ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Misure urgenti e delega in materia di esecuzione forzata (legge 206 del 2021) - Parte II
di Alberto Tedoldi
Sommario (segue): 8. L’ennesima riscrittura della disciplina sulla liberazione dell’immobile pignorato (comma 12, lettere f e h) - 9. Il professionista delegato deve svolgere almeno tre esperimenti di vendita in un anno, a pena di sostituzione (comma 12, lett. i) - 10. Il controllo sugli atti del professionista delegato ex art. 591 ter c.p.c.: reclamo al g.e. entro venti giorni e successiva opposizione agli atti esecutivi ex art. 617, comma 2, c.p.c., in luogo del reclamo al collegio ex art. 669 terdecies c.p.c. (comma 12, lett. l) - 11. Approvazione anche tacita del progetto distributivo, dichiarazione di esecutività e pagamenti demandati al professionista delegato, in assenza di contestazioni (comma 12, lett. m) - 12. Le norme antiriciclaggio (comma 12, lettere p e q) - 13. La vendita forzata secondo Salvatore Satta - 14. La vente privée, ovvero «l’inutile precauzione» (comma 12, lett. n) - 15. Limiti quantitativi e temporali alle misure coercitive ex art. 614 bis c.p.c. e conferimento del potere di disporle anche al giudice dell’esecuzione (comma 12, lett. o).
8. L’ennesima riscrittura della disciplina sulla liberazione dell’immobile pignorato (comma 12, lettere f e h)
La lett. f) del comma 12 si propone di intervenire nuovamente sull’art. 560 c.p.c., prevedendo che «il giudice dell’esecuzione ordin[i] la liberazione dell’immobile pignorato non abitato dall’esecutato e dal suo nucleo familiare ovvero occupato da soggetto privo di titolo opponibile alla procedura al più tardi nel momento in cui pronuncia l’ordinanza con cui è autorizzata la vendita o sono delegate le relative operazioni e che debba ordinare la liberazione dell’immobile abitato dall’esecutato convivente col nucleo familiare al momento dell’aggiudicazione, ferma restando comunque la possibilità di disporre anticipatamente la liberazione nei casi di impedimento alle attività degli ausiliari del giudice, di ostacolo del diritto di visita di potenziali acquirenti, di omessa manutenzione del cespite in uno stato di buona conservazione o di violazione degli altri obblighi che la legge pone a carico dell’esecutato o degli occupanti».
Nella Relazione illustrativa agli emendamenti governativi presentati suo tempo si legge quanto segue: «La proposta modifica è volta ad ottenere la liberazione anticipata degli immobili occupati sine titulo o da soggetti diversi dal debitore convivente col nucleo familiare, conformemente a quanto già ritenuto, sulla base del previgente articolo 560 del codice di procedura civile, dalle “Buone prassi” (delibera CSM 2017). Una maggiore tutela è data all’esecutato che abiti l’immobile staggito con la propria famiglia, prevedendo che la liberazione possa essere disposta soltanto in esito all’aggiudicazione del bene, sempre che l’esecutato non ostacoli lo svolgimento della procedura o non arrechi danni all’immobile o pregiudizio agli interessi del futuro aggiudicatario».
La lett. h) del comma 12, art. 1 l. delega 206/2021, demanda al Governo di «prevedere che sia il custode ad attuare il provvedimento di liberazione dell’immobile pignorato secondo le disposizioni del giudice dell’esecuzione immobiliare, senza l’osservanza delle formalità di cui agli articoli 605 e seguenti del codice di procedura civile, successivamente alla pronuncia del decreto di trasferimento nell’interesse dell’aggiudicatario o dell’assegnatario se questi non lo esentano». Criterio questo francamente superfluo, ché la già vigente versione del tormentato art. 560 c.p.c. già lo prevede in uno dei suoi numerosi periodi.
Il quale art. 560 c.p.c., rubricato «Modo della custodia», è stato malgré soi oggetto di continue, ondivaghe e contraddittorie novelle nel giro di pochissimi anni, alle quali faceva da sfondo una contrapposizione ideologica tra chi si schierava ex parte creditoris – soprattutto banche, società veicolo (SPV in acronimo) e servicers nelle cartolarizzazioni dei crediti deteriorati, gestite da fondi di private equity e da grandi istituti di credito internazionali – e chi volgeva, invece, ex parte debitoris, incline a riconoscere a ognuno la possibilità di permanere sino all’ultimo nell’immobile pignorato od anche – ricorrendo a una procedura di composizione delle crisi da sovraindebitamento ex lege n. 3/2012 (e, a venire, ai sensi del CCI), della quale dare avviso sin dal precetto, a mente dell’art. 480, comma 2, ultima frase, c.p.c. – una second chance e una fresh start, esdebitandosi una volta per tutte, recuperando il “merito creditizio” mercé cancellazione del nominativo dalla Centrale rischi e rientrando così nel circuito economico, consumistico e finanziario che si assume oggidì come virtuoso e che manda innanzi il mondo nel secolo XXI[10].
Così, l’art. 560 c.p.c., ch’era nel testo originario disposizione neutra e, tutto sommato, anodina, è divenuto campo di scaramucce tra i due schieramenti ideologici, «l’un contro l’altro armati». Era parso al conditor legum utile e opportuno, per favorire le vendite, anticipare congruamente la liberazione dell’immobile staggito, in modo da trasmettere all’aggiudicatario (o all’assegnatario) non soltanto la proprietà del bene con il decreto di trasferimento, ma anche la detenzione materiale, come usa avvenire nelle vendite volontarie mediante la consegna delle chiavi e la traditio ficta contestuale al rogito notarile, sì da garantire piena corrispondenza temporale tra acquisto del diritto e possesso del bene.
In tale ottica e con queste finalità il testo dell’art. 560 c.p.c., dedicato alla custodia del bene immobile pignorato, era stato novellato pro creditoribus nel 2014 e poi ancora nel 2016. Successivamente, con novella vigente dal 2019, l’art. 560 c.p.c. è stato nuovamente modificato, invertendone l’ispirazione e il segno pro debitore, salvo ancora intervenire nel 2020, in parziale rettifica, al fine di assicurare all’aggiudicatario la sollecita liberazione dell’immobile acquistato sine strepitu ac figura executionis (si fa ovviamente per dire…).
Il non breve testo che ne è sortito, neppure diviso in separati commi bensì unicamente in periodi secondo attuale malvezzo, prevede che il debitore e i familiari che con lui convivono non perdano la detenzione dell’immobile e delle sue pertinenze sino al decreto di trasferimento, a meno che ostacolino le visite da parte di potenziali acquirenti interessati a partecipare alla vendita o l’immobile non sia adeguatamente tutelato e mantenuto in uno stato di buona conservazione, per colpa o dolo del debitore e dei membri del suo nucleo familiare oppure il debitore violi altri obblighi che la legge pone a suo carico o, ancora, l’immobile non sia abitato dal debitore e dal suo nucleo familiare.
Qualora l’immobile pignorato sia abitato dal debitore e dai suoi familiari, salvi i casi di violazione degli obblighi dianzi indicati, il giudice dell’esecuzione non può mai disporne la liberazione prima del decreto di trasferimento di cui all’art. 586 c.p.c., che peraltro costituisce titolo esecutivo per il rilascio a favore dell’assegnatario o dell’aggiudicatario. Dopo la notifica o la comunicazione del decreto di trasferimento il custode, su istanza dell’aggiudicatario o dell’assegnatario e in mancanza di spontaneo adempimento da parte degli occupanti, provvede all’attuazione dell’ordine di rilascio contenuto nel decreto di trasferimento, decorsi sessanta giorni e non oltre centoventi giorni dall’istanza, senza l’osservanza delle formalità di cui agli artt. 605 ss. c.p.c. e con autorizzazione a valersi della forza pubblica e a nominare ausiliari ai sensi dell'art. 68 c.p.c. In mancanza di istanza dell’aggiudicatario o dell’assegnatario, saranno questi a dover procedere nell’esecuzione forzata per rilascio di immobile, avvalendosi del decreto di trasferimento quale titolo esecutivo, previe l’intimazione del precetto e la notifica dell’avviso di sloggio, seguendo le forme di cui all’art. 608 c.p.c. con l’intervento dell’ufficiale giudiziario. Quando invece sia stata ordinata la liberazione dell’immobile prima del decreto di trasferimento per violazioni ascrivibili al debitore o ai suoi familiari, sarà il custode a curarne l’attuazione coattiva (ex littera su istanza dell’aggiudicatario, quindi dopo che l’aggiudicazione sia avvenuta: il che non pare compatibile con la ratio della novella del 2020, ma tant’è), sempre secondo le disposizioni del giudice dell’esecuzione e senza l’osservanza delle formalità dettate dagli artt. 605 ss. c.p.c. per l’esecuzione in forma specifica per rilascio di immobile.
Ora il criterio direttivo in esame, dettato dalla lett. f) del comma 12, si propone di far liberare l’immobile non abitato dal debitore e dai suoi familiari ovvero occupato da soggetto privo di titolo opponibile alla procedura sin dal momento in cui il g.e. abbia disposto la vendita, delegandone le operazioni. Quando invece l’immobile sia abitato dal debitore e dai suoi familiari, salve le ipotesi di ostruzionismo o di violazioni, la liberazione dovrà essere disposta non appena sia avvenuta l’aggiudicazione, prima cioè del decreto di trasferimento, a seguito del quale si produce l’effetto traslativo della vendita forzata. Qualora l’aggiudicazione provvisoria venga meno (ad es., per inadempienza dell’aggiudicatario), cesserà ovviamente la necessità di procedere alla liberazione dell’immobile, sino a una nuova aggiudicazione, con il rischio insomma di qualche possibile andirivieni.
Come ben vedesi, i vari estensori e suggeritori dei testi dell’art. 560 c.p.c. imbandiscono ossessivamente una satura lanx, affetta da ‘analitico furore’, che riuscirebbe indigesta persino a Pantagruel, ripetendo anche il superfluo, come nella lett. h) del comma 12 che, come veduto, detta criterio direttivo per emanare una norma già esistente.
9. Il professionista delegato deve svolgere almeno tre esperimenti di vendita in un anno, a pena di sostituzione (comma 12, lett. i)
La lett. i) del comma 12 prevede che «la delega delle operazioni di vendita nell’espropriazione immobiliare abbia durata annuale, con incarico rinnovabile da parte del giudice dell’esecuzione, e che in tale periodo il professionista delegato debba svolgere almeno tre esperimenti di vendita con l’obbligo di una tempestiva relazione al giudice sull’esito di ciascuno di essi, nonché prevedere che il giudice dell’esecuzione debba esercitare una diligente vigilanza sull’esecuzione delle attività delegate e sul rispetto dei tempi per quelle stabiliti con l’obbligo di provvedere immediatamente alla sostituzione del professionista in caso di mancato o tardivo adempimento».
Nella Relazione illustrativa agli emendamenti governativi a suo tempo presentati si legge: «Per un sollecito svolgimento delle operazioni di vendita delegate ai professionisti è necessario fissare un termine entro il quale le attività devono essere svolte, nonché determinare un numero minimo di esperimenti di vendita da svolgere nell’arco di un anno. Occorre poi stabilire esplicitamente l’obbligo del giudice dell’esecuzione di vigilare sulle attività dei professionisti e sul rispetto dei tempi concessi per gli adempimenti delegati, al fine di evitare che eventuali inerzie o ritardi vengano scoperti ad anni di distanza dalla delega e che solo con grave ritardo il professionista negligente venga sostituito».
Nulla v’è da aggiungere: al professionista delegato spetta il compito di esperire tempestivamente almeno tre tentativi di vendita l’anno, con eventuali ribassi predeterminati nell’ordinanza di conferimento della delega, entro il limite di un quarto del valore dell’immobile, ai sensi dell’art. 591, comma 2, c.p.c.; al giudice dell’esecuzione spetta di vigilare diligentemente, affinché i tempi siano rispettati e le procedure delegate di vendita siano esperite con regolarità e sollecitudine, sotto comminatoria di sostituzione del delegato, previa audizione delle ragioni del ritardo (ancorché l’emendamento taccia sul punto). Il quale professionista delegato, ove contesti il provvedimento di sostituzione, potrà chiederne sommessamente la revoca allo stesso giudice dell’esecuzione, le cui ordinanze sono sempre modificabili e revocabili finché non abbiano avuto esecuzione ai sensi dell’art. 487 c.p.c., e potrà spingersi sino a interporre opposizione agli atti esecutivi ex art. 617, comma 2, c.p.c. entro venti giorni dalla conoscenza legale del provvedimento: ma in questo caso, come è evidente, si alienerà comunque le simpatie di chi ebbe a nominarlo, pescandolo dall’elenco dei professionisti di cui all’art. 179 ter disp. att. c.p.c.
Basti poi ricordare che, quando l’immobile resta invenduto e non vi sono domande di assegnazione, il giudice dell’esecuzione (recte, il professionista delegato, sulla scorta dell’ordinanza di vendita che, come d’uso, già lo preveda) fissa una nuova vendita, sempre con procedura senza incanto, stabilendo eventualmente diverse condizioni e diverse forme di pubblicità, per un prezzo base inferiore al precedente fino al limite di un quarto e, dopo il quarto tentativo di vendita andato deserto, fino al limite della metà del valore dell’immobile, quale stimato con la perizia. Vi sarà, ovviamente, un nuovo termine (che la legge ottativamente indica in misura non inferiore a sessanta giorni e non superiore a novanta) entro il quale possono essere formulate le offerte d’acquisto (cfr. l’art. 591, comma 2, c.p.c.).
L’incanto potrà essere disposto soltanto qualora il giudice dell’esecuzione ritenga che la vendita con tale modalità possa aver luogo a un prezzo superiore della metà rispetto al valore del bene, quale determinato nella perizia (art. 591, comma 1, ultima parte, c.p.c.): cioè, in pratica, mai.
Se anche dopo il quarto esperimento di vendita, con prezzo ridotto sino al limite della metà del valore di perizia, l’immobile resta invenduto, il giudice dell’esecuzione, previa audizione delle parti, potrà chiudere la procedura per infruttuosità, a norma dell’art. 164 bis disp. att. c.p.c. Misura questa che andrà adottata cum grano salis, quando risulti che non è più possibile conseguire un ragionevole soddisfacimento delle pretese dei creditori, anche tenuto conto dei costi necessari per la prosecuzione della procedura, delle probabilità di liquidazione del bene e del presumibile valore di realizzo. Le ingenti spese della procedura esecutiva immobiliare resterebbero, in caso di chiusura anticipata, a carico dei creditori che le hanno anticipate, i quali non solo non ottengono soddisfazione dei loro crediti, ma subirebbero in tal modo un pregiudizio assai grave. Perciò, la chiusura anticipata per infruttuosità presuppone l’estrema esiguità del realizzo, da stimare non soltanto in termini relativi, avendo riguardo alla percentuale del credito soddisfatto rispetto a quello azionato, ma anche in termini assoluti, avuto riguardo all’importo in concreto recuperabile, quantomeno a copertura delle spese affrontate per l’espropriazione.
10. Il controllo sugli atti del professionista delegato ex art. 591 ter c.p.c.: reclamo al g.e. entro venti giorni e successiva opposizione agli atti esecutivi ex art. 617, comma 2, c.p.c., in luogo del reclamo al collegio ex art. 669 terdecies c.p.c. (comma 12, lett. l)
La lett. l) del comma 12 demanda al Governo di «prevedere un termine di 20 giorni per la proposizione del reclamo al giudice dell’esecuzione avverso l’atto del professionista delegato ai sensi dell’articolo 591-ter del codice di procedura civile e prevedere che l’ordinanza con cui il giudice dell’esecuzione decide il reclamo possa essere impugnata con l’opposizione di cui all’articolo 617 dello stesso codice».
Nella Relazione illustrativa degli emendamenti governativi a suo tempo presentati si legge: «La proposta modifica è volta a rafforzare la stabilità del decreto di trasferimento. Infatti, in base al vigente articolo 591-ter del codice di procedura civile (così come interpretato da Cass. 12238/2019), il reclamo avverso l’atto del delegato (i cui atti non sono suscettibili di opposizione ex articolo 617 del codice di procedura civile) non costituisce un mezzo di impugnazione da esperire entro un certo lasso di tempo, decorso il quale l’atto si stabilizza; al contrario, eventuali vizi nell’attività del delegato possono essere fatti valere proponendo opposizione avverso l’atto esecutivo conclusivo della fase liquidativa e, cioè, avverso il decreto di trasferimento. Ciò determina una nociva instabilità del provvedimento traslativo della proprietà del cespite staggito, la quale può essere eliminata stabilendo un termine entro il quale dolersi degli atti del delegato (e decorso il quale eventuali vizi antecedenti non potrebbero più essere denunciati) innanzi al giudice dell’esecuzione, la cui ordinanza potrebbe essere impugnata entro il termine decadenziale ex articolo 617 del codice di procedura civile, evitando qualsivoglia ripercussione dei vizi sul decreto ex articolo 586 del codice di procedura civile».
In iure quo utimur e a norma dell’art. 591 ter c.p.c., quando, nel corso delle operazioni di vendita, insorgono difficoltà, il professionista delegato può rivolgersi al giudice dell'esecuzione, il quale provvede con decreto. Le parti e gli interessati possono proporre reclamo avverso il decreto nonché avverso gli atti del professionista delegato, con ricorso allo stesso giudice dell’esecuzione, il quale provvede con ordinanza: il ricorso non sospende le operazioni di vendita, salvo che il giudice dell’esecuzione, concorrendo gravi motivi, disponga la sospensione. Contro l’ordinanza del giudice è ammesso reclamo al collegio entro quindici giorni dalla conoscenza legale dell’ordinanza, ai sensi dell’art. 669 terdecies c.p.c.: del collegio non può far parte il giudice dell’esecuzione.
Il soggetto interessato ha l’onere di proporre il reclamo previsto dall’art. 591 ter c.p.c. avverso il provvedimento con il quale il giudice dell’esecuzione abbia impartito istruzioni al professionista delegato, prima che le istruzioni reputate erronee o inopportune siano eseguite: in mancanza, è inammissibile il reclamo al giudice dell’esecuzione avverso l’atto del delegato, una volta che le istruzioni abbiano esaurito la loro funzione, restando tuttavia impregiudicata la facoltà di qualunque interessato di proporre reclamo avverso gli atti successivi del delegato affetti da illegittimità derivata ovvero opposizione agli atti esecutivi ex art. 617, comma 2, c.p.c. avverso il primo atto del giudice dell’esecuzione conclusivo della relativa fase, ivi incluso il decreto di trasferimento, per vizi proprî o derivati da precedenti difetti della sequenza procedurale, compresi quelli già fatti valere mediante i reclami di cui all’art. 591 ter c.p.c., ancorché rigettati dal giudice dell’esecuzione e dal collegio.
Pertanto, secondo il sistema ricostruito dalla Corte di cassazione[11]:
- tutti gli atti del professionista delegato sono reclamabili dinanzi al giudice dell’esecuzione ai sensi dell’art. 591 ter c.p.c.;
- gli atti con i quali il giudice dell’esecuzione dia istruzioni al professionista delegato o decida sul reclamo avverso i di lui atti hanno contenuto meramente ordinatorio e non vincolano il giudice dell’esecuzione nell’adozione dei successivi provvedimenti della procedura;
- il reclamo al collegio avverso gli atti suddetti del giudice dell’esecuzione mette capo a un provvedimento che non ha natura decisoria e non è suscettibile di passare in giudicato e, come tale, non è soggetto a ricorso straordinario per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost.;
- eventuali nullità verificatesi nel corso delle operazioni delegate al professionista e non rilevate nel procedimento di reclamo ex art. 591 ter c.p.c. potranno essere fatte valere impugnando, ai sensi dell’art. 617, comma 2, c.p.c., il primo provvedimento successivo adottato dal giudice dell’esecuzione.
Un sistema assai articolato, per non dir labirintico, sul quale è certo d’uopo intervenire: l’emendamento opportunamente lo fa, imponendo un termine di venti giorni per proporre reclamo al giudice dell’esecuzione avverso l’atto del delegato, eliminando la superfetazione del reclamo al collegio ex art. 669 terdecies c.p.c. e assoggettando l’ordinanza del giudice dell’esecuzione sul reclamo avverso atti del delegato all’usuale rimedio dell’opposizione agli atti esecutivi ex art. 617, comma 2, c.p.c., da proporre mediante ricorso depositato entro il termine di venti giorni dalla conoscenza legale dell’ordinanza. Si scandiscono, insomma, i rimedî relativi alla sottofase di vendita gestita dal delegato imponendo termini perentori, sì da evitare che i vizî che la inficino possano propagarsi per derivazione sino al decreto di trasferimento, caducando la vendita forzata in pregiudizio del terzo aggiudicatario e dei creditori, che rischierebbero di veder dilazionati ad kalendas graecas i tempi di soddisfazione dei loro crediti.
11. Approvazione anche tacita del progetto distributivo, dichiarazione di esecutività e pagamenti demandati al professionista delegato, in assenza di contestazioni (comma 12, lett. m)
La lett. m) del comma 12 demanda al Governo di «prevedere che il professionista delegato proceda alla predisposizione del progetto di distribuzione del ricavato in base alle preventive istruzioni del giudice dell’esecuzione, sottoponendolo alle parti e convocandole innanzi a sé per l’audizione, nel rispetto del termine di cui all’articolo 596 del codice di procedura civile; nell’ipotesi prevista dall’articolo 597 del codice di procedura civile o qualora non siano avanzate contestazioni al progetto, prevedere che il professionista lo dichiari esecutivo e provveda entro sette giorni al pagamento delle singole quote agli aventi diritto secondo le istruzioni del giudice dell’esecuzione; prevedere che in caso di contestazioni il professionista rimetta le parti innanzi al giudice dell’esecuzione».
Nella Relazione illustrativa degli emendamenti governativi a suo tempo presentati si legge quanto segue: «La proposta, in conformità a quanto già previsto dalle buone prassi in materia esecutiva, estende il perimetro della delega al professionista. L’idea è quella di liberare il g.e. da incombenti meccanici, che gravano essenzialmente sulle cancellerie e che posso essere svolti dal delegato».
In effetti, l’emendamento intende ratificare ex lege le buone prassi già invalse nelle esecuzioni forzate immobiliari.
De iure condito il progetto distributivo del ricavato, dopo che il professionista delegato ha raccolto le osservazioni dei creditori concorrenti e del debitore e lo ha trasmesso al giudice dell’esecuzione, apportate da quest’ultimo eventuali variazioni, è depositato in cancelleria nel fascicolo telematico, affinché possa essere consultato da tutte le parti, in vista dell’udienza fissata dal giudice dell’esecuzione dinanzi a sé per la loro audizione, con la partecipazione anche del delegato. Tra la comunicazione dell’invito e l’udienza così fissata debbono intercorrere almeno dieci giorni (art. 596 c.p.c.). L’udienza per l’approvazione del progetto distributivo segna il termine ultimo per l’intervento dei creditori, anche se muniti di titoli di prelazione (artt. 565 e 566 c.p.c.).
La mancata comparizione all’udienza e in quella ulteriormente fissata dal giudice dell’esecuzione e comunicata alla parte non comparsa, se risulta o appare probabile che sia dipesa da cause non imputabili, importa approvazione tacita del progetto (art. 597 c.p.c.). Se all’udienza il progetto è approvato espressamente o tacitamente o si raggiunge l’accordo tra tutte le parti, se ne dà atto nel processo verbale e il giudice dell’esecuzione ordina il pagamento delle singole quote, disponendo che il cancelliere emetta i mandati di pagamento in favore dei creditori concorrenti, restituendo l’eventuale residuo all’esecutato (art. 598 c.p.c.).
Come detto, per consolidato usus fori, l’ordinanza di delega al professionista prevede già che le parti compaiano dinanzi a questo per l’approvazione del progetto e che il giudice dell’esecuzione intervenga solo quando sorgano contestazioni: dal (pur contraddittorio) combinarsi degli artt. 591 bis, n. 12, e 598 c.p.c. risulta che, se il progetto è approvato o si raggiunge l’accordo tra tutte le parti, può essere lo stesso professionista delegato a darne atto nel processo verbale e a disporre il pagamento delle singole quote ai creditori concorrenti, dietro ordine del giudice dell’esecuzione e una volta che siano decorsi venti giorni dalla data di approvazione del progetto senza che siano state proposte opposizioni. Se l’accordo sul progetto di distribuzione non è raggiunto e insorge controversia distributiva, il fascicolo verrà rimesso al giudice dell’esecuzione, che risolverà la controversia distributiva ai sensi dell’art. 512 c.p.c., con ordinanza soggetta al consueto rimedio dell’opposizione agli atti esecutivi ex art. 617, comma 2, c.p.c. e a sospensione ex art. 624 c.p.c.
Va da sé che questa ulteriore attività ‘privatizzata’ ed ‘esternalizzata’ al delegato, ivi inclusi i pagamenti da effettuare ai creditori ad instar di un curatore fallimentare, dovrà essere controllata dal giudice dell’esecuzione con occhio assai vigile e pronto.
12. Le norme antiriciclaggio (comma 12, lettere p e q)
Le vendite forzate sono spesso ricettacolo di malintenzionati: un tempo si discorreva di una famigerata “Compagnia della buona morte”, usa frequentare i pubblici incanti per accaparrarsi beni altrui a poco prezzo, riciclando denaro di dubbia origine. Molte inchieste penali l’hanno dimostrato e il fenomeno perdura tutt’oggi, nonostante la progressiva e sempre più ampia apertura al mercato delle procedure esecutive immobiliari.
Per contrastare fenomeni di riciclaggio e di infiltrazione della criminalità organizzata, le lettere p) e q) del comma 12 impongono di:
«p) prevedere che, nelle operazioni di vendita dei beni immobili compiute nelle procedure esecutive individuali e concorsuali, gli obblighi previsti dal decreto legislativo 21 novembre 2007, n. 231, a carico del cliente si applicano anche agli aggiudicatari e che il giudice emette il decreto di trasferimento soltanto dopo aver verificato l’avvenuto rispetto di tali obblighi;
q) istituire presso il Ministero della giustizia la banca dati per le aste giudiziali, contenente i dati identificativi degli offerenti, i dati identificativi del conto bancario o postale utilizzato per versare la cauzione e il prezzo di aggiudicazione, nonché le relazioni di stima. I dati identificativi degli offerenti, del conto e dell'intestatario devono essere messi a disposizione, su richiesta, dell’autorità giudiziaria, civile e penale».
13. La vendita forzata secondo Salvatore Satta
Al cospetto di tali disposizioni ed anche per introdurre la maggiore tra le novità della legge 206/2021 – la “vendita privata” o, alla francese, vente privée di cui diremo nel successivo paragrafo – merita d’essere ricordata un’eterodossa lettura poetica della vendita forzata, offerta da Salvatore Satta nel capitolo XIII del romanzo postumo Il giorno del giudizio[12].
Narra Satta che il maestro di scuola don Ricciotti Bellisai si presentò di notte a casa del notaio don Sebastiano Sanna Carboni, invitandolo perentoriamente a restituirgliela, in quanto era appartenuta al padre ed era stata acquistata all’asta da don Sebastiano: «Ancora una volta io ti chiedo se vuoi restituirmi la casa di Loreneddu, prima che io me la riprenda con la forza». «Tu hai comprato all’asta quella casa, [...] questo vuol dire che mio padre non te l’ha venduta. L’hai comprata senza la sua volontà. È come se l’avessi rubata». Ma, replica don Sebastiano, «tuo padre era pieno di debiti con la banca, e nessuno voleva comprare la casa messa all’incanto. Venne piangendo da me perché mi presentassi alla gara, altrimenti gli avrebbero portato via anche la camicia». «Lo so bene, ed è questo che ti condanna. Se nessuno offriva, la casa restava a lui», esclamò don Ricciotti. Il notaio avrebbe voluto dargli del pazzo, ma poi rifletté: «Nella pazzia di quell’uomo c’era un fondo di verità [...] Il debitore che non paga è soggetto alla espropriazione dei beni: questo era scritto nel codice che gli stava davanti [...], ed era più che giusto: era il fondamento stesso del vivere. Ma era anche vero che il debitore non c’entrava per nulla, i suoi beni ritornavano per così dire alla comunità dalla quale erano usciti, che provvedeva alla vendita. Sotto questo aspetto, ogni esproprio era un furto, e per questo i compratori all’asta erano guardati di malocchio. Una persona amica non partecipava alle gare, e anch’egli aveva sempre rispettato questo pregiudizio. Uno dei motivi di dissenso con la moglie era anche questo». Don Sebastiano, fatto questo pensiero, replicò: «Tu potresti avere qualche ragione, alla lontana, rispose. Ma su quella stessa sedia su cui stai seduto tu, e a questa stessa ora, tuo padre mi scongiurò di concorrere, come ti ho detto. Io non volevo, e per contentarlo dovetti indebitarmi al suo posto. Questo avveniva venti anni fa».
Come noto, la vendita forzata, a differenza di quella volontaria, non è il risultato di un incontro fra volontà negoziali, ma di una volontà negoziale (dell’offerente resosi aggiudicatario) e di una disposizione coattiva (del creditore o dell’organo) in luogo del debitore inadempiente[13]. La separazione dell’effetto traslativo dal potere di disporre della res – cioè appunto la previsione che il bene del quale è proprietario il debitore possa essere alienato senza la sua volontà – comporta necessariamente la pubblicità della vendita forzata, nel senso che la libera scelta del titolare non può essere sostituita che da una partecipazione al trasferimento dell’intero gruppo, della comunità nel suo insieme. Sotto questo profilo si affianca all’interesse del titolare del bene un interesse dei terzi, cioè dei possibili partecipanti alla gara per aggiudicarselo: con la conseguenza che l’assoluto difetto di pubblicità dell’avviso di vendita rende invalida l’alienazione coattiva[14].
Questa è probabilmente la comunità alla quale pensa don Sebastiano: il pubblico, l’insieme dei potenziali offerenti all’incanto, come se il coinvolgimento della comunità nella vendita forzata e l’appartenenza di colui che risulterà effettivo acquirente a un’indefinita e illimitata pluralità di persone valessero a legittimare l’espropriazione forzata e, con questa, «il sacrificio del debitore, il distacco dalla sua cosa e in un certo senso da sé stesso»[15].
Don Sebastiano aveva concorso all’incanto e si era aggiudicato la casa solo perché il debitore lo aveva scongiurato di farlo. Il che dovrebbe eliminare a monte il problema, non solo di carattere morale, ma anche teorico e giuridico: nel suo caso la vendita, sebbene coattiva, era stata sollecitata spontaneamente dal debitore-proprietario all’offerente all’incanto, resosi poi aggiudicatario. Sennonché l’acquirente all’incanto forzoso, quali che siano le soggettive motivazioni all’acquisto, rischia comunque di apparire come qualcuno che profitta delle disgrazie altrui, destando quella stessa ripugnanza che suscitano la vista o anche solo il pensiero di mani sconosciute e rapaci che si posano, profanandole, sulle cose che fino a poco prima facevano parte della vita del debitore e della sua famiglia, del suo essere prima e più che del suo avere[16].
Il clima della vendita immobiliare è divenuto quanto mai asettico nella postmodernità liquida e digitale, tanto più nelle modalità telematiche oggi imposte dal codice di procedura civile, in luogo della fiammella e del fumo delle tre candele vergini accese dopo ogni offerta, prima che divenisse definitiva e desse così luogo all’aggiudicazione del bene al maggior offerente, come ancora avveniva sino a qualche lustro fa. Ma non è certamente meno drammatico né meno doloroso per il debitore «il distacco dalla sua cosa e in un certo senso da sé stesso», come scriveva Satta, sul piano sociale e psicologico, specialmente quando l’oggetto della vendita è la sua casa di abitazione.
Don Ricciotti non accusa il notaio di aver rubato la «casa di Loreneddu», bensì gli dice: «è come se l’avessi rubata». Dal canto suo, don Sebastiano non qualifica come furto l’acquisto all’incanto, bensì come «esproprio», cioè una procedura complessa, una fattispecie a formazione progressiva, alla quale concorrono, prima dell’aggiudicatario, il creditore procedente e gli organi esecutivi. «Il debitore che non paga è soggetto alla espropriazione dei beni»: questa è la regola (cfr. gli artt. 2740 e 2910 c.c.) che costituisce, prima e più che una norma del codice (che il notaio, infatti, non apre nemmeno), «il fondamento stesso del vivere». Ma questa soggezione e questa espropriazione del debitore hanno, in fondo, poco a che fare con i soggetti dell’obbligazione inadempiuta e della responsabilità patrimoniale. Sono, piuttosto, le conseguenze naturali e oggettive di un comportamento riprovevole e antisociale (non pagare i debiti) che, come tale, interessa soprattutto la comunità; la quale non acquista la proprietà dei beni del debitore esecutato, ma si trova investita – non come istituzione statale, ma come collettività – del potere di sostituirsi al debitore in quella ‘espiazione’ del debito e della colpa (alienando i beni per ricavarne il denaro necessario alla soddisfazione dei creditori), che egli non ha voluto o saputo compiere, come anticamente faceva il bonorum emptor nella bonorum venditio dell’intero patrimonio del debitore. È dunque la comunità che provvede alla vendita: non a chiunque, bensì a quello tra i suoi componenti che si sarà dichiarato disponibile all’acquisto e avrà presentato la migliore offerta.
14. La vente privée, ovvero «l’inutile precauzione» (comma 12, lett. n)
La lett. n) del comma 12 contiene la novità più eclatante delle proposte di novella, dopo quella contenuta nella lett. a) sull’abolizione della formula esecutiva. Si tratta della c.d. ‘vendita privata’, dichiaratamente ispirata al modello francese della vente privée, ma strutturata in modo assai articolato e complesso, prevedendo:
«1) che il debitore, con istanza depositata non oltre dieci giorni prima dell’udienza prevista dall’articolo 569, primo comma, del codice di procedura civile, può chiedere al giudice dell’esecuzione di essere autorizzato a procedere direttamente alla vendita dell’immobile pignorato per un prezzo non inferiore al prezzo base indicato nella relazione di stima, prevedendo che all’istanza del debitore deve essere sempre allegata l’offerta di acquisto irrevocabile per centoventi giorni e che, a garanzia della serietà dell’offerta, è prestata cauzione in misura non inferiore a un decimo del prezzo proposto;
2) che il giudice dell’esecuzione, con decreto, deve, verificata l’ammissibilità dell’istanza, disporre che l’esecutato rilasci l’immobile nella disponibilità del custode entro trenta giorni a pena di decadenza dall’istanza, salvo che il bene sia occupato con titolo opponibile alla procedura; disporre che entro quindici giorni è data pubblicità, ai sensi dell'articolo 490 del codice di procedura civile, dell’offerta pervenuta rendendo noto che entro sessanta giorni possono essere formulate ulteriori offerte di acquisto, garantite da cauzione in misura non inferiore a un decimo del prezzo proposto, il quale non può essere inferiore a quello dell’offerta già presentata a corredo dell’istanza dell’esecutato; convocare il debitore, i comproprietari, il creditore procedente, i creditori intervenuti, i creditori iscritti e gli offerenti a un’udienza da fissare entro novanta giorni per la deliberazione sull’offerta e, in caso di pluralità di offerte, per la gara tra gli offerenti;
3) che con il provvedimento con il quale il giudice dell’esecuzione aggiudica l’immobile al miglior offerente devono essere stabilite le modalità di pagamento del prezzo, da versare entro novanta giorni, a pena di decadenza ai sensi dell’articolo 587 del codice di procedura civile;
4) che il giudice dell’esecuzione può delegare uno dei professionisti iscritti nell’elenco di cui all’articolo 179-ter delle disposizioni per l’attuazione del codice di procedura civile e disposizioni transitorie, di cui al regio decreto 18 dicembre 1941, n. 1368, alla deliberazione sulle offerte e allo svolgimento della gara, alla riscossione del prezzo nonché alle operazioni di distribuzione del ricavato e che, una volta riscosso interamente il prezzo, ordina la cancellazione delle trascrizioni dei pignoramenti e delle iscrizioni ipotecarie ai sensi dell’articolo 586 del codice di procedura civile;
5) che, se nel termine assegnato il prezzo non è stato versato, il giudice provvede ai sensi degli articoli 587 e 569 del codice di procedura civile;
6) che l’istanza di cui al numero 1) può essere formulata per una sola volta a pena di inammissibilità entro novanta giorni, a pena di decadenza ai sensi dell’articolo 587 del codice di procedura civile».
Nella Relazione illustrativa degli emendamenti governativi a suo tempo presentati si legge: «L’introduzione di un meccanismo di vente privée può favorire una liquidazione ‘virtuosa’ e rapida attraverso la collaborazione del debitore o, al contrario, costituire mezzo per allungare infruttuosamente i tempi processuali o volto a perpetrare frodi in danno dei creditori. La correzione del testo originario dell’articolo 8 d.d.l. S-1662 è necessaria al fine di:
- evitare che lo strumento ivi previsto si ripercuota in danno della ragionevole durata del processo, divenendo strumento dilatorio o fonte di opposizioni esecutive;
- impedire che lo stesso debitore possa impiegare lo strumento per liquidare il cespite pignorato senza una corretta individuazione del suo valore di mercato o, peggio, che l’esecutato possa diventare vittima di malversazioni di soggetti che utilizzino il meccanismo della vendita privata come un patto commissorio o, comunque, per approfittarsi della sua situazione;
- assimilare il trattamento della proposta di vendita portata dal debitore a quello previsto nel concordato con proposte concorrenti;
- rendere favorevole per l’acquirente l’acquisto del bene, in ragione della verifica giudiziale dei presupposti e, soprattutto, dell’assunzione dei costi del trasferimento e della cancellazione dei gravami a carico della procedura (come già avviene col provvedimento ex articolo 586 del codice di procedura civile).
Per perseguire tali scopi, si è pensato a un sistema che ricalca, a grandi linee, la vendita senza incanto praticata in numerosi uffici giudiziari prima della riforma entrata in vigore l’1/3/2006, quando, una volta messo in vendita il bene, alla ricezione di una prima offerta di acquisto si provvedeva sollecitamente a darne pubblicità al fine di stimolare eventuali altri interessati, per poi effettuare, entro breve tempo, un’udienza nella quale provvedere all’aggiudicazione, previa gara in caso di pluralità di offerte
Più in dettaglio, la proposta di modifica prevede che:
- il valore minimo per il quale può essere avanzata la proposta deve essere quello del prezzo base individuato dall’esperto stimatore nell’elaborato peritale: in tal modo si evitano sia accertamenti ulteriori (incongrui rispetto alla struttura del processo esecutivo), potenzialmente dilatori, sia un pregiudizio per il creditore (che potrebbe avanzare istanza di assegnazione, anche a favore di terzi, per il medesimo valore);
- l’esecutato che introduca una seria proposta di acquisto (ovviamente irrevocabile) garantita da cauzione deve altresì rilasciare l’immobile in un ragionevole lasso temporale, posto che la prosecuzione dell’occupazione costituisce di per sé indice di un’offerta “di comodo” e, inoltre, riduce l’appetibilità del bene sul mercato; fa eccezione il caso di immobile occupato con titolo di godimento opponibile alla procedura (al quale dovrebbe comunque soggiacere anche l’aggiudicatario);
- il giudice dell’esecuzione adotta con decreto (evitando, così, l’aggravio di un’udienza) i provvedimenti conseguenti alla presentazione dell’istanza: oltre alla verifica dell’ammissibilità dell’istanza e al controllo sullo stato di occupazione (ai fini della consequenziale liberazione spontanea da parte del debitore), l’offerta pervenuta deve essere adeguatamente pubblicizzata (sito internet autorizzato dal Ministero, PVP, eventuale pubblicità straordinaria) e posta in competizione con eventuali altre, solo così potendosi conseguire un prezzo di mercato (lasciar determinare al perito il valore di mercato sarebbe in contrasto con la giurisprudenza che esclude l’opposizione agli atti esecutivi avverso la perizia in quanto il valore ivi indicato è suscettibile di “correzione” nella gara; allo stesso modo, una determinazione giudiziale del valore attirerebbe defatiganti opposizioni ex articolo 617 del codice di procedura civile);
- l’aggiudicazione può essere pronunciata all’esito di una eventuale gara tra plurimi offerenti o, in alternativa, all’unico originario offerente nel corso di un’udienza fissata subito dopo la scadenza del termine per la pubblicità; un provvedimento di formale aggiudicazione (anziché una mera individuazione dell’acquirente) è vantaggioso per l’offerente, stante il disposto dell’articolo 187-bis disp. att. del codice di procedura civile[17];
- la predeterminazione legislativa di un periodo temporale per il versamento del prezzo garantisce uniformità tra tutti gli interessati ed evita l’adozione di provvedimento discrezionali suscettibili di impugnazione;
- in caso di mancato versamento del prezzo deve trovare applicazione l’articolo 587 del codice di procedura civile;
- la vendita de qua non è soggetta al consenso dei creditori, né a provvedimenti del giudice dell’esecuzione volti a superare il loro dissenso: attribuire al giudicante valutazioni discrezionali, infatti, potrebbe attirare opposizioni ex articolo 617 del codice di procedura civile, sia da parte dei creditori, sia (prevalentemente) da parte dei debitori che potrebbero sindacare il provvedimento di rigetto per non avere il giudice ritenuto superabile il dissenso dei creditori;
- nell’interesse del debitore e dell’acquirente, il trasferimento deve essere compiuto dal giudice dell’esecuzione col provvedimento ex articolo 586 del codice di procedura civile, col quale può disporsi la cancellazione dei gravami a spese della procedura (lo stesso onere deriverebbe in esito allo svolgimento della procedura ordinaria, ma in tal caso in tempi assai più lunghi); prevedere, al contrario, che i costi di trasferimento e cancellazione siano a carico dell’acquirente renderebbe meno vantaggiosa la partecipazione e incerta la spesa da sostenere, posto che non sarebbe anteriormente identificato il costo per l’eliminazione di eventuali gravami medio tempore iscritti o trascritti;
- la facoltà di delegare a un professionista le operazioni garantisce il rispetto della tempistica individuata, non risentendo degli altri impegni gravanti sul giudicante».
Ben poco v’è da aggiungere all’esauriente e dettagliata esposizione delle ragioni della novella contenute nella Relazione illustrativa, che fa proprî e mira a rendere ius positum i suggerimenti e le esperienze dei pratici, come avviene ormai da più di tre lustri a questa parte in materia di esecuzione forzata.
Vien solo fatto di osservare che il ‘furore analitico’ nella stesura delle disposizioni normative, qui persino dei principii e dei criterî direttivi della delega, già apparecchiati per i decreti delegati e scritti a guisa di istruzioni per l’uso o di protocolli applicativi, non giova alla chiarezza delle idee e alla sicurezza delle soluzioni, recando inevitabilmente seco questioni esegetiche e problemi ermeneutici che rampollano abbondanti da ogni eccesso di scrittura, dando sfogo a contestazioni, opposizioni, impugnazioni, reclami, e via dicendo, dei quali il genio italico è sempre stato maestro in ogni tempo all’orbe intero, sin dalle scuole dei sofisti che fiorirono nell’antica Magna Grecia. Sovviene la raccomandazione che Socrate dava a Fedro, nell’omonimo dialogo di Platone, evocando il mito del dio egizio Theuth sull’invenzione della scrittura, la quale impedisce agli uomini di trovare dentro di sé la risposta ai quesiti fondamentali e la vera sapienza, cercando risposta sempre e solo ab extra, con il richiamare alla memoria attraverso la frenetica consultazione di scritti che non appartengono loro, conoscitori di molte cose, ma dotati unicamente di soggettive opinioni anziché di vera epistème, e con i quali non sarà neppure possibile intavolare un confronto dialogico[18].
V’è, peraltro, da dubitare che sia necessario introdurre una disciplina (tantomeno così analitica) della vendita dell’immobile pignorato procurata a miglior prezzo dal medesimo debitore esecutato, ché in questo si risolve la vente privée, senza che il francesismo possa aduggiare sulla vera essenza dell’istituto. Accade spesso che, onde mitigare gli ingenti costi della procedura e i ribassi nel prezzo, sia il debitore ad attivarsi per collocare sul mercato l’immobile, anziché lasciare che venga subastato forzosamente. I creditori di buona fede accolgono di buon grado la proposta, lieti che i crediti possano soddisfarsi in maggior misura e minor tempo. Quelli in malafede, che volessero trarre illecito profitto dal decremento di valore del bene immobile staggito, possono essere già oggi ostacolati mercé strumenti di composizione delle crisi da sovraindebitamento (l. 3/2012 e, poi, CCI di cui al d.lgs. 14/2019), che sospendono le procedure esecutive e, con il buon esito, le estinguono, trasferendo il tradizionale conflitto tra ragioni del credito e ragioni della proprietà dall’esecuzione forzata al piano negoziale, con l’ausilio di esperti e sotto il controllo del tribunale.
Insomma, non vorremmo che la disciplina della ‘vendita privata’ – o vente privée che dir si voglia – fosse «inutile precauzione», fonte soltanto di ulteriori complicazioni: ve ne sono già abbastanza nel processo civile, e in quello esecutivo in specie, che affliggono i tribunali con questioni sempre nuove, giungendo sino al grado di legittimità con gran dovizia di ripetuti interventi nomofilattici, al punto che par quasi che si tragga intellettuale divertissement da codesta sorta di giuochi procedurali, nello scriver le regole dapprima e nel darne poi l’esegesi e l’ermeneutica, scordando che il processo è unicamente mezzo allo scopo, non già fine a sé stesso e dovrebbe essere, come scriveva Giuseppe Chiovenda sulle orme di Franz Klein, «semplice, rapido e poco costoso».
15. Limiti quantitativi e temporali alle misure coercitive ex art. 614 bis c.p.c. e conferimento del potere di disporle anche al giudice dell’esecuzione (comma 12, lett. o)
La lett. o) del comma 12 demanda al Governo di «prevedere criteri per la determinazione dell’ammontare, nonché del termine di durata delle misure di coercizione indiretta di cui all’articolo 614-bis del codice di procedura civile; prevedere altresì l’attribuzione al giudice dell’esecuzione del potere di disporre dette misure quando il titolo esecutivo sia diverso da un provvedimento di condanna oppure la misura non sia stata richiesta al giudice che ha pronunciato tale provvedimento».
Nella Relazione illustrativa degli emendamenti governativi a suo tempo presentati si legge: «La proposta interviene sull’istituto delle misure di coercizione indiretta disciplinato dall’articolo 614-bis del codice di procedura civile, attribuendo al legislatore delegato il compito di individuare dei criteri per la determinazione del quantum e del limite temporale della misura, di modo che la stessa non possa avere durata illimitata determinando l’insorgenza di obbligazioni sanzionatorie del tutto sproporzionate rispetto all’originaria obbligazione inadempiuta. La proposta, inoltre, attribuisce anche al G.E. il potere di imporre l’astreinte, misura particolarmente utile ove vengano in rilievo titoli esecutivi diversi da un provvedimento di condanna o nel caso in cui la misura di coercizione indiretta non sia stata richiesta al giudice della cognizione».
Quando la prestazione dovuta dal debitore sia infungibile, a causa del contenuto – in tutto o in parte – personale della stessa, o quando si tratti di obblighi di non facere, cioè di astenersi dal compimento di futuri atti lesivi, la sostituzione del debitore con l’attività dell’apparato giurisdizionale esecutivo non è possibile. In questi casi, per far conseguire al creditore l’utilità che gli è dovuta, occorre premere sulla volontà del debitore, affinché questi sia indotto ad adempiere per evitare di patire un pregiudizio superiore allo svantaggio che gli procura l’adempimento. L’esecuzione forzata è, dunque, indiretta, in quanto non si traduce in atti dell’ufficio esecutivo compiuti in sostituzione del debitore inadempiente, in modo da far ottenere al creditore la prestazione dovutagli, ma in misure coercitive idonee a premere sul debitore per spingerlo ad adempiere: «coactus voluit, sed voluit», come suol dirsi[19].
Il legislatore italiano, nell’art. 614 bis c.p.c., ha adottato come generale il modello delle misure coercitive civili mediante pagamento di somme di denaro a favore del creditore, secondo l’esperienza francese delle astreintes. Con la differenza, però, che mentre le astreintes francesi sono comminate nel provvedimento di condanna alla prestazione principale in via provvisoria e vengono poi irrogate in via definitiva soltanto dopo un sommario accertamento delle inadempienze all’ordine esecutivo commesse dal debitore, le misure coercitive ex art. 614 bis c.p.c. vengono quantificate unilateralmente dal creditore, salvo contestazione del debitore mediante opposizione a precetto o all’esecuzione ex art. 615 c.p.c. Sistema quello francese preferibile rispetto a quello adottato uno actu nel nostro art. 614 bis c.p.c., con riferimento ai soli provvedimenti di condanna e, dunque, in sede di cognizione e di dichiarazione dell’obbligo cui la misura coercitiva accede, anziché in sede esecutiva, per il caso in cui l’obbligo primario sia stato violato. Il che è dipeso da un equivoco sistematico di fondo del nostro legislatore: quello di riferire l’esecuzione forzata, anche indiretta, al provvedimento, anziché al diritto che ne forma l’oggetto e il contenuto. Con l’ulteriore deleterio effetto di impedire l’utilizzo delle misure coercitive in relazione ai titoli esecutivi stragiudiziali o, comunque, non decisori, come i verbali di conciliazione, che non contengono condanne di sorta.
Per rafforzare l’efficacia esecutiva dei provvedimenti di condanna l’art. 614 bis c.p.c., introdotto nel 2009 e novellato nel 2015, ha esteso le misure coercitive a tutti i provvedimenti di condanna a prestazioni diverse dal pagamento di somme di denaro, indipendentemente dal carattere fungibile o infungibile di tali prestazioni. Perciò, quando le misure coercitive assistono prestazioni fungibili (di consegna di beni mobili, di rilascio di beni immobili, di fare fungibile o di distruggere), il creditore può procedere sia con l’esecuzione diretta (in forma specifica, a seconda dell’utilità perseguita), sia con la c.d. esecuzione indiretta, esigendo la somma di denaro complessivamente dovuta per i giorni di ritardo del debitore nell’adempiere alla prestazione (fungibile) cui è stato condannato in via principale.
In iure condito le misure coercitive sono autorizzate dal giudice della cognizione o della cautela, su istanza di parte, nello stesso provvedimento di condanna, salvo che ciò non risulti manifestamente iniquo, ad es. per la natura strettamente personale della prestazione principale dovuta dall’obbligato (si pensi a una prestazione artistica o di ricerca scientifica o di scrittura di un libro o di un articolo, ecc.). L’imposizione di misure coercitive non può risolversi nella creazione di corvées irredimibili, degne della servitù della gleba di matrice feudale, dovendosi comunque salvaguardare il fondamentale principium libertatis insito nel brocardo del «nemo ad factum praecise cogi potest».
Stranamente e per evidente scelta politica, le misure coercitive non si applicano nel campo dei rapporti di lavoro, privato e pubblico, subordinato e parasubordinato di cui all’art. 409 c.p.c. Scelta questa che appare del tutto irragionevole e affetta da evidente incostituzionalità, per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., avuto riguardo ai principii di ragionevolezza e di effettività delle tutele. Un’esclusione tanto più paradossale alla luce del dibattito che a suo tempo sorse intorno all’obbligo, parzialmente infungibile, del datore di lavoro di reintegrare nel posto e nelle mansioni il lavoratore illegittimamente licenziato, nel cui contesto si propose di rinvenire nell’ordinamento o, comunque, di introdurre misure coercitive affinché tale obbligo fosse integralmente e puntualmente adempiuto.
La misura coercitiva è stabilita nel suo ammontare discrezionalmente dal giudice della cognizione o della cautela, tenuto conto del valore della controversia, della natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza utile, senza alcuna predeterminazione legislativa di un massimo edittale, suscitando per questo seri dubbi di legittimità costituzionale. Il problema si è posto anche per la condanna al risarcimento dei ‘danni punitivi’ per abuso del processo, ai sensi dell’art. 96, comma 3, c.p.c., che parimenti non predetermina l’entità della sanzione: tuttavia, la Corte costituzionale ha ritenuto che ciò non violasse l’art. 23 Cost. sul divieto di imporre prestazioni personali o patrimoniali, può essere imposta se non in base alla legge[20].
Ed infatti, la delega interviene per porre un limite all’entità delle misure coercitive e alla loro durata, affinché non divengano strumento di ‘speculazione finanziaria’ del creditore, mediante accumulazione di crediti pecuniari verso il debitore.
Oltre a ciò – producendo anche in questo ad consequentias le critiche sollevate in dottrina, proprio dal presidente della commissione ministeriale, Francesco Paolo Luiso – l’adozione delle misure coercitive viene attribuita anche al giudice dell’esecuzione, quando si tratti di titoli esecutivi stragiudiziali che contengano prestazioni diverse dal pagamento di somme di denaro. Si tratterà, dunque, di atti pubblici per obblighi di consegna o rilascio (le scritture private autenticate valgono quali titoli esecutivi solo per crediti pecuniari), di verbali di conciliazione in esito a procedure di mediazione o di accordi raggiunti a seguito di negoziazione assistita da avvocati, sempre per le prestazioni diverse da quelle di pagamento di somme di denaro, alle quali sole si applicano le misure coercitive ex art. 614 bis c.p.c.
L’emendamento consente anche di sopperire alla mancata richiesta della misura al giudice della cognizione, chiedendola ex novo al giudice dell’esecuzione: in attesa di verificare quale sarà la disciplina che verrà introdotta nel testo dell’art. 614 bis c.p.c. dal decreto delegato, per le prestazioni di consegnare beni mobili, rilasciare beni immobili, di fare fungibile o di disfare par d’uopo che sia lo stesso giudice dell’esecuzione adìto per l’esecuzione in forma specifica, sì da compulsare il debitore renitente ad adempiere, onde evitare maggiori esborsi. Per le prestazioni di fare infungibile e di non fare, un giudice dell’esecuzione manca in apicibus, anche se pare difficile che le misure coercitive non siano state chieste al giudice della cognizione o della cautela, pena la pratica inutilità del provvedimento di condanna a un facere infungibile o a un non facere.
[10] Cfr., si vis, Tedoldi, Come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, cit.
[11] Cass. 9 maggio 2019, n. 12238, in Rass. esec. forz., 2019, 1179, con nota di M.L. Guarnieri; ivi, 2020, 917, con nota di Santagada.
[12] S. Satta, Il giorno del giudizio, Milano, 1979, 186 ss.
[13] Satta, L’esecuzione forzata, Torino, 1952, 5.
[14] Satta, Commentario al c.p.c., III, Processo di esecuzione, Milano, 1965, 181.
[15] Satta, Commentario, cit., III, 179.
[16] Cavallone, L’aggiudicatario come ricettatore, in Riv. dir. proc., 2014, 370.
[17] Come interpretato da Cass., sez. un., 28 novembre 2012, n. 21110, in Foro it., 2013, I, 1224, con nota di Longo; in Corr. giur., 2013, 387, con nota di Capponi; in Riv. dir. proc., 2013, 1551, con nota di Vincre.
[18] Cfr., si vis, Tedoldi, Il giusto processo (in)civile in tempo di pandemia, cit., 88 ss.
[19] Si vis v. amplius Tedoldi, Esecuzione forzata, cit., 9 ss. e spec. 330 ss.
[20] Corte cost., 6 giugno 2019, n. 139, in Foro it., 2019, I, 2644 e in Giur. it., 2020, 578 (m), con nota di Ghirga.
Illegittima proroga ex lege della concessione balneare e reato di “abusiva occupazione dello spazio demaniale”. Cronaca di un finale annunciato (nota a Cass. pen. 22 aprile 2022 n. 15676)
di Piergiuseppe Otranto
Sommario: 1. Premessa - 2. La vicenda penale. Sequestri e dissequestri - 3. La decisione della Cassazione - 4. Il rapporto con le Adunanze plenarie del Consiglio di Stato nn. 17 e 18 del 2021 – 5. Osservazioni conclusive.
1. Premessa
Alla vigilia di un nuovo intervento del legislatore che, ancora una volta, sembra ignorare la necessità di una compiuta riforma delle concessioni demaniali marittime, da troppo tempo solo preannunciata[i], la Cassazione penale, con la sentenza 22 aprile 2022, n. 15676 ha scritto un altro capitolo della saga dei “Bagni Liggia” di Genova.
Si tratta di un finale ‒ infausto per il concessionario, come meglio si dirà nel prosieguo ‒ che una parte della dottrina[ii] aveva preconizzato come possibile effetto delle sentenze c.d. gemelle dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato in materia di concessioni balneari (nn. 17 e 18 del 9 novembre 2021)[iii], nonostante le “rassicurazioni” date sul punto dal Supremo consesso della giustizia amministrativa.
La vicenda, che la stessa Cassazione non esita a definire “annosa”, trae origine da un provvedimento di sequestro preventivo sul tratto di arenile occupato dallo stabilimento balneare, fondato sull’ipotesi di reato di “abusiva occupazione di spazio demaniale” (art. 1161 cod. nav.) che punisce “chiunque arbitrariamente occupa uno spazio del demanio marittimo”.
Le considerazioni che seguono vengono rese a prima lettura, senza pretese di esaustività o completezza, al limitato scopo di fornire un immediato inquadramento delle questioni giuridiche più rilevanti che rivengono dalla recentissima decisione della Cassazione e che sono di sicuro interesse sotto il profilo non solo del diritto penale, ma anche amministrativo.
2. La vicenda penale. Sequestri e dissequestri
Per quanto è possibile ricostruire dagli atti di causa e dalla documentazione consultabile liberamente online, nel caso di specie l’imprenditore aveva ottenuto nel 1998 una concessione c.d. balneare con efficacia sino al 31 dicembre 2009. Il giorno prima dello spirare di tale termine era stato emanato il d.l. 30 dicembre 2009, n. 194 (pubblicato il medesimo giorno) che aveva prorogato il termine di durata “delle concessioni in essere”, sino al 31 dicembre 2012[iv].
Il Comune di Genova aveva quindi comunicato all’interessato dapprima l’operatività della proroga ex lege (n. 25 del 2010) sino al 31 dicembre 2015 e, con atto successivo, la perdurante efficacia del titolo in forza del d.l. 194/2009[v].
Una prima richiesta di sequestro, formulata dalla Procura nel 2018 sul presupposto dell’inefficacia della concessione a seguito dello spirare del termine originariamente indicato nel titolo (31.12.2009), era stata rigettata dal Giudice per le indagini preliminari che aveva ritenuto sussistente ‒ anche in virtù degli atti adottati dal Comune ‒ un affidamento dell’imprenditore sulla perdurante validità del titolo concessorio[vi]. Anche il Tribunale del riesame aveva confermato il rigetto della misura cautelare reale ravvisando l’insussistenza del fumus in relazione all’elemento materiale della condotta in ragione della non disapplicabilità in malam partem delle disposizioni nazionali di proroga ex lege ancorché violative del diritto Ue[vii].
La decisione di riesame era però annullata con rinvio dalla Cassazione (sez. III, sentenza n. 25993 del 12 giugno 2019).
In primo luogo, secondo la Corte, la proroga sino al 31.12.2020 prevista dall’art. 1, comma 18, d.l. 30 dicembre 2009, n. 194, poteva trovare applicazione esclusivamente per le concessioni nuove (e, dunque, per “quelle sorte dopo la legge 88 del 2001, e comunque valide a prescindere dalla proroga automatica di cui al d.l. 400 del 1993, come modificato dalla L. 88 del 2001, introdotta nel 1993 ed abrogata nel 2011”) e non anche per i provvedimenti ‒ come quello rilevante nel caso di specie – adottati prima di tale data.
La distinzione è frutto dell’interpretazione che il giudice penale propugna[viii] in relazione ad una norma che, al contrario, sembrava applicabile a tutte le concessioni efficaci alla data di entrata in vigore del d.l. n. 194/2009 (30 dicembre 2009)[ix].
In ogni caso, secondo la Cassazione, dalla disapplicazione della norma nazionale in contrasto con la disciplina europea, derivavano l’insussistenza di un titolo concessorio legittimamente prorogato e, dunque, la rilevanza penale della condotta del concessionario[x].
Ad avviso della Corte, tale soluzione interpretativa non dava luogo ad “una questione di applicazione in malam partem della normativa comunitaria, non potendosi ipotizzare né una violazione del principio di legalità, non vertendosi in ipotesi di introduzione di una fattispecie criminosa non prevista, né di tassatività, essendo la norma penale incriminatrice completa nei suoi aspetti essenziali”[xi].
Il Tribunale del riesame[xii], in funzione di giudice del rinvio, si uniformava a tali principi di diritto e disponeva il sequestro del tratto di arenile su cui insiste lo stabilimento balneare, sicché su tale decisione si formava un “giudicato cautelare”.
Con altro provvedimento del 2021[xiii], il GIP estendeva il vincolo anche all’immobile insistente sull’area demaniale oggetto del primo sequestro, ma revocava poi la misura cautelare, tanto sull’arenile, quanto sull’immobile, ritenendo che l’indagato fosse incorso in un errore incolpevole[xiv].
In particolare, nel provvedimento di dissequestro, il GIP, sebbene abbia ritenuto sussistente l’elemento oggettivo del reato contestato (in quanto il provvedimento concessorio originario non sarebbe mai stato legittimamente prorogato), negava la sussistenza dell’elemento psicologico del reato ipotizzato[xv].
Ma la decisione del GIP era annullata dal Tribunale del riesame con ordinanza impugnata dall’indagato ed oggetto del giudizio che ha dato luogo alla sentenza che brevemente si commenta.
3. La decisione della Cassazione
Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione ha ripercorso e fatto proprio l’itermotivazionale del proprio precedente dianzi richiamato (sent. n. 25993/2019).
Esula dagli scopi di queste considerazioni l’analisi critica del percorso logico giuridico seguito dalla Corte nelle due decisioni. Ci si limita, tuttavia, ad osservare, che, secondo il Collegio, l’occupazione del bene demaniale in forza di una concessione legittimamente rilasciata e (ancorché illegittimamente) prorogata dalla legge e dall’autorità amministrativa (in forza di tale legge), è equiparabile alla condotta di chi “arbitrariamente occupa uno spazio del demanio marittimo” (art. 1161 cod. nav.). Nell’affermare tale principio, la Cassazione richiama un orientamento che tende ad accomunare la situazione in cui il soggetto occupi il bene in forza di una concessione dichiarata (dalla legge e dall’amministrazione) ancora esistente, ma la cui persistenza è ritenuta illegittima per violazione del diritto Ue, a quella in cui il titolo sia radicalmente assente o pacificamente scaduto.
Per tal via, dalla disapplicazione del diritto nazionale contrastante con il diritto Ue (o del provvedimento applicativo della norma interna), finiscono per derivare effetti pregiudizievoli, sotto il profilo della responsabilità penale, per il cittadino.
Tale opzione ermeneutica, tuttavia, è in contrasto con il principio enunciato dalla Cassazione pen. Sez. un. (n. 22225/2012) in forza del quale “non è possibile che dalla disapplicazione di una norma interna per effetto del contrasto con la normativa comunitaria, sulla base del principio di preminenza del diritto comunitario, possano conseguire effetti pregiudizievoli per l’imputato. (…) In definitiva, l'utilizzo della normativa sovranazionale va escluso allorquando gli esiti di una esegesi siffatta si traducano in una interpretazione in malam partem della fattispecie penale nazionale”.
In tale occasione le Sezioni unite ebbero modo di richiamare la giurisprudenza della Corte di giustizia Ue, secondo la quale, in ossequio ai principi generali del diritto, di “legalità della pena” e di “applicazione retroattiva della pena più mite” ‒ che fanno parte delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri e, quindi, sono parte integrante dei principi generali del diritto comunitario[xvi] ‒ “l’obbligo di interpretazione conforme non può giungere sino al punto che una direttiva, di per se stessa e indipendentemente da una legge nazionale di trasposizione, crei obblighi per i singoli ovvero determini o aggravi la responsabilità penale di coloro che trasgrediscono le sue disposizioni”[xvii].
La Cassazione penale, nella sentenza n. 15676/2022, peraltro, propugna un’interpretazione che contrasta anche con il principio enunciato dalla Corte di giustizia ed in forza del quale gli effetti diretti di una direttiva ‒ non tempestivamente o non correttamente trasposta ‒ possono essere invocati solo dal singolo nei confronti dello Stato e non anche di altri individui (c.d. “effetto diretto verticale”); mentre, all’opposto, non possono essere fatti valere dallo Stato ‒inadempiente nel dare attuazione alla direttiva ‒ contro soggetti non tenuti alla sua applicazione (c.d. “effetto verticale inverso”)[xviii].
La sentenza che si commenta, dunque, si discosta dall’insegnamento della Corte di giustizia e delle Sezioni unite ed attribuisce al cittadino ‒ ancorché solo in relazione all’applicazione della misura cautelare ‒ una responsabilità penale in un contesto in cui il valore della certezza dell’ordinamento appare smarrito.
4. Il rapporto con le Adunanze plenarie del Consiglio di Stato nn. 17 e 18 del 2021
A questo punto, qualche osservazione va svolta in relazione alla interessante lettura che la Suprema Corte ha fornito delle Sentenze gemelle nn. 17 e 18/2021 dell’Adunanza plenaria che il ricorrente aveva indicato quale “fatto sopravvenuto” idoneo a superare il giudicato cautelare (§ 9 e ss.).
Nell’argomentare della Cassazione, l’orientamento della giurisprudenza penale in forza del quale il giudice deve disapplicare le norme interne di proroga contrastanti con l’ordinamento Ue, con ogni conseguenza sotto il profilo della penale responsabilità del titolare della (illegittima) concessione, pare oggi trarre nuova linfa dall’autorevole ricostruzione operata dall’Adunanza plenaria.
Proprio a voler ulteriormente fondare, attraverso l’avallo del massimo consesso della giustizia amministrativa, gli approdi già (autonomamente) raggiunti, la Cassazione sunteggia alcuni passi delle sentenze gemelle[xix].
Ma da queste sentenze la Cassazione d’un tratto prende le distanze, quando giunge al cuore della questione: quali siano le conseguenze della illegittimità comunitaria della norma interna rispetto all’eventuale responsabilità penale del concessionario.
In proposito, l’Adunanza plenaria era pienamente avvertita dell’impatto sistemico che la propria decisione avrebbe potuto determinare sicché, sia pure a livello di obiter dictum, aveva ritenuto che non sussistesse un “rischio correlato alle possibili ripercussioni che una simile non applicazione potrebbe generare in termini di responsabilità penale dei concessionari demaniali, i quali, secondo una certa impostazione, venute meno le proroghe ex lege, si troverebbero privi di titolo legittimante l’occupazione del suolo demaniale, così incorrendo nel reato di occupazione abusiva di spazio demaniale marittimo previsto dall’art. 1161 cod. nav. Tale timore è, infatti, privo di fondamento, atteso che ad una simile conclusione ostano incondizionatamente i principi costituzionali di riserva di legge statale e di irretroattività della legge penale. Detti principi, come riconosciuto anche dalla Corte di giustizia U.E., fanno parte delle tradizioni costituzionali degli Stati membri e come tali sono parte integrante dello stesso ordinamento comunitario (ed in ogni caso rappresenterebbero comunque controlimiti interni al principio di primazia). Ne discende che la descritta operazione di non applicazione della legge nazionale anticomunitaria non può in alcun modo avere conseguenze in punto di responsabilità penale, per la semplice ragione che il diritto dell’Unione non può mai produrre effetti penali diretti in malam partem” (§ 37).
Come è noto, il principio di irretroattività della legge penale impedisce al legislatore di attribuire efficacia retroattiva ad una legge che contenga una nuova incriminazione (art. 25 Cost.), mentre l’articolo 2, comma 1 c.p. vieta al giudice di applicare retroattivamente una legge di tale contenuto.
È pacifico, infatti, che non possa sorgere alcuna responsabilità penale per condotte realizzate nella vigenza di una norma extra penale (che integri il precetto della norma “in bianco” incriminatrice) successivamente dichiarata incostituzionale, anche qualora dalla dichiarazione di incostituzionalità astrattamente derivi la rilevanza penale della condotta pregressa[xx].
Nel caso che ci occupa, tuttavia, il contrasto della norma nazionale sussiste non già rispetto alla Costituzione (nel qual caso opera un sistema di controllo di legittimità accentrato in capo alla Corte costituzionale), ma rispetto al diritto Ue. In tale seconda ipotesi il contrasto non solo è oggetto di controllo diffuso anche da parte del giudice comune, chiamato a disapplicare la norma interna anticomunitaria; ma, come è noto, può – recte deve – essere accertato da qualunque soggetto dell’apparato dello Stato, compresa la p.A.
Proprio in ragione della immediata disapplicabilità della norma interna in contrasto con il diritto Ue, il vizio che affligge il provvedimento applicativo di tale norma non può considerarsi “sopravvenuto”: esso, infatti, è originario non solo quanto alla decorrenza, ma anche quanto alla sua riconoscibilità da parte dell’Amministrazione e, in seconda battuta, da parte del giudice.
L’illegittimità comunitaria di una norma di legge (o di un atto amministrativo) nazionale sussiste ab origine, sicché se la condotta, astrattamente lecita sulla base della norma o del provvedimento illegittimi, assume rilevanza penale alla luce di una preesistente norma incriminatrice, non può ritenersi che la declaratoria di illegittimità comunitaria della norma o del provvedimento e la conseguente disapplicazione, comportino direttamente una patente violazione del principio di irretroattività della legge penale.
Sembra alludere a questa dinamica concettuale la Corte di Cassazione allorché, nella sentenza n. 25993/2019 (che ha condotto alla formazione del giudicato implicito nella vicenda che ci occupa), afferma che dalla disapplicazione del diritto nazionale non deriva “una questione di applicazione in malam partem della normativa comunitaria, non potendosi ipotizzare né una violazione del principio di legalità, non vertendosi in ipotesi di introduzione di una fattispecie criminosa non prevista, né di tassatività, essendo la norma penale incriminatrice completa nei suoi aspetti essenziali”.
Gli è che da un lato il Consiglio di Stato ‒ per supplire all’inerzia di un legislatore sempre più assente e incapace di fornire risposte appaganti alla domanda di certezza proveniente dalla società civile e dal mercato ‒ ha provato ad indicare anche al giudice penale (non meno che al Parlamento ed alle Amministrazioni) la via maestra per una disciplina pretoria e (si spera) temporanea del settore, in attesa dell’auspicata organica riforma da introdurre secondo le regole previste dall’ordinamento per la produzione di diritto di origine legislativa; dall’altro lato, tuttavia, la Cassazione ha esercitato con pienezza l’autonomia che l’ordinamento le garantisce e ‒ in un ideale dialogo a distanza con il Consiglio di Stato, che da sempre contraddistingue il rapporto dialettico tra le due giurisdizioni ‒ si è discostata dal percorso suggerito, optando per una ricostruzione che ha come ineludibile approdo la sussistenza dell’elemento oggettivo del reato di cui all’art. 1161 cod. nav.
Tuttavia, in questo percorso ermeneutico, la Cassazione si è discostata anche dai principi che meritoriamente le Sezioni unite avevano dettato per garantire che la primazia del diritto dell’Unione ‒ che nell’obbligo di interpretazione conforme e di disapplicazione trova uno dei suoi pilastri ‒ non comportasse un inaccettabile arretramento sul versante dei principi fondamentali di legalità, tassatività ed irretroattività della pena.
Ad una declaratoria di insussistenza del fumus per l’adozione della misura cautelare la Corte sarebbe potuta pervenire anche seguendo il diverso percorso dell’insussistenza dell’elemento psicologico, richiamando i criteri e i parametri rilevanti in punto di errore scusabile, enucleati dalla Corte costituzionale (a partire dalla sentenza 24 marzo 1988, n. 364) per delineare i confini dell’ignoranza inevitabile della legge penale con effetti esimenti della relativa responsabilità[xxi].
Ma la Cassazione ha ritenuto che non sussistessero nel caso di specie né “un comportamento positivo degli organi amministrativi”, né “un complessivo pacifico orientamento giurisprudenziale” che potessero indurre nell’indagato “il convincimento della correttezza dell’interpretazione normativa e, conseguentemente, della liceità del comportamento tenuto”.
Tale affermazione non può essere pienamente condivisa.
Anzitutto avrebbe meritato ampia considerazione il susseguirsi di leggi di proroga, introdotte dall’ordinamento anche dopo che la Corte di giustizia in Promoimpresa [xxii] aveva dichiarato la contrarietà delle proroghe rispetto alle regole dell’Unione. Siffatta pervicacia del legislatore ‒manifestata da ultimo con l’art. 1, comma 682, l. n. 145/2018 ‒ non poteva non ingenerare nel cittadino, anche nel più avveduto ed informato operatore economico, il convincimento della piena legittimità della scelta ordinamentale adottata dal Parlamento, con la conseguenza che, in presenza di un titolo concessorio legittimo ed efficace, non sussistesse una situazione di “abusiva occupazione dello spazio demaniale”.
Per altra via, è innegabile che, in riferimento alle concessioni balneari, la questione dell’obbligo per le Amministrazioni di disapplicare il diritto interno violativo di una direttiva europea self executing (oggetto proprio della rimessione all’Adunanza plenaria) risultava dibattuta non solo in dottrina, ma anche in giurisprudenza, realizzandosi per tal via quel “gravemente caotico (…) atteggiamento interpretativo degli organi giudiziari” che la Corte costituzionale considera idoneo a determinare l’errore scusabile.
Infine, la condotta tenuta dall’Amministrazione avrebbe probabilmente meritato una diversa valutazione da parte del giudice penale.
Nella sentenza in commento, infatti, la Corte richiama il proprio insegnamento secondo il quale “la buona fede, che esclude nei reati contravvenzionali l’elemento soggettivo, ben può essere determinata da un fattore positivo esterno ricollegabile ad un comportamento della autorità amministrativa deputata alla tutela dell’interesse protetto dalla norma, idoneo a determinare nel soggetto agente uno scusabile convincimento della liceità della condotta”[xxiii]; ma ritiene tale principio non applicabile nel caso di specie (§15).
Ad avviso del giudice di legittimità, infatti, ai fini dell’esclusione dell’elemento soggettivo della colpa, deve ritenersi non sufficiente “un mero ‘atteggiamento acquiescente’ tenuto dall’Amministrazione nei confronti dell’indagato, atteso che in assenza di un fatto positivo dell’autorità amministrativa, idoneo a ingenerare uno scusabile convincimento di liceità del comportamento, la buona fede non può essere desunta da un mero fatto negativo, quale, appunto l’acquiescenza della p.A. nei confronti dell’indagato”.
Sembra, tuttavia, che la suprema Corte abbia valutato unicamente il provvedimento concessorio dell’11 giugno 2008 (la cui irrilevanza ai fini dell’errore scusabile era già stata delibata dalla Cassazione con sentenza n. 10218/2020), senza attribuire alcun rilievo alle successive note nelle quali il Comune (nel 2011 e nel 2016) dava atto del perdurare dell’efficacia della concessione per effetto delle sopravvenute proroghe ex lege[xxiv].
Non può, peraltro, escludersi che la Cassazione sarebbe potuta giungere ad un diverso approdo, qualora l’Adunanza plenaria con le sentenze nn. 17 e 18 del 2021 avesse riconosciuto efficacia autoritativa (e non, dunque “meramente ricognitiva dell’effetto prodotto dalla norma”) e natura provvedimentale agli atti con i quali le Amministrazioni hanno sovente (ed in modo ambiguo) comunicato agli interessati le proroghe perfezionate a seguito delle riforme legislative che si sono susseguite[xxv].
È innegabile, infatti, che dinnanzi ad un atto che costituisce manifestazione del potere (che, in una prospettiva istituzionale, l’ordinamento affida proprio all’Ente) di produrre, nel singolo caso concreto, l’effetto delineato, genericamente e per tutti i casi consimili, ex lege, difficilmente il giudice penale avrebbe potuto disconoscere la sussistenza di un comportamento positivo degli organi amministrativi (inverato in quel provvedimento) idoneo ad ingenerare l’errore scusabile dell’indagato.
In altri termini, qualora l’Adunanza plenaria, con minore sforzo “creativo”, avesse riconosciuto la natura provvedimentale della “proroga”, la posizione del concessionario ne sarebbe risultata rafforzata: certamente in sede amministrativa (per l’operare dei limiti introdotti dalla legge all’esercizio dell’autotutela, a quel punto necessario per rimuovere gli effetti della proroga), ma anche in sede penale, in virtù della rilevanza della condotta dell’Amministrazione in relazione alla configurabilità di un errore scusabile.
5. Osservazioni conclusive
Le considerazioni svolte portano a ritenere la decisione della Cassazione penale irragionevole nella misura in cui finisce per scaricare sul privato tensioni accumulate nel corso di anni in un settore in cui troppo a lungo l’interesse economico degli operatori nazionali ha ostacolato un’organica riforma che tenesse in debito conto da un lato le reiterate sollecitazioni provenienti dall’ordinamento Ue ‒ intento, come è naturale, a garantire il corretto dispiegarsi delle regole della concorrenza ‒ dall’altro l’interesse pubblico alla valorizzazione ed alla tutela del bene demaniale.
L’inerzia del legislatore è stata accompagnata dalla ritrosia delle Amministrazioni nella disapplicazione del diritto interno in favore delle regole pro-concorrenziali di derivazione europea e da una faticosa e meritoria opera del giudice amministrativo, chiamato a fornire risposte di giustizia in un quadro di estrema incertezza ordinamentale derivante (anche) dalla sovrapposizione di regole nazionali ed europee.
Se è vero che il giudice penale costituisce sovente l’ultimo baluardo per la tutela effettiva di interessi pubblici (si pensi, in via esemplificativa, alla protezione dell’ambiente, della salute, del patrimonio culturale, non meno che all’ordinato assetto del territorio), la cui cura troppo spesso è colpevolmente trascurata da quelle stesse Amministrazioni cui l’ordinamento affida il potere-dovere di farsene gelose custodi a beneficio della generalità dei consociati[xxvi], non può ammettersi che sia “il rigore della legge penale a favorire, a colpi di sanzioni inflitte ai privati”[xxvii] quella certezza giuridica negata da un’Amministrazione inerte, nel concorso con un legislatore distratto o, peggio, ostaggio di interessi di parte.
Né può ammettersi che il cittadino che abbia confidato nella piena legittimità dell’assetto di interessi delineato da un atto amministrativo ‒ che più correttamente si dovrebbe qualificare come provvedimento ‒ applicativo di una norma di legge pienamente vigente, si trovi esposto alle conseguenze sanzionatorie previste dall’ordinamento, massime quando si tratti di conseguenze rilevanti sul piano penale, per effetto da un lato di un esercizio dell’azione penale che ‒ a fronte di una situazione di conclamata illegittimità che riguarda migliaia di concessioni balneari in tutta Italia ‒ non può che essere episodico (e per ciò stesso afflittivo solo per i concessionari indagati); dall’altro lato di un’interpretazione che il giudice, volta a volta investito della controversia, fornisca della fattispecie, anche disattendendo gli insegnamenti dettati dagli organi di vertice dei plessi giurisdizionali nell’esercizio della propria funzione nomofilattica.
Ancora una volta, disposizioni introdotte nell’evidente intento di favorire gli operatori economici rischiano di rivelarsi vere e proprie trappole per questi, che paiono chiamati dall’ordinamento a ricercare sotto la propria esclusiva responsabilità, una certezza giuridica sempre vagheggiata ‒ ma troppo spesso smarrita nei sentieri tortuosi di una giurisprudenza che approda a soluzioni sempre diverse, mutevoli ed imprevedibili.
Sembra di poter concludere che abbiamo di fronte, anche in questo caso, gli effetti esiziali che la conclamata crisi della certezza giuridica produce sul piano della tutela dei diritti non meno che dello sviluppo dell’economia, in un ordinamento connotato dalla graduale recessività del diritto di origine “legislativa”, dalla pluralità ed atipicità delle fonti, dalla debolezza del legislatore, dalla troppo frequente inadeguatezza dell’Amministrazione ad assolvere alla propria funzione istituzionale e finanche da gravi aporie che si registrano all’esito di una deriva creazionista della giurisprudenza che, almeno nei suoi esiti più estremi, resta da scongiurare[xxviii].
In tale contesto occorre che il legislatore, accogliendo le sollecitazioni provenienti dalla dottrina e dalla giurisprudenza più avveduta, eserciti ‒ nel settore delle concessioni balneari, ma non solo ‒ in modo pieno le proprie prerogative e si faccia carico del compito di individuare regole certe in grado di produrre quell’effetto di stabilizzazione nomica che concorre a governare la complessità della società post-moderna.
[i] Cfr., XVIII legislatura, d.d.l. di iniziativa governativa, AS 2469, “legge annuale per il mercato e la concorrenza 2021”attualmente all’esame delle commissioni. I contenuti essenziali di una legge generale sulle concessioni marittime ‒ che tenesse in debito conto le esigenze di gestione e valorizzazione del bene pubblico, gli interessi degli utenti, quelli dei concessionari e del mercato ‒ erano stati delineati da V. Caputi Jambrenghi, L’interesse pubblico nelle concessioni demaniali marittime, in D. Granara (a cura di), In litore maris. Poteri e diritti in fronte al Mare. Atti del Convegno di Sestri Levante, 15-16 giugno 2019, Torino 2019, 67 ss.
[ii] M.A. Sandulli, Introduzione al numero speciale sulle “concessioni balneari” alla luce delle sentenze nn. 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza plenaria, in Dir. soc., 2021, 355-356.
[iii] Le sentenze hanno immediatamente destato l’interesse della dottrina. Tra i primissimi commenti si segnalano quelli raccolti nel numero speciale di Diritto e società, n. 3/2021, nonché, per limitarsi a quelli apparsi in questa rivista, F.P. Bello,Primissime considerazioni sulla “nuova” disciplina delle concessioni balneari nella lettura dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, 24 novembre 2021; E. Cannizzaro, Demanio marittimo. Effetti in malam partem di direttive europee? In margine alle sentenze 17 e 18/2021 dell’Ad. plen. del Consiglio di Stato, 30 dicembre 2021; E. Zampetti, Le concessioni balneari dopo le pronunce Ad. plen. 17 e 18 2021. Definito il giudizio di rinvio innanzi al C.G.A.R.S. (nota a Cgars, 24 gennaio 2022 n. 116), 27 gennaio 2022; F. Francario, Se questa è nomofilachia. Il diritto amministrativo 2.0 secondo l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, 28 gennaio 2022; M.A. Sandulli, Sulle “concessioni balneari” alla luce delle sentenze nn. 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza plenaria, 16 febbraio 2022.
[iv] Si riporta di seguito il testo originario dell’art. 1, comma 18, d.l. n. 194/2009: “il termine di durata delle concessioni in essere alla data di entrata in vigore del presente decreto e in scadenza entro il 31 dicembre 2012 è prorogato fino a tale data”. A seguito della legge di conversione (26 febbraio 2010, n. 25) il termine della proroga era stato fissato al 31.12.2015; con d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito nella l. 17 dicembre 2012, n. 221, il termine è stato ulteriormente prorogato al 31 dicembre 2020.
[v] Cfr. Tribunale di Genova, sezione per il riesame, ordinanza del 9 novembre 2018: “va puntualizzato che il Comune di Genova ha rilasciato in favore del Galli ben due provvedimenti successivi per legittimare la proroga dell’efficacia della sua concessione (entrambi presenti in copia fra gli atti allegati alla richiesta del P.M.): il primo in data 18 novembre 2011, con il quale la licenza (…) viene prorogata fino al 31.12.2015 in forza della l. 25/2010, e il secondo in data 29.11.2016, con il quale il medesimo titolo concessorio viene qualificato come ‘già instaurato e pendente in base all’art.1, comma 18, d.l. 194/2009’ (…) e ne viene pertanto riconosciuta la perdurante validità ‘non risultando ancora emanata la predetta normativa di revisione e riordino della materia’: con il che, nei fatti, l’efficacia del titolo viene differita fino al 2020”.
[vi] Tribunale di Genova, ufficio GIP, decreto del 2 ottobre 2018.
[vii] Cfr. Tribunale di Genova, sezione per il riesame, ordinanza del 9 novembre 2018: “di fronte a uno Stato che, nonostante l’avvio di una procedura di infrazione comunitaria per la vigenza di norme in contrasto con principi di rango sovranazionale, ha adottato plurime leggi con le quali ha protratto nel tempo l’efficacia di titoli concessori che dovrebbero considerarsi spazzati via dalla normativa comunitaria, occorrerebbe richiamare lo Stato alle sue responsabilità piuttosto che scaricare sul concessionario l’obbligo di uniformarsi spontaneamente, peraltro senza che nemmeno gliel’abbia intimato l’Autorità concedente, come nel caso in esame, alla normativa sovranazionale”.
[viii] Secondo Cass. pen. n. 25993/2019, “le disposizioni ex lege 194 del 2009 si riferiscono esclusivamente alle concessioni nuove, ovvero a quelle sorte dopo la legge 88 del 2001, e comunque valide a prescindere dalla proroga automatica di cui al d.l. 400 del 1993, come modificato dalla l. 88 del 2001, introdotta nel 1993 ed abrogata nel 2001. Una diversa ed inammissibile interpretazione porterebbe a ritenere che il legislatore abbia abrogato espressamente la disciplina della proroga automatica introdotta nel 1993, in quanto in contrasto con la normativa europea, salvaguardandone comunque gli effetti e, in tal modo, operando in contrasto con la disciplina comunitaria (Sez.3, n.29763 del 26/03/2014, Rv.260108)”.
[ix] Nel senso dell’applicabilità della proroga ex d.l. n. 194/2009, specie in relazione alla (non) configurabilità del reato di cui all’art. 1161 cod. nav., militano numerosi argomenti: a) anzitutto il tenore letterale della disposizione che, con formulazione assai ampia, faceva riferimento alle “concessioni in essere” alla data di entrata in vigore del decreto; b) un’interpretazione sistematica, considerato che successivamente il legislatore ha previsto una proroga generalizzata delle concessioni esistenti (art. 1, commi 682 e 683 l. n. 145/2018); c) il principio enunciato dalla Cassazione penale a sezioni unite ed in forza del quale, come a breve meglio si preciserà, non è possibile che dalla disapplicazione di una norma interna per effetto del contrasto con la normativa comunitaria possono conseguire effetti pregiudizievoli per l’imputato (sentenza 8 giugno 2012, n. 22225).
[x] Cass. pen. n. 25993/2019, § 7: “va disapplicata la normativa di cui all’art. 24, comma 3-septies, d.l. 24 giugno 2016, n. 113, conv. in l. 7 agosto 2016, n. 160, laddove la stessa, stabilizzando gli effetti della proroga automatica delle concessioni demaniali marittime prevista dall’art. 1, comma 18, d.l. 30 dicembre 2009, n. 194, conv. in legge 26 febbraio 2010, n. 25, contrasta con l’art. 12, par. 1 e 2, della direttiva 2006/123/CE del 12 dicembre 2006 (c.d. direttiva Bolkestein) e, comunque, con l’articolo 49 TFUE. (Sez.3, n.21281 del 16/03/2018, Rv.273222, cit.)”.
[xi] Cass. pen. n. 25993/2019, § 8.
[xii] Ordinanza del 12 luglio 2019.
[xiii] Tribunale di Genova, ufficio per le indagini preliminari, decreto dell’8 novembre 2021.
[xiv] Tribunale di Genova, ufficio per le indagini preliminari, ordinanza del 3 dicembre 2021.
[xv] Secondo quel Giudice, infatti, il concessionario “si era trovato ‘ostaggio’ di un pervicace e contrastante atteggiamento dei pubblici poteri”: da un canto il Comune nel 2011 aveva espressamente concesso la proroga ex d.l. 194/2009; dall’altro il legislatore, ancorché violando il diritto Ue, aveva disposto due successive ulteriori proroghe. Osserva il GIP che l’indagato era incorso in errore scusabile “generato dall’ingannevole informazione/disposizione prodotta da fonti qualificate”. Per altra via il giudice evidenzia l’irragionevolezza di una soluzione interpretativa secondo la quale “nonostante una pubblica amministrazione che l’autorizzava a proseguire nel rapporto concessorio, applicando non una ma addirittura due leggi statali di proroga” l’indagato avrebbe dovuto disattendere la proroga e rendersi ‒ dato questo non trascurabile ‒ inadempiente agli obblighi derivanti dalla concessione.
[xvi] Corte di giustizia Ue, grand. Sez., sentenza 3 maggio 2005, in cause riunite C-387/02, C-391/02, C-403/02, Berlusconi; sentenza 16 giugno 2005, in causa C- 105/03, Pupino.
[xvii] Corte di giustizia Ue, sentenza 5 luglio 2007, in causa C-321/05 Kofoed, § 45.
[xviii] Sul punto, nell’ambito di una vasta dottrina, cfr., E. Cannizzaro, Demanio marittimo. Effetti in malam partem di direttive europee? In margine alle sentenze 17 e 18/2021 dell’Ad. plen. del Consiglio di Stato, cit.
D’altro canto, la Corte costituzionale, con sentenza 28 gennaio 2010, n. 28 aveva affermato il principio secondo il quale “l’efficacia diretta di una direttiva è ammessa – secondo la giurisprudenza comunitaria e italiana – solo se dalla stessa derivi un diritto riconosciuto al cittadino, azionabile nei confronti dello Stato inadempiente. Gli effetti diretti devono invece ritenersi esclusi se dall’applicazione della direttiva deriva una responsabilità penale”.
[xix] Al § 11 della sentenza Cass. pen.15676/2022, si ripercorrono le argomentazioni sviluppate dall’Ad. plen., spec. ai § 14, 16, 24, 25 delle sentenze gemelle.
[xx] Addirittura, in deroga al principio per il quale l’efficacia retroattiva della sentenza della Consulta si arresta dinnanzi ai rapporti già regolati in via definitiva dalla legge incostituzionale, l’art. 30, comma 4, della l. n. 87/1953 dispone che “quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali”.
[xxi] Su questa linea si era attestato il GIP nel provvedimento di dissequestro del 3 dicembre 2021, ponendo in rilievo come l’indagato si fosse trovato di fronte “all’univoco atteggiamento di un legislatore che reiteratamente prorogava le concessioni demaniali e [ad] una p.A. che non dava corso alla richiesta di proroga dal medesimo presentata, proprio facendo applicazione delle proroghe legislative (…) confortato di essere nella medesima situazione di altri numerosi ‘colleghi’, la cui concessione scaduta non era prorogata in via amministrativa, al pari della sua, in virtù delle proroghe legali anzidette”. Si segnala, peraltro, che secondo il Tribunale del riesame (ord. del 9 novembre 2018) “il punto cruciale sembra essere proprio la connotazione ‘arbitraria’ o ‘abusiva’, in sostanza contra legem, dell’occupazione dell’area demaniale (…) profilo che, pur inerendo precipuamente all’elemento materiale del reato di cui all’art. 1161 cod. nav., si riflette pur sempre sul relativo elemento piscologico, trattandosi di dolo specifico che sorregge la condotta e che sembra prescindere, all’evidenza, da ogni possibile caratterizzazione della stessa in termini colposi; non si vede, per vero, come sia possibile commettere un atto qualificato dal legislatore come ‘arbitrario’ (nel precetto) e ‘abusivo’ (nella rubrica) serbando un atteggiamento psicologico indotto da un errore, per di più sulla normativa vigente e nemmeno sul fatto: la contravvenzione in parola sembra, dunque, dolosa per natura, apparendo una contraddizione insanabile quella tra ‘arbitrarietà’ della condotta ad essa sottesa e l’eventuale colpa nella relativa consumazione”.
[xxii] Corte di giustizia del 14 luglio 2016, in cause riunite C-458/14 e C-67/15, Promoimpresa.
[xxiii]Cass. pen., sez. I, 15 luglio 2015 n. 47712. In quel caso la Corte aveva ritenuto scusabile l’errore dell’imputato, che, nel denunziare all’Amministrazione l’arma ereditata dal padre, non aveva indicato le munizioni in suo possesso, in ciò indotto da una nota dell'ufficio di p.s.
[xxiv] Cfr. supra nota 5 e la ricostruzione sul punto operata dal Tribunale di Genova, sezione per il riesame, ordinanza del 9 novembre 2018.
[xxv] Per la tesi secondo la quale la volontà (di disporre la proroga) espressa dalle leggi che si sono susseguite negli anni necessitava di una concreta attuazione per il tramite di un atto amministrativo di natura provvedimentale (e per alcune considerazioni sulle conseguenze di siffatta impostazione in ordine ai limiti della necessaria autotutela da esercitarsi in relazione a tali atti), sia consentito il rinvio a P. Otranto, Proroga ex lege delle concessioni balneari e autotutela, in Dir. soc., 2021, 583 ss. Sulla “nuova autotutela” all’indomani della l. n. 124/2015, cfr., nell’ambito di una vasta dottrina, cfr. F. Francario, Autotutela amministrativa e principio di legalità (nota a margine dell’art. 6 della l. 7 agosto 2015, n. 124), in Federalismi.it, n. 20/2015; M.A. Sandulli, Autotutela e stabilità del provvedimento nel prisma del diritto europeo, in P.L. Portaluri (a cura di), L’Amministrazione pubblica nella prospettiva del cambiamento: il codice dei contratti e la riforma Madia, Napoli 2016, 125 ss.; Id., Autotutela, in Il libro dell’anno del Diritto 2016, Roma 2016.
[xxvi] È interessante osservare, in proposito, che nella vicenda che ci occupa, il Tribunale di Genova, sezione per il riesame, ordinanza del 13 luglio 2019, convalidava il sequestro dando esecuzione alla sentenza Cass. pen. sez. III, n. 25993/2019, e tuttavia restitutiva gli atti al P.M. perché svolgesse accertamenti investigativi in ordine all’eventuale condotta penalmente rilevante (ex artt. 323, 328 e 361 c.p.) derivante dal “comportamento delle Autorità amministrative (Agenzia del Demanio, Capitaneria di Porto e Comune di Genova) che mostrano di aver tollerato per circa un decennio la consumazione dell’illecito penale in esame ad opera dell’indagato”.
[xxvii] Cfr. Tribunale di Genova, sezione per il riesame, ordinanza del 9 novembre 2018.
[xxviii] Sul tema dell’incertezza delle regole e del creazionismo giurisprudenziale nell’ordinamento amministrativo moderno si v. per tutti M.A. Sandulli, Ancora sui rischi dell’incertezza delle regole (sostanziali e processuali) e dei ruoli dei poteri pubblici, in Federalismi.it, 23 maggio 2018; Id., I giudici amministrativi valorizzano il diritto alla sicurezza giuridica, ivi, 21 novembre 2018; Id., Processo amministrativo, sicurezza giuridica e garanzia di buona amministrazione, in Il Processo, 2018, 45 ss.; Id., La “risorsa” del giudice amministrativo, in Questione giustizia, n. 1/2021, 38 ss. Il tema è stato oggetto di analisi ed approfondimento durante il convegno di studi sul tema “I materiali della legge nella teoria delle fonti e nell’interpretazione del diritto”, Roma, Palazzo Spada, 20 aprile 2022.
Consulenza, preclusioni e poteri del giudice. Le Sezioni Unite ed il cammino verso la decisione giusta (nota a Corte di Cassazione, Sezioni unite, 1 febbraio 2022, n. 3086)
di Roberto Bellè
Ragionando sulle facoltà del consulente d’ufficio si finisce inevitabilmente per affrontare il tema dei poteri del giudice. La pronuncia sugli effetti dell’indagine peritale oltre i confini tracciati dal quesito è così l’occasione per una disamina delle dinamiche cognitive giudiziali. La condivisibile soluzione, diretta a valorizzare poteri officiosi al di là d’un regime di rigide preclusioni, richiede a sua volta una riflessione sulla realtà del processo civile di merito, non sempre adeguata nei fatti al modello delineato dalle Sezione Unite.
Sommario: 1. Le indagini peritali nell’art. 194 e nell’art. 198 c.p.c. secondo la lettura delle S.U. - 2. Dal c.t.u. al giudice. - 3. Fatti “principali” e fatti “secondari” o in funzione della prova. - 4. Fatti costitutivi di diritti autoindividuati, eccezioni in senso lato. - 5. La dinamica del processo. - 6. L’asse giuridico-culturale della pronuncia. - 7. Poteri istruttori officiosi e imparzialità. - 8. Alcune altre considerazioni sul cammino intrapreso.
1. Le indagini peritali nell’art. 194 e nell’art. 198 c.p.c. secondo la lettura delle S.U.
Le S.U. sono state chiamate a pronunciarsi su un contrasto rilevato dalla sezione prima tra un orientamento costante ed una successiva ordinanza della terza sezione.
L’orientamento indicato come costante dall’ordinanza della prima sezione è quello per cui, qualora il c.t.u., nello svolgimento delle operazioni peritali allarghi l’indagine tecnica oltre i limiti consentiti dal quesito del giudice o dai poteri propri del c.t.u. oppure acquisisca documenti non precedentemente prodotti, la nullità che ne deriva avrebbe sempre carattere relativo e resterebbe sanata se non eccepita nella prima udienza successiva al deposito della relazione.
Cass. 6 dicembre 2019, n. 31886, della terza sezione, aveva invece ritenuto che lo svolgimento di indagini su fatti estranei al thema decidendum o l’acquisizione di elementi di prova in violazione del principio dispositivo comportasse una nullità assoluta e non consentisse sanatoria, perché le norme che stabiliscono preclusioni, assertive ed istruttorie, non sono derogabili dalle parti in quanto preordinate alla tutela di interessi generali, restando consentite solo indagini peritali su fatti oggettivamente non suscettibili di prova ad opera delle parti perché tali da postulare il ricorso a mezzi e cognizioni tecnico-scientifiche o in relazione a fatti tecnici accessori e secondari di mero riscontro della veridicità delle prove già addotte dalle parti.
La vicenda di fatto che ha portato alla decisione delle S.U. non è di interesse.
Il ricorso per Cassazione è stato infatti dichiarato inammissibile e l’argomentazione è stata sviluppata dalle S.U. ai sensi dell’art 363, co. 3, c.p.c. e quindi ai fini della (autonoma) definizione della questione giuridica di particolare importanza sottoposta con l’ordinanza di rimessione della sezione semplice.
Il contenuto più evidente della pronuncia riguarda i poteri del c.t.u. .
Vengono definiti intanto due aspetti, riguardanti l’art. 194 c.p.c. e l’art. 198 c.p.c. .
Le S.U. affermano in proposito che l’ampia formula di cui all’art. 194 c.p.c. (secondo cui il c.t.u. «può essere autorizzato a domandare chiarimenti alle parti, ad assumere informazioni da terzi» etc.) esclude dubbi sul potere (dovere) del c.t.u. di estendere le proprie indagini, anche ad explorandum, rispetto a quei fatti che, potendosi delineare, con dizioni tra loro equivalenti, come “accessori” o “secondari”, si rendono utili per la prova inferenziale di altri fatti (primari o principali) che costituiscono il fondamento delle situazioni soggettive di chi agisce o delle eccezioni che escludono o delimitano tali situazioni. Fatti secondari che, proprio per il riguardare la prova e non il fondamento delle situazioni soggettive o delle eccezioni, secondo le S.U. non soggiacciono ad alcun onere di allegazione, sicché essi possono essere acquisiti al processo, mediante attività “percipiente” del c.t.u., anche se non siano stati oggetto di asserzioni delle parti.
Rispetto all’esame contabile ed all’art. 198 c.p.c., secondo cui il c.t.u., previo consenso delle parti, può esaminare «anche documenti e registri non prodotti in causa» le S.U. sviluppano il ragionamento precedente, per affermare che, se la norma si riferisse alle ordinarie acquisizioni di fatti “secondari”, già legittimate dall’art. 194 c.p.c., essa sarebbe non solo un inutile doppione, ma produrrebbe anche un effetto paradossale, in quanto, nell’esame contabile, sottoporrebbe al consenso delle parti quello che ordinariamente può essere fatto senza autorizzazioni. Secondo le S.U., è il senso generale delle norme sull’attività del c.t.u. che deve portare ad intendere l’art. 198 c.p.c. nella logica dell’ampliamento delle acquisizioni, con il corollario argomentativo per cui è logico che in un campo fortemente tecnico, come quello contabile, si ammetta e non si neghi la possibilità per l’attività istruttoria di integrare lacune nelle asserzioni di parte che possono essere giustificate dalla «difficoltà di sondare» anticipatamente tutti i dettagli di una pretesa.
L’osservazione appare convincente, ove si consideri che l’esame contabile spesso riguarda profili indispensabili a verificare l’an debeatur e che anche quando esso riguarda solo il quantum talora comunque esso opera, sul piano probatorio, proprio come se i corrispondenti dati costituissero fatti principali, potendo dunque ad essi essere assimilati; infatti, se anche gli altri fatti individuativi del diritto siano provati, ma manchi prova della misura in cui il diritto spetti, in mancanza di norme che consentano al giudice di procedere in base a parametri di giudizio sostitutivi (equità etc.), la domanda è destinata parimenti ad essere rigettata.
Su tali premesse, la conclusione è che, una volta disposta c.t.u. contabile ai sensi dell’art. 198 c.p.c. ed acquisito il consenso delle parti all’esame di certi documenti o registri, il c.t.u. da essi può trarre elementi anche per accertare fatti principali, si deve ritenere di rango lato sensu contabile, necessari alla definizione della lite.
Dovendosi peraltro rimarcare come, nei processi, come quelli soggetti al rito del lavoro, in cui il giudice è legittimato a disporre la prova oltre i limiti stabiliti dal codice civile e di rito, l’esame contabile può probabilmente assumere l’estensione predetta anche senza il consenso delle parti, come è stato già affermato dalla S.C. [1] con pronuncia non a caso espressamente richiamata dalle S.U., proprio al fine di riconnettervi anche un meno stringente vincolo tra disamina peritale ed allegazioni. Come a dire che, nell’ambito di tale rito, la determinazione contabile dell’an e\o del quantum ha la possibilità (officiosa) di avvicinarsi al massimo alla realtà effettiva, proprio in esercizio dei minori vincoli previsti per l’attività del giudice e, consequenzialmente, del c.t.u. che per il giudice opera.
Chiude il quadro una serie di regole poste dalle S.U. al fine di apprezzare le conseguenze della violazione delle regole sulle acquisizioni operate dal c.t.u. e che possono sintetizzarsi nel senso che:
- l’accertamento peritale di fatti secondari attraverso attività di indagine non soggiace ad altro limite se non quello del contraddittorio, la cui violazione è frutto di nullità relativa, come tale rilevabile solo su tempestiva eccezione di parte (art. 157, co. 2, c.p.c.) e – si aggiunge qui – sanabile attraverso la ricostituzione ex post del contraddittorio leso (arg. ex art. 162, co.1, c.p.c.), senza quindi effetti realmente preclusivi rispetto all’acquisizione fattuale e probatoria;
- l’accertamento peritale di fatti “principali” (sulla nozione si tornerà in prosieguo) quando esso non è eccezionalmente ammesso come accade rispetto alla fattispecie dell’art. 198 c.p.c., è ragione di nullità “assoluta”, per violazione del regime delle preclusioni (e dei suoi fondamenti, di cui ancora si dirà di seguito), rilevabile d’ufficio, salvi gli effetti sananti della mancanza di impugnazione sul punto specifico (art. 161 c.p.c.).
2. Dal c.t.u. al giudice.
Tutto quanto finora riepilogato, seppure di grande importanza, è tuttavia soltanto un aspetto di un ragionamento assai più complesso.
La pronuncia si fonda infatti – forse inevitabilmente – su una assai più ampia ricostruzione dell’assetto giuridico del vigente processo di cognizione.
Essa ha infatti alla base il rilievo di una «oggettiva convergenza di funzioni tra giudice e consulente tecnico», sicché è chiaro che tutto quanto viene poi affermato dalle S.U. rispetto al c.t.u., quale alter ego peritale del giudice, vale anche per quest’ultimo, quanto a definizione dei poteri e del rapporto tra essi, il principio della domanda e le preclusioni processuali.
In altre parole, stante la biunivocità della corrispondenza, ragionando su quello che il c.t.u. può o non può fare per incarico del giudice, si definiscono inevitabilmente le modalità di legittimo esercizio dei poteri del giudice stesso.
Non a caso, del resto, le S.U., nel ricercare quali siano i poteri di indagine del c.t.u., operano ancorandosi alle norme che regolano i poteri del giudice e quindi l’art. 118 c.p.c. (in tema di ispezione di cose e luoghi), l’art. 213 c.p.c. in tema di informazioni presso la P.A.), l’art. 2711 c.c. (in tema di acquisizioni documentali presso l’imprenditore); cui possono qui linearmente aggiungersi, senza pretesa di completezza, l’art. 281-ter c.p.c. (in tema di formulazione d’ufficio della prova testimoniale), l’art. 183, co. 3, c.p.c. (in tema di chiarimenti che il giudice può chiedere alle parti), l’art. 253 c.p.c. (sulle domande a chiarimento ai testimoni, naturalmente destinate e poter andare oltre lo stretto capitolato [2]), l’art. 257 c.p.c. (sulla testimonianza de relato [3]), previsioni nel loro insieme consonanti con i poteri di informativa e chiarimenti che l’art. 194 c.p.c. assicura al c.t.u. ed infine le norme sull’interrogatorio libero (art. 117 c.p.c.) e più in generale quelle che, a partire dagli artt. 421 e 437 c.p.c. riconoscono nei riti speciali poteri istruttori anche più intensi.
3. Fatti “principali” e fatti “secondari” o in funzione della prova.
La pronuncia fa leva sull’individuazione dei fatti cui può estendersi l’accertamento officioso ed a tal fine essa muove dalla consolidata distinzione tra fatti principali e fatti secondari.
Le S.U. individuano tale distinzione richiamando il principio della domanda ed i corollari di esso costituiti dal principio dispositivo e da quello di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, nel senso che fatti principali sono quelli destinati ad essere declinati attraverso quei principi e dunque i fatti individuativi della situazione giuridica azionata (causa petendi) e della pretesa in ragione di essa esercitata (petitum).
Oltre a ciò, la pronuncia denomina come “principali” anche i fatti fondativi in sé di eccezioni, in senso stretto o in senso lato, ma su ciò si tornerà in prosieguo.
I fatti “secondari” non sono invece identificativi o fondativi di una situazione giuridica soggettiva o di un’eccezione, ma sono idonei a reggere il ragionamento inferenziale che, in via logica, consente di argomentare e sorreggere il ragionamento utile a dimostrare i fatti “principali” [4]. Le ipotesi sono innumerevoli e in via puramente esemplificativa, al di là del richiamo alle presunzioni, si può pensare ai vari elementi di fatto che consentono di ricostruire la dinamica di un sinistro; ai segni sul terreno individuati in sede di ispezione che indirizzano verso la soluzione di una causa possessoria; ai profili circostanziali da cui si ricostruisce l’esatto rapporto di un dipendente con i colleghi al fine di accertare la supremazia esercitata ed individuare una maggiore responsabilità quanto a mansioni e così via.
Dal lato di chi agisce la conseguenza della distinzione è che i fatti principali identificativi della domanda sono necessariamente da allegare a cura della parte e, secondo le S.U., non possono essere oggetto di acquisizione o accertamento diretto ad opera del giudice.
Un’assolutizzazione dei concetti potrebbe rendere difficile individuare sotto un profilo scientifico ciò che sia diretta prova di un fatto principale, ma va ovviamente prescelto un approccio empirico [5].
La pronuncia sta allora a significare, semplificando, che se il diritto di credito rivendicato si fonda su un contratto, non può essere il giudice ad andare a cercare quel documento; o ancora, se il risarcimento contro un ente ospedaliero è chiesto per la morte cagionata da un asserito errore medico operatorio, non può essere il giudice o per esso il c.t.u. ad andare a validamente verificare se la morte sia stata invece dovuta a problemi di sepsi della struttura sanitaria e quindi ad una dinamica circostanziale completamente diversa [6].
Rispetto ai fatti “secondari” vale invece il diverso principio per cui essi rilevano ai fini della prova e sono dunque accertabili in base ai poteri istruttori del giudice, senza vincolo – ciò è detto espressamente dalle S.U. – nelle preclusioni che caratterizzano l’attività di parte.
Il richiamo al principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, sviluppato combinando quest’ultimo con la delimitazione del principio dispositivo salda quest’ultimo con effettive attività di esercizio del diritto sostanziale (come è per l’indicazione di ciò che serve per introdurre in giudizio una pretesa) e lo affranca quest’ultimo dall’aberrazione di prospettiva che si ha allorquando esso è posto in relazione con l’ambito della prova.
È stato infatti ampiamente dimostrato come non sia fondato ritenere che attraverso l’esercizio delle iniziative probatorie la parte eserciti una forma di disposizione delle proprie situazioni giuridiche soggettive: perché mai, agendo giudizialmente per far valere una pretesa, dovrei disporne indirettamente non proponendo tutte le prove utili al suo accoglimento?
Il distinguo – per non dire l’equivoco – è stato disaminato in dottrina, anche al fine di liberarlo dalle incertezze che potrebbero essere indotte dalla rubrica (“disponibilità delle prove”) dell’art. 115 c.p.c. [7] e qui non si può scendere ad ulteriori dettagli, se non per dire che a spiegare la norma testé richiamata basta il nesso regola/eccezione tra istanze istruttorie di parte e poteri del giudice.
Nesso che non si ha timore di dire sia ampiamente rispettato nella concreta esperienza giudiziale, ma che certamente non limita né esclude il potere-dovere del giudice di esercitare i propri poteri, quando essi siano previsti.
Conseguenza logica dell’impostazione – come sinteticamente rilevato in uno dei primi commenti [8] – è che, nell’identificazione dei fatti principali, si operi delineando come tali soltanto le circostanze realmente indispensabili ad individuare – e quindi a fondare – l’oggetto della pretesa o quanto strettamente necessario perché essa sia accolta (si pensi a quanto detto sul quantum e la c.t.u. contabile oppure q quanto necessario a sostanziare il petitum di una domanda di danni).
Conclusione che non sembra neppure poter essere in futuro contraddetta dalla previsione normativa, impostata dalla legge delega di riforma del processo civile, secondo cui (art. 1, co. 5, d. lgs. 206/2021) l’atto introduttivo del giudizio deve indicare i fatti in modo «chiaro e specifico», in quanto il riferimento va pur sempre alle circostanze «costituenti le ragioni della domanda» e dunque a quelle necessarie ad introdurre il giudizio, e non altre.
Muovendo da tali premesse si può quindi affermare, sulla falsariga del percorso tracciato dalle S.U., che il giudice ha il potere (dovere) di accertare i fatti secondari, con ogni iniziativa istruttoria ad esso consentita dalle norme processuali o sulla prova.
In definitiva, non vale la risposta che molto spesso si legge, secondo cui la pretesa viene disattesa perché una serie di fatti, pur di rilievo soltanto probatorio, non sia stata neanche allegata, proprio perché rispetto a tali circostanze è solo di prova che si può parlare.
Ciò non significa che non possa essere valorizzata la mancata precisazione di certe dinamiche fattuali secondarie, ipoteticamente utili alla tesi della parte interessata, ma è chiaro che si tratta in tali casi non di difetti della domanda, ma di meri argomenti motivazionali in ordine al rilievo del silenzio o della scarsezza narrativa, destinati a recedere, come si desume dall’art. 360 n. 5 c.p.c., qualora la trattazione faccia emergere fatti non originariamente esposti, ma comunque decisivi rispetto alla decisione, ovverosia tali da poter comportare, secondo un criterio di alta probabilità logica, una certa conclusione sul piano fattuale [9].
4. Fatti costitutivi di diritti autoindividuati, eccezioni in senso lato.
Le S.U., nel contesto della decisione, sviluppano un altro contiguo tema, sollecitato dalla necessità di ulteriormente focalizzare ciò che il c.t.u., e con esso il giudice (o, meglio, il giudice, e con esso il c.t.u.) può o non può fare.
A tal fine la pronuncia precisa che, quanto alle eccezioni, vale pur sempre l’approdo per cui quando si tratti (come di regola è, se non ricorrano specifici poteri di esclusiva iniziativa di parte) di eccezioni in senso lato, il giudice può rilevarne la ricorrenza, se esse emergano dal materiale legalmente acquisito al processo e da questo punto di vista la sentenza sicuramente va apprezzata per l’impostazione chiara del tema, in sé coerente con già risalenti acquisizioni dottrinali [10].
Vi sono però profili di ulteriore complessità.
Le S.U., precisando appunto che l’indagine non può essere estesa ai fatti principali fondativi della domanda o delle eccezioni salvo, «quanto a queste ultime», che non si tratti di fatti principali rilevabili d’ufficio, potrebbero far dubitare di come debbano trattarsi le fattispecie c.d. autodeterminate, quali, ad es., i diritti reali [11] o gli status [12]; dubbio in qualche modo alimentato dall’insistenza della pronuncia nel distinguere tra domanda ed eccezioni (in senso lato), al fine di ammettere esplicitamente solo con riferimento a queste ultime la rilevabilità officiosa dei fatti che le fondano.
Vi è cioè da chiedersi, le S.U., escludendo che si possa addivenire all’acquisizione officiosa di un fatto ”principale”, vietano che il giudice o il c.t.u. acquisiscano, in quanto emersi dall’istruttoria svolta officiosamente rispetto a diritti autodeterminati, elementi fondativi di essi diversi da quelli posti originariamente a base della domanda: vale a dire, semplificando, rispetto ad una servitù, il suo sorgere per destinazione del padre di famiglia quando l’azione era stata fondata su un’attribuzione contrattuale; o, rispetto alla protezione internazionale, l’emergenza di una ragione di tutela umanitaria enucleata dagli atti (ad es. necessità di certe cure indisponibili nel paese di origine), ma non dedotta originariamente a fondamento della pretesa.
Il dubbio potrebbe tuttavia risultare infondato, se si considera che, rispetto ad un diritto autodeterminato, a ben vedere, come rilevato in dottrina [13], non ricorre quel nesso tra principio della domanda e fatti fondativi del diritto (se rivendico una servitù mi interessa la servitù in quanto tale, non certo – a meno che volontariamente lo si escluda – quale sia il fondamento giuridico del suo riconoscimento) che le S.U. pongono a fondamento del divieto di rilevazione di fatti principali diversi da quelli addotti da chi agisce.
Questo è l’assetto che la giurisprudenza della S.C. ha in realtà acquisito nel tempo, allorquando ha reiteratamente ritenuto che «per quanto riguarda la proprietà e gli altri diritti reali di godimento, la "causa petendi" si identifica con il diritto stesso e non, come nei diritti di credito, con il titolo che ne costituisce la fonte, la cui deduzione, necessaria ai soli fini della prova, non ha la funzione di specificazione della domanda» [14].
Un arretramento, su questo punto, ferma la necessità che al rilievo di ufficio di fatti fondativi ulteriori si accompagni il contraddittorio, sembrerebbe del resto porsi in controtendenza con l’indirizzo che ispira le S.U. ed è quindi difficile da prospettare.
E forse analoga conclusione, ponendo anche in relazione la pronuncia in commento con la nota Cass. S.U. 12 dicembre 2014, n. 26242, dovrebbe trarsi per i casi in cui la nullità negoziale, nello spettro plurimo (anch’esso “autodeterminato”) del suo manifestarsi, rilevi quale fatto fondativo dell’azione. Nel senso che se il diritto azionato dipenda dal ricorrere della nullità di negozi o atti che interferiscono con esso, il giudice è tenuto a rilevare l’esistenza delle cause invalidanti, se emergenti dall’istruttoria, a prescindere da quella di esse cui avesse fatto riferimento la parte o addirittura in questo caso a prescindere dal riferirsi della parte ad una nullità.
Un tale assetto consentirebbe tra l’altro di pacificare almeno in parte il singolare assetto, acutamente evidenziato in dottrina [15], che si determina allorquando si ammette la rilevazione officiosa delle eccezioni in senso lato, mentre nulla si consentirebbe di rilevare in favore di chi agisce.
Analoga dinamica riguarda le eccezioni in senso lato, rispetto alle quali le S.U. ammettono la rilevabilità sulla base dell’intero materiale istruttorio ritualmente acquisito. Qui l’indirizzo entro cui la pronuncia si colloca è quello già tracciato da Cass. S.U. 26242/2014 cit. e più a ritroso, per certi versi, anche da Cass., S.U., 19 dicembre 2007, n. 26724, nella logica della valorizzazione a tutto tondo del regime delle nullità e della rilevabilità officiosa delle eccezioni in senso lato.
Linea che muove da una logica di forte attuazione obiettiva dell’ordinamento, sotto il profilo dell’aderenza a legalità, così creandosi, tra quei precedenti e la sentenza in commento, un’indubbia continuità evolutiva.
5. La dinamica del processo.
Il profilo statico, sopra riepilogato, appare sostanzialmente chiaro.
Vi sono tuttavia da valutare importanti ricadute sul piano della dinamica del processo.
Si deve infatti considerare che i poteri istruttori del giudice (e l’attività del c.t.u.), oltre a perseguire la prova dei fatti secondari (allegati o no) possono a propria volta di fatto essere essi stessi il tramite per l’ingresso di ulteriori circostanze nel processo e, tra queste, di fatti primari fondativi della situazione giuridica soggettiva di chi agisce (se autodeterminata) o di eccezioni rilevabili d’ufficio.
Si pensi a quei casi in cui il giudice (o per esso il consulente) abbia accesso diretto alla percezione della realtà fattuale (ispezione) o documentale (richiesta generica di informazioni, ad es. alla P.A.; ordine di esibizione), sicché, si è condivisibilmente detto, l’informazione probatoria viene in questi casi veicolata direttamente dall’ufficio e non dalle parti e «una netta separazione tra la fase di acquisizione processuale degli elementi di prova e l’attività di valutazione del consulente» diviene «irrealistica» e l’ossequio ad una dinamica di allegazione (prima) e prova (poi) diviene puramente formale [16].
E, si badi, le acquisizioni potrebbero riguardare fatti semplici, come un pagamento; ma anche fatti assai articolati, come quelli destinati a sorreggere talune eccezioni di nullità o, in tema di diritti autodeterminati, un diverso fondamento del diritto reale rivendicato.
Le S.U., nei principi dettati con la pronuncia qui in commento, affermano che il c.t.u. (e quindi il giudice che lo incarica) può «accertare tutti i fatti inerenti all’oggetto della lite … a condizione che non si tratti di fatti principali» o di fatti fondativi di eccezioni in senso stretto e ciò potrebbe far pensare che il giudice debba (visto che ciò che il giudice può fare diviene, come è noto, un dovere) accertare anche fatti non ancora acquisiti e dunque neanche ancora “rilevabili”. Precedentemente la stessa pronuncia afferma che il c.t.u., debitamente incaricato, può «indagare» (il termine è in sé evocativo della ricerca) «intorno ad un ampio numero di fatti diversi dai fatti principali – e talora anche in ordine ad essi se ne sia consentita la rilevazione d’ufficio» ed ancor prima è detto che l’attività del c.t.u. può essere estesa a «elementi di fatto e di prova non acquisiti al processo per iniziativa delle parti» – citando una nota dottrina [17] che, nel medesimo contesto[18], giunge (l’Autore, sia chiaro e non le S.U.) a paragonare l’attività del c.t.u. alle indagini preliminari proprie del processo penale.
Il passaggio è centrale e innovativo, perché non sembra che i pregressi arresti giurisprudenziali giungessero a tanto e se si pongono tali affermazioni in connessione con l’intento, espressamente manifestato dalle S.U., di «prendere le distanze» dall’individuazione, nella soglia di cui all’art. 183, co. 6, del c.p.c., di un limite all’efficace ingresso di nuovi fatti nel processo con evidenza si apre una serie di altre questioni.
Intanto è chiaro che il processo, così ricostruito, ruota tutto attorno al continuo e doveroso riaprirsi del contraddittorio su quanto di nuovo venga ricercato e trovato e che in tale prospettiva il regime delle preclusioni entro il primo grado scolora ad una mera regola d’ordine [19], perché non solo il giudice potrà sempre riaprire i giochi sul piano fattuale e probatorio, ma anche la parte potrà sempre fare istanza perché ciò avvenga.
Tutto ciò con ancora ancor maggiore intensità nel rito del lavoro, ove le prove officiose sono ammissibili, ai sensi dell’art. 421 c.p.c., anche in deroga alle regole del codice civile e del codice di procedura civile ed hanno così una portata quasi illimitata; così come è in altri processi, come ad es. quello della protezione internazionale, ad ampia apertura officiosa.
Pur non potendosi negare che riecheggino certe sensazioni del famoso “vecchio rito” civile (il che non necessariamente è in sé solo un male, ma semmai attesta l’ineludibile capacità della realtà ad imporsi sulle regole), in cui il completamento della platea fattuale avveniva, in assenza di preclusioni, attraverso l’estenuante ammissibilità di nuovi ingressi – rinvio per deduzioni, poi per esame e così via – non sembra potersi peraltro temere realmente una vanificazione dell’organizzazione processuale del processo di cognizione, essendo ampiamente prevedibile che le parti non siano portate a fare affidamento esclusivo sui predetti poteri giudiziali e che quindi l’uso della necessaria diligenza, nel rispetto dei termini sanciti per le attività assertive, non venga meno.
Le S.U. individuano poi nella sollecitazione necessaria del contraddittorio (artt. 101, co. 2 e 183, co. 6, c.p.c. [20]) la chiave di volta del sistema, da intendere non solo come regola (quale è) di reimpostazione della parità delle armi, ma anche come strumento di avvicinamento ulteriore alla verità sia quando, con l’interlocuzione sui fatti siano addotte prove o circostanze contrastanti o concorrenti [21] utili al decidere, sia quando il silenzio delle parti chiamate ad interloquire possa parimenti apportare elementi di convincimento circa la effettività di quanto acquisito o valorizzato per iniziativa giudiziale.
Questioni complesse riguardano poi il piano delle impugnazioni, ove ricostruito sula base degli assetti dell’acquisizione di fatti e prove quali desumibili dalla pronuncia in commento.
In proposito, non si può che muovere sulla base di ipotesi.
Sembra intanto potersi dire che, quando i poteri istruttori e\o acquisitivi siano stati utilizzati coerentemente con le norme che ne regolano l’esercizio secondo le diverse tipologie processuali, la salvaguardia data dal contraddittorio chiuda ad ogni possibile rilievo di rito.
In altre parole, persiste la possibilità di mantenere al di fuori dal processo, perché illegalmente ottenute, le risultanze probatorie ed i fatti acquisiti attraverso un‘attività difforme da quella regolata dalle norme sui poteri istruttori del giudice (o sui poteri del c.t.u.) secondo l’assetto di essi nei diversi riti di cognizione.
Tuttavia, in sede di impugnazione, o si denuncia l’illegittimità dell’iniziativa officiosa, perché attuata senza rispetto delle specifiche norme processuali che la riguardano (ad es. ordine di esibizione senza istanza di parte nel rito ordinario in violazione dell’art. 210 c.p.c. ed in assenza dei presupposti di cui all’art. 2711 c.c.; superamento dei limiti entro cui il c.t.u. poteva acquisire un documento etc.), al fine di invalidare la prova stessa o si denuncia, con analoghi effetti, il fatto che essa si stata svolta su fatti identificativi della domanda non allegati dalla parte o su eccezioni in senso stretto non tempestivamente formulate; oppure si denuncia la violazione del contraddittorio, ma in tal caso l’effetto non è definitivamente invalidante, comportando soltanto il diritto ad essere ammessi alle attività assertive o istruttorie consequenziali a quelle attivate d’ufficio nel grado precedente, senza consentire alle parti le conseguenti repliche o integrazioni.
Quando invece si assuma che in primo grado non siano state svolte attività istruttorie o acquisitive che avrebbero potuto essere svolte, il fatto che i poteri d’ufficio non soggiacciano a regole preclusive comporta che, al di là della denuncia del vizio, è sufficiente un’istanza di parte ed anche un’iniziativa del giudice a colmare la mancanza.
Il nodo viene invece al pettine in sede di impugnativa per cassazione, con cui si intendano denunciare le corrispondenti omissioni verificatesi nei gradi di merito.
Potendosi ipotizzare – ovviamente, lo si ripete, a prima vista, perché il tema è assai complesso - il controllo anche in sede di legittimità, che anzi diverrebbe lo snodo di tenuta dell’intero sistema, sotto il profilo della violazione di legge (se in appello si deneghi erroneamente la significatività di un fatto “primario” da acquisire e che sia viceversa rilevante secondo le norme sostanziali e rilevabile d’ufficio) o dell’error in procedendo (se sia stata esclusa, nonostante la richiesta anche in appello, l’ammissione di un mezzo istruttorio o acquisitivo, viceversa munito di un’alta capacità sotto il profilo della dimostrazione o individuazione dei fatti non considerati e rilevabili o acquisibili officiosamente).
A quest’ultimo proposito, può anche richiamarsi un orientamento, maturato nella giurisprudenza del lavoro, secondo cui «il ricorrente che denunci in cassazione il mancato esercizio dei poteri istruttori di ufficio nel giudizio di merito, deve riportare in ricorso gli atti processuali dai quali emerge l'esistenza di una "pista probatoria" qualificata, ossia l'esistenza di fatti o mezzi di prova, idonei a sorreggere le sue ragioni con carattere di decisività, rispetto ai quali avrebbe potuto e dovuto esplicarsi l'officiosa attività di integrazione istruttoria demandata al giudice di merito, ed allegare, altresì, di avere espressamente e specificamente richiesto tale intervento nel predetto giudizio» [22].
6. L’asse giuridico-culturale della pronuncia.
Il plurimo richiamo delle S.U., nel complesso della propria articolata motivazione, alla necessità che l’attività processuale sia intensamente indirizzata alla ricerca della verità fattuale, richiama un significativo movimento di pensiero [23].
Oltre agli scritti di Michele Taruffo, l’inclinazione aveva trovato espressione in analisi di importanti voci della magistratura, allorquando fu segnalato il rischio di “fuga dalla prova” [24] o ci si è appassionatamente interrogati – con provocazione retorica - sull’esigenza che il giudice non sia «solo l’arbitro» ma «il garante del suo giusto risultato, cioè la realizzazione in concreto del diritto calpestato» [25].
Rispetto al richiamo alla prova, per quanto le S.U. ricalchino conclusioni già assunte in alcuni precedenti[26], la nettezza delle affermazioni fa della pronuncia un vero e proprio arresto culturale, in quanto, a distanza di ormai quasi trent’anni dalle riforme degli anni Novanta, viene posto un argine fermo rispetto ad ogni fondamentalismo formale.
Basti qui richiamare i passaggi in cui si fa riferimento ad un «rinnovato assetto valoriale che ha posto il giudice al centro dell’ordinamento processuale» finalizzato a «rompere il diaframma tra gli atti di causa e la realtà materiale», richiamandosi un «modello processuale che nel corrente assetto costituzionale appare saldamente orientato in modo da garantire il primario valore della giustizia della decisione», ribadendosi, con il richiamo agli artt. 24 e 111 Cost. nella loro coerenza con l’art. 6 C.E.D.U., che lo scopo del processo deve mirare ad una decisione sul merito e «per quanto più è possibile giusta»: con il che la convergenza rispetto in particolare al pensiero di Taruffo si fa anche verbale, visto che «verso la decisione giusta» è il titolo di uno dei suoi ultimissimi volumi.
Taruffo, attraverso un’analisi anche comparata cui qui – data l’articolazione della disamina - non ci può che limitare a rinviare, ha messo infatti in luce come i poteri del giudice siano fattore che, concorrendo con i poteri delle parti (dal canto loro naturalmente non interessate alla realtà effettiva, se non per quanto possa ad esse convenire) rende più probabile «che la verità venga accertata» [27].
Per non dire poi di come le formule del “dovevi fare, avresti dovuto fare; dovevi dire, avresti dovuto dire”, con cui ex post si traccia la regola del decidere nel crocevia tra fattispecie sostanziale e sua deduzione processuale, sono spesso – a dir poco - inappaganti [28].
E verrebbe anzi da pensare, in un’ancora maggiore apertura dello sguardo verso il fondamento costituzionale, se, al di là dell’art. 111 Cost., l’assetto non trovi radice ancor più profonda nei principi ultimi di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., intuitivamente estranei a soluzioni ultime fondate solo sul principio di autoresponsabilità e con l’effetto di beffardo allontanamento da quanto realmente accaduto che da esse può derivare [29].
7. Poteri istruttori officiosi e imparzialità.
Il contraltare di tale pensiero è quello fatto proprio da chi, nel valutare criticamente l’ampliamento dei poteri officiosi, ne sottolinea l’interferenza con il tema dell’imparzialità del giudice [30].
L’approfondimento del tema, sviluppatosi inizialmente nell’ambito del rito del lavoro, ha tentato di risolvere il dilemma ricercando metri di giudizio, secondo Giovanni Fabbrini da individuare nella necessità di evitare di definire la causa sulla base solo della regola di giudizio di cui all’art. 2697 c.c. [31], oltre che strumenti di controllo nell’uso o non uso di quei poteri, al fine di calibrarne l’esercizio secondo regole tali da assicurare che il loro esercizio non costituisca iniziativa (o inerzia) a favore di una parte [32] e la giurisprudenza si è impegnata a definirne i presupposti attraverso il binomio di una “semiplena probatio” emergente dagli atti e di una “pista probatoria” apparentemente tale da poter colmare il deficit conoscitivo riscontrato [33].
Si tratta tuttavia di criteri talora di difficile applicazione, ad esempio in quei casi, già menzionati (ispezione, acquisizione di informazioni o di documenti in possesso di terzi), in cui inevitabilmente l’attività istruttoria si muove su iniziative poco attingibili da un sindacato nella prospettiva ex ante e che possono al contempo comportare un accesso diretto a fatti storici.
È per questo che si è sopra ipotizzato che a governare la «miscela pericolosa» [34] che si realizza quando alle preclusioni per le parti si associno poteri del giudice non limitati, possa essere un percorso di controllo meno rigido e orientato sul recupero ex post del contraddittorio, con salvezza comunque dei fatti giudizialmente acquisiti al processo e minori effetti invalidanti.
Certo, l’interferenza dei poteri officiosi con l’imparzialità – va detto obiettivamente - non può essere esclusa, ma - altrettanto obiettivamente - essa va adeguatamente focalizzata.
Il rischio della c.d. precomprensione o di una valutazione partigiana è nelle cose di un processo che sia condotto da persone umane [35], una volta che il sistema non si articoli solo sulla base di prove legali, restando aperto quindi al libero convincimento ed una volta che, come è ineludibile, l’interpretazione giudiziale delle leggi sconti margini di discrezionalità e talora “creazione” normativa [36].
Tuttavia, a chi scrive, sembra altrettanto difficile contestare, anche sulla base dell’esperienza, che l’esercizio dei poteri officiosi, nella loro portata diffusa che si è sopra cercato di sottolineare enumerandoli, non sia realmente ragione di maggior avvicinamento dell’apprezzamento giudiziale a quella (che fu o che è) la realtà fattuale.
La scelta sembra allora porsi non tra sistemi che si contendano un sigillo di validità assoluta, ma di scelte del legislatore, anche perché l’art. 111, co. 2, Cost. richiede terzietà ed imparzialità, dettando principi da osservare nell’attuare il giusto processo di cui al comma 1, ma non può che rimettere alla legge, come appunto è nel comma 1, l’individuazione dei mezzi, tra i molti disponibili ed in concreto attuati (norme su astensione e ricusazione, regole ordinamentali etc.), su cui far leva e con quali dosaggi.
Insomma, non è detto che l’esercizio dei poteri istruttori sia segno in sé di parzialità e dunque individui un limite necessario alla loro esistenza [37], mentre è indubbia la loro utilità al fine di avvicinare la base fattuale del processo alla realtà materiale ed al pieno apprezzamento della fattispecie sostanziale.
D’altra parte, l’iniziativa giudiziale è comunque costruita, nella sua fisiologia, come una fase di riapertura della dialettica [38], sicché i due perni, potere officioso e contraddittorio, collaborano e non collidono, nella capacità conoscitiva propria del loro congiunto operare, verso il fine processuale.
Le scelte dell’ordinamento, inteso quale convergere dei suoi plurimi formanti, alla luce del progressivo espandersi dei poteri istruttori, del concretizzarsi giurisprudenziale di indirizzi dottrinali, secondo percorsi – anche della dinamica del processo – ora suggellati nel ragionamento delle S.U., sono state fatte; e sono state fatte, ad avviso di scrive e come già si è cercato di dire, del tutto in linea con l’inclinazione costituzionale. E ciò non sembra poco.
8. Alcune altre considerazioni sul “cammino” intrapreso.
Tuttavia, il ragionamento non può chiudersi così ed è necessaria qualche altra breve considerazione di tipo diverso.
Non può infatti negarsi che il contesto operativo del giudice civile non sia stato ottimale per un approccio come quello sotteso alla pronuncia qui in commento.
L’abito mentale indotto dal regime “per rinvii” del c.d. vecchio rito, tale per cui la conoscenza del fascicolo veniva acquisita solo al momento dell’ammissione delle prove e forse neppure allora, ma solo quando c’era da assumere una decisione di un qualche effettivo rilievo, non poteva essere superato dal sistema delle riforme secondo un regime di preclusioni, quale introdotto dagli anni novanta, perché anche in quell’ambito il giudice è stato chiamato, nella prima fase del processo, ad operare come dispensatore di termini per attività di parte, destinate a rendere ancor più complesso l’insieme cartaceo da esaminare prima di riuscire ad avere “in mano” la causa e ciò senza dimenticare la in tal senso parossistica e fortunatamente presto abbandonata esperienza – di poco successiva - del rito societario.
Forse non è un caso che, a fronte dell’andamento tra loro inerziale di tali pur diverse forme processuali, la maturazione di nuove idee sia seguita ad altre riforme, come quella introduttiva del rito sommario di cognizione, in cui il giudice è ab initio centrale nel processo, oltre che alla codificazione della regola del contraddittorio rispetto ai rilievi officiosi, vero perno di un sistema che si ispiri ad un dialogo dialettico non solo tra le parti, ma anche tra le parti ed il giudice.
Ostacoli primari alla centralità del giudice – non per luogo comune, ma perché tale è la realtà – sono poi costituiti dal carico dei ruoli e dalla sempre più diffusa esigenza di fare presto (la ragionevole durata, almeno agli inizi, in alcuni uffici ha realizzato, come conseguenza delle azioni, una pressione indiretta sull’operatività dei magistrati), inevitabilmente tali da rendere quasi naturale l’inclinazione a ricercare in insufficienze allegatorie percorsi facilitati di soluzione.
Ciò per dire che quel «prendere le distanze» delle S.U. dal regime preclusivo in quanto tale va anche reso comprensibile a chi abbia operato od operi nel contesto giudiziale e di fatto sopra brevemente delineato.
L’indirizzo va allora visto come uno tra i momenti di un passaggio evolutivo possibile, ma che per realizzarsi deve andare di pari passo con un complessivo sviluppo.
Si può allora intanto pensare che l’ufficio del processo, specie in primo grado, possa servire (essendo tra l’altro ben difficile ipotizzare, nei nuovi addetti, l’esistenza di professionalità già mature ed immediatamente fruibili per agevolare direttamente la fase decisoria e motivazionale, se non per cause del tutto seriali) proprio a curare l’accesso iniziale del giudice nella causa ed al diffuso definirsi di una tale attitudine.
Essendo evidente – almeno a chi scrive – che le dinamiche cognitive sopra descritte hanno possibilità proporzionalmente maggiori di realizzarsi davvero, quanto più siano proprie già del giudizio di primo grado, mentre i rischi di una loro vanificazione aumentano fisiologicamente mano a mano che si salga verso i gradi superiori, quale inevitabile effetto dei rischi impugnatori.
Qualche ulteriore elemento di conforto è poi dato dalla capacità del rito, se debitamente direzionato, come può accadere per effetto di pronunce come quella in esame, di svolgere effettivamente una funzione evolutiva.
Infatti, quella centralità, mancante nel rito ordinario, si è invece sempre avuta nel procedimento cautelare, nel rito sommario e negli altri riti, come ad es. quello locatizio o dell’opposizione alle sanzioni amministrative, in cui la costruzione è stata declinata lungo l’asse diretto, non intermediato da incombenti allegatori mediani, domanda-risposta-decisione.
O come si è avuto nel rito del lavoro [39], almeno nelle versioni applicative di esso meno legate al solo snodo delle preclusioni e più aperte all’intervento istruttorio giudiziale. Ma qui l’approfondimento non è possibile [40].
Quello che si vuol dire è che la giustizia della decisione è fenomeno laborioso e composito.
Le S.U. hanno dato una direzione e si sono avviate lungo quel “cammino”, ma evidentemente molto – e non tutto è scontato – va ancora fatto e costruito.
[1] Cass. 10 dicembre 2019, n. 32265.
[2] v., anche, Cass. 14 aprile 2021, n. 9823.
[3] v., Cass. 23 novembre 2020, n. 26597.
[4] M. Taruffo, Verso la decisione giusta, Milano, 2019, 205 ss. .
[5] M. Cappelletti, La testimonianza della parte nel sistema dell’oralità, I, Milano, 1962, 340 ss.
[6] Il secondo esempio è tratto d L. Dittrich, Le prove nel processo civile e arbitrale, Milano, 2021, 94.
[7] M. Taruffo, Poteri del giudice, art. 115 c.p.c., Bologna, 2011, 464
[8] G. Finocchiaro, Nullità assoluta della c.t.u. solo se accerta fatti costitutivi diversi da quelli dedotti dall’attore, in www.quotidianogiuridico.it, 10 marzo 2022.
[9] Cass. 21 ottobre 2019, n. 26764.
[10] M. Cappelletti, La testimonianza della parte nel sistema dell’oralità, I, Milano, 1962, 340 ss.
[11] Cass. 16 ottobre 2020, n. 22591; Cass. 23 settembre 2019, n. 23565; Cass. 23 agosto 2019, n. 21641; Cass. 4 marzo 2003, n. 3192.
[12] Cass. 12 maggio 2020, n. 22591 in tema di protezione internazionale.
[13] D. Buoncristiani, L’allegazione dei fatti nel processo civile, Torino, 2001, 88, 133.
[14] La citazione è tratta dalla massima di Cass. 3192/2003, cit.. In dottrina, in tal senso, S. Menchini, Osservazioni critiche sul c.d. onere di allegazione dei fatti giuridici nel processo civile, in Scritti in onore di Elio Fazzalari, Milano 1993, III, 23 ss.
[15] D. Buoncristiani, L’allegazione dei fatti, cit., 88 e, soprattutto, 118.
[16] L. Dittrich, Le prove nel processo civile, op. loc. cit. .
[17] L. Dittrich, Le prove nel processo civile, cit., 92.
[18] L. Dittrich, Le prove nel processo civile, ibidem.
[19] v. già, Cass., S.U., 7 maggio 2013, n. 10531.
[20] Regola analoga a quella dell’art. 183, co. 6, c.p.c., si ritiene esistente anche nel rito del lavoro, in caso di ammissione officiosa di mezzi di prova: v. Cass. 6 settembre 2021, n. 24024.
[21] D. Buoncristiani, L’allegazione dei fatti, cit., 240 e 243.
[22] Cass. 10 settembre 2019, n. 22628.
[23] Principalmente, v. M. Taruffo, Verso la decisione giusta, cit.
[24] A. Manna, Le prove: valutazione e criticità, scritto per la Scuola Superiore della Magistratura, Struttura Territoriale di Formazione di Trieste, 2017.
[25] R. Braccialini, Garanti o no del risultato sostanziale? spunti tardivi sul giusto processo, in Questione giustizia, 2005, n. 6, 1208 ss, qui in particolare, 1212.
[26] In tema di c.t.u., v. Cass. 30 luglio 2021, n. 21926; Cass. 11 gennaio 2017, n. 512; Cass. 28 agosto 2013, n. 19816; Cass. 21 agosto 2012, n. n. 14577.
[27] Così, M. Taruffo, Art. 115, cit., 476.
[28] Analoga propensione sembra espressa, pur se rispetto ad un contesto ed a ad una tematica diversi, da chi (B. Capponi, Il formalismo in cassazione, in questa Rivista, 2021) significativamente aggancia il giusto processo alla certa prevedibilità ex ante delle regole sul decidere.
[29] Per un’analisi storico-comparata dei diversi sistemi, con individuazione, oltre ai due estremi del processo autoritario e del processo individualista, di forme di processo “collettive” o comunque intermedie, v. M, Cappelletti, Processo e ideologie, Bologna, 1969, passim, 212.
[30] v. E.T. Liebman, Fondamento del principio dispositivo, in Riv., dir. proc., 1960, 555. V. comunque la completa ricostruzione dell’intera tematica in E. Fabiani, I poteri istruttori del giudice civile, Napoli-Roma, 2008.
[31] G. Fabbrini, Potere del giudice (dir. proc. civ)., in Enc., dir., XXXIV, Milano, 724.
[32] G. Fabbrini, Potere del giudice, cit., 736 ss.; ma anche E. Fabiani, I poteri, cit., 711 e, più di recente, M. Fabiani, Garanzia di terzietà e imparzialità del giudice ed efficienza del processo, in www.judicium.it, 2011.
[33] La giurisprudenza del lavoro ha tentato un meritorio approccio in tal senso, affermando l’inutilizzabilità di documenti acquisiti solo in secondo grado senza alcun preesistente sostegno di elementi fattuali già esistenti in causa (v. ad es. Cass. 15 maggio 2018, n. 11845) o al contrario ha imposto l’esercizio di poteri istruttori non utilizzati nonostante la semiplena probatio e la pista istruttoria (v. ad es. Cass. 8 novembre 1991, n. 11915).
[34] G. Fabbrini, Potere del giudice, cit., 734.
[35] In proposito, v. C. V. Giabardo, Il giudice e l’algoritmo (in difesa dell’umanità del giudicare), in questa Rivista, 2020, anche per gli spunti sulla capacità evolutiva del giudicare “umano”.
[36] Sul tema, v. R. Guastini, Interpretare e argomentare, Milano, 211, 329 ss, in specie, 337 ss.
[37] secondo S. Chiarloni, Il nuovo art. 111 Cost. ed il processo civile, in Il nuovo articolo 111 della Costituzione e il giusto processo civile, a cura di M. G. Civinini e C. M. Verardi, Quaderni di Questione Giustizia, 2001, 32, Bologna, il potere officioso di ammettere prove non avrebbe nulla a che fare con i principi di imparzialità e terzietà, citando altresì la positiva esperienza sul punto del processo del lavoro. Non diversamente, E. Fabiani, I poteri istruttori, cit., 714.
[38] Sulla dialettica come mezzo di ricerca della verità, v., tra i molti, L. P. Comoglio, Questioni rilevabili d'ufficio e contraddittorio, 3.1, in Libro dell'anno del Diritto 2012, www.treccani.it.
[39] Per una sintesi storica recente sulla dialettica tra efficienza e tutela dei diritti nel rito del lavoro, v. L. de Angelis, Sguardo su effettività dei diritti e deflazione delle controversie di lavoro, in Labor, 2016, 85, ss.
[40] Si elencano, in ordine sparso e senza pretesa di completezza, nella giurisprudenza tra gli anni novanta e gli anni duemila, Cass. 13 luglio 2009, n. 16337 (sul rilievo del silenzio della controparte rispetto alle produzioni tardive); Cass. 21 agosto 2006, n. 18206 (sul senso della dialettica delle parti rispetto alle nuove prove addotte dall’attore dopo gli atti introduttivi); Cass. 19 febbraio 2009, n. 4080 (sulle produzioni integrative in appello); Cass. 2 giugno 1998, n. 5413 (sull’indicazione successiva del nominativo dei testimoni); Cass. 22 luglio 2004, n. 13753 (sull’irrilevanza della capitolazione della prova orale).
Guerre ataviche con mezzi moderni di Maria Teresa Covatta
Sommario: 1. L’Ucraina, la guerra atavica con mezzi moderni in Europa - 2. Gli altri conflitti e le crisi protratte - 3. La crisi dei diritti - 4. La crisi dell’ONU.
1. L’Ucraina, la guerra atavica con mezzi moderni in Europa
L’espressione è risalente e non stata coniata per l’Ucraina ma si adatta perfettamente a questo conflitto.
Il ruolo dei media non è mai stato così potente come nella guerra in corso, sotto plurimi profili, tanto che non a caso si parla di Inforwar.
L’opinione pubblica è stata quotidianamente informata ricevendo ad horas reportage e immagini che hanno portato l’invasione, il conflitto e le sue devastanti conseguenze umanitarie nelle case di tutto il mondo
Non si hanno evidenze specifiche sulle reazioni di oltre oceano, anche se giornalisti e opinionisti di stanza negli USA riferiscono che , al di là dell'informazione circa gli atti politici, dagli aiuti in armi a quelli di natura economica, la percezione comune è quella di una guerra lontana, mentre è evidente, invece, che in Europa il ruolo giocato dall’informazione è stato fondamentale anche per avallare le scelte politiche, economiche e umanitarie sia nazionali che dell’Unione in favore dell’Ucraina.
L’altro profilo non meno importante è che la raccolta massiva e costante di informazioni, dati e immagini ha rappresentato certamente un input di rilievo per l’avvio della procedura per crimini di guerra presso la Corte penale internazionale e, al di là delle prove acquisite direttamente sul posto dalla procura Generale della Corte nel corso della missione del 18 marzo in Ucraina, costituirà inevitabilmente materiale da utilizzare per il proseguimento e lo sviluppo della futura procedura.
Ma c’è un terzo aspetto che sottolinea l’importanza dell’informazione in questo conflitto: ed è il ruolo assegnato alla disinformazione.
Le testate giornalistiche indipendenti russe sono state fatte tacere .
A circa due settimane dall’inizio del conflitto la notizia della chiusura anche delle ultime due emittenti considerate libere, la radiofonica Radio Eco di Mosca e la TV satellitare Dozhd : ciò a seguito della decisione della Duma che ha approvato all’unanimità (!) un disegno di legge che prevede fino a15 anni di carcere per chi comunica “informazioni false” tra cui accuse all’esercito della Federazione di colpire i civili, violando il diritto umanitario, e notizie circa il numero dei soldati russi colpiti.
Anche le testate giornalistiche estere sono state costrette ad abbandonare la Russia, lasciandoci, come ultime immagini espressione di libertà, la protesta delle "Mamme dei Soldati di San Pietroburgo" (è il nome di una ONG che opera nel campo dei diritti umani in Russia), incarcerate mentre, al suono dei telefonini, cantano Zombie dei Cramberries come inno contro tutte le guerre.
Alle altre fonti di informazione lasciate “libere” di trasmettere sono state assegnate norme di linguaggio tassative da utilizzare, pena gravi sanzioni anche detentive in caso di violazione. Non c’è guerra, non c’è invasione, non c’è resistenza ucraina.
Persino l’incrociatore russo Moskva affondato a largo tra Odessa e Sebastopoli non è stato colpito da un missile di ultimissima generazione, pare addirittura sviluppato nel 2021, come riferiscono fonti Ucraine avallate da fonti USA, ma è andato a picco per effetto di un incendio sviluppatosi casualmente a bordo: notizia questa che dichiara con tutta evidenza che pur di negare il conflitto, la resistenza del “nemico” e le sue vittorie, si preferisce addossarne la responsabilità alla propria produzione navale e all’equipaggio.
E infine i social. Come riportato dall’agenzia russa Interfax, rilanciata da tutte le agenzie del mondo, il 14 marzo, al nono giorno del conflitto russo ucraino l’ente regolatore delle Telecomunicazioni in Russia, la Roskomnadzor, ha disposto il blocco di Twitter, Facebooke e Instagram nel Paese per il loro coinvolgimento in “attività estremistiche”, a causa della decisione della casa madre META di non inibire i contenuti contro i militari russi.
Il blocco è stato poi confermato da una sentenza del Tribunale di Mosca che ha accolto in tal senso una richiesta presentata dal procuratore generale
Milioni di russi sono stati quindi esclusi da quel tipo di informazione di massa, altrimenti inarrestabile. Così afferma Nick Clegg presidente del Global Affairs META sotto il cui cappello sono Instagram, Whathapp e Messenger: “I cittadini russi si troveranno tagliati fuori da informazioni attendibili, privati dalle loro modalità quotidiana di connettersi con famiglie e amici, di esprimersi in maniera sicura e anche di mobilitarsi”.
Ma forse il risultato di questa guerra di disinformazione nella guerra è che molti commentatori ritengono che gran parte dei russi si sono stretti intorno al loro presidente e hanno rafforzato la spinta nazionalista in atto, aumentata anche dalla difesa della "operazione militare" in Ucraina da parte del Patriarca russo-ortodosso Kirill, che in plurime dichiarazioni la definisce una guerra necessaria in nome della pace.
Non tutti, evidentemente, se l’Avvenire informa che l’emittente vaticana Radio Maria funge da “Radio Londra”, consentendo, quando è possibile, la connessione anche in Russia
La Infowar, infine, ha coinvolto anche l’Ucraina e l’UE che hanno stabilito restrizioni a quelle testate giornalistiche russe di stanza sul loro territorio considerate megafono del Cremlino.
Oltre alle armi di ultima e di ultimissima generazione ( recente la notizia della minaccia da parte russa di utilizzare missili con gittata di 18 mila Km), tra i mezzi moderni sono senz'altro gli attacchi cibernetici che si sono susseguiti e probabilmente si susseguono tutt’ora, atti a colpire punti nevralgici delle parti in conflitto .
La cosiddetta Cyber Army, l’armata di cyber legionari volontari mobilitati dall’Ucraina, si è fatta carico di veicolare messaggi contro la guerra alla popolazione russa privata degli usuali mezzi di informazione nonché di mettere in atto specifici attacchi a server strategici (banche russe, siti amministrativi e alla stessa Gazprom) “bombardandoli” fino al punto di renderli inutilizzabili almeno per qualche tempo.
Assoluta novità è l'utilizzo, da parte dell'Ucraina, di start-up (la più importante è il Gruppo HacKen) con il compito di indirizzare, strutturare e fornire assistenza tecnica ai legionari, una specie di Ground Control degli attacchi cibernetici.
Meno moderne, ma solo perché già sperimentate all'epoca della guerra fredda, le minacce di far uso di armi batteriologiche, chimiche e nucleari non meno di peso, oggi e in futuro, per le sorti di questa guerra e per i timori che suscita.
Detto questo non c’è dubbio che il conflitto ucraino resti una guerra “atavica” così come tante altre in corso attualmente nel mondo.
Sono stati messi in campo tutti i mezzi antichi, da sempre sperimentati per agire un conflitto, prima di tutti l'uso della forza e l’invasione di un altro territorio sovrano; ma anche l'ammantare appetiti geopolitici con la veste di interessi superiori o pretesi diritti nazionalistici; e ancora la violazione sistematica del diritto umanitario mediante l’uccisione di civili, le deportazioni forzate, l’inibizione dei corridoi umanitari e, come sembrano evidenziare le più recenti notizie e le immagini a corredo, la tortura e lo stupro di guerra.
Immagini crude riportate dai giornalisti che sono riusciti ad arrivare sul posto mostrano evidenze di abusi, massacri di civili i cui corpi sono stati abbandonati per strada,violenze e camere della tortura difficilmente liquidabili, come vorrebbe Mosca, come una montatura organizzata da Kiev con foto truccate o come una messa in scena provocatoria per interrompere i colloqui di pace.
Si registrano da più fonti le notizie di intere famiglie, tra cui, sembra, 5 mila bambini, deportate in Russia, ai confini con la Siberia; o quelle del blocco di corridoi umanitari perpetrate di fatto semplicemente non consentendo ai civili di mettersi in salvo allontanandosi dalle zone più attinte dai bombardamenti.
E da più fonti arriva la notizia che si era sempre temuta: lo stupro come arma da guerra. Varie testate giornalistiche, tra cui anche l’italiana Corriere della sera hanno raccolto vari j’accuse in tal senso. La vicepremier ucraina Olga Stefanishyna denuncia i vari episodi verificatisi in tutti territori di guerra e ne raccoglie le testimonianze. Gli stupri di guerra in Ucraina non sono una novità per il Paese: a questo proposito già la Corte penale internazionale aveva aperto un’inchiesta sulle violenze sessuali commesse in danno dei civili catturati nel Donbass,durante le operazioni che hanno accompagnato l’invasione della Crimea nel 2014.
La preoccupazione principale è quella dell’esposizione alle violenze di genere denunciate anche in un comunicato delle Nazioni Unite laddove si stigmatizza il timore che la situazione attuale possa molto concretamente mettere repentaglio la sicurezza di tutti gli ucraini e in particolare delle donne . Il rischio del dilagare degli stupri di guerra è, in questo caso come sempre, estremamente concreto, specialmente per i gruppi più vulnerabili poiché più esposti quali le combattenti volontarie e le giornaliste.
La violenza sessuale viene usata come vera e propria arma per punire i dissidenti, per rappresaglia contro la popolazione ma più in generale per ribadire la conquista del territorio sotto ogni punto di vista .
Lo stupro di guerra rende il corpo delle donne un oggetto a disposizione dei soldati la cui proprietà viene sancita dalla guerra stessa e in alcuni casi sfruttato come strumento di pulizia etnica o genocidio. Ed è un fenomeno che ritroviamo in tutte le guerre, del passato e del presente, tanto più efferato se coinvolge minori, sia come vittime che come spettatori.
Se non vi è alcun dubbio che queste condotte integrino crimini di guerra e gravi violazioni del diritto umanitario sembra più difficile ravvisare nei fatti di cui finora si è a conoscenza il crimine di genocidio ormai divenuto usuale nella terminologia mediatica che lo riconduce al concetto di crimine efferato.
In realtà il termine , coniato in relazione allo sterminio degli Ebrei, è stato codificato nel 1948 dalle Nazioni Unite che, in una apposita Convenzione per la prevenzione e la repressione del genocidio, lo riferirono a omicidi, lesioni fisiche o mentali a membri di un gruppo perseguitato, all'inflizione di misure di morte lenta tali da determinare la distruzione del gruppo, per esempio privandolo di adeguati alimenti, assistenza medica o alle misure intese a impedire la riproduzione del gruppo come la sterilizzazione, le mutilazioni sessuali, la segregazione sessuale e gli stupri per alterare la composizione etnica del gruppo, nonché al trasferimento forzato di bambini ad altri gruppi, tutto con l'intento accertato di distruggere il gruppo in tutto o in parte.
Senz'altro le Nazioni Unite avevano presente, oltre all'Olocausto, anche altri episodi connotati da tali caratteristiche, in cui comunque era manifesto l'intento di annientare una intera popolazione o una gran parte di essa .
Secondo molti storici, tra questi anche quello che ebbe protagonisti la Russia di Stalin e i contadini ucraini nel 1934, allorché il primo, utilizzando a suo favore il crollo della produzione del grano, aumentò le requisizioni dei cereali e della sementi necessarie per la semina successiva, proibì ai contadini di lasciare il Paese e causò la morte per fame di circa 4 milioni di ucraini, con l'obiettivo di colpire popolazioni considerate inaffidabili e potenzialmente pericolose.
Come dire: la storia si ripete.
Detto questo, le valutazioni circa l'applicazione del crimine di genocidio ai fatti in corso, a prescindere dalle responsabilità individuali per i crimini di guerra che sono di competenza della Corte Penale Internazionale, spetteranno alla Corte Internazionale di Giustizia, in base all'art 9 della Convenzione del 1948 secondo cui competono alla Corte le controversie fra le parti contraenti relative all'interpretazione e applicazione della Convenzione, compreso l'accertamento della responsabilità degli Stati per il crimine di genocidio.
Il ricorso alla Corte, preannunciato dal presidente ucraino con un tweet (mezzi moderni!) consiste nella richiesta di accertare che in Ucraina non sia mai stato posto in essere un genocidio nei confronti delle minoranze russofone del Donbass con conseguente insussistenza delle ragioni di diritto asseritamente poste dalla Russia a sostegno dell'invasione.
2. Gli altri conflitti e le “crisi protratte”
L’impossibilità della Russia di Putin di "tornare indietro" e l’impossibilità per l’Ucraina di cedere la sua libertà e la sua integrità territoriale rischiano fortemente di trasformare la situazione ora in atto in una delle tante crisi protratte che si registrano nel mondo o, come si comincia a prospettare a seguito della possibilità di accordi a soluzione prolungata nel tempo, in una “guerra a bassa intensità”.
Senza azzardare scenari al momento imprevedibili, molti opinionisti ritengono che entrambe le soluzioni non sarebbero felici.
Si parla di crisi umanitaria quando la vita di intere popolazioni è messa pericolo da eventi causati dalla natura o dall'uomo.
Per crisi protratta si intende invece la situazione in cui i bisogni estremi, improcrastinabili e diffusi cagionati da un evento critico, sono protratti nel tempo, trasformando l’aiuto umanitario tipico, che è volto direttamente alla popolazione ed è fortemente concentrato sull’immediata soddisfazione dei bisogni umanitari di base (salvare la vita, fornire cibo, acqua e protezione, ripristinare rapidamente i servizi primari) in una sorta di dipendenza umanitaria, prolungata nel tempo, anche per lunghi periodi, che comporta uno sforzo internazionale non indifferente anche sotto il profilo delle risorse economiche e di capitale umano.
Facile comprendere cosa possa comportare una simile situazione nel caso dell’Ucraina, con i suoi 5 milioni di profughi, che diventano 12 se si contano i profughi interni e il Paese distrutto.
L’ipotesi della guerra a bassa intensità non sarebbe meglio. Con questa espressione (LIC-Low Intensity Conflict) si intende infatti una situazione conflittuale permanente e irrisolta in cui l’uso della forza è applicata selettivamente e in modo limitato, con dispiegamento di truppe o anche con risorse diverse dalla guerra, che si concreta in sollecitazioni continue e comunque sempre in situazioni a rischio di esplosione.
Il Global Conflicts Tracking, nel 2021, ha classificato ben 27 situazioni di crisi protratte causate da instabilità (ad esempio l’instabilità politica in Libia o la situazione della Nigeria, crocevia di traffici illeciti e attentati terroristici ), o da conflitti che proseguono da anni (ad esempio in Siria, lo Yemen, il Sud Sudan, la Repubblica Centro Africana, solo per citarne alcuni); o da guerre civili (quale quella che ha travolto il Myanmar, l'ex Birmania, con la presa di potere dei militari) e guerre a bassa intensità quale quella israelo-palestinese .
Se aggiorniamo l’elenco con la situazione determinatasi in Afghanistan e ora in Ucraina, ben si comprende che gli interventi di emergenza umanitaria si sono necessariamente sovrapposti agli interventi di aiuto allo sviluppo, i quali cercano soluzioni a lungo termine finalizzate a trasformare le società e a affrontare e risolvere stabilmente le cause che hanno dato luogo alle crisi; e si comprende altresì cosa significhi questo, in generale, rispetto al raggiungimento degli obiettivi dell’Agenda 2030, che si allontano a dismisura.
Ma le crisi protratte hanno anche un’altra caratteristica e cioè che possono facilmente destabilizzare intere regioni alle quali, per contiguità territoriale, necessariamente si propalano. Queste evenienze, per noi fin ora lontane anche se relativamente vicine- si pensi all’Africa e al Sahel- ci coinvolgono direttamente poiché nel caso della crisi Ucraina il territorio contiguo è l’Europa.
3. La crisi dei Diritti
La tutela dei diritti umani è affidata, com’è noto, in primis agli Stati Nazionali i quali dovrebbero provvedere al riconoscimento di tali diritti fondamentali all’interno delle Costituzioni e leggi e prevedere allo stesso modo strumenti validi di tutela in caso di violazioni, coerentemente a quanto sancito dal principio generale di sussidiarietà.
E tuttavia il diverso valore assegnato ancora oggi ai diritti fondamentali dalle diverse culture e società nei diversi luoghi del mondo ha reso evidente l’importanza di una disciplina internazionale volta a indicare in maniera globale e uniforme le procedure a tutela e difesa dei diritti umani.
Questo è stato ed è la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, dapprima codice etico con valore non vincolante, ora parte integrante del diritto consuetudinario internazionale per il tramite delle successive convenzioni con valore vincolante per gli Stati sottoscrittori, con previsione anche di strumenti di tutela giuridicamente codificate dal diritto internazionale.
La previsione teorica, però, non ha trovato la stessa applicazione ovunque.
Già prima dell’inizio del conflitto attuale la prospettiva umanitaria in Russia non era delle migliori. Secondo i dati di Amnesty International erano già gravemente limitati il diritto alla libera manifestazione del pensiero, la libertà di riunione, salvo che per gli eventi di massa filogovernativi, le manifestazioni pacifiche a sostegno dell'opposizione, gli arresti illegali seguiti da trattamenti degradanti, disumani, e persino dalla tortura, la persecuzione contro le persone Lgbti, sostenuta da una legislazione omofoba; e infine la deliberata impunità assicurata ai reati commessi contro i sostenitori dei diritti umani e i giornalisti non allineati (si pensi all'uccisione della giornalista investigativa Anna Politkovskaja), condannati anche da pronunce della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo.
I casi denunciati da Amnesty sono centinaia. Uno per tutti, la nota vicenda del leader dell'opposizione Aleksey Naval'nyi, condannato ripetutamente per le manifestazioni pacifiche poste in essere contro il "sistema Putin" e non liberato neppure dopo che la CEDU ne aveva ordinato il rilascio immediato per la sua sicurezza fisica.
A causa di tutto questo la Russia era già classificata dagli indicatori internazionali come uno Stato Fragile sotto il profilo della tutela dei diritti. Ora l’invasione dell’Ucraina, i divieti di qualunque forma di manifestazione di protesta, la repressione dei media di cui si è detto e la generale opera di disinformazione, anche dal punto di vista puramente linguistico, hanno confermato enfaticamente la posizione della Russia sotto tale aspetto
Attualmente lo spettro delle violazioni si è ampliata a dismisura entrando nel campo delle previsioni del Diritto Internazionale e del Diritto Internazionale Umanitario.
Cominciamo da quest’ultimo.
La tutela dei diritti umani in situazioni di conflitto è affidata al diritto internazionale umanitario (DIU) o diritto dei conflitti armati o diritto internazionale bellico che si applica unicamente ai conflitti armati, con la doppia funzione di disciplinare la conduzione delle ostilità e proteggere le vittime.
Il DIU non si occupa della liceità dei conflitti che è invece regolata dallo statuto dell’ONU e si basa sui principi elaborati durante le due Conferenze internazionali dell’Aja del 1988 e del 1907 (diritto dell’Aja) contenenti regole limitative riguardo ai mezzi e metodi di guerra e sulle armi utilizzate. Anche le violazioni del DIU, tra cui quelle registrate nel corso del conflitto Ucraino di cui si è detto, possono sfociare in crimini contro l’umanità i cui autori, a certe condizioni, potrebbero rispondere dinanzi alla Corte penale internazionale o dinanzi a corti speciali appositamente istituite (quali il Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda o quello per la ex Yugoslavia)
Quanto alle violazioni del Diritto Internazionale, mai come nel caso della crisi ucraina si è parlato di ”diritto internazionale piegato alla politica”, oltre che, naturalmente, di violazione palesi delle norme di diritto.
L’espressione è utilizzata in un articolo pubblicato sul numero 2/2022 di Limes, dove Rosario Aitala e Fulvio Palombino spiegano in questo modo le argomentazioni “giuridiche” di Putin volte a ricondurre l’invasione sotto l’ombrello del diritto : “non ci è stata lasciata altra scelta.. se non quella che siamo costretti a fare”. Insomma l’invasione spiegata dall’invasore sotto la lente del diritto internazionale e in particolare proprio in relazione all’applicazione dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite
L’articolo 51 della Carta indica nella legittima difesa l’unica eccezione al divieto tassativo dell’uso della forza sancito dall’art 2 il quale prevede che gli Stati “ si asterranno nelle proprie relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato ovvero in modo comunque incompatibile con le finalità delle Nazioni Unite”
Del pari inaccettabile, a fronte del principio, la tesi dell’uso preventivo della forza, inammissibile secondo gli studiosi, contrastato dalla stessa Russia nel contesto della crisi irachena del 2003 e comunque neppure ravvisabile nei fatti nel caso dell’Ucraina, che non stava né realizzando né meditando alcun attacco armato che richiedesse di essere prevenuto.
E dunque non sembra che ci possano essere dubbi che ordinando l'aggressione dell'Ucraina il presidente russo abbia violato i principi del diritto internazionale sotto il profilo della sovranità degli Stati, il principio dell'autodeterminazione dei popoli, l'obbligo di risolvere le controversie in modo pacifico e il dovere di astersi dall'uso della forza nonché il divieto di interferire nelle competenze di altri Stati.
Ha violato, inoltre, accordi multilaterali sottoscritti anche dalla Russia come quelli istitutivi del Consiglio d'Europa e dell'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE) e accordi bilaterali sottoscritti con la stessa Ucraina.
Tutto ciò ha fondato le risoluzioni del Parlamento Europeo del 28 febbraio e dell'Assemblea Generale dell'ONU del 2 marzo, di condanna dell'invasione, sorrette entrambe da maggioranze mai raggiunte.
Condanne cui hanno fatto seguito le sanzioni comminate dalla Commissione, nonché, sotto il profilo del Diritto Internazionale Umanitario, un pacchetto di misure volte a garantire l'attraversamento delle frontiere da parte dei profughi e la loro protezione temporanea.
Tutte le violazioni del diritto internazionale unitamente alle violazioni del Diritto Internazionale umanitario perpetrate con i crimini di guerra ai danni dei civili, di cui si è detto, hanno consentito di affermare che attualmente “la Federazione Russa è uno Stato fuori legge”.
La considerazione che Stati sovrani possano deliberatamente porre in essere azioni in palese violazione del diritto, anche quando influiscono pesantemente sul diritto dei popoli, senza neppure piegarsi alle negoziazioni diplomatiche o non rispettandone gli esiti, legittima l'idea che il diritto internazionale sia in difficoltà e che tali difficoltà si configurino soprattutto come crisi di responsabilità, intesa come negazione della riconducibilità effettiva dell'azione alle regole imposte dal diritto stesso e già volontariamente accettate.
Complica il quadro la presenza di cosiddetti ANS , gli attori in conflitto non statali, forze combattenti cui è difficile ricondurre la responsabilità sotto il profilo delle violazioni del diritto internazionale e del DIU poiché non riconducibili sotto la categoria dei soggetti internazionali. E anzi questi gruppi sono utilizzati dagli Stati proprio al fine di sottrarsi alla propria responsabilità, posto che non sono ad essi riconducibili "fino a prova contraria"
Così è stato per il Gruppo Wagner , la compagnia militare la cui azione in Siria, a sostegno di Assad , in Libia, nella Repubblica Centro Africana, o anche in Ucraina, è considerata riconducibile alla Russia di Putin che tuttavia ha sempre negato qualsiasi collegamento. Oppure, per l'Ucraina, l'ormai famoso battaglione Azov, ora però "statalizzato" perché integrato nell'esercito ucraino.
4. La crisi dell’ONU
Da tempo si parla della crisi dell’ONU , correlata al rimprovero di scarso intervento in tutte le maggiori crisi degli ultimi decenni nelle quali le Nazioni Unite, non “toccando palla” avrebbero mostrato la loro assenza e la loro ormai endemica impotenza.
La critica di essere un carrozzone che brucia inutilmente miliardi di dollari ogni anno si è acuita a seguito della crisi afgana dove l’ONU avrebbe mostrato di non essere in grado di affrontare l’emergenza ( così come invece auspicato dal Presidente del consiglio Draghi al vertice G20 Afghanistan) né svolgendo un ruolo diretto né attraverso un mandato congiunto degli Stati per il coordinamento delle risposte alla grave crisi umanitaria del Paese
Sembra dunque che il diritto internazionale della pace abbia fatto pochi passi nei quasi 80 anni trascorsi dalla Seconda Guerra Mondiale. La Comunità internazionale è meno disunita ma ancora incapace di far diventare realtà le norme di pacifica coesistenza tra popoli dettate dalla ragione.
Sotto un profilo storico, sebbene l'ONU abbia occupato un posto più centrale nel sistema della governance dopo la Guerra Fredda, non ha tuttavia subito una effettiva trasformazione parallela al sistema internazionale.
I mutamenti geopolitici, economici, sociali e le mutate esigenze di sicurezza hanno reso sempre più evidente le disfunzioni delle Nazioni Unite che oggi affrontano una crisi profonda che pone una sfida diretta alla filosofia dell'Organizzazione e ne mette in discussione la stessa legittimazione.
Prima causa di questa crisi il fatto che l'ONU continua ad essere consegnata a una struttura a cinque, i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza che non combacia più con il sistema internazionale multipolare e che lo costringono a decisioni incoerenti con la natura e rilevanza delle crisi.
Infatti, alla generale perdita di potere del multilateralismo, a fronte di Stati sempre meno disposti a cedere anche una minima parte della propria sovranità, si affianca l’ormai nota paralisi del consiglio di Sicurezza impossibilitato ad adottare una risoluzione di condanna dell’invasione dell’Ucraina per effetto dell’esercizio del diritto di vero da parte dello stesso Stato accusato dall’invasione. Anche le pronunce dell’Assemblea Generale restano di restare prive di effetti concreti, poiché l’organo è privo di poteri vincolanti e assume decisioni solo di carattere politico.
La vicenda Ucraina rende evidente ancora una volta di più che l’inazione del Consiglio di Sicurezza, che avrebbe, in teoria, gli strumenti necessari per intervenire e promuovere la pace e la sicurezza internazionali e che invece è paralizzato dal diritto di veto, è prova di un pericoloso deficit di democrazia e rende ormai non rinviabile la riforma delle Nazioni Unite salvo condannarle (cito ancora l’articolo di Limes) alla “irrilevanza davanti alla storia”.
L'intervento del presidente Zelensky proprio al Consiglio di Sicurezza, il suo atto d'accusa e la richiesta di espellere la Russia dal consesso, segnala all'evidenza il fallimento e l'ingabbiamento del sistema, specialmente allorché, come nel caso dell'Ucraina, è connesso proprio ad un membro del Consiglio stesso dotato di potere di veto, in palese conflitto di interesse.
La Spada Spirituale e la Spada Temporale: due visioni protestanti della guerra a confronto
di Tommaso Manzon
Sommario: 1. Introduzione - 2. Due tradizioni - 3. Conclusione.
1. Introduzione
Lo scopo di questo breve contributo è quello di fornire una panoramica della prospettiva protestante/evangelica di fronte alla guerra. La materia di per sé sarebbe vastissima, pertanto ci si concentrerà su due tradizioni di pensiero, prese nella forma in cui esse si sono presentate proprio all’epoca della Riforma protestante del XVI secolo[1]. Per potersi però avvicinare al tema, è necessario compiere alcune precisazioni, che potrebbero risultare superflue per alcuni ma che ciononostante non si possono dare per scontate.
Innanzitutto, è bene specificare come non vi sia una chiesa evangelica. Perlomeno, essa non esiste allo stesso modo in cui esiste una Chiesa Romano-Cattolica raccolta sotto il Vescovo di Roma e una Chiesa Ortodossa raccolta attorno al Patriarca Ecumenico di Costantinopoli. Gli evangelici affermano con i grandi Credi della Chiesa Universale che l’Assemblea di Cristo è spiritualmente una attraverso il tempo e lo spazio; essi però non hanno mai sostenuto che una tale unità dovesse per forza tradursi in rapporti istituzionali stabili, i quali legassero tra loro le diverse comunità ecclesiastiche. Questo non nega che le diverse chiese protestanti siano spesso unite tra loro da legami organizzativi a livello locale, internazionale e mondiale. Tali rapporti si sviluppano sia a partire dalla comune appartenenza a una delle tante tradizioni componenti la famiglia evangelica, sia in maniera trasversale in base a certe sensibilità condivise che intersecano le singole storie dei vari filoni protestanti.
Per fare un esempio concreto, la comunità di cui faccio parte è legata a un’unione nazionale di chiese appartenenti alla stessa denominazione (quella battista). A sua volta, quest’unione di chiese appartiene a una federazione che opera a livello europeo che è anch’essa inserita all’interno di un contesto mondiale (rispettivamente, European Baptist Federation e Baptist World Alliance). Infine, a tutti e quattro i livelli (locale, nazionale, continentale e mondiale) queste comunità fanno parte di organi di cooperazione inter-protestanti (per esempio, la FCEI, la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia). Il punto è che questi legami e le istituzioni che da esse sono generate non sono in primis la causa bensì il prodotto del comune sentire delle chiese che ne fanno parte.
Quindi, l’unitarietà dell’Assemblea di Cristo è un fatto di per sé spirituale ed invisibile e determinato da Dio; esso diventa visibile non a partire da istituzioni trans-comunitarie, bensì a partire dal raccogliersi di uomini e donne intorno a Dio in diverse assemblee locali. Contemporaneamente, queste assemblee sono il prodotto e si riconoscono come parte di una storia comune. A partire da questo concreto riconoscimento di ciò che è comune tra loro, le chiese formano strumenti d’incontro e di cooperazione che vanno al di là della loro dimensione locale.
La seconda precisazione da fare è molto più semplice ed è legata alle dimensioni attuali del movimento evangelico. Secondo un’indagine ormai relativamente datata (2011) ma che comunque ci fornisce un quadro abbastanza preciso della situazione, la somma di tutte le chiese evangeliche rappresenterebbe il 37% del cristianesimo globale o circa 800 milioni di persone[2]. Luteranesimo, presbiterianesimo, metodismo, battismo, mennonismo, pentecostalesimo, anglicanesimo sono solo alcune delle maggiori tradizioni che compongono questa compagine. Tali distinzioni però non dovrebbero essere esagerate; se infatti da un certo punto di vista è necessario parlare di protestantismi al plurale, dall’altro è sicuramente lecito parlare di protestantesimo al singolare. Ciò è reso possibile proprio dall’esistenza di una comune storia e di una comune sentire che lega queste tradizioni, sebbene in passato non siano mancati e tutt’ora non manchino i fanatismi e le incomprensioni.
Dunque, sia la vastità che la relativa frammentazione del movimento evangelico rende di fatto impossibile fare riferimento a una prospettiva che rappresenti la prospettiva degli evangelici. Ciò detto, è possibile indicare rispetto a un tema in particolare le principali tendenze di pensiero che si sono sviluppate nel corso dei secoli. Queste, pur nella loro relativa diversità, possono essere associate e messe a confronto in modo profittevole in base alla comune sensibilità che fa da sfondo a ogni espressione del cristianesimo riformato.
Una componente essenziale di questa sensibilità è quel principio di vita e di dottrina che viene normalmente indicato con l’espressione latina Sola Scriptura. La Confessione di Fede dell’UCEBI (Unione Cristiana Evangelica Battista d’Italia) spiega il Sola Scriptura in questo modo:
“La Bibbia è la sola testimonianza autentica e normativa dell’opera di Dio per mezzo di Gesù Cristo. In quanto lo Spirito Santo la rende Parola di Dio, essa va studiata, onorata e obbedita”[3].
Si potrebbero utilizzare altre parole per esprimere questo punto teologico, ma credo che ogni buon protestante dovrebbe essere d’accordo con questa formulazione. Qualunque altra cosa la Bibbia possa essere, per un cristiano evangelico essa deve essere almeno quanto viene detto in questa breve affermazione. In quanto tali, le Scritture diventano il punto di riferimento ultimo sul quale il cristiano deve orientare la propria azione e la propria comprensione di Dio e della vita. Le chiese evangeliche si riconoscono tra di loro come comunità che teorizzano e cercano, con tutti i loro limiti, di vivere all’altezza di quanto Dio ci ha testimoniato e insegnato per mezzo della sua Parola.
Questo ci porta infine al nostro tema. Che cosa, infatti, dice la Scrittura in merito alla guerra? Si noti che l’estratto citato dalla Confessione di Fede dell’UCEBI fa un riferimento in particolare alla figura di Cristo. Questo dipende dal fatto che una lettura cristiana della Bibbia non la riconosce solo come Parola di Dio, ma anche come Parola di Dio le cui diverse componenti (la Bibbia è notoriamente composta di diversi testi, scritti e raccolti nel corso dei secoli) si presenta come un organismo il cui cuore pulsante sono i quattro vangeli e la figura di Jeshua di Nazareth. Quindi, l’interpretazione delle Scritture deve procedere alla luce della figura di Gesù, della sua vita e dei suoi insegnamenti.
Concentrandosi sul tema del conflitto armato e della sua liceità, nessun pronunciamento di Gesù è forse più famoso di quello riportato nel Vangelo di Giovanni e che egli pronuncia di fronte a Ponzio Pilato. Interrogato infatti dal prefetto romano su che cosa abbia fatto per meritarsi di essere arrestato e se egli sia veramente il re dei giudei, Gesù risponde “Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù” (Giov. 18:36). Quest’affermazione potrebbe facilmente suonare come un rifiuto netto e senza appello dell’uso della forza e in particolare dello scontro armato di massa e organizzato (e cioè, la guerra).
Una buona lettura del testo biblico però non può fermarsi a poche parole sottratte dal loro contesto. Nel caso specifico si potrebbe per esempio notare come questa frase sia stata pronunciata in un momento estremamente particolare (l’arresto di Cristo) e domandarsi quindi quale sia la sua portata di applicazione ad altri contesti. L’affermazione poi che il regno di Cristo non sia di questo mondo (cioè, non ne segue le regole) non nega il fatto, sottolineato dallo stesso Gesù in altre occasioni, che i cristiani comunque si trovino nel mondo e non possano sottrarsi al fatto di essere messi alla prova da quanto accade nel mondo (cfr. Giov. 15:18-19, 16:33).
Nella misura in cui la guerra è una costante della storia e quindi della vita nel mondo, essa ha messo alla prova i cristiani e le cristiane dei diversi secoli. Lo ha fatto certo nei termini del loro coinvolgimento o meno in determinati conflitti, ma anche e proprio per questo motivo ha comportato uno sforzo sotto il profilo della riflessione teologica e della formazione spirituale. L’intrinseca delicatezza del tema della guerra, che ha spesso toccato in prima persona chi ha avuto l’occasione di rifletterci sopra, ha portato a produrre diverse posizioni sul tema. Spesso queste sono state determinate anche da questioni collaterali come, per esempio, la natura della Chiesa e il suo rapporto con la politica; a sua volta, la posizione presa dai cristiani di fronte alla guerra ha determinato in un senso piuttosto che in un altro altri aspetti della loro teologia e della loro prassi. Per questo motivo, parte della diversità esistente all’interno del movimento evangelico è dovuta proprio a differenti comprensioni del rapporto che dovrebbe esistere tra il cristiano e la guerra. Nelle prossime pagine si cercherà di esporre questa varietà di opinioni facendo riferimento alle due principali opzioni che sono state coltivate nei secoli dalla teologia evangelica.
2. Due tradizioni
La prima tradizione a cui si vuole fare riferimento è la cosiddetta “dottrina della guerra giusta”. Questa teoria non è tipica della teologia protestante, per cui al limite si dovrebbe parlare di una ricezione protestante della dottrina della guerra giusta. Infatti, la dottrina della guerra giusta è addirittura “più antica del cristianesimo”[4] ed è già attestata in testi quali il De re publica di Cicerone. Fu poi elaborata in chiave cristiana grazie in particolare al contributo di Agostino ed infine inclusa nel Decretum Gratiani diventando parte del diritto canonico della chiesa latina. In seguito, la dottrina della guerra giusta subì degli sviluppi ulteriori, fino a raggiungere la sua forma classica nel corso del XVI secolo[5].
In base a quest’ultima, esistono cinque condizioni secondo le quali si gode di un ius ad bellum: legitima auctoritas, iusta causa, recta intentio, ultima ratio, iustus finis; ovvero: si ha diritto ad iniziare una guerra solo se si ha l’autorità per farlo (es.: un privato cittadino non può dichiarare guerra a qualcuno), se si ha una ragione oggettivamente buona per dichiarare guerra (di norma, essere ingiustamente aggrediti), se lo si fa con le giuste intenzioni (ossia, per ristabilire lo stato precedente al conflitto e non con lo scopo di appropriarsi di qualcosa) e se è l’ultima risorsa disponibile al fine di ristabilire la giustizia. Infine, la guerra dev’essere intrapresa con l’obbiettivo finale di raggiungere la pace con il nemico[6]. Tutto lo sforzo bellico dev’essere inoltre condotto con mezzi proporzionati all’obbiettivo e discriminando tra civili e combattenti (i primi non sono infatti un bersaglio legittimo)[7].
Calvino e Lutero accolsero nel loro pensiero la sostanza di questa dottrina, influenzando così una parte cospicua della teologia protestante posteriore[8]. Inoltre, la Confessio Augustana, una delle prime confessioni di federe evangeliche e che fu offerta all’imperatore Carlo V nel 1530, presume chiaramente la validità della teoria della guerra giusta. La Confessio infatti riporta all’Articolo XVI De Rebus Civilibus che è lecito per i cristiani “jure bellare,[et] militare”[9]. Quest’affermazione non è però pronunciata nel vuoto ed è ulteriormente qualificata dal suo contesto. Innanzitutto, al termine del medesimo articolo si afferma che “debent Christiani obedire magistratibus suis et legibus; nisi cum jubent peccare, tunc etiam magis debent obedire Deo quam hominibus [Atti 5:29]”[10]. Dunque, non ogni tipo di guerra è legittima e un cristiano dovrebbe rifiutarsi di partecipare a una guerra ingiusta, mettendo per prima la sua obbedienza a Dio. In secondo luogo, l’Articolo XVI della Confessio è subordinato alla frase di apertura dell’Articolo I che recita “ecclesiae magno consensus apud nos docent […]”[11]; questo consenso tra le diverse chiese è a sua volta determinato da un principio, espresso nell’Articolo II, per cui “ad veram unitatem Ecclesiae satis est consentire de doctrina Evangelii et administratione Sacramentorum”[12]. Dunque, che cosa sia una guerra giusta dev’essere compreso sulla base delle Scritture, ed espresso a sua volta nel discernimento comune delle chiese di Cristo.
Un esempio concreto di come questo punto sia stato compreso negli ambienti della Riforma, ci viene da uno scritto di Lutero del 1526, e dunque in realtà precedente la Confessio, intitolato I soldati possono essere salvati?. La domanda che il riformatore prende in considerazione in questo scritto è se sia lecito o meno per un credente partecipare a un conflitto armato. Il passo scritturistico su cui Lutero centra la sua discussione è Romani 13:4: “il magistrato è un ministro di Dio per il tuo bene; ma se fai il male, temi, perché egli non porta la spada invano; infatti è un ministro di Dio per infliggere una giusta punizione a chi fa il male”. Secondo Lutero, la “spada” del magistrato è quella del governo civile, che include in sé stessa anche la possibilità di dichiarare guerra[13]; dunque questo governo civile è la legitima auctoritas che ha il diritto di aprire e chiudere un conflitto e tale autorità gli è impartitagli direttamente da Dio.
Questo governo civile si affianca, differenzia e trova la sua origine in un governo spirituale; questo per l’appunto è il “regno che non è di questo mondo di cui parla Cristo nel Vangelo di Giovanni: lo stesso Dio che ha istituito una spada spirituale e l’ha affidata ai predicatori affinché la amministrino attraverso la Parola, ha anche istituito una spada temporale affidandola ai magistrati”[14]. Questo non significa che la spada temporale sia guidata da quella spirituale, ma che i cristiani devono obbedire ad entrambe, nella misura in cui ambedue hanno la loro origine in Dio e sono preposte a regolare un certo ambito dell’esistenza. L’unica eccezione che si dà è qualora la spada temporale entri in contraddizione con quella spirituale, nel qual caso, come si è già visto, il cristiano deve obbedire a Dio al di sopra del magistrato.
Come nota Lutero, Paolo nella Lettera ai Romani afferma che l’autorità civile non è stata istituita da Dio per “infrangere la pace ed iniziare la guerra, bensì per amministrare la pace e prevenire la guerra”. Ciò si desume dal fatto che Paolo afferma che la spada è per il bene del giusto e la punizione di chi vuole il male[15]. Dunque, secondo Lutero l’unica guerra che Dio approva è quella che viene condotta contro coloro che conducono una guerra ingiusta; pertanto, in quanto tale la giusta guerra è sempre una guerra difensiva[16]. Il riformatore non teme quindi di definire questo tipo di conflitto un “opera d’amore”: come un buon medico a volte amputa degli arti per salvare il corpo, punire il malvagio al fine di ristabilire la pace si configura come un male necessario in vista di un bene più ampio[17]. In tal senso, Lutero invita il suo lettore a considerare la guerra con occhi da adulto, non condannandola in quanto tale, ma chiedendosi di volta in volta quale sia la ragione che sta dietro di essa e dunque se un particolare conflitto si configuri come giusto od ingiusto[18].
Il medesimo articolo De Rebus Civilibus della Confessio Augustana contiene insieme a una parte positiva anche una parte negativa. Infatti, le chiese che la sottoscrissero si preoccuparono non solo di delineare le proprie posizioni, ma anche di indicare ciò da cui intendevano allontanarsi. Pertanto, si legge che esse “damnant Anabaptistas, qui interdicunt haec civilia officia Christianis”[19]. Quest’affermazione, che sicuramente non riflette gli attuali rapporti tra le diverse denominazioni protestanti, riflette la condanna da parte degli estensori della Confessio della stretta separazione dal mondo praticata dal movimento anabattista.
La posizione anabattista è ben rappresentata dal IV e dal VI dei sette articoli componenti la Confessione di Schleitheim. Questo testo fu prodotto nel 1527 da un gruppo di anabattisti svizzeri e nello specifico per mano di un ex-monaco benedettino di nome Michael Sattler[20]. Il IV Articolo riguarda la separazione che i cristiani devono osservare rispetto a tutto quanto che nel mondo non è stato riconciliato con Cristo. Questa separazione include anche le “armi diaboliche della violenza, come la spada, l’armatura e cose simili e tutto quanto si possa fare per loro tramite al fine di proteggere gli amici o per offendere i nemici, e ciò in virtù della parola di Cristo: ‘non contrastate il malvagio’ [Matteo 5:39]”[21].
Il VI Articolo, riguarda invece la spada. Come si è discusso più sopra, Lutero distingue ma tiene insieme le due spade: esse sono amministrate differentemente ma sia l’istituzione civile che quella ecclesiastica sono in sé e per sé buone perché volute da Dio. Quindi, se l’uso della violenza non è mai in sé buono, lo diventa nel momento in cui esso è giustificato dal fine di ristabilire la pace sociale. La Confessione di Schleitheim afferma anch’essa che la spada temporale è un’ordinanza di Dio, ma la pone “all’infuori della perfezione di Cristo”[22]. In quest’area, la spada punisce i malvagi e protegge i buoni, ma, all’interno della “perfezione di Cristo” in cui si trovano i credenti, l’unico strumento per limitare il malvagio è l’ammonizione e l’allontanamento dalla comunione ecclesiastica[23]. Dunque, il cristiano non può usare la spada temporale, ma, come Cristo impedì che si lapidasse la donna adultera ammonendola allo stesso tempo di non peccare più, così devono fare i suoi discepoli; come Cristo rifiutò di risolvere una disputa ereditaria tra due fratelli, così i cristiani non dovrebbero essere giudici sopra questioni mondane (cioè, ancora una volta, esterne alla perfezione di Cristo)[24]. Infine, non è appropriato per un cristiano rivestire un ruolo pubblico nelle istituzioni (“essere un magistrato”), perché come Cristo rifiutò di essere fatto re dalla folla (Giov. 6:15) anche in questo dev’essere imitato dalla Chiesa[25].
È chiaro come di fronte a quest’impostazione del rapporto tra Chiesa e mondo, la guerra semplicemente non è una strada percorribile dal cristiano, in nessun caso. Perlomeno, non lo è, non la guerra fisica e cruenta. Infatti, nonostante il suo pacifismo, la Confessione di Schleitheim ritiene che i cristiani siano comunque impegnati in uno scontro. Citando il Paolo di 2Corinzi 10:4 (“infatti le armi della nostra guerra non sono carnali, ma hanno da Dio il potere di distruggere le fortezze”) la Confessione riporta che “le armi da guerra [di coloro che vivono nel mondo] sono carnali e operano solamente contro il corpo, ma le armi dei cristiani sono spirituali e operano contro le fortificazioni del diavolo. I mondani sono armati con acciaio e ferro, ma i cristiani sono armati con l’armatura di Dio: la verità, la giustizia, la pace, la fede, la salvezza e con la Parola di Dio”[26]. Dunque, se la spada temporale è buona per operare nel mondo, il cristiano che la raccoglie compie qualcosa di diabolico, per usare l’espressione ritrovata nel IV punto. Allo stesso tempo, egli è chiamato a combattere una guerra spirituale per l’espansione del Regno di Dio in terra, per la quale è stato equipaggiato da Dio con armi e protezioni altrettanto spirituali; questa, è una militia a cui ogni discepolo di Gesù è chiamato e a cui non può sottrarsi.
La Confessione di Schleitheim ebbe un impatto immediato sugli anabattisti della Svizzera e della Germania meridionale, sebbene le reazioni ad essa non furono sempre positive[27]. Per esempio, proprio sulla questione della spada ebbe da ridire il grande leader anabattista Balthasar Hubmaier, Costui infatti concepiva la possibilità che un cristiano potesse servire come magistrato e dover, se necessario, ricorrere alla violenza[28]. Non bisogna nemmeno dimenticarsi del noto episodio della cosiddetta “Ribellione di Münster”, durante la quale un gruppo di anabattisti guidati da Melchior Hoffman cercò di stabilire una “Nuova Gerusalemme” nella città westfaliana[29]. L’esperimento durò per circa un anno tra il 1534 e il 1535, terminando nel sangue dopo un lungo assedio ed eccessi di tutti i tipi perpetrati dagli occupanti della città. In ogni caso, la posizione separatista e pacifista della Confessione era maggioritaria tra gli anabattisti e con il tempo divenne quella normativa e tutt’ora perpetrata tra i Mennoniti e gli Hutteriti – ossia i gruppi direttamente successori dell’anabattismo delle origini[30].
3. Conclusione
Come si è precisato all’inizio di questo breve articolo, il mondo evangelico è ampio, numeroso e variegato al suo interno. Questo, pure sullo sfondo di una comune identità, ha fatto sì che differenti tradizioni assumessero diverse posizioni e sviluppassero diverse risposte di fronte agli stessi problemi.
Come si è visto, sebbene in modo molto parziale, il caso del tema della guerra non fa eccezione. Qui non è stato possibile fare di più che introdurre la questione, esponendo le linee generali di quelle che sono state le due grandi “scuole di pensiero” all’interno del mondo della Riforma. Ci si è però concentrati su figure, gruppi e documenti della prima ora; in un certo senso, si potrebbe dire che qui si è presa in considerazione la teologia riformata presa nel suo istante 0. Ma a 505 anni di distanza dal provvidenziale 31 ottobre in cui Lutero affisse le 95 sulla porta della cattedrale di Wittenberg le si sono complicate e non poco. Nuovi gruppi, nuove idee, nuovi stili di praticare la fede cristiana si sono sviluppati, a volte in continuità e a volte in discontinuità con i modelli del XVI secolo.
Rispetto al nostro tema, le direttrici da prendere in considerazione sarebbero molteplici. Innanzitutto, bisogna registrare come entrambe le opzioni che qui sono state discusse, sia quella della dottrina della giusta guerra che di un pacifismo senza se né ma, rimangono assolutamente vive e praticate. Allo stesso tempo, rimangono vivi sia un approccio separatista tra il mondo ecclesiastico e quello secolare, sia uno più continuista che vede tra queste due sfere della vita una distinzione che non sfocia in una separazione. A complicare ulteriormente questo quadro, oggi il pacifismo è diffuso anche all’interno di tradizioni che non sono le dirette discendenti dell’Anabattismo. Infine, a partire dal XVII secolo si è visto l’insorgere di gruppi che da un lato sposavano alcuni elementi dell’anabattismo ma che allo stesso tempo non erano necessariamente pacifisti né necessariamente ostili all’idea che un cristiano ricoprisse dei ruoli pubblici – si pensi per esempio al battismo e al congregazionalismo.
Pertanto, vi sarebbe ancora molto da scrivere ai fini di completare il quadro introduttivo che qui è stato proposto. Inoltre, sarebbe utile fare riferimento anche ad esempi concreti che hanno visto i cristiani protestanti misurarsi con la minaccia e l’attualità della guerra. Qui non è possibile aggiungere molto, ma si vorrebbe concludere proprio su questo punto, indicando le figure di due testimoni vissuti nel secolo scorso.
La prima è quella del ben noto teologo protestante Karl Barth, presbiteriano e dunque un successore spirituale di Calvino, nonché il teologo evangelico più noto e influente del XX secolo (ma probabilmente dai tempi stessi della Riforma). Costui, reagendo nel 1938 alla crisi cecoslovacca che avrebbe poi condotto agli accordi di Monaco, scrisse una famosa lettera aperta al teologo ceco Josef Hromadka – lettera che fu presto pubblicata nella stampa internazionale. In questo testo Barth attaccava le potenze occidentali per essersi piegate a Hitler e chiamava i cechi a resistere all’occupazione. Qui il teologo svizzero arrivò ad affermare che “ogni soldato ceco che combatterà e soffrirà lo farà anche per noi e, lo dico senza alcuna riserva, lo farà anche per la chiesa di Gesù Cristo, che nell’atmosfera creata da Hitler e da Mussolini è destinata a cader preda del ridicolo o dell’estinzione”[31]. Più tardi lo stesso anno, in una lezione pubblica intitolata “La Chiesa e il problema politico dell’oggi” Barth si ricollega al passo di Romani 13 precedentemente citato in connessione con Lutero. Secondo Barth, in virtù delle sue politiche lo stato nazista non è più uno stato, nel senso che non può più essere identificato con il tipo di autorità legittima delineata da Paolo[32]; piuttosto, il nazismo rappresenta la “dissoluzione fondamentale dello stato giusto”[33]. Quindi, la chiesa non può fare altro che pregare e operare per il rovesciamento del nazismo e la ricostituzione di uno stato giusto – anche con mezzi armati, se necessario[34]. Coerentemente con le sue posizioni anti-naziste, Barth si arruolò come volontario nell’esercito svizzero allo scoppiare del conflitto (Barth infatti era stato espulso dalla Germania nel 1935 per via delle sue posizioni politiche ed era rientrato nella natia Svizzera)[35].
L’altra figura a cui ci si vorrebbe richiamare è quella di Desmond Doss. Costui prese parte alla Seconda Guerra Mondiale tra le fila dell’esercito statunitense; nello specifico fu arruolato nella fanteria statunitense e partecipò al conflitto nello scenario bellico del pacifico. La cosa che distingue Doss da molti altri è che egli si arruolò come obbiettore di coscienza. Doss infatti oltre che avere un’intensa fede personale era stato cresciuto all’interno della Chiesa Avventista, una denominazione che tradizionalmente insegna la pratica della non-violenza, in linea con il precedente Anabattista. Per quanto il suo lavoro in un cantiere navale lo esentasse dalla coscrizione forzata, Doss decise di arruolarsi spontaneamente ma, in linea con le sue convinzioni, rifiutò l’addestramento alle armi e scelse di operare come soccorritore militare (in inglese combat medic).
Nel 1944, impiegato a Guam e nelle Filippine, Doss ricevette due Medaglie di Bronzo al Valore per il coraggio dimostrato nel soccorrere compagni feriti e rimasti sotto la linea di tiro. Infine, durante la Battaglia di Okinawa riuscì in una singola giornata a salvare circa 75 compagni rimasti feriti e incapacitati dal ritirarsi (il numero in realtà non è noto ed è collocato tra i 50 e i 100 soldati soccorsi). Nel corso della Battaglia di Okinawa Doss fu ferito quattro volte, inclusa un’occasione in cui cercò di calciare via (senza successo) una granata per allontanarla dal suo gruppo, finendo per ritrovarsi con 17 schegge all’interno del corpo. Per le azioni ad Okinawa, Desmond Doss fu il primo e finora unico obbiettore di coscienza a ricevere la Medaglia d’Onore dell’esercito americano[36].
Si è voluto concludere con queste due figure non per il gusto di presentare una breve galleria degli eroi – qualifica che sia Barth che Doss credo avrebbero comunque rifiutato. Piuttosto, l’intenzione è stata quella di mostrare come le idee di cui si è discusso abbiano nutrito nella stessa situazione due modi di agire molto diversi, ma che comunque erano motivati dalla stessa fede di fondo e che in entrambi i casi hanno esposto al pericolo chi ci stava dietro. Avendo esposto la teoria, riflettere sulla prassi altrui può ispirarci e dirigerci nel darci un orientamento di vita.
Certo, le due opzioni che sono state presentate in questo testo non sono sicuramente le uniche che, cristiani o meno che siamo, possiamo porci di fronte al problema del conflitto armato. Inoltre, bisogna differenziare tra un principio e l’applicazione che se ne fa. L’una cosa può essere buona e l’altra no: si può chiamare guerra giusta una guerra sbagliata, ma questo di per sé non è sufficiente per condannare la dottrina della guerra giusta; il pacifismo può essere una foglia di fico per la paura e/o l’indifferenza, ma questo di per sé non può farci rinunciare a priori al prendere in considerazione l’ipotesi pacifista. Il tutto contribuisce a rendere il quadro complesso, ma il confronto resta inevitabile; la guerra è con noi per restare, di questo c’è da starne certi.
La questione è particolarmente greve dato che stiamo parlando di cose che sono all’ordine del giorno. I tiranni vanno combattuti con le armi? Abbiamo l’autorità morale per farlo (e quanto è importante averla o non averla)? È proprio vero che non esistono guerre giuste? In che relazione stanno pacifismo e neutralità? Queste sono solo alcune delle domande su cui è importante riflettere nella congiuntura attuale. Specialmente è il caso di farlo ora, che tutto sommato ci riguardano ancora indirettamente. Se un uomo armato si presenterà alla nostra porta, sarà meglio avere pronte delle buone risposte e non sarà sicuramente la pigrizia intellettuale a fornircele (cfr. Prov. 6:6-11).
[1] Per una prospettiva più comprensiva sul tema, cfr. V. O. Morkevicius, “Norms of war in Protestant Christianity”, in World Religions and norms of war, V. Popovski, G. M. Reichberg, N. Turner (a cura di) (Tokyo: United Nations University Press, 2007), pp. 220-254.
[2] The Pew Forum on Religion & Public Life, Global Christianity: A Report on the Size and Distribution of the World’s Christian Population, p. 27, http://www.pewforum.org/files/2011/12/Christianity-fullreport-web.pdf.
[3] UCEBI, Confessione di Fede, Confessione di fede - Il portale delle chiese Evangeliche Battiste Italiane (ucebi.it).
[4] U. Gerrens, “La Pace attraverso la Guerra? Riflessioni sulla cosiddetta “guerra giusta” in occasione dell’invasione dell’Ucraina”, in Guerra, Pace, Giustizia: Le chiese protestanti e la guerra in Ucraina, a cura di F. Ferrario (Roma: Edizioni com nuovi tempi, 2022), pp. 59-67 (59).
[5] Gerrens, “La Pace attraverso la Guerra? Riflessioni sulla cosiddetta “guerra giusta” in occasione dell’invasione dell’Ucraina”, p. 61.
[6] Gerrens, “La Pace attraverso la Guerra? Riflessioni sulla cosiddetta “guerra giusta” in occasione dell’invasione dell’Ucraina”, pp. 61-3.
[7] Gerrens, “La Pace attraverso la Guerra? Riflessioni sulla cosiddetta “guerra giusta” in occasione dell’invasione dell’Ucraina”, pp. 64.
[8] Gerrens, “La Pace attraverso la Guerra? Riflessioni sulla cosiddetta “guerra giusta” in occasione dell’invasione dell’Ucraina”, p. 60.
[9] P. Schaff, The Creeds of Christendom, vol. III (Grand Rapids: Baker Book House, 1977), p. 17.
[10] Schaff, The Creeds of Christendom, p. 17.
[11] Schaff, The Creeds of Christendom, p. 7.
[12] Schaff, The Creeds of Christendom, p. 12.
[13] M. Lutero, “Can Soldiers Be Christians?”, in The Open Court 9 (1899), 525-45 (529).
[14] Lutero, “Can Soldiers Be Christians?”, p. 529.
[15] Lutero, “Can Soldiers Be Christians?”, p. 534.
[16] Lutero, “Can Soldiers Be Christians?”, p. 534.
[17] Lutero, “Can Soldiers Be Christians?”, p. 527.
[18] Lutero, “Can Soldiers Be Christians?”, p. 528.
[19] Schaff, The Creeds of Christendom, p. 17.
[20] J. P. Wogaman, D. M. Strong, Readings in Christian Ethics: A Historical Sourcebook (Louisville: Westminster John Knox Press, 1996), p. 141.
[21] Schleitheim Confession (source) - Anabaptistwiki [accesso 20/04/2022].
[22] Schleitheim Confession (source) - Anabaptistwiki.
[23] Schleitheim Confession (source) - Anabaptistwiki.
[24] Schleitheim Confession (source) - Anabaptistwiki.
[25] Schleitheim Confession (source) - Anabaptistwiki.
[26] Schleitheim Confession (source) - Anabaptistwiki
[27] J. C. Wenger, A. C. Snyder, “Schleitheim Confession”, in Global Anabaptist Mennonite Encyclopedia Online (1990), https://gameo.org/index.php?title=Schleitheim_Confession&oldid=143737 [20/04/2022].
[28] J. Loserth, W. R. Estep, “Hubmaier, Balthasar (1480?-1528), in Global Anabaptist Mennonite Encyclopedia Online (1990), https://gameo.org/index.php?title=Hubmaier,_Balthasar_(1480%3F-1528)&oldid=168030 [20/04/2022].
[29] Cfr. K. Ralf, “The Melchoirites and Münster”, in A Companion to Anabaptism and Spiritualism, 1521-1700, a cura di J. Roth e J. Stayer (Leiden: Brill, 2007).
[30] Wenger, Snyder, “Schleitheim Confession”, https://gameo.org/index.php?title=Schleitheim_Confession&oldid=143737.
[31] K. Barth, Offene Briefe 1935-1942 (Zürich: Theologischer Verlag, 2001), pp. 122-6.
[32] A. Rasmusson, “‘Deprive Them of Their Pathos’: Karl Barth and the Nazi Revolution Revisited”, in Modern Theology 23 (2007), pp. 369-91 (382).
[33] K. Barth, The Church and the Political Problem of Our Day (New York: Scribner, 1939), p. 52.
[34] Rasmusson, “‘Deprive Them of Their Pathos’”, p. 382.
[35] Ciò detto, la posizione di Barth di fronte alla guerra è più complessa di quanto possa rendere conto questo singolo episodio; cfr. Morkevicius, “Norms of War in Protestant Christianity”, pp. 233ss.
[36] La sua vita è stata peraltro rappresentata nel 2016 dal film La Battaglia di Hacksaw Ridge, diretto da Mel Gibson.
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