titolo.
L’indagine storica, sistematica e teleologica della spedizione in forma esecutiva ha consentito di sottolineare che la spedizione del titolo in forma esecutiva, non svolge nel nostro ordinamento la sola funzione di identificare l’unica copia del titolo idonea a fondare l’esecuzione forzata, e dunque di evitare la possibile instaurazione di una pluralità di processi esecutivi in forza del medesimo titolo, rappresentando anche la sede istituzionalmente deputata a consentire l’effettuazione di un controllo da parte del cancelliere o del notaio a seconda della differente tipologia di titolo esecutivo che venga in rilievo. Un controllo che si inserisce oggi in uno scenario mutato rispetto a quello vigente al tempo della codificazione, contraddistinto dall’accresciuta importanza dei titoli esecutivi stragiudiziali, e nella specie notarili, oltre che dalla complessità delle relazioni economiche, che acuisce la complessità dell’indagine richiesta ai fini della spedizione del titolo in forma esecutiva: dal punto di vista oggettivo, sotto il profilo sussistenza di un’obbligazione suscettibile di essere eseguita nelle forme dell’esecuzione forzata; dal punto di vista soggettivo, sotto il profilo della legittimazione ad ottenere la copia esecutiva ex art. 475 c.p.c. Conseguentemente, ogni valutazione in ordine all’attuale rilevanza nel nostro ordinamento dell’istituto della spedizione del titolo in forma esecutiva è inscindibilmente legata al ruolo effettivamente svolto da questo controllo nel nostro ordinamento.
All’esito di tale indagine è, dunque, parso evidente come ci troviamo dinanzi, non ad un mero relitto storico, bensì ad un istituto che, così come attualmente disciplinato ovvero adeguatamente riformato, costituisce o può costituire una preziosa risorsa per circoscrivere il rischio di instaurazione di processi esecutivi illegittimi o infondati, a tutto beneficio del soggetto altrimenti destinato a subire un’esecuzione illegittima o “ingiusta” e della deflazione del carico giudiziario (che si coglie, nel caso di specie, non solo sotto il profilo della instaurazione del processo esecutivo, ma anche delle invitabili parentesi cognitive destinate ad ospitare l’accertamento della fondatezza delle doglianze del debitore esecutato).
Più in particolare, quanto meno con riferimento al controllo rimesso al notaio, non ci troviamo di fronte ad un controllo meramente formale, sia dal punto di vista soggettivo, sia dal punto di vista oggettivo del diritto cristallizzato nel titolo.
Dal punto di vista soggettivo del diritto consacrato nel titolo appare difficilmente contestabile che il controllo di cui si discute:
- per un verso, non sia un mero controllo formale, essendosi da più parti evidenziato come ci troviamo di fronte ad un controllo penetrante, o che non si può comunque esaurire in un mero controllo cartolare nell’ipotesi in cui la spedizione del titolo venga effettuata in favore (non della parte ma) del successore, specie laddove si ritenga necessario fornire la prova della successione;
- per altro verso, elevi la certezza del diritto consacrato nel titolo in quanto, in tal caso, con l’apposizione della formula si integrano i riferimenti del titolo, attraverso l’individuazione di un diverso soggetto avente diritto di procedere all’esecuzione a seguito di un evento che determina una successione nel diritto e nel titolo.
Dal punto di vista oggettivo del diritto consacrato nel titolo, ci troviamo di fronte ad un controllo che non si è mai esaurito in un mero controllo formale, circoscritto cioè alla sola forma dell’atto. Si è, invece, sempre trattato di un controllo esteso anche al contenuto dell’atto. Più in dettaglio, pur escludendosi dai più che detto controllo debba spingersi sino a verificare la sussistenza di un diritto certo, liquido ed esigibile (cd. esecutività in concreto), è stato comunque sempre effettuato un penetrante controllo sulla conformazione dell’obbligazione. Inoltre, in relazione a fattispecie particolarmente controverse si è elevata la certezza del diritto consacrato nel titolo ricorrendo al cd. titolo esecutivo complesso.
È alla luce di queste riflessioni che si è considerato come l’istituto della spedizione del titolo in forma esecutiva, proprio in quanto strettamente connesso al controllo preventivo esercitabile rispetto all’instaurazione del processo esecutivo, non può essere semplicisticamente archiviato come un relitto storico, così come non si può ritenere che si tratti di un istituto superato in quanto inscindibilmente legato alla natura cartacea del titolo o della copia, essendo piuttosto ben compatibile anche con un documento non avente consistenza cartacea.
In definitiva, ci troviamo di fronte ad un controllo che, sia sotto il profilo soggettivo che sotto quello oggettivo, non può essere qualificato come un mero controllo formale e che svolge, invece, un ruolo ben più significativo e pregnante nel nostro ordinamento in quanto, pur muovendosi sul piano del contenuto dell’atto, contribuisce ad elevare il livello di certezza di esistenza del diritto consacrato nel titolo e, dunque, anche a ridurre il rischio che questo sia contestato attraverso l’instaurazione di un giudizio oppositivo. In altri termini, svolge un ruolo di “filtro di accesso” alla tutela esecutiva e di deflazione del contenzioso nell’ambito di un ordinamento come il nostro che, a differenza di altri ordinamenti, è privo di un controllo giurisdizionale preventivo sulla idoneità del titolo a dare luogo ad una legittima esecuzione forzata.
5.6. L’intervento previsto dalla legge di riforma
L’art. 12, lett. a) prevede che per valere come titolo per l’esecuzione forzata le sentenze e gli altri provvedimenti dell’autorità giudiziaria e gli atti ricevuti dal notaio o da altro pubblico ufficiale, devono essere formati in copia attestata conforme all’originale, abrogando le disposizioni del codice di procedura civile e le altre disposizioni legislative che si riferiscono alla formula esecutiva e alla spedizione in forma esecutiva.
Nelle “proposte normative e note illustrative” della “Commissione per l’elaborazione di proposte di interventi in materia di processo civile e di strumenti alternativi” si invocano, a fondamento della proposta di abrogazione della spedizione del titolo in forma esecutiva:
- la dottrina secondo la quale “la formula esecutiva è un requisito la cui utilità è scarsamente comprensibile”;
- la giurisprudenza di legittimità che interpreta l’art. 475 c.p.c. nel senso di “escludere che la formula esecutiva costituisca elemento indefettibile per un titolo esecutivo” e che ha di recente ulteriormente indebolito la rilevanza della formula esecutiva ritenendo da un lato, che “l’omessa spedizione in forma esecutiva della copia del titolo esecutivo rilasciata al creditore e da questi notificata al debitore determina un’irregolarità formale del titolo medesimo, che deve essere denunciata nelle forme e nei termini di cui all’art. 617 c.p.c.”; dall’altro lato, che il debitore non può limitarsi, a pena di inammissibilità dell’opposizione, a dedurre l’irregolarità formale in sé considerata, senza indicare quale concreto pregiudizio ai diritti tutelati dal regolare svolgimento del processo esecutivo essa abbia cagionato”;
- la disciplina legislativa sopravvenuta – riguardo all’iscrizione a ruolo dei processi di espropriazione mediante il deposito di una copia (formata dallo stesso difensore del creditore) del titolo rilasciato in forma esecutiva – che renderebbe “vieppiù superflua la normativa codicistica”.
5.7. Valutazione della riforma
La legge di riforma suscita molte perplessità, sia per l’epilogo cui giunge, sia per le motivazioni ad esso sottese.
Le motivazioni di cui alla Relazione illustrativa appaiono del tutto censurabili.
In primo luogo, non può assolutamente dirsi pacifica l’affermazione che tende a svalutare l’importanza della spedizione in forma esecutiva.
Come già evidenziato, è assai controversa, in dottrina e giurisprudenza, la funzione della spedizione in forma esecutiva e l’affermazione secondo cui ci troveremmo di fronte ad un “relitto storico”: è spesso ripetuta in modo tralaticio nel corso del tempo; trova, in realtà, la sua ragion d’essere nell’evoluzione storica dei titoli esecutivi stragiudiziali, con particolare riguardo all’evento rivoluzionario relativo all’introduzione della cambiale e al fenomeno della cd. alla interiorizzazione della forza esecutiva[43].
Invero, spesso le obiezioni della dottrina a quest’istituto sono state talvolta incentrate, non sull’istituto in sé e sul controllo che può essere deputato a salvaguardare, bensì sulle modalità di attuazione dello stesso e, in particolare, sulla formula di cui all’art. 475 c.p.c.
In secondo luogo, la pronuncia della corte di legittimità invocata a fondamento dell’abrogazione dell’istituto, non solo si inserisce in un panorama giurisprudenziale che non può dirsi pacifico, ma soprattutto è apparsa intrinsecamente contraddittoria nella parte in cui: da un canto, ha conferito fondamentale rilievo alla spedizione in forma esecutiva quale istituto che assegna efficacia esecutiva al titolo - riprendendo quasi testualmente la nota impostazione dottrinale che attribuisce alla spedizione del titolo in forma esecutiva la rilevanza di condicio iuris per l’esercizio dell’azione esecutiva -; d’altro canto ha sminuito la rilevanza della spedizione del titolo in forma esecutiva sotto il profilo della sua eventuale omissione e della tipologia del vizio deducibile in sede di opposizione (oltre che delle condizioni cui sarebbe subordinata detta deducibilità).
In terzo luogo, non sussiste alcuna incompatibilità di fondo fra la disciplina del codice di rito civile nella parte in cui mira ad evitare la proliferazione delle copie del titolo esecutivo e la natura informatica (e non cartacea) del titolo e delle copie dello stesso, posto che detta esigenza può essere comunque salvaguardata, anche in quest’ultima ipotesi, attraverso l’individuazione di differenti modalità operative di rilascio delle copie, rispetto a quelle tradizionalmente disciplinate dal codice, tali da scongiurare il suddetto rischio (così come si è tentato di fare in sede di riforma della legge notarile, con l’art. 68 bis, in relazione al possibile rilascio in via telematica della copia esecutiva da parte del notaio); una cosa è l’esigenza innegabile di rivedere l’attuale disciplina codicistica in tema di spedizione del titolo in forma esecutiva ove questo non sia più rappresentato dal tradizionale documento cartaceo, altra cosa è ritenere che, in ragione delle differenti caratteristiche del documento informatico rispetto a quello cartaceo, l’istituto della spedizione in forma esecutiva sia stato sostanzialmente abrogato o debba essere comunque necessariamente abrogato
Da quanto osservato emerge il rischio evidente della scelta di abrogare l’istituto della spedizione del titolo in forma esecutiva al fine di semplificare l’iter che precede l’instaurazione del processo esecutivo: pagare un prezzo molto alto in termini di aumento dei giudizi oppositivi, posto che detto controllo, quanto meno con riferimento ai titoli di formazione stragiudiziale - e, segnatamente, con riferimento a quelli di formazione notarile -, non è stato mai inteso come un mero controllo formale circoscritto alla sola forma dell’atto, bensì come un controllo ben più penetrante che, seppur incentrato sul contenuto dell’atto, ha sempre contribuito ad accrescere la certezza del diritto consacrato nel titolo.
Né si può immaginare che il controllo attualmente effettuato dal notaio in sede di spedizione del titolo in forma esecutiva possa essere effettuato dall’ufficiale giudiziario in sede di legittimo rifiuto a procedere all’esecuzione forzata richiestagli, ossia l’unico controllo antecedente rispetto all’instaurazione del processo esecutivo che sopravvivrebbe all’esito della suddetta riforma[44].
In definitiva, per i motivi già ampiamente evidenziati in altra sede [45], non appare azzardato ritenere che, de iure condendo, la direzione corretta da imboccare non sarebbe stata quella di eliminare la spedizione del titolo in forma esecutiva, ma quella di valorizzare detto istituto facendolo divenire la sede per un controllo più penetrante sul titolo esecutivo, così eliminando, per un verso, i dubbi attualmente esistenti in ordine alla delimitazione dei confini del controllo esercitabile in detta sede e così accrescendo, per altro verso, la certezza del diritto consacrato nel titolo, con evidenti effetti in termini di deflazione del contenzioso (sub specie di instaurazione di giudizi oppositivi volti a contestare il diritto consacrato nel titolo).
6. La riduzione dei termini ex art. 567 c.p.c.
La legge di riforma prevede una generale riduzione dei termini per il deposito della certificazione ipocatastale, nonché del certificato notarile sostitutivo[46], con l’intento di rendere più celere la fase introduttiva della procedura esecutiva immobiliare.
6.1. La disciplina vigente
La disciplina in materia di termini per il deposito della documentazione suddetta, necessaria ai fini di ottenere l’autorizzazione alla vendita, ha subito diverse modifiche nel corso del tempo.
La legge 3 agosto 1998, n. 302 aveva previsto il termine di sessanta giorni per il deposito della documentazione ipocatastale o del certificato notarile sostitutivo, ritenuto allora troppo breve ad opera di parte della dottrina[47].
In forza delle innovazioni apportate dalla legge 28 dicembre 2005, n. 263, il termine in questione era stato fissato in centoventi giorni decorrenti dal deposito dell’istanza di vendita, prorogabili per un sola volta fino a ulteriori centoventi in presenza di “giusti motivi”, su richiesta dei creditori o dell’esecutato[48].
La disciplina attualmente vigente costituisce il frutto dell’intervento novellatore attuato con il d.l. 27 giugno 2015, n. 83 (convertito in L. n. 132/2015), che ha dimezzato i termini relativi sia al deposito del ricorso e alla documentazione sopra indicata, sia alla proroga richiesta che diviene, in entrambi i casi, di sessanta giorni.
In caso di mancato deposito o mancata integrazione, il giudice, anche d’ufficio, dichiara con ordinanza, dopo aver sentito le parti, l’inefficacia del pignoramento limitatamente a tali beni, ordinando, altresì, la cancellazione della trascrizione; è, invece, dichiarata l’estinzione dell’intera procedura nei soli casi in cui non vi siano altri beni pignorati.
6.2. L’intervento previsto in ordine all’art. 567 c.p.c. dalla legge di riforma
La lett. c) del comma 12 richiede al legislatore delegato di attuare una riduzione del termine per depositare la documentazione ipotecataria e catastale di cui al comma secondo dell’art. 567 c.p.c., riduzione che viene quantificata in quindici giorni, decorrenti dal deposito dell’istanza di vendita.
Per l’effetto si allineerebbe detto termine a quelli previsti dagli artt. 497 c.p.c., in tema di cessazione di efficacia del pignoramento, e 501 c.p.c., in tema di termine dilatorio del pignoramento.
A questo profilo è correlata la previsione di cui alla lett. d) dell’art. 12, che prevede la collaborazione del custode con l’esperto nominato ex art. 569 c.p.c. per meglio effettuare le verifiche sulla completezza della documentazione ipotecaria e catastale.
Questa previsione trova un significativo riscontro nelle linee guida elaborate dal CSM[49], ove viene rimarcata la rilevanza, nell’interesse della procedura esecutiva, di una stringente collaborazione tra esperto stimatore e custode. Come si osserverà analizzando le previsioni della legge di riforma in tema di custodia, infatti, alla luce delle distinte professionalità tanto del custode quanto dell’esperto, secondo le richiamate linee guida, «il controllo della documentazione appare più esauriente nella misura in cui stimatore e custode sommino i rispettivi angoli di visuale nella prospettiva di una verifica coordinata e simultanea»[50].
6.3. Valutazione dell’intervento previsto nella legge di riforma
Nei circoscritti confini del presente contributo basti evidenziare come, nonostante l’emergere negli ultimi anni di talune problematiche, anche significative, in tema di contenuti e funzione della documentazione di cui all’art. 567 c.p.c., la scelta del legislatore di cui alla l. n. 206/2021 è quella di effettuare solo un intervento minimale, ossia la suddetta riduzione del relativo termine di deposito. Peraltro, secondo il richiamato parere del CSM[51], la norma rischia di imporre al creditore un termine difficile da rispettare per gli adempimenti previsti dall’art. 567, co. 2, c.p.c., ed è prevedibile che i creditori ricorreranno spesso all’istanza di proroga del termine per giusti motivi ai sensi dell’art. 567 c.p.c. Occorrerebbe, secondo detto parere, valutare la possibilità di introdurre un termine più lungo o, quantomeno, di far decorrere lo stesso dalla ricezione, dal creditore, dell’atto di pignoramento notificato.
7. Le modifiche in tema di delega delle operazioni di vendita forzata
La legge di riforma in esame presenta diverse modifiche in relazione all’istituto della delega delle operazioni di vendita, che ha già subito, nel corso degli ultimi anni, già svariati interventi modificativi, talvolta anche di grosso impatto, per lo più accomunati dall’intento di potenziare un istituto (estendendone l’ambito di applicazione, sia da punto di vista dei soggetti delegabili, che delle attività delegabili) che ha indubbiamente contribuito, sin dai primi riscontri applicativi, a rendere più efficiente il processo di espropriazione forzata.
Ciò nonostante, come segnalato in dottrina[52] con riguardo alle prospettive de iure condendo, ancora residuano diversi margini di intervento per potenziare ancor di più l’istituto in esame, solo alcuni dei quali, come si vedrà, sembrano essere stati considerati dalla legge di riforma in commento.
Per una migliore lettura ed analisi delle modifiche contenute nella legge di riforma si esamineranno, in successione, le previsioni attinenti:
- all’istituto della delega;
- al controllo sugli atti del professionista delegato;
- al progetto di distribuzione.
7.1. Evoluzione dell’istituto della delega delle operazioni di vendita forzata
L’istituto della delega delle operazioni di vendita forzata ha subito una straordinaria evoluzione normativa.
Le sue origini si devono all’elaborazione scientifica di autorevole dottrina[53], fatta oggetto di un significativo dibattito dottrinale soprattutto in occasione di un importante convegno promosso ed organizzato dal Consiglio Nazionale del Notariato[54], i cui lavori costituirono il punto di riferimento del progetto di legge da cui scaturì la legge 3 agosto 1998 n. 302. Ancor prima di quest’espresso riconoscimento legislativo, peraltro, l’istituto della delega delle operazioni di vendita aveva già trovato riscontro nella prassi di taluni Tribunali [55], seppur con una portata più circoscritta di quella che sarebbe stata poi fatta propria dal legislatore di cui alla legge n. 302/98.
Nel sistema della legge 3 agosto 1998, n. 302 si inquadrava l’istituto nella nozione di delegazione intersoggettiva ad efficacia esterna nel diritto pubblico[56]. Sotto la vigenza della predetta legge, la tesi prevalente, peraltro, inquadrava il notaio delegato quale sostituto, non solo del giudice dell’esecuzione ma dell’ufficio giudiziario nel suo complesso, che continuava a svolgere la propria funzione notarile, nella quale è insita una funzione latamente processuale, con conseguente necessità di fare applicazione delle norme sulla legge notarile e non di quelle sugli ausiliari del giudice ai fini di una serie di problematiche[57].
I benefici che questo istituto ha arrecato al processo espropriativo, sia in ordine ai tempi dello stesso sia in ordine ai risultati conseguiti, hanno indotto il legislatore, con le riforme del 2005, ad ampliare tanto le attività quanto le categorie di soggetti delegabili. In tal guisa, tuttavia, è stato configurato un istituto diverso da quello ab origine disciplinato dalla legge 3 agosto 1998, n. 302: questo istituto, infatti, ha attualmente ad oggetto un’intera fase del processo di espropriazione forzata e comporta l’attribuzione al professionista delegato anche di attività riconducibili nell’attività di ius dicere. Inoltre, per effetto di questa riforma[58], il legislatore ha compiuto un decisivo passo verso un progressivo e sempre più esteso trasferimento all’esterno degli uffici giudiziari di funzioni lato o stricto sensu giurisdizionali.
Più in particolare, le riforme del 2005 hanno profondamente mutato la natura dell’istituto in esame, determinando, da un canto, un ampliamento delle categorie di soggetti delegabili (non più solo notaio, ma anche avvocati e commercialisti) e, conseguentemente l’impossibilità di invocare l’impianto normativo riferito solo al notaio; d’altro canto, un ampliamento delle attività delegabili, ritenute non più solo di giurisdizione in senso lato, ma anche di giurisdizione in senso stretto (si pensi, in particolare, alla valutazione delle offerte di cui all’art. 572 c.p.c.)
Si è in particolare osservato che l’operare della figura della cd. «delegazione intersoggettiva ad efficacia esterna» di diritto pubblico sia stato messo in crisi dalla riforma dell’istituto della delega del 2005, la quale avalla, invece, la riconduzione nell’ambito della differente figura della cd. delegazione di giurisdizione[59]. In quest’ottica si qualifica detto istituto, non più in termini di attribuzione di un’attività (sostitutiva e non di mero ausilio di quella del giudice) di mera giurisdizione in senso ampio, ma come attribuzione di un’attività (pur sempre sostitutiva e non di mero ausilio rispetto a quella del giudice) di giurisdizione in senso stretto.
Nel corso del tempo il legislatore ha ancor di più rafforzato l’istituto in esame.
Nel 2015, con il d.l. n. 83, ha disposto l’obbligatorietà della delega ai professionisti delegati delle operazioni di vendita, salvo che il giudice, sentiti i creditori, ravvisi l’esigenza di procedere direttamente alle operazioni di vendita a tutela degli interessi delle parti[60].
Nel 2016, con il d.l. n. 59, ha voluto assicurare la qualità del servizio reso dai professionisti delegati mediante un percorso di qualificazione professionale specifico, novellando in modo significativo la disciplina della selezione e formazione dei professionisti delegabili[61].
7.2. Le prospettive de iure condendo
In dottrina[62] sono stati in più occasioni evidenziati ulteriori margini di intervento, de iure condendo, per rendere l’istituto in esame ancor più funzionale rispetto alle esigenze del processo esecutivo. Ciò, fondamentalmente, in una duplice direzione: da un lato, quella volta a sgravare la magistratura da ulteriori incombenze che potrebbero essere attribuite al professionista delegato nel pieno rispetto del dettato costituzionale; dall’altro lato, quella volta ad assicurare un maggiore controllo sui tempi della procedura, soprattutto facendo leva sulla revoca del professionista che non rispetti (ovviamente per causa a lui imputabile) i termini «intermedi» assegnatigli dal giudice e non solo quello «finale» per il compimento delle operazioni delegate nel suo complesso.
Al fine di conseguire detti obiettivi, si è ritenuto che si dovrebbe intervenire, tanto sui tempi, quanto sui contenuti della delega.
Dal primo angolo prospettico, si è ritenuto che dovrebbe essere anticipato il momento processuale della delega, prevedendo l’obbligo del giudice, a fronte del deposito della documentazione di cui all’art. 567 c.p.c., di nominare immediatamente con decreto non solo l’esperto, ma anche il professionista delegato, il quale dovrebbe interfacciarsi con l’esperto, anche ai fini della determinazione del valore dell’immobile, predisporre l’ordinanza di vendita e l’avviso di vendita ovvero una relazione (al giudice) in ordine ai motivi che ostano alla possibilità di procedere alla vendita.
Dal secondo angolo prospettico, si è ritenuto che dovrebbe essere ampliato il perimetro delle operazioni delegate, riservando al giudice solo taluni snodi essenziali della procedura, assicurando sempre alle parti di avvalersi del reclamo di cui all’art. 591 ter c.p.c. In particolare, si è ritenuto che al professionista delegato dovrebbe essere attribuito in modo espresso il potere di: pronunciare la perdita (in tutto o in parte) della cauzione a causa della mancata partecipazione alla vendita senza documentato e giustificato motivo e di approvare il progetto di distribuzione; disporre l’amministrazione giudiziaria o una nuova vendita (per un prezzo inferiore) ex art. 591 c.p.c.; dichiarare la decadenza dell’aggiudicatario e pronunciare la relativa perdita della cauzione di cui all’art. 587 c.p.c., riservando al giudice la sola pronuncia della condanna al pagamento della differenza tra il prezzo da lui offerto e quello minore per il quale è avvenuta la vendita di cui all’art. 177 disp. att. c.p.c.
Nondimeno, la medesima dottrina[63] ha puntualizzato come, detto ampliamento dei contenuti della delega, comunque conforme al dettato costituzionale, dovrebbe essere accompagnato dall’introduzione di una più compiuta disciplina, rispetto a quella attuale (sul punto in parte lacunosa ed in parte totalmente assente), in ordine: ai presupposti per la revoca della delega; al relativo iter procedimentale; all’iter procedimentale relativo alla conseguente irrogazione della «sanzione» (della cancellazione dall’albo per il triennio in corso e per quello successivo) e ai possibili rimedi latamente impugnatori esperibili dal professionista «sanzionato», le cui sorti dovrebbero comunque essere mantenute distinte da quelle della procedura esecutiva da cui sono scaturiti, in modo tale che questa non subisca per l’effetto significativi rallentamenti.
7.3. L’intervento riformatore
La lett. i) del comma 12 dell’art. 1 della legge di riforma in commento stabilisce che il legislatore delegato debba rispettare i seguenti principi direttivi:
- «la delega delle operazioni di vendita nell’espropriazione immobiliare ha durata annuale, con incarico rinnovabile da parte del giudice dell’esecuzione»;
- «in tale periodo il professionista delegato deve svolgere almeno tre esperimenti di vendita con l’obbligo di una tempestiva relazione al giudice sull’esito di ciascuno di essi»;
- «il giudice dell’esecuzione esercita una diligente vigilanza sull’esecuzione delle attività delegate e sul rispetto dei tempi per esse stabiliti, con l’obbligo di provvedere immediatamente alla sostituzione del professionista in caso di mancato o tardivo adempimento».
7.4. Valutazione della legge di riforma
I principi e i criteri previsti dalla legge n. 206/2021 solo in minima parte soddisfano le esigenze di riforma dell’istituto in esame appena più sopra sinteticamente richiamate.
È senz’altro da condividersi la prospettiva di fondo perseguita dal legislatore di potenziare l’istituto della delega, nel solco già tracciato dalle previgenti riforme e novelle.
In particolare, va accolto con favore l’intervento in ordine ai tempi della delega e delle relative operazioni, nonché alla vigilanza da parte del giudice dell’esecuzione con riguardo alle attività delegate.
La revoca della delega e, specularmente, i possibili rimedi esperibili dal professionista delegato, rappresentano profili delicatissimi. Sotto questo profilo, prima di esprimere ogni valutazione di sorta, non può che attendersi l’intervento dei decreti attuativi. Pare però criticabile che la legge di riforma non contempli in modo espresso modifiche in tema di revoca della delega, limitandosi a prevedere la sostituzione del professionista delegato inadempiente.
In ogni caso, giova ribadire la necessità che le sorti della procedura esecutiva, per la migliore funzionalità della stessa, debbano rimanere distinte da quelle relative al procedimento finalizzato alla revoca del professionista delegato, in guisa da evitare significativi rallentamenti della procedura medesima.
Infine, non manca un’obiezione in quanto il legislatore (di là da quanto previsto con riguardo al progetto di distribuzione, su cui vd. infra) potrebbe ancora incidere sull’arricchimento delle funzioni delegate al professionista, nei termini appena più sopra evidenziati. Ciò in quanto, evidentemente, si tratta di prospettiva ancor più significativa e d’impatto, rispetto a quella già fatta oggetto di intervento da parte del legislatore, non solo al fine di rendere le procedure esecutive ancor più celeri ed efficienti, ma anche per sgravare ulteriormente la magistratura dallo svolgimento di determinate attività giurisdizionali che costituiscono parte integrante del processo di espropriazione forzata.
8. Il controllo sugli atti del professionista delegato e in particolare l’impugnazione degli atti del delegato (la previsione del rimedio dell’art. 617, in luogo del reclamo al collegio ex art. 669 terdecies c.p.c.)
Uno dei profili nevralgici dell’istituto della delega attiene ai rapporti tra giudice e professionista delegato e alla stabilizzazione degli atti di quest’ultimo, fondamentale per la stessa stabilità (e dunque appetibilità) della vendita forzata [64].
La disciplina attualmente vigente, malgrado tutti gli sforzi dottrinali e giurisprudenziali, non agevola, però, all’indomani delle riforme del 2015, una rapida definizione delle controversie relative allo svolgimento dell’attività delegata. Con forza, conseguentemente, la dottrina ha auspicato, in più occasioni, un intervento riformatore.
La legge n. 206/2021 prevede una modifica tendente a favorire la stabilizzazione degli effetti degli atti del professionista delegato, anche se non mancano le note critiche.
8.1. La disciplina vigente
Il professionista delegato ha un’ampia autonomia nell’esecuzione della delega e, nel rispetto dei limiti e delle direttive impartite dal giudice dell’esecuzione, risolve tutte le questioni inerenti sia alle difficoltà materiali, sia a quelle di diritto, insorte nel corso dell’esecuzione.
Può tuttavia chiedere l’emanazione di specifiche istruzioni al giudice dell’esecuzione, a norma dell’art. 591 ter c.p.c. ove insorgano difficoltà nel corso delle operazioni di vendita. Ai sensi della stessa norma, inoltre, sia le parti che gli interessati possono proporre reclamo avverso gli atti del professionista delegato. In entrambe le ipotesi, sul reclamo proposto dalle parti, il giudice provvede con ordinanza, a sua volta impugnabile con il reclamo ex art. 669 terdecies. Il ricorso non sospende le operazioni di vendita, a meno che il giudice, concorrendo gravi motivi, disponga la sospensione.
Più in dettaglio, quanto all’ipotesi in cui il delegato chiede istruzioni al giudice dell’esecuzione, il delegato risolve tutte le questioni attinenti alle modalità di svolgimento dell’esecuzione, salvo che non ritenga opportuno chiedere istruzioni al giudice dell’esecuzione[65]. In tal caso il giudice adotta decreto impugnabile con reclamo, dalle parti e dagli interessati, prima che abbiano avuto attuazione le istruzioni impartite, dopodiché esse divengono non più impugnabili [66].
Quanto all’ipotesi in cui le parti e gli interessati propongano reclamo avverso gli atti del delegato, possono farsi valere profili sia di legittimità sia di merito.
8.2. In particolare, il dibattito relativo alla stabilizzazione degli effetti degli atti del delegato e la novella del 2015
Nell’assenza di una previsione legislativa specifica, sono stati profusi sforzi ermeneutici al fine di individuare il termine ultimo per la proposizione del reclamo avverso gli atti del professionista, nell’ottica di una stabilizzazione degli effetti degli atti del delegato[67]. Quest’ultima esigenza, però, risulta trascurata dalla novella del 2015, intervenuta solo sul regime impugnatorio del provvedimento del giudice che decide il reclamo[68].
Prima di questa riforma, sulla scorta del tenore letterale dell’art. l’art. 591 ter c.p.c., si riteneva che detto provvedimento potesse essere impugnato con l’opposizione agli atti esecutivi e che, in caso di mancata proposizione del reclamo, gli interessati potessero impugnare con l’opposizione agli atti esecutivi il decreto di trasferimento, quale atto con cui il giudice dell’esecuzione, recepiti i risultati del procedimento liquidatorio, portava a compimento la vendita forzata; gli atti esecutivi potevano così ritenersi stabilizzati nel momento in cui i potenziali interessati fossero decaduti dal potere di impugnare il decreto di trasferimento[69].
La riforma del 2015[70] ha però stabilito, all’art. 591 ter c.p.c., che avverso il provvedimento del giudice è ammesso il reclamo ai sensi dell’art. 669 terdecies, suscitando notevoli perplessità tra gli interpreti.
La dottrina si è tanto interrogata in merito alla natura di quest’istituto, aspetto di rilievo dirimente per ricostruire la disciplina applicabile[71]. Malgrado gli sforzi profusi, il rimedio prescelto dal legislatore, presumibilmente in ragione della volontà di apprestare un mezzo di gravame più celere[72] che comunque garantisse l’imparzialità[73], si è rivelato inadeguato (anche) a garantire una più sollecita definizione delle controversie afferenti alle attività delegate, oltre a suscitare non poche problematiche di ordine sistematico a fronte del ricorso in ambito esecutivo ad un rimedio introdotto e disciplinato dal legislatore nel differente contesto del cd. procedimento cautelare uniforme.
Le incertezze e le problematiche sollevate dall’intervento del legislatore sono state tali da suscitare anche l’intervento della Corte di cassazione [74].
La Suprema Corte ha ritenuto che l’ordinanza pronunciata dal collegio, ai sensi dell’art. 591 ter c.p.c., ultimo periodo, non ha contenuto decisorio e che questa conclusione è «imposta dall’interpretazione finalistica, da quella letterale e da quella sistematica».
Secondo la S.C., il subprocedimento incidentale di cui si discute, «per il modo in cui è disciplinato, non può che essere ordinatorio e non decisorio. Esso ha la funzione di evitare incagli pratici o vincere le perplessità del professionista delegato, ma non quello di risolvere con efficacia di giudicato questioni di diritto[75]. La natura degli atti “reclamabili” dinanzi al giudice dell’esecuzione e la previsione d’un meccanismo snello e deformalizzato per il controllo del collegio sui provvedimenti del giudice dell’esecuzione rendono evidente che scopo del procedimento previsto dall’art. 591 ter c.p.c. non è quello di accertare diritti, ma di risolvere difficoltà pratiche e superare celermente le fasi di empasse dovute ad incertezze operative o difficoltà materiali incontrate dal professionista delegato nello svolgimento delle operazioni di vendita». In conformità con questa ratio del meccanismo previsto dall’art. 591 ter c.p.c., è coerente ritenere che «i decreti e le ordinanze pronunciati dal giudice dell’esecuzione ai sensi di tale norma, su istanza del professionista delegato o su ricorso delle parti, costituiscono esercizio di un’attività ordinatoria di impulso, coordinamento e controllo (e non un’attività decisoria finalizzata a risolvere con efficacia di giudicato una questione controversa), giustificata dalla particolare natura del rapporto tra giudice delegante e professionista delegato». Di conseguenza, «anche il controllo del collegio sulle ordinanze emesse del giudice dell’esecuzione in esito al ricorso ex art. 591 ter c.p.c. costituisce un controllo su un’attività ordinatoria, e ne mutua tale natura», così che «anche l’ordinanza collegiale … sarà insuscettibile di statuire su diritti con efficacia di giudicato».
8.3. Problematiche che si acuiscono all’indomani della novella del 2015: stabilità del provvedimento pronunziato in sede di reclamo e possibilità di impugnare l’ordinanza che conclude il relativo procedimento
Le maggiori difficoltà interpretative acuitesi all’indomani della novella del 2015, tuttavia, riguardano la stabilità del provvedimento pronunziato in sede di reclamo e la possibilità di impugnare l’ordinanza che conclude il relativo procedimento.
Secondo parte della dottrina, anche quando la decisione del giudice dell’esecuzione, resa all’esito del reclamo proposto avverso gli atti del delegato, sia stata impugnata con il reclamo di cui all’art. 669 terdecies c.p.c., la successiva decisione del collegio non si stabilizza: il decreto di trasferimento resta impugnabile ai sensi dell’art. 617 c.p.c., non solo per far valere vizi in precedenza non denunziati, ma anche per riproporre doglianze già svolte in sede di reclamo. Questa soluzione interpretativa è motivata, sia in base al regime di impugnabilità del decreto di trasferimento, sia in base alla natura del provvedimento reso dal collegio ex art. 669 terdecies c.p.c.[76]
Secondo altra dottrina, considerando che la disposizione sul reclamo cautelare è richiamata solo quoad formam, il regime impugnatorio va ricostruito alla stregua della sostanza che la decisione assume in concreto e della sua incidenza o meno su diritti soggettivi: ove incida su diritti soggettivi, acquisterebbe autorità di giudicato, costituendo una sentenza in senso sostanziale, con l’ulteriore risultato di preludere le questioni già sollevate e decise ex art. 669 terdecies[77].
La Corte di legittimità[78], nell’arresto sopra richiamato, alla stregua di un’interpretazione finalistica, letterale e sistematica del rimedio previsto dall’art. 591 ter, ha ritenuto che l’ordinanza collegiale pronunciata all’esito del reclamo avverso i provvedimenti del giudice dell’esecuzione sia priva di natura decisoria, nonché del carattere della definitività e, dunque, della idoneità a passare in giudicato; pertanto, eventuali nullità verificatesi nel corso delle operazioni delegate al professionista, e non rilevate nel procedimento di reclamo ex art. 591 ter c.p.c., potranno essere fatte valere impugnando ai sensi dell’art. 617 c.p.c. il primo provvedimento successivo adottato dal giudice dell’esecuzione.
Alla luce di questa evoluzione, si è osservato[79] che, vigente l’art. 591 ter c.p.c.:
- la definizione del reclamo di cui all’art. 591 ter c.p.c. che sia stato proposto per contestare la irregolarità formale degli atti del professionista delegato non preclude la successiva impugnabilità dei medesimi atti per le stesse ragioni;
- quantunque il giudice dell’esecuzione o il Tribunale in composizione collegiale abbiano accolto o rigettato il predetto reclamo, gli interessati (parti o altri terzi) possono impugnare il decreto di trasferimento, che sia stato nel frattempo emanato, per far valere i medesimi vizi in precedenza rilevati, quantunque la questione sia stata già esaminata;
- solo la mancata proposizione dell’opposizione agli atti esecutivi avverso il decreto di trasferimento a cura dei soggetti legittimati realizza la definitiva stabilizzazione degli atti in cui si è articolato il subprocedimento di vendita delegato.
8.4. L’intervento previsto in ordine all’art. 591 ter c.p.c. dalla legge di riforma
La legge di riforma relativa all’art. 591-ter c.p.c. tende a rimediare ai problemi aperti dalla illustrata novella del 2015, che, sebbene animata dallo scopo di velocizzare la procedura, in realtà, come già evidenziato, non solo non ha conseguito detto obiettivo, ma ha al contempo aperto le delicate problematiche interpretative appena più sopra evidenziate.
L’intervento di cui alla legge n. 206/2021 si traduce, più in dettaglio, nella previsione:
- di un termine di 20 giorni per la proposizione del reclamo al giudice dell’esecuzione avverso l’atto del professionista ai sensi dell’art. 591-ter c.p.c.;
- dell’impugnazione dell’ordinanza con cui il giudice decide il reclamo con l’opposizione di cui all’art. 617 c.p.c.
8.5. Valutazione della legge di riforma
Per quanto possa essere destabilizzante per l’operatore del diritto trovarsi di fronte ad un nuovo cambiamento di rotta da parte del legislatore (che continua a legiferare “per tentativi”), la scelta effettuata in tal caso dallo stesso è indubbiamente da salutare con favore, posto che, nell’eliminare in radice tutte le incertezze dottrinali e giurisprudenziali appena più sopra segnalate alimentate dalla novella del 2015 (con la previsione della impugnabilità del provvedimento di decisione del reclamo di cui all’art. 591- ter con il reclamo di cui all’art. 669-terdecies), mira a risolvere al contempo due problemi di fondo che aveva aperto già l’originaria formulazione dell’art. 591-ter con un intervento più chiaro e lineare di quello della novella del 2015; infatti, si prevede: per un verso, un termine per la proponibilità del reclamo di cui all’art. 591-ter; per altro verso, l’impugnabilità del provvedimento con il quale il giudice decide questo reclamo con l’opposizione agli atti esecutivi di cui all’art. 617 c.p.c., ossia con un rimedio tradizionalmente proprio del processo esecutivo, rispetto al quale è dunque anche più agevole avvalersi di ormai consolidate impostazioni dottrinali e giurisprudenziali.
La scelta effettuata dalla legge delega in esame ha già trovato positivo riscontro nei primi commenti dottrinali intervenuti sul tema.
In particolare, v’è chi ha posto in rilievo come, per effetto del suddetto intervento di cui alla legge n. 206/2021: per un verso, viene salvaguardato il controllo della procedura in capo al giudice dell’esecuzione che – indipendentemente dall’esperimento dell’art. 591 ter c.p.c. – potrà, fino alla pronuncia del decreto di trasferimento ex art. 586 c.p.c., revocare l’aggiudicazione per tutti quei vizi capaci di trascendere il singolo segmento del processo esecutivo (e dunque lo sbarramento di fase)[80]; per altro verso, la stabilizzazione degli atti del professionista delegato si realizza in misura analoga a quanto avviene con riferimento agli atti posti in essere dal giudice dell’esecuzione: entrambi, rimarrebbero sanati dal decorso del termine preclusivo di cui all’art. 617 c.p.c. e non potrebbero nel nuovo regime riflettersi più sul decreto di trasferimento, invalidandolo, al di fuori dello schema e dei termini individuati dal legislatore.
Si è finanche ritenuta opportuna, in dottrina[81], l’adozione di una qualifica espressa di perentorietà del termine di venti giorni per la proposizione del ricorso, per allineare – a tutti gli effetti - il regime del futuro art. 591 ter c.p.c. a quello proprio dell’art. 617 c.p.c., evitando così le incertezze segnalate.
Non manca, tuttavia, anche una critica di segno negativo: nulla di nuovo è stato previsto in relazione all’omologo rimedio regolato dall’art. 534-bis c.p.c. per la vendita forzata mobiliare; sarebbe, pertanto, auspicabile che il legislatore, sia per soddisfare analoghe esigenze di stabilità che interessano queste procedure, sia per ragioni di coerenza e di sistema, provvedesse a novellare anche la formulazione dell’ultima disposizione ora richiamata[82].
9. La distribuzione del ricavato
La legge di riforma in esame si propone anche di potenziare lo strumento della delega con una pluralità di interventi fondamentalmente volti:
- ad ampliare i poteri del delegato in sede di distribuzione del ricavato;
- a rendere, in via più generale, più celere ed efficace l’attività del delegato, facendo leva: per un verso, sull’introduzione di un termine per lo svolgimento delle attività delegate (oltre che di un numero minimo di esperimenti di vendita che devono compiersi entro detto termine); per altro verso, sull’introduzione di un obbligo del delegato di presentare una tempestiva relazione al giudice sull’esito di ciascun esperimento di vendita; e di un obbligo del giudice di vigilare sull’operato del professionista e sul rispetto dei tempi, nonché di provvedere immediatamente alla sostituzione dello stesso in caso di mancato o tardivo adempimento.
9.1. Disciplina vigente
In sede di riforma del processo esecutivo il legislatore era intervenuto, nel 2005, in modo significativo sull’istituto della delega delle operazioni di vendita in sede di espropriazione forzata e, per quanto interessa in questa sede, anche sulla formazione ed approvazione del progetto di distribuzione.
La tecnica normativa utilizzata è stata, però, così poco felice da sollevare non pochi dubbi interpretativi sulla reale portata delle innovazioni introdotte.
Da un lato, infatti, si sono modificati gli artt. 596 e 598 c.p.c. aggiungendo, nel corpo del testo di entrambi, l’inciso «o il professionista delegato a norma dell’articolo 591-bis» subito dopo il riferimento al giudice dell’esecuzione, così lasciando intendere che si sono voluti attribuire anche al primo quei poteri che in precedenza costituivano prerogativa esclusiva di quest’ultimo.
Dall’altro lato, però, si è lasciato inalterato il disposto dell’originario art. 591-bis n. 7, in forza del quale il professionista provvede «alla formazione del progetto di distribuzione ed alla sua trasmissione al giudice dell’esecuzione che, dopo avervi apportato le eventuali variazioni, provvede ai sensi dell’art. 596»; disposto che sembrerebbe presupporre, all’opposto, che sia ancor oggi riservato in capo al solo giudice dell’esecuzione il potere di approvazione del progetto di distribuzione.
Chiaro il difetto di coordinamento, ed il conseguente contrasto, fra l’art. 591-bis c.p.c. e gli artt. 596 e 598 c.p.c. [83], con il conseguente ricadere sull’interprete il compito di ricondurre a razionalità la materia a fronte di un quadro normativo che, quanto meno astrattamente, apre la via a due possibili opzioni interpretative, e cioè:
a)attribuzione al professionista del (nuovo) compito di (non solo predisporre ma anche) approvare il progetto di distribuzione, in forza dei nuovi artt. 596 e 598 c.p.c.;
b)mantenimento, all’opposto, in capo al professionista del solo potere di predisporre il progetto riservando al giudice quello di approvazione, in forza dell’art. 591-bis (originariamente n. 7 ed ora) n. 12 c.p.c.
Entrambe le suddette opzioni interpretative sono state sostenute in dottrina, la quale dunque, com’era prevedibile, a fronte del contraddittorio quadro normativo in precedenza descritto, si è divisa [84]. Altrettanto dicasi per la giurisprudenza, avendo i giudici adottato ordinanze di delega tendenti a valorizzare l’una o l’altra delle due prospettive di cui sopra.
9.2. Intervento riformatore previsto dalla legge delega per la riforma del processo civile (legge n. 206/2021)
Nell’ambito del contesto appena più sopra sinteticamente evidenziato si inserisce l’intervento del legislatore in esame.
L’art. 1 comma 12 lett. m) della legge n. 206/2021 reca testualmente: «prevedere che il professionista delegato procede alla predisposizione del progetto di distribuzione del ricavato in base alle preventive istruzioni del giudice dell’esecuzione, sottoponendolo alle parti e convocandole innanzi a sé per l’audizione, nel rispetto del termine di cui all’articolo 596 del codice di procedura civile; nell’ipotesi prevista dall’articolo 597 del codice di procedura civile o qualora non siano avanzate contestazioni al progetto, prevedere che il professionista delegato lo dichiara esecutivo e provvede entro sette giorni al pagamento delle singole quote agli aventi diritto secondo le istruzioni del giudice dell’esecuzione; prevedere che in caso di contestazioni il professionista rimette le parti innanzi al giudice dell’esecuzione».
Chiaro è l’intento del legislatore: sciogliere i dubbi interpretativi aperti dalla riforma del 2005 nel senso di attribuire al professionista delegato, non solo il potere di predisporre il progetto di distribuzione, ma anche di approvarlo, previa audizione delle parti dinanzi allo stesso (e non dinanzi al giudice) così come già attualmente previsto dall’art. 596 c.p.c.
Viene, invece, chiaramente riservata al giudice la risoluzione delle eventuali contestazioni insorte fra le parti.
9.3. Valutazione della legge di riforma
Ci troviamo dinanzi ad un intervento del legislatore quanto mai opportuno, non solo perché tende a superare definitivamente il riferito contrasto dottrinale e giurisprudenziale – come già auspicato in più occasioni [85] -, ma anche perché lo fa nella direzione indicata come preferibile sin dalla riforma del 2005 [86].
Ferma restando la necessità di verificare quanto disporrà il legislatore in sede di attuazione della suddetta disposizione di carattere generale, sulla base di quest’ultima, e di quanto già attualmente previsto dagli artt. 596 e 598 del codice di rito civile, sembrerebbe poter trovare pienamente attuazione quanto già a suo tempo sostenuto [87], seppur sulla base di un impianto normativo non univoco - per i motivi in precedenza evidenziati -.
Il nuovo testo degli artt. 596 e 598 c.p.c. già attribuisce, infatti, al professionista delegato il potere di approvazione del progetto di distribuzione.
Altrettanto dicasi con riferimento al potere attribuito al professionista dal nuovo testo dell’art. 596 c.p.c. di fissare l’udienza per l’audizione dei creditori e del debitore, previa formazione e deposito in cancelleria del progetto di distribuzione contenente la graduazione dei creditori che vi partecipano affinché possa essere consultato dai creditori stessi e dal debitore.
Il professionista delegato ben potrà, dunque, procedere a (non solo predisporre ma anche) approvare il progetto di distribuzione ai sensi di quanto previsto dai nuovi artt. 596 e 598 c.p.c., e dunque, più analiticamente:
a) se non può provvedere ai sensi dell’art. 510, primo comma (ossia, nell’ipotesi in cui vi è un solo creditore pignorante, disporre, sentito il debitore, il pagamento in favore del creditore di quanto gli spetta), fissa l’udienza per l’audizione dei creditori e del debitore, che si terrà dinanzi al medesimo professionista (e non al giudice), ove, ai sensi di quanto previsto dall’art. 598 c.p.c., dovrà:
a1) se il progetto è approvato, anche per effetto della mancata comparizione [88] di cui all’art. 597 c.p.c. [89], o si raggiunge l’accordo tra le parti, darne atto nel processo verbale ed ordinare il pagamento delle singole quote;
a2) se insorgono controversie, ai sensi dell’art. 512 c.p.c., tra creditori concorrenti o tra creditore e debitore circa la sussistenza o l’ammontare di uno o più crediti o circa la sussistenza di diritti di prelazione rimettere la procedura al giudice cui è riservata, secondo le modalità di cui al citato art. 512 c.p.c., la risoluzione di queste controversie.
b) potrà avvalersi eventualmente, in sede di approvazione del progetto, della possibilità di distinguere la graduazione dei creditori dalla liquidazione delle quote ai sensi di quanto disposto dall’art. 179 disp. att. c.p.c., in forza del quale il giudice dell’esecuzione (ed ora anche il professionista delegato) «quando lo ritiene opportuno … può limitare il progetto di distribuzione della somma ricavata di cui all’art. 596 alla sola graduazione dei creditori partecipanti all’esecuzione, salva la liquidazione delle quote spettanti a ciascuno di essi dopo che sia approvata la graduazione».
Al contempo, se si valorizza quella impostazione dottrinale tendente fondamentalmente ad evidenziare una possibile funzione conciliativa svolta dal giudice dell’esecuzione all’udienza di cui all’art. 598 c.p.c., nel senso che l’espressione «si raggiunge l’accordo tra tutte le parti» si riferisce «all’ipotesi nella quale le contestazioni all’inizio sorte siano poi composte» [90], l’intervenuta attribuzione di questa nuova attività al professionista delegato ben può acquisire un significato ancora più pregnante, nel senso che quest’ultimo, non dovrebbe limitarsi a constatare l’eventuale presenza di contestazioni, ma dovrebbe tentare una composizione conciliativa delle stesse, solo all’esito negativo della quale dovrebbe rimettere la procedura al giudice dell’esecuzione affinché questi possa fissare l’udienza di cui all’art. 512 c.p.c. e risolvere le relative controversie secondo le modalità previste da questa norma [91].
10. La custodia: l’anticipazione della nomina del custode terzo e la sinergia con l’esperto stimatore.
La legge di riforma prevede interventi anche in merito al delicato e nevralgico istituto della custodia, il quale, come noto, è stato profondamente modificato nel corso del tempo. In particolare, rispetto all’impostazione originaria del codice di rito, a tale istituto sono state conferite nuove funzioni, al fine di garantire più proficui e solleciti risultati delle procedure esecutive, a vantaggio non solo del ceto creditorio ma anche dello stesso debitore.
10.1. La custodia del bene immobile pignorato: l’evoluzione della disciplina vigente
La custodia del bene immobile pignorato costituisce elemento indefettibile del pignoramento, in ragione della perdita dell’amministrazione del bene da parte del debitore[92].
Secondo il tradizionale insegnamento, alla luce della originaria disciplina codicistica, mentre il pignoramento determina l’insensibilità del bene sub executione agli atti di disposizione compiuti sulla res pignorata, la custodia determina il regime di godimento materiale di questa[93].
Nel corso del tempo, specialmente all’indomani delle riforme attuate con le leggi n. 80 e n. 263 del 2005[94], l’istituto in esame è stato profondamente innovato, con l’obiettivo di rendere la vendita forzata più trasparente, competitiva e aperta al mercato[95]. In particolare, la richiamata riforma, alla luce delle cd. prassi virtuose diffuse presso taluni tribunali[96], ha inteso valorizzare questo istituto attribuendogli anche finalità ulteriori rispetto a quelle tradizionali di mera “conservazione” del bene[97], fondamentalmente riconducibili ad una migliore e più agevole collocazione del bene oggetto di custodia sul mercato [98].
Secondo l’originaria impostazione codicistica, nella gran parte dei casi, il debitore, custode ex lege dei beni pignorati, non veniva sostituito nell’espletamento di tale attività in difetto di una norma che imponesse di procedere in tal senso. Ai sensi dei primi due commi dell’art. 559, rimasti peraltro immutati nel corso del tempo, «col pignoramento il debitore è costituito custode dei beni pignorati e di tutti gli accessori, comprese le pertinenze e i frutti, senza diritto a compenso»; nondimeno, in base al secondo comma, primo periodo della medesima norma, «su istanza del creditore pignorante o di un creditore intervenuto, il giudice dell’esecuzione, sentito il debitore, può nominare custode una persona diversa dallo stesso debitore».
Come a suo tempo rilevato in dottrina, però, anche laddove la lettera delle disposizioni in questione è stata conservata identica, ne è mutato profondamente il senso e la portata[99].
In particolare, il legislatore della riforma del 2005-06, da un canto, ha definito le ipotesi in cui occorre disporre la sostituzione del debitore nella custodia dell’immobile e, d’altro canto, ha regolamentato le attività che il custode è tenuto a svolere nell’adempimento della sua funzione.
Più in dettaglio, ai sensi del secondo periodo del secondo comma, aggiunto con le riforme del 2006, «il giudice provvede a nominare una persona diversa quando l’immobile non sia occupato dal debitore»[100].
Ancor più incisivamente dette riforme hanno introdotto due ipotesi espresse di nomina d’ufficio del terzo custode.
Un’ipotesi di nomina d’ufficio riguarda la sostituzione del debitore nella custodia prima dell’autorizzazione della vendita e ricorre allorquando il custode si renda inadempiente agli obblighi che gravaano su di lui[101].
Altra ipotesi di nomina d’ufficio del terzo custode ricorre quando si giunga alla fase di vendita[102]. In tal caso, infatti, il debitore/custode deve essere obbligatoriamente sostituito con l’ordinanza con cui il giudice dell’esecuzione autorizza la vendita e dispone la delega. Come rimarcato in dottrina, con l’apertura della liquidazione, la custodia di un soggetto terzo in sostituzione del debitore va sempre disposta d’ufficio (e salvo casi particolari e residuali in cui non sia ritenuta utile), in quanto è in questa fase che si esplica il cuore dell’attività tipica della custodia in espropriazione immobiliare, volta ad agevolare la migliore vendita possibile in funzione della maggiore soddisfazione del credito[103].
L’articolo 559 c.p.c. si chiude prevedendo che i provvedimenti relativi alla nomina (o revoca o sostituzione) della custodia non sono impugnabili.
Può concludersi questo excursus rilevando che, come a suo tempo rilevato in dottrina, all’esito delle riforme del 2006, «la disciplina della custodia dei beni immobili pignorati appare profondamente diversa da quella tradizionale; ma, in realtà, essa rispecchia una diversa concezione della vendita forzata, intesa non più come strumento sanzionatorio del debitore, ma come valida via per realizzare la garanzia patrimoniale»[104].
10.2. Le buone prassi come caldeggiate dalle linee guida del Consiglio Superiore della Magistratura
Nel corso del tempo, in tema di custodia, si sono diffuse delle prassi presso i Tribunali, recentemente caldeggiate dal Consiglio Superiore della Magistratura[105], finalizzate a valorizzare al massimo grado le risorse umane e materiali concretamente adoperabili.
Si è sperimentata la possibilità di ricorrere in via sistematica alla delega al perito e al custode, nominati entrambi già al momento della fissazione dell’udienza, ex art. 569 c.p.c., affinché si occupino, in sinergia, dell’esame della documentazione, che riveste assoluto rilievo.
In particolare, in dette linee guida è stata ritenuta condividibile la prassi, invalsa in diversi uffici giudiziari, tesa ad anticipare la nomina del custode giudiziario al momento della designazione dell’esperto, salvaguardando la contestualità delle investiture nei due incarichi e la susseguente sinergia nell’espletamento delle relative attività. Detta opzione operativa si mostra, in rapporto alle alternative praticabili, idonea a produrre il miglior rapporto tra risultati ottenuti e mezzi impiegati, posto che ad un incremento limitato di costi (per i compensi del custode ausiliario per il quale si accelera la assegnazione dell’incarico) fa da contraltare la maggior fluidità impressa alla procedura, nella quale si isolano, a monte, le possibili criticità e si predispone la strada per le successive fasi.
Le linee guida elaborate dal CSM hanno altresì rimarcato, come si è già avuto modo di anticipare, l’importanza di una stringente collaborazione tra esperto stimatore e custode in quanto «il controllo della documentazione appare più esauriente nella misura in cui stimatore e custode sommino i rispettivi angoli di visuale nella prospettiva di una verifica coordinata e simultanea». La ragione di quest’assunto si coglie nelle distinte professionalità che connotano le figure in questione: mentre - si legge in detta circolare - l’esperto è il soggetto maggiormente avvezzo ai risvolti dell’inventariazione, della classificazione e della descrizione estimativa, censuaria, planimetrica dei beni, il custode ha la professionalità adeguata onde cogliere le implicazioni legali salienti della connotazione catastale e urbanistica dei beni e dei diritti che prima facie vi insistano[106].
10.3. La previsione della legge di riforma
La legge di riforma, alla lett. e) stabilisce che, nell’esercizio della delega, si debba prevedere che: «il giudice dell’esecuzione provvede alla sostituzione del debitore nella custodia nominando il custode giudiziario entro quindici giorni dal deposito della documentazione di cui al secondo comma dell’articolo 567 del codice di procedura civile, contemporaneamente alla nomina dell’esperto di cui all’articolo 569 del medesimo codice, salvo che la custodia non abbia alcuna utilità ai fini della conservazione o amministrazione del bene ovvero per la vendita».
La lettera d) prevede che: «il custode di cui all’articolo 559 del codice di procedura civile collabori con l’esperto nominato ai sensi dell’articolo 569 del codice di procedura civile al controllo della completezza della documentazione di cui all’articolo 567, secondo comma, del codice di procedura civile».
10.4. Valutazione della riforma
Emerge con evidenza, alla luce di quanto appena più sopra anticipato, che la riforma prevista recepisce le cd. “buone prassi” di cui alla delibera del CSM del 2017, tanto in ordine alla nomina anticipata del custode, quanto in ordine alla stretta collaborazione tra custode ed esperto stimatore.
Salve naturalmente le valutazioni relative alle disposizioni attuative della legge delega, può osservarsi che la legge di riforma continua il percorso, iniziato con le riforme del 2005-06, volto a far leva sull’istituto della custodia onde conseguire risultati migliori nell’ambito delle procedure esecutive immobiliari. L’anticipazione della nomina del custode, infatti, consente una più efficacia conservazione ed amministrazione dei beni pignorati al fine della migliore fase liquidativa possibile.
A tal fine, e nell’ottica dell’arricchimento delle funzioni del custode, va letta anche la sinergia tar esperto e custode in ordine all’esame della documentazione richiesta dall’art. 567 c.p.c.
11. La liberazione dell’immobile pignorato
La liberazione dell’immobile costituisce uno snodo fondamentale per perseguire obiettivi di efficienza ed efficacia del processo esecutivo poiché incide sull’appetibilità del bene oggetto di vendita forzata e, pertanto, sull’esito della stessa.
La legge n. 206/2021 (all’art. 1, comma 12, lett. f) e h) prevede un nuovo intervento sull’art. 560 del codice di rito[107], ossia la norma destinata a contemperare due esigenze in contrasto: i bisogni meritevoli di protezione propri del debitore che abita l’immobile oggetto di esecuzione forzata e quelli propri della procedura esecutiva, tendenti ad ottenere l’anticipazione della liberazione dell’immobile al fine di renderlo più appetibile in sede di vendita.
11.1. Le modifiche nel corso del tempo all’art. 560 c.p.c.: il delicatissimo punto di equilibrio tra esigenze in perenne conflitto
Siamo di fronte ad una delle norme del processo esecutivo più tormentate, essendo stata fatta oggetto di plurimi interventi modificativi negli ultimi anni, a testimonianza della difficoltà di individuare un corretto punto di equilibrio fra le contrapposte esigenze di cui sopra [108], oltre che dell’ormai purtroppo consueto modo di procedere del legislatore contraddistinto dall’intervenire più volte sul medesimo istituto anche a distanza di tempo molto ridotta (quello che abbiamo già qualificato, in altre occasioni, come il legiferare “per tentativi”).
Giova in questa sede richiamare, seppur in estrema sintesi, taluni passaggi di un excursus normativo che, intervenendo tanto sui tempi quanto sui modi della liberazione (specie negli ultimi anni), si caratterizza, oltre che per la disorganicità, anche per l’eccessivo sbilanciamento, a seconda dei casi, in favore del debitore o del creditore. In altri termini, non si può dire che sia stato sinora pacificamente individuato quello che dovrebbe essere il corretto punto di equilibrio fra le contrapposte esigenze di cui sopra.
L’intervento del legislatore in esame mira a contemperare tali opposti interessi, anche se resta tutto da verificare se detto obiettivo verrà effettivamente conseguito, sulla base di quanto già previsto dalla legge delega e sulla base di quanto verrà previsto nei prossimi mesi in attuazione della stessa.
L’ordine di liberazione del compendio pignorato ha trovato espresso riconoscimento legislativo con le riforme del 2005[109].
All’indomani di queste riforme, che avevano recepito alcune indicazioni provenienti dalle prassi, il giudice dell’esecuzione disponeva la liberazione dell’immobile pignorato qualora non ritenesse di autorizzare il debitore a continuare ad abitare l’immobile pignorato o qualora revocasse l’autorizzazione precedentemente concessa; oppure, in ogni caso, allorquando provvedesse all’aggiudicazione o all’assegnazione del bene.
Mentre con la riforma del 2005 l’ordine di liberazione era qualificato come titolo esecutivo ed era suscettibile di esecuzione nelle forme di cui agli artt. 605 ss. c.p.c., nel 2016, il legislatore interviene sull’art. 560 c.p.c. (con il d.l. 3.5.2016, n. 59, convertito con l. 30.6.2016, n. 119) prevedendo che l’attuazione dell’ordine di liberazione debba avvenire, invece, nell’ambito di un sistema de-formalizzato, ossia senza la necessità di seguire la procedura delineata dal codice per l’esecuzione per consegna e rilascio. La non felice formulazione della norma da parte del legislatore ha sollevato, però, non pochi dubbi interpretativi, risolvibili, secondo una parte della dottrina, solo ricorrendo ad una interpretazione costituzionalmente orientata[110].
Il d.l. 14 dicembre 2018, n. 135 è nuovamente intervenuto sull’art. 560 c.p.c. stabilendo che il debitore, qualora all’udienza ex art. 569 sia in grado di documentare la titolarità di crediti, aventi i requisiti previsti[111], nei confronti della pubblica amministrazione, il giudice dell’esecuzione, con il decreto di cui all’articolo 586, dispone il rilascio dell’immobile pignorato per una data compresa tra il sessantesimo e novantesimo giorno successivo a quello della pronuncia del medesimo decreto.
Come osservato in dottrina[112], la portata applicativa di questa norma era circoscritta, in quanto ancorata ad un presupposto soggettivo definito in dottrina “singolare”, in quanto legato alla titolarità di crediti nei confronti di pubbliche amministrazioni certificati e risultanti dalla piattaforma elettronica per la gestione telematica del rilascio delle certificazioni, per un ammontare complessivo pari o superiore all’importo dei crediti vantati dal creditore procedente e dai creditori intervenuti.
Questa previsione relativa al cd. periodo di tolleranza è stata però soppressa dalla l. n. 12 del 11-2-2019, di conversione del d.l. 135/2018[113].
L’art. 560 c.p.c., nella versione conseguente alle modifiche introdotte dal decreto legge 14 dicembre 2018, n. 135, convertito dalla legge 11 febbraio 2019, n. 12[114] (mantenuta ferma anche a seguito della successiva novella del 2020[115]), prevede che, per tutta la durata della liquidazione giudiziale, l’ordine di liberazione non possa essere emesso ai danni del debitore che, a far data dal pignoramento, abbia utilizzato l’immobile pignorato come abitazione principale senza violare gli obblighi di custodia previsti dalla legge a suo carico.
Più in dettaglio, secondo l’attuale formulazione dell’art. 560 c.p.c., qualora l’immobile pignorato sia abitato dal debitore e dai suoi familiari il giudice non può mai disporre il rilascio dell’immobile pignorato prima della pronuncia del decreto di trasferimento ai sensi dell’art. 586 c.p.c., salvo condotte abusive dell’esecutato. Il giudice ordina, sentito il custode ed il debitore, la liberazione dell’immobile pignorato solo qualora sia ostacolato il diritto di visita di potenziali acquirenti, ovvero l’immobile non sia adeguatamente tutelato e mantenuto in uno stato di buona conservazione, per colpa o dolo del debitore e dei membri del suo nucleo familiare.
Come rilevato[116], la novella del 2020, da un lato, ha superato taluni dubbi emersi dalla precedente formulazione della norma, d’altro lato, è apparsa di difficile inquadramento sistematico, agevolando, conseguentemente, il formarsi di contrapposti indirizzi in ordine ai modi e ai tempi della liberazione.
Prima della novella, era dibattuto, in particolare, se l’ordine di liberazione potesse essere emanato, contestualmente al decreto di trasferimento, nei confronti del debitore che avesse destinato il bene sottoposto ad esecuzione ad abitazione principale.
Si è ritenuto che il legislatore, con la novella del 2020, abbia superato queste incertezze, prevedendo che il custode possa procedere alla liberazione dell’immobile pignorato mediante l’attuazione forzosa del provvedimento di cui all’art. di cui all’art. 586 c.p.c., da espletarsi in un tempo definito. Tanto si è dedotto dal tenore dell’art. 560, comma sesto, c.p.c., secondo il quale, dopo la notifica o la comunicazione del decreto di trasferimento, il custode, su istanza dell’aggiudicatario (o dell’assegnatario), provvede all’attuazione forzosa del provvedimento ex art. 586, secondo comma, c.p.c. Nondimeno, si è rilevato[117] come questa disposizione non sia, però, di agevole inquadramento sistematico, non essendo chiaro come il custode possa essere legittimato ad uno “sgombero informale” al fine di realizzare l’attuazione coattiva di un ordine di rilascio contenuto in un provvedimento giudiziale che, avendo la natura di titolo esecutivo (posto che il decreto di trasferimento è titolo esecutivo in favore dell’acquirente), dovrebbe, di regola, essere eseguito nelle forme di cui agli artt. 605 c.p.c. In via di interpretazione del suddetto quadro normativo, si è ritenuto che l’emanazione di un decreto di trasferimento recante il contestuale ordine di liberazione del bene pignorato consenta la liberazione a cura del custode giudiziario, ma non possa fondare contestualmente un’esecuzione forzata per rilascio forzoso (ex artt. 605 e seguenti c.p.c.) [118].
11.2. Intervento riformatore di cui alla legge n. 206/2021
L’art. 1, comma 12, lett. f stabilisce che il giudice debba ordinare, sin dal momento in cui viene disposta la vendita, la liberazione dell’immobile ove questo non sia abitato dal debitore e dai suoi familiari ovvero sia occupato da soggetto privo di titolo opponibile alla procedura; invece, ove l’immobile sia abitato dal debitore e dai suoi familiari, la liberazione dovrà essere disposta con l’emissione del decreto di trasferimento. Nondimeno, resta ferma la possibilità di disporre anticipatamente la liberazione nei casi di «impedimento alle attività degli ausiliari del giudice, di ostacolo del diritto di visita di potenziali acquirenti, di omessa manutenzione del cespite in uno stato di buona conservazione o di violazione degli altri obblighi che la legge pone a carico dell’esecutato o degli occupanti».
D’altro canto, l’art. 1, comma 12, lett. h prevede che «sia il custode ad attuare il provvedimento di liberazione dell’immobile pignorato secondo le disposizioni del giudice dell’esecuzione immobiliare, senza l’osservanza delle formalità di cui agli articoli 605 e seguenti del codice di procedura civile, successivamente alla pronuncia del decreto di trasferimento nell’interesse dell’aggiudicatario o dell’assegnatario se questi non lo esentano».
11.3. Valutazione della legge di riforma
È indubbio che l’ordine di liberazione sia funzionale agli scopi della procedura esecutiva. Più si anticipa rispetto all’ordinanza di vendita o di delega il momento della liberazione, più si salvaguardano gli scopi della procedura esecutiva, favorendo, in realtà, non solo il ceto creditorio ma, per taluni versi, anche lo stesso debitore, il quale ha interesse a che il bene venga venduto al prezzo più alto. Al contrario, più si individua il termine della liberazione nell’aggiudicazione o finanche nel decreto di trasferimento, più si lascia che prevalgano altre esigenze del debitore.
L’excursus normativo delineato testimonia quanto sia difficile bilanciare le opposte esigenze in conflitto. Come rilevato in dottrina[119], un punto di equilibrio può trarsi dai principi enunciati dalla Corte costituzionale[120], la quale ha posto l’accento sulla necessità di contemperare, alla luce del principio di proporzionalità dei mezzi scelti in relazione alle esigenze e finalità perseguite, il diritto di abitazione – quale “diritto sociale ed inviolabile” – con il diritto dei creditori ad agire in executivis.
Secondo il parere del CSM, si tratta di una legittima opzione legislativa che dà rilevanza alle esigenze abitative del debitore. La novella, in ogni caso, trasferisce l’onere delle esigenze abitative di persone “bisognose” dallo Stato al ceto creditorio a beneficio dello Stato[121].
Nei circoscritti confini del presente contributo basti evidenziare come la legge di riforma non stravolge gli equilibri raggiunti con l’ultima novella, pur ampliando l’ambito applicativo della liberazione anticipata; infatti, l’omessa manutenzione del cespite in uno stato di buona conservazione dà luogo alla liberazione anticipata, senza che occorra la colpa o il dolo del debitore e dei membri del suo nucleo familiare.
Per ogni altra valutazione sembrerebbe opportuno attendere le specifiche disposizioni dei decreti delegati, soprattutto in ordine:
- al quomodo della liberazione, stante la scelta di prevedere l’eseguibilità senza l’osservanza delle forme di cui agli art. 605 ss. c.p.c.;
- al possibile superamento o meno delle incertezze scaturite all’indomani della novella del 2020, specie in ordine alla eventuale configurabilità di un decreto di trasferimento a contenuto complesso.
Anche se, giova evidenziarlo, in dottrina [122] non è mancato chi ha già avanzato una valutazione di segno negativo sulla base di quanto previso dalla legge delega, stante l’ingiustificato trattamento differenziato di situazioni analoghe; infatti, secondo il tenore letterale della norma, è presa in considerazione la sola esigenza abitativa «dell’esecutato convivente col nucleo familiare», così pregiudicando situazioni altrettanto meritevoli di tutela, quali quelle del debitore che occupi da solo l’immobile, del nucleo familiare del debitore che lo occupi senza il debitore, etc.
12. La «vendita diretta»: un inedito istituto, alla luce della Relazione illustrativa
La legge n. 206/2021 prevede anche l’introduzione nel nostro ordinamento di un istituto processuale assolutamente nuovo, ossia l’autorizzazione del giudice dell’esecuzione al debitore di procedere direttamente alla vendita dell’immobile pignorato per un prezzo non inferiore al prezzo base indicato nella relazione di stima.
Come si legge nella Relazione illustrativa alle proposte di emendamento, «l’introduzione di un meccanismo di vente privée può favorire una liquidazione “virtuosa” e rapida attraverso la collaborazione del debitore o, al contrario, costituire mezzo per allungare infruttuosamente i tempi processuali o volto a perpetrare frodi in danno dei creditori».
La formulazione della modifica come contenuta nella legge delega (all’esito della correzione dell’originario articolo 8 d.d.l. AS 1662 con l’emendamento approvato in Senato) si è resa necessaria al fine di: evitare che «lo strumento ivi previsto si ripercuota in danno della ragionevole durata del processo, divenendo strumento dilatorio o fonte di opposizioni esecutive; impedire che lo stesso debitore possa impiegare lo strumento per liquidare il cespite pignorato senza una corretta individuazione del suo valore di mercato o, peggio, che l’esecutato possa diventare vittima di malversazioni di soggetti che utilizzino il meccanismo della vendita privata come un patto commissorio o, comunque, per approfittarsi della sua situazione; assimilare il trattamento della proposta di vendita portata dal debitore a quello previsto nel concordato con proposte concorrenti; rendere favorevole per l’acquirente l’acquisto del bene, in ragione della verifica giudiziale dei presupposti e, soprattutto, dell’assunzione dei costi del trasferimento e della cancellazione dei gravami a carico della procedura (come già avviene col provvedimento ex articolo 586 c.p.c.)».
Per perseguire questi scopi - si legge ancora nella Relazione illustrativa - «si è pensato a un sistema che ricalca, a grandi linee, la vendita senza incanto praticata in numerosi uffici giudiziari prima della riforma entrata in vigore il 1° marzo 2006, quando, una volta messo in vendita il bene, alla ricezione di una prima offerta di acquisto si provvedeva sollecitamente a darne pubblicità al fine di stimolare eventuali altri interessati, per poi effettuare, entro breve tempo, un’udienza nella quale provvedere all’aggiudicazione, previa gara in caso di pluralità di offerte»[123].
12.1. Il contesto di riferimento: modelli di vendita ed evoluzione della vendita forzata
In linea astratta, onde favorire una liquidazione virtuosa potrebbero essere considerati, dal legislatore della riforma, differenti modelli di vendita forzata, alla luce del trend evolutivo che ha caratterizzato la vendita forzata negli ultimi lustri, tanto in ambito di esecuzione individuale, quanto in ambito di esecuzione concorsuale.
Infatti, a fronte della crisi in cui versa la giustizia civile, e in particolare la tutela esecutiva, nel corso del tempo il legislatore, grazie agli impulsi provenienti dalla dottrina, dalla giurisprudenza e, in particolare dalle cd. prassi virtuose, ha modificato la disciplina della procedura esecutiva in controtendenza rispetto alla riforma della vendita forzata di cui alle leggi 80 e 263 del 2005 e 52 del 2006[124], di cui si è denunciato, ad opera di parte della dottrina, il «dirigismo» che «si manifesta nella stessa redazione delle norme, in un tessuto normativo caratterizzato dall’estremo descrittivismo di ogni azione e/o attività realizzata dagli attori del processo»[125].
Con specifico riguardo ai modelli di vendita, può cogliersi nell’introduzione delle cd. vendite competitive un’apertura significativa del legislatore verso modelli i cui tratti caratterizzanti prescindano dal dato procedimentale rigidamente inteso al fine di trovare il proprio referente in alcuni principi essenziali.
I connotati essenziali di detta vendita – riproposta anche nel CCI - sono stati individuati: nel sistema incrementale di offerte, nell’adeguata forma di pubblicità, nella trasparenza endoprocessuale, nelle regole prestabilite e non discrezionali di selezione dell’offerente e, infine, nella completa ed assoluta apertura al pubblico[126].
Si è ritenuto, peraltro, che la forma notarile dell’atto di vendita – ove sussistano i presupposti testé richiamati – sia idoneo a surrogare nel prezzo versato il diritto reale sul bene in guisa che il bene oggetto della vendita venga trasferito all’acquirente libero da vincoli pregiudizievoli[127]. In altri termini, la forma negoziale nell’atto non esclude il carattere coattivo della vendita alla luce dei profili strutturali, procedurali e funzionali delle vendite competitive[128].
Non sono neanche mancati progetti di riforma tendenti ad introdurre il modello di vendita competitiva anche in sede di esecuzione forzata[129].
Non a caso, in dottrina, si è già da tempo rilevato[130] che il trend evolutivo della vendita forzata, anche in sede di espropriazione forzata, sia quello di ricorrere a modalità di vendita forzata meno rigide sul piano procedimentale rispetto a quelle attualmente disciplinate dal codice di procedura civile, con conseguente attribuzione al giudice di maggiori poteri discrezionali, tali da consentirgli di modellare la vendita nel modo più possibile aderente alle esigenze del singolo caso di specie. Questa discrezionalità troverebbe, però, il suo limite nei principi fondamentali predeterminati dal legislatore. Se si vuole, dunque, recuperare una maggiore duttilità della vendita forzata, al fine di renderla il più possibile efficace, non si può che abbandonare la prospettiva della rigida procedimentalizzazione delle modalità attraverso cui la stessa deve trovare attuazione, facendo leva inevitabilmente su una maggiore discrezionalità giudiziale, seppure temperata, a garanzia di tutti i soggetti interessati e del buon esito della procedura stessa, da alcuni “principi” fondamentali cui il giudice dovrà uniformare il suo operato nel singolo caso di specie.
Su un versante assolutamente diverso si pone un’ulteriore tendenza legislativa, sempre legata alla necessità di rafforzare la tutela del credito, relativa all’introduzione da parte del legislatore, accanto a forme di tutela esecutiva, di numerosi strumenti di autotutela esecutiva, che fanno leva sulla vendita della cosa concessa in garanzia, direttamente a cura del creditore, sul libero mercato o sul trasferimento della proprietà della stessa al creditore medesimo, ma secondo lo schema del patto marciano, ossia previa stima del bene, effettuata da un esperto terzo e imparziale al tempo dell’inadempimento e salva restituzione dell’eventuale eccedenza al debitore[131]. In ipotesi siffatte, si pone il problema della qualificazione della natura giuridica della vendita e, conseguentemente, della ricostruzione della disciplina giuridica applicabile per quanto non espressamente disposto.
L’analisi del nuovo istituto della “vendita privata” va condotta proprio considerando questo quadro evolutivo, al fine di verificare se sussistano, in detta ipotesi, gli elementi che la dottrina e la giurisprudenza hanno ricondotto nel tempo alla nozione di vendita coattiva.
12.2. Autorizzazione del debitore a procedere direttamente alla vendita
La legge n. 206/2021 prevede, come detto, l’introduzione nel nostro ordinamento di un istituto processuale completamente nuovo: l’autorizzazione del giudice dell’esecuzione al debitore di procedere direttamente alla vendita dell’immobile pignorato per un prezzo non inferiore al prezzo base indicato nella relazione di stima.
Più precisamente, l’art. 1 comma 12 lett. n) reca testualmente: «prevedere:
1) che il debitore, con istanza depositata non oltre dieci giorni prima dell’udienza prevista dall’articolo 569, primo comma, del codice di procedura civile, può chiedere al giudice dell’esecuzione di essere autorizzato a procedere direttamente alla vendita dell’immobile pignorato per un prezzo non inferiore al prezzo base indicato nella relazione di stima, prevedendo che all’istanza del debitore deve essere sempre allegata l’offerta di acquisto irrevocabile per centoventi giorni e che, a garanzia della serietà dell’offerta, è prestata cauzione in misura non inferiore a un decimo del prezzo proposto;
2) che il giudice dell’esecuzione, con decreto, deve: verificata l’ammissibilità dell’istanza, disporre che l’esecutato rilasci l’immobile nella disponibilità del custode entro trenta giorni a pena di decadenza dall’istanza, salvo che il bene sia occupato con titolo opponibile alla procedura; disporre che entro quindici giorni è data pubblicità, ai sensi dell’articolo 490 del codice di procedura civile, dell’offerta pervenuta rendendo noto che entro sessanta giorni possono essere formulate ulteriori offerte di acquisto, garantite da cauzione in misura non inferiore a un decimo del prezzo proposto, il quale non può essere inferiore a quello dell’offerta già presentata a corredo dell’istanza dell’esecutato; convocare il debitore, i comproprietari, il creditore procedente, i creditori intervenuti, i creditori iscritti e gli offerenti a un’udienza da fissare entro novanta giorni per la deliberazione sull’offerta e, in caso di pluralità di offerte, per la gara tra gli offerenti;
3) che con il provvedimento con il quale il giudice dell’esecuzione aggiudica l’immobile al miglior offerente devono essere stabilite le modalità di pagamento del prezzo, da versare entro novanta giorni, a pena di decadenza ai sensi dell’articolo 587 del codice di procedura civile;
4) che il giudice dell’esecuzione può delegare uno dei professionisti iscritti nell’elenco di cui all’articolo 179-ter delle disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile e disposizioni transitorie, di cui al regio decreto 18 dicembre 1941, n. 1368, alla deliberazione sulle offerte e allo svolgimento della gara, alla riscossione del prezzo nonché alle operazioni di distribuzione del ricavato e che, una volta riscosso interamente il prezzo, ordina la cancellazione delle trascrizioni dei pignoramenti e delle iscrizioni ipotecarie ai sensi dell’articolo 586 del codice di procedura civile;
5) che, se nel termine assegnato il prezzo non è stato versato, il giudice provvede ai sensi degli articoli 587 e 569 del codice di procedura civile;
6) che l’istanza di cui al numero 1) può essere formulata per una sola volta a pena di inammissibilità».
12.3. Considerazioni critiche delle previsioni contenute nella legge di riforma
Dalla lettura della norma appena più sopra richiamata emerge con chiarezza come ci troviamo di fronte ad un istituto i cui tratti essenziali e caratterizzanti sono già delineati, ancorché nell’ambito di una legge delega, che, nel caso di specie, va bel al di là della mera enunciazione di un “principio di carattere generale” o di una “direttiva” la cui attuazione sia rimessa a successivi interventi legislativi.
Ciò consente di effettuare già in questa sede una serie di osservazioni su questo nuovo istituto, così come già delineato dalla legge n. 206/2021 nei suoi tratti fondamentali.
Conformemente a quanto sembrerebbe emergere anche dalla Relazione illustrativa in precedenza richiamata, il legislatore si è ispirato alla vendita privata presente in altri ordinamenti, così come accade, ad esempio, in Francia, con la “vente privée”.
Il risultato conseguito, però, è in realtà ben distante da quanto previsto in altri Paesi.
Così come la dottrina ha già avuto modo di evidenziare, con la legge delega in esame il legislatore «non introduce un meccanismo di vendita privata sul modello di quello previsto dalla legislazione di altri Paesi quanto un ulteriore modello di vendita interno alla procedura, che si pone in alternativa con quelli già previsti, come ulteriore esito dell’udienza ex art. 569 c.p.c.» [132].
Secondo la medesima dottrina, «l’innovazione finisce per introdurre solo un procedimento che viene introdotto su istanza del debitore e garantisce, all’esito di una vendita pubblica, che l’immobile sia alienato a un prezzo non inferiore al valore di stima, superando quindi l’ipotesi di vendita a prezzo ridotto attualmente prevista dall’art. 572 c.p.c. Non vi è alcun profilo privatistico, se non quello preliminare della ricerca di un potenziale offerente»[133].
Come appena più sopra evidenziato, non appare dubitabile che il legislatore, pur ispirandosi alla vendita privata presente in altri Paesi, ha in realtà introdotto nel nostro ordinamento qualcosa di diverso.
Appare, però, eccessivamente riduttivo ritenere che, nel caso di specie, «non vi è alcun profilo privatistico, se non quello preliminare della ricerca di un potenziale offerente».
A ben vedere, infatti, se vuol darsi un senso all’autorizzazione del debitore, da parte del giudice dell’esecuzione, «a procedere direttamente alla vendita dell’immobile pignorato», sembrerebbe corretto ritenere che la vendita, nel caso di specie, sia altresì caratterizzata dal fatto che, a differenza di quanto avviene tradizionalmente, non si estrinseca nell’emissione del decreto di trasferimento da parte del giudice, ma nel ricevimento di un atto di vendita da parte di un notaio.
Questo è quanto sembrerebbe emergere, a ben vedere, anche dalla lettera della previsione di cui al n. 4 dell’art. 1 comma 12 lett. n) – appena più sopra riportato – nella parte in cui dispone che «il giudice dell’esecuzione può delegare uno dei professionisti iscritti nell’elenco di cui all’articolo 179-ter delle disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile e disposizioni transitorie, di cui al regio decreto 18 dicembre 1941, n. 1368» esclusivamente al compimento delle seguenti attività: «deliberazione sulle offerte … svolgimento della gara … riscossione del prezzo … operazioni di distribuzione del ricavato».
La disposizione non reca, infatti, alcun riferimento alla vendita e, segnatamente, alla predisposizione del decreto di trasferimento da parte del professionista. Ciò si spiega proprio in quanto, nel caso di specie, trattandosi di “vendita diretta” del debitore “autorizzata” dal giudice, non vi sarà un decreto di trasferimento e non vi potrà conseguentemente essere, in parte qua, neanche una delega ad un professionista; vi sarà un atto di vendita che potrà essere ricevuto solo da un notaio, in quanto notaio e non in quando professionista delegato dal giudice.
Altrimenti ritenendo, dovrebbe concludersi che nulla abbia di privato (neanche la forma, per intendersi) la vendita nel caso di specie, quanto meno sotto il profilo della conclusione dell’iter procedimentale.
In definitiva, muovendoci nell’ordine di idee appena più sopra evidenziato, il nuovo istituto introdotto dal legislatore con riferimento al processo di espropriazione forzata sembrerebbe presentare talune affinità con la vendita competitiva di cui alle procedure concorsuali e, segnatamente, con l’ipotesi in cui detta vendita si estrinseca, per l’appunto, nel ricevimento di un atto pubblico di vendita da parte di un notaio[134].
Senza voler entrare in questa sede sulla controversa natura (forzata o privata) della nuova ipotesi di vendita disciplinata dal legislatore, in relazione alla quale è auspicabile che ulteriori indicazioni vengano fornite dal legislatore in sede di attuazione della delega, basti nei circoscritti confini del presente contributo evidenziare come, quanto appena più sopra evidenziato con riferimento alla forma del trasferimento, non è incompatibile con la natura forzata (e non privata) della vendita di cui si discute, così come sembrerebbe emergere da quanto previsto da talune delle disposizioni appena più sopra richiamate, quali, su tutte, quelle che prevedono, sostanzialmente, il prodursi, nel caso di specie, del cd. effetto purgativo (proprio, per l’appunto, della vendita forzata e non di quella privata).
Non a caso, infatti, con riferimento alla vendita competitiva che si conclude con atto di vendita ricevuto da notaio, parte della dottrina ha ritenuto pienamente compatibile la forma “privata” della vendita con la natura sostanziale di vendita forzata della stessa [135].
Anche se, giova evidenziarlo, si tratta di questione complessa, meritevole di essere esaminata alla luce delle indicazioni che perverranno dal legislatore in sede di attuazione della delega, posto che sarebbe semplicistico ritenere che la stessa sia già risolta dalla suddetta disposizione avente ad oggetto il cd. effetto purgativo della vendita.
Basti a tal proposito evidenziare come, nel tentativo di individuare quelli che sono i tratti essenziali ed imprescindibili della coattività della vendita, si è ritenuto che gli stessi siano rappresentati, essenzialmente, dall’assenza della (o contrarietà rispetto alla) volontà del debitore e dallo scopo teso a realizzare la responsabilità patrimoniale [136]. È peraltro noto come qualificare una vendita come coattiva o meno incide, non solo sul riconoscimento del potere purgativo (che in tal caso è previsto), ma anche su una serie di discipline speciali applicabili alla vendita negoziale e non (quanto meno dal punto di vista sanzionatorio) alla vendita forzata[137].
Ciò posto, e indipendentemente dalla natura che voglia riconoscersi alla vendita di cui si discute, resta comunque da chiedersi se il legislatore abbia effettivamente introdotto un istituto che, in linea con il trend evolutivo della vendita forzata appena più sopra illustrato, soddisfi le esigenze di emancipazione della vendita forzata da rigidi schemi procedimentali [138], così come auspicato da una parte della dottrina [139].
Sotto il profilo da ultimo segnalato l’analitica disciplina già contenuta nella legge delega suscita qualche perplessità, ma, anche sotto questo profilo, prima di esprimere ogni valutazione di sorta, pare corretto attendere l’intervento dei decreti attuativi, che dovrebbero consentire di comprendere fino in fondo quale sia l’esatta fisionomia del nuovo istituto introdotto nel nostro ordinamento.
Nondimeno, dal punto di vista procedimentale, ulteriori rilievi critici sono stati evidenziati dal parere del CSM, più volte richiamato[140], secondo il quale l’istituto: si presta ad essere utilizzato dal debitore a fini dilatori, prevede un accertamento dai confini indefiniti e, infine, non distingue tra categorie di creditori ai fini del consenso relativo all’istanza di vendita.
Dal primo angolo prospettico, si rimarca che l’istanza può essere depositata fino a dieci giorni prima dell’udienza di cui all’art. 569 c.p.c., nella quale normalmente viene disposta la vendita del compendio. Invece, secondo detto parere, «al fine di garantire che l’offerta sia reale, sarebbe opportuno prevederne la redazione in forma di atto pubblico o di scrittura privata autenticata con elezione di domicilio ai fini delle comunicazioni di cancelleria e del contraddittorio previsto dall’articolo in esame, nonché chiarire che la cauzione resti definitivamente acquisita alla procedura nel caso di mancata stipula dell’atto di trasferimento nel termine stabilito dal giudice»[141]. Inoltre, con lo scopo di scongiurare le finalità dilatorie, sarebbe probabilmente opportuno valorizzare la serietà dell’offerta prevedendo una cauzione più elevata rispetto a quella di 1/10 prevista nel caso di vendita competitiva dall’art 571 c.p.c., stabilendo contestualmente che, in caso di inadempimento, trovino applicazione le sanzioni previste dall’art 587 c.p.c.
Dal secondo angolo prospettico, si evidenzia la previsione in base alla quale il giudice, nel contraddittorio tra le parti, può assumere sommarie informazioni sulla “effettiva capacità di adempimento dell’offerente”. Tale previsione, secondo detto parere, «appare eccessivamente generica introducendo nel procedimento esecutivo un accertamento dai confini non definiti».
Dal terzo angolo prospettico, si puntualizza che il D.d.l. prevede che l’istanza di vendita del debitore è condizionata al consenso dei creditori. La norma sembra far riferimento a tutte le categorie di creditori, mentre, sempre secondo detto parere, andrebbero effettuate talune distinzioni tra le diverse categorie di creditori.
Anche sotto questi profili non resta che attendere l’intervento dei decreti attuativi, auspicando che il legislatore tenga conto, nei limiti del possibile, dei rilievi critici evidenziati, tanto sul piano sostanziale, quanto sul piano procedimentale.
12. L’estensione degli obblighi antiriciclaggio nell’ambito delle vendite forzate e concorsuali
La legge di riforma contiene una modifica in relazione ai rapporti tra vendita forzata e normativa antiriciclaggio, tematica sino ad ora caratterizzata dalla totale assenza di disposizioni normative.
Come si vedrà, l’esigenza di fondo, emersa nella prassi e recentemente indagata in dottrina, attiene al contrasto del riciclaggio di disponibilità finanziarie aventi provenienza illecita anche in sede espropriativa e concorsuale, considerando però le peculiarità della natura e della disciplina delle procedure esecutive e concorsuali.
13.1. La disciplina vigente
La totale assenza di disposizioni normative specifiche con riferimento alla vendita forzata nell’ambito della cd. normativa antiriciclaggio ha sollevato un delicato problema interpretativo, di grosso impatto sul piano pratico-operativo e del contrasto al riciclaggio di disponibilità finanziarie aventi provenienza illecita [142].
Ci si è chiesti, infatti, se, pur in assenza di disposizione espressa, detta normativa possa trovare comunque applicazione nelle ipotesi in cui l’acquisto di un determinato bene venga effettuato nell’ambito di una procedura espropriativa (o concorsuale), nonostante le indubbie peculiarità di una fattispecie fondamentalmente contraddistinta dalla natura coattiva (e non volontaria) della vendita [143].
Per quanto, infatti, in tal caso ci troviamo di fronte ad una vendita indipendente dalla volontà del titolare di beni pignorati nell’interesse dei creditori, e dunque ad una fattispecie che – complessivamente considerata – non integra quella di riciclaggio, non può, d’altro canto, disconoscersi la concreta possibilità che l’intento perseguito dall’acquirente del bene [144], ancorché oggetto di una vendita coattiva, sia proprio quello che la normativa antiriciclaggio intende contrastare [145].
La rilevanza della problematica è tale da aver catalizzato anche l’attenzione della stampa[146].
Nella prassi l’attenzione si è concentrata soprattutto sui conti correnti della procedura esecutiva.
Ci si è chiesti, in particolare, se siano applicabili o meno ai conti correnti della procedura esecutiva ed al professionista delegato, da parte degli intermediari bancari, gli oneri di adeguata verifica introdotti dalla disciplina antiriciclaggio di cui al d.lgs. 21-11-2007, n. 231 (e successive modificazioni).
Più precisamente, presso gli operatori del settore, ciò che ha catalizzato l’attenzione, nell’ipotesi in cui la procedura espropriativa sia delegata ad un professionista (notaio, avvocato o commercialista), è l’intestazione/titolarità dei suddetti conti correnti. Infatti, si è fatta strada l’idea, soprattutto in ambito bancario, che la titolarità effettiva dei suddetti conti correnti sia del professionista delegato, anziché del presidente del tribunale (in ragione della pretesa necessità - ancorché controvertibile - di individuare in ogni caso una persona fisica come titolare effettivo ai sensi dell’art. 1, lett. pp del d.lgs. 21-11-2007 n. 231) o, in via più generale, della procedura, con conseguente assoggettamento degli stessi alla normativa antiriciclaggio.
Come già ampiamente evidenziato in altra sede, si tratta di prospettiva assolutamente erronea e fuorviante [147].
In giurisprudenza sussiste, a quanto consta, solo una pronuncia di merito, secondo la quale «gli oneri di adeguata verifica introdotti dalla disciplina antiriciclaggio di cui al d.lgs. 21-11-2007, n. 231 e successive modificazioni non si applicano ai professionisti delegati e, più in generale, agli ausiliari del giudice, non potendo definirsi né clienti né esecutori degli stessi, nel senso indicato dall’art. 1, 2° co., lett. p), d.lgs. 231/2007, né infine effettivi titolari del rapporto bancario acceso quale conto della procedura esecutiva» [148].
Nel pervenire alla suddetta conclusione, detta pronuncia opera un riferimento, in motivazione, alla risposta a quesito n. 15 del 21-6-2006 dell’Ufficio Italiano Cambi, secondo la quale: «l’attività svolta dal professionista a seguito di incarico da parte dell’Autorità giudiziaria, quale ad esempio quella di curatore fallimentare o di consulente tecnico d’ufficio, è esclusa dall’ambito di applicazione delle disposizioni antiriciclaggio. In questi casi il professionista agisce in qualità di ausiliario del giudice e non si ravvisa nella fattispecie né la nozione di cliente né quella di prestazione professionale».
La suddetta risposta ha ad oggetto, in via più generale, gli ausiliari del giudice, ma il principio dalla stessa affermato è stato ritenuto applicabile, dal suddetto Tribunale, anche ai professionisti delegati al compimento delle operazioni di vendita in sede di espropriazione forzata in quanto considerati anch’essi, evidentemente, ausiliari del giudice o comunque parificabili a questi ultimi ai fini della individuazione della soluzione più corretta da dare alla problematica in esame.
In dottrina si è esclusa l’applicabilità alla vendita forzata della vigente normativa antiriciclaggio per lo più argomentando in tal senso dall’assenza di una disposizione espressa, dalla natura giurisdizionale dell’attività di cui si discute – anche ove posta in essere dal professionista delegato e non dal giudice -, nonché dalle peculiarità proprie di questa attività [149].
Argomentando, per un verso, dal modo in cui sono formulate le disposizioni vigenti in materia e, per altro verso, dalle peculiarità proprie dell’acquisto che si realizza nell’ambito di un processo di espropriazione forzata, la dottrina ha sottolineato altresì l’estrema difficoltà - se non anche l’impossibilità – di colmare detta lacuna in via di interpretazione analogica o estensiva e la conseguente esigenza di intervenire, da parte del legislatore, con l’introduzione di una disciplina espressa che tenga conto proprio delle suddette peculiarità [150].
Giova, infine, evidenziare come la medesima dottrina non ha mancato neanche di evidenziare il peculiare atteggiarsi della problematica di cui si discute con riferimento alle procedure concorsuali, rimarcando la necessità di un intervento del legislatore anche in questa sede, che tenga conto, anche in tal caso, delle peculiarità proprie di questo contesto, oltre che delle differenti tipologie di vendita che possono venire in rilievo in questa sede [151].
13.2. L’intervento riformatore previsto dalla legge delega per la riforma del processo civile (legge n. 206/2021)
Il legislatore della riforma interviene nel contesto appena più sopra sinteticamente delineato con una disposizione del seguente tenore.
L’art. 1 comma 12 lett. p) reca testualmente: «prevedere che, nelle operazioni di vendita dei beni immobili compiute nelle procedure esecutive individuali e concorsuali, gli obblighi previsti dal decreto legislativo 21 novembre 2007, n. 231, a carico del cliente si applicano anche agli aggiudicatari e che il giudice emette il decreto di trasferimento soltanto dopo aver verificato l’avvenuto rispetto di tali obblighi».
La scelta è, dunque, evidentemente nel senso di colmare il suddetto vuoto normativo estendendo l’ambito di applicazione della normativa antiriciclaggio di cui al decreto legislativo 21 novembre 2007, n. 231 anche all’acquisto effettuato nell’ambito di procedure esecutive individuali o concorsuali.
Più precisamente, a detto risultato si intende pervenire prevedendo che «gli obblighi previsti dal decreto legislativo 21 novembre 2007, n. 231, a carico del cliente si applicano anche agli aggiudicatari e che il giudice emette il decreto di trasferimento soltanto dopo aver verificato l’avvenuto rispetto di tali obblighi».
13.3. Valutazione della legge di riforma
In ragione di quanto appena più sopra evidenziato in ordine al vuoto normativo esistente e della indubbia esigenza di contrastare il riciclaggio di disponibilità finanziarie aventi provenienza illecita anche in sede espropriativa e concorsuale, ci troviamo di fronte ad un intervento riformatore che effettua una scelta di fondo pienamente condivisibile.
La formulazione della suddetta disposizione desta, però, talune perplessità.
La generica equiparazione del cliente all’aggiudicatario, sotto il profilo degli obblighi previsti dal decreto legislativo 21 novembre 2007, n. 231, nonché la conseguente generica subordinazione della possibilità per il giudice di emettere il decreto di trasferimento al rispetto di tali obblighi, infatti, ben potrebbero indurre a ritenere che la normativa vigente non necessiti di alcun adattamento di sorta per poter trovare applicazione anche nell’ambito di un differente contesto – contraddistinto da non indifferenti peculiarità – qual è quello della vendita (non volontaria ma) forzata.
Come si è già avuto modo di evidenziare più ampiamente in altra sede, invece, l’attuale impianto normativo necessita inevitabilmente di taluni adattamenti per poter trovare applicazione sia nell’ambito del processo di espropriazione forzata che in quello concorsuale [152].
Nonostante la suddetta formulazione della norma, è, dunque, auspicabile che il legislatore, in sede di attuazione della delega, non si limiti a procedere ad una meccanica estensione della vigente normativa antiriciclaggio al processo di espropriazione forzata e alle procedure concorsuali, ma preveda, piuttosto, specifiche disposizioni parametrate alle peculiarità proprie del contesto in cui queste saranno chiamate ad operare.
14. Le misure coercitive
La legge di riforma contiene interventi anche in ordine a uno degli istituti cruciali per l’effettività della tutela giurisdizionale: le misure coercitive. Come si vedrà, per un verso, i principi direttivi fissati nella legge delega recepiscono quanto segnalato in dottrina ma, per altro verso, non intervengono su taluni profili critici del vigente testo dell’art. 614 bis c.p.c., censurati, da autorevole dottrina, finanche sotto il profilo della legittimità costituzionale.
14.1. La disciplina vigente
Le cd. misure coercitive costituiscono indubbiamente uno degli istituti processuali che ha conosciuto un’evoluzione più significativa nel corso degli ultimi anni nel nostro ordinamento.
Un primo significativo risultato, nella direzione della effettività della tutela di condanna, si è avuto grazie a quella dottrina che, nel propugnare il superamento della correlazione necessaria fra condanna ed esecuzione forzata, ha sottolineato l’esigenza di porre la tutela di condanna in correlazione anche con le misure coercitive [153].
Ciò posto, però, per lungo tempo il nostro ordinamento è stato comunque contraddistinto dalla presenza solo di specifiche disposizioni contenenti misure coercitive tipiche, tanto è vero che, la medesima dottrina di cui sopra, al fine di ampliare il perimetro applicativo delle misure coercitive, ha tentato di valorizzare talune disposizioni del codice penale (artt. 388 e 650), nonostante i limiti che le stesse presentavano o sotto il profilo dell’ambito di applicazione o sotto quello dei presupposti richiesti per la loro applicabilità.
Solo nel 2009[154] il legislatore ha introdotto, sulla scia di quanto già fatto da tempo da altri ordinamenti, un sistema atipico di misure coercitive.
Più precisamente è stato introdotto, nel codice di procedura civile, l’art. 614-bis c.p.c.
Si tratta di una norma che, pur con taluni difetti di formulazione che hanno indotto il legislatore ad intervenire nuovamente sulla stessa nel 2015[155], ha indubbiamente rappresentato un significativo passo avanti nella direzione della effettività della tutela di condanna.
In forza di quanto attualmente disposto dall’art. 614-bis c.p.c. (recente “misure di coercizione indiretta”), infatti: «con il provvedimento di condanna all’adempimento di obblighi diversi dal pagamento di somme di denaro il giudice, salvo che ciò sia manifestamente iniquo, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento. Il provvedimento di condanna costituisce titolo esecutivo per il pagamento delle somme dovute per ogni violazione o inosservanza. Le disposizioni di cui al presente comma non si applicano alle controversie di lavoro subordinato pubblico o privato e ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all’art. 409. Il giudice determina l’ammontare della somma di cui al primo comma tenuto conto del valore della controversia, della natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile e di ogni latra circostanza utile».
14.2. L’intervento riformatore previsto dalla legge delega per la riforma del processo civile (legge n. 206/2021)
Il legislatore interviene nuovamente in materia con la legge delega in esame.
L’art. 1 comma 12 lett. o) reca testualmente: «prevedere criteri per la determinazione dell’ammontare, nonché del termine di durata delle misure di coercizione indiretta di cui all’art. 614-bis del codice di procedura civile; prevedere altresì l’attribuzione al giudice dell’esecuzione del potere di disporre dette misure quando il titolo esecutivo è diverso da un provvedimento di condanna oppure la misura non è stata richiesta al giudice che ha pronunciato tale provvedimento».
Due sono, dunque, le tipologie di intervento previste dalla l. n. 206/2021.
Il primo ha ad oggetto uno dei profili applicativi più delicati della vigente disciplina, essendosi da più parti evidenziato [156] come la stessa attribuisca al giudice un’eccessiva discrezionalità o, quanto meno, una discrezionalità estremamente ampia sotto diversi profili.
L’intento del legislatore è, evidentemente, quello di circoscrivere detta discrezionalità sotto il profilo della durata e della determinazione dell’ammontare della misura di coercizione indiretta.
Il secondo mira, invece, ad intervenire su una scelta di fondo effettuata dal legislatore in sede di introduzione, nel nostro ordinamento, di un sistema atipico di misure coercitive, ossia l’attribuzione al giudice della cognizione (e non al giudice dell’esecuzione [157]) del potere di pronunciare la misura coercitiva.
In forza di quanto disposto dall’art. 614-bis c.p.c., spetta, infatti, al giudice della cognizione, in sede di emissione della pronuncia di condanna, il potere di condannare il soggetto soccombente (anche) al pagamento di una somma di danaro «per ogni violazione o inosservanza successiva ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento».
Detta scelta non viene sovvertita, in quanto resta ferma, ma si attribuisce analogo potere al giudice dell’esecuzione con riferimento alle ipotesi in cui «il titolo esecutivo è diverso da un provvedimento di condanna oppure la misura non è stata richiesta al giudice che ha pronunciato tale provvedimento».
14.3. Valutazione della legge di riforma
Sotto entrambi i profili appena più sopra indicati l’intento del legislatore appare condivisibile.
Nel primo caso, infatti, si vogliono arginare possibili sconfinamenti del potere discrezionale attribuito dalla norma al giudice in potere arbitrario o comunque evitare un distorto utilizzo dell’istituto. Resta, però, da valutare come verrà assolto il compito più difficile, ossia l’individuazione dei criteri per la determinazione dell’ammontare della misura coercitiva.
Nel secondo caso, siamo di fronte ad una previsione che mira a rendere ancor più effettiva la tutela giurisdizionale di condanna, posto che, con la stessa, si estende l’ambito di applicazione delle misure di coercizione indiretta anche a titoli esecutivi differenti da un provvedimento giurisdizionale di condanna. Anche in questo caso, però, ogni altra valutazione non può che rimanere sospesa in attesa di vedere come il legislatore darà attuazione a questo principio di carattere generale, soprattutto sotto il profilo procedimentale, posto che, pur seguendo gli auspici di una parte della dottrina [158] nel senso di attribuire al giudice dell’esecuzione il potere di liquidare l’astreinte con un procedimento sommario in cui sia salvaguardata la garanzia del contraddittorio, si tratta pur sempre di disciplinare un’ipotesi assai peculiare rispetto all’attività tipicamente rimessa al giudice dell’esecuzione.
Criticabile appare, invece, la scelta del legislatore di non intervenire su altro profilo critico del vigente testo dell’art. 614 bis c.p.c. [159], tacciato anche di incostituzionalità da parte di autorevole dottrina [160].
Il riferimento è alla esclusione dall’ambito di applicazione delle misure di coercizione indiretta di cui all’art. 614-bis c.p.c. dei rapporti di lavoro, privato e pubblico, subordinato e parasubordinato di cui all’art. 409 c.p.c.
15. L’istituzione, presso il Ministero della Giustizia, della “Banca dati per le aste giudiziali”
La legge di riforma prevede anche l’istituzione presso il Ministero della Giustizia della “Banca dati per le aste giudiziali”, contenente «i dati identificativi degli offerenti, i dati identificativi del conto bancario o postale utilizzato per versare la cauzione e il prezzo di aggiudicazione, nonché le relazioni di stima».
Al contempo si prevede altresì che «i dati identificativi degli offerenti, del conto e dell’intestatario devono essere messi a disposizione, su richiesta, dell’autorità giudiziaria, civile e penale».
Le aste giudiziarie, e, in via più generale le procedure di espropriazione forzata e concorsuali, costituiscono indubbiamente un contenitore ricco di informazioni utili per una pluralità di fini.
Non è questa la prima volta che il legislatore interviene sul punto, anche se, come avremo modo di evidenziare di qui a breve, i pregressi interventi legislativi in materia sembrerebbero avere un differente perimetro applicativo e differenti finalità rispetto a quelle di cui al presente intervento del legislatore.
15.1. I pregressi interventi legislativi: il registro delle procedure espropriative, di insolvenza nonché degli strumenti di gestione delle crisi
Con il d.l. 3 maggio 2016, n. 59, convertito, con modificazioni, nella L. 30 giugno 2016, n.119, recante “Disposizioni urgenti in materia di procedure esecutive e concorsuali, nonché di investitori in banche in liquidazione”, è stato istituito (art. 3) il “Registro delle procedure di espropriazione forzata immobiliari, delle procedure di insolvenza e degli strumenti di gestione delle crisi” [161].
Questa disposizione è stata introdotta nel nostro ordinamento in attuazione di quanto disposto in materia di pubblicità delle procedure d’insolvenza transfrontaliere dal Reg. UE 2015/848 approvato dal Parlamento europeo e dal Consiglio dell’UE in data 20 maggio 2015, anche se si tratta di disposizione che non è ancora divenuta operativa in quanto necessitante, a tal fine, di un Decreto del Ministero della Giustizia, di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze, che, nonostante il decorso del relativo termine, non è stato ancora adottato.
Più precisamente, si tratta di un registro elettronico istituito presso il Ministero della Giustizia nel quale saranno pubblicate tutte le informazioni e i documenti relativi:
a) alle procedute di espropriazione forzata immobiliare;
b) alle procedure di fallimento, di concordato preventivo, di liquidazione coatta amministrativa;
c) ai procedimenti di omologazione di accordi di ristrutturazione dei debiti, nonché ai piani di risanamento quando vengono fatti oggetto di pubblicazione nel registro delle imprese;
d) alle procedure di amministrazione straordinaria;
e) alle procedure di accordo di ristrutturazione dei debiti, di piano del consumatore e di liquidazione dei beni ex legge n. 3/2012.
Il registro si compone di due sezioni:
1) una ad accesso pubblico e gratuito;
2) l’altra ad accesso limitato [162].
Per le informazioni relative alla sezione del registro ad accesso pubblico vi è un rinvio all’art. 24, par. 2, del Reg. UE 2015/848 ove si fa riferimento alle seguenti informazioni:
- data di apertura della procedura;
- tipo di procedura aperta;
- giudice e numero della stessa;
- fondamento giuridico che ne giustifica l’apertura;
- nome e natura giuridica del debitore;
- nominativo del soggetto incaricato di gestire la procedura;
- termine per l’insinuazione dei crediti;
- data di chiusura della procedura;
- giudice competente per l’impugnazione.
Fermo restando, comunque, per quanto in questa sede maggiormente interessa – ossia le procedure di espropriazione forzata immobiliare -, il rinvio, sia per la sezione ad accesso pubblico che per quella ad accesso limitato, al decreto dirigenziale del Ministro della giustizia di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze.
Per lo più si è ritenuto [163] che detto registro miri fondamentalmente a conseguire una duplice finalità:
1) la prima, meramente informativa e di portata generale, consistente nel consentire ai soggetti interessati, che sino ad oggi non ne hanno beneficiato, di disporre di una serie di informazioni utili tali da rendere al contempo più trasparenti sia le procedure esecutive individuali e collettive, sia le procedure e gli strumenti di risanamento;
2) la seconda, più circoscritta, consistente nel favorire la creazione di un mercato di non performance loans, consentendo ai soggetti interessati al loro acquisto di disporre di un adeguato set informativo, senza dover sopportare costi eccessivi e difficoltà spesso insuperabili, così da metterli in condizione di stimare il valore di tali crediti ed identificare i titolari da cui eventualmente acquistare.
Il registro in esame costituisce anche uno strumento per un’efficace vigilanza sugli intermediari bancari e finanziari e sulla stabilità dello specifico mercato in cui operano. Da ciò, la previsione dell’accesso al registro da parte della Banca d’Italia.
15.2. La valutazione dell’intervento della legge di riforma
Ferma restando, per effettuare valutazioni più approfondite, la necessità di verificare i contenuti dei decreti di attuazione della disposizione in esame, alla stregua del tenore della stessa è possibile comunque sin d’ora evidenziare come ci troviamo di fronte ad un intervento legislativo avente un oggetto più circoscritto di quello di cui sopra (posto che reca un riferimento ai soli dati relativi alle aste giudiziarie e, più specificamente, ai soli dati identificativi degli offerenti, del conto corrente bancario o postale usato per versare la cauzione, al prezzo di aggiudicazione e alle relazioni di stima) e con finalità indubbiamente differenti.
Basti a tal proposito rimarcare come, al di là dell’oggetto più circoscritto, si tratta di dati che, così come testualmente previsto dalla suddetta previsione normativa, potranno essere messi a disposizione, su richiesta, della sola autorità giudiziaria, civile e penale. Non è dato comprendere, sulla base dell’attuale testo della norma, per quali finalità. In astratto potrebbe trattarsi di una disposizione funzionale anche al conseguimento degli obiettivi che il legislatore intende conseguire con l’altra disposizione, in precedenza commentata, volta ad estendere l’applicabilità della normativa antiriciclaggio alle procedure esecutive e concorsuali. Ma, per comprendere se sia effettivamente così e, soprattutto, quali siano effettivamente le finalità perseguite dal legislatore con l’istituzione della banca dati in esame, occorrerà attendere la fase di attuazione della legge delega, con l’auspicio, evidentemente, che in questa sede vengano fugati tutti i possibili dubbi.
La sensazione, comunque, è che, alla luce di quanto sinora evidenziato con riferimento agli interventi normativi in tema di dati e informazioni di vario genere in tema di procedure esecutive e concorsuali, il legislatore si stia muovendo in modo estemporaneo e senza alcuna visione d’insieme. Sarebbe quanto meno auspicabile un maggior coordinamento, non solo sul piano normativo, ma anche operativo.
[1] Al Senato il disegno di legge A.S. 1662 (recante «Delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata») è stato presentato dal “Governo Conte” II il 9 gennaio 2020; successivamente, con la formazione del Governo Draghi, il Ministro della giustizia Cartabia, nel mese di marzo 2021, ha insediato una Commissione di studio per l’elaborazione di proposte di interventi in materia di processo civile e di strumenti allo stesso alternativi, attraverso la formulazione di puntuali proposte emendative al d.d.l. 1662 (c.d. Commissione Luiso). Sulla base dei lavori di questa Commissione, il 16 giugno 2021 il Governo ha presentato una serie di emendamenti al testo originario. La Commissione giustizia ha concluso l’esame del provvedimento il 14 settembre 2021. In Assemblea il Governo ha presentato un maxiemendamento, che ha recepito le modifiche approvate in sede referente, sulla cui approvazione ha posto la questione di fiducia. Per questa ragione il disegno di legge giunto all’esame della Camera si compone di un unico articolo suddiviso in 44 commi.
[2] Cfr., per un esame delle previsioni normative introdotte dal legislatore per fronteggiare le distinte fasi dell’emergenza epidemiologica Covid-19, anche per ulteriori riferimenti: con riferimento alla giustizia civile, E. Fabiani –L. Piccolo, La giustizia civile nell’era dell’emergenza epidemiologica, in Giusto proc. civile, 4/2020, 1027 s.; con riferimento all’esecuzione forzata, E. Fabiani – L.Piccolo, Le misure per fronteggiare l’emergenza epidemiologica Covid-19 in tema di processo esecutivo, in Rass. esec. forz., 2020, 359 s.
[3] Su tutte cfr. Corte costituzionale, sentenza del 22 giugno n. 2021, n. 128, che ha dichiarato l’illegittimità della seconda proroga della sospensione di ogni attività nelle esecuzioni aventi ad oggetto l’abitazione principale del debitore, che era stata stabilita dal 1° gennaio al 30 giugno 2021 (art. 13, comma 14, del decreto-legge 31 dicembre 2020, n. 183, convertito, con modificazioni, nella legge 26 febbraio 2021, n. 21).
[4] Cfr. CSM Pratica num. 533/VV/2020. Buone prassi nel settore delle esecuzioni – Aggiornamento Linee guida
(delibera 6 -7 dicembre 2021), ove si evidenzia che la materia delle esecuzioni è oggetto di specifica riforma (in particolare richiamando il d.d.l. di riforma del processo civile n. 1662), con obiettivo espressamente inerente all’attuazione del PNRR, tanto più che appare di palese evidenza come l’esecuzione delle pronunce giurisdizionali e, in generale, la realizzazione dei crediti costituisca uno degli aspetti fondamentali su cui verrà valutata l’efficienza del sistema giustizia.
[5] Il Consiglio Superiore della magistratura, con delibera del 7 dicembre 2021, proseguendo nella sua attività di rilevazione delle best practices, ha proceduto all’aggiornamento e alla semplificazione delle prassi operative più significative nel settore delle esecuzioni immobiliari, in continuità rispetto all’attività svolta dal precedente Osservatorio permanente sulle buone prassi nelle esecuzioni immobiliari (Consiglio Superiore della Magistratura, Buone prassi nel settore delle esecuzioni –Aggiornamento Linee guida. Delibera 6/7 dicembre 2021, cit.).
[6] Cfr. A.Auletta, Aspetti problematici dell’esecuzione forzata contro la pubblica amministrazione, in www.inexecutivis.it
[7] Su cui cfr., anche per i richiami, A.Auletta, Aspetti problematici dell’esecuzione forzata contro la pubblica amministrazione, cit.; Saletti, Competenza e giurisdizione nell’espropriazione di crediti, in judicium.it; Soldi, Manuale dell’esecuzione forzata, Padova, 2019, 1072 s.
[8] Sulla disciplina in commento, così incisa dalle modifiche nel corso del tempo, cfr., anche per i riferimenti, Saletti, Competenza e giurisdizione nell’espropriazione di crediti, cit.; Bove, La nuova disciplina in materia di espropriazione del credito, in Nuove leggi civ., 2015, 2 s.; Longo, Foro relativo all’espropriazione forzata di crediti, in Misure urgenti per la funzionalità e l’efficienza della giustizia civile a cura di Dalfino, Torino, 2015, 149 ss.
[9] Cfr. Soldi, Manuale dell’esecuzione forzata, cit., 1073 s.
[10] Cfr. Soldi, Manuale dell’esecuzione forzata, cit., 1073.
[11] Cass. 9 luglio 2014, n. 15676.
[12] Cfr. anche per i richiami Soldi, Manuale, cit., 1075.
[13] Cfr. anche per i richiami Soldi, Manuale, cit., 1075, in senso adesivo alla tesi affermata da Cass. 9 luglio 2014, n. 15676.
[14] Cfr., anche per i riferimenti, Soldi, Manuale, cit., 1075. Adde, in quest’ottica Leuzzi, Espropriazione forzata dei crediti nei confronti degli enti pubblici e competenza per territorio, in www.inexecutivis.it.
[15] Tedoldi, Gli emendamenti in materia di esecuzione forzata al d.d.l. delega AS 1662/XVIII, in Giustizia insieme.it
[16] Cfr. sulla riforma in commento, anche per gli ulteriori riferimenti, Moretti, Novità in materia di esecuzione forzata (II parte) - il nuovo art. 631 bis c.p.c. e le altre ipotesi di definizione dell’esecuzione, in Giur. it., 2016, 8-9, 2045 s.
[17] In dottrina, in senso non sfavorevole alla previsione normativa in commento, cfr. Vigorito, Gli interventi sul processo esecutivo previsti dal ddl delega AS 1662/XVIII collegato al «Piano nazionale di ripresa e resilienza», in Questionegiustizia.it., secondo il quale «se è vero che la soluzione adottata comporta un ulteriore adempimento per il creditore pignorante, onerandolo della notifica al debitore e al terzo dell’avviso di avvenuta iscrizione a ruolo con indicazione del numero di ruolo della procedura e del deposito dell’avviso notificato nel fascicolo dell’esecuzione, è, però, ragionevole che il terzo sia posto in condizione di conoscere con certezza quale sia stato l’esito del pignoramento e di liberare le somme pignorate quando il vincolo non ha più ragione di essere».
[18] Cfr. Consiglio Superiore della Magistratura, Disegno di legge governativo di riforma del processo civile: parere sulle ricadute in materia di amministrazione della giustizia (delibera 15 settembre 2021).
[19] Cfr. più ampiamente E. Fabiani-L.Piccolo, Il controllo del notaio in sede di spedizione del titolo in forma esecutiva con particolare riguardo all’oggetto del diritto, in www.notariato.it e in corso di pubblicazione in Rass. dell’esecuzione forzata.
[20] cfr. E. Astuni, Novità in materia di titolo esecutivo, in Consiglio Nazionale Del Notariato, Studi e materiali, 1/2006, 188 s.
[21] Cfr. E. Fabiani – L.Piccolo, Spedizione in forma esecutiva e rilascio di copie esecutive dei titoli esecutivi giudiziali in via telematica: ancora interventi sul processo esecutivo ad opera della legislazione emergenziale da Covid – 19, in Notariato.it; E. Fabiani – L.Piccolo, La spedizione in forma esecutiva dei titoli esecutivi giudiziali in via telematica fra prassi giudiziarie, interventi legislativi volti a fronteggiare l’emergenza epidemiologica e prospettive di riforma, in Rassegna dell’esecuzione forzata, 2/2021, 355 s.
[22] Cfr., tra gli altri, Chiovenda, Istituzioni di diritto processuale civile, I, Napoli 1960 (ristampa), vol. I, 284. Diversamente cfr. Grasso, voce Titolo esecutivo, in Enc. dir., XLIV, Milano, 1992, 695 s., secondo il quale prima che sia apposta la formula esecutiva, il diritto a procedere ad esecuzione forzata è soggetto ad una condizione impropria (condicio iuris) il cui avveramento soltanto ne consente l’esercizio. In argomento, adde, anche per i riferimenti Majorano, sub. art. 475 c.p.c., in L.P. Comoglio-Consolo-Sassani-Vaccarella, Commentario del codice di procedura civile, vol. VI, Torino, 2013, p. 86 ss.
[23] Cass., 5 giugno 2007, n. 13069, la quale, dando atto delle origini della spedizione in forma esecutiva e del dibattito dottrinale in merito, afferma che la spedizione in forma esecutiva non accerta l’inefficacia del titolo esecutivo, né l’inesistenza di fatti impeditivi o estintivi dell’azione esecutiva, ma rappresenta un elemento di consapevolezza per il debitore dell’esistenza del titolo esecutivo. In questa prospettiva può ascriversi, tra le altre, Cass. 5 luglio 1990, n. 7074.
[24] Cfr. Vaccarella, Esecuzione forzata, in Riv.esecuzione forzata, 2007, 1 s.
[25] Cfr. Grasso, voce Titolo esecutivo, cit., 695-696; Andolina, Profili dogmatici dell’esecuzione forzata, Milano, 1962, 120 ss; Arieta, in Codice commentato delle esecuzioni civili, 2016, 67-68.
[26] Cfr. Cass. 12 febbraio 2019, n. 3967, secondo la quale è preferibile l’opinione di chi osserva che, per l’individuazione dell’effettiva funzione della formula esecutiva, occorre considerare che la stessa va apposta all’esito di un controllo sulla “perfezione formale” del titolo prescritto dall’art. 153 disp. att. c.p.c., sicché l’adempimento in questione vale a sugellare la rilevanza dell’atto come idoneo a sostenere l’azione esecutiva. Quest’indirizzo interpretativo è stato recentemente ribadito da Cass. 12 febbraio 2019, n. 3967. Nondimeno, in dottrina si obietta che la ricostruzione circa la natura e la funzione della spedizione in forma esecutiva operata dalla sentenza in discorso si ponga in manifesto contrasto con la tesi dalla medesima sentenza riaffermata per cui la mancanza della formula esecutiva configura una mera irregolarità formale deducibile esclusivamente con l’opposizione agli atti esecutivi: cfr. M. Farina, Contraddittorio negato e dottrina giudiziaria in una recente pronuncia “nomofilattica” della Suprema Corte in materia di spedizione in forma esecutiva, cit.; M.Di Marzio, Omessa spedizione in forma esecutiva di copia del titolo esecutivo e opposizione agli atti esecutivi, in Riv. esec. forzata, 2019, 4, 899 s.; le note di S. Rusciano, F. Auletta, M. Farina E B. Capponi, in Rass. es. forz., 2019, 385 s.
[27] Così B. Capponi, Manuale di diritto dell’esecuzione civile, Torino, 2017, 174; ma vedi anche, tra gli altri Satta - Punzi, Diritto processuale civile, Padova, 2000, 585; nonché, anche per ulteriori riferimenti: Majorano, sub art. 475 c.p.c., cit., 86 ss.
[28]Così Petrelli, Atto pubblico, scrittura privata autenticata e titolo esecutivo, in Notariato, 2005, 5, 542, secondo cui la spedizione del titolo in forma esecutiva ha quindi l’ufficio di contrassegnare la copia rappresentativa della azione esecutiva, ed è proprio tale funzione che giustifica una serie di conseguenze di disciplina.
[29] Con riguardo al controllo estrinseco e formale del cancelliere cfr.: Cass. 5 giugno 2007 n. 13069; Cass. 3 settembre 1999, n. 9297; Cass. 5 luglio 1990 n. 7074; Trib. Napoli 4 dicembre 2003; contra, Pret. Legnano 19 ottobre 1982 (Foro it., 1984, I, 3041, con nota di richiami) che ha sottolineato come il cancelliere non debba limitarsi ad una indagine meramente formale sulla completezza del titolo dovendo altresì «verificare se una sentenza è esecutiva (o perché passata in giudicato, o perché resa in grado d’appello, o perché resa in unico grado, o perché dichiarata provvisoriamente esecutiva, o perché intrinsecamente esecutiva».
[30] In giurisprudenza appare consolidato l’orientamento secondo il quale il riconoscimento della qualità di titolo esecutivo all’atto ricevuto da notaio, relativamente all’obbligazione di somma di denaro generata dal negozio nello stesso documentato, presuppone che esso contenga l’indicazione degli elementi strutturali essenziali dell’obbligazione, indispensabili per la funzione esecutiva: cfr., nella giurisprudenza di legittimità, Cass. 27 agosto 2015, n. 17194, Foro it., 2016, I, 196; Cass. 26 marzo 2015, n. 6083, Foro it., 2015, I, 2809; Cass. 19 settembre 2014, n. 19738; Cass. 31 agosto 2011, n. 17886; Cass. 19 luglio 2005, n. 15219; Cass. 18 gennaio 1983, n. 47; Cass. 19 luglio 1979, n. 4293. Nello stesso senso, nella giurisprudenza di merito, cfr. Trib. Latina-Terracina 18 maggio 2010, Foro it., 2010, I, 2550; Trib. Rossano 15 maggio 2007; Trib. Salerno 15 marzo 2007; Trib. Brindisi 10 ottobre 2005; Trib. Mantova 22 settembre 2004; Trib. Napoli 2 febbraio 2002; Trib. Cassino 14 marzo 2000. in Giur. merito, 2001, 662, con nota di Russillo). La giurisprudenza ha peraltro puntualizzato che il riconoscimento del valore di titolo esecutivo all’atto pubblico deriva dalla pubblica fede che il notaio vi attribuisce e non dall’efficacia probatoria dell’atto medesimo: cfr. Cass. 19 settembre 2014, n. 19738; Cass. 19 luglio 2005, n. 15219.
[31] Pertanto, ove si contesti la mancanza della formula esecutiva sul titolo notificato ai sensi dell’art. 479 c.p.c., il rimedio esperibile è l’opposizione agli atti esecutivi. Invece, ove si contesti l’esistenza stessa del titolo esecutivo in senso sostanziale, il rimedio esperibile è l’opposizione all’esecuzione (cfr. tra le altre, Cass. 14 novembre 2013, n.25638; Cass. 5 giugno 2007, n. 13069; Cass. 26 ottobre 1992, n. 11618).
[32] Cass. 18 novembre 2014, n. 24548. In argomento, per i richiami di giurisprudenza cfr. F. De Stefano, agg. da Belle’, in Processo di esecuzione, a cura di Cardino – Romeo, Padova, 2018, 85 s.
[33] Cfr. in particolare Cass. 5 giugno 2007 n. 13069; Cass. 5 luglio 1990, n. 7074.
[34] Cass. 18 novembre 2014 n. 24548, che ha aggiunto che, non trattandosi di nullità, si deve escludere la sanatoria ai sensi dell’art. 156 c.p.c., anche a seguito della proposizione dell’opposizione agli atti esecutivi; adde Cass.3 settembre 1999, n. 9297. Con l’opposizione agli atti esecutivi va contestata la regolarità sulla competenza al rilascio della copia (Cass. 6 aprile 1990, n. 2899), oppure la regolarità delle sottoscrizioni (Cass. 3 giugno 1993, n. 6221).
[35] Cass. 14 novembre 2013, n. 25638; Cass. 5 giugno 2007, n. 13069.
[36] Si tratta di Cass. 12 febbraio 2019, n. 3967, la quale puntualizza che secondo la dottrina più risalente - formatasi già sotto il codice del 1865 - l’apposizione della formula esecutiva (che costituisce un unicum inscindibile con la spedizione in forma esecutiva) è non altro che un’affermazione esteriore e solenne d’una efficacia che già è inerente al titolo esecutivo in sé considerato. Si tratterebbe, quindi, di un residuo storico, di un requisito più formalistico che formale. È, tuttavia, preferibile l’opinione di chi osserva che per l’individuazione dell’effettiva funzione della formula esecutiva occorre considerare che la stessa va apposta all’esito di un controllo sulla “perfezione formale” del titolo prescritto dall’art. 153 disp. att. c.p.c., sicché l’adempimento in questione vale a sugellare la rilevanza dell’atto come idoneo a sostenere l’azione esecutiva (a tal proposito è stato affermato che il diritto a procedere ad esecuzione forzata sarebbe soggetto ad una condicio iuris impropria - l’apposizione della formula - il cui avveramento soltanto ne consente l’esercizio).
[37] Si tratta della tesi di Grasso, voce Titolo esecutivo, cit., 695 s., secondo il quale prima che sia apposta la formula esecutiva, il diritto a procedere ad esecuzione forzata è soggetto ad una condizione impropria (condicio iuris) il cui avveramento soltanto ne consente l’esercizio.
[38] Cfr. P.Comoglio, Processo civile telematico e codice di rito. Problemi di compatibilità e suggestioni evolutive, in Riv. trim., 2015, 956.
[39] Cfr., anche per ulteriori riferimenti, E. Fabiani – L.Piccolo, Spedizione in forma esecutiva e rilascio di copie esecutive dei titoli esecutivi giudiziali in via telematica: ancora interventi sul processo esecutivo ad opera della legislazione emergenziale da Covid – 19, cit.; E. Fabiani – L.Piccolo, La spedizione in forma esecutiva dei titoli esecutivi giudiziali in via telematica fra prassi giudiziarie, interventi legislativi volti a fronteggiare l’emergenza epidemiologica e prospettive di riforma, cit., 355 s.
[40] Leuzzi, Considerazioni sulla spedizione del titolo in forma esecutiva alla luce dell’art. 23 del c.d. “decreto ristori”, in www.inexecutivis.it
[41] E.Fabiani – L.Piccolo, Spedizione in forma esecutiva e rilascio di copie esecutive dei titoli esecutivi giudiziali in via telematica: ancora interventi sul processo esecutivo ad opera della legislazione emergenziale da Covid – 19, cit.; E. Fabiani – L.Piccolo, La spedizione in forma esecutiva dei titoli esecutivi giudiziali in via telematica fra prassi giudiziarie, interventi legislativi volti a fronteggiare l’emergenza epidemiologica e prospettive di riforma, cit., 355 s.
[42] E. Fabiani-L.Piccolo, Il controllo del notaio in sede di spedizione del titolo in forma esecutiva con particolare riguardo all’oggetto del diritto, cit.
[43] Cfr. sul fenomeno dell’interiorizzazione della forza esecutiva, Vaccarella, Esecuzione forzata, in Riv.esecuzione forzata, 2007, 1 s.
[44] Vd. amplius, anche per i richiami, Il controllo del notaio in sede di spedizione del titolo in forma esecutiva con particolare riguardo all’oggetto del diritto, cit.
[45] Cfr. più ampiamente E. Fabiani-L.Piccolo, Il controllo del notaio in sede di spedizione del titolo in forma esecutiva con particolare riguardo all’oggetto del diritto, cit.
[46] Sulla funzione della documentazione ex 567 c.p.c., che dovrebbe rivestire cruciale importanza anche per l’individuazione del regime applicabile, prima delle riforme del 2005-06, cfr.: Tarzia, L’oggetto del processo di espropriazione, Milano, 1961, 344 s.; Tarzia, Il bene immobile nel processo esecutivo, Riv.dir.proc., 1989, 343 s.; Satta, Commentario al codice di procedura civile, III, Milano, 1965, 359 s.; Ricci, L’omesso deposito dei documenti nel procedimento di vendita immobiliare, Riv.dir.proc., 1966, 543 s.; Vittoria, Ancora sugli effetti della mancata produzione dei documenti di cui all’art. 567 cpv. c.p.c. nel termine di efficacia del pignoramento immobiliare, Giust.civ., 1966, I, 1207 s.. Dopo le riforme suddette cfr., anche per i riferimenti, Montanaro, C’era una volta la funzione della documentazione ipo-catastale (e del certificato notarile sostitutivo) di cui all’art. 567, 2° co., c.p.c., in Riv. esec. forz. 2006, 1 s. Da ultimo cfr. Brunelli, La documentazione ipocatastale, in Espropriazione forzata immobiliare e attività notarile, a cura di F. Di Marzio – M. Palazzo, Milano, 2021, 117 s.
[47] Cfr. Capponi, Storto, Prime considerazioni sul d.d.l. Castelli recante «Modifiche urgenti al codice di procedura civile», in relazione al processo di esecuzione forzata, in Riv.esec.forz., 2002, 182 s.; Vaccarella, La vendita forzata immobiliare tra delega al notaio e prassi giudiziarie «virtuose», in Riv.esec.forz, 2001, 291 s.
[48] Cfr. Corsini, Commento all’art. 567 c.p.c., in Chiarloni (diretto da), Le recenti riforme del processo civile, I, Bologna, 2007, 900 s.
[49] Consiglio Superiore della Magistratura, Buone prassi nel settore delle esecuzioni immobiliari – linee guida (delibera 11 ottobre 2017).
[50] Consiglio Superiore della Magistratura, Buone prassi nel settore delle esecuzioni immobiliari – linee guida (delibera 11 ottobre 2017).
[51] Cfr. Consiglio Superiore della Magistratura, Disegno di legge governativo di riforma del processo civile: parere sulle ricadute in materia di amministrazione della giustizia (delibera 15 settembre 2021).
[52] Cfr. E.Fabiani, Note per una possibile riforma del processo di espropriazione forzata immobiliare, in Foro it., 2014, V, 53 s.; E.Fabiani, Sul possibile contributo del notariato al superamento della crisi della giustizia civile, in Foro it., 2020, V, 317 s.
[53] Proto Pisani, Delegabilità ai notai delle operazioni di incanto nella espropriazione forzata immobiliare, in Foro it., 1992, V, 444 s.; Proto Pisani, Delegabilità ai notai delle operazioni di incanto nelle espropriazioni immobiliari. Normativa vigente e prospettive di riforma, in Atti del Convegno di Roma del 22/23 maggio 1993, a cura del Consiglio Nazionale del Notariato, Milano, 1994, 13 s.
[54] Cfr. Aa.Vv., Delegabilità ai notai delle operazioni di incanto nelle espropriazioni immobiliari. Normativa vigente e prospettive di riforma, Atti del convegno di Roma del 22-23 maggio 1993, Milano, 1994, 349 ss.
[55] Cfr. per tutte Trib. Prato, 4 giugno 1997, in Foro it., 1997, I, 3406, e in Riv. not., 1998, II, 191, che motivava la legittimità della delega al notaio delle operazioni di incanto sia in base alla natura non strettamene giurisdizionale delle attività delegate, sia in base alla norma di cui all’art. 1, comma 2°, b, 4, lett. c dell l. 89/2013, che consente ai notai di procedere agli incanti su delegazione dell’autorità giudiziaria. Cfr. sulla prassi di alcuni tribunali - oltre, quello Prato, quelli di Lucca e Livorno - di ricorrere allo strumento della delega prima ancora della legge 302/1998, F.Manna, La delega ai notai delle operazioni di incanto immobiliare, Milano, 1999, 14 s.; Mondini - Terrusi, La soluzione giurisprudenziale in materia di delega ai notai delle operazioni di incanto immobiliare alla luce della l. 3 agosto 1998, n. 302, in Giust. civile, 1998, II, 509 s. Per una critica alla possibilità di delega al notaio sostenuta, in quel tempo, de iure condito cfr. Cardarelli, Legge 3 agosto 1998 n. 302, Funzioni e limiti dell’attività notarile delegata nei procedimenti esecutivi, Rivista del notariato, 2000, 566 s.
[56] Cfr. F. Manna, La delega ai notai delle operazioni di incanto immobiliare, cit., 48; Luiso –Miccoli, Espropriazione forzata immobiliare e delega al notaio, Milano, 1999, 49.
[57] Cfr. E. Fabiani, voce Delega delle operazioni di vendita in sede di espropriazione forzata immobiliare, in Dig. disc. priv., Sez. civ., Agg., Torino, 2010; E. Fabiani, La delega delle operazioni di vendita in sede di espropriazione forzata immobiliare. Novità introdotte dalla riforma del 2005 e ricostruzione sistematica del nuovo istituto, in Consiglio Nazionale Del Notariato, Studi e materiali, 2007, 1, 534 s.
[58] Cfr. E. Fabiani, voce Delega delle operazioni di vendita in sede di espropriazione forzata immobiliare, in Dig. disc. priv., Sez. civ., Agg., Torino, 2010, 500 s.; E. Fabiani, La delega delle operazioni di vendita in sede di espropriazione forzata immobiliare. Novità introdotte dalla riforma del 2005 e ricostruzione sistematica del nuovo istituto, cit., 562 s.
[59] Cfr. E. Fabiani, voce Delega delle operazioni di vendita in sede di espropriazione forzata immobiliare, cit., 500 s.; E. Fabiani, La delega delle operazioni di vendita in sede di espropriazione forzata immobiliare. Novità introdotte dalla riforma del 2005 e ricostruzione sistematica del nuovo istituto, cit., 562 s.
[60] Cfr. in merito all’esame di questa disposizione E.Astuni, in AA.VV., La nuova espropriazione forzata, diretto da C. Delle Donne, Torino, 2017, 550; Soldi, Manuale, cit., 1566.
[61]Sull’evoluzione qui tracciata cfr., da ultimo, anche per ulteriori richiami, L.Piccolo, Il notaio delegato, in Espropriazione forzata immobiliare e attività notarile, a cura di F.Di Marzio-Palazzo, Milano, 2021, 411 s.
[62] Cfr. E.Fabiani, Note per una possibile riforma del processo di espropriazione forzata immobiliare, in Foro it., 2014, V, 53; E.Fabiani, Sul possibile contributo del notariato al superamento della crisi della giustizia civile, in Foro it., 2020, V, 317 s.
[63] Cfr. E.Fabiani, Note per una possibile riforma del processo di espropriazione forzata immobiliare, cit., 53; E.Fabiani, Sul possibile contributo del notariato al superamento della crisi della giustizia civile, cit., 317 s.
[64] Cfr. i fondamentali contributi di R. Oriani, Regime degli atti del notaio delegato alle operazioni di vendita nell’espropriazione immobiliare (art. 591 ter c.p.c.), in Foro it., 1998, V, 397 ss.; Id, Ancora sul regime degli atti del notaio delegato nell’espropriazione immobiliare (art. 591 ter c.p.c.), in Foro it., 1999, V, 97.
[65]Autorevole dottrina ha rappresentato diversi problemi interpretativi che il professionista delegato può porre al giudice dell’esecuzione: R.Oriani, Regime degli atti del notaio delegato alle operazioni di vendita nell’espropriazione immobiliare (art. 591 ter c.p.c.), cit., 397 s.; Id, Ancora sul regime degli atti del notaio delegato nell’espropriazione immobiliare (art. 591 ter c.p.c.), cit., 97; da ultimo sul concetto di difficoltà cfr., anche per i richiami, Cosentino, La delega delle operazioni di vendita, in Demarchi Albengo, La nuova esecuzione forzata, Bologna, 2018, 1421 s.
[66] Soldi, Manuale, cit., 1593. In giurisprudenza cfr. Cass. 18 aprile 2011, n. 8864, in Foro it., 2013, I, 1664, secondo cui il reclamo ex art. 591 ter c.p.c. avverso il decreto con cui il giudice dell’esecuzione impartisce istruzioni al professionista delegato è proponibile finché tali istruzioni non siano eseguite, ferma restando la facoltà di proporlo avverso gli atti successivi del delegato, che siano affetti da illegittimità derivata, o di impugnare ex art. 617 c.p.c. il primo atto del giudice conclusivo della relativa fase.
[67] Cfr., anche per i richiami, E. Fabiani, La delega delle operazioni di vendita in sede di espropriazione forzata immobiliare, cit., 562 s.; Cosentino, La delega delle operazioni di vendita, cit., 1425.
[68] Da ultimo, su questa tematica, anche per ulteriori riferimenti, cfr. L.Piccolo, Il notaio delegato, cit., 422 s.
[69] Soldi, Manuale, cit., 1595.
[70] Cfr., anche per i riferimenti, M. Marchese, Aggiudicatario: una tutela imperfetta. Parte processuale, in Riv.esec.forzata, 4/2020, 946 s.
[71] Cfr., tra gli altri, A.Saletti, commento all’art. 591 ter, in A. Saletti, M.C. Vanz, S. Vincre, Le nuove riforme dell’esecuzione forzata, Torino, 2016, 312 s.; P.Farina, L’ennesima espropriazione immobiliare “efficiente” (ovvero accelerata, conveniente, rateizzata e cameralizzata, in Riv.dir.proc., 2016, 1, 127; Soldi, Manuale, cit., 1596 s.
[72] Cfr. A. Saletti, commento all’art. 179-ter disp. att. codice di procedura civile, in Saletti, Vanz, Vincre, Le nuove riforme dell’esecuzione forzata, Torino, 2016, 312; Cosentino, La delega delle operazioni di vendita, cit., 1427.
[73] Cfr. Soldi, Manuale, cit., 1597.
[74] Cass. 9 maggio 2019, n. 12238.
[75] La Corte nella sentenza in esame (Cass. 9 maggio 2019, n. 12238) puntualizza che questa funzione del subprocedimento incidentale previsto dall’art. 591 ter c.p.c. si desume da due indici normativi. In primo luogo, la collocazione della norma: essa è inserita nel paragrafo dedicato alla delega delle operazioni di vendita nell’espropriazione immobiliare. Ciò dimostra che la procedura ivi prevista ha un perimetro applicativo limitato ai dubbi sollevati, alle incertezze incontrate od agli errori commessi dal professionista delegato. Essa serve, dunque, a dirigere le operazioni delegate, e qualsiasi attività endoprocessuale di impulso, coordinamento o controllo sugli atti delle parti o dell’ausiliario da parte del giudice è, per definizione, insuscettibile di passare in giudicato. In secondo luogo, il primum movens del procedimento di cui all’art. 591 ter c.p.c. può essere costituito solo da un atto del professionista delegato: o perché questi si sia rivolto al giudice avendo incontrato “difficoltà”, o perché abbia compiuto un atto ritenuto viziato dalle parti, che l’abbiano perciò reclamato dinanzi al giudice dell’esecuzione. La natura degli atti “reclamabili” dinanzi al giudice dell’esecuzione e la previsione d’un meccanismo snello e deformalizzato per il controllo del collegio sui provvedimenti del giudice dell’esecuzione rende evidente che scopo del procedimento previsto dall’art. 591 ter c.p.c. non è quello di accertare diritti, ma di risolvere difficoltà pratiche e superare celermente le fasi di empasse dovute ad incertezze operative o difficoltà materiali incontrate dal professionista delegato nello svolgimento delle operazioni di vendita.
[76] Cfr. Soldi, Manuale, cit., 1597 s. Adde, sulla persistente impugnabilità del decreto di trasferimento ex art. 617 c.p.c., in relazione a profili già oggetto di decisione dinanzi al collegio del reclamo, Leuzzi, Il controllo dell’attività del delegato e il nuovo meccanismo della reclamabilità “diffusa”, www.inexecutivis.it
[77] Cfr. Saletti, commento all’art. 591 ter, cit., 314 ss..
[78] Cass. 9 maggio 2019, n. 12238.
[79] Soldi, Il decreto di trasferimento in generale e nel caso di procedimento delegato ai sensi dell’art. 591 bis c.p.c., in www.notariato.it
[80] Sui presupposti di “stabilità” del decreto di trasferimento: la decorrenza del termine perentorio per la sua impugnazione ai sensi dell’art. 617 c.p.c. cfr. Soldi, Il decreto di trasferimento in generale e nel caso di procedimento delegato ai sensi dell’art. 591 bis c.p.c., cit.
[81] P. Farina, Riforma processo civile: espropriazione forzata, in Il processo civile.it; F.Vigorito, Gli interventi sul processo esecutivo previsti dal ddl delega AS 1662/XVIII collegato al «Piano nazionale di ripresa e resilienza», cit.
[82] P. Farina, Riforma processo civile: espropriazione forzata, cit.
[83] Alla cui eliminazione non ha provveduto la legge n. 263/2005, che ha lasciato immutato tanto il nuovo testo (di cui alla legge n. 80/2005) degli artt. 596 e 598 c.p.c., quanto la previsione di cui al n. 7 dell’art. 591-bis c.p.c., solo “spostata” al n. 12 della medesima norma. Conseguentemente il segnalato contrasto permane, sia pur fra gli artt. 596 e 598 c.p.c., da un lato, e l’art. 591-bis (ora) n. 12, dall’altro.
[84] Cfr. anche per ulteriori rifermenti dottrinali E. Fabiani, La delega delle operazioni di vendita in sede di espropriazione forzata immobiliare, Padova, 2007, 87 ss.; E. Fabiani, voce Delega delle operazioni di vendita in sede di espropriazione forzata immobiliare, cit. 490 s.
[85] Cfr. per tutte E. Fabiani, Note per una possibile riforma del processo di espropriazione forzata immobiliare, cit., 53 s.; E. Fabiani, Sul possibile contributo del notariato al superamento della crisi della giustizia civile, cit., 317 s.
[86] Cfr. E. Fabiani, La delega delle operazioni di vendita in sede di espropriazione forzata immobiliare, cit., 87 s.; E. Fabiani, voce Delega delle operazioni di vendita in sede di espropriazione forzata immobiliare, cit., 490 s.
[87] Cfr. E. Fabiani, La delega delle operazioni di vendita in sede di espropriazione forzata immobiliare, cit., 87 s.; E. Fabiani, voce Delega delle operazioni di vendita in sede di espropriazione forzata immobiliare, cit., spec. 490 s.
[88] A differenza di quanto accade per l’ipotesi di delega al notaio delle operazioni di divisione (e del relativo progetto), quanto meno stando all’impostazione (dottrinale e giurisprudenziale) prevalente in materia, secondo la quale il silenzio o la mancata comparizione della parte non equivalgono ad approvazione del progetto di divisione ex art. 791 c.p.c. ed il notaio deve rimettere gli atti all’istruttore: cfr. per tutti in tal senso: E. Redenti, Diritto processuale civile, III, Milano, 1957, 426; G. Pavanini, voce Divisione giudiziale, in Enc. dir., Milano, 1964, 479; G. Tomei, voce Divisione. III) Divisione giudiziale, in Enc. giur., XI, Roma, 1989, 9-10; C. Ripepi, voce Procedimento divisorio, in Dig. disc. priv., Sez. civ., Torino, 1996, 648; nonché E. Astuni, La delega al professionista delle operazioni di vendita, in AA.VV., Il nuovo rito civile. III: Le esecuzioni civili, a cura di P.G. Demarchi, Bologna, 2006, 536. Ipotesi rispetto alla quale potrebbe, dunque, apprezzarsi, anche sotto questo profilo, l’attribuzione di maggiori poteri al delegato in sede di espropriazione forzata immobiliare.
[89] Norma che rinvia peraltro, ai fini della fissazione di una nuova udienza, all’art. 485, ult. comma, c.p.c. e che attribuisce, dunque, al delegato anche la relativa valutazione in ordine al «se risulta o appare probabile che alcuna delle parti non sia comparsa per cause indipendenti dalla sua volontà».
[90] Così Andrioli, Commento al codice di procedura civile, III, Napoli, 1967, 289.
[91] Cfr. più ampiamente E. Fabiani, La delega delle operazioni di vendita in sede di espropriazione forzata immobiliare, cit., 87 s.; Id., voce Delega delle operazioni di vendita in sede di espropriazione forzata immobiliare, cit., 490 s.
[92]Satta, Punzi, Diritto processuale civile, Padova, 2000, 676.
[93]Andrioli, Commento al codice di procedura civile, III, Napoli, 1967, III, 225.
[94] Cfr. per tutti sul punto, anche per gli ulteriori richiami, Saletti, La custodia dei beni pignorati nell’espropriazione immobiliare, Riv. esec. forz., 2006, 66 s.; Bove in Balena- Bove, Le riforme più recenti del processo civile, cit., 163 s.; D’adamo, La custodia tra l’esperienza delle “best practies” e l’impianto delle leggi 80/2005 e 263/2005, in Riv.esec.forzz., 2006, 1 ss; De Stefano, Il nuovo processo di esecuzione. Le novità della riforma, Milano, 2006, 108 s.; De Stefano, Il nuovo processo di esecuzione, 2° ed., Milano, 2006, 162 s.; Astuni, in Demarchi (a cura di), Il nuovo rito civile. III. Le esecuzioni, cit., 308 s.
[95] Cfr. E. Gasbarrini, Il nuovo articolo 560 c.p.c. il diritto del debitore e dei suoi familiari conviventi di continuare ad abitare l’immobile fino all’emissione del decreto di trasferimento e le (nuove) modalità di attuazione della custodia dei beni immobili pignorati, in notariato.it
[96] Cfr. per tutti sul punto P. Liccardo, La ragionevole durata del processo esecutivo: l’esperienza del Tribunale di Bologna negli anni 1996-2001 ed ipotesi di intervento, cit., 560 s.; Miele-Roda-Fontana, La prassi delle vendite immobiliari nel Tribunale di Monza, in Riv. esecuzione forzata, 2001, 510 s.; Saletti, La prassi di fronte alle norme e al sistema, in Riv. dell’esecuz. forz., 2001, 487 s.; Berti Arnoaldi Veli, Prassi e giurisprudenza del Tribunale di Bologna, in Riv. dell’esecuz. forz., 2003, 59 s. Adde, anche alla luce della legge 80/2005, Miele, La prassi del Tribunale di Monza in tema di espropriazione immobiliare e la l. n. 80 del 2005, in Foro it.., 2005, V, 145 s.; D’adamo, La custodia tra l’esperienza delle “best practies” e l’impianto delle leggi 80/2005 e 263/2005, in CNN Notizie del 11 agosto 2006, 7 s.
[98] Cfr., anche per i richiami, sulle funzioni svolte dall’istituto della custodia dei beni immobili pignorati nell’ambito delle cd. best practices proprie di taluni tribunali cui si è ispirato il legislatore della riforma del 2005, D’adamo, La custodia tra l’esperienza delle “best practies” e l’impianto delle leggi 80/2005 e 263/2005, cit., 7 s.; Fontana, La gestione attiva del compendio immobiliare pignorato, in Riv. dell’esecuz. forz., 2005, 571 s.
[99] Saletti, La custodia dei beni pignorati nell’espropriazione immobiliare, in Riv. dell’esecuz. forz., 2006, 66 s.
[100] Si ritiene all’uopo necessaria la istanza del creditore vista la collocazione della norma: cfr. Gasbarrini, Il nuovo articolo 560 c.p.c. il diritto del debitore e dei suoi familiari conviventi di continuare ad abitare l’immobile fino all’emissione del decreto di trasferimento e le (nuove) modalità di attuazione della custodia dei beni immobili pignorati, in www.notariato.it
[101] Saletti, La custodia dei beni pignorati nell’espropriazione immobiliare, cit., 2006, 66 s. secondo cui la previsione in questione non fa riferimento al solo caso del debitore, ma ha valenza generale, per tutti coloro che, essendo incaricati della custodia, non osservino i conseguenti obblighi: quindi, anche agli altri soggetti, diversi dal debitore, cui la custodia sia stata successivamente affidata. Cfr. Gasbarrini, Il nuovo articolo 560 c.p.c. il diritto del debitore e dei suoi familiari conviventi di continuare ad abitare l’immobile fino all’emissione del decreto di trasferimento e le (nuove) modalità di attuazione della custodia dei beni immobili pignorati, cit., la quale segnala, in senso critico, le prassi instauratesi in ordine a questa norma, utilizzata per sostituire nella custodia il debitore anche prima del provvedimento di autorizzazione alla vendita, in funzione di una anticipata liberazione dei beni e immissione nella loro detenzione da parte del custode.
[102] Testualmente, ai sensi del quarto comma, se custode dei beni pignorati è il debitore e salvo che per la particolare natura degli stessi ritenga che la sostituzione non abbia utilità, dispone, al momento in cui pronuncia l’ordinanza con cui è autorizzata la vendita o disposta la delega delle relative operazioni, che custode dei beni medesimi sia la persona incaricata delle dette operazioni o l’istituto di cui al primo comma dell’articolo 534 c.p.c.
[103] Cfr. E. Gasbarrini, Il nuovo articolo 560 c.p.c.. il diritto del debitore e dei suoi familiari conviventi di continuare ad abitare l’immobile fino all’emissione del decreto di trasferimento e le (nuove) modalità di attuazione della custodia dei beni immobili pignorati, cit.
[104] Saletti, La custodia dei beni pignorati nell’espropriazione immobiliare, cit.
[105] Consiglio Superiore della Magistratura, Buone prassi nel settore delle esecuzioni immobiliari – linee guida, (delibera 11 ottobre 2017).
[106] Testualmente secondo le linee guida richiamate del CSM (Consiglio Superiore della Magistratura, Buone prassi nel settore delle esecuzioni immobiliari – linee guida, delibera 11 ottobre 2017), «i compiti del custode e dell’esperto stimatore potrebbero auspicabilmente essere descritti in un provvedimento generale del giudice dell’esecuzione (o dei giudici dell’esecuzione del singolo ufficio di concerto tra loro), pubblicato sul sito internet del tribunale, in guisa che l’attività che gli ausiliari espleteranno si palesi in linea di principio uniforme, conoscibile e standardizzata. Tali indicazioni potranno essere recepite, con pari livello di dettaglio, nei provvedimenti di interesse, ovvero ad essi allegate come parte integrante. Si regoleranno, tra gli altri aspetti, anche i tempi e i modi per l’immediato avvio della collaborazione tra esperto stimatore e custode, ove contestualmente designati».
[107] Sulla evoluzione nonché sulla ratio e sulla disciplina dell’ordine di liberazione cfr. Fanticini, La custodia dell’immobile pignorato, in La nuova esecuzione forzata dopo la l. 18 giugno 2009, n. 69, a cura di Demarchi, Bologna, 2009, 630 ss.; Id., La custodia dell’immobile pignorato, in La nuova esecuzione forzata, a cura di Demarchi, Bologna, 2018, 921 s.
[108] Cfr. Vigorito, Gli interventi sul processo esecutivo previsti dal ddl delega AS 1662/XVIII collegato al «Piano nazionale di ripresa e resilienza», in Questionegiustizia.it, il quale rileva che gli interventi succedutisi in questi anni sul tema della liberazione dell’immobile hanno finito per esasperare una disputa, da qualcuno ritenuta ideologica ma piuttosto caratterizzata da un contrapposto «furore» normativo, tra chi ritiene illusoriamente di realizzare la sacrosanta e generale esigenza di tutela del diritto alla casa, con la posticipazione di qualche mese del rilascio di un immobile magari già alienato a terzi, che vantano una analoga esigenza abitativa, e chi ritiene che la liberazione anticipata dell’immobile abbia effetti taumaturgici sulla efficienza delle procedure esecutive.
[109] Parte della dottrina (Cavuoto, Sull’impugnazione dell’ordine di liberazione dell’immobile pignorato, in Foro it., 2011, 3391, 12, 1) rileva però come, sebbene solo con la modifica dell’art. 560 c.p.c., ad opera delle l. 14 maggio 2005 n. 80 e 28 dicembre 2005 n. 263, l’ordine di liberazione sia stato oggetto di un’espressa previsione normativa, anche prima della novella, sussistevano ben pochi dubbi sul fatto che il giudice dell’esecuzione potesse emanare il provvedimento di rilascio come conseguenza diretta dell’avvenuta sostituzione del debitore nella custodia dell’immobile ai sensi dell’art. 559 c.p.c. Sull’ordine di liberazione all’indomani delle riforme del 2005-06 cfr. Saletti, La custodia dei beni pignorati nell’espropriazione immobiliare, cit., 66 s.; Bove, in Balena-Bove, Le riforme più recenti del processo civile, Bari, 2006, 163 ss.; De Santis, in Didone, Il processo civile competitivo, Torino, 2010, 890 s.
[110] La ricostruzione e l’interpretazione costituzionalmente orientata della disciplina operata ha consentito di rilevare nello studio a cura di Calderoni, Esecuzione forzata, d.l. n. 59/2016 e ordine di liberazione dell’immobile pignorato, in www.notariato.it, come l’intento del legislatore di semplificare non porti ad una diminuzione delle garanzie giurisdizionali. In particolare, nell’ottica di una interpretazione costituzionalmente orientata, in detto studio si è ritenuto che la apparente riduzione di garanzie per l’esecutato - derivante dalla eliminazione di un apposito processo esecutivo - trovi nel nuovo sistema adeguato bilanciamento, da un lato, nella previsione espressa del rimedio della opposizione agli esecutivi e, dall’altro, nella circostanza che la legge, sia pur in un regime di notevole semplificazione, riserva al giudice – e non al custode – il potere di disporre l’intervento della forza pubblica, che prima era invece rimesso, senza controllo giurisdizionale diretto, all’ufficiale giudiziario.
[111] Ossia doveva trattarsi di crediti certificati e risultanti dalla piattaforma elettronica per la gestione telematica del rilascio delle certificazioni, per un ammontare complessivo pari o superiore all’importo dei crediti vantati dal creditore procedente e dai creditori intervenuti.
[112] A. Auletta, Commento a prima lettura alla novella di cui all’art. 4, d.l. 14 dicembre 2018, n. 135, in InExecutivis.
[113] Vd. Angelone, Il nuovo «modo» della custodia dopo la l. 12/2019, in Riv. esecuzione forzata, 2019, 3, 506.
[114] In argomento v., Crivelli, L’ordine di liberazione dopo la L. 11 febbraio 2019, n. 12, in Riv. esec. forz., 2019, 4, 760; Giorgetti -Fedele, La liberazione dell’immobile pignorato: il nuovo art. 560 c.p.c. come modificato dalla L. n. 12/2019, in Imm. e Prop., 2019, 8-9, 506; Angelone, Il nuovo «modo» della custodia dopo la L. 12/2019, cit., 3, 506; Vittoria, Modi della custodia e tutele del debitore che abita l’immobile pignorato, dopo le recenti modifiche dell’art. 560 c.p.c., in Riv. esec. forz., 2019, 2, 243; Perago, La conclusione del subprocedimento di vendita: la pronuncia del decreto di trasferimento, in Riv. esec. forz., 2019, 2, 303; Farina, Le modifiche apportate dalla L. 11-2-2019, n. 12 alla conversione del pignoramento ed all’ordine di liberazione, in Riv. esec. forz., 2019, 1, 149.
[115] E. Gasbarrini, Modalità attuative dell’ordine di liberazione e nuova disciplina transitoria del nuovo articolo 560 c.p.c. (osservazioni all’art. 18 quater del D.L. 162/2019, convertito in L. 8/20201), in Notariato.it
[116] Cfr., anche per i richiami, Soldi, Il decreto di trasferimento in generale e nel caso di procedimento delegato ai sensi dell’art. 591 bis c.p.c., in www.notariato.it
[117] Cfr., anche per i riferimenti, Soldi, Il decreto di trasferimento in generale e nel caso di procedimento delegato ai sensi dell’art. 591 bis c.p.c., cit., la quale ricostruisce il dibattito scaturito a seguito della novella del 2020, che ha previsto che il custode debba attuare il decreto di trasferimento nelle forme previste per l’attuazione dell’ordinanza di liberazione ponendo in rilievo: la tesi secondo cui il legislatore avrebbe esteso al decreto di trasferimento il regime previsto per l’ordine di liberazione ex art. 560 c.p.c., affidando, in entrambe le ipotesi, al custode la fase attuativa, ferma restando, comunque, la possibilità per l’aggiudicatario di agire esecutivamente nelle forme ordinarie in forza del decreto di trasferimento; e la tesi secondo cui il custode potrebbe dare attuazione all’ingiunzione ex art. 586, 2° comma, c.p.c. non già in forza del decreto di trasferimento stesso, ma in forza di un autonomo ordine di liberazione da pronunciarsi, al più tardi, contestualmente al decreto di trasferimento stesso.
[118] Cfr. Soldi, Il decreto di trasferimento in generale e nel caso di procedimento delegato ai sensi dell’art. 591 bis c.p.c., cit., ove si dà conto del dibattito e si ritiene che la tesi preferibile appare quella che propende per la eventuale configurabilità di un decreto di trasferimento a contenuto complesso. Tuttavia – precisa l’A. - che non pare neppure astrattamente ipotizzabile che l’acquirente possa promuovere la esecuzione per rilascio forzoso ai sensi degli artt. 605 e seguenti c.p.c. e, nel contempo, instare affinché il custode giudiziario proceda coattivamente allo sgombero in forma libera. In questa prospettiva, è ragionevole sostenere che l’art. 560 c.p.c. preveda due modalità alternative per ottenere il rilascio. Il decreto di trasferimento in quanto titolo esecutivo può legittimare l’instaurazione di un procedimento di rilascio forzoso ai sensi degli artt. 605 e seguenti c.p.c. Tuttavia, se l’aggiudicatario ne fa richiesta, il contenuto ordinario del decreto di trasferimento va integrato con l’inserimento anche di un ordine di liberazione in virtù del quale il custode giudiziario può procedere allo sgombero informale del bene. La richiesta di integrare il decreto di trasferimento con l’ordine di liberazione autorizza il custode giudiziario al compimento delle attività funzionali alla sua attuazione coattiva ma impedisce all’acquirente di promuovere contestualmente la esecuzione forzata per rilascio.
[119] Vigorito, Gli interventi sul processo esecutivo previsti dal ddl delega AS 1662/XVIII collegato al «Piano nazionale di ripresa e resilienza, cit.
[120]Cfr. Corte cost. sentenza n. 128/2021: il «diritto all’abitazione, che costituisce «diritto sociale» (sentenze n. 106 del 2018 e n. 559 del 1989) e «rientra fra i requisiti essenziali caratterizzanti la socialità cui si conforma lo Stato democratico voluto dalla Costituzione» (sentenza n. 44 del 2020). Esso, benché non espressamente menzionato, deve ritenersi incluso nel catalogo dei diritti inviolabili (sentenze n. 161 del 2013, n. 61 del 2011 e n. 404 del 1988) e il suo oggetto – l’abitazione – deve considerarsi «bene di primaria importanza» (sentenze n. 79 del 2020 e n. 166 del 2018)». D’altro canto, rileva il Giudice delle leggi che: «l’azione esecutiva rappresenta uno strumento indispensabile per l’effettività della tutela giurisdizionale perché consente al creditore di soddisfare la propria pretesa in mancanza di adempimento spontaneo da parte del debitore», deve però sussistere un ragionevole bilanciamento tra i valori costituzionali in conflitto, da valutarsi considerando la proporzionalità dei mezzi scelti in relazione alle esigenze obiettive da soddisfare e alle finalità perseguite. In particolare, «il dovere di solidarietà sociale, nella sua dimensione orizzontale, può anche portare, in circostanze particolari, al temporaneo sacrificio di alcuni a beneficio di altri maggiormente esposti» sempreché sia rispettato, però, il principio di proporzionalità. Nella giurisprudenza di legittimità, sulla rilevanza dell’ordine di liberazione per l’effettività della tutela esecutiva, cfr. Cass., 3 novembre 2011, n. 22747, secondo cui la liberazione del bene pignorato è corollario «del principio … generale della necessaria effettività dell’azione giurisdizionale esecutiva, indispensabile per lo stesso corretto funzionamento delle istituzioni, sul quale si basa l’innovazione legislativa dell’ordine di liberazione obbligatorio».
[121] Cfr. Consiglio Superiore della Magistratura, Disegno di legge governativo di riforma del processo civile: parere sulle ricadute in materia di amministrazione della giustizia (delibera 15 settembre 2021).
[122] Vigorito, Gli interventi sul processo esecutivo previsti dal ddl delega AS 1662/XVIII collegato al «Piano nazionale di ripresa e resilienza, cit.
[123] Cfr. A.Didone, Il processo esecutivo nel prisma degli obiettivi del piano nazionale di ripresa e resilienza (PPNRR), in Riv. esec.forzata, 2021, 2, 454 s., sembra far propria tale qualificazione dell’istituto così come operata dalla relazione illustrativa.
[124] E.Fabiani, La vendita forzata. Evoluzione dell’istituto ed attualità del pensiero di Salvatore Pugliatti, in il giusto processo civile, 3/2015, 720.
[125]P.Liccardo, I modelli decisionali della vendita coattiva nelle leggi 14-5-2005, n. 80, 28-12-2005, n. 263 e 24-2-2006, n. 52: ovvero della qualità delle leggi o delle leggi senza qualità, in Riv. esec. forz., 2006, 1 s. Peraltro, l’eccessiva rigidità procedimentale del modello di vendita coattiva di cui al codice di rito era stato denunciato anche da remoti progetti di riforma del codice di procedura civile quali il “Testo del disegno di legge delega elaborato dalla Commissione Tarzia”: cfr. sul punto, anche per ulteriori riferimenti, E.Fabiani, La vendita forzata. Evoluzione dell’istituto ed attualità del pensiero di Salvatore Pugliatti, cit., 722.
[126] Sui dati strutturali e funzionali delle vendite competitive cfr. E.Fabiani, La vendita forzata. Evoluzione dell’istituto ed attualità del pensiero di Salvatore Pugliatti, cit., 714 ss.; D’adamo, Le procedure competitive all’interno della riforma della liquidazione dell’attivo, in Studi e Materiali, 2008, 3, 1226 s.; Id, Il trasferimento d’azienda nella procedura fallimentare ed il ruolo del notaio, in Studi e Materiali, 2011, 4, 1399 s.; Id, I diversi possibili ruoli del notaio nella fase di liquidazione della nuova procedura fallimentare, in Studi e Materiali, 2011, 1014 ss.; Fazzari, L’atto notarile di trasferimento a seguito di vendita fallimentare, in Studi e Materiali, 2012, 4, 1265 s.; E.Fabiani-L.Piccolo, Vendita fallimentare e atto notarile, in www.notariato.it.; L.Piccolo, Alienazioni immobiliari nella procedura concorsuale al di fuori delle ordinarie modalità competitive: transazione e subentro nel contratto preliminare, in Rass. esec.forz., 1/2020, 27 s.
[127]L.Piccolo, Alienazioni immobiliari nella procedura concorsuale al di fuori delle ordinarie modalità competitive: transazione e subentro nel contratto preliminare, cit., 27 s.
[128] Cfr. Fazzari, L’atto notarile di trasferimento a seguito di vendita fallimentare, cit., il quale ha osservato, sotto il profilo strutturale e procedurale, che la vendita fallimentare è un atto ricompreso in uno specifico iter procedimentale, dipendente perciò dal corretto espletamento di una procedura cronologicamente e logicamente presupposta, e sul quale si basano ulteriori atti consequenziali; il trasferimento del bene, sia che avvenga all’esito di atto negoziale, sia che consegua ad un atto giudiziario, si colloca necessariamente ad un determinato punto di un iter procedimentale. Sotto il profilo funzionale, nello stesso studio, si è posto in evidenza che i trasferimenti nell’ambito della liquidazione fallimentare, sia che avvengano per effetto di un decreto di trasferimento, sia che avvengano per effetto di un atto negoziale, sono necessitati dalla funzione liquidatoria, sottoposti ad un peculiare regime di legittimazione dell’alienante e ad un regime di scelta dell’acquirente, sulla base di una procedura competitiva; al contempo, sono assoggettati a controlli e poteri autoritativi tanto forti che ne possono legittimare la caducazione in base a valutazioni di maggior convenienza di altra offerta. In senso adesivo cfr. E.Fabiani-L.Piccolo, Vendita fallimentare e atto notarile, in www.notariato.it, ove si è in particolare sottolineato che la forma dell’atto di trasferimento, con il quale si conclude il subprocedimento di vendita, non determina il venir meno della natura coattiva della vendita competitiva. Trattasi, in altri termini, di differenza di ordine “formale” o comunque non tale da incidere sulla natura coattiva della vendita.
[129] Cfr. il progetto di riforma della Commissione ministeriale costituita con d.m. 28 giugno – 4 luglio 2013, per elaborare proposte di interventi in materia di processo civile e mediazione presieduta da R. Vaccarella.
[130] E.Fabiani, La vendita forzata. Evoluzione dell’istituto ed attualità del pensiero di Salvatore Pugliatti, in Il giusto processo civile, 3/2015, 723.
[131] A questo schema rispondono, a titolo esemplificativo, i contratti di garanzia finanziaria di cui al d.lgs. n. 170 del 2004 (in attuazione della direttiva 2002/47/CE); il pegno non possessorio (art. 1 d.l. n. 59 del 2016); il finanziamento alle imprese garantito da trasferimento di bene immobile sospensivamente condizionato (art. 48 bis T.U.B., Testo Unico Bancario, d. lgs. n. 385 del 1993, introdotto sempre nel 2016); il credito immobiliare ai consumatori (v., in particolare, l’art. 112 quinquiesdecies T.U.B., d.lgs. n. 385 del 1993, introdotto con d.lgs. n. 72 del 2016).
[132] Così F. Vigorito, Gli interventi sul processo esecutivo previsti dal ddl delega AS 1662/XVIII collegato al «Piano nazionale di ripresa e resilienza», cit., 13.
[133] Così F. Vigorito, Gli interventi sul processo esecutivo previsti dal ddl delega AS 1662/XVIII collegato al «Piano nazionale di ripresa e resilienza», cit., 13 secondo il quale, «peraltro, a rendere più improbabile l’utilizzazione del procedimento, vi è, anche in questo caso, la previsione dell’immediata liberazione dell’immobile, soluzione difforme da quelle previste nelle altre disposizioni del ddl delega, e particolarmente controindicata in un procedimento che sembrerebbe finalizzato anche a consentire l’aggiudicazione a favore di un soggetto che abbia intenzione (per legami familiari o di amicizia) di consentire al debitore di continuare a utilizzare l’immobile».
[134] Cfr. per tutti su questa ipotesi, anche per gli ulteriori riferimenti, D’adamo, Le procedure competitive all’interno della riforma della liquidazione dell’attivo, cit., 1226 ss.; Id, I diversi possibili ruoli del notaio nella fase di liquidazione della nuova procedura fallimentare, cit., 1014 ss.; Fazzari, L’atto notarile di trasferimento a seguito di vendita fallimentare, cit., 1265 s.
[135] All’indomani dell’introduzione dell’istituto della “vendita competitiva”, secondo la tesi prevalente, ci troveremmo di fronte ad una vendita avente natura coattiva, in ragione di una pluralità di indici che depongono in tal senso, quali, segnatamente: l’identità della funzione liquidatoria, il particolare regime di legittimazione dell’alienante (id est la mancanza del consenso del fallito alla vendita), l’attuazione dell’interesse (di natura pubblicistica) di soddisfacimento dei creditori, il particolare regime di scelta e selezione dell’acquirente. Cfr. in tale prospettiva, ex multis: M. Fabiani, Natura della vendita forzata. Traslazione del rischio da “bene a norma”, in Il processo esecutivo. Liber amicorum Romano Vaccarella, a cura di Capponi, Sassani, Storto, Tiscini, Torino, 2014, 1461 ss.; C.Ferri, La liquidazione dell’attivo fallimentare, in Riv. dir. proc., 2006, 3, 963; Liccardo- Federico, Il nuovo diritto fallimentare. Novità ed esperienze applicative a cinque anni dalla riforma, diretto da Jorio - M. Fabiani, Bologna, 2007, 1805; Castagnola, La natura delle vendite fallimentari dopo la riforma delle procedure concorsuali, Giur. comm., 2008, I, 372 ss.; E.Fabiani, La vendita forzata. Evoluzione dell’istituto ed attualità del pensiero di Salvatore Pugliatti, cit., 714 ss.; D’adamo, Le procedure competitive all’interno della riforma della liquidazione dell’attivo, cit., 1226 ss.; ID, Il trasferimento d’azienda nella procedura fallimentare ed il ruolo del notaio, cit., 1399 ss.; Id, I diversi possibili ruoli del notaio nella fase di liquidazione della nuova procedura fallimentare, cit., 2011, 1014 ss.; Fazzari, L’atto notarile di trasferimento a seguito di vendita fallimentare, cit., 1265 s.; E.Fabiani-Piccolo, Vendita fallimentare e atto notarile, cit.; L.Piccolo, Alienazioni immobiliari nella procedura concorsuale al di fuori delle ordinarie modalità competitive: transazione e subentro nel contratto preliminare, cit., 27 s.
[136] Cfr. anche per i riferimenti E.Fabiani, La vendita forzata. Evoluzione dell’istituto ed attualità del pensiero di Salvatore Pugliatti, cit., 714 s. (spe. 724-725), scritto in cui l’A. pone in luce, al di là delle obiezioni solevate nel corso del tempo, l’attualità del pensiero di S.Pugliatti, nella parte in cui Questi aveva colto la profonda essenza pubblicistica della vendita forzata. In particolare, nel richiamato contributo, l’A. pone dunque l’accento sull’importanza di considerare il nucleo imprescindibile della vendita forzata, soprattutto in un momento storico come quello attuale in cui questo istituto sta subendo una evoluzione caratterizzata dalla progressiva perdita di taluni dei suoi tratti caratterizzanti, sia di ordine soggettivo (stante il ricorso alla figura del professionista delegato) che oggettivo (stante il ricorso alle vendite competitive e la tendenza a denunciare l’eccessiva rigidità del modello procedimentale di vendita di cui al codice di rito, rispetto alla tradizionale impostazione podistica. Adde, sugli elementi di coattività in relazione ad ipotesi in cui non può dirsi che la vendita sia effettuata contro la volontà del debitore L.Piccolo, Alienazioni immobiliari nella procedura concorsuale al di fuori delle ordinarie modalità competitive: transazione e subentro nel contratto preliminare, cit., 27 s.
[137] E.Fabiani-L.Piccolo, Vendita fallimentare e atto notarile, cit.
[138] Critico appare Tedoldi, Gli emendamenti in materia di esecuzione forzata al d.d.l. delega AS 1662/XVIII, in Giustiziainsieme.it, secondo il quale il «‘furore analitico’ nella stesura delle disposizioni normative, qui persino dei principii e dei criterî direttivi del d.d.l. delega, già apparecchiati per i decreti delegati e scritti a guisa di istruzioni per l’uso o di protocolli applicativi, non giova alla chiarezza delle idee e alla sicurezza delle soluzioni, recando inevitabilmente seco questioni esegetiche e problemi ermeneutici». Inoltre, secondo l’A., può peraltro dubitarsi dubitare «che sia necessario introdurre una disciplina (tantomeno così analitica) della vendita dell’immobile pignorato procurata a miglior prezzo dal medesimo debitore esecutato, ché in questo si risolve la vente privée, senza che il francesismo possa aduggiare sulla vera essenza dell’istituto. Accade spesso che, onde mitigare gli ingenti costi della procedura e i ribassi nel prezzo, sia il debitore ad attivarsi per collocare sul mercato l’immobile, anziché lasciare che venga subastato forzosamente. I creditori di buona fede accolgono di buon grado la proposta, lieti che i crediti possano soddisfarsi in maggior misura e minor tempo. Quelli in malafede, che volessero trarre illecito profitto dal decremento di valore del bene immobile staggito, possono essere già oggi ostacolati mercé strumenti di composizione delle crisi da sovraindebitamento (l. 3/2012 e, poi, CCI di cui al d.lgs. 14/2019), che sospendono le procedure esecutive e, con il buon esito, le estinguono, trasferendo il tradizionale conflitto tra ragioni del credito e ragioni della proprietà dall’esecuzione forzata al piano negoziale, con l’ausilio di esperti e sotto il controllo del tribunale. Insomma, non vorremmo che la disciplina della ‘vendita privata’ – o vente privée che dir si voglia – fosse «inutil precauzione», fonte soltanto di ulteriori complicazioni: ve ne sono già abbastanza nel processo civile, e in quello esecutivo in specie, che affliggono i tribunali con questioni sempre nuove, giungendo sino al grado di legittimità con gran dovizia di ripetuti interventi nomofilattici, al punto che par quasi che si tragga intellettuale divertissement da codesta sorta di giuochi procedurali, nello scriver le regole dapprima e nel darne poi l’esegesi e l’ermeneutica, scordando che il processo è unicamente mezzo allo scopo, non già fine a sé stesso e dovrebbe essere, come scriveva Giuseppe Chiovenda sulle orme di Franz Klein, «semplice, rapido e poco costoso».
[139]Cfr. anche per i riferimenti E.Fabiani, La vendita forzata. Evoluzione dell’istituto ed attualità del pensiero di Salvatore Pugliatti, cit., 714 s.
[140] Cfr. Consiglio Superiore della Magistratura, Disegno di legge governativo di riforma del processo civile: parere sulle ricadute in materia di amministrazione della giustizia (delibera 15 settembre 2021).
[141] Così vd. Consiglio Superiore della Magistratura, Disegno di legge governativo di riforma del processo civile: parere sulle ricadute in materia di amministrazione della giustizia (delibera 15 settembre 2021), il quale, nell’auspicare che la cauzione resti definitivamente acquisita alla procedura nel caso di «mancata stipula dell’atto di trasferimento nel termine stabilito dal giudice», sembrerebbe ritenere, in conformità con quanto si è già avuto modo in precedenza di evidenziare nel testo, che una peculiarità del nuovo istituto della “vendita diretta” introdotto dal legislatore nel nostro ordinamento risieda nel fatto che detta vendita non si estrinseca nell’emissione di un decreto di trasferimento da parte di un giudice, ma nel ricevimento di un atto pubblico di vendita da parte di un notaio.
[142] Cfr. E. Fabiani-M.Nastri, Acquisto del bene oggetto di procedura espropriativa o concorsuale e normativa antiriciclaggio, in Rass. esecuz. forz., n. 1/2021, 5 s.; Id., Vendita forzata e normativa antiriciclaggio in Consiglio Nazionale Del Notariato, Studi e materiali, n. 1/2020, 261 s.
[143] Cfr. più ampiamente sui tratti caratterizzati della coattività della vendita E. Fabiani, La vendita forzata. Evoluzione dell’istituto ed attualità del pensiero di Salvatore Pugliatti, cit., 703 s.
[144] Il quale, a differenza del venditore/debitore non “subisce” la vendita ma sceglie liberamente di procedere all’acquisto di un bene oggetto di una alienazione coattiva.
[145] E possa, se del caso, anche integrare la fattispecie di reato di cui all’art. 648 bis c.p.c. (recante “riciclaggio”) in forza del quale è punibile (con la reclusione da quattro a dodici anni e con la multa da euro 1.032 e euro 15.493), «fuori dei casi di concorso nel reato, chiunque sostituisce o trasferisce denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto non colposo, ovvero compie in relazione ad essi altre operazioni, in modo da ostacolare l’identificazione della loro provenienza delittuosa».
[146] Il Sole 24ore del 29 febbraio 2020 pag. 17 “Tribunali, aste a rischio riciclaggio”.
[147] Cfr. E. Fabiani-M.Nastri, Acquisto del bene oggetto di procedura espropriativa o concorsuale e normativa antiriciclaggio, cit., 5 s.
[148] Così Trib. S.M. Capua Vetere, 7 novembre 2019 (pubblicata in Riv. dell’esecuz. forz., n. 1/2020, 260 ss. nell’ambito dell’osservatorio sulla giurisprudenza di merito a cura di D. Capezzera - A. Farolfi) nel ritenere, conseguentemente, «illegittimo il rifiuto della banca di dare esecuzione al piano di riparto predisposto dal professionista delegato ed approvato dal G.E.».
[149] Cfr. più ampiamente E. Fabiani-M.Nastri, Acquisto del bene oggetto di procedura espropriativa o concorsuale e normativa antiriciclaggio, cit., 5 s.
[150] Cfr. E. Fabiani-M.Nastri, Acquisto del bene oggetto di procedura espropriativa o concorsuale e normativa antiriciclaggio, cit., spec. 10 s.
[151] Cfr. E. Fabiani-M.Nastri, Acquisto del bene oggetto di procedura espropriativa o concorsuale e normativa antiriciclaggio, cit., spec. 20 s.
[152] Cfr. più ampiamente E. Fabiani-M.Nastri, Acquisto del bene oggetto di procedura espropriativa o concorsuale e normativa antiriciclaggio, cit., 5 ss.
[153] Cfr. A. Proto Pisani, Condanna (e misure coercitive), in Foro it., 2007, V; Id., voce Sentenza di condanna, in Dig. disc. priv., Sez. civ., Torino 1998, 300 s.
[154]Cfr. all’indomani dell’introduzione dell’art. 614 bis, per tutti, L. Barreca, l’attuazione degli obblighi di fare infungibile o di non fare (art. 614-bis c.p.c.), in Riv. esec.forzata, 2009, 4 s.; Bove, Brevi riflessioni sui lavori in corso nel riaperto cantiere della giustizia civile, in www.judicium.it; F. De Stefano, l’esecuzione indiretta: la coercitoria, via italiana alle “astreintes”, in Corr. merito, 2009, 12, 1181 s.; F. De Stefano, note a prima lettura della riforma del 2009 delle norme sul processo esecutivo ed in particolare dell’art. 614-bis c.p.c., in Riv. esec.forz., 2009, 4 s.; Merlin, Prime note sul sistema delle misure coercitive pecuniarie per l’attuazione degli obblighi infungibili nella l. 69/09, in Riv. dir. processuale, 2009, 1546 s.; Saletti, sub art. 614 bis c.p.c., in Saletti, Sassani (a cura di), Commentario alla riforma del codice di procedura civile (L. 18.6.2009, n. 69), Torino, 2009, 194 s.
[155] Sulle novità della novella del 2015 cfr. per tutti: Gambioli, Novità in materia di esecuzione forzata(I parte) -Le misure di coercizione indiretta ex art. 614 bis c.p.c., Giur. it., 2016, 5, 1264 s.; Mazzamuto, L’astreinte all’italiana si rinnova: la riforma della comminatoria di cui all’art. 614-bis c.p.c., in Europa e Diritto Privato, 1, 2016, 11 s.;; Mazzamuto, La coercizione indiretta, in Europa e Diritto Privato, 3, 2021, 465 s. Sull’iter della riforma cfr. E. Zucconi Galli Fonseca, Misure coercitive fra condanna e tutela esecutiva, Riv. trim. dir. e proc. civ., 1, 2014, 389 s.
[156] Cfr. per tutti Recchioni, L’attuazione forzata indiretta dei comandi cautelari ex art. 614-bis c.p.c., in Riv.trim.dir.proc.civ., 4, 2014, 1477; Chiarloni, L’esecuzione indiretta ai sensi dell’art. 614-bis cod. proc. civ.: confini e problemi, Giur. it., 2014, 7; Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, Torino 2013, III, 101; Consolo – Godio, sub art. 614 bis in Comm. del codice di procedura civile VII, t. 1, diretto da L.P. Comoglio, Consolo, Sassani, Vaccarella, Torino, 2013, 175 – 176; Gambineri, Attuazione degli obblighi di fare infungibile e di non fare, Foro it., 2009, V, 323; Tiscini, Prime osservazioni sulla l. 18.6.2009, n. 69, in www.judicium.it. Ma vd. anche Mazzamuto, La coercizione indiretta, in Europa e Diritto Privato, 3, 2021, 465 s., il quale osserva che nonostante le obiezioni mosse da parte della dottrina processualista al criterio della manifesta iniquità, il medesimo «oggi sembra godere per fortuna di ottima salute se il legislatore l’ha posta a presidio della nuova comminatoria amministrativistica di cui all’art. 114, co. 4, lett. e), c.p.a. e non mancano neppure in dottrina e giurisprudenza rilevanti guadagni interpretativi sulla base di essa».
[157] Cfr. Luiso, Diritto processuale civile, III, 2019, Milano, 247, secondo cui un corretto inquadramento sistematico avrebbe consentito di affidare il compito di determinare la sanzione pecuniaria al giudice dell’esecuzione, come accade per l’esecuzione degli obblighi di fare: dopo aver notificato il titolo esecutivo e precetto, in analogia a quanto prevede l’art. 612 c.p.c., il creditore avrebbe potuto proporre ricorso al giudice dell’esecuzione. Questi, convocate le parti, avrebbe determinato la misura della sanzione pecuniaria dovuta. Invece, avendo il legislatore ritenuto che è compito del giudice della cognizione concedere la misura coercitiva, l’avente diritto – beneficiario di un titolo esecutivo stragiudiziale – sarà costretto a proporre una domanda di condanna in sede dichiarativa per ottenere la determinazione della sanzione pecuniaria. Invece, avendo il legislatore stabilito che è compito del giudice della cognizione concedere la misura esecutiva, l’avente diritto - beneficiario di un titolo esecutivo stragiudiziale – sarà costretto a proporre una domanda di condanna in sede dichiarativa per ottenere la determinazione della sanzione pecuniaria.
[158] Cfr. Capponi, Perché in Italia l’astreinte non si ama, in Giustizia insieme, 20 aprile 2021; Bove, La misura coercitiva di cui all’art. 614-bis c.p.c. in Judicium 29 aprile 2010.
[159] Cfr. in tal senso Vigorito, Gli interventi sul processo esecutivo previsti dal ddl delega AS 1662/XVIII collegato al «Piano nazionale di ripresa e resilienza», cit., 14.
[160] Cfr. Proto Pisani, Note personali e no a margine dell’art. 614 bis c.p.c., in Rass. esecuz. forz., n. 1/2019, 3 s.
[161] Su cui cfr. P. Liccardo, Il sistema dei registri delle procedure concorsuali e il formante giudiziario nel terzo millennio, in Riv. dell’esecuzione forzata 2018, 2, 340 ss.; P.P. Ferraro, Il registro delle espropriazioni immobiliari, della procedura d’insolvenza e degli strumenti di gestione della crisi, in Dir. fall., 2017, 2, 355 s.
[162] Sui vari profili distintivi di queste due sezioni cfr. P. Liccardo, Il sistema dei registri delle procedure concorsuali e il formante giudiziario nel terzo millennio, cit., 340 s.
[163] Cfr. P.P. Ferraro, Il registro delle espropriazioni immobiliari, della procedura d’insolvenza e degli strumenti di gestione della crisi, cit., 355 s.
Soggettività delle persone di età minore e allontanamento forzato dei figli*
di Maria Giovanna Ruo**
Ringrazio per l’invito all’audizione sul tema “Soggettività dei minori e allontanamento forzato dei figli dal loro precedente contesto relazionale”, affrontato dal gruppo di lavoro coordinato dalle Professoresse Assunta Morresi, Tamar Pitch e Grazia Zuffa, nell’ambito dell’assemblea plenaria del CNB per la giornata del 27 gennaio 2022.
È un grande onore e una grande responsabilità, di cui sono grata, riferire in questo contesto sulla base dell’esperienza professionale e di studio che ho potuto maturare negli anni di esercizio della professione forense nel settore persone, relazioni familiari e minorenni.
Ringrazio in particolare il Prof. Lorenzo D’Avack al quale sono legata da gratitudine personale per essere sempre stato Maestro e punto di riferimento; la Prof.ssa Laura Palazzani, ricordando sempre con piacere i tanti stimoli ricevuti e maturati alla LUMSA, anche in fugaci incontri ma sempre preziosi, e che tanto mi hanno arricchito.
CAMMINO-Camera Nazionale Avvocati per la persona, le relazioni familiari e i minorenni, che è l’associazione che rappresento e presiedo da circa 20 anni e che ho contribuito a fondare ormai 23 anni fa, nel variegato panorama delle associazioni specialistiche familiaristiche riconosciute dal CNF tra le più rappresentative, ha da sempre scelto come propria cifra la promozione e la tutela dei diritti fondamentali dei soggetti vulnerabili, partendo proprio da quelli delle persone di età minore. Conta attualmente 65 sedi territoriali.
L’odierna audizione si svolge all’indomani dell’approvazione da parte della Camera in via definitiva della riforma sul processo civile con l. 206/2021 che riguarda anche specificamente, con un intervento ampio, articolato e approfondito, il settore persona, minorenni, famiglie, e che richiamerò quindi spesso, premettendo che in parte si tratta di interventi di legge delega, e bisognerà quindi attendere i decreti legislativi per valutare l’incisività su varie tematiche, in parte invece prevede norme immediatamente efficaci che entreranno in vigore 180 giorni dopo l’entrata in vigore della legge pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 9 dicembre 2021.
1. Soggettività della persona di età minore, quadro costituzionale, percorso di adeguamento interno: the best interest of the child
La soggettività giuridica delle persone di età minore potrebbe dirsi scontata: ma se teoricamente e astrattamente è da tempo così, non lo è stato nell’applicazione pratica delle norme e nella tutela dei diritti per il diffuso pregiudizio socio-culturale che i figli fossero -e siano- sostanzialmente sprovvisti di una propria reale e concreta autonoma soggettività, quasi appendici dei genitori e delle famiglie. La normativa codicistica riservava loro tutela sostanzialmente per gli aspetti patrimoniali del patrimonio personale.
È portato di un lungo percorso, dagli ultimi decenni del secolo scorso, la considerazione delle persone di età minore come soggetti autonomi, titolari di diritti personalissimi la cui tutela può non solo non essere garantita dai genitori (cui è principalmente affidata dal nostro sistema costituzionale ai sensi degli artt. 2, 3, 30, 31 Cost.), ma persino esserne compromessa. I genitori infatti si possono trovare in conflitto di interesse con loro o non essere in grado, anche incolpevolmente e inconsapevolmente, di tutelarli. In tali casi la famiglia non è più la formazione sociale in cui i loro diritti fondamentali sono attuati e in cui si svolge la loro personalità, ma può divenire il luogo della loro negazione. La casistica è ampia e mi riservo di tornare successivamente su alcune fattispecie che riterrei di segnalare per il loro particolare rilievo.
Nell’ordinamento interno lo snodo è costituito dalla ratifica della Convenzione ONU sui diritti del fanciullo (l. 176/1991), che pone all’art. 3 il criterio di the best interest of the child come determinante e preminente di giudizio: da quel momento inizia una diversa considerazione delle persone di età minore come dotate di una piena soggettività personale e portatrici di diritti personalissimi la cui tutela viene affidata ai genitori, ma può essere anche da loro indipendente e anzi lo deve essere se da questi compromessa,. Il principio è penetrato sempre più grazie ai plurimi interventi della Consulta che lo hanno reso clausola generale dell’ordinamento.
Nell’equo bilanciamento degli interessi in gioco, secondo la giurisprudenza anche della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nella tutela dei contrapposti diritti dei figli minorenni e dei genitori, deve prevalere la tutela dei primi; tra i diritti delle persone di età minore deve ricevere tutela prioritaria la sua salute, intesa in una prospettiva de futuro come tutela delle migliori condizioni possibili di sviluppo psico-fisico.
2. Centralità del diritto alla salute della persona di età minore e condanne CEDU all’Italia in materia minorile
La salute della persona di età minore va difatti intesa e salvaguardata su un piano dinamico, volto al futuro, per consentire il miglior sviluppo psico-fisico nel concreto, a quella persona di età minore, nella condizione storica, relazionale sociale in cui si trova, eliminando gli ostacoli che vi si frappongono.
Il sistema demanda prima di tutto ai genitori tale compito: sono ritenuti, sulla scorta delle indicazioni delle scienze mediche e sociali, le persone che meglio possono garantirlo come meglio possono garantire quello alla formazione della sua identità personale e sociale. Rilevante in questa prospettiva anche il sistema delineato dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, come interpretata dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo,, e in particolare del dettato dell’art. 8: in uno Stato democratico, nell’equo bilanciamento degli interessi in gioco, deve prevalere sempre the best interest of the child. In questa prospettiva, incombono allo Stato doveri negativi di non ingerenza nella relazione figli minori-genitori: deve essere rispettata la vita privata e familiare di genitori e figli, nel senso che vivere insieme, godere dell’apporto gli uni degli altri, ne costituisce contenuto essenziale e lo Stato non deve intervenire. Tuttavia se i genitori non sono in grado di garantire il miglior sviluppo psico-fisico dei figli, allora incombe alle Autorità nazionali invece intervenire celermente e tempestivamente, a tutela del best interest di questi ultimi, anche allontanandoli in casi estremi, in cui non sia possibile altro provvedimento a loro tutela, ma sempre attuando contestualmente interventi volti al potenziamento della genitorialità per il ricongiungimento genitore-figlio, che costituisce traguardo ineliminabile salvo che poi risulti impossibile nella prospettiva prima richiamata.
Non poche le condanne all’Italia per aver fallito l’obiettivo della tutela nella prospettiva di cui sopra[1]: la maggior parte riguarda i casi in cui le Autorità nazionali non sono state in grado di salvaguardare il rapporto dei figli minorenni con il genitore non convivente, quando deve essere ripristinato in quanto positivo per quel minore e ostacolato senza ragioni nell’interesse del figlio dall’altro di cui dirò più specificamente infra. L’ago della bilancia è sempre quindi il best interest nel caso concreto: se la relazione con il genitore con il quale il rapporto è ostacolato (e infine rifiutato dal figlio) è considerato positivo per lui, allora deve essere garantito. Se invece tale rapporto è negativo per il figlio minorenne, per questioni varie (ad es. il minore ha subito abusi psicologici, fisici, sessuali o ha assistito a violenze di vario genere nei confronti dell’altro genitore o di altro familiare -c.d. violenza assistita-), allora tale rapporto non deve essere forzato. Nel sistema delineato dalla giurisprudenza della Corte EDU, anche l’ascolto del minore che rifiuta l’altro genitore deve essere attentamente valutato alla luce delle concrete dinamiche relazionali genitori-figlio, come pure si vedrà infra.
Non sono mancate condanne al nostro Paese anche in tema di adottabilità, quando sono stati interrotti i rapporti con genitori fragili, la cui genitorialità non era stata correttamente sostenuta e potenziata: l’ultima recentissima, D.M. e N. c. Italia, ric. 60083/19, sent. 20 gennaio 2022; precedenti sempre nei confronti del nostro Paese sono: A.I c. Italia, ric. 70896/17, sent. 1 aprile 2021; Jiaoqin Zhou c. Italia, ric. 33773/11, sent. 21.01.2014; S.H. c. Italia, ric. 52557/14, sent. 13.10.2015. Non sono mancare sentenze di condanna in caso di interruzione ingiustificata della relazione nonni/nipoti, la cui relazione con i nipoti non è stata pure immediatamente ripristinata, lasciando consolidare situazioni nelle quali si è in definitiva dissolta: Solarino c. Italia, ric. 76171/13, sent. 09.02.2017; Manuello e Nevi contro Italia, ric. n. 107/10, sent. 20.01.15; Terna c. Italia, ric. 21052/18, sent. 14.01.2021. O condanne nel caso di minori inseriti in altri contesti familiari, senza successiva attenzione alle relazioni ormai consolidate con gli affidatari, lasciandoli soli in un conflitto di lealtà e di appartenenza a diverse famiglie e culture traendone conseguentemente un danno anche grave alla costruzione della propria identità: Barnea e Caldaru c. Italia, ric. 37931/15, sent. 22/06/2017.
3. Diritto alla bigenitorialità: gli strumenti di graduazione e affievolimento nell’interesse del minore (principio “elastico”)
Nel quadro costituzionale e della normativa pattizia, fonte sopraordinata ai sensi dell’art. 117 Cost. così come la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, deve essere ovviamente interpretata la normativa interna (disciplina codicistica e legislazione speciale) e debbono essere orientate le prassi applicative.
Ne consegue che anche il principio di bigenitorialità non è un principio assoluto, ma esso stesso relativo in ragione di the best interest of the child perché funzionale al suo miglior sviluppo psico-fisico. Se il paritetico apporto affettivo, relazionale, educativo di entrambi i genitori o di ciascuno di essi è funzionale alla sua realizzazione, non deve subire limitazioni; se viceversa il rapporto con entrambi i genitori, o anche con uno di essi ,potrebbe recare pregiudizio alla persona di età minore, la normativa offre una serie di strumenti di disciplina della responsabilità genitoriale che possano graduarne l’apporto.
E, quindi: ancorchè la regola (in funzione della presunzione della necessità di apporto paritetico di entrambi i genitori quando non vi sia convivenza tra gli stessi) sia l’affidamento condiviso a entrambi (che - lo sottolineo - non vuol dire pariteticità di tempi, ma pari apporto nelle decisioni di maggiore interesse e di ordinaria amministrazione), qualora invece l’apporto di uno o di entrambi fosse pregiudizievole, è prevista legittimamente una progressiva concentrazione della responsabilità genitoriale nel genitore più idoneo alla tutela del figlio minorenne con corrispondente affievolimento dei poteri/doveri dell’altro (affidamento esclusivo o superesclusivo), o persino invece l’attribuzione della responsabilità genitoriale a terzi con limitazione quindi di quella di entrambi i genitori (affidamento a parenti o a terzi oppure, tristemente noto per la sua nebulosità, affidamento ai servizi sociali) fino alla sospensione o ablazione dei medesimi genitori dalla responsabilità. Nei casi estremi, dopo un procedimento volto all’accertamento dello stato di abbandono morale e materiale, sarà dichiarato lo stato di adottabilità ai sensi della l. 184/9183 e la persona di età minore avrà un’altra famiglia adottiva previamente valutata per la sua idoneità a crescerlo e ad esercitare la funzione genitoriale nel di le interesse. La relazione con il genitore il cui comportamento sia pregiudizievole può/deve essere limitata, contenuta, anche rescissa in funzione del migliore sviluppo psico-fisico del figlio minorenne.
Ne deriva che in ogni caso deve esserci attenzione alla concreta persona di età minore, alla sua storia relazionale e sociale, alle sue necessità psico-fisiche, alla sussistenza di risorse interne da attivarsi nel quadro costituzionale e subcostituzionale sopra pur brevemente e banalmente descritto, nella consapevolezza che il principio di the best inerest è criterio elastico[2], la cui effettiva tutela non tollera banalizzazioni e generalizzazioni, perché ogni persona di età minore è un universo a sè stante. E che quando si tratta di minorenni ci si riferisce a un universo variegato da 0 a 18 anni, con diverse fasce di maturità e di sviluppo che debbono essere considerate con la massima attenta valutazione della situazione personale, relazionale e sociale concreta, sempre nella prospettiva che il primo obiettivo è l’empowerment delle risorse perché incombe alle Autorità il dovere positivo di ricongiungimento figli-genitori, salvo che non sia contrario a the best interest.
4. Il contributo di altri saperi all’individuazione di the best interest of the child nel caso concreto e le relative modalità processuali
Ovviamente, se nella fisiologia dei rapporti familiari tutto funziona, tali principi permeano la quotidianità e non assumono autonomo rilievo giuridico. Ciò succede nella patologia delle relazioni, quando entrano in crisi sia in senso orizzontale (crisi della relazione tra genitori) sia in senso verticale (crisi della relazione genitori e figli)- e la disciplina della responsabilità genitoriale è oggetto di decisione nei relativi giudizi.
A tale proposito assumono particolare rilevanza le valutazioni della c.d. idoneità genitoriale da parte di esperti sul piano psicologico-evolutivo, talvolta psichiatrico, purtroppo quasi mai pedagogico. La marginalizzazione della pedagogia provoca che le relazioni siano considerate quasi sempre da una prospettiva patologica e comporta -come conseguenza- che la capacità educativa non venga mai presa in considerazione nella valutazione dell’idoneità genitoriale nelle decisioni relative all’affidamento dei figli minorenni e alla loro tutela nelle situazioni di pregiudizio. Il cha particolare rilievo anche nelle questioni di violenza.
L’apporto di altri saperi necessari per la corretta valutazione di quale sia il best interest of the child nel caso concreto è nel nostro sistema processuale attuale (quando è nel contesto giudiziario che la tutela del minore è richiesta) assicurato attraverso strumenti diversi a seconda anche della tipologia di giudice procedente:
1)Relazioni socio-psico-ambientali affidate ai servizi alla persona (operatori sanitari e operatori sociali, in “varia formazione” a causa del Titolo V della costituzione in quanto vi è riserva di legislazione regionale in materia sanitaria ai sensi dell’art. 117 Cost.): il giudice può demandare ai Servizi indagini socio-psico-ambientali. Vengono svolte al di fuori del contraddittorio e dei diritti di difese delle parti, e risultano quindi incontestabili anche se eventualmente errate: vengono definite in gergo cd. prova bloccata); talvolta peraltro si è giunti all’attivazione di un giudizio perché i precedenti interventi dei Servizi non hanno funzionato nel sostegno del nucleo familiare fragile e, quindi, le relazioni dei medesimi Servizi risentono di “pregiudizi” in senso proprio. La Riforma processuale di cui alla l. 206/2021 è intervenuta con alcune norme immediatamente efficaci[3], ed altre previste invece nella legge delega[4]
2) Consulenze Tecniche d’Ufficio: il giudice demanda con un quesito indagini sulla idoneità genitoriale a un esperto psicologo, neuropsichiatra, neuropsichiatra infantile. Le indagini si svolgono in pieno contraddittorio con le Parti rappresentate da un Consulente Tecnico di Parte. La Riforma processuale di cui alla l .206/2021 è intervenuta non solo integrando l’art. 13 disp. att. c.p.c. con la previsione espressa di tali professionalità (prima non contemplate), ma anche integrando l’art. 15 disp. att. c.p.c. con la previsione dei professionali di cui i professionisti debbono essere forniti per avere ingresso nell’albo dei CTU. Altre norme sono invece contenute nella legge delega e riguarderanno metodi e contenuti disposte spesso nei procedimenti relativi a un esercizio non corretto della responsabilità genitoriale. Vi è da segnalare che spesso le CTU sono inutilmente intrusive e ridondanti, affrontano aspetti della vita privata e personale non pertinenti, e si concludono in modo stereotipato e scontato, senza considerazione della particolarità della situazione; e i giudici si appiattiscono sulle CTU, riportando nei provvedimenti spetto automaticamente le conclusioni stereotipate degli elaborati peritali.
3) Partecipazione degli esperti al collegio giudicante presso il Tribunale per i minorenni: è la modalità che desta più perplessità per l’assoluta incontrollabilità dei criteri di individuazione del best interest che trovano di solito sintetica esposizione nei provvedimenti finali (decreti). Anche su questo punto la Riforma di cui alla l. 206/2021 ha apportato importanti modifiche, che però entreranno in vigore nel 2024, istituendo un giudice unico (Tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie) con esperti che integrano il collegio solo in alcune materie (adottabilità, adozione, migrazione).
5. L’allontanamento extrema ratio e casistica. Il procedimento ex art. 403 c.c.
L’allontanamento da uno o da entrambi i genitori dovrebbe essere attuato come extrema ratio quando la permanenza con uno o con entrambi i genitori comporterebbe grave e irreparabile pregiudizio per il figlio minorenne. L’allontanamento ovviamente vuol dire anche inserimento della persona di età minore in diverso contesto: o presso altri familiari, o presso una diverso nucleo familiare o presso una casa famigia. Questo è il più frequente, quantomeno in prima battuta. Tale allontanamento-affidamento può essere “consensuale” e cioè concordato con i genitori; o giudiziale, e cioè avvenire per iniziativa della Pubblica Amministrazione o iussu judicis. Mi soffermerò solo su questa seconda tipologia perchè più diffusa e più intrusiva. Sugli affidamenti consensuali aggiungo solo che difficilmente nella prassi sono effettivamente tali, in quanto il suggerimento da parte dei Servizi non lascia spazio all’effettiva volontà delle parti.
Gli allontanamenti e affidamenti coercitivi, dovrebbero essere attuati quando il permanere del figlio allontanato con uno o con entrambi i genitori comporterebbe per il primo un pregiudizio grave e irreparabile. L’allontanamento, nella sua prospettiva iniziale, dovrebbe essere sempre temporaneo e divenire definitivo solo se il potenziamento delle capacità genitoriali di colui o di coloro che con il loro comportamento sono pregiudizievoli per il figlio minore fallisca in un tempo congruo e sintonico con lo sviluppo psico-fisico di quest’ultimo.
Sussistono infatti situazioni emergenziali, in cui vi è necessità di intervento immediato e talvolta temporaneamente rescissivo del rapporto figlio/genitore la cui relazione sia pregiudizivole per il minore. La casistica è ampia: riguarda genitori con problematiche psichiatriche non compensate, con patologie che comportano un disallineamento dalla realtà -depressione, schizofrenia, bipolarismo etc.-; con agiti pregiudizievoli (violenti, o anche omissivi, o anche caratterizzati da ipercuria -ad es. Sindrome di Munchausen per procura; oppure genitori abusanti sul piano sessuale, direttamente o indirettamente (bambini usati o “venduti” per prestazioni sessuali); oppure genitori o parenti che li sfruttano economicamente schiavizzandoli; oppure genitori appartenenti a diverse aree culturali le cui prassi prevedono mutilazioni genitali, e/o matrimoni combinati e precoci con coercizioni delle bambine; oppure ancora situazioni di estrema povertà educativa, accompagnata da agiti vari (evasione dell’obbligo scolastico in situazioni di estrema precarietà abitativa, igienica, educativa).
In molti di questi casi, l’intervento di allontanamento deve essere immediato, in quanto i tempi intercorrenti con l’evento che lascia emergere il gravissimo e imminente pregiudizio per il minore debbono essere il più possibile contratti, incrementandosi altrimenti in modo esponenziale (e talvolta fatale) il danno. Sono i casi in cui la Pubblica Amministrazione deve intervenire immediatamente come previsto dall’art. 403 c.c., che però disegnava un’ingerenza della PA nella vita familiare al di fuori del dettato Costituzionale del giusto processo in quanto non prevede l’immediato controllo del giudice.
La Riforma processuale di cui alla l. 206/2021, pubblicata nella G.U. 9 dicembre 2021, ha integralmente riformato la procedura con norme di immediata applicazione (in realtà entreranno in vigore il 22 giugno p.v.) riportandolo nell’alveo del giusto processo di cui all’art. 111 Cost. e 6 Conv. EDU, prevedendo che la PA informi nell’immediato del provvedimento di allontanamento assunto il Pubblico Ministero Minorile, che questi revochi il provvedimento infondato eventualmente assunto oppure ricorra al Tribunale per i minorenni per la convalida. Il Presidente provvederà a nominare il curatore speciale del minorenne, alla notifica ai genitori, a fissare un’udienza nella quale il provvedimento di allontanamento sarà convalidato o meno, con l’assunzione di una serie di ulteriori provvedimenti che dovranno essere volti, in caso di convalida, al recupero delle capacità genitoriali e alla formulazione di un progetto in tal senso, in modo da avere come concreto obiettivo il ricongiungimento dei figli allontanati ai genitori.
In altri casi, invece, l’allontanamento viene disposto a procedimento già avviato, quando dalle risultanze istruttorie emerge che è necessario, dal giudice che dovrebbe aver già consentito l’instaurazione del contraddittorio e l’esercizio del diritto di difesa da parte sia dei genitori sia del figlio minorenne tramite il suo curatore speciale, che dovrebbe essere nominato stante il palese conflitto di interessi con i genitori rappresentanti legali. Il condizionale è d’obbligo a causa della cd. “prassi distorsive” vigenti dinnanzi ai Tribunali per i minorenni, dove le udienze anche istruttorie sono delegate a psicologi privi di adeguata preparazione giuridica. Anche a ciò ha inteso porre rimedio la l. 206/2021, ma con la legge delega, prevedendo che nel nuovo rito agli esperti, che faranno parte del collegio giudicante solo in sede distrettuale e per alcune materie (adozione e adottabilità, per quel che qui rileva), possano essere delegati singoli atti, ma non l’ascolto del minore.
Quanto alle modalità dell’allontanamento, è evidente che le stesse dovrebbero comunque essere rispettose delle esigenze psicologiche della persona di età minore e dei suoi affetti. Si ha invece notizia di allontanamenti con l’inganno, senza che il minore sia nemmeno informato: il bambino che entra da una porta per l’ascolto del giudice, ed esce da altra porta in stanza dove ci sono i servizi che lo portano via senza essere preavvertito e senza poter salutare la mamma; il minore che viene prelevato a scuola prima dell’ora di uscita dai servizi e viene portato in casa famiglia, dove reincontrerà la madre dopo giorni e giorni e per un’ora. Per non parlare del famigerato allontanamento di “Cittadella”.
Modalità brutali, da inquadrarsi come comportamenti disumani e degradanti di cui all’art. 3 della Convenzione EDU, indegni di uno Stato civile e democratico, che peraltro danno l’idea di come i minorenni continuino a non essere considerate persone, con la loro dignità, i loro affetti, il loro diritto di libertà anche affettiva, ma troppo spesso oggetto di provvedimenti di pseudo-tutela che prescindono dal rispetto delle più elementari esigenze psicologiche e che comportano un vulnus profondo anche nella relazione fiduciaria con le istituzioni. Con conseguenze gravissime anche in prospettiva.
6. Liberi di scegliere: gli allontanamenti dalle famiglie malavitose
Liberi di scegliere è un programma che tutela minori e donne che si allontanano dalla 'ndrangheta. L'iniziativa è stata avviata dell'ex presidente del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, Roberto Di Bella e trae spunto dall’osservazione che i giovani devianti di cui si doveva occupare la giustizia penale minorile erano sempre figli delle stesse famiglie di ‘ndrangheta’ destinati dalla nascita, senza poter scegliere, a un sistema valoriale aberrante, senza possibilità di sfuggirvi per il fortissimo condizionamento della sottocultura mafiosa imperante nell’ambito familiare.
Il Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria ha cominciato ad allontanarli dalle famiglie e a collocarli in luoghi protetti lontani dal luogo di origine. Le famiglie hanno reagito prima compatte con opposizioni e minacce da parte di tutti i componenti comprese le madri, completamente immerse in un sistema distorto che le vuole schiave e consenzienti, rassegnate a un clima di violenza e paura e a sapere che i loro figli sono destinati al crimine, a morire giovani in scontri a fuoco o a trascorrere la vita in carcere e le loro figlie sono votate a perpetuare tale situazione, perché tentare di sfuggire vuol dire condannarsi a morte: il sistema della malavita organizzata non tollera deroghe per coloro che vi sono nati.
La situazione si è progressivamente evoluta e si sta ulteriormente modificando. Sono ormai sempre più diffuse le scelte coraggiose di donne e madri che vogliono cambiare campo e ridare ossigeno anche alla loro voglia di libertà, di vita, di dignità. Si ribellano all’obbedienza ai clan per amore dei propri figli, cui vogliono garantire un futuro libero, rifiutando di ritenere quella mafiosa l’unica organizzazione sociale possibile. Donne che hanno deciso di infrangere codici millenari fondati sulla violenza, sulla minaccia e il rispetto timoroso di un ruolo subordinato. Chiedono aiuto per fuggire dalle mafie con i loro figli. Liberi di scegliere è quindi diventato un protocollo di intesa tra Dipartimento Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio, Tribunale per i Minorenni, Procura per i Minorenni e Procura Distrettuale di Reggio Calabria, Procura Nazionale Antimafia e l’Associazione Libera ed è sostenuto dalla Conferenza Episcopale Italiana. Si propone di aiutare e accogliere donne e minori che vogliono uscire dal circuito mafioso e promuovere una rete di protezione e di sostegno per tutelare e assicurare una concreta alternativa di vita ai minori e alle loro madri. In questi casi talvolta l’allontanamento è solo dei figli dal clan malavitoso; talaltra di madri e figli, in località protette, con la possibilità di ricostruire un’identità sociale e culturale, lontana dagli stereotipi malavitosi.
7. Liberi di scegliere: i figli minorenni di comunità etniche e culturali con tradizioni coercitive. I casi “Saman”
Vi sono comunità etniche migrate nel nostro Paese che conservano tradizioni cultural-religiose per le quali la coercizioni nella sfera dell’esercizio dei diritti personalissimi dei figli non solo è tollerata, ma costituisce anzi un dovere socialmente sentito e imposto, da conservarsi e difendersi anche come simbolo di identità. Anche queste sono forme di violenza espressamente considerate dalla Convenzione di Istanbul: matrimoni combinati e precoci, mutilazioni genitali, interruzioni volontarie della gravidanza imposte.
I giovani che migrano con le loro famiglie nel nostro Paese e che entrano in contatto con la nostra cultura tentano talvolta di ribellarsi alle regole imposte dalla loro comunità di appartenenza, volendosene distanziare: ma non viene lasciata loro libertà di scelta. La cronaca riporta vicende drammatiche, quali quella di Saman, ormai scomparsa da mesi (si sospetta uccisa uccisa dai parenti, poi precipitosamente rientrati nel loro Paese di origine, il Pakistan), dopo aver rifiutato il matrimonio combinato. Altri casi meno noti riguardano violenze sessuali, fisiche, psicologiche inferte ai figli minorenni: spesso in questi casi non vi sono rilevatori sociali perché bambini e ragazzi sono letteralmente sommersi dalle mura di incomunicabilità del cerchio familiare e sociale anche per le insormontabili barriere linguistiche.
Questi minorenni non sempre frequentano le scuole e spesso sono segregati a casa. Se femmine, costrette a “servire” padre e altri lavoratori della stessa comunità occupandosi per ore della casa in cui vivono assiepati e dovendo spesso anche soddisfare i loro appetiti sessuali. Quando non sono sfruttati per ore e ore di lavoro (ovviamente nero) in pseudo laboratori insalubri in scantinati delle grandi città o nei campi. Non vi sono molti legami con il nostro mondo sociale, e si tratta di fenomenologie che rimangono spesso sommerse. Ma anche quando questi ragazzi riescono a ribellarsi e a denunciare, la soluzione per proteggerli è allontanarli, interrompendo ogni rapporto con la famiglia di origine, inserendoli in casa famiglia e limitando fortemente la loro libertà personale per evitare che, essendo rintracciati, possano essere vittime di violenza punitiva della loro disobbedienza ai genitori e alle regole della comunità. La limitazione della libertà personale che soffrono, senza nessuna mediazione tra una cultura e l’altra (forse servirebbero nuove figure professionali che potessero integrare conoscenze antropologiche, pedagogiche, psicologiche e sociologiche con capacità di mediazione culturale che siano veicolo tra una cultura e l’altra), finiscono con lo stritolarli tra i due sistemi valoriali, avvertiti in fondo come illibertari entrambi e incapaci di tutelarli. Hanno anche spesso timore per il momento in cui arriverà la maggiore età, e non saranno più tutelati ed esposti alla vendetta del loro sistema culturale, ma non inseriti nel nostro. Per questi giovani -che risultano essere un numero crescente- non sembra sussistano interventi appropriati e misurati sul loro best interest. In definitiva sono ancora più fragili dei minori stranieri non accompagnati per i quai è previsto quantomeno un sistema di tutela a misura delle loro esigenze dalla c.d. Legge Zampa (l. 47/2017). Possono finire con essere trattati con psico-farmaci, per tranquillizzarli liberandoli dal senso di paura, impotenza, solitudine.
8. La sottovalutazione (o pretermissione) della violenza assistita
Particolare attenzione meritano i casi di violenza assistita, definita dal CISMAI (Coordinamento Italiano dei Servizi contro il Maltrattamento e l'Abuso dell'Infanzia) come “il fare esperienza da parte del/la bambino/a di qualsiasi forma di maltrattamento, compiuto attraverso atti di violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale ed economica, su figure di riferimento o su altre figure affettivamente significative adulti e minori”. Ha effetti gravi dal punto di vista fisico, cognitivo, comportamentale e sulle capacità di socializzazione dei bambini e degli adolescenti[5]. Non si tratta di definizione giuridica, ma esperienziale. E il primo tema è proprio questo.
La Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, adottata a Istanbul nel 2011 ed entrata in vigore il 1 agosto 2014, pur non definendo tale fenomeno, lo considera richiedendo che vengano predisposti servizi di supporto specializzati per le donne vittime di violenza e i loro bambini (art. 22); prevede all’art. 26 che le misure di prevenzione riguardino anche i bambini testimoni di violenza; all’art. 13 richiede campagne di sensibilizzazione. Ma, soprattutto, all’art. 31 obbliga gli Stati parti a prendere in considerazione gli episodi di violenza che abbiano coinvolto minori nel disciplinare affidamento, collocamento e diritto di visita da parte del genitore violento.
Nonostante ciò, la violenza assistita è fenomeno più che sottovalutato: piuttosto non considerato sia nei procedimenti civili che riguardano la relazione di coppia, spesso nei procedimenti penali promossi dal genitore vittima diretta di violenza, sia nei procedimenti minorili.
La violenza domestica infatti viene derubricata (e liquidata quasi con insofferenza dai giudici), quasi degradata, a conflittualità di coppia, con conseguenze di vittimizzazione secondaria delle vittime.
Si tratta invece di fenomeni completamente diversi. Nell’articolo recentemente pubblicato per GiustiziaInsieme[6], Nella Ciardo riporta la scaletta di indici sintomatici identificativi dell’uno o dell’altro fenomeno: “la conflittualità presuppone sempre una situazione interpersonale basata su posizioni di forza (economica, sociale, relazionale, culturale) simmetriche. L’assenza di simmetria determina uno squilibrio di relazione e, quindi, in presenza di violenza non si può parlare di conflitto. Non si può confondere il conflitto con l’azione/reazione personale anche giudiziaria della parte che rivendica tutela e che si trovi in una situazione di squilibrio” [7].
Nei casi procedimenti civili di crisi di coppia con elementi di violenza domestica e di genere, anche con inizio di prova già in atti, in forza di tale errati pregiudizio e banalizzazione, viene così imposto di default al genitore-vittima l’affidamento condiviso, e cioè la condivisione delle scelte con l’altro autore di violenza. Ciò comporta evidentemente vittimizzazione secondaria per il genitore vittima di violenza, costretta a concordare con l’autore le scelte fondamentali per il figlio che sostanzialmente non riescono ad essere assunte, con proliferare poi di ulteriori sub procedimenti quasi per ogni aspetto della vita del figlio - sportiva, di istruzione, ludica, sanitaria - e il proliferare di figure endo ed extraprocessuali: curatore speciale, coordinatore genitoriale, operatori socio-psico-sanitari, educatori) che viene in qualche modo paralizzata. Ma vi sono anche altri aspetti che meritano attenzione. E’ possibile che il figlio minorenne che ha assistito ad atti di violenza, nei confronti del genitore con il quale convive prevalentemente, rifiuti il genitore autore di violenza, o lo tema ed espliciti tale rifiuto nel suo “ascolto” processuale. Ma tutto ciò viene troppo spesso considerato aprioristicamente rifiuto non autentico ma condizionato dal genitore vittima di violenza che, vittimizzato ancora una volta in più, viene qualificato come “malevolo” o “alienante”, senza particolare attenzione alla storia concreta.
Al riguardo è necessario richiamare il "Rapporto sulla violenza di genere e domestica nella realtà giudiziaria", approvata dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere nella seduta del 17 giugno 2021 https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/1300287.pdf. Si legge nella Relazione: “…Complessivamente, l’analisi ha evidenziato una sostanziale invisibilità della violenza di genere e domestica nei tribunali civili, nei quali la situazione appare più critica e arretrata rispetto a quella emersa nelle procure. Elementi positivi si affiancano a elementi negativi, ma sono questi ultimi, nel complesso, a pesare di più”.
Anche di tali situazioni si occupa la l. 206/2021, parte nella delega al Governo, parte nelle norme immediatamente precettive, considerando in particolare il requisito della “comprovata esperienza professionale” nella violenza per l’ingresso nell’albo dei CTU e modificando di conseguenza l’art. 15 delle disp. att. c.p.c. nonchè stabilendo una serie di norme a tutela di vittime di violenza e dei loro figli.
Tuttavia deve modificarsi l’approccio culturale alla violenza domestica e di genere e in particolare deve essere stigmatizzato lo stereotipo che la mistifica come conflittualità. E’ infatti normale ed aberrante che anche in presenza di inizi di prove sulla violenza, i giudici in sede civile non li considerino, attendendo la condanna penale che sopravviene dopo anni e sottoponendo le vittime di violenza a rapporti continuativi con l’autore di violenza, quaificando anche loro come conflittuali se rifiutano la mediazione o si dichiarano contrarie all’affidamento condiviso (peraltro in coerenza con quanto previsto dalla ricordata Convenzione di Istanbul). E’ aberrrante che dei comportamenti violenti non si tenga conto ai fini dell’idoneità genitoriale che ha come contenuto precipuo il diritto/dovere di educare disciplinato dall’art. 29 della Convenzione ONU sui Diritti del fanciullo: secondo tale norma uno dei contenuti è il rispetto dell’altro genitore. Nonostante ciò non sono a conoscenza di provvedimenti che rimandino a tale contenuto espressamente ravvisando difetto di idoneità genitoriale sotto il profilo educativo negli autori di violenza. È aberrante che il figlio che rifiuta il genitore violento sia costretto a frequentarlo, senza che il primo abbia effettuato un reale percorso di revvedimento. Ovviamente chiedersi i motivi del triste primato dei femminicidi in Italia di fronte a tali bias giudiziari diventa un inutile esercizio retorico.
9. Il rifiuto immotivato dell’altro genitore e il peso da attribuire all’opinione della persona di età minore
L’Italia ha collezionato un “buon numero” di condanne dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo nei casi in cui il figlio minorenne rifiuti immotivatamente il genitore non convivente. Si tratta di solito di situazioni in cui i genitori hanno stili valoriali, di vita ed educativi profondamente diversi, e il minorenne - sottoposto a un conflitto permanente di lealtà - si allea per fragilità con il genitore con il quale convive il quale da parte sua ritiene l’altro nocivo per il figlio come lo è stato per se stesso. L’obbligo positivo di ricongiungimento che incombe sullo Stato, infatti, non è soddisfatto dalla sola adozione da parte delle Autorità nazionali (giudici, servizi alla persona, altri organismi coinvolti) di misure automatiche e stereotipate che risultino inidonee ad evitare il consolidarsi di una situazione di separazione di fatto irreparabilmente pregiudizievole per la relazione figlio-genitore, generata talvolta anche dall’inosservanza delle decisioni giudiziarie da parte dei servizi alla persona coinvolti nel procedimento. L’inutile decorso del tempo può avere infatti conseguenze irrimediabili sulle relazioni tra il figlio di età minore ed il genitore non convivente lasciando emergere e poi consolidare situazioni di rifiuto che divengono irreparabili. In questo quadro di principi si sono susseguite numerose sentenze. Numerose le condanne all’Italia [8] nelle quali si ripete il refrain che il nostro Paese ha attuato, spesso anche con lentezza e inefficienza, misure stereotipate. In effetti in questi casi i provvedimenti prevedono, circolarmente: affidamento ai servizi sociali con monitoraggio da parte degli stessi, incontri in spazio neutro con il genitore rifiutato, psicoterapia per il figlio “riottoso o riluttante” (che però rimanendo con il genitore che lo condiziona per il resto del tempo non ne consegue benefici), talvolta allontanamento dal genitore convivente e collocamento in una situazione di neutralità in cui il figlio possa riacquistare la libertà affettiva.
Anche di questi casi si occupa la l. 206/2021, nella legge delega, prevedendo al comma 23, lett. B) (e appare significativo che con tale previsione si aprano i princìpi di delega per l’introduzione del rito) che «il giudice, personalmente, sentito il minore e assunta ogni informazione ritenuta necessaria, accerta con urgenza le cause del rifiuto ed assume i provvedimenti nel superiore interesse del minore, considerando ai fini della determinazione dell'affidamento dei figli e degli incontri con i figli eventuali episodi di violenza. In ogni caso, garantire che gli eventuali incontri tra i genitori e il figlio avvengano, se necessario, con l'accompagnamento dei servizi sociali e non compromettano la sicurezza della vittima».Poiché il figlio minorenne esprime autenticamente sentimenti di rifiuto per il genitore non convivente, il quale però è stato ritenuto adeguato sul piano dell’idoneità genitoriale, motivo per cui le Autorità nazionali debbono ripristinare il rapporto, diventa essenziale comprendere quale peso attribuire alla sua opinione. Ancora una volta, come indica la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sarà l’attenta analisi del caso concreto a indicare nel complesso gioco delle relazioni della triade genitori-figlio, se il rifiuto sia autentico e insuperabile, per caratteristiche del genitore rifiutato, o si debbano trovare rimedi perché invece è una suggestione da cui liberare la persona di età minore per restituirle piena libertà affettiva.
Concludendo questa riflessione sulla soggettività dei minori e il loro allontanamento dal nucleo familiare, mi sembra che l’attuale situazione nel nostro Paese permetta di fare una distinzione.
Sul piano generale e astratto, l’elaborazione giurisprudenziale e la produzione normativa, nel riconoscere soggettività piena alle persone di età minore anche nelle dinamiche familiari che possono vedere i loro diritti non rispettati e non tutelati dai genitori, individuano una serie di possibili interventi legittimi, compreso l’allontanamento che ne costituisce estrema ratio se misura temporanea accompagnata da provvedimenti doverosamente volti al ricongiungimento del figlio con i genitori e al loro sostegno, salvo che l’idoneità di questi si dimostri irrecuperabile anche con tali interventi; la normativa, grazie anche agli interventi di Riforma di cui alla l. 206/2021, si sta adeguando con opportune previsioni per quel che concerne istituti processuali e varie fattispecie.
Diversa, invece, la situazione sul piano concreto in sede applicativa Non sempre infatti si rileva una preparazione adeguata di tutti gli addetti ai lavori (operatori socio-sanitari, magistrati, avvocati) per la corretta individuazione degli elementi predittivi che rendano necessario l’allontanamento così come di quelli impeditivi del successivo ricongiungimento nell’interesse della persona di età minore. Non risulta infrequente che provvedimenti a tutela del diritto fondamentale della persona di età minore al miglior sviluppo psico-fisico non siano assunti; oppure che siano assunti in forza di un’analisi generica e banalizzante, priva di attenzione a quella concreta persona di età minore, alle effettive dinamiche relazionali, alle risorse in essere, superficiale e quindi errata.
Mi sembra anche che sia da sottolineare come non sussistano strumenti idonei per le categorie di persone di età minore più vulnerabili, sia per assenza di previsioni normative sia per assenza di adeguata formazione, come ad esempio i minorenni di etnie stranieri che si ribellano al codice d’onore delle loro comunità in contrasto con il nostro stato di diritto
Ringrazio per l’opportunità offertami di poter portare all’attenzione di codesto Ill.mo Comitato alcune riflessioni e, rimanendo ovviamente disponibile ad ogni eventuale integrazione, invio cordiali saluti.
* Contributo per i lavori del Comitato Nazionale di Bioetica - Presidenza del Consiglio dei Ministri, 27 gennaio 2022.
**Avvocato in Roma, Presidente di CAMMINO-Camera Nazionale Avvocati per la persona, le relazioni familiari e i minorenni www.cammino.org
[1] Mi permetto di rimandare al mio recente scritto su GiustiziaInsieme nel quale ho cercato di ricostruire il quadro delle condanne contro Italia riguardanti la violazione dell’art. 8 Conv. EDU in ambito minorile: “Area persona, relazioni familiari e minorenni: la riforma Cartabia risponde alle necessità di tutela effettiva”.
[2] Così il Commento del Comitato ONU all’art. 3 della Convenzione ONU sui diritti del fanciullo, The right of the child to have his or her best interests taken as a primary consideration, 29 maggio 2013, https://gruppocrc.net/documento/commenti-generali-del-comitato-onu/
[3] Colmando la lacuna dell’art. 13 disp att. c.p.c. e individuando tra le professionalità l’inserimento anche delle seguenti discipline:“; 7) della neuropsichiatria infantile, della psicologia dell’et evolutiva e della psicologia giuridica o forense”. Inoltre l’art. 15 sempre delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile, disciplina l’iscrizione all’albo dei Consulenti Tecnici, prevedendo i requisiti per le specifiche aree di competenza tecnica. L’art. 1, comma 34 della l. 206/2021 inserisce un secondo comma, riferito alle categorie inserite con il n. 7 del precedente art. 13 (neuropsichiatria infantile, psicologia dell’età evolutiva e psicologia la speciale competenza tecnica necessaria per essere inseriti
nell’albo dei CTU, sussista qualora ricorrano, alternativamente o congiuntamente, i seguenti requisiti:
1) comprovata esperienza professionale in materia di violenza domestica e nei confronti di minori;
2) possesso di adeguati titoli di specializzazione o approfondimento postuniversitari in psichiatria,
psicoterapia, psicologia dell’et evolutiva o psicologia giuridica o forense, purch iscritti da almeno
cinque anni nei rispettivi albi professionali;
3) aver svolto per almeno cinque anni attività clinica con minori presso strutture pubbliche o private”.
[4] La legge delega se ne occupa:
- art. 1, comma 23, lett. B: il giudice deve nominare il CTU con provvedimento motivato, indicando gli accertamenti da svolgere; il CTU deve attenersi ai protocolli e alle metodologie consolidate, senza ulteriori indagini
- Art. 1, comma 23, lett. z) sub dd): sar prevista un’autonoma regolamentazione della CTU,anche con inserimento nell’albo dei CTU di specifiche competenze;
- Art. 1, comma 23, lett. z) sub ee): il giudice può avvalersi di un iscritto all’albo dei CTU per essere coadiuvato per determinati interventi sul nucleo familiare per superare i conflitti tra le parti, fornire ausilio per i minori e per la ripresa o il miglioramento delle relazioni genitori/figli;
- Art. 1, comma 23, lett. z, sub gg), nn. 1 e 2: prevede varie incompatibilità per i CTU.
[5] https://www.savethechildren.it/blog-notizie/cos-e-la-violenza-assistita-e-quali-le-conseguenze-sui-bambini
Impatto sullo sviluppo fisico: il bambino, soprattutto in tenera età, sottoposto a forte stress e violenza psicologica può manifestare deficit nella crescita staturo ponderale e ritardi nello sviluppo psico motorio e deficit visivi.
Impatto sullo sviluppo cognitivo: l’esposizione alla violenza può danneggiare lo sviluppo neuro cognitivo del bambino con effetti negativi sull’autostima, sulla capacità di empatia e sulle competenze intellettive.
Impatto sul comportamento: la paura costante, il senso di colpa nel sentirsi in un qualche modo privilegiato di non essere la vittima diretta della violenza, la tristezza e la rabbia dovute al senso d’impotenza e all’incapacità di reagire sono conseguenze che hanno un impatto sul bambino esposto a violenza. Inoltre possono insorgere fenomeni quali l’ansia, una maggiore impulsività, l’alienazione e la difficoltà di concentrazione. Sul lungo periodo tra gli effetti registrati ci sono casi più o meno gravi di depressione, tendenze suicide, disturbi del sonno e disordini nell’alimentazione.
Impatto sulle capacità di socializzazione: subire violenza assistita influenza le capacità dei più piccoli di stringere e mantenere relazioni sociali.
Cfr. anche United Nations Children’s Fund, Hidden in Plain Sight: A statistical analysis of violence against children, UNICEF, New York, 2014,
[6] Sebastiana Ciardo, La violenza sulle donne basasta sul genere: riflessioni-rimedi-prassi condivise. Nuove forme di tutela. GiustiziaInsieme, sabato 22 gennaio 2022, https://www.giustiziainsieme.it/it/attualita-2/2098-la-violenza-sulle-donne-basata-sul-genere-riflessioni-rimedi-prassi-condivise-e-nuove-forme-di-tutela
[7] Prosegue L’Autrice: “Indici sintomatici di una violenza, che si consuma spesso all’interno del nucleo familiare, sono: gestione tirannica delle risorse economica; ludopatia, alcooldipendenza e tossicodipendenza; assenza di responsabilizzazione e di collaborazione all’interno della famiglia; denigrazione e svilimento nelle scelte familiari; isolamento dal mondo sociale ed affettivo (familiari, amici); gelosia eccessiva; rifiuto alla richiesta di separazione; la persona offesa non si presenta a rendere dichiarazioni anche se citata, dopo avere denunciato”
[8] Piazzi c. Italia, ric. 36168/09, sent. 02/11/2010 ; Lombardo c. Italia, ric. 25704/11, sent. 29.01.2013 ; Bondavalli c. Italia, ric. 35532/12, sent. 17/11/2015 ; Strumia c. Italia, ric. 53377/13, sent. 23.06.2016 : Improta c. Italia, ric. 66396/14, sent. 04.05.2017 ; Santilli c. Italia, ric. 51930/10, sent. 17.12.2013 ; Giorgioni c. Italia, ric. 43299/12, sent. 15.09.2016 : Endrizzi c. Italia, ric. 71660/14, sent. 23.03.2017 ; Luzi c. Italia, ric. 48322/17, sent. 5.12.2019 : A.V. c. Italia: ric. 36936/18, sent. 10.12.2020 . Nell’ultimo anno: R.B. e M. c. Italia, ric. 41382/19, sent. 22.04.2021; A.T. c. Italia, ric. 40910/19, sent. 24.06.2021; T.M. c. Italia, ric. 29786/19, sent. 7.10.2021.
Mani pulite trenta anni dopo: un’impresa giudiziaria straordinaria; ma non esemplare*
di Giovanni Fiandaca
Sommario: I. Premessa. - II. Sul contesto storico-politico dei primi anni '90. - III. Contrasto della corruzione sistemica e sovraesposizione politica della giustizia penale. - IV. Ventate di populismo politico e riflessi di populismo giudiziario. - V. Sostegno popolare tra aspirazioni di giustizia e vendetta sociale. - VI. Ampio ma acritico supporto mediatico. - VII. Fenomenologie corruttive prima e dopo Mani pulite: sintetico quadro di insieme. - VIII. Limiti della giustizia penale come strumento di contrasto della corruzione sistemica. - IX. Rilievi di diritto penale sostanziale e processuale. - X. La magistratura penale tra centralità storico-politica e problema di identità. - XI. Esigenza di promuovere dibattiti pubblici sul ruolo della magistratura nella realtà attuale e sul modello di magistrato adeguato al tempo presente.
I. Premessa
Una premessa sembra scontata. A trent’anni ormai di distanza, dovremmo essere a maggior ragione capaci di guardare a Mani Pulite con un atteggiamento mentale egualmente lontano dalla esaltazione celebrativa e dalla critica demolitrice preconcetta. Quella che è stata definita una “rivoluzione giudiziaria” non è stata una impresa giurisdizionale non solo straordinaria, ma anche così esemplare da additare a modello di riferimento meritevole di essere replicato, e non è stata neppure il risultato di un golpe o di una congiura ad opera di “poteri forti” o di settori politici in combutta con parte della magistratura. È stata piuttosto una impresa complessa per la molteplicità dei fattori anche di natura extragiudiziaria che la hanno influenzata, e altresì non priva di aspetti ambivalenti e persino paradossali. Insomma, l’esperienza complessiva di Mani Pulite presenta sia luci che ombre; e la valutazione circa la rispettiva prevalenza delle une o delle altre finisce con l’essere, inevitabilmente, condizionata dalla soggettiva angolazione prospettica e dall’orientamento politico di chi la effettua.
Proprio in considerazione della sua variegata complessità, Mani Pulite non può essere analizzata con le sole lenti del giurista. Non secondario rilevo assumono, infatti, profili di rilevanza sia storiografica, sia economica, socio-criminologica, politologica e financo psicologica. Ne deriva che anche uno studioso di diritto penale che sia interessato a rivisitare Mani Pulite nell’insieme delle sue peculiarità caratterizzanti, non può fare a meno di toccare o lambire territori disciplinari che trascendono la sua stretta competenza.
II. Sul contesto storico-politico dei primi anni '90
Cominciando dal generale contesto storico-politico, è noto che la situazione italiana dei primi anni Novanta dello scorso secolo era caratterizzata dall’esistenza di un sistema partitico già in grave crisi di legittimazione e di funzionamento e dalla ricerca di nuovi equilibri che però faticavano a manifestarsi. A determinare questa obiettiva condizione di incertezza e confusa transizione concorreva una pluralità di fattori di natura sia interna, sia internazionale (ci si riferisce per un verso all’effetto politicamente destabilizzante prodotto dalla caduta del muro di Berlino e dalla fine della “guerra fredda” e, per altro verso, alle ricadute della globalizzazione e dei rigidi paletti economico-finanziari imposti dal Trattato di Maastricht) che la storiografia ha messo in evidenza sia pure con approcci ricostruttivi variamente articolati. Ma vi è una tendenziale convergenza di vedute, tra gli storici, nel riconnettere le cause della grave crisi di sistema dei primi del Novanta a fattori politico-economici di debolezza e di stallo nello sviluppo risalenti agli anni Settanta e Ottanta, e progressivamente aggravatisi. Tra questi fattori, la storiografia contemporanea inserisce la risalente presenza di fenomeni corruttivi, l’emersione di alcune precedenti Tangentopoli e la sempre più insistita, negli anni successivi, tematizzazione della “questione morale”, impugnata come arma di battaglia da parte del Pci (poi Pds) e di forze politiche anche di destra (come il MSI), nonché di nuovi movimenti intenzionati a combattere i partiti di governo sempre più delegittimati[1]. Ma in questa denuncia della corruzione diffusa e nella lotta contro il degrado morale non erano soltanto impegnati alcuni partiti e movimenti: svolgevano un’azione di supporto anche settori (specie di orientamento progressista) del mondo intellettuale, del giornalismo scritto e parlato ed esponenti della parte della magistratura politicamente più impegnata (come Magistratura democratica), che però finivano così con l’accreditare una lettura orientata in senso forse troppo schematicamente moralistico di una crisi generale dovuta invece a un insieme complesso di cause eterogenee strettamente intrecciate[2].
Ancorché questa complessità multicausale dovesse mettere in guardia dall’attribuire all’azione giudiziaria un ruolo decisivo nel promuovere il rinnovamento politico e la moralizzazione del paese, il Pci divenuto Pds e le altre forze interessate a rimpiazzare – secondo una retorica allora in voga - il governo dei corrotti col “governo degli onesti” fornirono un pieno sostegno a Mani Pulite confidando, per calcolo anche opportunistico, che l’attività repressiva potesse favorire quell’auspicato rinnovamento che non si era capaci di promuovere per via politica. E questo ampio appoggio non venne meno neppure di fronte all’emergere, all’interno dello stesso orizzonte politico di sinistra, di dubbi e riserve sulla legittimità o correttezza di certe modalità operative del pool milanese, o di preoccupazioni sul possibile sconfinamento della giurisdizione penale dai suoi limiti istituzionali di competenza, essendo infine prevalsa – peraltro anche in ampi settori del mondo giornalistico e del ceto intellettuale – la convinzione che “il fine giustifica i mezzi”: cioè che l’obiettivo di risanare la vita politica rendesse tollerabile una guerra giudiziaria difficilmente compatibile con i principi del garantismo penale[3]. Ma la cultura garantista, in Italia, non è mai stata dominante fuori dai recenti della dottrina giuridica in particolare accademica.
È pur vero, d’altra parte, che non tutte le voci allora disposte a giustificare – per radicalismo etico-politico o machiavellico calcolo - certi eccessi e straripamenti giudiziari come costi da sopportare in vista dell’auspicato rinnovamento, hanno ribadito questo stesso punto di vista ormai a vent’anni o più di distanza: piuttosto, è andata aumentando la presa d’atto che è stato sbagliato confidare troppo nella funzione salvifica della magistratura, imprudente assecondare il giustizialismo popolare e miope non prevedere che gli effetti di un terremoto giudiziario sull’evoluzione del sistema politico avrebbero potuto essere più dannosi che vantaggiosi[4].
Comunque la si giudici oggi, è storiograficamente pressoché pacifico che l’impresa di Mani Pulite ha dato un contributo decisivo alla uscita di scena dei partiti sino a quel momento al governo del paese. Ma questo contributo è stato con-causale, dal momento che nella catena eziologica di questa scomparsa bisogna tenere conto della presenza di altre concause: tra queste, è da porre in risalto l’incapacità dei dirigenti e degli esponenti dei partiti maggiormente coinvolti nelle indagini di reagire con atti politici, il loro annichilimento psicologico e morale, la loro soggezione passiva e spaventata agli umori antipartitici e giustizialisti della piazza, a loro volta alimentati dalla campagna mediatica di fiancheggiamento dell’azione repressiva; un quasi- suicidio politico, insomma, non impedito o agevolato da quei versanti partitici che – come nel caso del Pds – speravano di trarre vantaggio dal crollo dei vecchi partiti delegittimati[5]. Non manca anche di recente, però, chi sul piano causale tende altresì ad attribuire un non trascurabile rilevo al (supposto) “obiettivo ultimo” dei magistrati milanesi di occupare “spazi politici”, obiettivo che risulterebbe – tra l’altro – confermato dai numerosi passaggi successivi dalle file della magistratura alle cariche politiche nei partiti e in Parlamento, in particolare nelle file della sinistra[6]. Senonché sembra più verosimile - come si rileverà anche appresso - che i magistrati del pool, piuttosto che perseguire il precostituito obiettivo finale di assumere in proprio cariche politiche, fossero animati dall’intenzione lato sensu politica di ingaggiare una guerra giudiziaria contro un sistema corrotto.
III. Contrasto della corruzione sistemica e sovraesposizione politica della giustizia penale
Rispetto al problematico rapporto tra politica e giurisdizione, un nodo essenziale era stato segnalato già all’inizio del 1993 dall’allora procuratore generale della Cassazione Vittorio Sgroi: il quale rilevò che il contrasto della corruzione sistemica faceva assumere alla magistratura – cito tra virgolette – “un ruolo che è obiettivamente decisivo nella vita del Paese e che costituisce l’avvio di improprie supplenze (…) ha caricato di una responsabilità anomala la magistratura fino a rischiare di stravolgerne la collocazione istituzionale”[7]. Ma, in verità, non si è trattato soltanto di un rischio. L’onestà intellettuale impone di riconoscere che la sovraesposizione politica del potere giudiziario connessa alla lotta alla corruzione sistemica, più che in termini di mero rischio, si è verificata come dato di fatto difficilmente contestabile (e ciò anche a prescindere dall’eventuale intenzione soggettiva dei singoli magistrati impegnati nell’attività investigativo-repressiva). A conferire una valenza oggettivamente politica all’azione giudiziaria era proprio il carattere sistemico della corruzione politico-amministrativa e il fatto, conseguente, che sul banco degli imputati finiva quasi un intero ceto politico in concorso con un ceto imprenditoriale colluso. E però sarebbe ingenuo non considerare più che verosimile una aggiuntiva volontà soggettiva dei magistrati milanesi di finalizzare le indagini anche ad obiettivi più generali di rinnovamento politico e moralizzazione collettiva, in sé meritori ma di problematica compatibilità con gli scopi istituzionali della giurisdizione penale[8]. Certo, segnava un grande passo avanti – ed era perciò da salutare come una conquista in termini di civiltà e moralità giuridica – il fatto che il magistero punitivo si mostrasse finalmente capace di processare e sanzionare una macro-criminalità sistemica, così interrompendo anche simbolicamente una tradizione di prevalente e compiacente impunità di cui avevano beneficiato il ceto politico e il mondo economico-imprenditoriale (anche se a questa affermazione di giustizia e legalità egualitarie si accompagnavano popolari umori ‘giustizialisti’ di meno nobile sorgente). Ma questo importante passo avanti comportava, proprio per il sovrappiù di politicità connesso ad una repressione su vasta scala riferita al sistema politico-partitico, rilevanti costi sotto il profilo dell’equilibrio costituzionale complessivo; nel contempo, si alimentava nell’opinione pubblica (e in particolare nei settori più entusiasti del ‘repulisti’ giudiziario) l’illusione che la giustizia punitiva potesse fungere da strumento idoneo a estirpare la corruzione diffusa.
A prescindere dal coefficiente di pregiudiziale simpatia o antipatia verso Mani Pulite, una cosa sembra fuori discussione: l’abbattimento finale per via giudiziaria del sistema dei partiti di governo della cosiddetta prima Repubblica ha rappresentato un evento molto drammatico e traumatico, produttivo di effetti di lunga durata rispetto a una ben nota patologia (soprattutto) italiana destinata a cronicizzarsi, cioè a quella sorta di grave nevrosi politico-istituzionale costituita dal conflitto tra politica e magistratura. Conflitto che ha – tra l’altro – fatto sì che una politica rimasta prevalentemente debole ha continuato a subire in varia forma un forte condizionamento inibente o oppositivo da parte del potere giudiziario, percependosi per di più – a torto o a ragione - come una specie di sorvegliata speciale quasi sotto controllo ricattatorio-ritorsivo, e comunque rivelandosi sino ad oggi incapace di riacquisire l’autorevolezza, la credibilità e il coraggio necessari per ripristinare rapporti di maggiore equilibrio istituzionale.
Eppure, non si può dire che la magistratura penale considerata nel suo insieme abbia, dopo i primi anni Novanta dello scorso secolo, durevolmente mantenuto un livello alto di legittimazione e consenso per importanza e continuità di azioni investigativo-repressive, professionalità, efficienza, rispetto dei principi di garanzia e capacità di elaborazione culturale. Piuttosto, sono andati progressivamente aumentando i casi di indagini avventate o spericolate destinate a esiti fallimentari, di proscioglimenti o assoluzioni spesso tardive di politici e amministratori pubblici sospettati troppo affrettatamente di condotte delittuose[9], come pure sono andati crescendo i fenomeni di improprio protagonismo sia mediatico che politico di alcuni esponenti della magistratura specie d’accusa . E, dal canto suo, l’associazionismo giudiziario si è articolato in gruppi associativi (cosiddette correnti) sempre più trasformatisi da luoghi di riflessione e orientamento culturale in strutture di potere operanti secondo una logica clientelare e metodi di tipo spartitorio. Ma vi è di più. Questa degenerazione funzionale si è anche manifestata in forme di maggiore gravità a causa di note vicende che hanno fatto emergere precostituite cordate politico-magistratuali finalizzate a orientare la scelta dei vertici di importanti uffici giudiziari e, financo, relazioni a carattere favoritistico sfocianti in scambi corruttivi[10]. Sicché, il fenomeno della corruzione non è risultato estraneo neppure a quella istituzione deputata a fronteggiarlo con le armi del diritto e del processo penale. Ciò a riprova del fatto che l’appartenenza all’ordine giudiziario di per sé non garantisce un superiore livello di moralità, e che l’esercizio della funzione di magistrato di per sé non giustifica o rende credibile la pretesa di moralizzare gli altri.
IV. Ventate di populismo politico e riflessi di populismo giudiziario
Come non sono certo il primo a rilevare, l’esperienza di Mani Pulite si è intrecciata con e si è alimentata di pulsioni antipolitiche e ventate populiste riconducibili a movimenti e partiti (come la Lega o la Rete) espressivi della protesta contro l’establishment politico di allora, che essa ha dal canto suo contribuito a interpretare e rafforzare in guise tali da confondere peraltro il confine tra lotta politica e lotta giudiziaria. Se non allo stesso modo e nella stessa misura tutti i componenti principali del pool, la sua figura più popolare e al tempo stesso più discutibile, cioè Antonio Di Pietro, col suo inedito e ossimorico stile di magistrato (una sorta di grande poliziotto un po' duro un po' comprensivo[11]), le sue caratteristiche di personalità (un curioso incrocio tra un Robespierre e un “arcitaliano”[12]) e la sua sicura vocazione populista mediaticamente amplificata ha fornito un rilevante contributo alla crescita del populismo politico nel nostro paese, nonché all’affermarsi di quel fenomeno che è stato anche da me etichettato come populismo giudiziario, in seguito impersonatosi in altri pubblici ministeri-star più o meno emuli del loro predecessore molisano-milanese: pubblici accusatori accomunati cioè dalla pretesa di assurgere ad autentici interpreti dei reali interessi e delle aspettative di giustizia del popolo, al di là della mediazione formale della legge e altresì in una logica di supplenza o addirittura di manifesta contrapposizione al potere politico ufficiale, così finendo col trarre (piuttosto che dal vincolo alla legge) dal consenso e dal sostegno popolare la principale fonte di legittimazione sostanziale del proprio operato[13].
Che un populismo giudiziario così inteso risulti irrimediabilmente incompatibile col nostro modello costituzionale di giurisdizione penale, è una conclusione che non richiede particolare dimostrazione.
V. Sostegno popolare tra aspirazioni di giustizia e vendetta sociale
Respingere il populismo giudiziario non equivale a criticare ogni manifestazione di condivisione e sostegno che l’azione investigativo-repressiva può ricevere dall’opinione pubblica o da alcuni suoi settori. Anche da questo punto di vista Mani Pulite è stata un’esperienza significativa che offre diversi elementi di riflessione.
Com’è noto, specie nelle fasi iniziali dell’inchiesta l’azione dei magistrati è stata incoraggiata e sostenuta da un ampio consenso sociale, tributato anche nei modi di un’accesa tifoseria. Questo sostegno esterno ha indubbiamente funto da potente fattore di incoraggiamento di un controllo penale esteso a livelli politici ed economici prima di allora mai attinti e ha rafforzato, nei magistrati che procedevano alle indagini, l‘orgogliosa consapevolezza di soddisfare istanze popolari di giustizia per lungo tempo eluse. Ma la medaglia aveva un rovescio. Nel senso che l’appoggio del pubblico non rispecchiava soltanto sentimenti nobili ispirati a valori di giustizia e legalità da affermare o ripristinare finalmente in concreto. Nel sostegno non di rado entusiastico all’attività repressiva si è anche manifestato un atteggiamento meno nobile e più irrazionalmente emotivo, vale a dire “un tumultuoso senso di rivalsa nei confronti dei potenti, un compiacimento alla vista di politici di spicco abbattuti dai loro piedistalli, condotti in giudizio per rispondere di imputazioni personali e sottoposti alle medesime sofferenze e disagi solitamente patiti dalla ‘gente comune’”[14]. Da qui una forte riemersione di quelle sotterranee componenti pulsionali del condannare e punire che, in dispregio delle finalità razionali della giustizia punitiva, finiscono col restituire alla stessa punizione statale una primordiale e irrazionale funzione vendicativo-ritorsiva, decisamente contrastante col principio costituzionale di rieducazione (a sua volta, peraltro, non privo di aspetti problematici in rapporto ad autori di reato riconducibili alla categoria dei ‘colletti bianchi’).
È anche vero che il consenso esterno era destinato ad affievolirsi progressivamente per effetto di diversi fattori causali. Tra questi, da un lato l’estendersi delle indagini a soggetti appartenenti a cerchie sociali di più modesto livello, con la conseguenza che il controllo penale finiva con l’ essere percepito come potenzialmente minaccioso (piuttosto che benvenuto) da parte di cittadini comuni appunto non immuni da relazioni di malaffare; dall’altro, il diffondersi tra la gente del dubbio – alimentato anche in maniera tutt’altro che disinteressata specie da alcuni imputati ‘eccellenti’ – che il pool milanese orientasse la sua azione giudiziaria sulla base di simpatie politiche o comunque perseguisse fini politici. Dubbio, questo, non risolvibile con certezza nel senso della fondatezza o dell’infondatezza, e perciò generatore di diffidenza e sfiducia quantomeno in quella parte del pubblico che risultava aliena da forme di condivisione fideistica dell’operato di Di Pietro e dei colleghi che lo affiancavano.
Comunque sia, è forse superfluo aggiungere che il rapporto tra pubblico esterno e giustizia penale è sempre problematico. Vale la pena in proposito ricordare quanto Leonardo Sciascia scrisse ormai non pochi anni fa: “Insomma, quando un uomo sceglie la professione di giudicare i propri simili, deve pur sempre rassegnarsi al paradosso – doloroso per quanto sia - che non può essere giudice tenendo conto dell’opinione pubblica, ma nemmeno non tenendone conto”[15]. Meglio non si potrebbe dire! Sta proprio qui uno dei nodi più problematici e tormentosi della funzione giudiziaria, su cui ha posto di recente l’accento anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella: rendere giustizia in modo “comprensibile” per il pubblico, ma senza al tempo stesso assumere le aspettative popolari o delle stesse vittime a criterio principale di decisione. Per contemperare in modo equilibrato comprensibilità e indipendenza di giudizio, non sono ovviamente precostituibili principi o regole generali validi una volta per tutte: occorre uno specifico talento, che trascende le competenze tecnico-giuridiche e poggia in non piccola misura sulla sensibilità personale (ed è proprio questo il problema, non essendo questo tipo di sensibilità facilmente acquisibile attraverso i corsi di formazione professionale!).
VI. Ampio ma acritico supporto mediatico
All’appoggio dei cittadini in carne ed ossa ha corrisposto, sempre in particolare nelle prime fasi dello scoperchiamento del sistema della corruzione, un grande sostegno del giornalismo scritto e parlato. Il ruolo determinante esercitato dai media, quale fattore in assenza del quale Mani Pulite non avrebbe potuto svilupparsi così come si è sviluppata, è emblematicamente confermato da un recente bel libro del giornalista Goffredo Buccini che ho avuto occasione di recensire sulle pagine del Foglio[16]. Il merito principale di questo libro – non soltanto a mio giudizio, ho motivo di supporre – consiste nell’avere sottoposto a lucida e coraggiosa revisione critica un’esperienza giovanile di lavoro giornalistico, vissuta da Buccini insieme ad un gruppo di giovani giornalisti a quel tempo appassionatamente propensi a fornire un sistematico supporto all’attività investigativa e ai suoi sviluppi, nella convinzione speranzosa che l’appoggio della stampa potesse aiutare i magistrati a portare avanti l’opera di pulizia e così contribuire al rinnovamento morale e politico del paese. Solo che questo pregiudiziale appoggio tendenzialmente incondizionato (motivato anche dalla comune formazione politica di sinistra del gruppo di giovani giornalisti in questione), come lo stesso Buccini oggi autocriticamente rileva, incideva negativamente sull’obiettività del lavoro giornalistico, facendo venir meno o riducendo quella vigilanza critica rigorosa che in teoria spetta alla stampa allo scopo di controllare l’operato degli stessi giudici e di denunciarne eventuali errori, eccessi o abusi.
Sempre sul versante del rapporto col sistema mediatico, si può aggiungere che Mani Pulite ha fortemente contribuito a quella mediatizzazione del processo penale, soprattutto per via televisiva, che ha determinato un duplice effetto - anche a mio giudizio - più negativo che positivo: da un lato, di duplicare il processo col rischio di far apparire secondario quello che si svolge nell’aula di tribunale; dall’altro, di rendere certi magistrati d’accusa sempre più simili a tribuni del popolo, che recitano ad un tempo in maniera confusiva ruoli giuridico-istituzionali e ruoli politico-mediatici. In particolare, poi, una famosa trasmissione televisiva come quella del processo Cusani ha mostrato come una ripresa mirata e ravvicinata delle reazioni, anche corporee ed emotive, delle persone interrogate possa diventare un impietoso “rituale di degradazione”, che moltiplica agli occhi del pubblico l‘effetto discreditante dello scenario penale[17]. Mi piace ricordare che contro il processo ripreso in tv si è espresso (proprio durante la stagione i Mani Pulite) un grande studioso della comunicazione come Umberto Eco, il quale arrivò estremisticamente a definire – in occasione della trasmissione del processo che vedeva imputato l’ex assessore Walter Armanini – la gogna mediatica un “attentato alla Costituzione”: “Questo tipo di gogna vale un ergastolo. È vero che in passato c’erano le pubbliche esecuzioni in piazza, ma proprio per questo noi ci riteniamo più civili dei nostri avi”[18].
Com’è noto, più in generale la prassi delle relazioni “incestuose” tra stampa e magistratura (in particolare d’accusa), sorretta dalla logica dello scambio di favori, è perdurata fino a tempi recenti con conseguenze negative su più piani, dal rispetto del principio della presunzione di non colpevolezza alla incentivazione del protagonismo pubblico e del “libertinaggio” esternante non solo dei pubblici ministeri ma persino di qualche magistrato giudicante. In proposito, mi limito a manifestare la mia condivisione di massima del decreto n. 188/2021 di recente emanato su impulso della Ministra Cartabia, che non costituisce né una “legge-bavaglio” né uno “sfregio alla Costituzione”, bensì un doveroso e opportuno (quantomeno) tentativo di promuovere un più corretto rapporto tra giustizia e informazione[19].
VII. Fenomenologie corruttive prima e dopo Mani pulite: sintetico quadro di insieme
Sono abbastanza note le forme di manifestazione del fenomeno corruttivo tipico di Tangentopoli intercettato dai magistrati di Mani Pulite. Per richiamarle, riporto la sintesi contenuta nel recente libro di Piercamillo Davigo rievocativo dell’esperienza di lavoro da lui vissuta un trentennio fa: “Il quadro complessivo emerso dalle indagini fornì la prova indiscutibile di un diffuso sistema di malaffare basato su un mix fra corruzione amministrativa accentrata e corruzione amministrativa decentrata, che coinvolgeva molti partiti politici e le principali imprese italiane (…).
Sotto il primo profilo (quello della corruzione amministrativa accentrata), i principali partiti della maggioranza venivano finanziati illegalmente dalle più importanti imprese del paese, apparentemente senza un immediato rapporto sinallagmatico rispetto agli appalti pubblici, anche se molti dei soggetti che avevano pagato avevano precisato che i versamenti erano, comunque, collegati a determinate decisioni della pubblica amministrazione, di enti o di società a partecipazione pubblica, favorevoli alle imprese(…).
A livello locale (Regioni, Province e Comuni, con enti a questi collegati o con società partecipate) vi era un sistema di corruzione decentrato, con pagamento alle strutture locali dei partiti o a singoli esponenti di somme comunque rilevanti”[20].
Soltanto da parte dei tifosi più accesi e ingenui di Mani Pulite, ignari dei limiti di efficacia della sola repressione penale, si poteva sperare che una bufera giudiziaria potesse non soltanto abbattere l’illegale sistema di cui sopra, ma produrre anche duraturi effetti di sbarramento della corruzione nel nostro paese. È convincimento consolidato, suffragato da una grande mole di dati giudiziari e da qualche indagine socio-criminologica, che negli anni successivi la fenomenologia corruttiva - lungi dall’essersi esaurita o sensibilmente ridotta – sia piuttosto mutata nelle forme di manifestazione: nel senso che dopo Tangentopoli i partiti politici come tali hanno perduto centralità sia come organizzatori sia come beneficiari degli scambi corruttivi, mentre la corruzione è andata decentrandosi e privatizzandosi, cioè si è radicata in misura maggiore a livello locale e ha come finalità prevalenti l’arricchimento privato e il rafforzamento del potere personale; tuttavia, questo carattere più decentrato, diffuso e frammentato non comporta - secondo l’opinione di accreditati sociologi – una maggiore fragilità e occasionalità delle reti di relazione tra politici, funzionari pubblici e professionisti (nonché, specie nel Meridione, esponenti del crimine organizzato), essendo viceversa tali reti strutturate e risultando relativamente stabili[21]. Ammesso che questo quadro ricostruttivo risulti nel complesso sufficientemente fondato, si può anche pensare che le cose siano andate sotto certi aspetti peggiorando piuttosto che migliorando!
Si ripropone anche l’interrogativo se davvero da noi la corruzione sia maggiore che in altri paesi europei. In realtà, non è facile operare confronti affidabili. Di solito le statistiche disponibili fanno riferimento alla corruzione “percepita”, piuttosto che realmente accertata; per cui vi è il rischio che la percezione della maggiore o minore presenza del fenomeno sia influenzata dal livello della sua pubblicizzazione nei rispettivi paesi. In particolare, sulla presunzione che l’Italia sia tra i paesi più corrotti incidono senz’altro due principi caratterizzanti del suo ordinamento quali l’indipendenza della magistratura e l’obbligatorietà dell’azione penale, da cui derivano come effetto una maggiore quantità di indagini e di procedimenti penali (però, non di rado, sfocianti in archiviazioni o assoluzioni), e ciò indubbiamente influenza la convinzione pessimista diffusa nel pubblico [22]. Non a caso, persino Piercamillo Davigo ha ammesso di ritenere da tempo che “la vera specificità italiana non fosse la corruzione, ma l’indipendenza del pubblico ministero che aveva consentito di farla emergere”[23].
VIII. Limiti della giustizia penale come strumento di contrasto nel contesto della corruzione sistemica
Forse è superfluo spendere parole sul perché il diritto e il processo penale non siano strumenti da soli sufficienti non solo a prevenire del tutto i fenomeni corruttivi, ma anche a ridurne in misura rilevante la diffusione. Si può ormai considerare una acquisizione pacifica, dal punto di vista criminologico e penalistico, che il diritto penale non serve a debellare in generale la criminalità, ma può servire tutt’al più a ridurne forme di manifestazione prive di profondo radicamento e/o esenti da forti fattori di condizionamento di natura storico-sociale, economica, psicologica ecc. Questi limiti fisiologici della giustizia penale si accentuano rispetto a comportamenti illeciti diffusi su larga scala, per la oggettiva difficoltà da un lato che i magistrati d’accusa possano venire a conoscenza di tutti i reati commessi e, dall’altro, che la macchina giudiziaria disponga di risorse materiali, tecniche e umane tali da potere perseguire e sanzionare migliaia e migliaia di fatti delittuosi. D’altra parte, l’obiettivo di una persecuzione penale a tappeto, il più possibile completa, sarebbe anche poco compatibile con un ordinamento di autentica ispirazione liberaldemocratica: un tale obiettivo implicherebbe, infatti, una vigilanza poliziesca così occhiuta, continua e totale da annullare gli spazi di libertà dei cittadini!
Ciò premesso in linea generale, è altresì noto che i reati di corruzione rientrano da sempre nel novero di quelli che presentano una elevata “cifra oscura” per l’alone di segretezza che comprensibilmente li avvolge e il comune interesse di corrotti e corruttori a ricorrere a manovre di occultamento degli scambi illeciti; questa connivenza omertosa e questi ostacoli frapposti alla emersione degli accordi delittuosi, facendo diminuire il rischio di una loro persecuzione giudiziaria, finiscono a loro volta col determinare un indebolimento dell’efficacia preventivo-dissuasiva della minaccia penale[24]. Ma, al di là dell’effetto deterrente, rispetto alle prassi corruttive diffuse si indebolisce la ulteriore funzione pedagogica che la legge penale dovrebbe in teoria assolvere. Secondo una opinione dottrinale ormai radicata, questa funzione di orientamento socio-culturale è più plausibile nei casi di ampia convergenza tra previa disapprovazione etico-sociale e censura penale, concorrendo la pena statale a consolidare e rafforzare nella coscienza dei cittadini l’interiorizzazione e il rispetto dei valori da tutelare e delle corrette regole di comportamento da osservare. Se invece i comportamenti penalmente sanzionabili sono non solo diffusi su larga scala, ma altresì estesamente tollerati (o addirittura approvati in determinati ambiti sociali o professionali), ecco che la percezione del loro disvalore viene meno o sbiadisce sensibilmente: per cui la pena minacciata prima della loro realizzazione o concretamente applicata dopo la loro commissione, in luogo di esplicare efficacia educativa, può essere avvertita come ingiustificata o arbitraria, finendo perciò col risultare inidonea a incidere sulle prassi comportamentali che andrebbero modificate.
Non sorprende, di conseguenza, che sulla ridotta efficacia del diritto penale vi sia ormai tendenziale concordanza da parte di studiosi di diverse aree disciplinari, e che l’insufficienza dell’azione giudiziaria sia apertamente riconosciuta anche da alcuni protagonisti del pool mianese di allora[25]. Così, una importante ricerca sociologica sulla corruzione post-Tangentopoli suggerisce che, al di là del preventivo calcolo individuale della possibilità concreta di essere puniti, un fattore non meno importante di incidenza sull’entità degli scambi illeciti è costituita da quello che Alessandro Pizzorno ha definito “costo morale” della corruzione: se la relativa “soglia è bassa perché vi è una carente cultura civica e una sfiducia diffusa nelle istituzioni, anche la tendenza a partecipare a fenomeni di corruzione tenderà inevitabilmente a salire(…). Da questo punto di vista, il contrasto efficace della corruzione dipende anche dalla coscienza civica, dalla fibra morale del paese”[26]. Un secondo fattore, connesso al livello dell’etica pubblica, da tenere in conto riguarda i meccanismi di selezione della classe politica a livello nazionale e locale e, dunque, la logica di funzionamento e la qualità dei partiti politici: quanto più si tratta di partiti deboli, culturalmente degradati e personalizzati nella leadership, tanto più divengono “terreno di troppo facile conquista da parte di reti di interessi e di affari che li utilizzano a fini privatistici”. Alla crisi e al progressivo indebolimento dei partiti si è, nello stesso tempo, accompagnato un processo di “decentramento irresponsabile”, cioè nel quale l’accresciuta disponibilità di risorse a livello locale e regionale non ha corrisposto l’introduzione di adeguati strumenti di controllo dal centro[27].
Se le cose stanno così, un più efficace contrasto della corruzione richiede strategie globali di intervento che, trascendendo il piano circoscritto della giustizia penale, hanno a che fare col funzionamento e con la qualità del sistema politico sia in sé stesso, sia nei suoi rapporti di interazione con l’economia pubblica e privata.
IX. Rilievi di diritto penale sostanziale e processuale
Per quanto da solo non decisivo, il terreno del diritto e del processo penale non va certo trascurato.
A) Nel riassumere le possibili indicazioni che in proposito derivano dalla esperienza di Mani Pulite, un primo dato – abbastanza noto almeno tra gli addetti ai lavori – riguarda il diritto penale sostanziale e può essere sintetizzato così: le concrete forme di manifestazione empirica della fenomenologia corruttiva venuta alla luce (carattere sistemico e strutturato, reti relazionali stabili tra soggetti appartenenti ad ambiti professionali diversi, sovvertimento dei ruoli criminosi tradizionali con passaggio di uno stesso soggetto nell’ambito della medesima vicenda dal ruolo di concusso a quello di corruttore o viceversa, messa “a libro paga” di un pubblico ufficiale da parte di un imprenditore privato che lo sovvenziona periodicamente per ottenerne una generale disponibilità ecc.) hanno messo a dura prova, sul piano interpretativo-applicativo, le tradizionali fattispecie incriminatrici dei delitti di concussione e corruzione contenute nel codice Rocco[28]. Per facilitarne l’applicazione alla nuova casistica concreta, si è assistito nella prassi giudiziaria a un accrescimento della discrezionalità qualificatoria e a una contemporanea dilatazione ermeneutica di tipo estensivo- analogico delle fattispecie scritte, in contrasto o comunque in forte tensione con i principi penalistici di riserva di legge e di tipicità (nello stesso tempo, si è accentuata la tendenza verso la cosiddetta processualizzazione delle categorie sostanziali, cioè a ricostruire giudiziariamente i requisiti costitutivi di delitti come la corruzione o la concussione in base a esigenze probatorie). Da questo punto di vista, l’esperienza giudiziaria milanese ha fornito una delle migliori riprove di come l’interpretazione e applicazione delle stesse leggi penali non possano, secondo una visione realistica, ridursi ad attività meccaniche o tecnicamente neutrali: piuttosto, esse richiedono che l’interprete-applicatore giudiziale – per dirla con un valente giusfilosofo delle ultime generazioni – “compia molteplici scelte, valutazioni, prese di posizione, spesso non chiaramente esplicitate, scelte che possono talvolta, o anche spesso, apparire come semplici questioni tecniche (…), ma che sono in larga parte, in ultima analisi, di natura etico-politica”[29]. Se così è, la cosiddetta rivoluzione giudiziaria si è anche alimentata di quote non piccole di politicità latamente intesa, insita inevitabilmente nel modo di adattare le figure di reato allora vigenti ai casi concreti.
Ma le difficoltà applicative e la preoccupazione emergente di rendere più efficace l’intervento penale, com’è pure noto, sollecitavano ben presto un dibattito nella prospettiva di possibili riforme legislative. Tale dibattito sfociò in due direttrici di fondo: una per così dire ‘estremistica’ esemplificata dal “progetto di Cernobbio” (elaborato da un gruppo di studio costituito da docenti universitari, componenti dello stesso pool milanese e alcuni avvocati) e mirante, in estrema sintesi, a superare la tradizionale distinzione tra concussione e corruzione unificandole in una fattispecie incriminatrice unitaria e, altresì, a introdurre cause di non punibilità per il corrotto o corruttore “pentito”; una seconda direttrice per così dire moderata, tendenzialmente fatta oggetto di maggiore consenso anche dottrinale, volta a modificare la originaria disciplina delle due suddette fattispecie in modo da superarne le risalenti difficoltà di differenziazione e da renderle più agevolmente applicabili all’evoluzione delle forme di corruzione venute alla luce[30].
Come sappiamo, per cercare di tradurre in legge quantomeno alcune delle esigenze politico-criminali emerse dall’esperienza di Tangentopoli si sono dovuti attendere, però, non pochi anni: è stata la cosiddetta riforma Severino del 2012 a riscrivere in larga parte il reato di concussione (con scorporo della condotta induttiva e suo trasferimento nella nuova fattispecie di induzione indebita a dare o promettere) e i delitti di corruzione (con eliminazione della corruzione cosiddetta impropria e sua sostituzione con il nuovo reato di corruzione pe l’esercizio della funzione), inasprendo altresì il regime sanzionatorio. Ma, se si dà uno sguardo d’insieme agli orientamenti interpretativi della nuova giurisprudenza maturata rispetto alle modificate fattispecie, non si può dire che questa ampia riforma di un decennio fa sia risultata – al di là delle intenzioni – di fatto davvero utile in termini di effettiva semplificazione applicativa e di reale potenziamento della risposta penale[31]. Né risultati pratici apprezzabili sembrano conseguibili grazie alla successiva riforma cosiddetta “Spazzacorrotti” del 2019, concepita nell’ottica di un demagogico iper-punitivismo populista, che ha inasprito ulteriormente il trattamento sanzionatorio e ha introdotto una causa di non punibilità – peraltro non felicemente formulata – a favore del colpevole che denuncia volontariamente, prima di avere notizia dell’inizio delle indagini a proprio carico, il fatto delittuoso a carattere corruttivo commesso, fornendo indicazioni utili ai fini dell’accertamento processuale.
B) Rispetto poi al versante procedimentale e processuale, un profilo degno di nota – oltre al già accennato fenomeno di stretta interazione tra presupposti di diritto sostanziale ed elementi probatori – riguarda in primo luogo le tecniche di indagine adottate per portare allo scoperto gli episodi corruttivi. In proposito, si è più volte messa in evidenza la eccezionale abilità investigativa in particolare – e non a caso - dell’esponente-simbolo del pool milanese, cioè di Antonio Di Pietro: abilità caratterizzata sia da un pur discutibilissimo stile poliziesco (acquisito, verosimilmente, nel periodo precedente in cui lo stesso Di Pietro aveva operato come commissario di polizia), da metodi alquanto spregiudicati o sbrigativi e da un sapiente dosaggio di ‘bastone’ e ‘carota’ nel condurre gli interrogatori, sia da una spiccata capacità (comune invero ad altri colleghi del pool) di analizzare i movimenti bancari, sia ancora da una eccezionale capacità di utilizzare gli strumenti informatici per collegare elementi di conoscenza provenienti da indagini diverse[32]. Ora, se non mi sentirei neanch’io di additare a modello la figura del pm-superpoliziotto e il ricorso a modalità operative troppo disinvolte, non c’è dubbio invece che la padronanza dell’informatica e il possesso di approfondite conoscenze in ambito economico-finanziario e in materia di legislazione e prassi amministrative costituiscono ormai elementi imprescindibili del bagaglio professionale di un magistrato impegnato nel contrasto della corruzione.
Aspetti non poco discutibili di Mani Pulite, e più volte già criticati in varie sedi (anche accademiche), sono emersi riguardo alle modalità d’impiego della coercizione penale in fase sia cautelare che di successivo giudizio. Sotto il primo profilo, ci si riferisce all’uso della carcerazione preventiva a fini investigativi e confessori ben stigmatizzato – tra altri – da Giovanni Maria Flick in un libro del 1993 che reca come titolo “Lettera a un procuratore della Repubblica”, e che merita di essere ricordato anche per la risposta (riportata nel medesimo libro) dell’allora procuratore di Milano Francesco Saverio Borrelli. A Flick, che opportunamente sollevava anche più in generale “il problema del rapporto tra il processo alla responsabilità del singolo e il processo alla degenerazione del sistema, attraverso il primo”[33], Borrelli rispondeva invero con affermazioni del seguente tenore: “il pericolo di inquinamento, il pericolo di fuga, il pericolo di reiterazione del delitto”, in quanto concetti non formalizzabili in termini strettamente giuridici, “devono ricevere concretezza dalla comune esperienza e dal comune modo di ragionare del cittadino medio”; e ancora: “Vogliamo, per curiosità, provare a domandarci che cosa pronosticherebbe il cosiddetto uomo della strada circa la probabile condotta futura di un pubblico amministratore che fino a ieri ha concusso o si è lasciato corrompere? Di tanto in tanto dovremmo forse umiliarci fino ad aprire occhi e orecchie verso il mondo esterno e rapportarci (…) alla sensibilità media del popolo in nome del quale la legge si applica”[34]. Con tutto il rispetto per la sua figura e la sua memoria, direi che il procuratore Borrelli (pur essendo antropologicamente e culturalmente distante da Tonino Di Pietro), così ragionando, finiva anch’egli con l’esibire sintomi patologici di populismo politico-giudiziario!
Tra i costi umani più dolorosi di quella stagione, che rappresentano “la testimonianza tragica della catastrofe di un sistema”[35] ma, ad un tempo, del crollo psichico di alcuni suoi esponenti che non hanno sopportato la vergogna o lo stress della sottoposizione alle indagini (o a certi modi di condurle), rientrano una serie di suicidi. Sarebbe assai problematico – a maggior ragione oggi – cercare di stabilire un rapporto causale prevedibile tra questi eventi suicidiari ed eventuali modalità scorrette di conduzione dei procedimenti giudiziari. Ma non sembra neppure accettabile rimuovere il tormentoso problema ribadendo, con una sorta di fanatico moralismo, che “le conseguenze dei delitti ricadono su coloro che li commettono e non su coloro che li perseguono”: così pensa a tutt’oggi, ad esempio, Pier Camillo Davigo[36]. Piuttosto, ritengo che una deontologia professionale adeguata all’insieme dei valori e diritti in gioco dovrebbe, tra l’altro, includere il dovere di orientare le scelte giudiziarie anche in base alla ragionevole previsione (per quanto possa risultare non facile!) delle loro possibili ricadute anche psicologiche[37]. Tanto più che non andrebbe dimenticato – come ben vide Francesco Carnelutti non pochi decenni fa – che già il sospetto, l’indagine, il giudizio suscitano angoscia e sofferenza in chi vi è sottoposto, e rappresentano dunque di per sé stessi una pena che si aggiunge a quella conseguente all’eventuale condanna[38].
Quanto poi al carico sanzionatorio complessivamente gravato sulle persone indagate che hanno effettivamente subito una condanna, una indagine a carattere statistico-giudiziario condotta nel 2007 è giunta alla conclusione che sono state inflitte pene mediamente molto miti sia per la concussione che per la corruzione, con frequente sospensione condizionale della loro esecuzione, largo ricorso al patteggiamento e misure alternative concesse in maniera quasi automatica (per cui sono risultati assai rari i casi di condannati che hanno espiato almeno una parte della pena in carcere)[39]. Ammesso che si tratti di una indagine esaustiva e affidabile, sembra potersene trarre una conferma del fatto che l’impresa giudiziaria di Mani Pulite, considerata nel suo insieme, non aveva come obiettivo principale il puntuale accertamento di colpevolezze individuali alla cui gravità commisurare, di volta in volta, una pena “giusta” e/o di potenziale valenza rieducativa: piuttosto, lo scopo prioritario era quello di scoperchiare e processare un intero “sistema” corrotto al fine di abbatterlo; e questa finalità (più latamente politica che giudiziaria in senso stretto) faceva sì che anche la concreta determinazione delle pene obbedisse a ragioni e valutazioni non coincidenti, o coincidenti soltanto in parte con quelle che in teoria dovrebbero più propriamente guidare le opzioni sanzionatorie in sede di condanna. Da questo punto di vista sembra, allora, potersi concludere che la ‘reale’ dimensione punitiva finiva con l’essere affidata, più che ad una punizione canonica applicata secondo parametri rigorosamente giuridici, alla censura morale e all’effetto discreditante – a loro volta mediaticamente amplificati nella riemergente forma di una pubblica gogna – impliciti nell’essere indagati, processati e poi condannati.
X. La magistratura penale tra centralità storico-politica e problema di identità
È abbastanza diffusa la convinzione che in questi trent’anni di distanza che ci separano da Mani Pulite siano rimasti sul tappeto, e si siano per di più aggravati, non pochi dei problemi che hanno determinato il crollo della cosiddetta prima Repubblica. Ha scritto di recente una storica di professione: “A tutt’oggi restano evidenti infatti le fragilità dei soggetti politici presenti sulla scena alla continua ricerca di una solida identità mai raggiunta, mentre non si restringe la divaricazione della forbice tra gli elettori e i loro rappresentanti, come testimonia l’astensionismo dilagante insieme alla sfiducia nella classe politica al governo e all’opposizione”. E ancora: “Lo dimostrano i fenomeni in continua crescita dopo il ’94, di populismo, giustizialismo, razzismo, xenofobia, oblio dei diritti, delle libertà e dei valori civili; ma anche l’evolversi delle polemiche antipartitiche o per meglio dire anti-establishment che si riassumono in un antagonismo pregiudiziale contro chi ha istruzione, competenze, educazione e persino fede nei valori non negoziabili del vivere civile. Pulsioni antipolitiche estese anche ai governanti europei, gli ‘spregevoli burocrati di Bruxelles’ contro i quali si scagliano i sovranisti”[40]. Una emblematica riprova della persistente situazione di grave crisi, incertezza, frammentazione e stallo in cui a tutt’oggi versano tutti i partiti e movimenti, di sinistra come di destra o di centro (ammesso che questa distinzione continui ad essere a risultare chiara!) l’ha fornita, da ultimo, la tormentata rielezione di Sergio Mattarella a presidente della Repubblica (il secondo caso dopo la conferma al Quirinale di Giorgio Napolitano nel 2013). Né sappiamo come evolverà, nel corso del presente anno, la complessa e altresì conflittuale dialettica tra le disomogenee forze politiche che sostengono l’attuale governo di quasi-unità nazionale presieduto da un cosiddetto super-tecnico come Mario Draghi (più tollerato che amato, secondo quanto è andato emergendo, dalla maggior parte dei cosiddetti politici di professione o per elezione popolare!).
In questo quadro complessivo, problematico e poco rassicurante, si colloca anche un tentativo di riflessione sulla magistratura e sulla crisi di cui anch’essa soffre, e direi non da ora. Al di là della deriva correntizia, e della perdita di credibilità anche morale che sembra essersi aggravata di recente, c’è anche un problema di identità di ruolo: problema che a maggior ragione si ripropone e impone per il fatto che, negli ultimi decenni, in particolare la giustizia penale ha assunto in Italia una centralità, storica e politica, ben maggiore che in altri paesi europei. E ciò ha inciso e continua a incidere in misura abnorme sull’equilibrio costituzionale tra i poteri istituzionali e, al tempo stesso, sulle concrete dinamiche politiche. Come sappiamo, anche in frangenti temporali precedenti la corruzione politico-amministrativa di Tangentopoli l’azione repressiva si è caricata di rilevanti implicazioni politiche nel cercare di assolvere funzioni di cosiddetta supplenza rispetto a discipline legislative mancanti o a omessi interventi di una pubblica amministrazione inefficiente, nel contrastare altri mali sociali di rilievo sistemico (terrorismo, mafie), oppure è stata politicamente strumentalizzata (anche a prescindere dalla volontà soggettiva dei magistrati titolari delle indagini e dei processi) come strumento improprio di lotta tra partiti o fazioni in conflitto per la conquista di posizioni di supremazia. Ma nella stagione di Mani pulite l’azione giudiziaria ha presentato dimensioni politiche così macroscopiche, anche per l’ampio consenso sociale e la larga delega di fatto ricevuta dai settori politici e sociali più interessati al cambiamento, da non poter essere in nessun modo occultate, né sminuite. Che atteggiamento ha mostrato in proposito la magistratura considerata nel suo insieme?
Invero, non sono mancate sia voci critiche di singoli magistrati, che hanno evidenziato i rischi di un eccesso di consenso della pubblica opinione e di una conseguente sollecitazione verso forme di giustizia sostanzialistica e sommaria, sia della stessa Anm che ha messo in guardia dalla tentazione della magistratura di assumersi compiti esulanti dai suoi fini istituzionali[41]. Vale la pena in proposito richiamare, ad esempio, una parte dell’intervento conclusivo svolto dall’allora segretario generale Franco Ippolito al XXII Congresso nazionale del giugno 1993: “Gli applausi e le manifestazioni popolari attorno al palazzo di giustizia milanese sono certo espressione di una legittima pretesa dei cittadini che la legge valga davvero per tutti. Ma sono la spia di pericoli. Innanzitutto di un eccesso di aspettative nell’intervento giudiziario, destinate a rimanere in parte inevitabilmente deluse. In secondo luogo sono l’espressione di una spinta ansiosa al raggiungimento di ‘risultati’, con rischio di torsione dello strumento giudiziario, giacché la giurisdizione non deve essere una istituzione di scopo”[42]. Questo monito di Ippolito a rifiutare il modello della giurisdizione o del giudice “di scopo” - fatto proprio e ribadito, in anni più recenti, anche da Luciano Violante e da altri qualificati esponenti della cultura politica e giuridica - tocca il problema cruciale del rapporto tra politica e funzione giudiziaria, cioè quello che sotto più di un aspetto si prospetta come il problema più arduo da affrontare. In proposito, possibili indicazioni orientative sono desumibili dalla giurisprudenza costituzionale, e in particolare dalla sent. n. 24/2017 relativa al celebre caso Taricco, nella quale la Corte fa affermazioni del seguente tenore: ai giudici “non possono spettare scelte basate su discrezionali valutazioni di politica criminale”; gli “ordinamenti costituzionali degli Stati di civil law (…) in ogni caso ripudiano l’idea che i Tribunali siano incaricati di raggiungere uno scopo, pur legalmente definito, senza che la legge specifichi con quali mezzi e in quali limiti ciò possa avvenire”. Il senso sostanziale di questa presa di posizione della Consulta può essere plausibilmente inteso come equivalente alla tesi che la giustizia penale non è una giustizia ‘di lotta’, non ha il compito di contrastare fenomeni generali (compito che spetta invece al potere legislativo e a quello politico-amministrativo)[43]. In una analoga ottica visuale, proprio riguardo a Tangentopoli Bruti Liberati ha scritto nel suo libro di storia della magistratura italiana: “Mani Pulite indica la capacità di indagine di polizie e Procure, ma dovrebbe anche far riflettere sulle specificità del processo penale. Alla giustizia penale si deve chiedere di accertare, con il livello di prova elevato che si esige per una condanna, nel pieno rispetto delle garanzie di difesa, fatti di reato specifici e responsabilità individuali e non di indagare e pretendere di risolvere problemi politici e sociali”[44]. Solo che, nelle pagine conclusive della stessa opera, sempre Bruti Liberati sembra in proposito implicitamente contraddirsi, o quantomeno mostrare una certa ambiguità di pensiero (retaggio dell’appartenenza a un gruppo associativo come Md, teorizzatore della funzione politica della giurisdizione?) affermando: “la storia di Mani pulite (…) è la storia del doveroso intervento repressivo penale di fronte ad un vero e proprio sistema di corruzione, ad una devastazione della legalità”; e aggiungendo che la vicenda di Mani pulite insegna a distinguere tra il “protagonismo (improprio) di alcuni magistrati” in particolare d’accusa, e il “protagonismo (necessitato) della magistratura” sulla corruzione[45]. Orbene, se protagonismo necessitato della magistratura significa che quest’ultima in una stagione come quella di Tangentopoli si attribuì la funzione (missione?) – come alcuni elementi di riscontro sembrano confermare – di liberare l’Italia dal sistema della corruzione e di promuovere il rinnovamento politico[46], apprezzare questo protagonismo equivale a rilegittimare il ruolo del giudice di scopo anche al prezzo di “un’alterazione dei rapporti costituzionali tra magistratura e potere politico”[47]. (Come che sia, è un dato di fatto che la tendenza a concepire la giurisdizione come strumento di lotta contro fenomeni o sistemi criminali è andata sempre più diffondendosi negli anni, come si può constatare sia studiando provvedimenti giudiziari sia leggendo articoli o interviste rilasciate da singoli magistrati: una autopercezione di ruolo, questa, che si è ampiamente consolidata e perciò non facile da contrastare!).
Concordo invece pienamente con lo stesso Bruti Liberati nel ritenere che, oggi, “occorrerebbe una riflessione più approfondita su cosa si deve e non si deve chiedere alla giustizia penale” specie rispetto a fenomeni come corruzione, mafie, criminalità terroristica ecc. e, correlativamente, sul modello di magistrato penale più adeguato alle sfide del tempo presente[48]. Mentre sul ruolo della magistratura e sui modelli di giudice si era in Italia sviluppato un dibattito anche teorico di un certo respiro negli anni ’70, proseguito – direi, non a caso – nel corso degli anni ‘90 fino ai primi del 2000, negli anni successivi la discussione è andata invece (con qualche eccezione) spegnendosi[49]. A ridosso di Mani Pulite, ad esempio Vito Marino Caferra in un piccolo e brillante saggio aveva distinto le rispettive figure idealtipiche del magistrato “senza qualità”(identificato con un carrierista duttile), “politico”, “moralista” e “poliziotto”; ai nostri giorni Gustavo Zagrebelsky, in un libro sulla professione di giurista, differenzia con ben maggiore varietà i modelli tipologici del magistrato rispettivamente “tecnico”, “politico”, “empatico”, “redentore”, “vendicatore” e “sacerdote”[50]. Sarebbe intrigante entrare nel merito di tutte queste figure che, in quanto stilizzate in modo estremistico, evocano peraltro modelli più tendenziali che suscettibili di impersonarsi interamente in giudici in carne e ossa. Ma sarebbe fuori luogo farlo in questa sede.
XI. Esigenza di promuovere dibattiti pubblici sul ruolo della magistratura nella realtà attuale e sul modello di magistrato adeguato al tempo presente
In sintesi, rilevo che nella ormai non breve mia esperienza di studioso “tempopienista”, se da un lato mi è mancata l’esperienza concreta del foro, ho dall’altro esaminato parecchia giurisprudenza e frequentato un certo numero di magistrati, per ragioni di studio come pure a titolo amichevole. Per quello che sono riuscito a comprendere anche attraverso questa conoscenza diretta, escluderei innanzitutto che (almeno) in penale esista davvero nella realtà quella comune “cultura della giurisdizione” che dovrebbe accomunare pubblici ministeri e giudici, e il cui mantenimento viene a tutt’oggi enfaticamente raccomandato come argomento contro la cosiddetta separazione delle carriere. Esiste a mio avviso piuttosto, nella attuale magistratura penale, una certa confusione e frammentazione di mentalità e di stili operativi: esistono giudici simili a pubblici ministeri (e a pubblici ministeri addirittura di tipo poliziesco), pubblici ministeri simili viceversa a giudici; mentre sul modo di pensare e agire degli stessi pubblici accusatori può incidere il settore operativo di riferimento, a seconda che si tratti ad esempio di criminalità comune o di criminalità organizzata di tipo mafioso o di tipo terroristico ecc. Personalmente, da giurista accademico convinto (o meglio, illuso) che almeno i principi di fondo del costituzionalismo penale (europeo e nazionale) dovrebbero essere concepiti e applicati in maniera sufficientemente omogenea da tutti i magistrati, continua – lo confesso – a sorprendermi e irritarmi invece constatare che ad esempio che i pubblici ministeri antimafia (e in particolare quelli di orientamento più radicale o estremistico) sembrano obbedire a una Costituzione tutta loro, autonoma e diversa dalla Costituzione ufficiale: per cui la lotta a tutto campo al fenomeno mafioso diventa, nella loro ottica unilaterale e belligerante (propugnante una sorta di “diritto penale del nemico” in veste nostrana!), il superiore obiettivo costituzionale destinato in ogni caso a prevalere sulla protezione di ogni altro pur non secondario bene o diritto costituzionalmente rilevante[51] (emblematiche in questo senso le vibrate o gridate obiezioni, mediaticamente veicolate, che le procure antimafia hanno rivolto alla riforma Cartabia della prescrizione o continuano a muovere al superamento dell’ergastolo ostativo). Insomma, si tratta di un modello di pubblico ministero per così dire ‘combattentista estremista’, la cui compatibilità con i principi costituzionali del garantismo penale mi appare tutt’altro che scontata. Invero, ritengo da tempo che la stessa Scuola di formazione della magistratura dovrebbe fare di più di quanto non faccia, sul piano della cultura professionale, per promuovere il passaggio da un pluralismo eccessivamente conflittuale a un pluralismo più ragionevole di orientamenti di fondo, in vista appunto di quella tendenziale omogeneità di principi di riferimento (anche tra pubblici ministeri e giudici) che rappresenta più un obiettivo auspicabile che non una base di partenza di fatto esistente.
Sui modelli di magistrato più adeguati al tempo presente si dovrebbe nel contempo, però, aprire una discussione anche fuori dalla cerchia degli addetti ai lavori, per sollecitare un confronto nello spazio pubblico (se possibile, fuori da quelle pregiudiziali contrapposizioni e da quelle opposte tifoserie predominanti purtroppo da tempo specie nei dibattiti politico-mediatici. Ma siamo più capaci di confronti autentici?): sarebbe necessario che il potere giudiziario uscisse il più possibile dalla sua autoreferenzialità e si confrontasse con le realtà e culture esterne, dal momento che sembra improbabile che esso possa da solo rinnovarsi e rigenerarsi (oltre che moralmente) culturalmente. I rischi che da qualche tempo ravviso, osservando il complessivo orizzonte magistratuale contemporaneo, vanno al di là di un eccesso di pluralismo, di frammentazione di concezioni e opinioni o di una certa confusione e incertezza sul piano deontologico (riguardo sia alle relazioni con gli altri poteri istituzionali, sia alle modalità di condotta nella realtà esterna): vi è anche il pericolo che i giovani magistrati, sempre più privi di solidi ancoraggi culturali e valoriali (anche a causa dell’inaridimento della capacità di riflessione e orientamento delle correnti, nonché della scomparsa o del pensionamento di note e autorevoli figure di giudici-maestri), finiscano col far propria una visione tecnico-burocratica del loro ruolo e appiattita sugli avanzamenti di carriera, rinunciando a slanci ideali e aspirazioni culturali di più ampio respiro. È anche per reagire a un simile rischio che i gruppi associativi dovrebbero tentare di recuperare la loro principale funzione di strumenti di elaborazione, confronto e orientamento.
Proprio perché il modo d’atteggiarsi e di operare della giurisdizione penale è fortemente condizionato dalle interrelazioni sistemiche con gli altri poteri, il riorientamento culturale complessivo e il miglioramento anche qualitativo dei rapporti tra giustizia penale e sistema politico presuppongono forze politico-partitiche meno deboli, capaci a loro volta di recuperare identità e fondamenti culturali e – non ultimo – in grado di affrontare le grandi questioni sul tappeto prospettando idonee soluzioni concrete: se questi presupposti dovessero anche in futuro mancare, dal momento che “la politica non ammette vuoti”[52], il potere giudiziario potrebbe continuare a essere tentato di allargare (più o meno abusivamente) i propri spazi di intervento
*Il testo riproduce l'intervento del prossimo incontro-dibattito, organizzato dalla Anm sezione di Milano, su “Mani Pulite trent’anni dopo. Magistratura e lotta alla corruzione prima e dopo Tangentopoli”, che si terrà presso l'Aula Magna del Palazzo di giustizia di Milano il 17 febbraio 2022.
[1] Rispetto alla fase storica che va dalla fine degli anni ’70 agli anni ’90 cfr. ad esempio G. Crainz, Storia della Repubblica, Donzelli, Roma, 2016, 215 ss.
[2] Cfr. S. Colarizi, Passatopresente. Alle origini dell’oggi 1989-1994, Laterza, Roma-Bari, 2022.
[3] Più diffusamente, S. Colarizi, op. cit., 24 ss. e passim.
[4] Per riferimenti a questi sopravvenuti ripensamenti critici di personaggi autorevoli rinvio a G. Fiandaca, Populismo politico e populismo giudiziario, in Criminalia, 2013, 112 s.
[5] Per maggiori svolgimenti cfr. S. Colarizi, op. cit., 160 ss.
[6] S. Colarizi, op. cit., 187 ss.
[7] Citazione tratta dall’articolo di M. Pirani, I tribunali e la piazza, ne la Repubblica 16 gennaio 1994.
[8] Più diffusamente, G. Fiandaca, op. cit., 107 ss.
[9] Di recente, si veda ad esempio E. Antonucci, I dannati della gogna. Cosa significa essere vittima del circo mediatico-giudiziario, Liberilibri, Macerata, 2021.
[10] Per rilievi in proposito rinvio a G. Fiandaca, Giustizia penale e dintorni. Dieci anni di interventi sul Foglio, Zanichelli, Bologna, 2022, 107 ss.
[11] Cfr. in proposito ad esempio l’importante testimonianza di Giuliano Pisapia riportata nel bel libro di L. Ferrarella, L’intruso. Antonio Di Pietro da Mani Pulite alla politica, Limina, Arezzo, 1997, 199.
[12] Così si era espresso il poeta Giuseppe Conte: “era un Robespierre, ma con aspetti da italiano medio. E le due cose non vanno d’accordo”(cfr. L. Ferrarella, op. cit., 193).
[13] Per maggiori svolgimenti e riferimenti cfr. G. Fiandaca, op. cit., 105 ss.
[14] G. Forti, Il diritto penale e il problema della corruzione, dieci anni dopo, nel volume collettivo (a cura del predetto autore) Il prezzo della tangente. La corruzione come sistema a dieci anni da ‘mani pulite’, Vita e pensiero, Milano, 2003, 102 s.
[15] Parole tratte dal celebre articolo sul “caso Tortora” del 14 ottobre 1983, riprodotto in L. Sciascia, A futura memoria (se la memoria ha un futuro), Bompiani, Milano, 1989, 80.
[16] G. Buccini, Il tempo delle Mani Pulite, Laterza, Roma-Bari, 2O21, recensito da G. Fiandaca, Mani Pulite, coscienza sporca, ne Il Foglio 19 novembre 2021.
[17] Cfr. P.P. Giglioli, S. Cavicchioli, G. Fele, Rituali di degradazione. Anatomia del processo Cusani, il Mulino, Bologna, 1997.
[18] U. Eco, E’ attentato alla Costituzione il processo ripreso in tv (1993), ripubblicato in Id., L’età della comunicazione, La nave di Teseo, Milano, 2022, 75 ss.
[19] Per una presa di posizione senz’altro favorevole di fonte magistratuale cfr. ad esempio A. Spataro, No alla giustizia-spettacolo, ne L’Espresso 9 gennaio 2022.
[20] P. Davigo, L’occasione mancata. Mani Pulite trent’anni dopo, Laterza, Roma-Bari, 2021, 167 s. (nelle stesse pagine si evidenzia che il sistema illegale di finanziamento e attribuzione di appalti coinvolgeva anche le cooperative “rosse” e soggetti riconducibili al Pci e altresì che, in una realtà come quella siciliana, esso funzionava in collegamento con esponenti mafiosi di Cosa nostra).
[21] Ci si riferisce in particolare ai risultati dell’indagine sociologica – condotta utilizzando la banca dati delle sentenze della Cassazione e studiando i casi considerati nelle autorizzazioni a procedere del Parlamento -del gruppo di studiosi autori dell’apposito Rapporto della Fondazione Res, riprodotto nel volume collettivo Politica e corruzione. Partiti e reti di affari da Tangentopoli a oggi, a cura di R. Sciarrone e con prefazione di C. Trigilia, Donzelli, Roma, 2017. Per riferimenti alla metamorfosi della corruzione politica post-Mani Pulite cfr. anche, sul piano storiografico, G. Crainz, op. cit., 345 ss. e ivi ampi riscontri pure a carattere giornalistico.
[22] Per rilievi analoghi, G. Pignatone, La corruzione percepita, ne la Repubblica 30 ottobre 2021.
[23] P. Davigo, op. cit., 169.
[24] Più diffusamente, G. Forti, op. cit., 85 ss. (e ivi riferimenti alle proposte, emerse in certe fasi del dibattito politico-criminale, di introduzione di “benefici premiali” volti a rompere la connivenza tra corrotti e corruttori e a favorire la denuncia dei patti corruttivi).
[25]Cfr.ad esempio P. Davigo, op.cit., 185.
[26] C. Trigilia, Prefazione alla ricerca della Fondazione Res riprodotta nel volume collettivo Politica e corruzione cit., XI.
[27] C. Trigilia, op. cit., XI s.
[28] In proposito, più diffusamente, tra altri, G. Forti, op. cit., 73 ss.; G. Fiandaca, Esigenze e prospettive di riforma dei reati di corruzione e concussione, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2000, 883 ss.
[29] G. Pino, L’interpretazione nel diritto, Giappichelli, Torino, 2021, 2.
[30] Per riferimenti più dettagliati cfr. i lavori citati supra, nota 21.
[31] Per una disamina delle modifiche normative del 2012 e per riferimenti alla giurisprudenza successiva sia consentito rinviare a G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale, parte speciale, I, 6 ed., Zanichelli, Bologna, 2021, 205 ss.
[32] Si veda al riguardo la testimonianza di Giuliano Pisapia nel ruolo di avvocato riportata in L. Ferrarella, op. cit., 202 s.
[33] G. M. Flick, Lettera a un procuratore della Repubblica. Con la risposta di Francesco Saverio Borrelli, Il Sole 24 Ore, Milano, 1993, 169.
[34] Passi riportati in G.M. Flick, op. cit., 12.
[35] G. Crainz, op. cit., 301.
[36] P. Davigo, op. cit., 66.
[37] Vale la pena richiamare il monito rivolto dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella il 6 febbraio 2017 ai magistrati in tirocinio: “E’, comunque, compito del magistrato scegliere, in base alla propria capacità professionale, fra le varie opzioni consentite, quella che, con ragionevolezza, nella corretta applicazione della norma, comporta minori sacrifici per i valori, i diritti e gli interessi coinvolti” (citazione tratta da E. Bruti Liberati, Magistratura e società nell’Italia repubblicana, Laterza, Roma-Bari, 2018, 332).
[38] E’ tornato di recente a riproporre la nota tesi carneluttiana N. Irti, La pena del giudizio e l’abbraccio soffocante del passato, ne Il Sole 24 Ore 28 luglio 2021.
[39] Ci si riferisce all’indagine riprodotta nel libro di P. Davigo e G. Mannozzi, La corruzione in Italia. Percezione sociale e controllo penale, Laterza, Roma-Bari, 2007; si veda altresì P. Davigo, L’occasione mancata, cit., 173, 232.
[40] S. Colarizi, op. cit., 15 s.
[41] Per riferimenti cfr. E. Bruti Liberati, op.cit., 261 ss.
[42] Quanto riportato tra virgolette è tratto da E. Bruti Liberati, op. cit., 263.
[43] D. Pulitano’, Il libro di un magistrato sulla magistratura nell’Italia repubblicana, in Dir. pen. cont., 11 aprile 2019.
[44] E. Bruti Liberati, op. cit., 276.
[45] E. Bruti Liberati, op. cit., 332 s.
[46] Si vedano, ad esempio, alcune dichiarazioni in questo senso emblematiche di Francesco Saverio Borrelli (“Il problema non è di uscire da Tangentopoli”, ma “di penetrarvi fino al cuore per espugnarla, raderla al suolo, cospargervi il sale (…) proseguire l’opera fino alla eliminazione di quelle mani che pulite non sono” e di Antonio Di Pietro (“Il progetto Mani Pulite (…)” avrebbe dovuto comportare “la ricostruzione, il ricambio della classe dirigente, nuove leggi e nuovi agglomerati politici”), rispettivamente riportate da Il Sole 24 Ore 25 marzo 1995 e da Il Giornale 13 gennaio 1996.
[47] L. Violante, Magistrati, Einaudi, Torino, 2009, 106.
[48] E. Bruti Liberati, op. cit., 331.
[49] Tranne qualche eccezione, come ad esempio il già citato Magistrati di L. Violante, pubblicato nel 2009; fa riferimento, più di recente, a figure idealtipiche di giudice G. Zagrebelsky, La giustizia come professione, Einaudi, Torino, 2021, 130 ss. Si veda altresì – volendo - G. Fiandaca, Estremismo dell’antimafia e funzione di magistrato, in Diritto di difesa 6 maggio 2020.
[50] G. Zagrebelsky, op. cit., 130 ss.
[51] Più diffusamente, G. Fiandaca, Estremismo, cit.
[52] A. Panebianco, I pericoli di una politica debole, ne Il corriere della sera del 3 febbraio 2022.
La lotta alla mafia durante la pandemia da Covid-19: ricognizioni, errori e prospettive*
di Andrea Apollonio
Sommario: 1. La lezione del Covid-19 - 2. Al posto dello Stato - 3. La mafia che “aiuta” - 4. La mafia che si fa “impresa” - 5. Gli errori e le prospettive.
1. La lezione del Covid-19
La gravissima crisi economica in cui il Paese è sprofondato nel marzo 2020, dettata dall’emergenza sanitaria per la diffusione pandemica del virus Covid-19[1], sembra ormai alle spalle, almeno a voler considerare i dati confortanti sulla crescita del PIL per l’anno 2021[2]. D’altro canto, la capillare diffusione del rimedio vaccinale e degli strumenti connessi, quale il Green Pass, consente ragionevolmente di ritenere non più praticabili le politiche governative di rigido e generalizzato confinamento personale, di limitazioni agli spostamenti e, conseguentemente, delle attività economiche; le quali, adottate a momenti alterni tra il marzo 2020 e il giugno 2021 per fronteggiare le c.d. "ondate" del virus[3], tracciano un arco temporale che oggi, e comunque col passare del tempo, può cominciarsi ad osservare non più in chiave acritica, coeva e contingente, ma con maggiore cognizione e con riferimento agli effetti che in concreto la pandemia ha determinato sul piano socio-economico.
La stagione emergenziale - che possiamo osservare ancora da vicino, ma in ogni caso fuori dal periodo più critico e certamente imprevisto delle prime "ondate" e delle conseguenti limitazioni della libertà di movimento e di impresa - è stata infatti un banco di prova per le politiche economiche e sociali, intese come tentativi di governare, da parte dei poteri pubblici, il mondo degli investimenti, dell’imprenditoria, del lavoro. La pandemia ha innescato cambiamenti attesi e inattesi, ha accelerato trend in ogni campo; ivi compreso quello dei fenomeni criminali poiché, a ben vedere, la lezione del Covid-19, che già adesso possiamo trarre e che sicuramente gli studiosi di domani sapranno meglio valorizzare, riguarda in particolar modo le disfunzioni della società (la disoccupazione, il lavoro nero, le economie sommerse, e via così fino ad arrivare all’attività illecita dei gruppi mafiosi) tanto da collegarle tutte[4].
Cosicché, neppure lo studio e l’osservazione delle mafie può prescindere da quella che è stata la lezione del Covid-19: un evento talmente dirompente da poter essere utilizzato quale lente convessa dei percorsi intrapresi da quella criminalità mafiosa che oggi si cela prevalentemente dietro i colletti bianchi; onde registrarne le mutazioni, captarne i cambiamenti e le evoluzioni[5].
Non va taciuto che la storia delle mafie percorre la storia del Paese degli ultimi ottant’anni, segnata nel profondo da gravi tragedie sociali e calamità naturali: tutte parimenti tappe dell’evoluzione del fenomeno mafioso. Così come il movimento indipendentista siciliano del dopoguerra è stato strumentalizzato da cosa nostra quale arma di ricatto per le nascenti istituzioni democratiche, così il terremoto dell’Irpinia del 1980 ha determinato uno scontro violentissimo all’interno della camorra per l’accaparramento degli appalti pubblici, dando vita alla sanguinosa guerra tra la nuova camorra organizzata e la nuova famiglia[6]. Come pure, il più recente terremoto dell’Emilia del 2012 ha fatto emergere, sul piano investigativo prima e giudiziario poi, la presenza operativa delle cosche mafiose calabresi in quell’area, ormai spinte alla delocalizzazione, al decentramento degli interessi mafiosi ed economici, alla pesante infiltrazione nel tessuto imprenditoriale[7]. Sono solo alcune delle tappe dell’evoluzione del fenomeno mafioso connesse ad eventi di grande rilievo nazionale.
Partendo da questi presupposti, un evento planetario, epocale e disastroso come lo scoppio della pandemia da Covid-19 è, per sua stessa natura, un’ulteriore tappa della lunga storia criminale delle mafie italiane; e adesso può cominciare ad essere osservato ed analizzato in quanto tale.
2. Al posto dello Stato
La storia delle mafie è la storia della sostituzione di un potere ad un altro potere: della sostituzione del potere statuale con quello mafioso. È un dato storico oramai accertato che la mafia sia nata e si sia sviluppata in virtù di un’esigenza di protezione espresso dalle più svariate fasce sociali: dalle più basse e povere alle più facoltose, dalle più reiette, fino ad arrivare a soggetti istituzionali[8]. I latifondisti siciliani e calabresi di metà ottocento dovevano proteggere i frutti della terra e controllare la vasta manodopera, in un contesto socio-politico in cui lo Stato (borbonico prima, sabaudo poi) era impalpabile: e per questo si servivano di gabellotti mafiosi che riscuotevano gli affitti e soffocavano ogni forma di ribellione[9]. E poco più tardi, sempre in Sicilia, i mafiosi sarebbero diventati la mano armata delle istituzioni che fronteggiavano il brigantaggio: «La mafia che esiste in Sicilia non è pericolosa, non è invincibile di per sé, ma perché è strumento di governo locale» , rivela nel 1871 il magistrato siciliano Diego Tajani[10], poi divenuto ministro della giustizia dell’Italia liberale.
Anche col novecento ogni vuoto sociale lasciato dallo Stato viene riempito dalla mafia. Lo scrittore siciliano Andrea Camilleri ha raccontato che suo nonno, proprietario di due miniere di zolfo, mandava i soldi per i pagamenti dei minatori in contanti con un uomo che viaggiava tranquillo perché nei punti più pericolosi c’era qualcuno a lui invisibile che con un fischio gli segnalava il via libera. «Chi erano i fischiatori? Erano mafiosi pagati da mio nonno per proteggere il percorso che veniva fatto settimanalmente. Allora non era previsto che la polizia o i carabinieri ti scortassero mentre effettuavi i pagamenti... quindi quello era un sistema che già si sostituiva allo Stato» [11].
Le stesse dinamiche si registravano, lungo i decenni, in Calabria con gli ‘ndranghetisti e nel napoletano con i camorristi. D’altro canto, l’immagine più veridica e nitida della mafia sta nella commedia di Eduardo de Filippo, Il sindaco del rione sanità (1960): don Antonio Barracano è un personaggio temuto e rispettato da tutti i cittadini, i quali si rivolgono a lui per comporre liti e chiedere giustizia, ben sapendo che lo Stato, nelle procedure attivate nei tribunali, non è in grado di assicurare giustizia con la stessa celerità e la stessa efficacia[12].
Sul finire degli anni settanta, con lo sviluppo del traffico di droga e l’avvio della globalizzazione delle attività criminali, quando la mafia da soggetto sociale si tramuta anche in soggetto economico con elevata capacità di guadagno e di spesa, comincia - nel senso sopra detto - a sostituirsi allo Stato anche sul piano della regolamentazione dell’economia[13]. La mafia diventa impresa surrogando con i propri metodi la libera concorrenza, ma al contempo creando facile ricchezza e posti di lavoro; assume le vesti di ente assistenziale, sostituendosi allo Stato, nei confronti delle popolazioni da soggiogare: la cosca mafiosa si eleva così, con un modello operativo che arriva fino ai giorni nostri, a punto di riferimento primario per chi non ha fiducia nella disciplina pubblica e ricerca mezzi di sussistenza oppure occasioni per avvantaggiarsi.
Lo spaccato proposto, che abbraccia oltre un secolo e mezzo di storia italiana, aiuta a comprendere più concretamente quali siano i rischi che oggi corre il Paese, da quasi due anni alle prese con l’epidemia Covid-19 e dai connessi, vertiginosi problemi socio-economici. Il propagarsi del virus ha infatti costretto lo Stato ad adottare rigorose misure di contenimento sanitario e di confinamento personale; misure diversamente graduate a seconda del periodo e della gravità della situazione pandemica, che nel complesso hanno penalizzato la gran parte degli operatori commerciali. Un’ampia fetta degli operatori economici si è ritrovata improvvisamente priva di entrate.
Lo Stato ha cercato di limitare i devastanti rilfessi economici su di una popolazione segregata nelle proprie abitazioni, e alle prese con un drammatico distanziamento sociale, con una politica di ristori confluiti nel mondo del lavoro[14]. Si è tenuto conto delle perdite di fatturato, rispetto agli anni precedenti, del singolo operatore: ma in ogni caso sono state erogate risorse insufficienti, distribuite sulla scorta di meri dati contabili (gli unici, d’altronde, obiettivamente verificabili) e senza considerare quell’ampia fetta di lavoro "nero"; che pure, al Sud comprende numeri di primaria grandezza. Lo Stato insomma, per suoi limiti funzionali, non è riuscito a fornire le adeguate prestazioni assistenziali richieste a gran voce dalla collettività e dagli operatori commerciali, che nel pieno della pandemia versavano in obiettiva difficoltà[15].
È in questo contesto che le mafie riescono ad avvantaggiarsi, sostituendosi allo Stato sul piano economico e socio-assistenziale: venendo incontro alla gente comune con piccoli aiuti in denaro e facendo leva sulle difficoltà per offrire lavori utili alla filiera mafiosa (si pensi alle c.d. "vedette" nello spaccio di sostanze stupefacenti, oppure all’utilizzo di prestanomi per l’intestazione fittizia dei beni)[16]. Ma anche venendo incontro agli imprenditori in stato di bisogno, mettendo a disposizione il loro denaro "sporco". Così facendo, le cosche raggiungono un triplice obiettivo: fidelizzare il comune cittadino e l’operatore economico; speculare sui prestiti concessi fino, al limite, a rilevare l’impresa beneficiata; riciclare capitali illeciti immettendoli nel sistema commerciale.
Non solo. In un momento di asfissia economica, con il contestuale allargamento delle maglie dei finanziamenti statali ed europei, le mafie (che per loro stessa natura dispongono di ingenti risorse conseguite in modo illecito ed anticoncorrenziale) hanno la possibilità non soltanto di aiutare, ma anche di farsi impresa, sovvertendo per tale via tutti gli equilibri del mercato[17]: approfittando proprio della maggiore propensione degli enti pubblici a finanziare, finanche a fondo perduto. La storia delle mafie ci insegna che nessuno meglio dei mafiosi-imprenditori riesce a muoversi tra le normative di stimolo dell’economia, spesso lacunose e incoerenti, divenendo costoro i primi destinatari delle misure.
La storia ci insegna, per questa via, che le mafie sono essenzialmente fenomeni politico-sociali[18] tesi a individuare rapidamente i mutamenti radicali di una società: il loro è, storicamente, un punto di vista privilegiato da cui scorgere in tempo reale i vuoti, a volte le voragini, che si aprono sul manto sociale ed economico. La rapida diffusione del virus Covid-19 ha colto tutti gli attori istituzionali (le Regioni, lo Stato, l’Unione Europea, le organizzazioni internazionali) impreparati, ad eccezione appunto delle mafie, che si sono mostrate pronte a raccogliere le enormi opportunità di profitto connesse all’epocale sfida alla pandemia: sia aiutando gli altri attori economici e sociali, sia facendosi impresa. Queste le due direttrici delle considerazioni che seguiranno.
3. La mafia che “aiuta”
Parlare di mafia che aiuta può apparire un paradosso: le mafie infatti operano col metodo mafioso (se così non fosse, non sarebbero tali), ovverosia facendo leva sulla forza di intimidazione che deriva dal vincolo associativo. Un gruppo mafioso riesce a conseguire una egemonia economico-territoriale proprio grazie alla capacità di assoggettamento che riesce ad esprimere tramite la violenza e la minaccia[19]. La presenza mafiosa è una forza prevaricatrice che si impone sul territorio e contrasta con metodi feroci chi vi si oppone: tanto da condensare un «ordinamento parallelo a quello ufficiale, caratterizzato dall’uso della violenza» , come tradizionalmente affermano gli scienziati sociali[20]. Eppure le mafie, dopo un certo periodo di esercizio della violenza, al fine di radicarsi più profondamente nel tessuto sociale assumono, in superficie, una immagine benevola; specularmente, cambiano anche le forme in cui si dispiega il metodo mafioso.
I teorici del fenomeno mafioso ci insegnano che il radicamento sul territorio di una mafia passa attraverso due essenziali passaggi storici, che tengono in conto un diverso rapporto con le popolazioni da soggiogare. Semplificando, potremmo dire che in un primo tempo il gruppo mafioso si impone esercitando violenza e intimidazione. E’ interessante al proposito l’affermazione di un importante storico del fenomeno: «Le quattro organizzazioni mafiose hanno avuto dall’inizio un metodo comune: utilizzare la violenza privata in tutte le sue espressioni (intimidazione, minaccia, ricatto, attentati, omicidi ma anche protezione pagata, mediazione forzosa e parassitaria che dà luogo a tangenti e a percentuali varie) come strumento di arricchimento e mobilità sociale» [21].
Dopo questa prima fase, la cosca per poter operare indisturbata deve evolversi: tende a diventare un elemento connaturato al contesto sociale di riferimento, e per riuscirci ricerca il consenso della popolazione[22]. E’ questo lo stadio - in cui tutte le mafie italiane oggi si trovano - ove i mafiosi si mostrano subdolamente come benefattori, spesso col volto pulito dei colletti bianchi; come coloro che "aiutano" la popolazione: sul piano economico, con piccoli e grandi prestiti a comuni cittadini e ad imprenditori, con l’agevolazione nell’assegnazione di appalti, con l’elargizione di posti di lavoro, con la pronta solvenza dei crediti; sul piano sociale, ponendosi come autorità in grado di fare giustizia, di dirimere le controversie, di fronteggiare efficacemente la micro-delinquenza[23]. Un compito sociale di mediazione tra la popolazione sempre più spaventata, diffidente, impaurita, dalle pulsioni illogiche e irrazionali [24] e la politica disattenta e lontana dai bisogni dei cittadini che, in tempo di crisi, viene ad essere più rilevante.
Ebbene, in questa fase di sviluppo del fenomeno mafioso, oggi in essere, il relativo metodo non è accantonato, ma viene accuratamente celato. Ma è un rapporto che nasconde in realtà forme di soggiogamento, esercitate non con la violenza ma con l’inganno: perché i mafiosi tendono la mano soltanto laddove l’opera prestata si tramuta in un beneficio tangibile per la cosca. E quello del Covid è, per i mafiosi, il periodo storico più propizio per intrecciare con la - sempre più ampia - fetta di popolazione bisognosa un vincolo di silente tolleranza del fenomeno mafioso, riconosciuto persino più utile e necessario dello Stato.
I quasi due anni di pandemia, causando la perdita del lavoro per molte categorie di persone ed acuendo situazioni di disagio e povertà, dimostrano che la popolazione abbandonata dalla mano pubblica è sempre più propensa ad andare incontro a chi è in grado comunque di elargire prontamente le risorse: specularmente, questo periodo mostra un aumento del potere mafioso, in termini di capacità di far fronte nell’immediato ai bisogni primari della gente più svantaggiata.
Già si è accennato alle piccole somme elargite da esponenti delle cosche a chi versa in stato di bisogno, utili anche solo a pagare le bollette o a fare la spesa; nell’ultimo periodo, a seguito del disagio finanziario vissuto da molte famiglie, è inoltre emerso un ulteriore aspetto a sostegno del ruolo di mediazione[25] delle mafie e della spregiudicata avidità degli affiliati, che non esitano a sfruttare misure assistenziali come il reddito di cittadinanza: indebitamente conseguite per sé o per altri soggetti estranei all’associazione, che a questa si rivolgono per la compilazione truffaldina delle pratiche necessarie. Le mafie, grazie anche alla filiera di professionisti e colletti bianchi di cui dispongono, ottengono rapidamente benefici economici continuativi per sé e per altri, determinando la gratitudine e, quindi, la messa a disposizione del percettore[26].
Si è anche fatto cenno ai posti di lavoro di cui una mafia dispone, direttamente o indirettamente: un dato che in questo frangente storico deve particolarmente allarmare gli attori del contrasto al fenomeno. Sul punto, va ricordato che tra i pochi settori per i quali si è registrato un forte incremento degli utili vi è appunto l’edilizia, a cui il Governo - già in pieno lockdown - si è rivolto individuando apposite misure di rilancio in forma di "bonus" da riconoscere a seguito di ristrutturazioni e costruzioni eco-sostenibili: ma si tratta di un settore che da sempre suscita gli appetiti anche delle mafie, perché è quello che permette di ottenere ampi margini di guadagno e di innescare più agevolmente meccanismi di riciclaggio di denaro, grazie alla mole di forniture necessarie ed alla possibilità di effettuare pagamenti non tracciabili (es. alla manodopera retribuita a giornata). Ma anche perché nell’ambito dell’edilizia i mafiosi dispongono di numerosi soggetti economici, direttamente o indirettamente controllati: basti pensare alla "protezione" che, nelle aree a controllo mafioso, si impone sui cantieri pubblici e privati; ma anche - forse sopratutto - all’assegnazione pilotata di grossi appalti ad imprese in odore di mafia per mano di amministratori pubblici collusi, che è da sempre il principale strumento di controllo economico del territorio da parte di un gruppo mafioso[27].
In quest’ambito, assecondando le previsioni del mercato, la domanda di lavoro a seguito della pandemia è risultata in forte crescita, e ciò ha permesso ai mafiosi di favorire assunzioni regolari o "in nero", o anche soltanto di offrire la paga per manodopera a giornata; si tratta di merce di scambio utile al conseguimento degli obiettivi primari di una mafia: radicamento e consolidamento su di un territorio.
Le mafie quindi aiutano direttamente, con favori ed elargizioni; contribuiscono all’ottenimento di benefici assistenziali e posti di lavoro nei settori economici da queste controllate (quale l’edilizia). Ma non solo.
Le cosche tendono la mano non soltanto attingendo dalle imprese direttamente o indirettamente controllate, dal proprio patrimonio di capitali illeciti, ma anche utilizzando fondi pubblici gestiti in maniera clientelare[28]. Dovendo ancora considerare le misure emergenziali adottate durante la pandemia, si pensi ai c.d. "buoni spesa": un aiuto straordinario per contrastare l’indigenza adottato nella primavera del 2020 dal Governo, che ha destinato ai comuni quasi mezzo miliardo di euro per iniziative assistenziali. Tuttavia, senza alcun controllo a monte sull’elargizione di tali buoni, nelle amministrazioni comunali infiltrate si è assistito ad una gestione personalistica degli aiuti, destinati soltanto ai soggetti che i gruppi mafiosi intendevano favorire[29]. Le cosche, tramite i loro esponenti nelle amministrazioni comunali, riuscivano così ad accrescere il consenso sociale anche con aiuti provenienti dallo Stato.
In questo modo la mafia, sostituendosi a compiti propri dello Stato, che ha quale primaria missione istituzionale quella di supplire alle disfunzioni dell’economia e ad una (per quanto possibile) equa ripartizione della ricchezza, grazie anche al favore mostrato dalla cittadinanza, sfrutta al massimo grado la situazione pandemica, la condizione di indigenza e bisogno della collettività: "aiuta" la popolazione e si infiltra nel tessuto economico-sociale del Paese, determinando gravi rischi per la tenuta democratica.
4. La mafia che si fa “impresa”
Poche settimane dopo lo scoppio della pandemia, con due distinte circolari, la Direzione Centrale Anticrimine della Polizia di Stato[30] segnalava la necessità di prestare grande attenzione alle infiltrazioni della criminalità organizzata e mafiosa nel settore degli appalti pubblici e, più nello specifico, nelle forniture sanitarie. Il repentino congelamento dei consumi aveva infatti indotto il Governo ad adottare normative che agevolassero, in deroga, gli affidamenti diretti di lavori pubblici alle imprese, accentuando il trend che era partito l’anno prima con il decreto c.d. "sblocca-cantieri". L’obiettivo dichiarato era ridurre significativamente le tempistiche delle procedure di aggiudicazione: ciò, al fine di stimolare l’economia - se non altro sul fronte delle commesse pubbliche - agevolando e semplificando le gare d’appalto, i cui procedimenti venivano ritenuti troppo farraginosi.
In questo contesto, un’ulteriore semplificazione delle procedure di gara è stata predisposta per garantire nell’immediato, alle strutture ospedaliere, la disponibilità dei dispositivi di protezione individuale, quali mascherine e guanti protettivi, e di dispositivi medici (in particolare ventilatori polmonari), ma anche di infrastrutture d’accoglienza adeguate. Sopratutto nelle prime settimane dell’emergenza - in cui, come si ricorderà, sono stati adibiti e costruiti in poco tempo ampi spazi per la degenza dei malati Covid-19, o addirittura veri e propri "Covid hospital" - nel settore sanitario sono state adottate procedure emergenziali, la cui scarsa trasparenza degli affidamenti veniva controbilanciata dall’urgenza del momento.
Il richiamo degli organi di polizia ad innalzare la soglia di attenzione si collega appunto all’allargamento delle maglie dei controlli nelle procedure di affidamento di lavori e servizi da parte di enti pubblici; che, come detto, sono sotto la lente di ingrandimento delle associazioni mafiose, bramose di sottrarre - con i propri metodi conniventi, corruttivi e anticoncorrenziali - risorse allo Stato per raggiungere gli obiettivi di prevaricazione e di arricchimento.
A distanza di molti mesi da quei moniti rivolti dagli organi del contrasto, sono oggi emerse evidenze di indagine che confermano il tentativo (spesso andato a buon fine) da parte delle mafie di inserimento nei settori maggiormente coinvolti dall’emergenza da virus Covid-19: sono stati ad esempio scoperti redditizi giri d’affari di imprese di diretta derivazione dai clan mafiosi che si erano subito convertite in operatori di sanificazione degli esercizi commerciali e pubblici, con l’immancabile ausilio di prestanome cui fittiziamente intestare le società[31]. E con riferimento alle strutture sanitarie, è stato anche confermato il pericolo di infiltrazione mafiosa (e in particolare ‘ndranghetista, in una terra - la Calabria - in cui ben due aziende sanitarie provinciali sono state commissariate per mafia), con una spinta alla corruzione dei dirigenti delle strutture agevolata dall’implicita minaccia dell’esercizio del metodo mafioso da parte degli agenti corruttori[32].
È doveroso a questo punto ricordare che il legislatore del 1982 ha così descritto l’associazione mafiosa: "L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali". Tra le altre caratteristiche del gruppo mafioso, il legislatore dunque non ha certo lasciato in ombra la mafia che si fa impresa[33], mediante la disponibilità di una riserva di capitali "sporchi" e prestanome, con l’esercizio dei pieni poteri sociali ovvero la compartecipazione "a distanza" di società sane, che si servono dei mafiosi per sbaragliare la concorrenza[34]. Ed infatti, la mafia che si fa impresa è tesa ad acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici: la mafia è in questi termini descritta dal legislatore come un’impresa che tende al monopolio sfruttando, all’occorrenza, il proprio metodo d’intimidazione; e un obiettivo talmente ambizioso non può fare a meno degli appalti pubblici, né degli aiuti di Stato.
In tempi di pandemia di notevole interesse sono le proiezioni dell’impresa mafiosa: crisi e mutamenti di regole e di percorsi ordinari che consentono all’impresa mafiosa di operare sul mercato con maggiore spregiudicatezza, sfruttando le condizioni più favorevoli del mercato. Proiezioni che coprono un ampio spettro d’azione: la mafia "impresa" non è solo quella che cerca di aggiudicarsi appalti pubblici, ma anche quella che, al pari delle altre imprese in difficoltà, cerca di avvantaggiarsi dalle nuove forme di credito rapido (quali quelle garantite dallo Stato varate a seguito della depressione economica scaturita dal Coronavirus) - con la differenza sostanziale che l’impresa mafiosa non può subire alcun tracollo, considerata l’iniezione continua nelle sue casse di liquidità illecita. Essa non può fallire: l’impresa mafiosa non è mai, realmente, sullo stesso piano degli altri soggetti economici, perché è appendice di un gruppo dedito ad attività criminali; eppure, riesce (truffaldinamente) a mostrare le difficoltà legate alla contingenza storica, al pari delle altre imprese, per accedere agli aiuti di Stato.
Si consideri, al riguardo, il c.d. "decreto credito" varato nell’aprile del 2020, con cui si forniscono gli istituti bancari di strumenti che agevolano il ricorso al credito, con una garanzia in parte pubblica. La misura è stata ideata per consentire alle piccole e medie imprese italiane di tamponare le perdite e superare le contingenti difficoltà: nondimeno, da più parti[35] è stato segnalato il rischio che a fruire di un tale beneficio siano anche le imprese mafiose, dietro il cui schermo societario possono nascondersi soggetti condannati per mafia o per altri reati sintomatici (es. contro la pubblica amministrazione) oppure sottoposti a misure di prevenzione personale o patrimoniale antimafia. D’altro canto, i primi mesi di applicazione di questa speciale disciplina creditizia hanno messo in luce quanto difficile sia accertare, dietro l’organigramma societario, gli effettivi beneficiari dei fondi; e ancor più difficile verificare se la liquidità erogata sia stata effettivamente destinata ad arginare i danni prodotti dalla ridotta mobilità sociale. Lo strumento adottato insomma, che si pone a metà strada tra il prestito (privato) e l’erogazione (pubblica) a fondo perduto, sfugge tanto alle verifiche bancarie in ordine alla tenuta finanziaria del richiedente, tanto ai controlli normalmente connessi agli aiuti elargiti alle imprese.
Autorevoli esponenti della magistratura[36] hanno segnalato che, in tal modo, si attiva una gigantesca iniezione di liquidità nel mercato delle imprese, eppure nessuno strumento tecnico-giuridico viene previsto quale riparo dal rischio di finanziamento pubblico di imprese mafiose: questo strumento creditizio rinuncia per es. alla tracciabilità dell’uso del finanziamento, attraverso il ricorso obbligatorio a conti dedicati, in grado di facilitare l’individuazione di anomalie e rischi di riciclaggio; come si è rinunciato a subordinare l’accesso al credito agevolato al preventivo assolvimento di un obbligo dell’imprenditore di attestare, innanzitutto, di non essere sottoposto a procedimenti per gravi delitti, innanzitutto di criminalità organizzata, corruzione, frode fiscale. Ne consegue la possibilità che ad essere soddisfatti siano, oltre alle imprese effettivamente bisognose, anche gli interessi speculativi di strutture mafiose; e, in ultima analisi, del rafforzamento per quella mafia che si fa impresa.
Proseguendo sul versante dell’imprenditoria mafiosa: la pandemia, avendo generato una crisi di liquidità senza precedenti, ha inoltre accentuato il fenomeno dell’usura, che consente alle mafie di impadronirsi di nuovi soggetti economici. La crisi asseconda in questo senso la vocazione monopolista delle mafie: spinge da un lato gli imprenditori a richiedere risorse liquide e immediate a uomini dal volto pulito e amichevole, dietro cui si nascondono le cosche. L’imprenditore mafioso ha, di primo acchitto, un atteggiamento benevolo: offre aiuto all’impresa in difficoltà, con prestiti facili dai tassi d’interesse apparentemente allettanti. Un’ offerta che l’imprenditore insolvente non è quasi mai in grado di rifiutare; salvo scoprire, subito dopo, di dovere restituire somme esorbitanti e, in mancanza di liquidità, spesso finisce col cedere l’intera azienda[37].
D’altronde, la crisi è il momento in cui il sistema economico opera una sorta di selezione naturale, tra chi è in grado di reggere il peso delle difficoltà, e di uscirne rafforzato, e chi invece perisce, per essere espulso definitivamente dal mercato. Ecco perché è talvolta l’impresa mafiosa a cercare - o meglio: anticipare - l’operatore economico, proponendo offerte apparentemente vantaggiose per superare il momento di difficoltà: non solo prestiti usurai, ma anche strategie di evasione fiscale sicura o di ottimizzazione dei costi d’impresa con attività fraudolente. Il fine è sempre lo stesso: spingere all’indebitamento con gli stessi soggetti mafiosi, imporsi dentro l’impresa in difficoltà ed acquisire nuove fette di mercato a discapito di chi patisce la crisi.
L’infiltrazione nel tessuto economico dei mafiosi imprenditori e dei loro capitali illeciti è silenziosa, ma continua e costante, e aiuta le cosche a riciclare l’ampia riserva di denaro sporco generato dalle attività delittuose dell’associazione, attivando modalità di reimpiego in grado di convertire il denaro "sporco" in denaro "pulito"; e il reinvestimento dei profitti è un’attività assolutamente necessaria in tempi ordinari, e di gran lunga agevolata - per le ragioni sopra accennate - nel periodo storico che stiamo vivendo.
5. Gli errori e le prospettive
L’aver anzitutto ricordato alcuni dati storici incontestabili - ed in particolare che la mafia si pone al posto dello Stato in quanto soggetto politico per sua stessa natura - è stato necessario per individuare, in termini generali ma già col conforto di numerose evidenze giudiziarie a disposizione, il modo con cui le mafie si mostrano e operano in tempi di profonda crisi economica e sociale, quale quella scaturita dalla pandemia. Si è visto come le mafie operino su due direttrici: quello dell’aiuto (subdolo) ai soggetti in difficoltà e quello del rafforzamento delle proprie posizioni economiche. Ma si è anche visto come le mafie non cessino mai di essere entità predatorie, e sempre in questo duplice senso: in una stagione di aiuti economici i fondi vengono depredati per sé o per altri (è la mafia che aiuta) oppure per rafforzare la propria posizione imprenditoriale (è la mafia che si fa impresa). Sono essenzialmente queste le direzioni del crimine organizzato mafioso che si registrano in tempi di Covid-19.
Non è ancora possibile quantificare il grado di penetrazione delle compagini mafiose nella società e nell’economia italiana a seguito della spaventosa crisi generata dal virus: non è possibile quantificare il numero dei soggetti beneficiati dalle cosche mafiose (in cambio di una contropartita che, presto o tardi, verrà pretesa), di persone rimaste vittima del fenomeno usuraio perpetrato col metodo mafioso; il numero di aziende e imprese in difficoltà finite nelle mani delle organizzazioni mafiose, né la consistenza dei capitali illeciti messi in circolazione attraverso le attività lucrose delle imprese mafiose[38]. Eppure in buona parte già lo rilevano le risultanze investigative e processuali fin qui disponibili, in cui le attività mafiose di carattere economico-imprenditoriale mostrano un notevole incremento: emerge adesso con maggior forza un «interesse per l’impresa nelle indagini di criminalità organizzata»[39], tanto da suggerire l’abbandono «di una prospettiva per così dire "mafiocentrica", per puntare l’attenzione su quei fattori di contesto che consentono alla mafia di prosperare» . Bisogna quindi andare a guardare, oggi, il contesto in cui le mafie operano, che non è più soltanto quello economicamente asfittico del Meridione (in cui pure i soggetti economici ben conoscono l’esistenza dell’organizzazione e dell’impresa mafiosa e, talvolta, vi si affidano, per necessità o per convenienza), ma è anche quello del ricco Nord Italia, ove si guarda più alle capacità economiche che all’esercizio della violenza: sempre più terreno di coltura delle nuove forme mafiose, derivate o meno dalle compagini tradizionali[40].
Le prime risultanze investigative sul periodo coperto dalla pandemia quindi confermano una pesante infiltrazione delle mafie nelle economie legali. Un dato che si evince in positivo (in relazione alle indagini appunto messe a segno dagli organi inquirenti) ma anche in negativo: «l’aumento delle cancellazione di imprese sane può considerarsi il diretto portato dell’operatività dei soggetti economici mafiosi, che deviano la concorrenza, egemonizzando i settori di mercato in cui sono inseriti» [41].
Certamente può dirsi che il ritorno della questione mafiosa in relazione all’economia, nei provvedimenti giudiziari e nelle osservazioni degli organi di controllo e degli studiosi, fanno intendere che la prepotente domanda di legittimazione sociale delle mafie, di riconoscimento delle loro leadership sociali ed economiche di fronte agli stravolgimenti epocali vissuti a partire dal 2020, è stata soddisfatta: perché se è vero che le mafie, storicamente, sono state caratterizzate da un andamento carsico[42], è vero, per converso, che la cosca «sembra scomparire nei periodi di forte repressione, per riapparire, più forte e determinata nelle fasi di debolezza delle istituzioni e di crisi economica» [43]. Nè può escludersi che il meccanismo interno dell’attività mafiosa abbia, a seguito della comparsa del Covid-19 e delle relative - e sopra percorse - "occasioni" di rafforzamento e di guadagno, definitivamente abbandonato la violenza quale modalità d’azione: da attuare, per il mafioso sempre più homo oeconomicus, solo se strettamente necessario. E questo muta - come è già mutato - l’approccio dell’analisi e del contrasto del fenomeno, certamente resi più complessi.
Non è possibile neppure parlare di "errori", tali da aver determinato questo infausto risultato; piuttosto, come emerge dagli aspetti gestionali della crisi sopra ripercorsi, si evince un approccio superficiale alle misure di crescita, sotto l’aspetto legalitario, che non tiene conto dei risultati acquisiti in decenni di rigoroso contrasto alle cosche - non tiene conto, in particolare, della imprescindibile lezione di Giovanni Falcone, secondo cui le mafie sono sì fenomeni umani, ma sopratutto economici[44].
Può dirsi che da parte dei decisori pubblici, almeno fin qui, è stata compiuta la leggerezza di avere sottovalutato il rischio, da un lato, che al welfare state potesse subentrare il c.d. "welfare mafioso di prossimità"[45], ovvero quel sostegno attivo alle famiglie, agli esercenti commerciali, agli imprenditori in difficoltà, in cambio di connivenza, condivisione dei profitti, conquista di posizioni di mercato; dall’altro, che le misure di stimolo dell’economia potessero avvantaggiare, in primo luogo, proprio le imprese mafiose.
Come già si è ricordato: era il 1980 quando la camorra riusciva a mettere le mani sul business della ricostruzione del terremoto in Irpinia; erano ancora gli anni ottanta quando cosa nostra si sedette allo stesso tavolo della politica per inaugurare una imponente stagione di opere pubbliche realizzate in deroga di bilancio, in Sicilia, con l’obiettivo di riallineare il Sud al Nord; ed è stato ancora un terremoto, quello emiliano del 2012, ad aver sollecitato l’intervento degli imprenditori mafiosi presenti nell’area (in collegamento, in particolare, con le cosche calabresi). La storia delle mafie ci insegna che è nei periodi di emergenza, sfruttando le incertezze del legislatore e dell’esecutivo, che i gruppi mafiosi adottano con la massima efficacia i loro metodi, le loro politiche anticoncorrenziali; rafforzandosi sul piano economico e sociale.
Ancora si fronteggiano da un lato l’esigenza di garantire ossigeno e sostegno finanziario alle imprese e al sistema economico in genere, dall’altro la necessità di snellire le procedure di gara per stimolare l’economia e di agevolare l’erogazione di aiuti e sussidi, per tamponare l’indigenza. Ma questi obiettivi non possono andare a discapito dei controlli sugli effettivi utilizzi e sugli effettivi beneficiari dei denari pubblici; che, nel panorama attuale, andrebbero invece rafforzati. I presidi di legalità nelle procedure di affidamento di appalti o di concessione di benefici, procedure che interessano le mafie dal volto benevolo che mediano tra poteri pubblici e privati, dovrebbero essere implementati, non depotenziati. E quanto all’attuale spadroneggiamento delle imprese mafiose: come di recente ha segnalato un autorevole organo di controllo[46], è essenziale il monitoraggio dei ruoli chiave delle imprese per cogliere se, negli assetti proprietari, manageriali e di controllo, vi siano soggetti privi di adeguata professionalità che appaiono come prestanome.
Rispetto ai provvedimenti e alle misure ripercorse, sul piano della prevenzione suppliscono alle carenze normative i prefetti, con l’emanazione - in esponenziale aumento nell’ultimo anno - di interdittive antimafia: un provvedimento che vieta in radice alle aziende che celano rapporti con le mafie di partecipare ad appalti pubblici e di avere rapporti con la pubblica amministrazione[47]. Ma si tratta di una misura tampone, certamente inidonea a contrastare l’infiltrazione nell’economia pubblica e privata da parte delle mafie. E’ invero opportuno che sia il legislatore a maturare la consapevolezza dei rischi che il Paese sta correndo in questo frangente, le cui ulteriori incertezze nel prevenire il dissipamento delle risorse potrebbero essere pagate a caro prezzo da cittadini e da imprenditori negli anni a venire: è quindi necessario rivedere i moduli emergenziali fin qui adottati e assecondare istanze di controllo e di tracciabilità dei fondi nelle stesse leggi che istituiscono le risorse; oppure stipulare dei protocolli di legalità a margine di ciascun aiuto economico a privati e imprese, a margine di ciascuna procedura di gara semplificata per ragioni emergenziali.
Ci muoviamo, peraltro, in un orizzonte temporale dominato dal c.d. "Recovery Fund", il fondo per la ripresa che l’Unione europea a fine luglio 2020 ha messo sul piatto per rilanciare le economie dei 27 Paesi membri travolte dalla crisi del Covid-19[48]. Com’è stato segnalato dagli studiosi, la concreta gestione di queste risorse è un’opportunità, tanto per il progresso unitario del Paese, tanto per i propositi delle mafie, non solo d’arricchimento dei propri sodali, ma anche d’infragilimento della collettività: che quanto più si mostra disgregata, quanto più è propensa ad accettare le condizioni di subdolo sviluppo dettate dai mafiosi[49].
Nei prossimi mesi l’Italia sarà destinataria di questi fondi (una parte di contributi a fondo perduto, una parte di prestiti): e ci si chiede se sia possibile fare in modo che la più poderosa immissione di liquidità degli ultimi settant’anni nel sistema economico, con investimenti programmati dalle pubbliche amministrazioni di inedita portata, non conduca ad ulteriori situazioni di vantaggio per le mafie imprenditrici. Sarebbe un imperdonabile scacco, non solo sul piano economico, ma anche sul piano sociale e della tenuta democratica del Paese.
*Il presente contributo arricchisce ed amplia, con ulteriori argomentazioni e l’aggiunta di note, la relazione tenuta al convegno di studi Mafie tra continuità e mutamento: analisi, esperienze, narrative organizzato dall’Università di Messina - Centro studi sulle mafie, il 27-28 settembre 2021.
[1] Che si sia trattato di una delle più grandi crisi economiche - a livello planetario - degli ultimi decenni lo confermano gli analisti: cfr. Mitigating the COVID Economic Crisis: Act Fast and Do Whatever It Takes, a cura di Baldwin e Weder DiMauro, Centre for Economic Policy Research, London, 2020, con un focus sulla situazione italiana svolto da Alesina - Giavazzi, The EU must support the member at the centre of the COVID-19 crisis, p. 51 ss.; Report on the comprehensive economic policy response to the COVID-19 pandemic, Consiglio Europeo – comunicato stampa n. 223/20, 9 aprile 2020; ancora, sull’Italia, cfr. Produzione industriale italiana in calo di oltre il 50% in marzo e aprile. Una caduta senza precedenti, report del Centro studi Confindustria, 4 maggio 2020, rinvenibile su www.confindustria.it.
[2] Le previsioni di crescita del PIL del Paese per l’anno 2021 si attestano infatti attorno al 6% (a fronte del crollo della ricchezza nel 2020 nella misura del 9%), in linea d’altronde con i trend di crescita degli altri paesi europei (cfr. Banca d’Italia, Bollettino economico, 4, 2021, p. 51 ss.): ciò comporta il definitivo superamento della fase più critica della depressione economica vissuta nel 2020.
[3] L’espressione "ondata epidemica" con riferimento al virus Covid-19, che certamente connota la gravità del fenomeno, è stata inizialmente adottata nel report Impatto dell’epidemia Covid-19 sulla mortalità totale della popolazione residente - anno 2020 (Istituto nazionale di statistica - Istituto superiore di sanità), Roma, 2020, e poi penetrata nel linguaggio comune.
[4] Oltre a incidere pesantemente sulla crescita economica dei paesi coinvolti, la pandemia ha anche innescato ovvero contribuito ad accelerare processi potenzialmente idonei a modificare radicalmente il contesto socio-economico di riferimento. Sul punto, cfr. La crisi Covid 19. Impatti e rischi per il sistema finanziario italiano in una prospettiva comparata (report CONSOB), a cura di Linciano, Roma, 2020; Banca d’Italia, Indagine straordinaria sulle famiglie italiane, Roma, 2020, rinvenibile su www.bancaditalia.it.
[5] Al riguardo e` indicativo quanto ha affermato il Ministro dell’Interno alla Camera dei Deputati l’8 aprile 2020: «L’attuale fase di emergenza che stiamo vivendo sta incidendo profondamente anche sul tessuto economico e sociale. In tale contesto, è necessario mantenere alta la guardia, per scongiurare possibili rischi di infiltrazione della criminalità organizzata nella fase di riavvio delle diverse attività economiche attualmente in sofferenza. [...] Particolare attenzione dovrà essere rivolta verso determinati reati spia, indici di fenomeni di infiltrazione criminale, anche mafiosa, nelle pieghe economico-finanziarie, tra le quali l’attività estorsiva, l’usura, l’attività di riciclaggio» (Resoconto stenografico dell’Assemblea, XVIII legislatura, seduta n. 324 dell’ 8 aprile 2020, rinvenibile su www.camera.it). Il rischio dell’infiltrazione mafiosa nel sistema economico piagato dal Covid-19 è stato fin da subito sollevato da autorevoli commentatori, quali De Raho, Il procuratore nazionale antimafia De Raho: “I clan hanno necessita` di collocare i soldi liquidi: ecco come si approfitteranno della crisi”, in Corriere della Sera, 2 aprile 2020; De Lucia - Petralia - Sava, Infiltrazioni mafiose e Covid-19 (intervista a cura di Apollonio), in Giustizia Insieme (web), 20 aprile 2020.
[6] Per l’approfondimento in chiave storica di tali eventi cfr. Ciconte, Storia criminale. La resistibile ascesa di mafia, ‘ndrangheta e camorra dall’Ottocento ai giorni nostri, 2008, Soveria Mannelli, p. 159 ss. e p. 306 ss.; cfr. anche Sales, Storia delle mafie italiane. Perché le mafie hanno avuto successo, Soveria Mannelli, 2015, spec. p. 53 ss.; Paoli, Fratelli di sangue. Cosa nostra e ‘ndrangheta, Bologna, 2000, p. 20 ss.
[7] Vd. Pignedoli, Operazione Aemilia: Come una cosca di ‘Ndrangheta si è insediata al Nord, Reggio Emilia, 2015; Soresina, I mille giorni di Aemilia. Il più grande processo al Nord contro la ‘Ndrangheta, Roma, 2019.
[8] «Interpretando la protezione come una merce vera e propria è possibile spiegare il senso di molte attività mafiose» (Gambetta, La mafia siciliana: un’industria della protezione privata, Torino, 1992, p. 62). Nell’opera, che teorizza il concetto di protezione mafiosa, si evidenzia peraltro che quando trasformazioni economiche significative – come un boom in un mercato locale o una transizione da un sistema di contrattazione ad un altro – non sono governate dalle autorità danno origine ad una domanda di protezione cui si collega, nelle aree piagate dal fenomeno, immancabilmente un’offerta mafiosa in tal senso.
[9] Cfr., per tutti, Arlacchi, Mafia, contadini e latifondo nella Calabria tradizionale. Le strutture elementari del sottosviluppo, Bologna, 1980, p. 128 ss.
[10] Tajani, Mafia e potere. Requisitoria del 1871, Pisa, 1993, p. 45.
[11] Camilleri-Lodato, La linea della palma, Milano, 2003, p. 31.
[12] Il tema, reso artisticamente da De Filippo, è ben trattato, sotto l’aspetto scientifico, da Fiore, La politicizzazione della camorra. Le fonti di polizia a Napoli (1840-1860), in Meridiana, 78, 2013, p. 134 ss. nonché da Di Majo, I grandi camorristi del passato, Napoli, 2012; vd. anche Mascilli Migliorino, Povertà e criminalità a Napoli dopo l’unificazione: il questionario sulla camorra, in Archivio della provincia napoletana, 3, 1980, p. 290 ss.
[13] Ciò è ben illustrato nello studio di Arlacchi, La mafia imprenditrice. L’etica mafiosa e lo spirito del capitalismo, Bologna, 1983, p. 55 ss.; Becchi-Rey, L’economia criminale, Roma-Bari, 1994, p. 32 ss. Per uno spaccato criminologico attuale della questione vd. Savona, La regolazione del mercato della criminalita`, in Aa.Vv., Verso un nuovo codice penale: itinerari, problemi, prospettive, Milano, 1993, p. 203 ss.
[14] Ristori che hanno contribuito a sostenere: i) le imprese, per contenere l’incremento del tasso di insolvenza, il crollo degli investimenti e il calo della produttività anche collegato all’eventuale mantenimento di misure di distanziamento sociale necessarie per prevenire successive ondate di contagio; ii) le famiglie, in modo da mitigare la contrazione del reddito disponibile e dei consumi; iii) il sistema bancario, in modo da mitigare gli effetti di un peggioramento della qualità del credito sulla stabilità delle banche e sull’erogazione di crediti a famiglie e imprese (vd. La crisi Covid 19. Impatti e rischi per il sistema finanziario italiano, cit., p. 17). Cfr. anche Misure fiscali e finanziarie per l’emergenza Coronavirus - Camera dei Deputati - Servizio Studi, 25 giugno 2021, in www.camera.it
[15] L’insufficienza del sostegno pubblico nel contesto epidemico si registra su scala planetaria: si veda il rapporto Oxfam Shelter from the storm. The global need for universal social protection in times of Covid 19, a cura di Barba, van Regenmortal e Ehmke, Oxford, dicembre 2020.
[16] «Uno dei principali obiettivi delle mafie è quello di sostituirsi allo Stato nel sostegno alle fasce più deboli della popolazione, aumentando in tal modo il proprio consenso sociale, sia utilizzando "risorse" proprie, che gestendo i fondi che gli stessi decreti anticrisi destinano allo scopo» : De Lucia, in De Lucia-Petralia-Sava, Infiltrazioni mafiose e Covid-19, cit. Una lettura del fenomeno mafioso in termini di capitale sociale poggiato sul consenso è stata promossa efficacemente in Italia da Sciarrone, Mafie vecchie, mafie nuove. Radicamento ed espansione (nuova edizione), Roma, 2009, p. 48, fino al piu` recente lavoro di Sciarrone-Storti, Le mafie nell’economia legale. Scambi, collusioni, azioni di contrasto, Bologna, 2019, p. 69 ss.
[17] Come infatti è stato sottolineato, «Un imprenditore legittimo, costretto ad operare in regime di concorrenza con colleghi "criminali" dotati di ricchissime fonti di denaro liquido, è destinato a soccombere» (Zanchetti, Il riciclaggio di denaro proveniente da reato, Milano, 1997, p. 52); sul profilo anti-concorrenziale del riciclaggio dei proventi mafiosi vd. anche Riciclaggio e imprese. Il contrasto alla circolazione dei proventi illeciti, a cura di Arnone e Giavazzi, Milano, 2011, p. 10 ss.; Masciandaro, Analisi economica della criminalità, teoria della regolamentazione e riciclaggio finanziario, in Mercati illegali e mafie, a cura di Zamagni, Bologna, 1993, p. 243 ss.
[18] La dimensione politica è costitutiva del fenomeno mafioso. Da questo punto di vista, la mafia si caratterizza come un gruppo politico in senso weberiano, poiché presenta le caratteristiche principali di tale categoria di gruppo, vale a dire un sistema di regole e di norme, un apparato in grado di farle rispettare, una dimensione territoriale, la coercizione fisica (Santino, La borghesia mafiosa. Materiali di un percorso d’analisi, Palermo, 1994, p. 125). Vd. anche Id., La mafia come soggetto politico. Ovvero: la produzione mafiosa della politica e la produzione politica della mafia, in La mafia, le mafie tra vecchi e nuovi paradigmi, a cura di Costantino e Fiandaca, Roma-Bari, p. 118 ss.
[19] Com’è noto, il metodo mafioso si condensa nelle modalità d’azione dei partecipi di cui al terzo comma dell’art. 416-bis c.p.: «L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri» .
[20] Hobsbawn, I banditi, Torino, 2002, p. 34; cfr. nei medesimi termini Romano, L’ordinamento giuridico, Firenze, 1917; tale concetto accede poi ai successivi studi sulla fenomenologia mafiosa: tra questi, si veda Cerami - Di Lello - Gambino, Istituzioni, mafia e realtà politico-sociale, in Aa.Vv., Mafia e istituzioni, Roma, 1981.
[21] Tranfaglia, La mafia come metodo, Milano, 2012, p. 9.
[22] Il riferimento sociologico più utile e illustrativo sul tema lo si rinviene nel pensiero di Lupsha, che individua non due ma tre stadi di affermazione del crimine mafioso: lo stadio predatorio, in cui il mafioso, per imporre condizioni di assoggettamento, è costretto ad utilizzare in maniera indiscriminata e costante la violenza; lo stadio corruttivo, in cui si infiltrano i poteri pubblici costituiti; ed infine lo stadio simbiotico, in cui l’ente mafioso viene visto oramai come parte integrante del contesto sociale, come elemento "utile" di governo dell’economia e della società: cfr. Lupsha, Transnational Organized Crime versus the Nation State, in Transnational Organized crime, 48, 1996, p. 21 ss.
[23] Un altro dei compiti che l’organizzazione mafiosa si prefigge: vd. Sciarrone, Mafia e potere: processi di legittimazione e costruzione del consenso, in Stato e mercato, 3, 2006, p. 369 ss.
[24] Cfr. CENSIS, 55° Rapporto sulla situazione sociale del Paese/2021, Roma, dicembre 2021.
[25] Va ricordato che la mafia emerge nell’Ottocento come forma di mediazione: cfr. le tesi, piuttosto consolidate tra gli studiosi, di Ferrarotti, Rapporto sulla mafia: da costume locale a problema dello sviluppo nazionale, Napoli, 1978; Gribaudi, Mediatori, Torino, 1980.
[26] In Direzione Investigativa Antimafia (DIA), Relazione del Ministro dell’Interno al Parlamento, luglio-dicembre 2020, consultabile su www.senato.it, p. 23, che è lo specchio della più recente attività giudiziaria e di contrasto al fenomeno mafioso (e che per tale motivo verrà più volte citata nel prosieguo), si fa riferimento alle numerose evidenze d’indagine che riguardano l’indebita percezione di benefici assistenziali da parte di soggetti mafiosi ovvero di soggetti a questi vicini e da questi "aiutati".
[27] Nell’importante studio di Gambetta, La mafia siciliana. Un’industria della protezione privata, Torino, 1992, p. 302, l’interesse delle mafie in quest’attività è legato al fatto che è statisticamente più facile che l’edilizia e il suo indotto siano inquinati dalle offerte truccate e dalle intese collusive; la mafia favorisce e protegge gli accordi sia di corruzione sia di collusione, agevolando ed amplificando le storture del mercato mediante l’immissione di denari "sporchi" e l’esercizio del suo metodo.
[28] Anche questo tema ha un rilievo socio-criminologico: secondo La Spina, Mafia, legalità debole e sviluppo del Mezzogiorno, Bologna, 2005. p. 171, i politici meridionali piuttosto che amministratori capaci di impiegare efficacemente le risorse di cui dispongono, sono visti prevalentemente come mediatori tra centro e periferia e a livello locale, tra concessione e richieste di benefici economici.
[29] Cfr. Direzione Investigativa Antimafia (DIA), Relazione del Ministro dell’Interno, cit., p. 23.
[30] Si tratta di due circolari del DCA datate 27 marzo e 4 aprile 2020, indirizzate a tutti i Questori d’Italia, che segnalano la necessità di prestare grande attenzione e, quindi, contrastare le prevedibili infiltrazioni mafiose ed attività corruttive nel settore degli appalti pubblici e delle forniture sanitarie conseguenti alle misure restrittive adottate per contrastare la diffusione del coronavirus.
[31] Vds. il Report 4/2020 dell’Organismo permanente di monitoraggio e analisi sul rischio di infiltrazione dell’economia da parte della criminalità organizzata di tipo mafioso, Roma, dicembre 2020, spec. p. 87 ss., ove si accenna al ruolo determinante dei prestanome in tutti i casi in cui occorre aggirare verifiche preventive (es. la stipula di protocolli di legalità) e riscontri successivi da parte dell’autorità giudiziaria.
[32] Cfr. Direzione Investigativa Antimafia (DIA), Relazione del Ministro dell’Interno, cit., pp. 12-13; l’esercizio solo eventuale del metodo mafioso da parte degli affiliati impegnati in pratiche corruttive con pubblici funzionari è un tema esplorato, volendo, in Apollonio, Rilievi critici sulle pronunce di "mafia capitale": tra l’emersione di nuovi paradigmi e il consolidamento nel sistema di una mafia soltanto giuridica, in Cass. Pen., 2016, p. 130 ss.; Id., Estorsione "ambientale" e art. 416-bis.1 c.p.al cospetto dei modelli mafiosi elaborati dalla giurisprudenza, in Cass. Pen, 2018, p. 3483.
[33] Oltre al già citato studio di Arlacchi, La mafia imprenditrice, cit., va richiamato lo studio sull’impresa mafiosa di Pellegrini, L’impresa grigia. Le infiltrazioni mafiose nell’economia legale, Roma, 2018, p. 74 ss.
[34] Ed in tale ambito è stato di recente registrato come numerosi imprenditori, a seguito dello scoppio della pandemia, abbiano favorito l’ingresso nelle imprese di soggetti appartenenti alle cosche mafiose per beneficiare del loro peso criminale e delle loro tecniche intimidatorie, al fine di garantirsi, illecitamente, una vantaggiosa posizione di mercato (ma si pensi, anche, al difficoltoso recupero dei crediti in tempi di crisi economica): cfr. Report 4/2020, cit., p. 87.
[35] Sul punto si veda la Circolare del ministro dell’Interno ai Prefetti del 4 maggio 2020, Emergenza epidemiologica da COVID-19. Misure urgenti in materia di accesso al credito delle imprese, reperibile su www.interno.it, in cui si evidenzia che è stato sottoscritto un protocollo d’intesa tra il Ministero dell’Interno, dell’Economia e delle Finanze, e la società SACE, «strutturando un modello collaborativo in grado di consentire, ad un tempo, la completa funzionalità dello strumento e l’esigenza di impedire il beneficio di qualunque utilità di fonte pubblica a vantaggio di un’ impresa in odore di condizionamento malavitoso» ; tuttavia, lo strumento "privilegiato" di controllo rimarrebbe l’auto-certificazione del possesso dei requisiti da parte del richiedente; sul punto vd. anche Saviano, Coronavirus. Perche´ la mafia vuole prendersi cura dei nostri affari, in La Repubblica, 26 aprile 2020; ed anche, volendo, Apollonio, Non rischiamo che le mafie si prendano il Paese, in La Gazzetta del Mezzogiorno, 25 aprile 2020.
[36] Greco - Melillo, Greco e Melillo: “Ecco perche´ il Decreto Credito e` pericoloso”, in La Repubblica, 11 aprile 2020; Morosini, Emergenza socio-economica e pericolo mafioso, in Quest. Giust. (web), 16 ottobre 2020.
[37] Segnala il concretizzarsi del rischio di usura, e di acquisizione diretta o indiretta delle imprese da parte di organizzazioni criminali, nel periodo storico attuale, l’Unità di Informazione Finanziaria per l’Italia (UIF), Prevenzione di fenomeni di criminalità finanziaria connessi con l’emergenza da Covid-19, 11 febbraio 2021.
[38] E’ significativo che lo United Nations Office on Drugs and Crime (UNODC), The impact of Covid-19 on organized crime - Research brief, report rinvenibile su www.unodc.org, distingua i settori economici vulnerabili all’infiltrazione del crimine organizzato tra quelli in difficoltà (Economic sectors vulnerable to infiltration by OCGs due to their financial distress caused by the COVID-19 crisis) e quelli con previsioni di crescita (Economic sectors vulnerable to OCG infiltration because of their opportunities to benefit from the COVID-19 crisis).
[39] Così il Procuratore di Milano Francesco Greco in Direzione Investigativa Antimafia, Relazione del Ministro dell’Interno al Parlamento, cit., p. 282.
[40] Sulle mafie al Nord si guardi il ricognitivo lavoro Riconoscere le mafie. Cosa sono, come funzionano, come si muovono, a cura di Santoro, Bologna, 2015, ed in particolare il contributo di La Spina, Riconoscere le organizzazioni mafiose, oggi: neo-formazione, trasformazione, espansione e repressione in prospettiva comparata, ivi, p. 95 ss.; per i problemi tecnico-giuridici che il fenomeno solleva cfr. Balsamo-Recchione, Mafie al Nord. L’interpretazione dell’art. 416 bis c.p. e l’efficacia degli strumenti di contrasto, in Dir. pen. cont. (web), 18 ottobre 2013.
[41] Così Michele Formiglio, Prefetto di Mantova, in Direzione Investigativa Antimafia, Relazione del Ministro dell’Interno, cit., p. 283.
[42] In letteratura il primo ad utilizzare questa espressione, relativamente al fenomeno mafioso (camorristico) è Sales, La camorra, le camorre, Roma, 1988, p. 74.
[43] In questo senso, secondo Catino, La mafia come fenomeno organizzativo, in Quaderni di Sociologia, 14, 1997, «La visibilità dell’organizzazione sembra essere un indicatore negativo dello stato di sviluppo di un sistema sociale» .
[44] E, ancor più incisivamente: «la mafia, essendo in prima istanza un fenomeno socioeconomico, non può venire efficacemente repressa senza un radicale mutamenti della società, della mentalità, delle condizioni di sviluppo» (Falcone, Cose di cosa nostra, in collaborazione con Padovani, Milano, 1995, p. 153).
[45] La mafia infatti oggi si accredita «presso imprenditori in crisi di liquidità ponendosi quale interlocutore di prossimità, imponendo forme di sostegno finanziario e prospettando la salvaguardia della continuità aziendale» (Direzione Investigativa Antimafia, Relazione del Ministro dell’Interno, cit., p. 12).
[46] Vd. Unità di Informazione Finanziaria per l’Italia (UIF), Prevenzione di fenomeni di criminalità finanziaria, cit.
[47] Si registrano peraltro proficue interazioni e collaborazioni con i locali uffici di Procura che consentono approfondite istruttorie in tema di interdittive antimafia: cfr. Direzione Investigativa Antimafia, Relazione del Ministro dell’Interno, cit., p. 237.
[48] L’Italia, prendendo atto del fallimento delle politiche di sostegno adottate (talvolta compulsivamente) nel periodo emergenziale, grazie anche alla concessione di cospicui aiuti euro-unitari, ha redatto il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), pubblicato il 5 maggio 2021 su www.governo.it: trattasi del più grande piano di pacchetti economici mai varato dal dopoguerra. Di interesse quanto dichiarato dal Procuratore Nazionale Antimafia Federico Cafiero de Raho all’ANSA il 28 aprile 2021: «Le mafie, diversamente dalle imprese sane, non hanno bisogno di liquidità ma piuttosto hanno l’esigenza di collocarle. Laddove lo Stato, l’Europa, intervengono per aiutare la ripresa dell’economia, già si esclude in parte il rischio che le mafie intervengano con i propri fondi per appropriarsi da dentro delle imprese e quindi di infiltrarsi. D’altro canto vi è anche l’ulteriore finalità delle mafie, quella di intercettare i flussi finanziari che provengono dallo Stato e dagli altri enti pubblici» .
[49] Sales, Il Recovery e il divario del Sud, in La Repubblica, 3 dicembre 2021, sottolinea - sulla scorta dei dati storici e previsionali a disposizione - che senza un radicale mutamento d’approccio nella gestione dei fondi pubblici da parte delle pubbliche amministrazioni del Meridione, il PNRR e la relativa mole di finanziamenti destinati al Paese rischia di divaricare ulteriormente la distanza Nord-Sud e di frammentare ancora di più il corpo sociale: a tutto vantaggio delle organizzazioni mafiose.
La permanenza nel braccio della morte ovvero il tempo sospeso tra speranza e sofferenza
di Rocco Poldaretti
Sommario: 1. La condanna a morte e il c.d. «death row phenomenon». – 2. Le prime soluzioni giurisprudenziali: l’ancora del divieto di trattamenti inumani come limite alla sofferenza. – 3. (Segue): alcune chiavi di lettura retenzioniste, quando svanisce la speranza? – 4. La rilevanza dell’approccio, riflessioni conclusive.
1. La condanna a morte e il c.d. «death row phenomenon»
Il braccio della morte, ovvero il luogo in cui il condannato si trova ad attendere l’esecuzione della pena capitale sin dal momento della condanna, è stato a lungo al centro del dibattito giuridico nazionale e sovranazionale, in cui si è cercato di individuare un punto di equilibrio tra la salvaguardia del nucleo essenziale dei diritti umani ed il perseguimento delle logiche della pena capitale.
In quest’ottica, la tutela costituzionale dei valori fondamentali dell’individuo si tradurrebbe nelle scelte dei singoli ordinamenti che, in varia misura, possono essere ispirate a principi tra loro divergenti: da un lato, la correttezza procedurale, e dall’alto la maggiore efficacia dello strumento sanzionatorio.
La delicata questione è stata oggetto di una riflessione del Justice Breyer della Corte suprema degli Stati Uniti, il quale, nella sentenza Glossip c. Gross[1], ha evidenziato sotto forma di dissenting opinion l’angusto «dilemma» che affligge la pratica della pena di morte.
Secondo il giudice, “in un sistema concernente la pena di morte che ricerchi la correttezza procedurale, l’affidabilità conduce a ritardi che aggravano seriamente la crudeltà della pena capitale e pregiudicano significativamente la logica dell’irrogazione di una condanna a morte, [mentre] un sistema che riducesse i ritardi pregiudicherebbe gli sforzi dell’ordinamento giuridico di assicurare l’affidabilità e la correttezza procedurale”[2].
Il dilemma verrebbe pertanto ad essere ridotto all’aut aut tra una pena di morte presumibilmente funzionale a perseguire legittimi scopi penologici[3], oppure un sistema procedurale che, presumibilmente, ricerchi affidabilità e correttezza nell’applicazione di tale pena[4].
All’interno di questo dualismo, che sovente si traduce in soluzioni di prevalenza – e non di totale esclusione – dell’uno sull’altro, si colloca poi la questione degli effetti del tempo trascorso dal condannato nel braccio della morte.
In questo senso, con l’espressione «death row phenomenon»[5] si indica l’insopportabile ritardo legato all’angoscia onnipresente e crescente relativa all’esecuzione della pena capitale[6], attraverso un giudizio incentrato sulla persona del ricorrente, ovvero con particolare attenzione alla sua età e al suo stato mentale all’epoca del reato, con il reale rischio di sottoporre lo stesso ad un trattamento inumano e degradante[7].
L’esistenza del braccio della morte non deve però portare a concludere che qualsiasi ritardo costituisca un trattamento disumano; poiché, altrimenti, l’alternativa di prevedere una esecuzione immediatamente successiva alla sentenza costituirebbe una patente violazione del diritto all’appello, alla revisione della condanna oppure alla richiesta di provvedimenti di clemenza, evitabile soltanto attraverso la strada dell’abolizione[8].
Occorre pertanto fare chiarezza su un duplice interrogativo: da un lato quello di cercare di definire il vasto orizzonte temporale che connatura il c.d. «death row phenomenon» e dall’altro quello di individuare il momento a partire dal quale l’attesa del condannato cesserebbe di essere giustificata, esponendolo a sofferenze fisiche e psicologiche insopportabili[9].
2. Le prime soluzioni giurisprudenziali: l’ancora del divieto di trattamenti inumani come limite alla sofferenza
Nonostante l’assenza di una soluzione univoca sul punto da parte della giurisprudenza delle varie corti supreme e costituzionali, si evidenzia come alcune di esse, in realtà, abbiano intrapreso percorsi convergenti, circoscrivendone la durata “massima” una volta che il provvedimento è divenuto definitivo.
Le prime pronunce in tale direzione si devono alla Corte suprema indiana la quale, nel 1983, aveva in un primo momento riconosciuto come disumanizzante la permanenza del detenuto nel braccio della morte per un periodo superiore a due anni, periodo entro il quale si sarebbero dovuti esaurire tutti i rimedi esperibili contro il provvedimento che dispone la pena capitale[10].
Poco dopo, tuttavia, la Corte è tornata sui propri passi, dapprima evidenziando le perplessità relative alla portata applicativa che la soluzione avrebbe potuto avere[11]; poi attraverso un overruling, affermando come non possa essere predeterminato alcun termine fisso di ritardo a partire dal quale avrebbero origine le insopportabili sofferenze del condannato[12].
Una diversa chiave di lettura rispetto all’approdo finale della Corte indiana è invece offerta dalla giurisprudenza del Judicial Committee del Privy Council[13] e della Corte suprema dello Zimbabwe[14], che hanno ritenuto disumana o degradante la permanenza nel braccio della morte per una durata superiore, rispettivamente, ai 52 e 72 mesi nell’uno, e cinque anni nell’altro caso.
Sulla stessa scia sembra inserirsi anche la decisione della Corte Costituzionale dell’Uganda del 2005, con la quale i Justices hanno stabilito che l’esecuzione della condanna configura un trattamento disumano quando viene condotta oltre il termine di tre anni dal momento in cui il provvedimento diviene definitivo – e non, come nei casi precedenti, dalla emissione della prima sentenza – costituendo, al contempo, il termine massimo per decidere sulla domanda di grazia del condannato[15].
3. (Segue): alcune chiavi di lettura retenzioniste, quando svanisce la speranza?
Tuttavia tali concezioni, in cui la sofferenza dell’individuo viene ad identificarsi nella eccessiva durata o nell’eccessivo numero dei giudizi che, a vari livelli, consentono di ribaltare la condanna oppure di convertirne la pena, non hanno trovato terreno fertile nel dibattito giuridico di altri paesi retenzionisti.
Nell’ordinamento statunitense, in cui la Corte suprema federale ha sempre negato le varie richieste di certiorari sull’argomento, non sono mancate, da parte di corti d’appello, visioni di segno diametralmente opposto.
In questo contesto, il ritardo nella esecuzione viene difatti concepito come una conseguenza necessaria che sul piano pratico segue l’elenco di strumenti processuali forniti al condannato, cosicché la scelta di volerne profittare non renderebbe il ritardo contrario alla Costituzione[16]; mentre l’accoglimento di una qualsiasi domanda di questa natura potrebbe fornire un pericoloso incentivo a ritardarne volontariamente le tempistiche[17].
Questa “diversità di ritardo”[18] che contraddistingue l’ordinamento statunitense riflette al contempo una diversa percezione della sofferenza del condannato: l’interminabile attesa cui esso è sottoposto non costituirebbe la causa di sofferenze fisiche e psicologiche, quanto piuttosto l’unica fonte della speranza di poter godere, anche solo per più tempo ed all’interno di strutture detentive, del proprio bene “vita”.
Nella stessa direzione si pone anche l’ordinamento giapponese, in cui il termine massimo di sei mesi per l’emissione dell’ordine di esecuzione previsto dal Codice di procedura penale[19] si traduce, nella prassi, in una semplice “advisory provision”[20], con la permanenza nel braccio della morte di periodi che oscillano tra i 15 ed i 20 anni[21].
Il quadro di ingiustificati ritardi di carattere sostanziale viene poi integrato dalla controversa pratica di eseguire la condanna a morte a distanza di poche ore dalla notifica dell’ordine di esecuzione.
Tale attività, che provoca nel detenuto uno stress continuo ed ininterrotto fin dal momento della condanna, verrebbe a giustificarsi nella volontà di rimandare, per quanto possibile, il fortissimo impatto emotivo che l’atto avrebbe se notificato con anticipo, cercando al contempo di conservarne lo stato di serenità dell’individuo[22].
La questione non assume invece gli stessi termini nel sopraccitato ordinamento statunitense, dove il condannato non solo ha diritto a ricevere tempestivamente la notifica dell’ordine di esecuzione, ma dispone anche di mezzi di impugnazione atti a farne valere gli eventuali vizi[23].
Orbene, all’interno della inscindibile dicotomia tra speranza e sofferenza che definisce il braccio della morte, si inserisce da ultimo la singolare scelta legislativa dell’ordinamento cinese di prevedere, contestualmente alla sentenza di condanna e sulla base di una valutazione discrezionale del giudice, la possibilità di sospendere la pena di morte per un periodo di due anni, al termine del quale – se medio tempore il condannato non ha commesso nessun altro reato doloso – la pena viene automaticamente convertita nel carcere a vita oppure nella misura di 25 anni[24].
In questi termini, il braccio della morte verrebbe ad acquisire una dimensione temporale ben precisa e l’esito verrebbe ad essere interamente rimesso all’effettivo pentimento del condannato, costituendo una interessante lente d’osservazione attraverso la quale traguardare nuovamente i confini della questione.
Alcuni autori sostengono tuttavia che tale periodo sarebbe comunque idoneo a provocare nell’individuo un forte stato d’ansia legato alla (necessaria) autoriforma ed alla incerta applicazione della pena di morte[25]; mentre secondo altri[26] ciò non valicherebbe le soglie che, a diverse latitudini, tratteggiano la linea di confine dei trattamenti disumani e degradanti[27].
4. La rilevanza dell’approccio, riflessioni conclusive
Volendo trarre qualche considerazione conclusiva si evidenzia come, in realtà, persino una soluzione ancorata a fattori che rientrano nella sfera di controllo del condannato non sia di per sé idonea a fugare ogni dubbio circa la possibilità che, nelle more dell’esecuzione, quest’ultimo non sia esposto ad un forte e perdurante stato di angoscia.
Speranza e sofferenza sarebbero dunque due elementi (rectius, conseguenze) ineliminabili del braccio della morte, il cui delicato bilanciamento sembra porsi al centro del «dilemma» sulle diversità sistemiche del Justice Breyer.
La predeterminazione di un termine massimo di durata del braccio della morte consentirebbe di porre un limite alle sofferenze fisiche e psicologiche del condannato, limitando però al contempo anche la speranza di continuare a godere del proprio diritto alla vita.
Al contrario, un più ampio orizzonte temporale si tradurrebbe nella effettiva dilazione del momento in cui l’individuo verrebbe privato del bene “vita”, acquisendo pertanto maggior rilevanza rispetto allo stato di angoscia cui esso è costantemente sottoposto.
Le diversità di concezioni e l’impossibilità di individuare una soluzione univoca sarebbero dunque il riflesso della natura stessa del braccio della morte, che come un pendolo oscilla incessantemente tra speranza e sofferenza, a cui ci si può sottrarre, forse, soltanto attraverso l’impervia strada dell’abolizione.
[1] Sentenza 576 U.S. 863, 29 giugno 2015, https://www.supremecourt.gov/opinions/14pdf/14-7955_aplc.pdf.
[2] Sentenza Glossip c. Gross, Breyer, J., Dissenting, cit., p. 32.
[3] Per una più attenta disamina degli stessi, cfr. N. Bobbio, Il dibattito attuale sulla pena di morte, in Id., L’età dei diritti, Torino, Einaudi, 1977, p. 201 ss; per un approfondimento sullo scenario statunitense si veda altresì D. Garland, Peculiar Institution: America's Death Penalty in an Age of Abolition, Oxford University Press, 2010; nonché J. S. Liebman, P. Clarke, Minority Practice, Majority’s Burden: The Death Penalty Today, in Ohio State Journal of Criminal Law, 2011, vol. 9, p. 255 ss.
[4] Sentenza Glossip c. Gross, Breyer, J., Dissenting, cit., p. 32, cui peraltro il Justice ha precisato che, delle due, “non si possono avere entrambe”.
[5] Termine adoperato in un primo momento dalla Commissione europea dei diritti dell’uomo nella sentenza Kirkwood c. Regno Unito, n. 10479/83, 12 marzo 1984, https://www.refworld.org/cases,COEC-OMMHR,3ae6b6fc1c.html.
[6] Sul punto, cfr. anche Judicial Committee del Privy Council, sentenza Noel Riley and Others v Attorney-General for Jamaica, 1 AC 719 (1983), 28 giugno 1982, https://www.casemine.com/judg-ement/in/5779fac6e561096c93-13158b, in cui si è parlato di “anguish of alternating hope and despair, the agony of uncertainty, the consequences of such suffering on the mental, emotional and physical integrity and health of the individual”.
[7] Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza Soering c. Regno Unito, n. 14038/88, 7 luglio 1989, par. 111, https://hu-doc.echr.coe.int/eng#{%22itemid%22:[%22001-57619%22]}. Nel caso di specie, la Corte ha dichiarato che l’estradizione di un individuo verso uno stato in cui, per il reato addebitatogli, può essere applicata la pena di morte, costituisce una forma di tortura o di trattamento inumano o degradante ai sensi dell’art. 3 della Convenzione, in ragione del “periodo molto lungo da passare nel braccio della morte”.
[8] P. Passaglia, La condanna di una pena. I percorsi verso l’abolizione della pena di morte, Calenzano, Leo S. Olschki, 2021, p. 238.
[9] Sulla insopportabilità delle conseguenze psicologiche cfr. Corte suprema degli Stati Uniti, sentenza In Re Medley, 134 U.S. 160, 161, 3 marzo 1890, https://caselaw.findlaw.com/us-supreme-court/134/160.html; in dottrina, cfr. L. A. Rhodes, Pathological Effects of the Supermaximum Prison, in American Journal of Public Health, 2005, vol. 95 (10), p. 1692 ss.
[10] Cfr. sentenza T. V. Vatheeswaran vs State of Tamil Nadu, 1983 SCR (2) 348, 16 febbraio 1983, https://indiankano-on.org/doc/1536503/. Si segnala altresì la precedente sentenza Ediga Anamma vs State of Andhra Pradesh, 1974 SCR (3) 329, 11 febbraio 1974, https://indiankanoon.org/doc/1496005/, in cui la Corte aveva convertito la pena capitale con la pena dell’ergastolo sulla base, tra le altre, di un periodo nel braccio della morte superiore a due anni.
[11] Sentenza Sher Singh & o. vs The State Of Punjab, 1983 SCR (2) 582, 24 marzo 1983, https://indiankanoon.org/doc/1166797/.
[12] Sentenza Triveniben vs State of Gujurat, JT 1988 (4) ST 112, 11 ottobre 1988, https://indiankano-on.org/doc/144619408/.
[13] Sentenza Pratt and Morgan v Attorney General of Jamaica, 2 AC 1 (1993), 2 novembre 1993, https://www.casemine.com/judgement/uk/5b599a772c94e02f4938ac4f.
[14] Sentenza Catholic Commission for Justice and Peace in Zimbabwe v. Attorney General of Zimbabwe, 1993 (4) SA 239 (ZS), 24 giugno 1993, https://www.refworld.org/cases,ZWE_SC,3ae6b6c0f.html.
[15] Sentenza Susan Kigula & 416 Ors v Attorney General [2005], UGCC 8, 10 giugno 2005, https://ulii.org/ug/judgment/constitutional-court-uganda/2005/8.
[16] Cfr. l’opinione concorrente del Justice Thomas, sentenza Knight c. Florida e Moore c. Nebraska, U.S. 98-9741 e 99-5291 (1999), 8 novembre 1999, https://www.law.cornell.edu/supct/pdf/98-9741P.ZA; della Corte d’Appello del Nono Circuito si vedano invece la sentenza Richmond c. Lewis, 921 F.2d 933 (9th Cir. 1990), 26 dicembre 1990, https://www.casemine.com/judgement/us/5914bfe5add7b04-9347b092c, in cui si è sostenuto che così come “l’imputato non deve essere penalizzato per il perseguimento dei suoi diritti costituzionali, [dall’altro lato] non dovrebbe neanche essere in grado di trarre vantaggio dal perseguimento, in ultima analisi, infruttuoso di tali diritti”; nonché la sentenza McKenzie c. Day, 57 F.3d 1461 (9th Cir. 1995), 8 maggio 1995, https://casetext.com/case/mckenzie-v-day/?PHONE_NUMBER_GROUP=P.
[17] A. A. Sun, “Killing Time” in the Valley of the Shadow of Death: Why Systematic Preexecution Delays on Death Row Are Cruel and Unusual, in Colombia Law Review, 2013, vol. 113, p. 1605.
[18] Ibid., p. 1602.
[19] Art. 475, c. 2.
[20] M. Obara-Minnitt, Japanese Moratorium on the Death Penalty, Palgrave Macmillan, 2016, p. 35.
[21] P. Schmidt, Capital Punishment in Japan, Brill, 2002, p. 196.
[22] Sul punto, cfr. report Hanging by a thread: Mental health and the death penalty in Japan, Londra, Amnesty International, ASA 22/005/2009, 2009, settembre 1-94, p. 29.
[23] Per una disamina dei due modelli cfr. D. H. Foote, “The Door That Never Opens”?: Capital Punishment and Post-Conviction Review of Death Sentences in the United States and Japan, in Brooklyn Journal of International Law, 1993, vol. 19, issue 2, p. 386 ss.
[24] Artt. 48-50 della Legge penale della Repubblica popolare cinese.
[25] Cfr. Z. Ning, The Debate Over the Death Penalty in Today’s China, in China Perspectives, 2005, vol. 62. Sul punto si veda inoltre J. A. Cohen, The criminal process in the People’s Republic of China, 1949-1963, Harvard University Press, 2013.
[26] Cfr. M. Seet, China’s Suspendend Death Sentence with a Two-Year Reprieve: Humanitarian Reprieve or Cruel, Inhuman and Degrading Punishment?, in Asian Yearbook of International Law, 2017, vol. 20, p. 163 ss.
[27] Si evidenzia come la questione debba ancora essere oggetto di diretta considerazione da parte della giurisprudenza delle corti supreme e costituzionali. A titolo meramente esemplificativo, cfr. Corte Federale del Canada, sentenza Lai Cheong Sing and Tsang Ming Na v. Canada (Minister of Citizenship and Immigration), 2007 FC 361, [2008] 2 F.C.R. 3, 25 aprile 2007, par. 100, https://www.refworld.org/cases,CAN_FC,48eccb782.html, in cui si è limitata a dire che la questione circa la crudeltà dello strumento sanzionatorio non rileva poiché, nel caso di specie, non erano presenti i requisiti richiesti dalla legge per accedervi.
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