ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Forum sull’Istituzione dell’Alta Corte. La rivoluzione dell’assetto giurisdizionale in vista dell’istituzione di una giurisdizione speciale per i giudici
Intervista di Paola Filippi e Roberto Conti a Maria Alessandra Sandulli
Nella proposta di revisione costituzionale l’Alta Corte sostituirebbe le Sezioni unite civili della Corte di Cassazione quanto al sindacato sulle sentenze disciplinari emesse dalla Sezione del Consiglio superiore della magistratura.
Con riferimento a questa previsione incuriosisce la circostanza che si ritenga di rimediare alla caduta di immagine del Consiglio operando su compiti affidati alle sezioni Unite civili della corte di Cassazione.
1. Quali sono le criticità rilevate in ordine al sindacato delle Sezioni Unite civili sulle sentenze emesse dalla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura che fanno ritenere il sindacato dell’Alta Corte preferibile rispetto a quello delle Sezioni Unite?
2. L’ultimo comma dell’art.105 bis della proposta di revisione costituzionale, nel disegnare la competenza del nuovo organo giurisdizionale, fa riferimento alle “controversie riguardanti l’impugnazione di ogni altro provvedimento dei suddetti organismi (CSM, Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, Consiglio di presidenza della Corte dei conti, Consiglio della magistratura militare, Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, n.d.r.) riguardanti i magistrati. Questo amplissimo genus della materia non eccede la finalità che la proposta intende perseguire? E ancora, la diversa natura dei detti organismi - uno dei quali paracostituzionale - giustifica una loro assimilazione in punto di tutela giurisdizionale?
Immagino di essere stata inserita tra gli “intervistati” essenzialmente in qualità di studiosa della giustizia amministrativa. Concentrerò quindi le mie risposte sulle domande che interessano più specificamente il rapporto tra l’Alta Corte e i giudici amministrativi.
Come si sottolinea nella seconda domanda, infatti, l’ultimo comma dell’art.105 bis della proposta di revisione costituzionale, prevede l’attribuzione al nuovo organo giurisdizionale di una competenza generale su tutte le controversie riguardanti l’impugnazione dei provvedimenti degli organismi di cd “autogoverno” dei plessi giurisdizionali attualmente esistenti (Consiglio superiore della magistratura, Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, Consiglio di presidenza della Corte dei conti, Consiglio della magistratura militare, Consiglio di presidenza della giustizia tributaria) “riguardanti i magistrati”. Si prevede così il trasferimento (e la concentrazione in capo) a tale nuovo organo, non soltanto della competenza a giudicare i provvedimenti disciplinari adottati dai rispettivi organismi di autogoverno, ma anche della competenza -attualmente spettante al giudice amministrativo- su tutti gli altri provvedimenti assunti da questi ultimi “riguardanti i magistrati”. Competenze che, come ho anche io avuto occasione di segnalare, presentano entrambe evidenti profili di criticità con riferimento al possibile deficit di terzietà dell’organo giudicante sui ricorsi di impugnazione degli atti adottati dal proprio organo di autogoverno. Si tratta di una questione indubbiamente molto delicata, soprattutto quando, come è accaduto, il giudizio abbia ad oggetto provvedimenti a carattere disciplinare (stante il presumibile rapporto di forte colleganza in una comunità sostanzialmente ristretta) o, addirittura, atti di nomina degli organi di vertice. E, come avete ben evidenziato, il problema si acuisce quando il giudice amministrativo, che raramente annulla i provvedimenti del proprio organo di autogoverno, annulla invece quelli del CSM. Soprattutto se si considera che, sia pure nei contorti confini dei “motivi inerenti alla giurisdizione”, le sentenze del Consiglio di Stato sono a loro volta soggette al sindacato della Corte di cassazione. Per cui, come evidenziato anche da Fabio Francario in uno scritto pubblicato nel 2018 su questa Rivista, può crearsi un inopportuno intreccio di giudizi tra i vertici dei due plessi giurisdizionali, che, quantomeno sul piano dell’apparenza, non aiuta a migliorare l’immagine del sistema dualista della giustizia amministrativa.
Come recentemente ricordato da Marco Lipari l’originaria idea di un’Alta Corte di Giustizia -nata già diversi anni fa con l’ambizioso obiettivo di “normalizzare” i rapporti tra le diverse giurisdizioni e tra queste e gli organi di autogoverno delle magistrature- era scaturita dalla tensione fortissima tra la Corte di Cassazione e il Consiglio di Stato quando le Sezioni Unite avevano cassato importanti pronunce del Consiglio di Stato concernenti la materia del risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi e il secondo aveva ripetutamente annullato i provvedimenti di nomina dei titolari delle funzioni apicali della giurisdizione ordinaria. La preoccupazione di un grave conflitto istituzionale vide allora farsi strada l’ipotesi, propugnata dalla Fondazione Italiadecide, di affidare a un unico organo autorevole e imparziale, composto da persone di altissimo profilo, equidistante dai due complessi, i giudizi sui confini delle giurisdizioni, oltre a quelli sui provvedimenti adottati dagli organi di autogoverno delle magistrature. La proposta, come noto, non ebbe seguito, ma la presa di coscienza del problema determinò la riapertura di un “dialogo” tra le Corti e un clima generale di maggiore conciliazione, del quale furono espressione, la composizione, nel codice del processo amministrativo, della vexata questio della cd pregiudiziale di annullamento dell’azione di risarcimento dei danni da lesione di interessi legittimi, la delimitazione, nel 2014, dei poteri del giudice amministrativo di intervenire in sede di ottemperanza sugli atti del CSM e, nel 2017, la sottoscrizione, da parte dei vertici delle giurisdizioni ordinaria, amministrativa e contabile, dello storico Memorandum, che prevedeva, tra l’altro, anche con l’idea di poter operare a Costituzione invariata, “forme di integrazione degli organi collegiali di vertice con funzioni specificamente nomofilattiche”, ivi comprese “quelle attinenti alla giurisdizione”. L’idea è stata ripresa e sviluppata, come altre del Memorandum, nel ddl AC-649, presentato dall’On. Bartolozzi e da altri deputati, recante “Delega al Governo per l’istituzione del Tribunale superiore dei conflitti presso la Corte di cassazione”, che prevedeva, appunto, che tale Tribunale fosse costituito mediante l’integrazione delle Sezioni Unite con giudici amministrativi e contabili. Attualmente il progetto è fermo, anche perché difficilmente attuabile senza una riforma costituzionale, ma non è affatto escluso che l’avvio della riforma costituzionale sull’Alta Corte non lo veda legarvisi. E ne è conferma il titolo della Tavola rotonda che ha originato il richiamato studio di Marco Lipari, svoltasi il 29 novembre scorso nella sede del Consiglio di Stato, sotto la presidenza di Giancarlo Coraggio, in occasione della presentazione del Corso A.C. Jemolo per aspiranti magistrati e avvocati: Un nuovo statuto comune per i giudici. Maturi i tempi per l’Alta Corte disciplinare e dei conflitti?
Mi è sembrato per tale ragione opportuno fare questa breve premessa ricostruttiva delle precedenti ipotesi di modifica del sistema e del tema, di fondo, che in esse aleggia, del delicato equilibrio del dualismo giurisdizionale.
Per tornare, comunque, alle domande specificamente rivoltemi, non mi sentirei di dire che la proposta di affidamento all’Alta Corte di una competenza generale su tutti i provvedimenti degli organi di autogoverno delle magistrature riguardanti i magistrati sia totalmente avulsa dalla finalità di superare la crisi della magistratura indicata nel preambolo del progetto riformatore. Sappiamo, infatti, che, per quanto il suddetto preambolo faccia riferimento ai recenti fatti di cronaca connessi al cd scandalo Palamara, le criticità non riguardano soltanto la magistratura ordinaria e il problema dell’indipendenza della magistratura amministrativa è, a sua volta, frequentemente oggetto di dibattito, con riferimento ai rischi di condizionamento che le sue decisioni potrebbero subire per effetto del suo istituzionale rapporto con il Governo e, in senso opposto, delle pressioni derivanti dalla ciclica, deprecabile, tendenza della politica e della stampa a rappresentare alcune sue decisioni caducatorie o soprassessorie come un potenziale ostacolo alla ripresa dell’economia. Vengono inoltre sollevati rilievi su alcune tematiche più particolari, come quella delle autorizzazioni all’esercizio di attività extraistituzionali, che sembrano seguire criteri meno rigidi di quelli applicati ai magistrati ordinari. Nello stesso preambolo della proposta, del resto, si chiarisce che “La necessità di interventi di riforma sul funzionamento delle istituzioni di autogoverno ha la sua ragion d’essere indipendentemente dalla crisi che sta attraversando attualmente la magistratura”. Ed è evidente che, in un momento in cui viene posta in discussione, sotto diversi profili, l’autonomia e l’indipendenza dei magistrati, e si ridiscute della composizione del CSM, una riforma più generale del sistema di impugnazione delle decisioni riguardanti i magistrati rese dai rispettivi organi di autogoverno possa offrire, qualora si riuscisse davvero a trovare un valido punto di equilibrio, un contributo utile al percorso che dovrebbe rafforzare il prestigio della magistratura e accrescere la fiducia dei cittadini e delle imprese nel corretto e imparziale esercizio del potere giurisdizionale.
Il Forum European House - Ambrosetti, in un articolato studio presentato lo scorso all Convegno annuale di Cernobbio, ha approfondito l’ipotesi di un’Alta Corte disciplinare con competenza esclusiva e generale sulla responsabilità dei magistrati, segnalando che una delle cause principali della scarsa funzionalità degli attuali sistemi repressivi dei comportamenti illeciti dei magistrati deriva dalla circostanza che i giudizi di responsabilità disciplinare dei magistrati ordinari sono affidati ai loro organi di autogoverno (composti da membri elettivi e di nomina politica) e, in sede di impugnazione, agli stessi plessi giurisdizionali cui appartiene il magistrato incolpato, il che può indurre l’opinione pubblica a pensare a una loro difficoltà a sanzionare i propri colleghi. Tale mancanza di terzietà è considerata come un fattore che mina gravemente la credibilità complessiva del sistema giurisdizionale e la fiducia dei cittadini. Il problema vale sicuramente, e a maggior ragione, per il sistema di responsabilità disciplinare dei giudici amministrativi, che, come noto, sono una comunità più ristretta e hanno assai maggiori occasioni di collaborazione, anche extra-giurisdizionale, di quanta ne abbiano i magistrati ordinari. Diversamente dagli altri giudici, poi, per il giudice amministrativo il problema della terzietà si pone anche per il giudizio sugli altri provvedimenti del suo organo di autogoverno e, per quanto sopra detto, potrebbe essere -per quanto strumentalmente- prospettato, in alcuni momenti di particolare tensione con le Sezioni Unite, anche per quello sugli atti del CSM.
La riforma avrebbe, inoltre, l’effetto di riconoscere rango costituzionale a tutti gli organismi di autogoverno dei magistrati, così confermando e rafforzando, indirettamente, il ruolo delle magistrature diverse da quella ordinaria. In quest’ottica, non vedo particolari problemi all’assimilazione, con norma costituzionale, dei diversi organismi.
3. La creazione di un organo giurisdizionale che erode tanto la giurisdizione del giudice ordinario che quella del giudice amministrativo non rischia di delegittimarne la funzione di garanzia e di complicare il sistema di tutela giurisdizionale fondato non solo sulla distinzione fra diritti soggettivi ed interessi legittimi, ma anche sulle modalità di tutela offerte dai diversi plessi giurisdizionali, lasciando prefigurare difficoltà non marginali all’atto della definizione delle regole che dovrà avere il processo innanzi all’Alta Corte?
Alla luce delle precedenti considerazioni, non credo che la creazione di un nuovo “giudice unico” delle impugnazioni dei provvedimenti riguardanti i magistrati assunti dai rispettivi organi di autogoverno possa essere intesa come una delegittimazione del giudice amministrativo, e tantomeno di quello ordinario, che non ha, allo stato, una competenza generale in materia e “soffre” quella del giudice amministrativo sui trasferimenti e sui conferimenti degli incarichi direttivi. Come già detto in risposta alla domanda precedente, e come avevo peraltro già rimarcato in diverse occasioni, al contrario, è proprio l’attribuzione al giudice amministrativo (anche) della competenza sui ricorsi avverso gli atti del CPGA -che inoltre, a differenza del CSM, è presieduto dal suo organo di vertice- che rischia di indebolirne la posizione, offrendo il fianco a dubbi sull’autonomia e indipendenza, oltre che sulla terzietà, delle relative decisioni: problema tanto più serio quando il ricorso abbia ad oggetto provvedimenti riguardanti i magistrati. È vero che si potrebbe, in alternativa, pensare di affidare, in termini di reciprocità, al giudice ordinario la competenza su tali atti, ma, considerando anche le fisiologiche -e sane- conflittualità tra i due plessi giurisdizionali in punto di confini delle rispettive giurisdizioni, tale soluzione rischierebbe di dare adito a ulteriori polemiche e, di nuovo, le decisioni rispettivamente assunte dalle due magistrature sugli atti dei reciproci organi di autogoverno potrebbero essere “sospettate” di essere frutto di indebiti condizionamenti. Vi sarebbe, inoltre, allora sì, il problema delle differenze sulle modalità di tutela delle posizioni soggettive rispettivamente valutate.
L’importanza della percezione di “terzietà” del giudice anche e proprio in ambito disciplinare esclude a mio avviso ogni rischio che la riforma abbia un effetto delegittimante degli organi giurisdizionali attualmente chiamati a giudicare dei provvedimenti disciplinari, gli unici sui quali vi sarebbe una riduzione delle competenze dei giudici ordinari.
4. Quali punti di contatto e quali differenze, a suo giudizio, si possono cogliere, oltre all’idea di modificare l’impianto costituzionale che è propria della proposta di revisione costituzionale Rossomando, rispetto al disegno di legge del 22 maggio 2018 presentato alla Camera dei deputati (n. 649, prima firmataria on. Bartolozzi, di Forza Italia) di delega al Governo per l'istituzione, presso la Corte di cassazione, del “Tribunale superiore dei conflitti”?
Al di là della comune istituzione di un giudice a composizione mista, la proposta si differenzia sensibilmente da quella che, nel 2018, prevedeva l’istituzione, presso la Corte di Cassazione, di un Tribunale Superiore dei conflitti per la soluzione delle questioni di giurisdizione. Al di là del fatto, già da voi segnalato, che pretendeva di operare a Costituzione invariata, quella proposta puntava a una modifica radicale del sistema costituzionale, devolvendo la risoluzione di tutte le questioni di giurisdizione a un organo giurisdizionale totalmente nuovo, composto da dodici membri - di cui sei magistrati della Corte di Cassazione, tre del Consiglio di Stato e tre della Corte dei conti, scelti dai rispettivi organi di autogoverno - chiamati a esercitare le relative funzioni in via esclusiva, con la presidenza attribuita a turno ai magistrati dei tre ordini, con rotazione annuale. Ricordo che la proposta lo definiva come “organo giurisdizionale supremo per la risoluzione delle questioni di giurisdizione insorte nei giudizi civili, penali, amministrativi, contabili, tributari e dei giudici speciali”, con attribuzione in via esclusiva della “cognizione dei conflitti di giurisdizione e del regolamento preventivo di giurisdizione”.
La differenza è quindi evidente. In quel caso si smantellava totalmente l’assetto che riserva alla Corte di Cassazione, come vertice del sistema, la funzione di garantire il rispetto della legge nella tutela dei diritti, ivi compreso quello all’osservanza dei limiti -esterni e interni- della giurisdizione.
Quella proposta è giustamente arenata. E non credo soltanto perché non era concepita come riforma costituzionale. Intervenire in modo così radicale sul sistema potrebbe incidere anche sul già delicato equilibrio del nostro modello dualista.
Non mi sembra del resto che vi siano eccessivi e insanabili conflitti sui limiti esterni, ormai essenzialmente riconducibili ai cd diritti incomprimibili (sui quali peraltro il contrasto è piuttosto tra Sezioni Unite e Corte costituzionale). Ricordo che, a tale proposito, già in un incontro conclusivo di un corso di formazione dei magistrati amministrativi tenutosi al TAR Lazio nel marzo 2017, si era parlato della possibilità di prevedere, a Costituzione invariata, che le controversie sugli atti amministrativi incidenti su tali diritti fossero affidate in ultimo grado a collegi speciali della Corte di cassazione integrati da uno o più consiglieri di Stato. Un’ipotesi, tesa ad assicurare un’omogeneità della nomofilachia su tali diritti fondamentali, poi ripresa e allargata nel Memorandum del successivo 15 maggio, ma evidentemente ben diversa da quella del Tribunale misto dei conflitti delineata nella proposta del 2018.
Nonostante quanto si potrebbe pensare all’esito del recente dibattito sulla riconducibilità ai motivi inerenti alla giurisdizione delle censure sulla abnorme violazione del diritto europeo, non credo poi che, vista anche la grande -e come ho già scritto, a mio avviso talvolta eccessiva- prudenza con la quale le Sezioni Unite hanno utilizzato e stanno continuando a utilizzare lo strumento cassatorio delle pronunce del Consiglio di Stato e della Corte dei conti per violazione dei limiti interni delle rispettive giurisdizioni, vi siano neppure sotto questo profilo ragioni idonee a giustificare la riforma di un sistema che, sia pure, come detto, vedendolo esercitare con massima prudenza, consente un sindacato finale “esterno” sui confini del potere giurisdizionale dei giudici amministrativi e contabili.
In ogni caso, come ho avuto già modo di osservare in varie occasioni, non vedo come i giudizi di impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti (per violazione dei limiti esterni o interni alle rispettive giurisdizioni) possano essere affidati a un organo che abbia tra i suoi componenti, sia pure per operarvi in via esclusiva, anche magistrati ancora appartenenti agli stessi plessi giurisdizionali.
Si tratta comunque, come è agevole osservare, di temi e questioni affatto diversi da quelli che investono la proposta Rossomando sull’istituzione dell’Alta Corte. Credo quindi che, almeno in questa sede, possiamo lasciare da parte il tema.
Un’altra importante differenza tra le due proposte è data dalla composizione dell’organismo. Il vero problema della nuova proposta -e di qualsiasi proposta che cerchi di risolvere il problema che ci siamo posti in apertura- è indubitabilmente quello della composizione dell’Alta Corte.
5. La proposta di legge Rossomando non rischia di limitare la funzione suprema riservata alla Corte di Cassazione quale organo giurisdizionale indipendente dal potere politico e chiamato a garantire l’uniforme interpretazione del diritto?
È una questione estremamente delicata. Non si può invero negare che l’affidamento del potere di giudicare sugli importanti provvedimenti riguardanti i magistrati assunti dai loro rispettivi organismi di autogoverno a un organo composto per un terzo da membri nominati dal Parlamento rischi -o possa quantomeno dare l’apparenza- di minarne l’indipendenza. Si riprodurrebbero, e -stante la temporaneità dell’incarico- si aggraverebbero (come si aggravano per i consiglieri laici del Consiglio di giustizia amministrativa della regione siciliana) i problemi creati dalla nomina governativa di una parte cospicua dei Consiglieri di Stato e di quelli della Corte dei conti.
6. Secondo quanto si legge nell’articolato è previsto un doppio grado di impugnazione- Non è anomalo che la prima fase di impugnazione sia affidata a un collegio composto da tre componenti quando sono cinque i componenti della sezione disciplinare del Csm?
In effetti, anche nella giustizia amministrativa il collegio del giudice di appello ha un numero di componenti superiore a quello di primo grado. Non mi pare, però che sia un principio generale inderogabile. Verosimilmente, i proponenti avranno pensato a una “prima impugnazione” di un atto di un organo para giurisdizionale e, conseguentemente, alla normale composizione dei collegi dei Tribunali amministrativi regionali giudicanti sugli atti amministrativi. De iure condendo, potrebbe comunque essere l’occasione per chiarire se e quale sia il principio vigente.
7. Una questione interessante, che peraltro rileva in termini di efficienza dell’azione dell’organo che si intende istituire, è quella connessa alla specializzazione, come è noto più un organo è specializzato, più esso è efficiente, rapido e prevedibile. Secondo la proposta l’Alta Corte avrebbe il compito di sindacare i provvedimenti disciplinari emessi dai rispettivi organi di autogoverno nei confronti di magistrati amministrativi, contabili, militari e tributari ovvero di magistrati assoggettati a differenti ordinamenti disciplinari. Qual è l’utilità di istituire un organo unico?
La proposta prevede che ci sia una riconduzione ad unità delle disposizioni disciplinari, estendendo a tutti i magistrati quelle relative alla magistratura ordinaria. Credo che questo possa superare in radice il problema. Uno dei vantaggi della concentrazione delle controversie disciplinari in capo a un unico giudice mi sembra anzi proprio quello di uniformare -o quantomeno omogeneizzare- lo statuto disciplinare dei magistrati appartenenti ai diversi plessi giurisdizionali e le relative modalità di tutela. Potrebbe essere anzi un’importante occasione per una necessaria revisione legislativa del sistema, che riduca gli spazi di discrezionalità degli organi di autogoverno, ridefinendo in modo chiaro, uniforme e obiettivo il codice deontologico del magistrato.
8. Il recente annullamento delle delibera di nomina del Primo presidente della Suprema Corte di Cassazione e del Presidente aggiunto, ha posto in luce la contraddittorietà di un sistema che consente di porre sub iudice provvedimenti che sono estrinsecazione di poteri rimessi in via esclusiva, secondo previsione costituzionale - art. 105 Cost.-, al Consiglio superiore della magistratura. La questione, come è noto, fu molto discussa nei primi anni ’50 e, alla fine risolta, dall’art. 17 legge n. 195/58, ma è innegabile che la tutela giurisdizionale per le violazioni della normativa in materia di ordinamento giudiziario rimane un problema particolarmente delicato e complesso, in quanto tocca principi costituzionali fondamentali (la tutela dei diritti ed interessi legittimi riconosciuta come diritto inviolabile di ogni cittadino – magistrati compresi – dall'art. 24 Cost.) e le fondamenta stesse dell'ordinamento repubblicano (il principio di separazione dei pubblici poteri e della soggezione del giudice soltanto alla legge – artt. 101 e 104 Cost.).
9. L’istituzione dell’Alta Corte potrebbe risolvere, o spostare, il punto della questione o permarrebbero immutate le criticità evidenziate in ragione dell’esclusività – per Costituzione- dei poteri Consiliari in materia di nomine, assunzioni, assegnazioni, trasferimenti e promozioni dei magistrati?
Non è pensabile, nel 2022, escludere la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi dei magistrati, anche -e mi permetto di dire, soprattutto- nei confronti dei propri organi di autogoverno. Esprimendo il proprio apprezzamento per le sentenze con le quali, nel 1962, il Consiglio di Stato aveva affermato l’impugnabilità degli atti del CSM riguardanti lo status dei magistrati, Aldo Mazzini Sandulli, concludeva affermando con nettezza: “Che un giudice degli atti del Consiglio superiore debba esservi, e che non contrasti con la Costituzione che vi sia, è dunque fuori discussione. L'averlo fermamente e solennemente proclamato è indubbio merito di quella giurisprudenza del Consiglio di Stato, che ha nella decisione rassegna [28 novembre 1962, n. 752, la quarta di una serie] la sua più recente espressione”.
È utile a tale proposito ricordare che, come ben rimarcato in uno scritto di Raffaele Greco pubblicato nel 2010 su questa Rivista, “anche nelle controversie concernenti i provvedimenti del CSM, gli interessi in gioco sono molteplici: ovviamente, non solo l’interesse individuale dei singoli magistrati interessati, ma anche interessi pubblici non riassumibili esclusivamente nell’esigenza di salvaguardare l’autonomia e l’imparzialità dell’ordine giudiziario, come il generale interesse della collettività al corretto ed efficiente funzionamento della giustizia, che è espressione del più generale valore costituzionale di buon andamento della p.a. e che passa anche attraverso la garanzia della trasparenza e dell’imparzialità delle decisioni riguardanti i magistrati anche sul piano organizzativo e ordinamentale”.
Il problema delle criticità della riserva al CSM della competenza in materia di nomine, assunzioni, assegnazioni, trasferimenti e promozioni dei magistrati ordinari si sposta quindi sull’indipendenza dell’organo chiamato a sindacarli e -necessariamente- sull’effettività di tale sindacato. Deve trattarsi però di organi giurisdizionali, che diano garanzie di imparzialità e di indipendenza anche nella loro composizione. E il discorso vale evidentemente per tutte le magistrature. Da ciò l’evidente difficoltà di trovare un punto di equilibrio tra garanzia della necessaria “distanza” tra giudice e giudicato (terzietà) e garanzia dell’autonomia del giudice dagli altri poteri (indipendenza). Se, invero, la prima -che poi è il dichiarato obiettivo della riforma- può apparire più difficile da raggiungere quando le comunità sono ristrette e i loro esponenti sono parte -più o meno rilevante- dell’organismo e del collegio, la seconda non è facilmente conciliabile con la nomina politica.
Non mi convince quindi, né la previsione della nomina “a tempo” dei magistrati, né quella della nomina di un terzo dei componenti da parte del Parlamento in seduta comune. Meglio sarebbe forse pensare a una quota di 2/3 per la componente togata, scelta tra i più alti magistrati già collocati a riposo (ciò che avrebbe peraltro il vantaggio di non ridurre una risorsa già scarsa), con la partecipazione al collegio giudicante di primo grado di almeno due giudici, uno dei quali proveniente dalla magistratura ordinaria e l’altro da quella del magistrato interessato (o, per le controversie riguardanti magistrati ordinari, dalla magistratura amministrativa). E, per il residuo terzo, lasciare la previsione della nomina da parte del Presidente della Repubblica, ma all’interno di una rosa di nomi di esponenti del mondo forense da individuare con criteri da meglio specificare.
10. Si prevede che l’Alta Corte sia composta da quindici giudici, nominati per un terzo dal Presidente della Repubblica, per un terzo dal Parlamento in seduta comune e per un terzo dalle supreme magistrature ordinaria e amministrative. Con riferimento alle peculiarità della magistratura ordinaria e di quella amministrativa la previsione di un terzo, composto promiscuamente da magistrati ordinari e amministrativi, è idoneo a garantire i principi di autonomia?
Credo di poter rinviare a quanto già osservato in risposta alla domanda precedente, aggiungendo che nelle regole di composizione della quota “togata” si dovrebbe trovare un giusto equilibrio tra l’indubbia esigenza di tenere conto della forte differenza numerica tra gli appartenenti alle varie magistrature e quella di evitare facili maggioranze precostituite per i giudizi sui magistrati ordinari.
Noto piuttosto con sorpresa che la proposta non fa alcun riferimento al tipo di sindacato e, conseguentemente, ai poteri istruttori e decisori del giudice.
11. Non ci sono criticità, secondo lei, con riferimento alla previsione che magistrati possano essere eletti dal Parlamento, come componenti dell’Alta Corte? Ciò, ad esempio, non potrebbe sollecitare, determinare o far apparire che esistano contatti, non trasparenti, tra magistrati e politica ovvero non potrebbe fa pensare a possibili opacità analoghe a quelle emerse dall’Hotel Champagne, ossia le stesse opacità che incrinano la fiducia dei cittadini e che la legge stessa intende combattere?
Credo di poter rinviare a quanto risposto con riferimento alle domande precedenti: in particolare alla domanda 5.
12. Quale la ragione e il senso del sorteggio tra i due magistrati eletti dal Parlamento?
Immagino che, ipotizzandosi una “lottizzazione” delle nomine, il sorteggio possa avere il fine di cercare di ridurre il possibile condizionamento politico.
13. Attraverso quali percorsi l’Alta corte dovrebbe riconsolidare il rapporto di fiducia cittadini-magistrati e restituire prestigio alla magistratura?
L’ultima domanda è la più complessa e tira giustamente le fila del discorso. Cosa dovrebbe fare l’Alta Corte per accrescere il prestigio della magistratura. A me sembra utopistico e comunque estremamente difficile che, al di là dell’apparenza, che comunque è un primo passo, possa davvero fare qualcosa. Non dimentichiamo che sarebbe solo un organo di controllo giurisdizionale, le cui decisioni, peraltro, potrebbero confermare alcune criticità dei sistemi di autogoverno. Il percorso per riconsolidare il rapporto di fiducia cittadini-magistrati e restituire prestigio alla magistratura dovrebbe quindi piuttosto passare per l’adozione e la corretta applicazione di regole di comportamento che “tranquillizzino” i primi sulla serietà d’impegno e sull’effettiva indipendenza dei loro giudici.
Desmond Tutu e l’esperienza della Commissione Sudafricana per la verità e la riconciliazione
di Andrea Lollini*
La morte dell’Arcivescovo anglicano sudafricano Desmond Tutu il 26 dicembre 2021, costituisce occasione imprescindibile per riparlare di una delle esperienze di “giustizia” più significative, innovative e controverse della contemporaneità: la Commissione sudafricana per la verità e la riconciliazione (Truth and Reconciliation Commission - TRC).
La TRC, istituita nel 1995 durante la transizione democratica post-apartheid in Sudafrica, aveva molteplici obbiettivi: far luce sui crimini dell’era segregazionista, ricostruire le responsabilità delle atrocità dando dignità alle vittime, facilitare la riconciliazione nazionale, produrre i presupposti per una nuova memoria collettiva. La Commissione - pertanto – era progettata per operare su tre delicati registi nelle scienze giuridico-processuali: giustizia, verità e memoria.
La scomparsa di Desmond Tutu chiude simbolicamente un’era che, dalla caduta del Muro di Berlino e la fine della Guerra Fredda, conduce all’oggi pandemico e nuovamente bellico foriero di rinnovate profonde frammentazioni sociali spinte da sovranismo, populismo e anti-scientismo. L’era in questione si estende lungo più di tre decenni caratterizzati da conflitti polarizzati attorno a metafore religiose, collassi finanziari prodotti da contraddizioni economiche irrisolte, compagne belliche di democratizzazione forzata fallimentari, riconfigurazione degli attori di potere globali. In questo quadro, Desmond Tutu, Premio Nobel per la pace nel 1984, e con lui Nelson Mandela, primo storico Presidente democratico del Sudafrica post-apartheid, hanno costituito voci d’impatto incommensurabile, in controtendenza, quasi anacronistiche rispetto allo svilupparsi dei dibattiti e degli eventi. Tutu e Mandela, ingegneri della TRC e artefici della transizione post-segregazionista sudafricana[1], erano portatori di messaggi rivoluzionari, oggi come all’ora: costruire pervicacemente il dialogo con il “nemico”, preservare l’unità collettiva in luogo della mera vittoria di fazione, scommettere su forza e capacità redentive individuali e collettive. In un’epoca, la nostra attuale, pervasa da violenza oppositiva molecolare e digitalizzata, così come da nuova contrapposizione di potenza, le voci e le azioni di Tutu e Mandela sono un Dharma politico tanto prezioso quanto malauguratamente disatteso.
Ecco dunque l’occasione per riparlare di uno dei lasciti concreti di Tutu e Mandela: la Commissione per la verità e la riconciliazione. Osteggiata, violentemente criticata, analiticamente decostruita, ammirata, la TRC ha costituito una sperimentazione giudiziaria unica in cui la declinazione restaurativa dell’idea di giustizia ha prevalso su quella strettamente retributiva.
La creazione della TRC coincide con il perfezionarsi del processo di redazione della nuova Costituzione democratica del Sudafrica post-apartheid nel 1996. La Commissione, infatti, apre i battenti ufficialmente nel 1995 sulla scorta del National Unity and Reconciliation Act approvato dal Parlamento transitorio in quello stesso anno, ed è naturale strumento di complemento dell’opera costituente.[2] La Costituzione democratica è stata codificata pezzo a pezzo, passo a passo, in un arco di tempo dilatato rispetto alla configurazione storica dei processi costituenti contemporanei che si aprono e chiudono nel quadro di un’Assemblea Costituente. Il Sudafrica post-segregazionista, invece, ha avuto una strada assai più impervia che ha legittimato quindi strade innovative e irrituali. Il paese, all’indomani del rilascio di Mandela dopo ventisette anni di detenzione politica e con l’uscita dei movimenti politici dall’illegalità segregazionista che diventano veri e propri partiti come l’African National Congress (ANC) o l’Inkatha Freedom Party (IFP), esplode nella violenza. La polarizzazione segue la traiettoria razziale tra popolazione nera e bianca, ma dilaga anche orizzontalmente nel fenomeno della black on black violence. Mandela guida l’esecutivo, dopo la vittoria schiacciante alle prime elezioni libere e democratiche del 1994. Cyril Ramaphosa, attuale presidente del Sudafrica, guida le negoziazioni costituzionali per conto dell’ANC. Tutu, autorità morale e civile senza eguali, spende energie inusuali per la pacificazione. Sul tavolo storico del Sudafrica si negozia il DNA della nuova Repubblica multirazziale e multiculturale in cui uno dei nodi centrali è la giustizia per i crimini del passato. Se il mondo attende una “Norimberga” africana, Mandela, Tutu e molti leader dell’ANC cresciuti quanto il movimento era animato dai principi Ghandiani di disobbedienza pacifica, disegnano una traiettoria costituente inattesa fatta di dialogo, costruzione di unità del corpo politico multirazziale, rinuncia alle pulsioni di vendetta. Tuttavia, sono fermi sulla necessità di consegnare alla nuova società sudafricana in transizione la verità sui crimini passato.
La natura dei negoziati tra movimenti di liberazione e componenti politiche dei poteri segregazionisti che avevano accettato l’ineluttabilità della transizione sono dominati da due variabili: contenere la violenza perseguendo la riconfigurazione democratica; negoziare pragmaticamente posizioni radicalmente divergenti. La cessione storica del potere bianco non poteva infatti prodursi se non considerando un obbiettivo primario per il National Party, il partito bianco di Frederick W. De Klerk[3]: difendersi dal rischio di processi e responsabilità penale per il passato.
Lo Zeitgeist internazionale della metà degli anni 90’ del secolo scorso offre condizioni uniche per la sperimentazione sudafricana. La fine della Guerra Fredda ha innescato una catena di riconfigurazioni geopolitiche in America Latina, Asia, Africa ed Europa Centro-Orientale. Innumerevoli paesi si liberano dai regimi autocratici dell’era precedente e si avviano faticosamente verso nuove speranze democratiche. Il problema dei conti con il passato è questione scottante ogni dove. La natura largamente negoziata delle transizioni post-89 pone quindi un nodo centrale: punire le violazioni dei diritti fondamentali del passato preservando al contempo il trasferimento del potere da vecchi apparati autoritari ai nuovi attori politici.
Se la comunità internazionale delle Nazioni Unite, a partire dai primi anni 90’, sceglie la dogmatica del processo e della giustizia penale per i crimini internazionali disegnando i due Tribunali internazionali ad hoc per la ex-Jugoslavia e il Ruanda e successivamente nel 1998 la Corte Penale Internazionale, i singoli paesi optano largamente per soluzioni di giustizia restaurativa. La configurazione delle transizioni politiche in atto riduce infatti le opzioni di giustizia sul tavolo. Nascono così i Truth and Reconciliation Models (Transitional Justice). Argentina, Cile, El-Salvador, Guatemala, Brasile e molteplici altri paesi istituiscono Commissioni per la verità. Con procedure e competenze differenti, questi organismi sono volti prevalentemente alla raccolta di informazioni sui crimini dei regimi pregressi, offrendo al contempo assise pubbliche di discussione mnemonica del passato. In questo contesto, la TRC sudafricana si spinge assai più lontano, prevedendo l’innovativo e controverso meccanismo di amnistie condizionate. La natura della TRC disegnata da Mandela, Tutu e dall’establishment dell’ANC non può essere capita al di fuori di questo contesto.[4]
La TRC, presieduta appunto dall’allora Arcivescovo di Cape Town Desmond Tutu, viene suddivisa in tre organismi distinti che operano in maniera coordinata: 1) lo Human Rights Violation Committee; 1) l’Amnesty Committee; 3) il Reparation and Rehabilitation Committee. Il Primo ha il compito di ascoltare pubblicamente le vittime dell’apartheid allo scopo di raccogliere informazioni sui crimini e di innescare un national healing process dando parola e dignità alle stesse. Come risultato, la TRC fu in grado di pubblicare ufficialmente i sei volumi del famoso Final Report sotto la guida di Tutu che ne organizza la regia editoriale. Il Rapporto, sistematizzando le dichiarazioni di migliaia di vittime sentite pubblicamente nel corso di centinaia di udienze, escussioni testimoniali e ricerche da parte delle unità d’inchiesta della TRC, ha la vocazione di ridirigere il corso del processo di creazione di una nuova memoria ufficiale del Sudafrica.[5] L’obbiettivo primario è quello di disinnescare ambiguità storico-mnemoniche. È da considerare, come variabile ulteriore, come negli stessi anni si stia assistendo in Europa, all’inquietante rapido sviluppo del fenomeno del negazionismo dell’Olocausto.[6]
Se il Reparation and Rehabilitation Committee avrebbe successivamente dovuto quantificare ed implementare le riparazioni per le vittime dell’apartheid, il Comitato per l’Amnistia divenne immediatamente il vero centro focale della TRC a causa della controversa competenza di cui era dotato: amministrare il meccanismo di amnistia condizionata che sostanzia il passaggio della TRC da sistema di giustizia strettamente retributiva a quello di giustizia restaurativa.
La procedura era quindi la seguente: con la Costituzione sudafricana transitoria negoziata nel 1993, il nuovo Sudafrica democratico aveva deciso di sospendere per un periodo limitato l’esercizio dell’azione penale ordinaria per una serie di crimini efferati strettamente commessi con finalità politiche nell’arco dei quasi cinque decenni del regime segregazionista. Chiunque si fosse reso responsabile di tali crimini aveva a disposizione una dead-line per auto-dichiararsi responsabile di crimini oggetto della competenza, aprire una procedura a proprio carico innanzi al Comitato di Amnistia e richiedere formalmente l’amnistia. Il meccanismo era quindi caratterizzato da procedura ad istanza di parte che valutava la volontà dei singoli di compartecipare al processo di democratizzazione. I casi vennero trattati de plano con procedure meramente burocratiche, oppure escussi pubblicamente in specifiche udienze (Amnesty Hearings). Nel corso delle stesse, i membri del Comitato rappresentando lo Stato, amministrarono il contradditorio con le vittime contro deducendo gli elementi fattuali disponibili al fine di testare la veridicità delle affermazioni. L’amnistia aveva quindi condizioni imprescindibili temporali e sostanziali. Aver commesso i crimini previsti dalle fattispecie di legge con finalità strettamente politiche e nell’arco temporale disegnato; rivelare pubblicamente ogni dettaglio relativo ai comportamenti criminosi commessi (full disclosure of all relevant facts). I fatti amnistiabili dovevano essere imprescindibilmente connessi al quadro di violenza politica interna relativo all’Apartheid. L’amnistia non aveva quindi carattere di automaticità. Il Comitato era libero di riconoscere o rifiutare il provvedimento al termine delle udienze una volta verificati la sussistenza dei presupposti. Lo Stato avrebbe successivamente riattivato l’esercizio dell’azione penale ordinaria per i crimini del passato verso coloro che avevano deciso di non richiedere amnistia o per coloro a cui era stata rifiutata. Unica condizione per questi ultimi era che le informazioni rivelate o acquisite in sede di TRC non potevano essere automaticamente trasferite ed utilizzate in sede di successivo processo ordinario. In questa prospettiva, la TRC ha attuato una sospensione temporanea dell’esercizio dall’azione penale per azioni di rilevanza politica a cui viene sostituito un meccanismo articolato di cancellazione degli effetti penali a seguito di self-accusation.
La TRC ha sollevato opinioni polarizzate e discussioni senza precedenti protrattesi per anni. Sotto il profilo dell’efficacia, il Comitato di Amnistia raccolse migliaia di richieste di amnistia esercitando rigorosamente la competenza e rifiutando il provvedimento nei casi in cui i requisiti non sussistevano.[7] Tra più di 7000 richieste di amnistia ufficialmente depositate, circa 1.100 sono state formalmente concesse dal Comitato prima della sua formale conclusione nel 2003. I documenti resi pubblici dalla TRC hanno consentito dettagliate disamine e profonde discussioni. La coda di procedure post-2003 e l’articolazione della connessione con l’azione successiva della magistratura ordinaria ha senza dubbio mostrato aspetti altamente problematici e controversi. Tuttavia, va notato l’enorme sforzo operato dalla TRC durante l’amnesty process che doveva addizionalmente armonizzare le porzioni del lungo processo cominciato nella caotica fase transitoria sotto la scure della violenza politica. Nelle fasi iniziali della transizione, infatti, le autorità avevano già approvato almeno due disposizioni che disegnavano immunità penali di varia natura, creando ampie zone di incertezza. Il Comitato di Amnistia, quindi, ha operato su larga scala seguendo una logica precisa: non caricare la magistratura ordinaria con una mole di processi senza precedenti, coordinare l’intera azione di dealing with the past sincronizzando gli Indemnity Acts precedenti, non polarizzare ulteriormente l’opinione pubblica lungo copiosi e interminabili potenziali processi penali su fatti drammatici che avrebbero inevitabilmente incendiato gli animi se trattati secondo i rituali del processo accusatorio. La soluzione elaborata in Sudafrica fu tecnicamente e concettualmente senza precedenti. Nella sostanza la TRC ribaltava la meccanica fondamentale del processo penale. Incentivando la self-accusation aveva l’obbiettivo di disinnescare la logica accusatoria evitando il conflitto su fatti, verità e la colpevolezza.
Tra detrattori e apologeti la TRC ha indubbiamente segnato un’epoca di discussioni sul significato di giustizia e verità attivando dinamiche processuali del tutto innovative. A lungo gli specialisti internazionali si sono contrapposti circa possibilità e opportunità di esportazione del modello. Ad oggi la TRC continua a costituire un unicum. La soluzione di fasi transitorie post-conflitto e post-regime ha ricorsivamente fatto appello agli strumenti di amnistia, indulto o grazia. Le aule giudiziarie e gli strumenti del processo penale, settati sulla determinazione della responsabilità penale strettamente personale hanno sovente evidenziato limiti strutturali innanzi a processi storici di vaste proporzioni. Al contempo, tuttavia, nessuna sperimentazione successiva si è più spinta tanto lontano. Da un lato le transizioni post-Guerra Fredda hanno progressivamente esaurito la spinta e le esigenze, dall’altro la TRC è stata il frutto visionario di personalità quali Nelson Mandela e Desmond Tutu nel quadro di condizioni culturali di contesto difficili da riprodurre.
* Professore presso University of California Hastings College of Law e presso l’Università di Bologna.
[1] H. Ebrahim. (1998). The Soul of a Nation. Constitution Making in South Africa. London, Cape Town: Oxford University Press; T.R.H. Davenport. (2000). The Birth of a New South Africa. Toronto, Buffalo, London, University of Toronto Press.
[2] Lollini A. (2011). Constitutionalism and Transitional Justice in South Africa, Oxford-New York, Berghahn Books; Lollini (2005) A. Costituzionalismo e giustizia di transizione. Il ruolo costituente della Commissione sudafricana verità e riconciliazione. Bologna, Il Mulino.
[3] Scomparso l’11 novembre 2021.
[4] H. Adam and K. Moodley. (1993). The Negotiated Revolution: Society and Politics in Post-apartheid South Africa. Johannesburg: Jonathan Ball; J. Cameron- Dow. (1994). The Miracle of a Freed Nation (South Africa 1990-1994). Cape Town: Don Nelson; S. Friedman and D. Atkinson (eds). (1994). The Small Miracle. South Africa’s Negotiated Settlement. Johannesburg: Ravan Press; A. Sparks. (1994). Tomorrow Is Another Country. The Inside Story of South Africa’s Road to Change. Chicago: University of Chicago Press.
[5] TRC Final Report. 2003. London: MacMillan
[6] E. Fronza, Il negazionismo come reato. Milano: Giuffrè, 2012.
[7] J. Sarkin. 2004. Carrots and Sticks: The TRC and the South African Amnesty Process. Antwerp: Intersentia; A. du Bois-Pedain. 2007. Transitional Amnesty in South Africa. Oxford: Oxford University Press.
La dirigenza giudiziaria tra realtà e futuro
Editoriale
“L’attività del C.S.M., sin dal momento della sua composizione, deve mirare a valorizzare le indiscusse professionalità su cui la Magistratura può contare, senza farsi condizionare dalle appartenenze e dedicando particolare attenzione anche alla promozione della parità di genere”; “…all'amplissima discrezionalità di cui il Consiglio gode nel valutare i requisiti attitudinali e di merito dei magistrati al fine del conferimento di posti direttivi e semi direttivi deve dunque accompagnarsi una più netta "presa di distanze" dalle appartenenze, che rischiano di viziare di pregiudizialità le valutazioni”.
Gli ultimi Presidenti della Repubblica – il primo tratto di discorso è di Sergio Mattarella, il secondo di Giorgio Napolitano – hanno entrambi evidenziato, con nitida chiarezza, l’intrinseca problematicità dell’attività di selezione della “dirigenza giudiziaria”, connotata da amplissima discrezionalità ed adombrata dal condizionamento delle appartenenze, in contrapposizione al merito. Inutile evidenziare come le recenti cronache hanno portato alla ribalta alcuni dei corpi, più o meno già noti, di queste ombre.
La selezione della dirigenza giudiziaria – si dibatte ancora se sia esercizio di una effettiva discrezionalità amministrativa – è argomento complesso, ricco di implicazioni e conseguenze. Su questo aspetto, la scelta “migliore” deve necessariamente rispondere ad una domanda essenziale: che tipo di dirigenza vogliamo? Il concetto di “appartenenza” indica necessariamente un disvalore o si riporta a diversi modelli di giurisdizione? Il discorso implica la consapevolezza che ogni scelta consente di perseguire e raggiungere determinati obiettivi, penalizzandone altri; né va sottovaluto che un modello, che appare ottimale in un dato momento, potrebbe non essere tale in contesti che si evolvono nel tempo.
Il Presidente Sergio Mattarella, nel recente discorso al Parlamento, come anche nei precedenti, ha indicato la necessità di riformare il C.S.M. affinché questi “possa svolgere appieno la funzione che gli è propria, superando logiche di appartenenza che, per dettato costituzionale, devono rimanere estranee all'ordine giudiziario” suggerendo una soluzione che, preservando l’autonomia decisionale, agisca sulla modalità di composizione del soggetto decidente.
Giustizia Insieme vuole proporre ai suoi lettori un’analisi delle problematiche aperte sul tema della dirigenza giudiziaria assumendo, come al solito, una prospettiva pluralista e dinamica che guarda all’attività di selezione della magistratura dirigente nel suo complesso.
La prima serie di contributi guarda all'esercizio della discrezionalità da parte dell'autogoverno nella nomina della dirigenza giudiziaria. I quattro interventi programmati - alcuni nella forma del contributo unico, altri proposti come intervista plurale - spaziano da una prima osservazione al sistema nel suo complesso, ricco di criticità (articolo di Edmondo Bruti Liberati), alle voci dei consiglieri del C.S.M. (intervista ai Consiglieri Giuseppe Cascini, Loredana Micciché e Alberto Maria Benedetti), all’analisi del ruolo dei Consigli Giudiziari (intervista a diverse voci togate e laiche: dott. G. Sepe, prof. Riccardo Ferrante e avv. Cataldo Intrieri e successivo articolo di Marcello Basilico), per concludere con un’analisi della questione del sindacato del giudice amministrativo sulle scelte del C.S.M. (articolo del professore Mario Rosario Spasiano).
La seconda sessione ferma, invece, l’attenzione sul punto nodale costituito dai contenuti effettivi dell’esercizio dell’azione dirigenziale, guardando al sistema delle conferme (articolo del consigliere C.S.M. Elisabetta Chinaglia), soffermandosi, poi, sulla problematica del carrierismo (articolo del prof. Nicolò Zanon, vice presidente della Corte Costituzionale). L’argomento viene, infine, analizzato dalla prospettiva inedita di giovani magistrati intervistati da un presidente di tribunale, sull' “essere” e il “dover essere” della dirigenza negli uffici (intervista di Paolo Sordi a Enrico Contieri, Paolo Mariotti e Raffaella Marzocca).
L'ultima sessione raccoglie la prospettiva di chi è chiamato al ruolo di semidirettivo (intervista di Antonella Marrone ad Alessandra Salvadori) e a dirigere gli uffici di merito giudicanti di primo e di secondo (interviste ad Antonella Magaraggia e Giuseppe Meliadò) e requirenti (intervista di Giuseppe Amara ad Antonio Patrono). A chiudere il discorso sulla realtà della dirigenza giudiziaria ci saranno la voce dell’avvocatura (con un contributo dell’avv. Andrea Mascherin) e una particolare prospettiva accademico-politica (intervista al prof. Giovanni Maria Flick, già Ministro della giustizia).
Doveri dell’uomo da Mazzini ad oggi: opinioni a confronto*
Intervista di Roberto Conti a Lara Trucco
“Domenega passá, 10 corrente, à unn’oa doppo mezogiorno,
moiva in Pisa l’illustre letterato, o sommo filosofo e grande patriöta
Giuseppe Mazzini, nòstro concittadin.
L’Italia in gran parte a va debitrice à Lê, perché coi sò scriti,
coi so 50 anni d’apostolato, o l’à fato nasce e
cresce inti italien o sentimento de nacionale indipendensa”.
(Da “O Balilla” del 1872)
1. Prof.ssa Trucco, secondo Lei, il nostro tempo ha bisogno di tornare a riflettere sui doveri dell’uomo, tema assai caro a Giuseppe Mazzini che ad esso dedicò il suo celebre saggio?
2. Per Mazzini i doveri dell’uomo sono quelli che consentono di trovare il punto di equilibrio fra i diversi diritti. È attuale la sua ricostruzione e quanto essa deve misurarsi con il concetto di bilanciamento dei diritti, con la dottrina della atirannicità dei diritti umani?
3. Mazzini, ad un certo punto si chiede: E dove i diritti di un individuo, di molti individui, vengono in contrasto coi diritti del paese, a che tribunale ricorrere? In questa domanda si coglie secondo Lei la diversità netta fra diritti e doveri dell’uomo? Oppure si tratta di una domanda retorica, che presuppone l’assenza di una risposta in chi la pone? Ed ancora, esiste un piano diverso e non sovrapponibile, in punto di tutela, fra l’attuazione dei diritti umani e quello dei doveri?
4. Antonio Ruggeri, più volte impegnato nella ricostruzione della teoria dei diritti fondamentali, nel delineare la struttura complessa dei diritti fondamentali ha sostenuto che essa, “ riguardata sotto la luce della dignità, appare essere composita, in ciascun diritto e in tutti assieme, nel loro fare “sistema” e porsi al servizio della dignità, potendosi a mia opinione cogliere una componente deontica, resa palese dall’osservazione delle relazioni che l’individuo intrattiene con gli altri individui e l’intera società, conformandosi al canone della solidarietà (art. 2 cost.). La componente in parola è, ancora prima e di più, singolarmente evidente proprio nella dignità, da cui quindi si alimenta e per il cui tramite si diffonde, beneficamente contagiandoli, agli “altri” diritti fondamentali.”
La componente deontica dei diritti fondamenti ai quali Ruggeri accenna riconduce tutti i diritti alla dignità umana. Mazzini, per converso, sembra individuare nei Doveri dell’uomo la colla che tiene uniti i diritti per una comunità che diventa Stato. Così almeno sembra fare quando osserva che occorre “trovare un principio educatore superiore a siffatta teoria (quella dei diritti n.d.r.) che guidi gli uomini al meglio, che insegni loro la costanza nel sacrificio, che li vincoli ai loro fratelli senza farli dipendenti dall’idea d’un solo o dalla forza di tutti”. Quanto secondo Lei questa prospettiva si ritrova nell’art.2 Cost. allorché si sofferma sui doveri di solidarietà e quanto se ne differenzia e quanto le due prospettive sono realmente fra loro diverse? E ancora, a suo giudizio, può dirsi che la Carta costituzionale sia, almeno in parte, debitrice nei riguardi della lezione mazziniana sui doveri, specie per ciò che concerne il rilievo centrale assegnato al principio di solidarietà?
5. Il collegamento che Mazzini fa dei doveri a Dio come deve intendersi e quanto è secondo lei oggi attuale in una società intesa come laica per Costituzione? E per altro verso, la radice divina che sembra potere orientare l’uomo verso la legge giusta o ingiusta che pure traspare dalle pagine mazziniane è ancora oggi attuale quando si parla di disobbedienza civile alle leggi in nome di valori fondamentali?
6. “Quand’io dico, che la conoscenza dei loro diritti non basta agli uomini per operare un miglioramento importante e durevole, non chiedo che rinunziate a questi diritti; dico soltanto che non sono se non una conseguenza di doveri adempiti, e che bisogna cominciare da questi per giungere a quelli.” Così Mazzini. Nel nostro tempo, secondo Lei, come può concretizzarsi questa riflessione?
7. Nella nostra società, sempre più plurale, sempre più aperta e porosa verso esperienze sovranazionali e sempre più impegnata nel coltivare la cooperazione fra Paesi diversi, quanto è attuale il concetto mazziniano di Patria? E, per altro verso, il parimenti continuo richiamo all’umanità aiuta a spiegare meglio il significato della prospettiva della doverosità che Mazzini propugna?
Nel quadro internazionale di oggi che vede sempre più intensi i vincoli discendenti da tale principio e interconnesse le relazioni tra gli Stati, ritiene dunque che la lezione mazziniana possa o, addirittura, debba esser motivo d’ispirazione per lo svolgimento delle relazioni stesse, come pure di quelle che si svolgono tra i consociati e tra questi e i pubblici poteri?
8. L’opera mazziniana si conclude con questa frase: L’emancipazione della donna dovrebb’essere continuamente accoppiata per voi coll’emancipazione dell’operaio e darà al vostro lavoro la consacrazione d’una verità universale. Quali reazioni le suscita, da accademica impegnata su diversi fronti della società civile?
9. E infine, la recente riforma degli artt. 9 e 41, con i richiami fatti all’ambiente ed all’ecosistema, la cui salvaguardia viene riconosciuta come espressiva di un principio fondamentale dell’ordinamento, può, a suo avviso, per la sua parte concorrere a far rivedere sotto una luce diversa dal passato il dovere di solidarietà in parola, in ciascuna delle sue molteplici forme espressive ed in tutte assieme?
1. Innanzi tutto, un doveroso grazie a Giustizia insieme per la mia partecipazione a questa riflessione collettiva sui “doveri dell’uomo” in occasione delle celebrazioni mazziniane.
Si tratta all’evidenza di un impegno assai stringente a cui non potrebbe farsi fronte nello spazio di poche righe, senza considerare, poi, l’estrema complessità della figura del grande genovese di non facile decifrazione già quando Egli era ancora vivo e avvolta in una sorta di mito.
Quel che però pare certo, nella nostra prospettiva, è che, dell’eredità rivoluzionaria del 1789, Egli fosse tra i pochi che avesse continuato a coltivare il binomio tra diritti e fraternità, laddove il trionfo degli ideali individualisti e borghesi avrebbe messo in primo piano solamente i primi. E da questo punto di vista non può non apprezzarsi il paradigma mazziniano su cui poggia lo stesso dato costituzionale (art. 2) che, se da un lato, guarda all’uomo, “sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità” come centro di imputazione giuridica del riconoscimento e della garanzia da parte della Repubblica dei “diritti inviolabili” (art. 2 Cost.), dall’altro “richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (Domanda 1).
2. Venendo più da vicino alla storia dell’Apostolo del nostro Risorgimento, ci si avvede anche del fatto che le tensioni che condussero alla riunificazione politica dell’Italia vibrassero nella sostanza su due lunghezze d’onda diversa, quasi di tipo religioso in Mazzini e più aderente agli interessi della classe proprietaria e mercantile dominante in Cavour e di conseguenza più radicali e destabilizzanti (rivoluzionarie e repubblicane) nel primo e più realiste e conservatrici nel secondo (classiste e monarchiche). Ma sarà lo stesso afflato religioso a far divergere la prospettiva di Mazzini anche da quella di Marx, basata sul materialismo storico (cfr. infra).
Per il grande genovese, dunque, vigeva la consapevolezza che solo la condivisione di “un credo potente” avrebbe potuto avere qualche chance di traguardare la «meta fissata al progresso umano» della rigenerazione sociale “dal basso”, insieme all’idea dell’esistenza di una “legge morale superiore per tutti e sorgente del dovere di tutti” (G. Mazzini, I doveri).
Solo “in” ed “attraverso” essa, infatti, si sarebbe potuto innescare l’impeto interiore e fisico che avrebbe potuto rendere disponibili al sacrificio della vita per la propria Patria, ovvero al martirio (G. Mazzini, Fede e avvenire). Detto altrimenti, solo la sacralizzazione della politica, e con essa la trasposizione della simbologia religiosa nella dimensione sociale avrebbe potuto indurre a quella sorta di immedesimazione cristologica facendo considerare la vita una missione doverosa per il progresso in prospettiva dell’umanità. E, nell’immediato, a radicare la propria identità “di popolo” libero dall’oppressione interna e straniera (v. l’associazionismo rivoluzionario interno) ed in prospettiva europeo (v. l’associazionismo rivoluzionario europeo), nell’affermazione dei valori unitari e repubblicani (in senso ampio considerati).
È pertanto in questa chiave che va vista l’abnegazione dello stesso Mazzini per l’assolvimento di una intensa attività pedagogica di educazione alla propria “religione civile” ovvero all’insegna di un «principio educatore del dovere» (G. Mazzini, Doveri, cit.), mosso in ciò dalla convinzione che «la rivoluzione dei doveri avrebbe dovuto produrre un’educazione non egoistica, ma improntata alla fratellanza» (cfr., sul punto, V. Tondi della Mura, La frontiera aperta da Giorgio Lombardi nella sistematica dei doveri costituzionali: dall’idealismo mazziniano al personalismo costituzionale). Quelle stesse attività e convinzioni che gli sarebbero costate le critiche di eccessivo idealismo e teologismo nella prospettiva marxista (F. De Giorgi, Millenarismo educatore). E, per contro, a sostenere il giudizio negativo di Mazzini sull’ateismo, in quanto destinato al fallimento della propria azione rivoluzionaria perché troppo debole nei rapporti di forza specialmente di tipo economico, e conflittuale sul piano politico e sociale così da rendere incomponibile anche nel più lungo periodo un ordine sociale democratico (R. Sarti, Mazzini).
4. Ebbene, quanto rilevato basta a considerare Giuseppe Mazzini vittima del suo tempo? O non piuttosto un uomo eccezionalmente fuori dal suo tempo, che è poi la sorte di ogni profeta e di ogni visionario: quella di essere emarginato in vita e misconosciuto quando le sue idee siano ormai entrate nella normalità delle cose? Ovviamente non ci si riferisce alle vessazioni concretamente subite che fanno di lui certamente un perseguitato se non un martire della causa italiana.
4.1. Così, quanto al “pensiero”, può pensarsi che Mazzini si sia trovato “rivoluzionario” a fronte del suo essere invero “democratico”.
Il suo pensiero e la sua azione, infatti, possono dirsi antesignani di quella concezione “servente” dei doveri destinata dipoi ad affermarsi, a distanza di tempo, negli stati democratici (cfr. infra). Concezione “servente” che nella sua epoca ancora attendeva di vedere l’edificazione di condizioni ambientali idonee ad ospitare quei diritti fondamentali, ed in prospettiva “inviolabili” dell’uomo (Domanda 6).
Su questa base, pare possibile ritenere che, ad oggi, Egli avrebbe ritenuto naturale lottare per il mantenimento e la promozione in una prospettiva interna e sovranazionale della pari dignità sociale e dell’eguaglianza davanti alla legge, “senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”; nonché “per la rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (il richiamo del nostro dettato costituzionale è qui evidente).
Per diverso ma connesso profilo, può pensarsi che Egli avrebbe biasimato quelle forme organizzative che, pur proclamando nobili ideali, si rivelino a conti fatti meri strumenti di gestione personalistica e conservatoristica del potere. Ancora e più nello specifico, può ritenersi che, ad oggi, il pensatore genovese avrebbe sostenuto le ragioni della rappresentanza femminile (anche) nei luoghi di potere, ritenendola a tutti gli effetti “dovuta” (basti pensare all’importante ruolo svolto di promozione dei diritti della donna condotto dal movimento della “Giovine Europa” da Egli stesso fondata) (Domanda 8).
4.2. Venendo poi all’azione, pare possibile vedere in Mazzini la figura di un intellettuale non alieno dal mettersi personalmente in gioco (si ricordi il suo ruolo nella Repubblica romana e i suoi contatti con Garibaldi al momento dell’acquisizione del regno borbonico).
Per altro verso, risuonano purtroppo come ancora attuali le parole contenute nel suo “proclama” ai militari in partenza per la guerra in Crimea:
«Quindicimila tra voi stanno per essere “deportati” in Crimea.
Non uno forse tra voi rivedrà la propria famiglia. Il clima, la mancanza di strade, la difficoltà degli approvvigionamenti in una terra esaurita già dagli eserciti e che non può provvedersi se non per la via d’un mare incerto, tempestoso, difficile, uccidono quei che non sceglie palla nemica. Su 54.000 inglesi che lasciarono la terra loro, 40.000 non rispondono più alla chiamata. Breve tempo dopo cominciato l’assedio al quale vi chiamano, il soldato era a mezza razione. Gli stenti sono tali che i più avvezzi ed induriti tra i soldati francesi d’Affrica prorompono in tumulti e rivolte …» (G. Mazzini, Proclama per la Crimea all’esercito piemontese, 1855).
4.2. Un ulteriore rilievo che si vuol fare è costituito dalla “doppia anima” che caratterizzò il suo essere religioso: e, cioè, la religione come fatto politico e sociale (ovvero “strumento” di potere) e la religiosità come atto, invece, di fede individuale (ovvero come “credo” interiore), che lo condusse a formulare l’auspicio della laicità dell’entità statuale nel suo complesso.
Del resto, il cosmopolita non fece velo del proprio allontanamento dalle religioni incentrate intorno ad autorità ecclesiastiche e, per contro, del suo avvicinamento, ad una forma di deismo (che, peraltro, all’epoca aveva già avuto sviluppo in vari paesi europei ed in territorio statunitense) razionalista e, se si vuole, sentimentale, comunque distante da forme di ateismo ed agnosticismo e teso ad unire “in fratellanza”.
Poco o nulla, dunque, può pensarsi, di “contraddittorio”, come invece, ad un certo punto, parve ammettere (un altro sacrificio?) lo stesso Mazzini (G. Mazzini, I doveri, cit.)…ma, semmai, all’opposto, una mirabile lucidità di pensiero e coerenza d’azione votata ai propri supremi fini.
Ad un tale riguardo, si vuole ancora ricordare il prezzo che si trovò a scontare, in termini di privazione della libertà personale, all’indomani del suo sostegno alla conquista dello Stato pontificio, come quando considerò il Papato la «base di ogni autorità tirannica» (G. Mazzini, I doveri, cit.). E la sanzione che gli fu inferta quando, allora studente, rifiutò di sottostare alle norme di stampo religioso all’epoca vigenti nella facoltà di giurisprudenza dell’Ateneo genovese. Ed, ancora e per diverso profilo, alla rinuncia a deputato che Egli fece per non dover giurare fedeltà alla monarchia, mantenendo così fede ai propri ideali repubblicani, i quali si sarebbero, peraltro, visti trasfusi, sia pur per breve, nella “Repubblica romana”.
4.3. Lasciando ancora libera la nostra immaginazione, vogliamo credere che, ad oggi, Mazzini avrebbe distinto (vorrei dire: “si sarebbe potuto permettere di distinguere”) i doveri derivanti dal credo religioso individuale, rispetto a quelli scaturenti dal piano politico e sociale, riconnettendo i primi alla matrice morale ed i secondi, invece, al principio di solidarietà sociale di cui ragiona appunto la nostra Costituzione.
Di qui una concezione della cultura dei “doveri” giuridicamente come sostrato alla condizione stessa di cittadinanza e di “collante” dello “stare insieme” ordinamentale, all’insegna della tolleranza e del rispetto della dignità reciproca e dell’intera “umanità” (Domanda 4).
Una religione, infine, se si vuole, dell’uomo nel sociale, che laicamente anticipa il nostro “stato costituzionale” …e cioè, di quella “casa” (cfr. infra) che sarebbe stata destinata a propiziare l’armonica e pacifica l’esistenza delle generazioni successive ed attuali (Domanda 9), motivandosi pertanto, nel pensiero mazziniano, l’intrapresa di forme di “disobbedienza civile” nei casi in cui dell’“edificio” vengano minati i pilastri portanti (si legga: i valori fondamentali) (Domanda 5).
5. È opportuno ricordare ancora, nel quadro del liberalismo statutario “liberale” (cfr. supra), la dottrina della sovranità nazionale fosse fuorviante rispetto alla realtà di un’unica classe sociale effettivamente dominante. Del resto, la vigenza del suffragio ristretto sarebbe bastata a minare alle fondamenta il principio di sovranità popolare e con esso stesso la vigenza di uno stato democratico. È noto anche come in un tale contesto vigesse una sostanziale coincidenza della dimensione istituzionale con quella privatistica incentrata sul Code civil, che portava i concetti di “dovere” e di “obbligo” ad identificarsi, vedendosi in essi perlopiù degli ostacoli all’affermazione di quel perno della concezione proprietaria “delle cose” che era il “diritto soggettivo”. Con un simile assetto il quadro giuridico risultava nelle sue grandi linee coerente nel rispecchiare sostanzialmente lo “stato di cose” sul piano politico e sociale, portando lo stesso Mazzini a biasimare il “Diritto” – quel “Diritto” – dell’individuo borghese, esaltando per contro la dimensione del dovere avente per fine la società è l’umanità piuttosto che il singolo (cfr. sul punto, V. Tondi della Mura, La frontiera aperta da Giorgio Lombardi, cit.) (Domanda 7).
Persino con il generale ripensamento della stessa forma di Stato, seguita alla caduta del fascismo ed alla Seconda guerra mondiale, si sarebbe però stentato a prendere atto della necessità di un cambiamento di paradigma (anche) nella e della sfera dei “doveri” (S. Romano, “Frammenti di un dizionario giuridico”). E ciò, a nostro avviso, in ragione fondamentalmente del condizionamento che l’ancora viva “paura del tiranno” continuava ad avere nel dibattito che andava svolgendosi (anche, si noti, in Assemblea costituente, dove si è detto che il pensiero mazziniano “non ebbe presa”). Così che la più attenta dottrina avrebbe a più riprese messo in guardia sulla confusione che si stava continuando a fare tra le due “situazioni soggettive di svantaggio” del “dovere” e dell’“obbligo”, lamentando, in particolare, che «la scienza giuridica per molti secoli» ed almeno dai tempi della pandettistica, non avesse in sostanza che «discusso intorno ad esse», in quanto figure certamente attinenti a «situazioni fondamentali sotto il profilo economico e sociale» di rilievo, ma ormai di per sé sole insufficienti a dar conto delle trasformazioni indotte dalla Costituzione repubblicana (M.S. Giannini, Lezioni di diritto amministrativo).
Insomma, andò emergendo allora come la fungibilità dei due concetti (di “dovere” e di “obbligo”) che era stata funzionale a perpetuare nel tempo l’omologazione dei rapporti, rispettivamente, di ordine civilistico ed istituzionale in epoca liberale (v. supra), risultasse contraddire, però, giunti a quel punto, le nuove coordinate costituzionali di natura democratica, le quali avrebbero richiesto ora di vederli mantenuti su piani distinti al fine di dar conto della complessità ordinamentale derivante dal principio di sovranità popolare. In quest’ottica, quindi, può inquadrarsi l’attenzione delle tesi istituzionaliste nel dimostrare che «non sempre e taluno vorrebbe dire mai» diritto e dovere potrebbero dirsi due termini veramente «correlativi», in quanto se non altro a dimostrare l’«insufficienza se non l’erroneità» di una simile posizione dovrebbe bastare la «evidente» constatazione, sul piano logico, dell’esistenza di doveri a cui non corrisponderebbero diritti e, viceversa (S. Romano, Frammenti di un dizionario giuridico, cit.). Ritenendosi più adeguato affermare semmai la correlazione oppositiva (pur sempre nella direzione “strumentale” di cui si diceva per l’innanzi) tra “diritto soggettivo” ed “obbligo”, nonché, ad un più alto livello teorico, tra “libertà” e “dovere” (nei rapporti soggettivi), e “potere” (nei rapporti istituzionali).
6. In quanto si è detto, dunque, l’importanza del contesto. Segnatamente, della distinzione – come si è visto, tutt’altro che scontata – tra i contesti non democratici, rispetto ai quali può presumersi la vigenza di concezioni dei doveri di segno imperativista (ed al limite autoritario) ad arginare le libertà; e quelli, invece, di caratura democratica in cui, all’opposto, deve presupporsi la funzione servente dei doveri rispetto ai medesimi diritti di libertà, sulla base del principio di solidarietà sociale: in un senso, cioè, funzionale alla trama di relazioni che accompagnano la realizzazione del principio di massima espansione delle libertà individuali ed in fondo all’integrazione ed allo sviluppo della società stessa nel suo complesso imponendosi qui il principio che vuole che gli interessi dei singoli siano indirizzati verso un’armonica convivenza della collettività (Domanda 2).
Del resto, è la stessa giurisprudenza costituzionale, proprio in casi concernenti doveri inerenti alle forme ed ai modi giuridicamente rilevanti di “stare insieme”, a dare conferma della centralità del principio solidaristico quale «base della convivenza sociale normativamente prefigurata dal Costituente» (Corte cost. sent. n. 75 del 1992; sent. n. 500 del 1993; sent. n. 155 del 2002; sent. n. 309 del 2013; sent. n. 119 del 2015; sent. n. 131 del 2020). Così da portarci con una certa apprensione e per inciso a rilevare l’estrema delicatezza di dichiarati stati emergenziali nel nostro Paese in mancanza di una chiara definizione del relativo perimetro “spaziale” e “temporale” nella Carta, trattandosi di situazioni in cui (come purtroppo abbiamo avuto modo di sperimentare nel periodo pandemico) la sfera dei doveri risulta dilatabile nell’“interesse della collettività” sino ad affermarsi come preminente sul terreno delle libertà, forte del fondamentale obbiettivo di garantire la sopravvivenza degli stessi “abitanti” di quella “casa” ordinamentale tanto cara a Mazzini (Domanda 3).
Peraltro, è un ulteriore atto di immaginazione a portarci a considerare l’importanza del sostrato culturale che inerisce allo stesso principio di solidarietà sociale: segnatamente, il rilievo della sua sufficienza a far stare insieme una società che ne risulti completamente impregnata, al limite prescindendosi dalla vigenza di norme giuridiche.
Del resto, è stata la drammatica esperienza pandemica a dimostrare la forza e financo l’imprescindibilità di un siffatto principio in quei casi che vedano il diritto impossibilitato a stare dietro “gli eventi”, disciplinandone i presupposti e dirigendone gli esiti. Così da portare anche il Presidente della Repubblica ad evidenziare l’inesistenza «[s]enza solidarietà» di «una vera comunità in cui vivere e convivere», data la nostra dipendenza gli uni dagli altri «in ciascun Paese, in ciascun luogo, in ciascuna città, in ciascun borgo, in ciascuno Stato, nella comunità internazionale» (S. Mattarella, intervento del 29 novembre 2021); nonché ad ammonire, in un discorso che ad oggi pare proiettarsi da una tragedia all’altra, sul fatto «che la cooperazione internazionale e la solidarietà non sono soltanto opzioni possibili bensì esigenze risolutive», potendocisi «salvare soltanto agendo tutti insieme”, muovendo dalla convinzione che «in ogni ambito delle relazioni internazionali approcci esclusivamente nazionali non abbiano speranza di successo» (S. Mattarella, intervento del 16 dicembre 2021).
7. È ancora la Consulta a dare conferma, su varie dimensioni relazionali (v. infra), della natura “servente” dei doveri sanciti dalla Carta alla libera esplicazione dei diritti nella cornice costituzionale vigente.
7.1. Al proposito, di sicuro interesse è il terreno in cui si muovono legami di solidarietà, perlopiù di tipo affettivo, “spontanei” e per questo solidamente instaurati. Qui il discorso per certi versi risulta ribaltato, rivendicandosi in prima battuta la possibilità di beneficiare di certi doveri, attraverso il riconoscimento di norma di un determinato status, in vista di affermare determinati diritti di libertà, col risultato complessivo di espansione di entrami i versanti, in forza di una sorta di “effetto trascinamento” reciproco tra diritti e obblighi (al punto da arrivarsi a parlare di vigenza di un “diritto-dovere” unitariamente inteso).
Di rilievo in questo discorso, peraltro significativamente assai battuto (anche) dalla Corte costituzionale, è la “vita di coppia”, e la relativa «volontà di vivere insieme in un nucleo caratterizzato da diritti e doveri» (sent. n. 281 del 1994). Il riferimento corre, in particolare, alla giurisprudenza sulle forme di convivenza more uxorio (sent. n. 8 del 1996; sent. n. 2 del 1998; e, successivamente, ex multis, sent. n. 140 del 2009 e Corte cost. n. 213 del 2016) e sulle unioni omosessuali, da cui «i connessi diritti e doveri» (sent. n. 138 del 2010 e n. 170 del 2014). Interessanti, al riguardo, sono anche i casi in cui la Consulta ha escluso l’invocabilità della clausola “dei doveri inderogabili di solidarietà” quando il «riconoscimento pleno iure» della formazione sociale non possa essere effettuato (Corte cost. sent. n. 183 del 1988 e sent. n. 158 del 1991).
7.2. Un ulteriore campo in cui si vede il principio solidaristico innervare i rapporti intrattenuti dall’homme situé nelle formazioni sociali “ove si svolge la sua personalità” è quello concernente situazioni soggettive di particolare vulnerabilità.
Qui la giurisprudenza che vede in provvidenze «in forma indiretta» (leggi: il permesso mensile retribuito) una «valorizzazione delle relazioni di solidarietà interpersonale ed intergenerazionale» da parte dello Stato sociale (sent. n. 213 del 2016). Qui, altresì, l’affermazione della «doverosità» delle formazioni scolastiche circa l’adozione delle misure di integrazione e sostegno (nel caso di specie, a soggetti portatori di handicaps), col conseguente obbligo in capo ai competenti organi scolastici, nello specifico, «di dare attuazione alle misure che, in virtù dei poteri-doveri loro istituzionalmente attribuiti […] possano già allo stato essere da essi concretizzate o promosse» (sent. n. 215 del 1987). Qui, ancora, la centralità del principio solidaristico in materia penale, segnatamente, sia durante l’esecuzione penitenziaria del reo, alla luce del principio rieducativo, sia, d’altro canto, dopo l’espiazione della pena, al momento, cioè, del suo reinserimento nella società ed il relativo «recupero alla solidarietà sociale» (sent. n. 409 del 1989).
Più in generale, di perdurante interesse, sempre tenuto conto di quanto si è detto, è quella giurisprudenza in cui la Consulta ha ricollegato agli stessi «doveri di solidarietà sociale» il principio generale della “collaborazione civica”, confermando «secondo i casi» l’obbligo o la facoltà dei cittadini di svolgere le attività richieste «con carattere di assoluta e urgente necessità, nel comune interesse, per far fronte ad eventi rispetto ai quali, data la loro eccezionalità o imprevedibilità, le autorità costituite non siano in grado di intervenire con la necessaria tempestività, oppure in misura sufficiente al bisogno» (sent. n. 89 del 1970).
7.3. Proseguendo nell’analisi ci si imbatte nel «valore inderogabile della solidarietà» collegato all’obbligo tributario, quale linfa vitale del «finanziamento del sistema dei diritti costituzionali», i quali, come rimarcato dalla Corte, necessitano perdurantemente di «ingenti quantità di risorse per divenire effettivi» (da ultimo, sent. n. 120 del 2021; sent. n. 288 del 2019; e di segno analogo, in precedenza, ex multis, sent. n. 119 del 1964).
In quest’ottica, particolare attenzione la merita una recente decisione in cui la Corte, nel pronunciarsi in punto di “appropriatezza” dell’autonomia impositiva regionale ha teso a rimarcare – si noti, anche rifacendosi ad altri ordinamenti europei – il dato di «doverosità», sul piano costituzionale, «di una diffusa tutela dell’ambiente quale bene comune» acconsentendo, su questa alla previsione da parte delle autonomie regionali, di tributi ambientali propri e autonomi tra cui «quelli funzionali alla tutela dei beni comuni di carattere ambientale» (sent. n. 82 del 2021).
Inoltre, va quantomeno menzionato il ruolo svolto dell’adempimento dei doveri di solidarietà sociale nel bilanciamento tra i diversi interessi e valori in campo in materia pensionistica (ex artt. 2 e 38 Cost.) (sent. n. 201 del 1986 ed in senso analogo sentt. n. 62 del 1977; n. 132 del 1984 e n. 133 del 1984; si veda, inoltre, più di recente la famosa sent. n. 70 del 2015).
Ancora, un richiamo va fatto al passaggio motivazionale contenuto in una delle due sentenze cd. gemelle (la n. 348 del 2007) in cui è stato proprio valorizzando la «stretta relazione» tra funzione sociale del diritto di proprietà e «l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà economica e sociale» che la Corte ha avvertito sul rischio di pregiudizio per la tutela effettiva di diritti fondamentali che potrebbero verosimilmente arrecare «[l]ivelli troppo elevati di spesa per l’espropriazione di aree edificabili destinate ad essere utilizzate per fini di pubblico interesse», con la conseguenza di fare da «freno eccessivo» alla realizzazione delle infrastrutture necessarie per un più efficiente esercizio dell’iniziativa economica privata.
7.4. Tornando, per concludere, a considerare idealmente la dimensione in cui si mosse il pensiero mazziniano, si vorrebbe richiamare l’attenzione sul “dovere di difesa della Patria”.
Valore ritenuto dalla Corte «di altissimo significato morale e giuridico», e da collocarsi per ciò stesso «al di sopra di tutti gli altri» (sent. n. 53 del 1967; sent. n. 11 del 1998; sent. n. 409 del 1989) epperò – e qui veniamo al punto – parimenti intercettato dal cambiamento di paradigma impresso dal principio solidarista. È stato ed è, in particolare, considerandosi un siffatto “dovere” come una specificazione dei doveri di solidarietà sociale che, nel nostro ordinamento democratico, si è visto (rectius: potuto vedere) un vettore di identità civica e di integrazione, capovolgendosi dunque, così, l’approccio difensivo e di chiusura del passato (v. infra).
Di qui, facendo comunque attenzione a rimarcare della norma il sommo «significato morale e giuridico», il riconoscimento, nondimeno, ad opera del giudice costituzionale, della possibilità «che una legge ordinaria imponga anche a soggetti non cittadini, o addirittura stranieri, in particolari condizioni» la prestazione del servizio militare (sent. n. 53 del 1967, cit.). Ciò che è valso a maggior ragione per gli apolidi, valorizzandosi, anche qui, la norma costituzionale che «parlando di diritti inviolabili dell’uomo e richiedendo l’adempimento dei corrispettivi doveri di solidarietà, prescinde del tutto, per l’appunto, dal legame stretto di cittadinanza» (Corte cost., sent. n. 172 del 1999). Così che, per questa strada, in tempi più recenti nell’affrontare la questione del «giuramento» circa l’osservanza della Costituzione e delle leggi, la Corte è arrivata a vedere nella norma concernente il “dovere di fedeltà alla Repubblica” una «concreta espressione», per lo straniero, della «manifestazione solenne di adesione ai valori repubblicani» (sent. n. 258 del 2017).
Di particolare interesse, dal nostro punto di vista, è l’interrelazione che, una volta superatane la obbligatorietà, la Corte avrebbe instaurato tra lo stesso servizio militare ed il servizio civile proprio «alla luce del principio di solidarietà espresso nell’art. 2 della Costituzione», rinvenendo nei due la «matrice unitaria» data dal fatto di costituire entrambi «forme di adempimento volontario» del ridetto dovere di difesa della Patria (sent. n. 228 del 2004). Il passo successivo sarebbe consistito quindi nell’estensione (pur sempre all’insegna dei «valori fondanti dell’ordinamento giuridico, riconosciuti, insieme ai diritti inviolabili dell’uomo, come base della convivenza sociale normativamente prefigurata dal Costituente») anche ad altre attività aventi comunque «finalità di solidarietà sociale» (ad es. attività di cooperazione nazionale ed internazionale, e di salvaguardia e tutela del patrimonio nazionale), considerandole parimenti ed al contempo «un adempimento» ma anche «un’opportunità» di «integrazione e di formazione alla cittadinanza» (ancora sent. n. 119 del 2015).
Ecco un tassello di quella “Patria” da intendersi in senso mazziniano come «casa dell’uomo e non dello schiavo» (G. Mazzini, Ai giovani d’Italia, cit.).
Prime richieste di arresto per i crimini di guerra commessi nella Georgia all’epoca dell’occupazione russa*
di Ezechia Paolo Reale
Il Procuratore della Corte Penale Internazionale ha richiesto in data 10/03/2022 alla Camera Preliminare l’arresto di tre persone accusate di crimini di guerra per i fatti accaduti nell’Ossezia meridionale, in Georgia, nell’agosto del 2008, durante il conflitto nel quale le forze armate dell’Ossezia meridionale, regione che reclamava l’indipendenza per rientrare nella sfera di influenza della Russia, aggredirono, con l’appoggio delle forze armate russe, il territorio della Georgia infierendo sulla popolazione civile.
Le accuse sono quelle di deportazione; detenzione illegale; tortura, trattamenti inumani, violazione della dignità personale e cattura di ostaggi nel contesto dell’occupazione del territorio della Georgia da parte della Russia.
Il Procuratore della Corte ha aggiunto di aver acquisito evidenze di condotte analoghe durante le investigazioni preliminari sulla situazione in Ucraina, presumibilmente in relazione ai fatti precedenti l’invasione russa, e di essere profondamente preoccupato per le segnalazioni di crimini internazionali commessi nel corso delle attuali ostilità in Ucraina.
I tre accusati sono il Luogotenente Generale Mikhail Mindzaev, dal 2005 al 2008 Ministro degli Interni del governo di fatto della autoproclamata, e non riconosciuta dalla comunità internazionale, Repubblica dell’Ossezia del Sud; Gamlet Guchamazov e David Sanakoev, conosciuto come “Ombudsman”, all’epoca dei fatti rispettivamente responsabili degli istituti di detenzione e del rispetto dei diritti umani.
Le accuse erano inizialmente rivolte anche contro il Maggiore Generale Borisov, vicecomandante delle truppe aerotrasportate russe, successivamente deceduto, circostanza che non ha consentito di procedere nei suoi confronti.
La richiesta di arresto per i tre accusati è stata resa possibile dalla circostanza che la Georgia ha ratificato lo Statuto di Roma, cioè il trattato istitutivo della Corte Penale Internazionale, il 5/9/2003, così consentendo la giurisdizione della Corte sui crimini commessi nel suo territorio a decorrere dal 1/12/2003.
Inoltre, il Procuratore, che aveva iniziato ex officio le investigazioni preliminari, è stato autorizzato nel 2016 dalla Camera Preliminare ad aprire un’indagine formale sulla situazione in Georgia per crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi nel contesto di un conflitto armato di carattere internazionale.
La stessa Camera aveva avuto la possibilità, prima di concedere l’autorizzazione, di valutare i memoriali ricevuti nel dicembre del 2015 da ben 6.335 vittime.
Attendendo le decisioni della Camera Preliminare sulle richieste di arresto e i successivi passi della Procura, può dirsi che, pur se giunte con un considerevole ritardo rispetto ai fatti, le conclusioni cui è sinora giunta la giustizia internazionale dovrebbero oggi costituire anche un forte monito per coloro che sono attivamente impegnati nelle ostilità originate dall’invasione russa dell’Ucraina.
*Si rinvia a La giustizia penale di fronte alle guerra, dello stesso autore.
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