ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
In occasione del centenario dalla prima legge sugli stupefacenti, n. 396 del 18 febbraio 1923, la Rivista Giustizia insieme ha organizzato il convegno dal titolo:
“100 anni di leggi sugli stupefacenti”
che si terrà a Roma, il 1° dicembre 2023 presso l’Aula magna della corte di Cassazione.
Il convegno si articolerà in due sessioni.
La prima sessione al mattino riguarderà la legislazione sulle droghe nella società italiana dal 1923 ad oggi. Ad una relazione sull’evoluzione della normativa vista nel suo sviluppo storico e nei rapporti con i vari assetti politici, seguirà una tavola rotonda sullo scenario nazionale e internazionale del traffico degli stupefacenti, sull’attuale situazione sociale e politica, sugli effetti psicofisici del consumo di droghe e sui possibili prossimi sviluppi della legislazione riguardanti proibizionismo, forme di legalizzazione, normativa sull’uso personale.
Partendo dalla illustrazione del quadro attuale delle dimensioni del fenomeno nei suoi risvolti sociali e criminali, delle diverse risposte date da un numero sempre crescente di paesi, si affronterà la questione da tempo assai dibattuta delle effetti delle sostanze stupefacenti e in particolare della cannabis, la sua evoluzione a livello di tipologia di pianta e di modalità di utilizzo, per esporre il quadro delle ipotesi di nuove normative in cui si contrappongono approcci di minore tolleranza e proposte di legalizzazione, nelle sue diverse accezioni.
La seconda sessione nel pomeriggio si incentrerà sui vari aspetti dell’intervento riguardante il consumo di sostanze stupefacenti.
A due relazioni che inquadreranno la disciplina attuale e in particolare il ruolo della giurisprudenza, seguirà una tavola rotonda sul trattamento del consumo e della dipendenza, con una riflessione sull’approccio istituzionale al fenomeno da parte delle istituzioni: sulla tossicodipendenza, sulle forme di esecuzione della pena, sul trattamento carcerario, sul ruolo delle Comunità e dei servizi territoriali.
Partendo dalla descrizione del quadro attuale del consumo di stupefacenti e del suo rapporto con il disagio sociale, si approfondiranno gli aspetti del coinvolgimento del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria nella difficile gestione dei detenuti per droga, delle misure alternative attuali o che potrebbero essere incentivate, della condizione del tossicodipendente in carcere, della funzione dei SERD e del trattamento del tossicodipendente sul territorio, delle molteplici facce della dipendenza (ludopatia, alcolismo, anoressia/bulimia ecc.), del ruolo delle Comunità e delle richieste alle istituzioni.
Entrambe le sessioni termineranno con un dibattito.
La partecipazione dà diritto al riconoscimento di 6 crediti formativi.
Qui la registrazione video del convegno (tre video):
Introduzione e indirizzi di saluto
Prima sessione
Seconda sessione
(Immagine: Gaetano Previati, Fumatrici di oppio, bozzetto, 1887, olio su tela, cm 27 x 51,5. Collezione privata)
di Giuseppe Cascini
Rivolgo un ringraziamento non formale al Ministro della giustizia per la sua partecipazione al nostro congresso. Come dirò meglio più avanti ritengo che il dialogo e l’ascolto siano una necessità inderogabile per migliorare la situazione della giustizia. E per questo ho apprezzato la scelta del Ministro di essere qui e la sua disponibilità al dialogo.
Alcune delle cose dette dal Ministro mi trovano d’accordo, in particolare quando ha parlato della necessità di intervenire sulla giustizia civile e di dotare di uomini e mezzi gli uffici giudiziari.
Purtroppo, però, noi dobbiamo fare i conti con l’immagine che ci restituiscono le iniziative fin qui adottate dalla maggioranza di governo in materia di giustizia, che è quella di una politica che da un lato è feroce, per certi versi anche spietata, nei confronti delle fasce marginali, dei più deboli, di chi avrebbe bisogno di aiuto e soccorso più che di una punizione. E dall’altro è più che indulgente nei confronti dei potenti.
Nella prima categoria, mi limito ad indicarli, rientrano il decreto sul rave, il decreto Cutro, le norme in materia di criminalità minorile, quelle che addirittura pretendono di affrontare con lo strumento penale un fenomeno sociale come la dispersione scolastica; nella seconda le proposte di abolizione dell’abuso d’ufficio (un delitto odioso, che punisce la prevaricazione di chi ha potere nei confronti di chi non ne ha), le limitazioni all’uso delle intercettazioni, la annunciata riforma in materia di prescrizione (l’ennesima nel giro di pochi anni, senza che nessuno si domandi quali conseguenze possa avere sulla organizzazione di uffici già di per sé disastrati questo continuo mutamento delle regole), i ricorrenti condoni. Tutto questo condito da una manifesta insofferenza nei confronti dei controlli di legalità e della indipendenza dei magistrati, che trova la sua espressione più evidente nel disegno di legge costituzionale in materia di separazione delle carriere (disegno che, come già era per la proposta delle Camere penali, utilizza lo slogan della separazione delle carriere per attuare in realtà una ben più ampia e incisiva riforma della Costituzione diretta ad incidere sulla indipendenza dei magistrati). D’altra parte l’idea di società che è alla base di un’azione politica che, come è stato efficacemente detto nella tavola rotonda di ieri, aumenta, invece che ridurre, le diseguaglianze sociali ed economiche non può tollerare una magistratura indipendente e fedele solo alla costituzione, che invece trova il suo fondamento proprio nel principio di uguaglianza sostanziale scolpito nell’art. 3 capoverso.
Al riguardo consentitemi una breve digressione rispetto a quanto detto ieri dal Vicepresidente del Csm e dal prof. Grosso in tema di rapporto tra giustizia e politica
Nei moderni stati costituzionali la magistratura ha il dovere di difendere e preservare i diritti umani fondamentali a prescindere dalla volontà delle contingenti maggioranze. In questo non vi è alcuna supplenza o invasione di campo, in quanto il carattere universale ed irrinunciabile dei diritti fondamentali rappresenta un limite invalicabile all’azione di governo (che non è più libera nei fini e nei mezzi, come era nell’800). Su questi principi si fondano le moderne democrazie costituzionali, all’interno delle quali l’equilibrato bilanciamento dei poteri implica una magistratura indipendente quale irrinunciabile strumento di garanzia.
È evidente, allora, che questa impostazione ideologica dell’azione di governo in tema di giustizia rende molto difficile affrontare una discussione seria sui reali problemi e sugli effettivi bisogni del sistema giudiziario. Efficienza del sistema e professionalità dei magistrati dovrebbero essere gli obiettivi di qualunque maggioranza di governo. E invece ogni volta prende il sopravvento la "guerra contro i giudici". Il sistema giudiziario ha bisogno di recuperare un livello di funzionalità, non dico al passo con gli altri paesi europei, ma almeno decente. Per raggiungere questo obiettivo è però necessario un "cessate il fuoco"; tutti gli attori in campo dovrebbero deporre le armi della ideologia e confrontarsi con animo costruttivo per trovare soluzioni condivise nell’esclusivo interesse del paese e dei cittadini.
Revisione della geografia giudiziaria, adeguamento delle risorse umane (magistratuali e non) adeguamento della struttura tecnologica di servizio, razionalizzazione delle procedure per ridurre i tempi dei giudizi; effettività dell’azione esecutiva e di recupero dei crediti; decriminalizzazione dei fatti di minore rilevanza e semplificazione delle procedure di accertamento.
Questo solo come interventi diretti sull’apparato giudiziario nella consapevolezza che la crisi della giustizia trova le sue cause profonde nella inefficienza dell’apparato amministrativo dello stato, nelle diseguaglianze economiche e sociali e nell’assenza di idonei strumenti di assistenza e sostegno sociale.
Noi siamo pronti a questo confronto e chiediamo agli altri di fare lo stesso.
Una giustizia che funzioni ha bisogno non solo di efficienza, ma anche di qualità delle decisioni. Da troppi anni la politica ha scelto di mortificare la professionalità dei magistrati, introducendo gerarchia, controlli burocratici e sanzioni.
L’esempio più eclatante è dato dal sistema dei giudizi differenziati introdotto dalla riforma Cartabia.
Con il risultato che la magistratura tende a ripiegarsi su stessa in una ridotta burocratica, fatta di ossequio ai dirigenti degli uffici, di conformismo ai precedenti, di scelte prudenti di carattere "difensivo", mentre quello di cui abbiamo realmente bisogno è di escludere dall’ordine coloro che si sono dimostrati inadeguati. Non sono molti, ma ci sono. Al riguardo potrebbe aiutare, mi permetto di suggerirlo, una previsione che consenta di ricollocare il magistrato nell’ambito della pubblica amministrazione come già avviene per i casi di dispensa per ragioni di salute. Questo potrebbe consentire di vincere le resistenze corporative che spesso si registrano in questi casi.
Avremmo anche di bisogno di affrontare con serietà il tema della questione morale in magistratura. Anche in questo caso riguarda una minoranza molto ridotta di casi, che però esige una risposta ferma. Io non credo, per richiamare un tema discusso ieri, che i magistrati abbiano la pretesa di ergersi ad autorità morale. Può essere capitato in singoli casi, ma non è certamente una cifra caratteristica della magistratura italiana. Sono convinto però che chi come noi esercita questo terribile potere (come lo definiva Montesquieu) debba essere ed apparire sempre del tutto immacolato dal punto di vista etico. Su questo tema devo dire, da semplice osservatore volutamente un po’ distratto delle cose consiliari, che mi pare di registrare un qualche arretramento nella attuale consiliatura. In particolare mi sorprende il comportamento della componente laica di centrodestra. Il costituente ha previsto la presenza di una componente laica in Csm (in minoranza per evitare che la politica mettesse il tacco sulla testa dei magistrati) proprio allo scopo di arginare il rischio di derive corporative ed autoreferenziali delle componenti togate. Mi sembra, invece, che oggi - non so se per ragioni legate ad equilibri di potere all’interno del consiglio o per una malintesa idea di garantismo, ahimè molto diffusa nel paese, che confonde il garantismo con la garanzia di impunità - si registri un forte abbassamento della attenzione su questo tema. E lo stesso mi pare di notare riguardo ai due consiglieri indipendenti, a riprova del fatto che probabilmente il corporativismo non è un male solo delle correnti, ma più in generale dei magistrati
È possibile che continuando su questa strada la politica alla fine riuscirà a vincerla questa guerra contro i magistrati.
Non credo attraverso una modifica della Costituzione, perché il popolo italiano (quella maggioranza silenziosa di cui parlava ieri Anna Falcone) per fortuna ha dimostrato negli ultimi decenni di non fidarsi tanto dello "spirito costituente" degli attuali governanti ed ha sempre bocciato le riforme costituzionali. Ma la guerra potrà essere vinta fiaccando lo spirito dei magistrati e la loro capacità di essere indipendenti.
Solo allora, però, vi accorgerete di avere segato il ramo sul quale eravate seduti anche voi e la nostra debole democrazia, perché senza una magistratura indipendente è la libertà di tutti ad essere indebolita.
Spesso quando si parla di riforme della giustizia si evoca la necessità di evitare l’errore giudiziario. Vorrei ricordarvi che il più famoso errore giudiziario della storia dell’umanità fu quello di un prefetto di Giudea che scelse di condannare un innocente e mandare libero un colpevole, perché ciò la folla gli chiedeva. Mentre l’indipendenza del giudice, come ci ha insegnato Luigi Ferrajoli, serve proprio a questo: assolvere l’innocente anche quando la maggioranza ne chiede la condanna, condannare il colpevole anche quando la maggioranza ne chiede l’assoluzione.
*Intervento al IV Congresso nazionale di Area DG, Palermo 29-30 settembre 2023.
(Immagine: Ponzio Pilato si lava le mani, attribuito a Giacomo Manecchia, olio su tela, circa 1640-1660, collezione privata)
di Filippo D’Angelo
1. Con sempre maggior frequenza accade di imbattersi in sentenze o pareri di organi giudiziari che maneggiano – talvolta con indubbia destrezza – istituti tradizionali del diritto amministrativo.
Un esempio in tal senso è offerto dal parere del Consiglio di Stato, 2 ottobre 2023, n. 1254 che si è soffermato sul meccanismo del «concerto» di amministrazioni pubbliche[1], ricavandone alcune conclusioni in tema di «cogestione» delle funzioni amministrative.
Il parere consultivo ricorda in via preliminare che il concerto realizza un «significativo momento codecisionale» in cui è «implicita (come fatto palese anche dall’etimologia, che evoca un confronto contestuale) la discussione, il confronto tra plurime volontà, che trovano una composizione proprio a seguito ed in virtù del concerto stesso, in un momento in cui la volontà definitiva non sia stata ancora formata»[2].
In tale prospettiva il concerto «esprime - in ordine alla proposta elaborata, in via preliminare, dall’autorità concertante - una adesione sostanziale, conseguente al concreto apprezzamento di compatibilità degli interessi pubblici a confronto(anche di ordine organizzativo ed infrastrutturale), che abilita del resto alla formulazione di eventuali suggerimenti e alla elaborazione di proposte di modifica o di integrazione»[3].
Per questo la natura del concerto è procedimentale: esso «realizza una effettiva compartecipazione alla elaborazione del provvedimento o dell’atto, per la quale l’autorità concertata esprime sulla proposta elaborata dall’autorità concertante una effettiva valutazione di compatibilità con gli interessi di cui è portatrice, con ciò realizzandosi una forma di concorso nel volere che è, ad un tempo, sostanziale codeterminazione del voluto»[4].
2. La giurisprudenza amministrativa - e ci si riferisce alla coeva sentenza del Consiglio di Stato, Sez. IV, 2 ottobre 2023, n. 8610 - ha detto qualcosa di simile anche a proposito del metodo formativo delle volontà espresse dalle amministrazioni coinvolte nell’esercizio della funzione consultiva vincolante[5].
Al riguardo la sentenza ha affermato che un parere che «non lasci nessuno spazio di scelta in capo all’organo di amministrazione attiva non esprime nessuna consulenza, ma pone in essere una decisione preliminare, sicché solo atecnicamente può essere definito alla stregua di «parere». Invero, anche dal punto di vista della collocazione in seno alla fattispecie procedimentale, dovrebbe concludersi che i pareri vincolanti determinano il contenuto della decisione finale, per cui bisognerebbe espungerli dal novero degli atti preparatori e ricondurli nell’ambito di quelli decisori o co-decisori»[6].
Pertanto la fattispecie configura un procedimento e una «decisione “a doppia chiave” e dunque - un’ipotesi di cogestione della funzione (cd. decisione pluristrutturata)»[7]; e ciò si ha quando le «due Amministrazioni (quella titolare del procedimento e quella interpellata) condividano la funzione decisoria, nel senso che entrambe devono essere titolari di una funzione decisoria sostanziale»[8]. Tale meccanismo sfocia nella decisione finale che «tenga in debita considerazione anche l’interesse pubblico sotteso all’atto di assenso»[9].
3. Le due pronunce annotate mettono in luce due aspetti sicuramente degni di nota.
Anzitutto che, tanto in caso di concerto quanto in caso di parere vincolante, vi è un fascio di competenze amministrative che s’intrecciano in un procedimento complesso e refluiscono nella determinazione finale imputabile all’autorità principale: è il meccanismo tipico dei procedimenti composti - non solo europei ma anche interni - in cui il momento della sintesi tra figure soggettive, a un esame non esteriore, disvela il profilo organizzatorio della fattispecie legale che si esprime in forma di relazioni organizzative a struttura procedimentale (riscontrabile in entrambi i casi descritti nella relazione organizzativa dell’equiordinazione decisoria)[10].
In secondo luogo le medesime pronunce valorizzano l’intero ragionamento rimarcando il ruolo degli interessi pubblici in gioco; specie quando alludono alla necessità di svolgere un «apprezzamento di compatibilità degli interessi pubblici» in concerto o di tenere in «debita considerazione anche l’interesse pubblico sotteso all’atto di assenso» vincolante: ovverosia di trovare, volta per volta, un punto di incontro tra interessi distinti secondo la logica tipica del coordinamento amministrativo[11].
Se sul primo aspetto si può senz’altro convenire, sembra però che ci sia spazio - probabilmente - per tentare di rimeditare in parte la seconda osservazione.
Valgano allora due esempi concreti.
Il primo è il caso del concerto previsto nel procedimento di VIA ai sensi dell’art. 25 d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152; il secondo è il parere obbligatorio richiesto per l’autorizzazione paesaggistica dall’art. 146 d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 22.
Procedendo con ordine.
È noto che l’art. 5, co. 1, lett. c) del d.lgs. n. 152/2006 precisa che il provvedimento di VIA serve a verificare gli «impatti ambientali» di un progetto; e cioè gli «effetti significativi, diretti e indiretti, di un piano, di un programma o di un progetto» su popolazione e salute umana; biodiversità; territorio, suolo, acqua, aria e clima; beni materiali, patrimonio culturale, paesaggio.
L’art. 23 del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 stabilisce che per i progetti di competenza statale l’istanza di VIA è presentata dal privato all’autorità competente corredata dei documenti richiesti dalla leg-ge. Entro quindici giorni l’amministrazione raccoglie tutti i documenti e li pubblica. Dalla pubblicazione iniziano a decorrere i termini per avviare una consultazione pubblica anche nelle forme dell’inchiesta amministrativa (artt. 24 e 24-bis). Scaduti i termini la autorità competente, entro sessanta giorni, «adotta il provvedimento di VIA previa acquisizione del concerto del competente direttore generale del Ministero della cultura entro il termine di trenta giorni» (art. 25, co. 2).
Per contro l’art. 146 del d.lgs. n. 22/2004 stabilisce che i proprietari di immobili e aree di interesse paesaggistico tutelati dalla legge non possono modificarli senza l’autorizzazione degli enti regionali competenti (co. 2) che sono chiamati a verificare la «compatibilità fra interesse paesaggistico tutelato ed intervento progettato» (co. 3). È previsto che la regione si pronunci sull’istanza del privato dopo aver acquisito il «parere vincolante del soprintendente» ai beni culturali e paesaggistici (co. 5) che si pronuncia «limitatamente alla compatibilità paesaggistica del progettato intervento nel suo complesso ed alla conformità dello stesso alle disposizioni contenute nel piano paesaggistico» (co. 8).
4. Quanto precede sembra a offrire lo spunto per revisionare criticamente l’assunto della citata sentenza n. 8610/2023 per cui - in caso di parere vincolante e altrettanto per il concerto - la «amministrazione procedente valuta comunque l’interesse pubblico affidato alla cura dell’amministrazione interpellata», assumendo una «decisione conclusiva del procedimento (comunque necessaria) che tenga in debita considerazione anche l’interesse pubblico sotteso all’atto di assenso» acquisito[12].
Ciò per una ragione specifica: il fatto che i procedimenti composti appena descritti chiamino in causa due autorità amministrative distinte non dimostra di per sé che duplici siano anche gli interessi pubblici implicati nella decisione finale.
In effetti l’esame dei due testi legislativi non sembra d’ostacolo a una lettura parzialmente differente; e cioè a quella per cui in entrambi i casi l’interesse tutelato sia soltanto uno: nel primo che il progetto del privato non impatti negativamente sull’ambiente (interesse ambientale); nel secondo che il progetto sia compatibile con l’interesse paesaggistico[13].
In simili circostanze, piuttosto che di pluralismo d’interessi, si potrebbe parlare di interessi pubblici a struttura ‘mista’; tutelabili, cioè, attraverso un concorso di competenze intestate a figure soggettive distinte[14].
5. Si giunge così al punto finale.
Concerto e parere obbligatorio sono istituti nominalmente distinti, ma nella sostanza assai prossimi: così come il parere vincolante obbliga l’autorità consultante ad agire in conformità alle indicazioni ricevute; altrettanto avviene nel concerto dove l’autorità agente deve adottare una decisione che tenga in effettivo conto l’avviso espresso dal soggetto interpellato[15].
Se ne consideri più da vicino la struttura fondamentale: entrambi sono doverosi nell’architettura legale della funzione complessa; entrambi poggiano su competenze amministrative collegate; entrambi cospirano a fini comuni; entrambi richiedono una sintesi di volontà in una stessa direzione e quindi unità d’intenti.
A dispetto di quant’osserva la giurisprudenza avanti richiamata se ne potrebbe dedurre che i due istituti non servono solo a raggiungere una sintesi tra interessi distinti e imputabili ad autorità diverse; ma sono utilizzabili anche quando vi sia un solo interesse tutelato in concorso da più autorità amministrative.
In ciò sembra effettivamente risiedere l’essenza del concetto di «cogestione» di funzioni amministrative: nel concorso doveroso di più soggetti all’esercizio del potere - determinativo - di tratteggiare gli effetti della fattispecie legale[16]; ciò che proietta all’esterno il rilievo giuridico del concetto di «collaborazione» - e non di «coordinamento» - tra amministrazioni in vista di fini comuni[17].
È esattamente sul piano dell’unicità dell’interesse curato da competenze amministrative intrecciate che si potrebbe cogliere l’elemento in grado di differenziare la collaborazione dalle nozione finitima di coordinamento che nella sua intima sostanza consiste pur sempre in un’armonizzazione di attività e interessi intestati ad amministrazioni separate[18].
[1] In tema rimane ancora fondamentale lo studio monografico di G. Correale, Contributo allo studio del concerto, Padova, 1974, cui si rinvia.
[2] Pagina 11 del parere.
[3] Ivi.
[4] Ivi.
[5] Tra i molteplici contributi, e senza pretesa di esaustività, si rinvia a G. Ghetti, La consulenza amministrativa, I, Padova, 1974; F. Trimarchi, Funzione consultiva e amministrazione democratica, Milano, 1974; C. Barbati, L’attività consultiva nelle trasformazioni amministrative, Bologna, 2002.
[6] Punto 8.3 della parte motiva in diritto.
[7] Punto 8.4 della parte motiva in diritto.
[8] Punto 8.6 della parte motiva in diritto.
[9] Punto 10.2 della parte motiva in diritto.
[10] Per questi aspetti sia consentito rinviare a F. D’Angelo, Pluralismo degli enti pubblici e collaborazione procedimentale. Per una rilettura delle relazioni organizzative nell’amministrazione complessa, Torino, 2022.
[11] Cfr. V. Bachelet, Coordinamento, in Enc. dir., X, Milano, 1962, 630 ss.; si veda anche la sentenza della Corte costituzionale, 30 dicembre 2003, n. 380, punto 3 della parte motiva in diritto: il concerto è un «modulo procedimentale volto al coordinamento di una pluralità di interessi».
[12] Così ancora Cons. Stato, Sez. IV, 2 ottobre 2023, n. 8610, punto 11.3 della parte motiva in diritto.
[13] Cfr. P. Marzaro, Silenzio assenso tra Amministrazioni: dimensioni e contenuti di una nuova figura di coordinamento ‘orizzontale’ all’interno della ‘nuova amministrazione’ disegnata dal Consiglio di Stato, in Federalismi.it, 19, 2016, 32 ss.; citata da M. Occhiena - N. Posteraro, Pareri e attività consultiva della pubblica amministrazione: dalla decisione migliore alla decisione tempestiva, in Dir. econ., 3, 2019, 57.
[14] Per quest’ordine d’idee si veda A. Ruggeri, Riforma del titolo V ed esperienze di normazione, attraverso il prisma della giurisprudenza costituzionale: profili processuali e sostanziali, tra continuo e discontinuo, in Nuove aut., 6, 2005, 910.
[15] Si confronti sul punto M.S. Giannini, Istituzioni di diritto amministrativo, Milano, 1981, 283.
[16] Il riferimento è a F.G. Scoca, La teoria del provvedimento dalla sua formulazione alla legge sul procedimento amministrativo, in Le trasformazioni del diritto amministrativo. Scritti degli allievi per gli ottanta anni di Massimo Severo Giannini, Milano, 1995, 286.
[17] Tema risalente e mai apertamente affrontato se non in una celebre occasione congressuale efficacemente intitolata Coordinamento e collaborazione nella vita degli enti locali, Milano, 1961, da cui però un preciso discrimine tra i due concetti non emerse del tutto (lo ricorda L. Arcidiacono, Organizzazione pluralistica e strumenti di collegamento. Profili dogmatici, Milano, 1974, 107, nota 27); e tuttavia che il coordinamento amministrativo richieda una sintesi di interessi pubblici contrapposti si può dedurre dall’art. 14, co. 1 della legge n. 241/1990 quando parla di “esame contestuale degli interessi pubblici coinvolti in un procedimento amministrativo, ovvero in più procedimenti amministrativi connessi, riguardanti medesime attività o risultati” (e in simile prospettiva si veda il volume a cura di G. Amato – G. Marongiu, L’amministrazione della società complessa. In ricordo di Vittorio Bachelet, Bologna, 1982).
[18] È favorevole a riconoscere una pur sfumata discriminazione tra le due figure anche A. Police, Enti pubblici di Ricerca ed Università: le persistenti ragioni di una differenziazione e le indifferibili esigenze di uno sforzo comune, in Nuove aut., 1, 2021, 72.
di Giorgio Spangher
Sommario: 1. La decisione - 2.Un passaggio stretto: le imputazioni. - 3. I limiti della tutela posticipata. - 4 Un auspicio.
1. La decisione
Accogliendo l’eccezione di illegittimità costituzionale prospettata dal gip di Roma nella vicenda Regeni, la Corte costituzionale il 26 ottobre del 2023 (c.c. 20 settembre 2023, delib. 27 settembre 2023) ha depositato la motivazione della sentenza – C. Cost. n. 192 del 2023 – con la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 420 bis, comma 3, c.p.p., per violazione degli artt. 2, 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione alla Convenzione di New York contro la tortura, nella parte in cui non prevede che il giudice procede in assenza per i delitti commessi mediante gli atti di tortura definiti dall’art. 1, comma 1, della Convenzione medesima quando, a causa della mancata assistenza dello Stato di appartenenza dell’imputato, è impossibile avere la prova che quest’ultimo, pur consapevole del procedimento, sia stato messo a conoscenza della pendenza del processo, fatto salvo il diritto dell’imputato stesso a un nuovo processo in presenza per il riesame del merito della causa.
Con questa decisione, i giudici costituzionali hanno ristretto le situazioni dell’assenza improcedibile, suscettibile di condurre all’operatività dell’art. 420 quater c.p.p., cioè alla pronuncia inappellabile di improcedibilità ed ha allargato le situazioni di cui ai commi 1, 2 e 3 (nel caso di specie) dell’art. 420 bis c.p.p. che consente, seppur in modo diversificato, di procedere in assenza dell’imputato.
È difficile negare che, per effetto delle diffuse conoscenze mediatiche della vicenda, l’interprete, ad ogni passaggio argomentativo, più o meno stretto e problematico (anche verosimilmente la stessa Corte), non abbia riflettuto sulle implicazioni, sui riflessi, sulle ricadute, nelle premesse della decisione in esame.
Va anche sottolineato che davanti alla Corte costituzionale non si è costituita l’Avvocatura dello Stato.
2. Un passaggio stretto: le imputazioni.
Concentrando l’attenzione solo sui riferiti “passaggi stretti” della decisione, un primo profilo sul quale va rivolta l’attenzione riguarda l’imputazione che dovrebbe riguardare la fattispecie di tortura. Ora, va sottolineato (e lo sottolinea anche la Corte, seppur ritenendo di poter superare la questione) che le norme richiamate e la descrizione dei fatti, sembrano richiedere qualche approfondimento (in sede di udienza preliminare), soprattutto in relazione alla puntuale declaratoria di incostituzionalità, che per tre imputati (altro profilo sottolineato dalla motivazione) le ipotesi incriminatrici sembrano avere contenuto non sovrapponibile con la conseguenza di poter non essere operativa.
I necessari riferimenti fattuali della tortura potrebbero richiedere qualche precisazione medico-legale.
Il rapporto tra il reato di tortura e la necessità del processo per evitare l’impunità anche alla luce delle Convenzioni internazionali in materia, sicuramente inderogabile stante la sua natura di crimine contro la persona e l’umanità, pur con tutte le cautele della motivazione della Corte, sembra tuttavia lasciare spazio ad altre situazioni delinquenziali, a forte impatto, e connotate dalla stesso tasso di lesione della persona (il pensiero agevolmente va alla Convenzione di Istanbul; ed anche a quella in tema di traffico di esseri umani e di criminalità organizzata legata agli stupefacenti) suscettibili di determinare ulteriori giustificazioni la derogatorie. È nota la forza delle eccezioni – variamente giustificabili – rispetto alla fermezza iniziale delle regole.
Resterebbe da approfondire se in presenza di misura cautelare, stante la gravità del fatto, non sarebbe stato possibile o preferibile operare sotto il profilo della latitanza.
3. I limiti della tutela posticipata.
Una volta riavviato il processo, naturalmente ai difensori degli imputati, ancorché d’ufficio, devono essere offerte le possibilità di esercitare il diritto di difesa nella pienezza delle previsioni processuali di garanzia.
Ora, la situazione di cui alla declaratoria di incostituzionalità, pur nella rimarcata distinzione tra “procedimento” e “processo”, appare diversa dalle altre posizioni soggettive che vengono interpolate al comma 3 dell’art. 420 bis c.p.p.
La motivazione della sentenza – la Corte ne è consapevole – sposta le garanzie attraverso “le linee interne” del processo, “senza alcun sacrificio, né condizionamenti, delle facoltà partecipative dell’imputato, prevedendo unicamente “una diversa successione temporale del loro esercizio”.
Invero, appare difficile per la difesa un pieno esercizio dei diritti difensivi, maggiormente possibili, invece, nelle altre situazioni di cui al comma 3 cit.
I difensori non devono essere solo garanti delle regolarità procedurali, ma devono essere messi nelle condizioni di esercitare compiutamente i diritti difensivi, non solo contraddicendo l’accusa e la parte civile, ovvero sollevando questioni di legittimità costituzionale (che però dovrebbero essere accolte).
Certo potrebbero avvalersi degli atti processuali posti alla base dell’archiviazione in Egitto, ma ci saranno difficoltà, ad esempio, per la lista testi, per i consulenti, per l’attività all’estero e quant’altro potrebbe risultare utile alla tutela degli imputati (che restano presunti innocenti, rectius, considerati non colpevoli: art. 27 Cost.).
Appare difficile (rectius, impossibile) che i legali possano proporre appello, stante la presenza dell’art. 581, comma 1 quater c.p.p..
La Corte è consapevole che si celebrerà un processo che, se non sarà “un simulacro” servirà (solo) per rispettare un non secondario obbligo costituzionale e sovranazionale, assistito dalla pubblicità del dibattimento.
La stessa Corte, del resto, non può non riconoscere che gli imputati, se condannati, potranno accedere “senza limiti, né condizioni” ad un nuovo processo in quanto determinato “da una prova di incolpevolezza in re ipsa”, con libero accesso alle reintegrazioni delle facoltà processuali che riterranno di esercitare (anche separatamente, ognuno di essi, verosimilmente).
La questione si porrà al momento dell’eventuale esecuzione della condanna: durante la pendenza del processo non dovrebbe trovare operatività l’art. 420 quater c.p.p. con la previsione, se rintracciati, dalla comunicazione dell’udienza ivi indicata.
Anche questa ripetizione dei processi (se mai saranno celebrati), che non dovrebbero subire l’interruzione della prescrizione, per i reati (alcuni sono già vicini alla deadline) porrà problemi per il possibile recupero di materiale probatorio irripetibile.
4. Un auspicio.
Una alterazione processuale che anche per i giudici costituzionali (ad Regeni, come è stato detto), per le considerazioni iniziali, era forse inevitabile ma che, al di là della sicura gravità del reato e del suo forte impatto mediatico, sarebbe stato preferibile non introdurre, non pienamente convincente, che forse resterà isolata (salvo quanto detto), come è accaduto storicamente per altre situazioni processuali connotate da forte eccezionalità.
* v. Processo Regeni: un passaggio stretto tra regole ed eccezione di Giorgio Spangher
di Federica Resta, dirigente del Garante per la protezione dei dati personali*
Con l’ord. 21789/23, la Corte di cassazione ha chiarito alcuni aspetti essenziali della disciplina di protezione dei dati personali. Sono state fornite, in particolare, indicazioni importanti sui criteri di commisurazione delle sanzioni amministrative previste dal Regolamento generale sulla protezione dati, sui poteri del giudice adito in sede di opposizione avverso il provvedimento del Garante, sulla competenza delle Autorità di protezione dati nazionali, rispetto a trattamenti di carattere transfrontaliero.
1. Il provvedimento del Garante e la sentenza di primo grado
L’ordinanza 21789 del 22 settembre 2023 della Corte di cassazione sancisce alcuni importanti principi in materia di protezione dei dati personali. I profili di maggiore interesse della pronuncia riguardano i criteri di irrogazione delle sanzioni amministrative pecuniarie previste dal Regolamento (UE) 2016/679 (infra: Regolamento), i poteri del giudice in sede di opposizione al provvedimento del Garante, la competenza dell’Autorità di protezione dati diversa dall’Autorità capofila rispetto a trattamenti di dati personali di carattere transfrontaliero.
La vicenda riguarda il trattamento dei dati dei lavoratori (riders) di una nota società di food delivery, oggetto di un provvedimento del Garante di natura correttiva e sanzionatoria del 10 giugno 2021 (n. 234).
In quella sede, in particolare, è stata accertata la responsabilità della società per una serie di violazioni del Regolamento, quali: inidoneità dell’informativa resa ai lavoratori rispetto al funzionamento dell’algoritmo; violazione del principio di limitazione della conservazione (art. 5, p.1, lett.e) per aver conservato dati personali per un periodo eccedente le reali necessità; violazione dei principio di minimizzazione (art. 5, p.1, lett.c) e di privacy by design e by default (art. 25) per l’inadeguatezza delle modalità di configurazione dei sistemi informatici mediante i quali avveniva il trattamento dei dati; omessa effettuazione della valutazione d’impatto sulla protezione dati, ritenuta in quel caso doverosa per le peculiari caratteristiche del trattamento; omessa adozione delle misure a tutela delle libertà e dei diritti degli interessati rispetto ai processi decisionali automatizzati fondati sul trattamento di dati personali (art. 22, p.3); omessa comunicazione della designazione del responsabile della protezione dati (art. 37, p.7); inidonea tenuta del registro delle attività di trattamento; violazione della disciplina lavoristica (art. 4 l. 300 del 1970, richiamato anche in funzione sanzionatoria dall’art. 114 d.lgs. 196 del 2003 e s.m.i.) in relazione al controllo a distanza dell’attività lavorativa realizzato mediante il trattamento dei dati dei lavoratori effettuato tramite la piattaforma digitale, l’ app e i canali utilizzati dal customer care.
Applicando il criterio del cumulo giuridico previsto dall’art. 83, p.3, del Regolamento per i casi di concorso di illeciti, a fronte delle violazioni riscontrate è stata irrogata la sanzione amministrativa pecuniaria comminata per l’illecito più grave, ovvero - come si legge nel provvedimento - quello derivante dalla violazione dei principi del trattamento (art.5 del Regolamento).
Per tali illeciti la sanzione edittale prevista giunge fino a 20 milioni di euro o al 4% del fatturato mondiale annuo dell’esercizio precedente, se superiore.
In applicazione di tali criteri, il Garante ha irrogato - oltre alla sanzione accessoria della pubblicazione, sul sito web dell’Autorità, dell’ordinanza ingiunzione - una sanzione amministrativa pecuniaria di euro 2.600.000,00, così individuata tenendo conto dei vari parametri di commisurazione infraedittale, di ordine oggettivo e soggettivo, previsti dall’art. 83, p. 2, del Regolamento.
Avverso tale provvedimento ricorreva la società ingiunta, con opposizione accolta in primo grado. Tale sentenza (Tribunale di Milano, sent.n. 3276/2022) disponeva, in particolare, l’annullamento della sanzione irrogata. In particolare, il Tribunale aveva ritenuto da un lato legittimo, sul piano della competenza, l’intervento nei confronti di una società italiana interamente controllata da altro ente collettivo straniero.
La contestazione della legittimità del provvedimento muoveva, tuttavia, dalla commisurazione infraedittale della sanzione, ritenendo che il Garante non avrebbe rispettato il criterio di cui all’art. 83, par. 5, lett. a), del GDPR, perché avrebbe - in violazione del disposto dell’alinea - irrogato una sanzione superiore al massimo edittale del 4% del fatturato mondiale totale annuo dell’esercizio precedente. La sanzione irrogata, di 2.600.000 euro, corrisponderebbe, infatti, se rapportata in termini percentuali al fatturato, al suo 7, 29%.
Per tale ragione, il Tribunale ha annullato il provvedimento "senza possibilità per il giudice adito di modificare l'entità della pena pecuniaria". Il giudice ha, infatti, ritenuto che tale potere non gli sia attribuito dall'art. 10 del d.lgs. 150 del 2011, diversamente da quanto previsto per i procedimenti di cui agli artt. 6 e 7. Del resto, la deroga al divieto di annullamento degli atti amministrativi da parte del giudice ordinario (richiamata al comma 6 dell’art. 10 d.lgs. 150 del 2011) si riferisce al potere di ingiunzione, da parte del giudice, delle “misure necessarie”, per tali intendendo le misure correttive.
2. L’ordinanza della Corte di Cassazione
Avverso la sentenza del Tribunale di Milano, il Garante ha presentato ricorso (per saltum, ex art. 10, c.10, d.lgs. 196 del 2003 e s.m.i.) in cassazione accolto con rinvio, con l’ordinanza in analisi, limitatamente a due motivi.
La Corte ha, in particolare, enunciato i seguenti principi:
“l'art. 83 del GDPR prevede e disciplina le condizioni generali per infliggere sanzioni amministrative pecuniarie stabilendo una regola preliminare imputata alla rilevanza del caso singolo, sicché ogni autorità di controllo deve provvedere affinché le sanzioni amministrative pecuniarie inflitte in relazione alle violazioni del regolamento siano "in ogni singolo caso" effettive, proporzionate e dissuasive;”
“il riferimento alla sanzione proporzionale non è posto dal GDPR in funzione mitigatoria del limite edittale stabilito con la sanzione variabile ordinaria, ma rappresenta un limite edittale ulteriore e distinto, al quale occorre riferirsi solo se superiore (esso in quanto tale) al massimo della sanzione suddetta;”
“con la sentenza che accoglie l'opposizione il giudice, anche nelle controversie in materia di dati personali, può annullare in tutto o in parte il provvedimento o modificarlo anche limitatamente all'entità della sanzione dovuta, che è determinata in una misura in ogni caso non inferiore al minimo edittale;”
“ove dalla sentenza di merito risulti che il trattamento sia stato effettuato da una società italiana in piena e diretta autonomia di decisione rispetto ai dati personali dei propri rider, tanto basta a stabilire la legittimazione a fini sanzionatori dell'Autorità nazionale garante della protezione dei dati”.
Con riguardo ai criteri di irrogazione della sanzione, la Corte chiarisce anzitutto la gerarchia di priorità da osservare rispetto ai parametri previsti dall’articolo 83 del Regolamento, al fine di circoscrivere la discrezionalità delle Autorità di controllo nell’esercizio di una potestà sanzionatoria che la giurisprudenza interna, in applicazione dei criteri sanciti dalla giurisprudenza delle Corti Europea dei diritti umani e di giustizia dell’Unione europea, ha definito punitiva in senso convenzionale (Trib. Palermo, sent. 3563 del 18 luglio 2019).
L’ordinanza afferma dunque, in primo luogo, che i criteri di efficacia, proporzionalità, dissuasività delle sanzioni amministrative, previsti dall’art. 83, p.1, del Regolamento, delineano una “regola preliminare”, incentrata sulla “rilevanza del caso singolo”. La norma vincola, dunque, l’esercizio del potere sanzionatorio al rispetto di parametri che impongono di tenere in conto, in via preliminare, delle caratteristiche della fattispecie concreta, in modo che il public enforcement sia realizzato in modo, appunto, efficace e proporzionato rispetto alle peculiarità dell’illecito e dissuasivo (almeno, in ottica special-preventiva) nei confronti dell’autore della violazione. Tale ricostruzione è, del resto, coerente con il dettato normativo. Nell’art. 83, p.1, i criteri tradizionalmente riferiti alla disciplina interna degli aspetti sanzionatori e, dunque, alla discrezionalità del legislatore nazionale (cfr., ad es., art.34, p.1, Reg (UE) 2022/868) sono infatti riferiti, per converso, all’irrogazione, in concreto, delle sanzioni da parte delle autorità di controllo (cfr., anche, C 148 del Regolamento).
Per altro verso, la Corte di cassazione chiarisce il rapporto tra i due diversi criteri di irrogazione delle sanzioni amministrative pecuniarie previsti dall’art. 83, p. 4 e 5: quello “fisso” o statico e quello proporzionale o dinamico.
Tali disposizioni prevedono, infatti, per ciascuna delle due “fasce” di illeciti contemplate e distinte per gravità, due diverse cornici edittali: la prima con un massimo edittale fisso (10 milioni di euro per la fascia di illeciti del paragrafo 4, 20 milioni di euro per quella del paragrafo 5) e la seconda con un massimo edittale proporzionale (nella misura del 2% per gli illeciti del paragrafo 4 del 4% per gli illeciti del paragrafo 5) al fatturato mondiale totale annuo dell’esercizio precedente dell’impresa. Entrambe le disposizioni circoscrivono, tuttavia, la residualità del criterio proporzionale, rendendolo applicabile solo nel caso in cui il massimo edittale, così calcolato (appunto nella misura del 2% o, rispettivamente, del 4% del fatturato) sia superiore al massimo edittale individuato dal criterio fisso (nella misura di 10 milioni o, rispettivamente, 20 milioni di euro).
La Corte di cassazione chiarisce, dunque, che la scelta del criterio sanzionatorio da applicare deve conseguire a una previa comparazione del fatturato dell’impresa con il limite (500 milioni di euro) il cui 4% e il cui 2% corrispondono al massimo edittale fisso (rispettivamente 20 e 10 milioni di euro) sancito per le due fasce di illecito previste dai paragrafi 4 e 5 dell’art. 83. Il criterio proporzionale è, dunque, applicabile solo a imprese il cui fatturato superi la soglia dei 500 milioni di euro; laddove esso sia, invece, inferiore (come nel caso oggetto del ricorso), la valutazione percentuale non viene in rilievo, dovendo la sanzione muoversi all’interno della cornice edittale fissa. In tal senso dispongo, peraltro chiaramente, le Linee guida n. 4 del 2002 dell’European Data Protection Board. Nel caso di specie, inoltre (come, del resto, in altri simili), è stato considerato il fatturato non dell’intero gruppo ma della società partecipata stabilita nel territorio nazionale e ritenuta essere l’effettiva titolare del trattamento, argomentando dalla nozione di "impresa" di cui agli articoli 101 e 102 TFUE.
Circa i poteri del giudice in sede di opposizione al provvedimento del Garante, la Cassazione chiarisce come la norma di cui all’art. 10 d.lgs. 150 del 2011 (in cui manca un espresso riferimento ai poteri di modifica della sanzione da parte del giudice), non vada letta isolatamente, ma in combinato disposto con l’art. 166 d.lgs. 196 del 2003 e s.m.i., che disciplina il procedimento sanzionatorio dinanzi al Garante.
Tale norma, infatti, richiama “in quanto applicabili” alcune disposizioni della legge 689 del 1981 tra le quali anche l’art.22, relativamente all’opposizione all’ordinanza ingiunzione. La disciplina procedurale di tale giudizio di opposizione è, invece, prevista dall’art. 6 d.lgs. 150 del 2011, il cui comma 12 legittima espressamente il giudice, tra l’altro, alla modifica dell’entità della sanzione dovuta. Da questo complesso rinvio normativo la Cassazione deduce, dunque, il potere del giudice di rimodulare, in sede di giudizio di opposizione, anche l’entità della sanzione irrogata dal Garante, sia pur in misura non inferiore al minimo (a rigore, non contemplato dalla norma).
Tale conclusione è, del resto, coerente con la complessiva disciplina delle tutele, amministrativa e giurisdizionale, prevista dal Regolamento in modo da temperare (o, meglio, coniugare) la regola dell’alternatività con quella della indefettibilità ed effettività della tutela giurisdizionale. Essa, infatti, non può essere preclusa neppure in caso di previo esperimento della tutela amministrativa, salvo tuttavia in questa ipotesi assumere il carattere del giudizio impugnatorio (recte: oppositivo) avverso il provvedimento reso dal Garante (o la sua inerzia). In altri termini, ai fini della valutazione tanto dell’alternatività quanto dell’effettività, l’esito risultante dalla successione tra tutela amministrativa e giurisdizionale deve poter equivalere a quello risultante dalla sola seconda. Se, dunque, il requisito dell’effettività della tutela è riferito formalmente solo a quella giurisdizionale, l’indefettibilità di quest’ultima (essendo sempre ammessa o in via diretta e alternativa a quella amministrativa, ovvero in via complementare a questa, in sede di opposizione alla decisione conclusiva del contenzioso dinanzi al Garante) determina di fatto un’estensione del canone di effettività all’intero sistema delle tutele, complessivamente considerato. Tale ragione induce, del resto, a ritenere anche che l’impugnazione del provvedimento del Garante (almeno se assunto in sede contenziosa) non configuri un giudizio di seconda istanza tout court, a cognizione dunque limitata alle sole questioni dedotte dalle parti ma abbia, invece, natura interamente devolutiva del rapporto sottostante, configurando in altri termini un novum judicium e non una mera revisio prioris instantiae. Il ricorso configurerebbe, dunque, non un gravame ma un’opposizione (CC, VI, 25 maggio 2017, n. 13151).
Infine, l’ordinanza in analisi ha chiarito un aspetto importante della competenza delle Autorità di protezione dati diverse dalla autorità capofila (artt. 55-56 del Regolamento), rispetto ai trattamenti di dati personali transfrontalieri. La Cassazione ha ritenuto dirimente, ai fini del radicamento della competenza di un’Autorità non capofila, relativamente al trattamento svolto non dallo stabilimento principale della società, il grado di autonomia decisionale della sede interessata rispetto a tale trattamento.
Tale profilo - precisa l’ordinanza - naturalmente investe una valutazione di merito che verta, appunto, sul grado di eterodirezione della sede locale dallo stabilimento principale, ma è indispensabile per verificare la competenza dell’Autorità interessata.
*Il presente contributo riflette opinioni personali dell’autrice, che non impegnano in alcun modo l’Autorità di appartenenza.
(Immagine: Aaron Koblin, Flight Patterns, 2011, Chicago Art Institute, © Aaron Koblin)
Per installare questa Web App sul tuo iPhone/iPad premi l'icona.
E poi Aggiungi alla schermata principale.