ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. Premessa: la perdurante attualità del tema. – 2. I nodi problematici tradizionalmente esaminati. – 3. L’ordinamento della giustizia amministrativa e le sue perduranti criticità. – 4. Le ricadute processuali: in particolare, la c.d. giurisdizione domestica. – 5. L’autogoverno della magistratura amministrativa. – 6. Lo sconfortante panorama associativo. – 7. Conclusioni: una riforma necessaria ma forse impossibile.
1. Premessa: la perdurante attualità del tema.
Più che alla mistica nietzschiana dell’eterno ritorno[1], parrebbe ascrivibile alla categoria degli incubi ricorrenti alla Stephen King[2] il modo in cui il tema del ruolo e dell’indipendenza dei giudici amministrativi si ripresenta regolarmente all’attenzione di media e commentatori. Si tratti dell’ennesimo intervento su una gara per l’affidamento di un appalto pubblico, della sospensione dell’ordine di abbattimento di un’orsa o dell’accoglimento del ricorso proposto contro la bocciatura di uno studente colpito da gravi insufficienze, qualsiasi decisione dei Tribunali amministrativi regionali o del Consiglio di Stato capace di suscitare l’attenzione dell’opinione pubblica – specie se idonea a suscitare perplessità dal punto di vista della politica o di un “sentimento popolare” reale o presunto – invariabilmente riapre il dibattito sulla pretesa “invasività” della giustizia amministrativa rispetto alle prerogative del potere esecutivo e/o dell’amministrazione, con le inevitabili proposte di ridimensionamento dei relativi poteri o, al limite, di soppressione delle istituzioni che li esercitano[3].
Tralasciando i profili più beceri delle polemiche da social media[4], in questa sede interessa chiedersi se vi sia un nesso tra questa diffusa “sfiducia” nella giurisdizione amministrativa, spesso alimentata da ignoranza o scarsa comprensione di quello che ne è il fisiologico – e ineludibile – compito istituzionale (ad onta delle frequenti “difese di ufficio” svolte dai massimi vertici istituzionali[5], ma anche da studiosi autorevoli e imparziali)[6], e le peculiarità che connotano lo status dei magistrati amministrativi, sotto lo specifico profilo istituzionale dell’indipendenza e dell’imparzialità che costituisce la pre-condizione imprescindibile per definirne il ruolo e l’immagine di Giudici. In altri termini, occorre interrogarsi su quali siano i principali tratti che ad oggi delineano la “specialità” del giudice amministrativo rispetto alle altre giurisdizioni, e chiedersi se queste concorrano a definire una figura di giudice adeguatamente imparziale e indipendente, o quanto meno percepibile come tale alla stregua dei canoni comunemente impiegati dall’utenza nel “riconoscere” la posizione e la funzione degli organi istituzionali; tali interrogativi, ad avviso di chi scrive, conducono necessariamente a quello più generale se la giurisdizione amministrativa sia oggi dotata di un profilo istituzionale organico e coerente, idoneo a individuarla (e, quindi, legittimarla dinanzi all’opinione pubblica) come giurisdizione a tutto tondo pur nella sua “diversità” rispetto a quella ordinaria.
Naturalmente, l’indagine non può esaurirsi nella banale domanda se la magistratura amministrativa soffra o no un deficit di indipendenza, sul piano istituzionale e ordinamentale, rispetto alla giurisdizione ordinaria. Posto il quesito in tali termini, la risposta non può che essere affermativa, come è evidente dal tessuto normativo di riferimento già a partire dalla cornice costituzionale: è noto infatti che, mentre per la magistratura ordinaria le guarentigie della sua indipendenza sono analiticamente declinate dalla Costituzione (articoli 101, 104, 105 e 107), in modo da vincolare e limitare il legislatore ordinario, l’articolo 108, secondo comma, rimette alla legge il compito di “assicura[re] l’indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali”, riservando dunque al vaglio di costituzionalità della legislazione ordinaria in subiecta materia la verifica della sua idoneità o meno a garantire il rispetto del precetto costituzionale[7]. Da ciò è discesa la convinzione, per lungo tempo granitica fra i commentatori e ancora oggi molto diffusa, di una diversa gradazione delle garanzie di indipendenza tra giurisdizione ordinaria e giurisdizioni speciali “costituzionalizzate”, essendo riconosciuta solo alla prima una indipendenza “forte”, e alle seconde invece una indipendenza “sufficiente”[8], o comunque modulata non in via assoluta ma in relazione agli specifici compiti che la Costituzione assegna a ciascuna di esse[9].
Questo approccio, che ha a lungo influenzato la stessa giurisprudenza costituzionale in ordine allo status ed alle garanzie di indipendenza della giurisdizione amministrativa[10], è oggi oggetto di profonda rimeditazione alla luce del recepimento a livello costituzionale dei principi del “giusto processo” nell’articolo 111 Cost., come novellato dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, che, in virtù del richiamo contenuto nell’articolo 2, comma 1, del codice del processo amministrativo[11] non può non indirizzare nel senso della (quanto meno tendenziale) estensione a tutte le giurisdizioni speciali dell’intero compendio di principi e regole affermati nel Titolo IV della Parte II della Costituzione[12]. Si vedrà però, approfondendo questo punto, che il percorso legislativo di compenetrazione dei principi del “giusto processo” nella giurisdizione amministrativa, che potrebbe costituire l’occasione decisiva e conclusiva per il superamento di perduranti dubbi e criticità sull’indipendenza e imparzialità di tale giudice, non è forse ancora del tutto compiuto.
Sia come sia, le considerazioni che precedono dovrebbero essere sufficienti a dar conto delle ragioni per cui, pur nel delineato contesto costituzionale e istituzionale, il tema di una non pienezza dell’indipendenza del giudice amministrativo sia periodicamente rimeditato anche da osservatori autorevoli[13]; così come, pur in un contesto in cui è ormai largamente acquisito il riconoscimento del giudice amministrativo come “risorsa” per una miglior tutela dei diritti dei cittadini[14], ci si continui a interrogare su quali siano i veri tratti qualificanti della sua “specialità” al di là delle necessità connesse alla tipologia di affari di cui esso è chiamato a occuparsi ed alle conseguenti peculiarità della relativa disciplina processuale[15].
2. I nodi problematici tradizionalmente esaminati.
Se allora ci si concentra sulle riflessioni più mature e consapevoli svolte in ordine alle criticità ancora oggi esistenti nello “statuto” di indipendenza dei giudici amministrativi, è agevole, ma anche curioso, rilevare che queste vengono di regola individuate in alcune delle principali specificità ordinamentali della giurisdizione in questione: quasi che sia la sua stessa “specialità” a pregiudicarne o attenuarne le necessarie garanzie di indipendenza e imparzialità. Una tale ingenerosa conclusione non è però condivisibile, come peraltro riconosciuto dagli stessi autori che hanno approfondito il tema, dal momento che uno sforzo di maggiore approfondimento evidenzia come in relazione ai profili de quibus – al di là delle possibili “tensioni” costituzionali che possono evocare ed al modo in cui queste vengono per lo più superate, nonché di innegabili aspetti di perfettibilità della normativa vigente – i possibili effetti di lesione dell’indipendenza e imparzialità, e ancor di più dell’immagine di imparzialità che i magistrati devono necessariamente assicurare[16], dipendano molto più dalle ricadute pratiche (e, a volte, dalle degenerazioni) che essi producono che non dalla loro esistenza in sé considerata[17].
In particolare, gli aspetti di (presunta) problematicità su cui maggiormente ci si sofferma sono:
a) la compresenza in capo ad uno stesso organo, il Consiglio di Stato, di funzioni consultive e giurisdizionali;
b) la nomina governativa di una parte dei magistrati dello stesso Consiglio di Stato;
c) l’ampio ricorso a giudici amministrativi, e soprattutto a Consiglieri di Stato, per l’attribuzione di incarichi di consulenza e collaborazione governativa, in misura tradizionalmente molto maggiore rispetto a quanto avviene per i magistrati ordinari;
d) la peculiare disciplina della nomina del Presidente del Consiglio di Stato.
Si nota immediatamente, allora, che è soprattutto nell’assetto e nella disciplina del Consiglio di Stato che vengono comunemente rinvenuti i principali profili di possibile “eccentricità” rispetto a un supposto modello di Giudice imparziale e indipendente, elaborato secondo le coordinate rivenienti dall’ormai pluridecennale applicazione dei principi costituzionali (ma anche del diritto dell’Unione europea e della Convenzione europea dei diritti umani). Con tutta evidenza, si tratta di caratteri che discendono dalla più che secolare storia del Consiglio di Stato e dal fatto che il sistema italiano della giustizia amministrativa, nel suo sorgere e svilupparsi lungo l’arco dei decenni in armonia con i diversi quadri istituzionali e costituzionali di riferimento, si è innestato sul ceppo della tradizione e dell’opera svolta da tale Istituto nell’affermazione e nell’affinamento degli strumenti di tutela dei diritti dei cittadini nei loro rapporti con la pubblica amministrazione[18].
Correlativamente, si assume infatti che – a differenza del Consiglio di Stato – i Tribunali amministrativi regionali, anche a causa della loro nascita in un momento successivo allorché il quadro costituzionale era più maturo e compiuto, sarebbero immuni dai ricordati profili di anomalia strutturale, realizzando in pieno il modello di giudice indipendente e imparziale delineato dal costituente[19].
Con riguardo alla funzione consultiva del Consiglio di Stato, che questa – prima, e indipendentemente, da ogni possibile valutazione in ordine alla sua incidenza sull’indipendenza dell’Istituto – costituisca uno dei tratti qualificanti della stessa specialità della giurisdizione amministrativa non è una petizione di principio, essendo stato affermato nella più autorevole delle sedi, e cioè dalla Corte costituzionale in una importante sentenza[20] nella quale ha individuato proprio nell’attribuzione al Consiglio di Stato da parte della Costituzione di funzioni consultive, a fianco a quelle giurisdizionali, la ratio giustificatrice sul piano costituzionale di rilevanti peculiarità dell’ordinamento e delle carriere dei giudici amministrativi[21] (peculiarità su cui si tornerà più approfonditamente in prosieguo)[22].
Sul punto, pur registrandosi il permanere di posizioni che considerano una “contraddizione” della Costituzione la duplice attribuzione al Consiglio di Stato di funzioni giurisdizionali e di consulenza dell’esecutivo[23], può dirsi ormai acquisito che l’attività consultiva svolta da tale organo, lungi dal determinare una commistione dello stesso con la funzione politico-amministrativa propria del potere esecutivo, ha una connotazione eminentemente tecnica, essendo volta ad assicurare l’elevata qualità della regolazione e l’armonica e coerente interpretazione ed evoluzione dell’ordinamento nel suo complesso, in conformità alle scelte di indirizzo politico che ispirano gli atti normativi; essa è quindi esercitata in modo oggettivo e in posizione di “terzietà”, nell’esclusivo perseguimento dell’interesse pubblico piuttosto che di interessi particolari, e come tale si pone in rapporto di complementarietà rispetto all’attività giurisdizionale attribuita allo stesso Consiglio di Stato (la quale ha anch’essa quale connotato qualificante l’individuazione del punto di equilibrio tra interesse pubblico e interessi particolari implicati nell’attività amministrativa)[24].
Si può discutere, sul piano teorico, della validità e soprattutto dell’attualità della visione sottostante a questi assunti, fondata sull’idea di stampo liberale che compito dell’amministrazione (e, quindi, anche del giudice dell’amministrazione) sia mediare conflitti tra interessi pubblici e privati, e pertanto ricercare il punto di equilibrio tra “autorità” e “libertà”[25], ma non è questa la sede per approfondire profili che investono – in definitiva – il tema del ruolo delle istituzioni giurisdizionali tutte nello Stato moderno. Ciò che qui conta è prendere atto dell’ormai prevalente inquadramento del ruolo del Consiglio di Stato quale organo consultivo posto in posizione di terzietà e immune da qualsiasi forma di dipendenza o subalternità rispetto agli altri poteri statuali.
Tali conclusioni, del resto, oltre che dall’esperienza ormai pluridecennale della Sezione per gli atti normativi e della dialettica che essa spesso instaura con il Governo in ordine a forme e contenuti degli schemi di regolamento esaminati[26], risulta confortata anche dagli orientamenti delle giurisdizioni sovranazionali, non essendo ignota ad altri ordinamenti europei la compresenza in capo a un medesimo organo di funzioni consultive e giurisdizionali[27], la quale è stata ritenuta in astratto non integrare violazione dell’articolo 6 CEDU[28]. In definitiva, più che sul terreno dell’indipendenza dell’organo decidente, le possibili tensioni discendenti dalla coesistenza delle due funzioni possono manifestarsi su quello dell’imparzialità (o dell’apparenza di imparzialità) dei singoli magistrati interessati, sub specie della possibilità che un magistrato possa occuparsi di un medesimo affare dapprima in sede consultiva e quindi in sede giurisdizionale, e possono essere adeguatamente scongiurate attraverso misure organizzative, quali il divieto di assegnazione contemporanea dei Consiglieri di Stato alle Sezioni consultive e a quelle giurisdizionali, nonché, in casi di conclamata incompatibilità, attraverso l’applicazione degli istituti processuali dell’astensione e della ricusazione[29].
Se dunque appaiono decisamente convincenti gli argomenti sulla base dei quali è possibile escludere che la coesistenza in capo al Consiglio di Stato di funzioni consultive e funzioni giurisdizionali possa di per sé stessa costituire un vulnus all’indipendenza e all’imparzialità dello stesso, qualche dubbio potrebbe invece sollevarsi sulla perdurante validità del rilievo “centrale” attribuito dalla Corte costituzionale alla funzione consultiva in quanto elemento qualificante la specialità della giurisdizione amministrativa, alla luce del recente forte ridimensionamento (almeno quantitativo) di tale funzione, per effetto dapprima delle determinazioni del legislatore, che con l’articolo 17, comma 26, della legge 15 maggio 1997, n. 127, ha drasticamente ridotto i casi di acquisizione obbligatoria del parere del Consiglio di Stato (previsione solo parzialmente “bilanciata” dall’istituzione della Sezione consultiva per gli atti normativi)[30], e successivamente di quelle dei Presidenti del Consiglio di Stato, i quali, avvalendosi della facoltà loro attribuita dall’articolo 1, quinto comma, della legge 27 aprile 1982, n. 186, introdotto dal decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, a partire dal 2010 hanno trasformato alcune Sezioni da consultive in giurisdizionali, al punto che ad oggi ne sopravvive una sola (su sette), oltre alla Sezione speciale per gli atti normativi. A tale situazione, certamente indotta da una serena analisi dei carichi di lavoro relativi agli affari consultivi e a quelli giurisdizionali e delle conseguenti necessità organizzative, va peraltro aggiunto che l’unica Sezione consultiva “superstite”, la Prima, vede il proprio carico di lavoro composto per oltre il 90% da richieste di pareri relativi a ricorsi straordinari al Presidente della Repubblica, rimedio che – come è noto – si ritiene abbia ormai acquisito natura para-giurisdizionale per effetto di recenti modifiche normative e pronunciamenti delle supreme Corti[31].
In alternativa, ove mai si intendesse realmente valorizzare le funzioni consultive come elemento qualificante della giurisdizione amministrativa, potrebbe ipotizzarsene un reale rilancio, attraverso la previsione normativa di nuove ipotesi di pareri obbligatori del Consiglio di Stato in relazione ad atti di regolazione ulteriori e diversi (fino, al limite, a prevederne l’intervento in via “ordinaria” nell’iter di formazione delle leggi), ovvero con l’attribuzione di funzioni consultive anche ai Tribunali amministrativi regionali. Ma la prima opzione – pur non estranea ad altre esperienze anche molto affini a quella italiana[32] - non risulta essere mai stata presa seriamente in considerazione del legislatore, mentre la seconda è stata in passato sostenuta anche autorevolmente[33], ma oggi sembra sostanzialmente abbandonata.
Più delicati sono forse i problemi sollevati dalla riserva al Governo della nomina di una quota dei Consiglieri di Stato, oggi quantificata nel 25% del totale (articolo 19, comma primo, n. 2, l. n. 186/1982). Tuttavia, è noto che tale previsione non è stata più seriamente rimessa in discussione dopo essere stata ritenuta compatibile con il quadro costituzionale da una sentenza[34] nella quale la Corte costituzionale ha anche individuato gli elementi idonei ad assicurare la legittimità del sistema di reclutamento de quo:
a)nella necessità che le designazioni investano soggetti comunque in possesso di elevati doti di preparazione e competenza, tali da renderne indiscutibile l’idoneità all’elevato ufficio;
b)nella circostanza che i Consiglieri così nominati, una volta acquisito lo status di magistrati, ne condividono le garanzie di indipendenza e imparzialità con tutti gli altri magistrati dell’Istituto, recidendo definitivamente ogni legame con la loro precedente carriera o professione[35].
Il presupposto dell’argomentazione della Corte – ribadito più esplicitamente in relazione alla nomina governativa di una parte dei Consiglieri della Corte dei conti[36] – è che la regola dell’accesso alla magistratura mediante pubblico concorso, di cui al primo comma dell’articolo 106 Cost., non afferisce al nucleo delle garanzie di indipendenza del magistrato, ma mira soltanto ad assicurare l’idoneità dello stesso al servizio, ciò che può essere comunque garantito dal legislatore indipendentemente dal sistema di reclutamento (e ferme restando le garanzie minime di indipendenza aliunde ricavabili dallo status giuridico dei magistrati interessati)[37].
Nell’attuale quadro normativo, il sistema si completa con la previsione di un necessario parere del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, organo di autogoverno della giurisdizione amministrativa, in ordine alle proposte di nomina formulate dal Governo, previa verifica del rispetto dei requisiti di idoneità che lo stesso Consiglio di presidenza è chiamato a definire e integrare[38].
Molto rilevante, poi, è il fenomeno del diffuso ricorso a magistrati amministrativi (e soprattutto a Consiglieri di Stato) per l’attribuzione di incarichi di collaborazione governativa ovvero presso altri enti pubblici, compresi quelli apicali di capo di gabinetto e capo dell’ufficio legislativo nei Ministeri: un fenomeno che in questa sede deve essere analizzato non tanto sotto il profilo dell’utilità dell’apporto di competenze e professionalità che tali incarichi producono per l’attività legislativa e di amministrazione attiva, di recente messa anche autorevolmente in discussione[39], quanto sotto quello della loro incidenza sulle garanzie di indipendenza e imparzialità del magistrato e sulla stessa apparenza di imparzialità dell’organo di appartenenza[40]. È proprio sotto questo aspetto che si sono registrate da parte della dottrina alcune posizioni critiche, ancora una volta – tuttavia – determinate molto più dalla pratica quotidiana relativa all’attribuzione e allo svolgimento dei compiti de quibus che non dalla mera circostanza della loro attribuibilità (anche) a magistrati amministrativi.
A onor del vero, l’identificazione del Consigliere di Stato in una figura di grand commis destinata anche a mettere le proprie competenze e professionalità al servizio del Governo, dell’amministrazione e in alcuni casi anche del Parlamento affonda le proprie radici nella tradizione e nella stessa storia del Consiglio di Stato: e non casualmente l’uso di conferire a magistrati amministrativi incarichi ministeriali apicali, ma anche di semplice consulenza sugli affari giuridici e nell’attività legislativa, è stato sempre costantemente difeso dai massimi vertici dell’Istituto quale indispensabile elemento di arricchimento reciproco[41], sia per l’amministrazione (la quale può giovarsi delle competenze e della professionalità di soggetti estremamente qualificati) che per lo stesso magistrato (il quale ha l’occasione di ampliare il proprio bagaglio di esperienze attraverso una conoscenza diretta – non necessariamente già presente nel suo precedente cursus di studi e di lavoro - del funzionamento dell’attività amministrativa e legislativa). Seguendo questa linea, si è giunti ad affermare che lo svolgimento degli incarichi in questione costituirebbe, sulla falsariga di quanto avviene per il Conseil d’État francese, una “terza funzione” del Consiglio di Stato, accanto a quelle consultiva e giurisdizionale[42].
Inoltre, si assume che l’ordinamento conterrebbe in sé regole e cautele idonee a scongiurare ogni pregiudizio all’indipendenza e all’imparzialità dei magistrati interessati dagli incarichi, attraverso una regolamentazione dello svolgimento di compiti extragiudiziari – previa autorizzazione degli organi di autogoverno – che è ormai sostanzialmente analoga per i magistrati ordinari e quelli delle giurisdizioni speciali[43]; in particolare, ad evitare ogni vulnus anche solo all’immagine di imparzialità soccorrono le regole dell’incompatibilità con la conseguente applicazione degli istituti dell’astensione obbligatoria e della ricusazione in relazione agli affari in cui sia parte l’ente o l’amministrazione presso cui il magistrato ha svolto il proprio ufficio, una volta rientrato dal “fuori ruolo”, ovvero presso cui lo svolge, in caso di incarico con permanenza in ruolo.
L’assimilazione con la condizione dei magistrati ordinari è però un argomento fuorviante[44], se si considera:
a)che solo i giudici amministrativi, e non anche quelli ordinari, sono chiamati istituzionalmente a pronunciarsi sulla legittimità degli atti e provvedimenti emanati dalle amministrazioni pubbliche, il che non è irrilevante al fine di “colorare” diversamente il possibile impatto sulle garanzie di indipendenza di una collaborazione continuativa con quelle stesse amministrazioni[45];
b)che, come l’esperienza pluridecennale dimostra, il numero dei magistrati amministrativi coinvolti nello svolgimento dei compiti in questione è di gran lunga prevalente rispetto a quello dei magistrati ordinari (anche a causa del permanere di un minor rigore nelle regole relative alla loro autorizzazione, o forse nel modo in cui sono applicate)[46];
c)che, soprattutto, mentre ai magistrati ordinari sono attribuiti per lo più (e salvo circoscritte eccezioni) incarichi presso il Ministero della giustizia, al contrario i magistrati amministrativi sono ordinariamente presenti presso tutti i Ministeri più rilevanti, e anche presso gli uffici apicali della Presidenza del Consiglio dei Ministri, fino ad aver ricoperto in più di un’occasione la carica di Sottosegretario alla Presidenza medesima, con diretto (e decisivo) coinvolgimento nelle scelte politiche del Governo[47].
A ben vedere, le posizioni anche fortemente critiche espresse da molti commentatori nei confronti dello svolgimento di incarichi di collaborazione politica da parte dei magistrati amministrativi trovano il proprio fondamento – come si è già anticipato – soprattutto negli eccessi e nelle distorsioni cui tale prassi ha dato luogo nell’esperienza concreta. In particolare, i principali punti di criticità sono costituiti da un lato dalla modalità di individuazione dei magistrati da investire degli incarichi in questione, che di regola è effettuata dal soggetto politico-istituzionale in modo fiduciario con forte prevalenza dell’intuitus personae, e dall’altro dal rischio, destinato a inverarsi molto frequentemente, che attraverso la reiterazione nel tempo dei detti incarichi abbiano a crearsi delle vere e proprie “carriere parallele”, con correlativo stabilizzarsi di legami anche extraistituzionali fra il magistrato e il soggetto politico conferente, destinati a incidere anche dopo il rientro del magistrato nel ruolo istituzionale, fino al limite a far pesare nel successivo percorso di carriera – fino ai massimi vertici dell’Istituto – le relazioni politiche costruite più che il servizio di istituto svolto[48].
Per vero, negli anni più recenti il legislatore è intervenuto con norme dichiaratamente intese ad arginare siffatti fenomeni: in particolare, con la legge 6 novembre 2012, n. 190, si provveduto – peraltro, e abbastanza discutibilmente, all’interno di un testo normativo recante “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione” – a: ribadire il divieto di assunzione di incarichi arbitrali per i magistrati amministrativi (articolo 1, comma 18); tipizzare in modo più esteso e rigoroso gli incarichi comportanti il collocamento obbligatorio fuori ruolo (articolo 1, comma 66); fissare in dieci anni, anche non continuativi, nell’arco dell’intera carriera del soggetto interessato il periodo massimo di possibile suo collocamento fuori ruolo per lo svolgimento di incarichi extraistituzionali, salve specifiche e limitate eccezioni (articolo 1, comma 68). Al di là del giudizio che si voglia dare su tali previsioni e sulla loro efficacia[49], ed anche del modo poco commendevole in cui da parte di pressoché tutte le giurisdizioni si è cercato in seguito di aggirarle o interpretarle in modo “flessibile”[50], è innegabile che esse in nulla abbiano inciso sul profilo delle modalità di designazione il quale, come è ormai evidente, costituisce il vero nodo cruciale della materia con riguardo al possibile formarsi di legami e collateralismi suscettibili di pregiudicare l’indipendenza e l’immagine del magistrato.
Quelle che si sono esaminate sono indubbiamente disfunzioni rispetto a quello che si vorrebbe essere un modello fisiologico di funzionamento degli incarichi in esame, effettivamente funzionale all’esclusivo perseguimento degli interessi delle istituzioni interessate, come si proclama[51]. Si tratta però di disfunzioni ben difficilmente superabili: i commentatori che si sono soffermati sulla questione ritengono che un possibile rimedio potrebbe consistere nell’oggettivizzare i criteri di selezione e designazione dei magistrati da investire degli incarichi, investendo della loro individuazione sempre e comunque l’organo di autogoverno in modo da assicurare anche una rotazione dei magistrati designati[52]. Sembra però una soluzione di ben difficile realizzabilità, se si tiene conto del carattere latamente fiduciario che di regola la scelta riveste, specie per quanto riguarda il conferimento degli incarichi ministeriali apicali, e della conseguente impossibilità di “costringere” il soggetto politico ad accettare una designazione aliunde compiuta (col rischio, per di più paventato dai sostenitori del mantenimento dello status quo, che ciò possa determinare lo “svuotamento” di una delle più prestigiose e tradizionali prerogative storicamente riconosciute al Consiglio di Stato). Si potrebbero allora forse immaginare soluzioni in grado di assicurare una opportuna rotazione dei magistrati da destinare ad incarichi esterni, al tempo stesso salvaguardando in qualche misura la facoltà di scelta dell’esecutivo, come ad esempio prevedere che periodicamente il Presidente del Consiglio di Stato definisca, sulla base di specifici requisiti oltre che delle manifestazioni di disponibilità, l’elenco dei magistrati destinati a costituire la “provvista” dalla quale sarà possibile attingere per il conferimento di determinati incarichi extraistituzionali, o meccanismi similari.
Fra i temi esaminati dalla dottrina che ha cercato di individuare i principali nodi problematici dell’indipendenza del giudice amministrativo, l’unico che – in definitiva – evoca realmente un oggettivo profilo di incostituzionalità della disciplina di riferimento è proprio l’ultimo, quello relativo alla nomina del Presidente del Consiglio di Stato (ossia, è superfluo rimarcarlo, dell’organo di vertice dell’intera giurisdizione amministrativa). La procedura è tuttora regolata in modo sintetico dal primo comma dell’articolo 22 della legge n. 186/1982, il quale così recita: “Il presidente del Consiglio di Stato è nominato tra i magistrati che abbiano effettivamente esercitato per almeno cinque anni funzioni direttive, con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri previa deliberazione del Consiglio dei ministri, sentito il parere del consiglio di presidenza”.
Non v’è chi non veda come tale norma, se presa nella sua formulazione letterale, nella misura in cui rimette al Governo la designazione ultima del vertice dell’Istituto, restringendo ad un semplice “parere” l’intervento dell’organo di autogoverno, non appaia in linea con le necessarie garanzie di indipendenza del plesso giurisdizionale e per questo presenti degli evidenti profili di incostituzionalità in relazione all’articolo 108, comma secondo, della Costituzione. Per questo, come evidenziato dalla dottrina[53], si è affermata nel corso dei decenni una prassi applicativa, che si può definire “costituzionalmente orientata”, in virtù della quale a seguito della vacanza della carica l’esecutivo interpella il Consiglio di presidenza, il quale indica il nominativo del magistrato da designare (di regola coincidente con quello del Presidente di Sezione più anziano in ruolo fra quelli in servizio attivo), indicazione che viene poi semplicemente ratificata dal Consiglio dei ministri.
Tuttavia, è evidente che una tale prassi, anche a voler ritenere che col tempo sia assurta al rango di vera e propria convenzione costituzionale[54], non è di per sé idonea né sufficiente ben potendo essere disattesa in ragione di scelte o valutazioni politiche ovvero in occasione di particolari momenti di “tensione” istituzionale tali da rendere recessivo il principio di leale collaborazione; è quanto verificatosi in una recente occasione, laddove un Governo il cui vertice aveva in più occasioni manifestato nei confronti della giustizia amministrativa disistima e volontà di ridimensionamento[55] ha chiesto al Consiglio di presidenza l’indicazione di cinque nominativi anziché uno solo, in modo da riservarsi (come poi avvenuto) la scelta finale. Ciò che in tale circostanza colpì gli osservatori[56], al di là dell’indubbia caratura morale e professionale di tutti i magistrati interessati compreso quello poi designato, e ad onta dei tentativi di alcuni dei diretti interessati di fornirne una giustificazione ex post[57], fu la sostanziale acquiescenza dell’organo di autogoverno, il quale non solo diede riscontro senza nulla eccepire alla richiesta di indicare più nominativi in luogo di uno, ma nel fornirli ritenne anche di derogare in modo espresso all’ordine di anzianità che fino a quel momento era stato il criterio unico di designazione del Presidente dell’Istituto: segno di una “cedevolezza” nei rapporti con l’esecutivo che – senza indugiare nelle letture “dietrologiche” che pure ha autorizzato con riguardo al caso specifico – non può non destare una più generale preoccupazione in chi abbia a cuore la reale autonomia del Consiglio di Stato come organo giurisdizionale (ancorché, per fortuna, l’episodio non si sia poi ripetuto in occasione delle successive tornate di nomina del Presidente del Consiglio di Stato).
3. L’ordinamento della giustizia amministrativa e le sue perduranti criticità.
Proprio la vicenda della nomina del Presidente del Consiglio di Stato, chiamando in causa una norma di legge manifestamente inadeguata rispetto al quadro costituzionale di riferimento (e vieppiù, come si vedrà, a fronte dell’evoluzione che questo ha registrato nell’ultimo ventennio), induce a soffermarsi sulle peculiarità dell’ordinamento della giurisdizione amministrativa e ad interrogarsi se non sia per caso anche in esse, e nei più vistosi elementi di “eccentricità” che evidenziano rispetto al modello della giurisdizione ordinaria, che possano cogliersi alcune delle cause dei perduranti dubbi circa la reale indipendenza di tale giurisdizione.
In particolare, come è noto, la disciplina dello status e della carriera dei giudici amministrativi, oltre che dell’organizzazione e del funzionamento degli uffici della giustizia amministrativa, è contenuta nella già citata legge 27 aprile 1982, n. 186, la quale, pur essendo stata diverse volte modificata in seguito (l’ultima volta in modo significativo con la legge 21 luglio 2000, n. 205, la cui più rilevante novità fu l’introduzione dei membri “laici” nell’organo di autogoverno), conserva ad oggi la propria impostazione originaria quale ossatura della disciplina, in un contesto segnato da profonde modifiche del quadro istituzionale e costituzionale in cui s’inscrive (basti pensare alla già citata riforma costituzionale dell’articolo 111 Cost. ed alle sentenze della Corte costituzionale successivamente intervenute sul riparto tra giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa).
La legge n. 186/1982 ha avuto dei meriti storici, ad esempio quello di trasformare il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa in un “vero” organo di autogoverno della magistratura amministrativa, sul modello del C.S.M., nonché quello di avviare un processo di unificazione della giurisdizione amministrativa intervenendo su un sistema in cui i Tribunali amministrativi regionali, istituiti nel 1971 e innestati su un sistema che per circa un secolo aveva conosciuto il Consiglio di Stato quale unico giudice dei rapporti tra privati e P.A., erano rimasti di fatto separati da esso; tuttavia, a distanza di circa quaranta anni dalla sua entrata in vigore non possono non considerarsi ottimistiche le opinioni di chi aveva ritenuto che con essa tutti i problemi afferenti all’indipendenza dei giudici amministrativi sarebbero stati risolti[58].
E invero, l’esame dello stato dell’arte sotto tale profilo evidenzia che ad oggi non è stato compiutamente perseguito l’intento di trasformare la giurisdizione amministrativa in una giurisdizione realmente unitaria, nella quale l’eventuale passaggio dalle funzioni di primo grado (Tribunali amministrativi regionali) a quelle d’appello (Consiglio di Stato) corrisponda effettivamente a un avanzamento di carriera, come avviene presso le altre magistrature, anziché ad un mutamento della stessa. Si vedrà in appresso che il “generale riordino dell’ordinamento della giustizia amministrativa sulla base della unicità di accesso e di carriera”, prefigurato dall’articolo 7 della legge in esame, costituisce a tutt’oggi uno dei più emblematici casi di enunciazione legislativa di un obiettivo poi non solo non realizzato, ma nemmeno sfiorato nei decenni successivi. Comunque la si pensi sulle ragioni di tale situazione[59], è innegabile che essa rende quello dei giudici amministrativi, differentemente da tutte le altre giurisdizioni, un plesso non solo non omogeneo e coeso ma attraversato da divisioni e contrapposizioni “corporative” suscettibili di ripercuotere i propri effetti sui più diversi ambiti del suo operare, e alla lunga di pregiudicarne la stessa immagine istituzionale.
Con particolare riferimento al Consiglio di Stato, è noto che la legge n. 186/1982 ha previsto un triplice sistema di reclutamento dei suoi magistrati: il transito per anzianità dai Tar per il 50% dell’organico, il concorso diretto a Consigliere di Stato per il 25% e la libera nomina governativa a Consigliere di Stato (cui si è già accennato) per il restante 25%. L’idea di fondo era quella di attuare il principio del doppio grado di giurisdizione amministrativa affiancando il concorso per referendario Tar, concorso di secondo grado, a quello tradizionale a Consigliere di Stato che, per la sua particolare selettività e per gli esiti cui aveva dato luogo[60], si ritenne meritevole di essere conservato, nonché di incrementare il transito dei magistrati dai Tar al Consiglio di Stato in modo da favorire l’osmosi tra i diversi livelli della giurisdizione.
Il progetto di creare un plesso unitario e coeso inserendo nell’ordine giurisdizionale amministrativo una magistratura giovane come quella dei Tar, saldamente radicata sul territorio e nella società, non ha avuto però completo successo. Si è a lungo discusso – e si continua ancora a discutere – sul carattere unitario o meno del ruolo del personale della magistratura amministrativa, ma si tratta di un falso problema: basta leggere la tabella A allegata alla legge per constatare che quel ruolo è unico[61], anche se – secondo le regole di diritto comune – diviso in quadri secondo le qualifiche dell’unica carriera del personale di magistratura.
Il fatto è che, nonostante la progressiva osmosi, giuridica e di fatto, tra magistrati in servizio presso il Consiglio di Stato e magistrati in servizio presso i Tar, il concorso a Consigliere di Stato continua a costituire motivo di divisione tra i due gruppi di magistrati. Considerato dai primi come bene da conservare per il maggior prestigio della categoria, esso è invece ritenuto da componenti numerose degli altri – non tutte peraltro necessariamente inclini a sottovalutarne o sminuirne l’indubbio valore - causa di oggettive discriminazioni (per anzianità e per mobilità professionale da un quadro all’altro del ruolo) verificabili in concreto sotto svariati profili:
a) sul piano dell’anzianità di ruolo, il fatto che i magistrati dei Tar transitati in Consiglio di Stato vedano “azzerata” totalmente la propria pregressa anzianità maturata nel ruolo di provenienza, venendo collocati all’ultimo posto del ruolo di arrivo alla stessa stregua di chi vi giunge dall’esterno del plesso giurisdizionale, produce effetti distorsivi – per esempio, nella composizione dei Collegi giudicanti e dell’Adunanza plenaria[62], oltre che per l’accesso agli incarichi direttivi d’appello – che il legislatore ha a un certo punto cercato di ridurre con una disposizione transitoria, che riconobbe per un certo numero di anni ai consiglieri di provenienza Tar una anzianità “forfettaria”[63] ma che ha ormai da tempo esaurito la propria efficacia;
b) tale sperequazione è ulteriormente aggravata dalla disposizione contenuta nell’articolo 19, comma primo, n. 3), terzo periodo, della stessa legge n. 186/1982 (“i vincitori del concorso conseguono la nomina con decorrenza dal 31 dicembre dell’anno precedente a quello in cui è indetto il concorso stesso”), la quale, con la motivazione formale di voler “sterilizzare” i tempi tecnici di conclusione del concorso[64], spesso determina de facto lo “scavalcamento” da parte dei vincitori del concorso di altri colleghi – non solo provenienti dai Tar, ma anche di nomina governativa – che sono approdati prima di loro in Consiglio di Stato e vi prestano servizio anche da molti mesi;
c) la perdurante separazione di fatto dei ruoli di Tar e Consiglio di Stato che ne consegue, nonostante la già citata disposizione dell’articolo 7, rende irreversibile, salvo per la possibilità di essere nominati presidenti di Tribunale amministrativo regionale[65], la scelta di transitare dai Tar in Consiglio di Stato, finendo per essere di ostacolo a quella effettiva osmosi dei due livelli di giurisdizione che costituiva la ratio di fondo della novella del 1982.
È evidente che, una volta operata la scelta di conservare nel quadro ordinamentale il concorso diretto per l’accesso al Consiglio di Stato, era addirittura doveroso che vi fossero previsioni premianti per i vincitori dello stesso rispetto a coloro che accedessero al medesimo Istituto attraverso gli altri canali di reclutamento. Tuttavia, la successiva mancata elaborazione di una disciplina definitiva destinata a soppiantare quella che era stata congegnata per molti versi come una normativa di transizione, in una con l’esaurimento dell’efficacia delle disposizioni temporanee intese a salvaguardare le posizioni dei magistrati in servizio alla data di entrata in vigore della legge n. 186/1982, ha prodotto nel lungo periodo un’accentuazione della divaricazione tra le diverse componenti al punto da far venir meno quello che, ancora nel 1990, agli occhi di un acuto osservatore rappresentava il perdurante elemento di coesione all’interno dell’Istituto, e cioè il sentirsi parte di una “comunità privilegiata” e la “precisa autopercezione di essere dei “meccanismi essenziali dello Stato””[66].
La situazione attuale, complici anche oggettivi fattori di deminutio del prestigio e dei “privilegi” della categoria dei Consiglieri di Stato e di incremento dei ritmi e dei carichi di lavoro intervenuti medio tempore nella legislazione e nello stesso sentire sociale, vede i magistrati pervenuti al Consiglio di Stato per anzianità dai Tar (unici fra tutte le giurisdizioni a poter continuare fisiologicamente[67] a svolgere unicamente il ruolo di giudici relatori fino al collocamento in quiescenza) vivere sempre più la propria posizione come ingiustamente penalizzante, a fronte di quelli che da giusti riconoscimenti al merito sembrano essersi trasformati in eccessivi e immotivati privilegi per i colleghi di provenienza concorsuale. Frequente è l’affermazione che, se certamente sono meritevoli di essere valorizzati lo studio e la preparazione tecnica che il superamento di un concorso estremamente complesso denota, al tempo stesso non è equo sottostimare, se non addirittura obliterare, il proficuo e prolungato svolgimento di funzioni giurisdizionali (attestato dalla stessa valutazione di idoneità che il Consiglio di presidenza della G.A. è chiamato a svolgere in ordine al transito dai Tar al Consiglio di Stato), spesso in realtà territoriali alquanto delicate e all’esito di un concorso a sua volta non certo semplice quale è quello a referendario Tar.
Quanto ai Consiglieri di Stato di concorso, questi a loro volta tendono ad alimentare la propria considerazione di sé stessi come la vera élite dell’Istituto e conseguentemente a ostacolare anche solo l’idea di intraprendere un percorso ideativo di soluzioni suscettibili di modificare il descritto status quo. A ciò si aggiungono le pulsioni “microcorporative”registrabili presso gli stessi Tribunali amministrativi regionali (laddove molti magistrati, avendo accettato la sostanziale separazione dei ruoli e rinunciato al transito in Consiglio di Stato, sono de facto contrari a riforme che favoriscano il ritorno in primo grado dei colleghi ivi transitati, che a loro volta vivrebbero come un “attentato” alle loro posizioni) e finanche i conflitti più specifici innescati da peculiari vicende afferenti a singoli magistrati,[68] a formare un vero e proprio microcosmo di interessi e contro-interessi diversificati, difficilmente componibili e spesso in conflitto fra di loro.
4. Le ricadute processuali: in particolare, la c.d. giurisdizione domestica.
Se tali sono le peculiarità, e per molti versi le anomalie, che ancora oggi caratterizzano l’assetto ordinamentale della giurisdizione amministrativa, occorre però subito precisare che esse – come abbastanza pacificamente riconosciuto, pur nella dialettica che anima la categoria, da pressoché tutti i magistrati amministrativi – restano di regola estranee all’ambito processuale, rivelandosi inidonee a pregiudicare la capacità dei Tar e del Consiglio di Stato di assicurare un’efficace ed efficiente risposta alla “domanda di giustizia” della collettività. Il dato è confermato in particolare dall’esperienza degli operatori che frequentano il Consiglio di Stato, che vede magistrati delle diverse provenienze cooperare all’interno dei collegi delle Sezioni consultive e giurisdizionali senza che l’assetto “discriminatorio” che si è descritto produca alcun apparente effetto sul servizio svolto, comuni essendo sia l’impegno nell’affrontare carichi di lavoro anche imponenti sia lo sforzo di assicurare piena ed effettiva tutela alle situazioni giuridiche dei cittadini, attraverso la corretta e imparziale applicazione delle regole processuali[69].
Probabilmente questa è una delle ragioni (anche se non l’unica) per cui, nonostante l’evidente obsolescenza dell’apparato normativo incentrato sulla legge n. 186/1982 soprattutto rispetto al quadro costituzionale della giurisdizione affermatosi nel “diritto vivente” a seguito della riforma dell’articolo 111 Cost. (come testimoniato proprio dalla vicenda della nomina del Presidente del Consiglio di Stato), il tema della riforma dell’ordinamento della giustizia amministrativa non è mai stato percepito, né a livello istituzionale né dall’opinione pubblica, come una reale necessità – se non un’urgenza - del sistema nel suo complesso, restando l’attenzione concentrata – anche in occasioni nelle quali più avvertita è stata l’esigenza di riforme anche radicali in altri settori dell’organizzazione dello Stato[70]- ai temi dell’efficientamento del processo e dei possibili “inconvenienti” che l’intervento del giudice può causare all’amministrazione e all’economia. In definitiva, la situazione di scarsa coesione interna tra le diverse componenti del Consiglio di Stato e della magistratura amministrativa, i disagi lamentati da alcune di esse e anche i conflitti cui ciò occasionalmente dà luogo vengono percepiti, anche da chi ne abbia sufficiente conoscenza, come vicende di esclusivo interesse “interno” dei diretti interessati, non meritevoli di attenzione in quanto non rilevanti ai fini della missionassegnata agli organi della giurisdizione amministrativa e del suo buon esito.
C’è da chiedersi se le cose stiano davvero così, o se piuttosto – al di là delle sue più immediate ricadute sull’attività di juris dictio quotidianamente svolta da Tar e Consiglio di Stato – non sia possibile cogliere un nesso tra la mancata compiuta unificazione e osmosi tra i diversi organi e percorsi di carriera della giurisdizione de qua e le persistenti criticità che, come si accennava in principio, affiorano periodicamente a livello politico e mediatico in relazione alla percezione dei predetti organi come Giudici, effettivamente rappresentanti un potere “neutro” e indipendente dal ceto burocratico-governativo e pertanto meritevole del prestigio e della considerazione che di regola – e salvo “appannamenti” dovuti a recenti vicende che hanno coinvolto anche la magistratura ordinaria – vanno riconosciuti all’ordine giudiziario. In altri termini, occorre chiedersi se fosse fondata, dopo l’entrata in vigore del codice del processo amministrativo del 2010, l’opinione del suo principale ispiratore laddove vedeva nell’intervento sui profili organizzativi e ordinamentali (lo “spazio fuori dal codice”) l’ulteriore tassello indispensabile per completare la transizione verso una giurisdizione “a tutto tondo” e conferire piena legittimazione istituzionale agli organi della giustizia amministrativa[71].
Intanto, pur confermandosi la tendenziale “impermeabilità” del funzionamento del processo amministrativo rispetto alle questioni ordinamentali che si sono descritte, c’è da chiedersi se queste siano davvero del tutto estranee alle “tensioni” che occasionalmente si registrano tra i diversi gradi della giurisdizione, con reciproci malumori alimentati da, o destinati a sfociare in, provvedimenti che eufemisticamente possono definirsi eccentrici rispetto a una piena e leale applicazione della disciplina processuale. Al riguardo, possono richiamarsi, quanto meno perché egualmente foriere di dialettica anche extraprocessuale tra le diverse istanze della G.A. al di là delle evidenti differenze tra di esse, le vicende – entrambe peraltro motivate dalla dichiarata necessità di realizzare interessi “prevalenti” – dell’orientamento a tratti affermatosi presso il Consiglio di Stato a favore dell’appellabilità del decreto cautelare monocratico, nonostante il chiaro dato testuale dell’articolo 56, comma 2, c.p.a.[72], e del tentativo di alcuni Tribunali amministrativi regionali di bypassare l’applicazione di (non condivisi) principi di diritto affermati dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato attraverso il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea[73].
Ma il terreno sul quale è più agevole percepire i rischi di lesione all’indipendenza e al prestigio della giurisdizione amministrativa (rischio estensibile, si badi bene, anche ai Tar e non solo al Consiglio di Stato) è quello delle decisioni rese nei giudizi che vedono come parti magistrati amministrativi in relazione a provvedimenti concernenti il loro status e le loro carriere: un settore, coinvolgente innanzitutto e prevalentemente i giudizi di impugnazione dei provvedimenti del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, che è stato icasticamente definito di “giurisdizione domestica”[74], sebbene – come subito si dirà – non sia connotato da alcuna deviazione normativa rispetto all’applicazione delle ordinarie regole in tema di giurisdizione e competenza[75].
Sul punto, è infatti doveroso evidenziare immediatamente come, a fronte di pur reiterati tentativi di mettere in discussione la legittimità costituzionale delle norme che attribuiscono alla giurisdizione amministrativa la cognizione delle controversie relative ai suindicati provvedimenti (al pari, del resto, di quelli del C.S.M. relativi allo status ed alla carriera dei magistrati ordinari nonché degli organi di autogoverno delle altre magistrature speciali), la Corte di cassazione ne abbia invece recisamente affermato la piena legittimità e coerenza con il quadro costituzionale di riferimento della giurisdizione. Può essere utile al riguardo richiamare alcuni passaggi di una sentenza[76] nella quale la S.C., investita di impugnazione ai sensi dell’articolo 362 c.p.c. di una decisione del Consiglio di Stato concernente gli esiti di un concorso a Consigliere di Stato, non si è limitata a escludere che un eventuale vulnus alla terzietà del Collegio giudicante determinato dal rapporto di colleganza tra questi e alcune delle parti fosse ascrivibile ai vizi relativi alla giurisdizione (“Per garantire la terzietà del giudice è approntata in particolare la disciplina dell’astensione e della ricusazione che attiene alle regole del processo e la cui eventuale inesatta applicazione comporta - come già rilevato - un error in procedendo e non già un difetto di giurisdizione. Essendo interno alla giurisdizione, nella specie del giudice amministrativo, il sindacato sulle regole del processo e quindi anche delle regole che disciplinano la ricusazione, risulta in tal modo, in linea di massima, assicurato il rispetto, sotto questo profilo, della garanzia del giudice terzo”[77]), ma si è poi spinta, nel respingere le censure di illegittimità costituzionale della disciplina di astensione e ricusazione nel processo amministrativo dettata dagli articoli 17 e 18 c.p.a., a negare in radice che un tale vulnus sussistesse nel merito, affermando che “i giudici amministrativi nel loro complesso, come giudice speciale, offrono le stesse garanzie di terzietà del giudice ordinario anche quando si trovano a giudicare di controversie che vedano come parti magistrati amministrativi; evenienza questa non dissimile da quella del giudice ordinario che si trovi a giudicare di una controversia civile che veda come parte un magistrato ordinario”[78].
Può fin d’ora anticiparsi che è proprio con riguardo a quest’ultimo profilo che l’orientamento della S.C. appare meno appagante e conforme alle istanze di giustizia sostanziale. Mentre infatti sarebbe oggettivamente difficile predicare, solo ed esclusivamente in relazione a una ristretta categoria di dipendenti pubblici “non contrattualizzati” quali sono i giudici amministrativi, un regime delle controversie relative al loro rapporto d’impiego deviante rispetto alle comuni regole in materia di giurisdizione e competenza discendenti dal canone costituzionale del giudice naturale ex articolo 24 Cost. (per non dire della difficoltà di individuare quale sarebbe il giudice competente, stante il noto divieto costituzionale di istituzione di nuovi giudici speciali)[79], decisamente meno convincente è l’affermazione di una piena assimilabilità tra giudice ordinario e giudice amministrativo quanto al regime normativo delle rispettive garanzie di indipendenza e imparzialità.
Si è detto dei perduranti tratti di diversità che, fin dal quadro costituzionale di riferimento, connotano lo “statuto” delle due giurisdizioni proprio in tema di indipendenza e imparzialità, pur dovendosi prendere atto di un percorso di progressiva tendenziale assimilazione all’insegna del novellato articolo 111 Cost. Ed è quasi superfluo rilevare, richiamando ormai noti canoni elaborati dalla giurisprudenza costituzionale nell’applicazione del principio di eguaglianza di cui all’articolo 3 Cost., che la ragionevolezza delle scelte operate dal legislatore, allorché nell’esercizio della propria discrezionalità ritiene di assoggettare più situazioni di fatto a trattamenti giuridici eguali o differenziati, va misurata avendo riguardo all’identità o meno delle stesse, potendo ravvisarsi un vizio di incostituzionalità – per violazione, appunto, del principio di ragionevolezza - allorché situazioni identiche siano ingiustificatamente assoggettate a regimi diversi ovvero, al contrario, situazioni diverse siano senza ragione equiparate[80].
Ciò premesso, è agevole rilevare come il suggestivo parallelo operato dalla S.C. fra le controversie oggetto della c.d. “giurisdizione domestica” del giudice amministrativo e quelle “del giudice ordinario che si trovi a giudicare di una controversia civile che veda come parte un magistrato ordinario” obliteri un dato differenziale rilevante, e cioè che il giudice amministrativo, diversamente dal giudice ordinario (e in ciò registrandosi una sua esclusiva specificità) può avere dinanzi a sé altri magistrati amministrativi “come parti”, non solo in giudizi concernenti qualsivoglia vicenda amministrativa ordinariamente attribuita alla sua giurisdizione, ma anche in giudizi afferenti a questioni involgenti lo status e la carriera di tutti i giudici amministrativi, e quindi potenzialmente suscettibili di coinvolgere l’interesse dello stesso organo che giudica. È proprio in questi casi che appaiono particolarmente fondate le perplessità manifestate da un autorevole studioso in ordine all’idoneità e adeguatezza della mera applicazione degli istituti dell’astensione e della ricusazione ad assicurare una piena realizzazione delle garanzie di indipendenza e imparzialità del giudice[81].
In altri termini, la Cassazione nella circostanza ha limitato il proprio approccio alla considerazione del profilo “formale” dell’indipendenza, trascurandone l’aspetto “sostanziale” – oggi sempre più valorizzato anche a livello sovranazionale, in chiave di applicazione dell’articolo 6 CEDU – in virtù del quale occorre che il giudice sia neutrale non soltanto rispetto ai litiganti, ma anche rispetto all’oggetto della lite stessa, nel senso della sua totale indifferenza rispetto agli interessi contrapposti ed all’esito della controversia. A tale scopo, occorre che l’ordinamento predisponga adeguate garanzie idonee a rendere i giudici liberi da qualsiasi indebita influenza proveniente sia dall’esterno che dall’interno della magistratura: l’indipendenza giudiziaria interna[82] richiede infatti che essi non siano soggetti a istruzioni o a pressioni da parte dei loro colleghi o dei responsabili amministrativi dell’ufficio presso cui operano; l’assenza di sufficienti garanzie che assicurino l’indipendenza dei magistrati nell’ambito della magistratura può condurre a ritenere fondati i dubbi nutriti sull’indipendenza e l’imparzialità dell’organo giudicante[83].
Ciò premesso, l’evidenziata mera estensione al giudice amministrativo delle garanzie di indipendenza e terzietà stabilite per il giudice civile sotto il profilo che qui interessa, e quindi con particolare riguardo alle cause di astensione obbligatoria (il riferimento è ovviamente all’articolo 51 c.p.c., richiamato dai citati articoli 17 e 18 c.p.a.), rende senz’altro applicabile anche al giudice amministrativo il “diritto vivente”, elaborato dalla S.C. in relazione al processo civile[84], per cui i semplici rapporti di “colleganza” e o di conoscenza tra una o più parti e il giudice, ivi compresi quelli derivanti dalla comune appartenenza a uno stesso ordinamento o istituto ovvero a una medesima associazione o categoria, non sono suscettibili di costituire causa di astensione ai sensi del ricordato articolo 51 c.p.c.[85] Un principio astrattamente ineccepibile, e che però oblitera quella che si è visto essere la peculiarità del giudice amministrativo, il quale, unico fra tutte le giurisdizioni, può trovarsi a giudicare su cause che vedono come parti soggetti appartenenti al suo stesso ordine giudiziario in relazione non solo a qualsiasi vicenda amministrativa (p.es. il diniego opposto a un’istanza di permesso di costruire), ma anche in casi in cui la res controversa, coinvolgendo l’interpretazione e l’applicazione di norme relative all’ordinamento della giustizia amministrativa, è suscettibile di incidere sullo status e sulle prospettive di carriera dello stesso giudicante.
In altri termini, e al netto di ogni valutazione “di merito” circa le decisioni rese nell’ambito delle controversie qui in considerazione (le quali pure talora si connotano per significative deviazioni da principi altrove costituenti giurisprudenza granitica o pacifica,[86] a confermare i più pessimistici timori autorevolmente espressi in epoca non sospetta)[87], risulta tutt’altro che scontata l’infondatezza dei dubbi di legittimità costituzionale prospettabili in relazione alla totale equiparazione del regime dell’astensione e della ricusazione dei giudici amministrativi a quello dei giudici civili, nei casi dianzi individuati, per due ordini di motivi:
a) in ragione della peculiare situazione della magistratura amministrativa, la quale, determinando l’esistenza di disomogeneità e conflitti interni all’ordine giudiziario riconducibili a ragioni ordinamentali, rende molto più concreto che nella magistratura ordinaria il rischio di incidenza di interessi e condizionamenti potenzialmente lesivi dell’indipendenza interna dell’organo giudicante;
b) a causa dell’evidenziata peculiarità della magistratura amministrativa rispetto a tutte le altre magistrature, essendo l’unica giurisdizione chiamata a giudicare in re propria (o, se si vuole, in potenziale conflitto di interessi) in relazione a vicende afferenti all’ordinamento, allo status e alla carriera degli stessi appartenenti a quell’ordine giudiziario.
Si è consapevoli dell’improbabilità che una questione di legittimità costituzionale di tal fatta sia effettivamente sottoposta all’esame della Corte, dal momento che a sollevarla dovrebbe essere – salva l’ipotesi di un revirement della Corte di cassazione rispetto alle posizioni sopra richiamate – lo stesso giudice amministrativo, segnatamente il Tar del Lazio ovvero il Consiglio di Stato, nell’ambito di un giudizio rientrante nella c.d. giurisdizione domestica. Ciò che rende ancor più difficilmente prospettabile una tale evenienza è anche l’assenza nella giurisdizione amministrativa, a differenza di quella ordinaria, di un sistema di regole organizzative (“tabelle”)[88] concernenti la composizione dei collegi giudicanti nelle singole udienze e l’assegnazione degli affari ai relatori, con correlativo controllo dell’organo di autogoverno: di modo che ogni determinazione al riguardo è esclusivo appannaggio dei dirigenti degli uffici giudiziari, e in primis del Presidente del Consiglio di Stato[89], con la conseguente astratta possibilità che la diversa provenienza ed estrazione dei magistrati selezionati consenta di rendere “prevedibile” quello che sarà l’avviso del collegio su questioni “sensibili” in relazione all’interesse della categoria o di parte di essa.
Indubbiamente però la questione qui in rilievo, destinata a operare sul piano delle regole processuali molto più che su quello della giurisdizione (laddove per lo più è stata sollevato il tema della c.d. “giurisdizione domestica” del G.A.), potrebbe essere oggetto di attenzione anche de jure condendo, nella prospettiva di una auspicabile riforma intesa a colmare il residuo deficit di indipendenza degli organi di giustizia amministrativa. E invero, non è ignota alla nostra esperienza giuridica l’esistenza di casi nei quali, in ragione di particolari “specificità” della posizione ordinamentale di un determinato organo giurisdizionale, il legislatore abbia ritenuto di introdurre una disciplina “rinforzata” dell’astensione e/o della ricusazione, parzialmente deviante da quella comune ricavabile dall’articolo 51 c.p.c.: al riguardo, possono essere richiamati l’articolo 815 c.p.c., quale recentemente novellato dal d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, che consente la ricusazione degli arbitri anche per “gravi ragioni di convenienza” (e, quindi, in ipotesi che in via ordinaria, giusta il secondo comma dell’articolo 51, potrebbero al più costituire motivi di astensione facoltativa) quando queste siano “tali da incidere sull’indipendenza o sull’imparzialità dell’arbitro” (comma primo, n. 6-bis)[90]; nonché l’articolo 19 del d.lgs. 13 luglio 2017, n. 116, che per il giudice onorario di pace prevede specifici obblighi di astensione, ulteriori rispetto a quelli previsti in via generale dall’articolo 51 c.p.c., in connessione con la pregressa o coeva attività professionale esercitata dal giudicante. Forse anche per il giudice amministrativo, in relazione alle descritte criticità ordinamentali ed al carattere affatto peculiare della relativa competenza in re propria (nel senso sopra precisato), potrebbe rendersi opportuna una eguale opzione di “rafforzamento” della disciplina posta a tutela della sua terzietà e imparzialità, risultando inadeguata – per le ragioni sopra esposte - la mera assimilazione alla posizione del giudice ordinario sotto tale punto di vista.
In questa prospettiva, la più attenta dottrina che si è occupata dei casi di “conflitto di interessi” del giudice[91] ha richiamato i principi evincibili dall’articolo 2373 c.c. (in tema di conflitto di interessi degli amministratori e rappresentanti di società) per affermare che le uniche ipotesi nelle quali un generico “interesse” del giudice nella res controversa può assurgere a vizio di composizione del giudice processualmente rilevante ai sensi dell’articolo 158 c.p.c. (ossia tale da escludere la stessa sussistenza della potestas iudicandi in capo al soggetto investito della controversia) sono quelle in cui si registri una sostanziale “immedesimazione” tra il giudice e una delle parti; ed, esclusa - perché evidentemente di scuola - quella di una vera e propria comunanza di interessi tra giudice e parte, l’ipotesi viene meglio specificata precisando che essa si verifica allorché la posizione del giudicante rispetto alla res controversa sia tale per cui egli potrebbe partecipare al giudizio in qualità di interventore.
Si tratta di elaborazioni relative al processo civile, delle quali va sempre verificata cum grano salis la trasponibilità nel giudizio amministrativo, ed appare forse eccessivo ipotizzare addirittura una nullità della sentenza, rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio, nei suindicati casi di “conflitto di interessi” del giudicante; tuttavia, proprio l’esperienza descritta in relazione alle controversie nelle quali il giudice amministrativo opera come giudice “domestico”, laddove effettivamente è frequente il verificarsi di situazioni di profonda commistione dei collegi giudicanti con la materia del contendere (fino, al limite, a sentenze redatte da giudici potenzialmente interessati in via diretta all’applicazione di norme e provvedimenti di cui sono chiamati a occuparsi), dovrebbe indurre il legislatore a introdurre – all’unico fine di rafforzare le garanzie di indipendenza e imparzialità dei collegi medesimi – una disciplina “differenziata” dell’astensione e della ricusazione, sul modello di quelle dianzi richiamate.
Non ci si deve però nascondere che anche in questo caso il tema è generalmente ritenuto poco meritevole di attenzione, siccome afferente a questioni di interesse esclusivamente interno al plesso della magistratura amministrativa. Tale avviso appare a chi scrive superficiale e meritevole di attenta rimeditazione, per un duplice ordine di ragioni. Innanzitutto, le decisioni talvolta “anomale” che a volte scaturiscono dalle situazioni descritte nei giudizi afferenti allo status e alle carriere dei giudici amministrativi[92] esprimono principi suscettibili di essere richiamati quali precedenti, magari in maniera capziosa, in altre e diverse circostanze, con potenziale confusione applicativa e pregiudizio di indirizzi giurisprudenziali altrimenti pacifici[93]. In secondo luogo, non va dimenticato che il giudice amministrativo è anche il giudice dello status e della carriera dei magistrati appartenenti alle altre giurisdizioni, e in primis a quella ordinaria: non v’è bisogno di richiamare il clamore e anche le tensioni istituzionali spesso suscitate da sentenze di annullamento che hanno colpito provvedimenti del CSM anche di estrema rilevanza, in modo da dare luogo a impropri dibattiti circa l’individuazione dei limiti che i Tar e il Consiglio di Stato dovrebbero rispettare a garanzia dell’autonomia costituzionale dell’autogoverno[94].
Orbene, se – pur nel rispetto dell’autonomia costituzionalmente garantita dell’organo di autogoverno della magistratura ordinaria – le esigenze di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale e di garanzia della legalità nell’amministrazione inducono a rigettare ogni pretesa di “immunità” o approccio limitativo del controllo giudiziale fondati sul mero richiamo alla peculiare posizione costituzionale del CSM[95] (da questa discendendo soltanto, come è ovvio, l’impossibilità di ogni sindacato del giudice amministrativo sulle regole e sui criteri dei quali l’autogoverno si dota nell’esercizio della propria autonomia), tuttavia è innegabile che non giova all’immagine e al prestigio degli organi di giustizia amministrativa, a fronte di un rigore anche estremo a tratti mostrato nel censurare i vizi di legittimità dei provvedimenti concernenti la magistratura ordinaria, l’eventuale (e risaputa) adozione di soluzioni non coerenti allorché vicende similari investano la stessa magistratura amministrativa. Peraltro, oltre alle ricordate conseguenze di immagine, tale situazione rischia di produrre anche reazioni gravi e imprevedibili da parte della giurisdizione ordinaria, nel quadro di mai sopite tensioni fra le due giurisdizioni[96].
5. L’autogoverno della magistratura amministrativa.
Occorre adesso verificare se, e in qual misura, la descritta situazione di frammentazione interna del plesso giurisdizionale amministrativo, in conseguenza delle peculiarità (e criticità) che tuttora ne connotano l’assetto ordinamentale e organizzativo, riverberi i propri effetti sul funzionamento dell’organo di autogoverno, ossia del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa. Sarebbe invero bizzarro, dopo aver verificato gli effetti perniciosi che essa produce sulla capacità dei giudici amministrativi di giudicare dei propri affari, che non si registrassero analoghe incongruenze e distorsioni anche in ordine alla correlativa capacità di amministrare sé stessi.
Al riguardo, bisogna però preliminarmente avvertire che l’analisi non potrà che prescindere dalle distorsioni e degenerazioni che nel corso degli anni, e – tristemente – soprattutto nel periodo più recente come testimoniato da fin troppo note vicende che hanno riempito le cronache, hanno a loro volta colpito la funzione di autogoverno della magistratura ordinaria svolta dal CSM, fino a metterne in discussione la credibilità e la stessa sopravvivenza[97]. In questa sede, non ci si potrà che riferire a un modello “ideale”, assumendo a parametro gli elementi fondamentali che – alla stregua delle scelte di fondo operate dalla Costituzione a salvaguardia dell’autonomia e dell’indipendenza dell’ordine giudiziario – devono presiedere a una equilibrata allocazione e ad un corretto esercizio di competenze e poteri da parte degli organi di autogoverno.
Fu precisamente in ragione di tali scelte che, allorquando la legge n. 186/1982 modificò il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa nell’intento di trasformarlo in un organo rappresentativo e di autogoverno del plesso de quo sul modello del CSM[98], la cosa fu salutata da molti osservatori come un auspicabile passo decisivo verso la trasformazione della giurisdizione amministrativa, attraverso il riconoscimento di autonomia organizzativa e finanziaria, in un ordine effettivamente autonomo e indipendente da ogni altro potere. Tuttavia, non occorse molto tempo per rendersi conto che né tale innovazione legislativa, né la pur fondamentale implementazione del Consiglio di presidenza con l’introduzione dei membri “laici” designati dalle Camere (per opera della legge n. 205/2000) avevano fatto venir meno gli elementi di anomalia, e i conseguenti dubbi in ordine alla reale idoneità del sistema ad assicurare una effettiva indipendenza del plesso magistratuale amministrativo, ereditati dagli assetti passati: al punto da spingere precocemente taluno ad affermare che la novella del 1982 avesse realizzato solo “un mero adattamento al sistema della vecchia struttura, della logica già in atto e del modo di operare del Consiglio di Stato”[99].
Volendo anticipare una conclusione, prima di esaminare in dettaglio come in concreto il funzionamento del Consiglio di presidenza si sia evoluto nel corso del tempo, può ben affermarsi che la situazione di frammentazione dell’ordine de quo in una pluralità di componenti e gruppi, di diversa estrazione istituzionale e ordinamentale e portatori di interessi diversi (e spesso potenzialmente confliggenti), si sia riprodotta in seno all’organo rappresentativo – laddove peraltro gli stessi membri elettivi che rappresentano il Consiglio di Stato e i Tar restano espressione di corpi elettorali separati – in modo da ostacolare l’individuazione di valori comuni che consentissero di elaborare una concezione condivisa dell’autogoverno e delle sue regole. Ciò ha determinato che il Consiglio di presidenza, molto più che del compito di assicurare l’indipendenza e il buon funzionamento della giustizia amministrativa nell’interesse della collettività, si sia sentito spesso investito della missione di garantire la difesa e la sopravvivenza degli equilibri e assetti esistenti, attraverso l’individuazione di soluzioni di mediazione, idonee a sopire o attenuare la conflittualità fra le diverse componenti ma delle quali a volte era arduo cogliere il nesso con l’interesse pubblico e con i principi di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione. Nel perseguire tali obiettivi “corporativi”, il C.p.g.a. si è però richiamato a una concezione “forte” delle proprie prerogative di indipendenza e delle proprie funzioni di garanzia (assumendo sovente proprio il CSM quale termine di paragone) per dilatare al massimo la discrezionalità auto-attribuitasi, fino a forzare al limite l’applicazione di elementari regole dell’agire amministrativo[100].
Naturalmente, non si vuole qui ignorare che anche per la magistratura ordinaria, come l’esperienza quotidiana insegna, le logiche correntizie e di appartenenza abbiano sempre più spiegato incidenza sulle determinazioni e le scelte dell’autogoverno, anche in relazione a materie di estrema rilevanza quali le nomine ai vertici di importanti uffici giudiziari: sono proprio l’esasperazione e la degenerazione di tali logiche, al di là di distinzioni e giudizi di valore che pure sarebbero consentiti, ad aver dato luogo alle vicende di cronaca cui dianzi si diceva, che hanno determinato l’attuale crisi di credibilità e fiducia dell’opinione pubblica nella magistratura. Tuttavia, l’elemento aggiuntivo per cui la giurisdizione amministrativa si connota – ad onta del motto “gens una sumus” spesso richiamato dall’attuale vertice dell’Istituto[101] - è l’assenza di un “ombrello”, collocato al di sopra dei plurimi interessi contrapposti e rappresentato dalla (quanto meno formale) condivisione di valori comuni che inducano i diversi soggetti interessati a riconoscersi reciprocamente quali parti di un’unica istituzione chiamata unitariamente a svolgere una funzione di interesse pubblico.
Ciò è confermato dal modo in cui, nei casi – sempre più frequenti nella pratica – in cui risulta impossibile elaborare soluzioni di mediazione, e pertanto la conflittualità fra le diverse “anime” e componenti emerge in primo piano, ciò avviene nel modo più acuto e virulento immaginabile, con accenti e toni che spesso trascendono la pur fisiologica dialettica interna a un organo collegiale rappresentativo, e nei quali non è difficile intravedere - in controluce – quasi una sorta di disconoscimento dell’interlocutore di turno come appartenente a una stessa categoria. Una situazione, comunque la si voglia interpretare, che ha indotto un Presidente del Consiglio di Stato ad affermare, in singolare convergenza con quanto si è qui rilevato, che il Consiglio di presidenza sarebbe “spesso più attento a valutare le ricadute delle proprie decisioni sul consenso dei rappresentati che sul corretto funzionamento del servizio giustizia”[102].
In realtà, a detta dei più attenti osservatori una delle principali criticità dell’autogoverno della giustizia amministrativa è costituita proprio dall’attribuzione al Presidente del Consiglio di Stato della funzione di vertice del C.p.g.a., a differenza di quanto previsto per il CSM: tale opzione normativa, nella misura in cui – di fatto - è lo stesso organo di autogoverno a designare il vertice dell’Istituto, appare scarsamente compatibile con le garanzie di indipendenza e imparzialità dell’intero plesso giurisdizionale[103]. A ciò può aggiungersi, alla luce di quanto rilevato in ordine alle dinamiche interne al plesso medesimo, che la preposizione a capo dell’organo di autogoverno di un soggetto comunque ascrivibile a una delle “parti in causa” nelle dette dinamiche rende immanente il rischio, in ragione delle stesse prerogative del vertice dell’Istituto, che queste ultime possano in vari modi incidere sulla formazione delle maggioranze fra le varie componenti, e più in generale sul funzionamento dell’organo consiliare. E, se è indubbio che occorrerebbe una revisione costituzionale per investire del vertice dell’organo il Presidente della Repubblica (in parallelo con quanto previsto per il CSM)[104], tuttavia il legislatore ordinario ben potrebbe intervenire attribuendo la funzione di presiedere l’organo di autogoverno a uno dei membri designati dal Parlamento, ferma restando la presenza del Presidente del Consiglio di Stato quale componente di diritto[105].
L’esperienza anche recente, tuttavia, dimostra che nessuna articolata proposta di riforma dell’autogoverno della giustizia amministrativa è stata mai non solo formulata, ma neanche solo ipotizzata, se si esclude l’intervento radicale prefigurato dalla Commissione bicamerale per le riforme istituzionali istituita con la legge costituzionale 24 gennaio 1997, nella cui bozza (poi rimasta priva di seguito) era bensì previsto lo “sdoppiamento” del C.S.M. con istituzione di un’apposita sezione specializzata per la magistratura amministrativa, ma ciò avveniva nell’ambito di un assorbimento della giurisdizione amministrativa in quella ordinaria che lasciava al Consiglio di Stato il solo ruolo di organo di consulenza del Governo[106]. Al contrario, quando si è cercato di intervenire sul Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, lo si è fatto per lo più con proposte intese a modificarne la composizione e/o il funzionamento in funzione di interessi specifici dell’una o dell’altra componente[107].
Con tutta evidenza, si tratta di questioni le quali, lungi dal rivestire un interesse esclusivamente istituzionale o “burocratico”, impattano in modo rilevante, come testimoniato dal loro stretto legame con molte delle criticità esaminate nei paragrafi precedenti, sulle garanzie di indipendenza e imparzialità dei giudici amministrativi sotto lo specifico profilo della indipendenza interna, ossia della idoneità del sistema ad assicurare che tutti i giudici siano in grado di esercitare il proprio ufficio al riparo da pressioni, anche implicite o immanenti al sistema, provenienti dall’interno dello stesso ordine di appartenenza (e, quindi, in ossequio al canone costituzionale di soggezione esclusiva alla legge)[108]. Non è un caso che fra i principi costituzionali maggiormente “stressati” dalle peculiarità – sia normative che ordinamentali – che si sono fin qui descritte vi sia quello per cui i magistrati si distinguono soltanto per le funzioni (articolo 107, comma terzo, Cost.)[109]: un principio a lungo, e spesso tralaticiamente, ritenuto dalla Corte costituzionale applicabile ai soli magistrati ordinari, e non anche alle giurisdizioni speciali[110], ma che oggi, nel quadro della già evidenziata rimeditazione delle garanzie di indipendenza delle giurisdizioni tutte alla stregua dei principi del “giusto processo” quali rivenienti dal novellato articolo 111 Cost., andrebbe forze valorizzato proprio nella prospettiva di un rafforzamento dell’indipendenza del giudice amministrativo[111].
6. Lo sconfortante panorama associativo.
Se queste sono dunque le distorsioni e disfunzioni riscontrabili nell’organizzazione e nell’ordinamento della giurisdizione amministrativa, sarebbe peraltro ingenuo attendersi che a queste possa ovviarsi con un processo riformatore promosso dalle associazioni rappresentative della categoria. Il tema interessa solo tangenzialmente la presente indagine, ma lo si accenna al fine di offrire un quadro completo ed esaustivo della situazione “interna” all’apparato dei giudici amministrativi, in considerazione della rilevanza che si ritiene debba essere assegnata a quest’ultima ai fini di una valutazione complessiva del grado di indipendenza di tali giudici.
In particolare, il riflesso immediato e ictu oculi percepibile della frammentazione corporativa e dell’assenza di valori e punti di riferimento condivisi, che si è visto emergere spesso con prepotenza nell’azione dello stesso organo di autogoverno, è costituito dall’inesistenza di un’unica associazione che raggruppi tutti i magistrati amministrativi allo scopo di porsi quale unico interlocutore nelle relazioni istituzionali esterne (sul modello di quello che è l’A.N.M. per la magistratura ordinaria). Al contrario, a fronte di una consistenza numericamente limitata a poche centinaia di magistrati dell’ordine giurisdizionale di cui si discute esistono almeno tre associazioni di categoria stabili, ciascuna intesa a rappresentare parte delle componenti e degli interessi in campo. Beninteso, in linea teorica ciascun magistrato amministrativo potrebbe iscriversi a tutte le associazioni in questione (e non mancano esempi di “doppia” o perfino “tripla” tessera), ma – in disparte le questioni molto più “sindacali”, legate a convenzioni e benefit di vario tipo che l’adesione può garantire, le quali possono incidere nelle scelte dei singoli – risulta evidente la “polarizzazione” di ciascuna di esse su interessi e obiettivi diversi, e finanche incompatibili, con quelli delle altre.
Insomma, anche su questo versante emerge l’inesistenza di un “ombrello” comune che, oltre ad assicurare l’unità della categoria nelle relazioni esterne, possa fungere da terreno su cui avviare un confronto per l’individuazione di soluzioni condivise ai problemi della giustizia amministrativa.
L’associazione più rilevante, se non altro per consistenza numerica, è l’Associazione Nazionale Magistrati Amministrativi (A.N.M.A.) la quale, malgrado le suggestioni che tale denominazione potrebbe indurre, è soprattutto l’associazione rappresentativa dei magistrati in servizio presso i Tribunali amministrativi regionali. Secondo il suo statuto, essa ha lo scopo – tra l’altro – di operare “affinché le funzioni, le prerogative ed il prestigio degli organi della giustizia amministrativa siano garantiti secondo i principi fissati nella Costituzione repubblicana” e “propugnare l’attuazione di un ordinamento della giustizia amministrativa che realizzi la più completa tutela della giustizia nella Amministrazione in conformità delle esigenze dello Stato di diritto in regime democratico ed in conformità dei principi della Costituzione”[112], sulla scorta di un’opzione che assume chiaramente a modello l’A.N.M. e la sua storia secolare.
E in effetti, se forse non può parlarsi di una storia gloriosa dell’A.N.M.A., tuttavia essa ha certamente fornito un contributo molto rilevante, nel corso dei decenni della sua attività (a partire dall’entrata a regime dei Tar), al progredire della legislazione sulla giurisdizione amministrativa nel senso della piena attuazione dei principi costituzionali e della valorizzazione della funzione giurisdizionale con le connesse garanzie di indipendenza e autonomia. In particolare, ne è innegabile l’apporto decisivo – al di là dei limiti ravvisabili non solo nei risultati, ma forse anche nella stessa impostazione di base della “trattativa” all’uopo svolta con le altre associazioni e i soggetti istituzionali[113] – alle riforme ordinamentali attuate con le leggi n. 186/1982 e n. 205/2000.
Ciò premesso, è però altrettanto innegabile che nell’ultimo ventennio l’azione associativa non possa vantare risultati altrettanto rilevanti, non essendo stata l’A.N.M.A. in grado di sensibilizzare adeguatamente l’opinione pubblica e gli interlocutori istituzionali sull’importanza e la necessità di completare il processo riformatore eliminando quelle che si è visto essere i principali aspetti di deviazione dell’assetto esistente rispetto a un modello di giurisdizione che, pur nella sua “specialità”, voglia porsi in linea con le garanzie costituzionali di indipendenza e imparzialità. Ciò è verosimilmente dovuto all’insorgere, all’interno della stessa base di rappresentanza, di visioni anche profondamente diverse in ordine al ruolo del giudice amministrativo, alle sue esigenze professionali ed alle priorità degli interventi da porre in essere; tale diversità di visioni si è di fatto tradotta in contrapposizioni e divisioni che hanno inciso negativamente sull’azione associativa complessiva.
Naturalmente, non è da stigmatizzare in sé il fatto che in seno all’A.N.M.A. esistano diverse “correnti” contrapposte, così come avviene nella magistratura ordinaria nell’ambito dell’A.N.M. Il punto è però che, mentre le correnti della magistratura ordinaria, al netto delle degenerazioni e della tendenza a trasformarsi in lobby e centri di potere (circostanze fin troppo note per soffermarvisi in questa sede), conservano una matrice originaria di tipo culturale, legata a diverse concezioni di fondo del ruolo del giudice nella società ed alle loro ricadute sui più svariati aspetti dell’attività professionale[114], al contrario la divisione in correnti dell’A.N.M.A. sembra esser nata ed essersi sviluppata su tematiche e questioni molto più “spicciole” e materiali, legate p. es. al trattamento economico, alla materia degli incarichi extragiudiziari, ai carichi di lavoro. Naturalmente, nell’ambito delle contrapposizioni e dei conflitti che insorgono su tali materie ciascuna corrente assume di voler attuare valori e principi atti ad assicurare la più piena attuazione dell’interesse pubblico e dei principi costituzionali: tuttavia, l’impressione che può ricavarsi dall’osservazione della pratica quotidiana sulle questioni concrete (in primis quella, evidentemente cruciale per i magistrati aderenti a questa associazione, dei rapporti con il Consiglio di Stato), è quella che al di là del richiamo formale agli anzi detti principi e valori, l’attività associativa risponda a strategie che obbediscono soprattutto a logiche di appartenenza, a volte di tipo generazionale e finanche personale.
Il risultato è che in via generale l’A.N.M.A. negli ultimi anni abbia giocato soprattutto “di rimessa”, abdicando dallo svolgimento di una funzione propositiva e svolgendo soprattutto un ruolo difensivo, attraverso le difese mediatiche “di rito” in occasione di attacchi esterni alla categoria[115] e la mobilitazione in occasione di vicende normative o istituzionali suscettibili di pregiudicare la giurisdizione amministrativa nel suo complesso[116]. Un ruolo difensivo peraltro indebolito dalle contrapposizioni interne che quasi sempre si scatenano su qualsiasi tema, tali da ingenerare l’impressione che spesso interessi più censurare la corrente avversa, ovvero acquisire consensi per la propria, che perseguire un interesse generale della categoria anche rispetto a interlocutori esterni.
Ancora più articolata è la situazione associativa del Consiglio di Stato, nonostante la consistenza numerica limitata della provvista dei suoi magistrati. Infatti, proprio nell’ultimo ventennio l’Associazione tra i Magistrati del Consiglio di Stato (A.M.C.S.), originariamente unitaria, ha subito una scissione con la formazione di altro soggetto associativo, denominatosi Coordinamento Nuova Magistratura Amministrativa (Co.N.M.A.) e inteso a rappresentare i magistrati transitati in Consiglio di Stato per anzianità dai Tribunali amministrativi regionali. Tale vicenda evidentemente discende dai disagi causati in tale componente dalla situazione ordinamentale conseguente alla perdurante separazione dei ruoli ed al mancato completamento del processo di unificazione che la legge n. 186/1982 avrebbe dovuto avviare[117], nonché dalla presa d’atto di una chiara inconciliabilità negli interessi e negli obiettivi di tale componente rispetto a quelli coltivati dagli altri Consiglieri di Stato aderenti all’originaria associazione unitaria. Tuttavia, per diverse ragioni non può dirsi che l’azione successiva alla scissione abbia prodotto risultati significativi.
Innanzitutto, per lungo tempo l’attenzione del nuovo soggetto associativo è stata concentrata in via quasi esclusiva sull’obiettivo di conseguire il riconoscimento a regime dell’anzianità “forfettaria” di cinque anni a suo tempo riconosciuta in via transitoria a un numero limitato di magistrati (i Consiglieri di Tar, transitati o destinati a transitare in Consiglio di Stato per anzianità, che fossero già in servizio all’atto dell’entrata in vigore della nuova normativa); ciò ha sovente pregiudicato la possibilità che gli obiettivi dell’associazione venissero percepiti dall’opinione pubblica e dagli interlocutori istituzionali come di effettivo interesse della collettività, piuttosto che rispondenti a semplici spinte settoriali, ed ha privato di effetti anche proposte di riforma più organiche e globali talora elaborate oltre a nuocere all’attenzione di iniziative convegnistiche e di riflessione pur di estremo interesse organizzate dall’associazione medesima[118]. Negli anni più recenti, in coincidenza con un massiccio rinnovamento anche anagrafico della componente dei Consiglieri di Stato proveniente dai Tar per anzianità, il Co.N.M.A. ha tentato di rilanciare la propria attività ponendosi come portatore delle esigenze di valorizzazione dell’esperienza e del lavoro concreto svolto dai magistrati effettivamente in servizio presso le Sezioni consultive e giurisdizionali (in contrapposizione a diverse posizioni sostenute dall’A.M.C.S.), in modo da trovare terreni di confronto con altre componenti della magistratura amministrativa su tematiche di interesse comune, ma in linea generale ha seguitato a non ottenere risultati apprezzabili per diverse ragioni, non ultima anche la scarsa coesione manifestata dalla base dei rappresentati in talune occasioni.
Quanto all’Associazione tra i Magistrati del Consiglio di Stato (A.M.C.S.), si tratta del soggetto che, oltre a raggruppare sia i Consiglieri di Stato di concorso che quelli di nomina governativa – i quali storicamente hanno sempre fatto blocco comune con i primi -, ha manifestato nel tempo la maggiore capacità di orientare la vita e le vicende dell’Istituto, grazie al fatto che da essa provengono non solo i Presidenti del Consiglio di Stato (alcuni dei quali, prima di approdare al vertice, hanno in essa svolto rilevanti attività) ma anche i magistrati che di fatto svolgono importanti incarichi apicali presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri ed i Ministeri: al punto da non rendere fuori luogo il richiamo che taluno ha fatto, soprattutto in occasione di specifiche vicende legislative, alla nozione di “sindacato giallo”, stante la profonda commistione con quella che comunque rimane la “parte datoriale” rispetto al plesso magistratuale. Pertanto, è intuitivo che tuttora sia questa l’associazione in grado di sostenere o – soprattutto – bloccare qualsiasi iniziativa di riforma del Consiglio di Stato o della giustizia amministrativa.
In punto di fatto, negli ultimi decenni l’attività dell’A.M.C.S. si è concretizzata principalmente – e al di là di specifici casi in cui sono state sponsorizzate proposte di modifica molto “settoriali” – nella difesa a oltranza dello status quo, e quindi nella resistenza più o meno esplicita a qualsiasi ipotesi di seria riforma ordinamentale, fino ad arrivare a ignorare o negare la stessa esistenza delle criticità che si sono illustrate nei precedenti paragrafi. Un atteggiamento che, per la convinzione con cui è stato a tratti sostenuto in tutte le sedi istituzionali e associative e per la tendenza a valersi di tutti gli strumenti a disposizione (ivi compresa la già rimarcata presenza di Consiglieri di Stato in posti-chiave dell’organizzazione ministeriale) per far prevalere in ogni caso le posizioni difese dall’associazione, indurrebbe a definire tali posizioni addirittura reazionarie più che conservatrici.
7. Conclusioni: una riforma necessaria ma forse impossibile.
Può sembrare curioso, e forse perfino incredibile, che i numerosi studi – alcuni dei quali estremamente dotti e autorevoli – che si sono concentrati sui temi dell’indipendenza del giudice amministrativo, delle sue specificità costituzionali e normative e del modo su cui possono incidere sul ruolo di tale giurisdizione e sulla sua percezione da parte dell’opinione pubblica, pur soffermandosi sulle peculiarità più evidenti ictu oculi[119], abbiano pressoché totalmente trascurato i profili ordinamentali e organizzativi su cui in questa sede si è cercato di focalizzare l’attenzione: come se fosse possibile esprimersi sul grado di indipendenza e imparzialità di un plesso giurisdizionale prescindendo dai suoi assetti istituzionali interni e dalle sue regole di funzionamento. Più che indagare sulle ragioni di tale pretermissione, qui interessa però tirare le conclusioni, per quanto possibile, dell’indagine svolta.
E invero, l’analisi avrebbe potuto essere estesa ad altri aspetti pure rilevanti della specialità della giustizia amministrativa (quali, ad esempio, l’attività di formazione e aggiornamento dei magistrati dei Tar e del Consiglio di Stato ovvero il tema del rapporto tra l’attività nomofilattica del Consiglio di Stato e quella della Corte di cassazione)[120], ma ciò avrebbe reso il presente contributo pletorico e probabilmente ridondante. Le questioni trattate dovrebbero essere sufficienti a conferire fondatezza all’idea, qui sostenuta, che il carattere obsoleto e inadeguato all’attuale quadro costituzionale della disciplina ordinamentale, e la frammentazione della categoria che ne deriva, non possano ritenersi fattori estranei alla persistente incapacità della giurisdizione amministrativa – complessivamente intesa – di riuscire a farsi percepire dall’opinione pubblica come un “vero” ordine giurisdizionale, con le connesse garanzie e prerogative di indipendenza, meritevole del rispetto e del prestigio che si riconoscono alla giurisdizione in quanto tale.
In particolare, il vero nodo problematico è costituito dall’assenza di un nucleo di principi e valori condivisi, percepiti come comuni da tutti i magistrati interessati, sovraordinati e unificanti rispetto ai più materiali e diversificati interessi che fanno capo alle varie componenti e gruppi contrapposti in cui la categoria si articola, i quali possano fungere da criterio orientatore non solo nel porsi della categoria medesima in modo unitario e omogeneo nei rapporti con istituzioni e media, ma anche ai fini dell’acquisizione di consapevolezza dell’esistenza di problematiche generali tali da esigere la considerazione di un interesse superiore, che non sia la mera sommatoria degli interessi “particolari” ovvero la risultante della dialettica o del conflitto fra di essi. La conseguenza è che il più delle volte le varie componenti operano “in ordine sparso”, quando non con reciproca diffidenza e ostilità, anche a fronte di vicende che richiederebbero un’azione (o una reazione) unitaria: ed a tale oggettiva debolezza non sono estranei i rapporti tra diverse fasce dell’istituzione e gli altri poteri, legislativo ed esecutivo, rispetto ai quali l’autonomia e l’indipendenza dovrebbero definirsi[121].
La capacità che un siffatto sistema ha disvelato di reggere per parecchi decenni, oltre che dalla già evidenziata costante ricerca di soluzioni di mediazione idonee a sopire i conflitti interni, dipende probabilmente anche dalla scarsa attenzione mediatica che tradizionalmente l’attività dei giudici amministrativi, e innanzitutto del Consiglio di Stato, ha ricevuto a fronte dell’esposizione anche eccessiva di cui hanno fruito altre istituzioni giudiziarie (la vicenda della sovraesposizione delle Procure della Repubblica è emblematica). Ma anche questa peculiarità dell’essere un insieme di soggetti destinati a operare “nell’ombra”, attraverso una gestione del potere che è tanto più incisiva quanto più avviene in luoghi non visibili dal pubblico generale, rischia di tramontare nell’attuale era in cui le informazioni possono essere agevolmente reperite in rete e rilanciate tramite i social media, come testimoniato da recenti inchieste giornalistiche che hanno portato alla disponibilità del pubblico informazioni e notizie che un tempo sarebbero rimaste confinate ai “meandri” della burocrazia[122].
Fino a che punto questo persistente handicap possa pregiudicare le sorti future della giustizia amministrativa, è difficile dire. È abbastanza difficile che l’assorbimento nella giurisdizione unitaria, pur caldeggiato dai più accaniti detrattori della giurisdizione amministrativa[123] e ipotizzato in passate proposte di riforma costituzionale (come nella già citata Bicamerale del 1997), possa effettivamente realizzarsi nel prossimo futuro: a ciò osta, oltre alla notoria e sperimentata difficoltà di perseguire nell’ordinamento italiano incisive riforme degli equilibri costituzionali – quale quella che una tale opera di unificazione richiederebbe – ed alla già segnalata capacità di componenti e soggetti direttamente interessati di “orientare” l’iniziativa legislativa dei Governi in questa materia, la decisa presa di posizione con cui la Corte costituzionale, dopo la revisione dell’articolo 111 Cost., ha riaffermato il fondamento costituzionale attuale del sistema della doppia giurisdizione[124]. Alla stregua dei principi affermati dalla Corte, nonché all’esito di significative innovazioni legislative e giurisprudenziali sul versante legislativo dei rapporti tra le giurisdizioni, è oggi comunemente affermato – anche se non unanimemente condiviso - che la Costituzione non richieda l’unità ordinamentale della giurisdizione, avendo invece perseguito e realizzato l’unità funzionale tra di esse, nella prospettiva di un’azione comune e complementare in vista della più piena ed effettiva tutela di diritti e interessi dei cittadini[125].
Se dunque è difficilmente immaginabile che la situazione descritta possa porre a repentaglio la stessa esistenza della giurisdizione amministrativa, è invece prevedibile che perdureranno a lungo le difficoltà nel fare accettare all’opinione pubblica e ai media l’idea della giurisdizione amministrativa come ordine autonomo e indipendente, al pari di quella ordinaria. Si ripeteranno gli “attacchi” alla giurisdizione in occasione di decisioni aventi risonanza politica o mediatica, e le correlative “difese” da parte delle associazioni e degli stessi vertici istituzionali, in un circuito in cui il – pur sacrosanto – richiamo ai valori della giurisdizione ed all’importanza delle funzioni attribuite alla giustizia amministrativa rispetto alla società e all’economia, alimentandosi soprattutto di argomenti fondati sulla maggiore preparazione e specializzazione di tali giudici, sulla maggiore celerità del relativo processo et similia, sconterà un crescente rischio di sganciamento dal diffuso sentire sociale, e in definitiva di autoreferenzialità, così inverandosi il rischio paventato da uno degli ultimi Presidenti del Consiglio di Stato[126].
Non è dato prevedere se la descritta evoluzione potrà accentuare la percezione degli organi di giustizia amministrativa come sovrastruttura del sistema, capace di assicurare la propria sopravvivenza pur dopo l’esaurimento della propria funzione storico-sociale (profondamente connessa con la visione liberale dei rapporti tra Stato e individuo)[127], piuttosto che come articolazione indispensabile e imprescindibile di un moderno Stato di diritto. Certo è che la persistente preponderanza degli interessi contrapposti, la loro dimensione ed entità, la loro capacità di ostacolare la formazione di una visione istituzionale condivisa, sono tutti elementi che autorizzano un certo pessimismo in ordine alla possibilità che dall’interno dei predetti organi possa sorgere un’autentica spinta verso un processo di trasformazione – prima ancora che di riforma – idoneo a dotare l’ordinamento italiano di una giurisdizione amministrativa in linea con gli standard di indipendenza richiesti dall’odierno quadro costituzionale oltre che da istanze sovranazionali[128].
Naturalmente, è sempre possibile coltivare l’ottimismo della volontà e augurarsi che maturi in seno all’Istituzione, e in primis al Consiglio di Stato, quella consapevolezza che già nel lontano 1978 Massimo Severo Giannini aveva lucidamente espresso: e cioè che “la costruzione di una magistratura amministrativa unitaria è uno dei modi per salvare, con se stesso, una delle esigenze delle strutture democratiche”[129].
[1] Cfr. F. Nietzsche, La gaia scienza e idilli di Messina, trad. di F. Masini, Milano, Adelphi, 1977, p. 341.
[2] Cfr. S. King, A volte ritornano, trad. di H. Brinis, Milano, Bompiani, pp. 181 ss.
[3] Appartiene ormai alla leggenda, più che alla cronaca, il noto intervento di R. Prodi, Abolire tar e Consiglio di Stato per non legare le gambe all’Italia, in Il Mattino, Il Messaggero e Il Gazzettino, 13 agosto 2013, che tante polemiche suscitò fra gli operatori del settore.
[4] Al riguardo, con riferimento alla recente vicenda di uno studente asseritamente “promosso” dal Tar dopo essere stato bocciato dalle istituzioni scolastiche, si vedano le caustiche osservazioni di M. Balloriani, Si attaccano le toghe. Ma nessuno legge davvero le sentenze, in Domani, 26 agosto 2023, p. 5.
[5] Si vedano, a mero titolo di esempio, G. Giovannini, Cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario 2014, in www.giustamm.it (in risposta all’articolo di Romano Prodi citato alla nota 3) nonché A. Pajno, Insediamento del Presidente del Consiglio di Stato – Inaugurazione dell’anno giudiziario 2016, Roma, 2016, pp. 7-8.
[6] Cfr. ad esempio U. Fantigrossi, Giustizia amministrativa: una battaglia attuale, in www.giustizia-amministrativa.it, 5 luglio 2017; F. Freni, Acciaio e cristallo: in difesa del processo amministrativo, in www.ilmerito.org, 27 novembre 2015; M.A. Sandulli, Poteri dei giudici e poteri delle parti nei processi sull’attività amministrativa. Dall’unificazione al codice (Presentazione del Convegno di studi su “Poteri dei giudici e poteri delle parti nei processi sull’attività amministrativa. Dall’unificazione al codice”, Bari – Polignano, 21-22 settembre 2015), in www.federalismi.it, n. 18/2015, pp. 3 ss.; P. Mantini, Giustizia amministrativa: occorrono riforme, non superficiali rottamazioni, in www.specchioeconomico.com, 2 aprile 2014.
[7] Con formulazione in parte analoga, l’articolo 100, comma terzo, Cost. rinvia alla legge affinché questa assicuri l’indipendenza del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, quali organi consultivi, “di fronte al Governo”.
[8] L’espressione è di G. Verde, L’unità della giurisdizione e la diversa scelta del costituente, in Dir. proc. amm., 2003, pp. 363 ss.
[9] In tal senso, R. Garofoli, Unicità della giurisdizione e indipendenza del giudice: principi costituzionali ed effettivo sviluppo del sistema costituzionale, in Dir. proc. amm., 1998, pp. 144 ss.
[10] Sul punto, cfr. A. Orsi Battaglini, Alla ricerca dello Stato di diritto. Per una giustizia “non amministrativa”, (Sonntagsgedanken), Milano, 2005, pp. 82-83, con specifico riguardo alle sentenze della Corte costituzionale nn. 177/1973 e 7/1980, in tema di nomina governativa dei Consiglieri di Stato e requisiti per l’accesso allo status di magistrato (su cui si tornerà infra, al § 2).
[11] Nonché, per la Corte dei conti, nell’articolo 4 del codice di giustizia contabile di cui al d.lgs. 26 agosto 2016, n. 174.
[12] Cfr. P. Tanda, Profili istituzionali, processuali e comparatistici dell’indipendenza e dell’imparzialità del giudice amministrativo, in Giur. it., 2020, 3, pp. 697 ss.
[13] Fra i contributi più recenti, vale richiamare quelli di P. Tanda, Profili istituzionali, processuali e comparatistici dell’indipendenza e dell’imparzialità del giudice amministrativo, cit.; di E. Follieri, Per l’indipendenza del Consiglio di Stato, in www.giustamm.it, 2016; e di M. Protto, Le garanzie di indipendenza e imparzialità del giudice nel processo amministrativo, in G. Piperata – A. Sandulli (a cura di), Le garanzie delle giurisdizioni: indipendenza e imparzialità dei giudici, Napoli, Editoriale Scientifica, 2012, pp. 95 ss.
[14] Secondo l’efficace formulazione di G. Montedoro – E. Scoditti, Il giudice amministrativo come risorsa, in Questione giustizia, n. 1/2021, pp. 11 ss.
[15] Su cui cfr. M.M. Fracanzani, Per un giudice amministrativo veramente speciale, in Questione giustizia, n. 1/2021, pp. 50 ss. La specialità su cui ci si concentrerà nel presente contributo non è ovviamente riconducibile alla semplice “specializzazione” determinata dall’essere un certo giudice chiamato a esprimersi istituzionalmente su particolari materie (in questo senso la intende A. Pajno, op. e loc. cit.), investendo invece l’analisi delle ragioni alla base della scelta costituzionale di istituire - o conservare - una giurisdizione separata rispetto a quella comune, individuabile nella giurisdizione ordinaria.
[16] Il tema della “apparenza di indipendenza”, al di là del suo impiego nella polemica giornalistica e politica, rientra da tempo fra i parametri che la Corte europea dei diritti umani ritiene debbano essere soddisfatti perché siano assicurate l’indipendenza e l’imparzialità del giudice ai sensi dell’articolo 6 della CEDU: cfr. Corte EDU, 6 ottobre 2011, Agrokompleks c. Ucraina, e giurisprudenza successiva.
[17] Sembrano cogliere il punto M. D’Amico - I. Pellizzone, La giustizia amministrativa. Le ragioni della scelta della Costituente e profili costituzionali dell’attuale dibattito sui rapporti tra giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa, in Rivista A.I.C., n. 4/2014, p. 20, allorché osservano: “pare che, criticando la specialità, si vorrebbe metterne in discussione non la magistratura amministrativa in sé e per sé considerata, ma una sua deviazione dalle regole, alla luce della quale il giudice speciale rischia di apparire come giudice “privilegiato””.
[18] Non è questa la sede per richiamare il dibattito che animò l’Assemblea costituente circa l’opportunità o meno di conservare, nel nuovo assetto costituzionale repubblicano, il sistema dualistico delle giurisdizioni incentrato sul ruolo del Consiglio di Stato come organo di giustizia amministrativa (poi arricchito dalla previsione dell’istituzione di organi giurisdizionali di primo grado a livello regionale) e sulle ragioni per cui tale opzione prevalse su quella alternativa dell’unificazione delle giurisdizioni: sul punto, cfr. G. Silvestri, Giudici ordinari, giudici speciali e unità della giurisdizione, in Scritti in onore di M.S. Giannini, Milano, Giuffré, 1988, pp. 716 ss., nonché D. Nocilla, La giustizia amministrativa all’assemblea costituente, in Il Consiglio di Stato: 180 anni di storia, Bologna, Zanichelli, 2011, pp. 317 ss.
[19] Cfr. G. Lauricella, Brevi considerazioni sulla giustizia amministrativa, intervento nel Forum (ipotesi di riforma del sistema di giustizia amministrativa), in www.aipda.it, p. 4; nello stesso senso, C. Taglienti, La giurisdizione amministrativa nelle prospettive di riforma costituzionale, in Atti del convegno di Roma del 16 maggio 1997, organizzato dall’A.N.M.A., sul tema “Il sistema delle garanzie nelle proposte di riforma costituzionale: la giustizia amministrativa”. Si vedrà però in prosieguo come alcuni aspetti di anomalia “ordinamentale” della giurisdizione amministrativa, meno esplorati dalla dottrina di quelli cui si accenna nel presente paragrafo, siano forse suscettibili di incidere sull’efficienza e sulla credibilità dell’intero plesso giurisdizionale in questione, compresi i Tribunali di primo grado.
[20] Corte cost., sent. 21 settembre 2011, n. 273.
[21] “Va ricordato che nel Consiglio di Stato coesistono funzioni giurisdizionali e consultive che fanno di tale organo, ad un tempo, il giudice di più elevata istanza nella tutela della giustizia nell’amministrazione ed il più importante istituto di consulenza giuridico-amministrativa. Pertanto, il passaggio per anzianità del consigliere di TAR al Consiglio di Stato presuppone l’accertata idoneità all’esercizio non solo di funzioni giurisdizionali in grado di appello, ma anche di funzioni di natura consultiva, corrispondenti appunto al ruolo di organo di consulenza giuridico-amministrativa che l’art. 100 Cost. assegna al Consiglio di Stato (artt. 15 e 19 della legge n. 186 del 1982)” (Corte cost., sent. n. 273/2011, cit., § 5.1).
[22] Infra, § 3.
[23] Cfr. A. Orsi Battaglini, op. cit., pp. 78-79. Secondo E. Follieri, op. cit., l’incompatibilità sussisterebbe invece solo rispetto alla consulenza sull’attività amministrativa, e non anche a quella sulla normazione (oggi svolta dalla speciale Sezione consultiva per gli atti normativi istituita dall’articolo 17, comma 28, della legge 15 maggio 1997, n. 127).
[24] In questo senso, già P.G. Lignani, Funzione consultiva e indipendenza, in S. Cassese (a cura di), Il Consiglio di Stato e la riforma costituzionale, Milano, Giuffré, 1997, pp. 99 ss. Più di recente, cfr. G. Taglianetti, Funzione consultiva del Consiglio di Stato e attualità del sistema di giustizia amministrativa. Brevi notazioni, in amministrativam@nte, n. 2/2023. Insiste su quella che sarebbe una vera e propria “integrazione” tra funzione consultiva e funzione giurisdizionale, concepite fin dapprincipio come destinate a supportarsi reciprocamente e sinergicamente, C. Tucciarelli, Il Consiglio di Stato e le regole tecniche sulla redazione degli atti normativi, in Osservatorio sulle fonti n. 1/2022 (www.osservatoriosullefonti.it).
[25] Cfr. G. Romeo, Il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa: organo indipendente o legibus solutus?, in Dir. proc. amm., 1990, II, p. 718, il quale evidenzia come mal si attagli alla moderna dimensione dello “Stato sociale di diritto”, in cui l’amministrazione è chiamata a perseguire risultati concreti, specifici e contingenti, e in definitiva ad “allocare risorse” per realizzarli, con ciò operando necessariamente delle scelte di valore, la perpetuazione dell’ideologia liberale della razionalità e neutralità in sé dell’agire amministrativo come operazione tecnica.
[26] Cfr. C. Tucciarelli, op. cit., il quale sottolinea che l’attività consultiva sugli atti normativi è volta a svolgere una duplice funzione, di controllo e cooperazione, e che tali due dimensioni convivono e, in misura crescente, il mero controllo formale e di legittimità viene affiancato da forme di cooperazione nella individuazione di modi e strumenti per realizzare gli obiettivi stabiliti ed esplicitati da Governo o Parlamento.
[27] Si vedano le esperienze di altri Stati europei richiamate da E. Follieri, op. cit.
[28] Cfr. Corte EDU, sent. 6 maggio 2003, Klein c. Olanda.
[29] Cfr. E. Follieri, op. cit. Per un’opinione parzialmente contraria, cfr. M. Protto, op. cit., p. 106 (sulle cui argomentazioni si tornerà infra, al § 3).
[30] Secondo M. Torsello, La funzione consultiva del Consiglio di Stato ieri e oggi, in www.giustizia-amministrativa.it, 15 novembre 2021, p. 8, tale scelta legislativa seguì a una “crisi” della funzione consultiva, considerata ormai di ostacolo alla celerità e speditezza dei procedimenti amministrativi e scarsamente coerente con le coeve trasformazioni del modello dell’organizzazione ministeriale, caratterizzate dall’attribuzione ai dirigenti di una peculiare ed esclusiva posizione di autonomia e di responsabilità.
[31] Cfr. P. Tanda, op. cit., p. 702, il quale è dell’avviso che tale evoluzione costituisca un argomento ulteriore a favore dell’esclusione di qualsivoglia criticità sul piano dell’indipendenza in relazione alle funzioni consultive del Consiglio di Stato. Tuttavia, vi è stato anche chi ha ritenuto che la progressiva trasformazione del ricorso straordinario in un “doppione” del ricorso giurisdizionale, connotato unicamente da una maggiore lunghezza del termine di impugnazione (120 giorni anziché 60), abbia determinato il venir meno dell’utilità dell’istituto quale strumento giustiziale gratuito alternativo al rimedio giurisdizionale, rendendone auspicabile la soppressione (cfr. M. Macchia, Il ricorso straordinario da’ luogo a un processo?, in Giornale dir. amm., 2013, 1, § 5). La questione, che investe la delicata tematica delle Alternative Dispute Resolutions (ADR), non può ovviamente essere approfondita in questa sede.
[32] Basti pensare al ruolo preponderante svolto dal Conseil d’État francese nel processo legislativo (cfr. R. Dickmann-A. Rinella, Il processo legislativo negli ordinamenti costituzionali contemporanei, Roma, Carocci, 2011, pp. 77 ss.).
[33] Cfr. P. De Lise, Relazione sull’attività della giustizia amministrativa 2011, in www.giustizia-amministrativa.it, p. 20.
[34] Sent. 19 dicembre 1973, n. 177, resa su ordinanza di rimessione del Consiglio di Stato nell’ambito di un giudizio relativo all’impugnazione proposta da alcuni Consiglieri di Stato di concorso avverso un gruppo di nomine operate dal Governo pro tempore.
[35] Per brevità non è possibile qui soffermarsi sull’ulteriore criticità ravvisabile in relazione ad alcuni componenti del Consiglio di giustizia amministrativa della Regione Siciliana, per i quali è prevista non solo la designazione da parte del Presidente della Regione, ma anche una durata limitata a quattro anni con possibilità di rinnovo (articolo 3, comma secondo, del d.lgs. 6 maggio 1948, n. 654): previsione della quale la Consulta ha pure escluso l’incostituzionalità (Corte cost., sent. 22 gennaio 1976, n. 25).
[36] Cfr. Corte cost., sent. 21 gennaio 1967, n. 1.
[37] Osserva A. Orsi Battaglini, op. cit., pp. 82-83, che tutte queste decisioni muovono comunque dal già evidenziato presupposto, oggi non più così pacifico, della indipendenza “attenuata” dei giudici delle giurisdizioni speciali, e dunque della non estensibilità a questi ultimi dei principi di cui al Titolo IV della Parte II della Costituzione (fra i quali, ça va sans dire, vi è anche la regola dell’accesso mediante concorso di cui all’articolo 106, comma primo, Cost.).
[38] Secondo S. Baccarini, Status e carriere dei giudici amministrativi, in www.giustamm.it, 2017, la previsione di un mero “parere” da parte dell’organo di autogoverno, restando comunque in capo all’esecutivo le determinazioni ultime in ordine alla nomina dei Consiglieri di Stato de quibus (non casualmente definita “libera”), può a tutt’oggi ingenerare dubbi di legittimità costituzionale.
[39] Si vedano le osservazioni del prof. Sabino Cassese in una recente intervista (Cassese: “I giudici reclutati dal governo hanno un ruolo politico”, in Il Dubbio, 17 luglio 2023): “Le sentenze vanno scritte con uno stile completamente diverso dalle norme. Scrivendo la sentenza, il giudice risponde agli argomenti delle parti. Questo non è il caso delle norme. La principale ragione per cui le leggi italiane sono scritte malissimo deriva proprio dalla incapacità dei magistrati amministrativi di spogliarsi di quella veste, quando redigono norme”.
[40] In questo senso, pur nell’ambito di un approccio che considera l’apporto di magistrati all’intero apparato istituzionale come uno dei “punti di forza” del nostro sistema di giustizia amministrativa, M.A. Sandulli, La “risorsa” del giudice amministrativo, in Questione Giustizia, n. 1/2021, p. 42.
[41] Per tutti, cfr. P. De Lise, Relazione sull’attività della giustizia amministrativa per l’anno 2021, in www.giustamm.it, p. 14.
[42] Così G.P. Storchi, Materiali per un’analisi del ruolo politico del Consiglio di Stato. Gli “incarichi esterni” dei magistrati amministrativi in Riv. trim. dir. pubbl., 1977, p. 549. Tale notazione appare in stridente contrasto sia con l’affermazione di chi, sempre in funzione di “difesa” degli incarichi in questione, considera “periferica” la vicenda dei detti incarichi rispetto all’esperienza complessiva dei magistrati amministrativi (G. Corso, Il Consiglio di Stato nell’ordinamento costituzionale ed amministrativo in S. Cassese [a cura di], Il Consiglio di Stato e la riforma costituzionale, Milano, Giuffré, 1997, p. 44) sia con il dato di esperienza che evidenzia come sia alquanto diffusa l’attribuzione di incarichi similari anche a giudici dei Tribunali amministrativi regionali.
[43] In tal senso, G. Montedoro, Tavola rotonda in Convegno di Lecce 16-17 ottobre 2015, L’amministrazione pubblica, i cittadini, la giustizia amministrativa: il percorso delle riforme, a cura di P.L. Portaluri, Napoli, 2016, p. 166.
[44] Si può già notare, e ancora di più emergerà in seguito, come il richiamo alle regole, sia ordinamentali che processuali, valide per i magistrati ordinari (diversamente ritenute non applicabili agli organi della giustizia amministrativa) costituisca un argomento spesso evocato, ma senza tener conto delle diverse rispettive peculiarità delle due giurisdizioni, per escludere le criticità connesse ad alcuni tratti della “specialità” della giurisdizione amministrativa (e, soprattutto, a come questi vengono talvolta declinati nel concreto).
[45] Cfr. L. Ferrara, Attualità del giudice amministrativo e unificazione delle giurisdizioni, in Dir. pubbl., 2014, p. 566, n. 21.
[46] Si vedano i dati riportati da E. Follieri, op. cit. Si tralascia, perché estranea al perimetro del presente contributo, un’analisi quantitativa dell’apporto – anch’esso alquanto rilevante soprattutto negli anni più recenti – dei magistrati della Corte dei conti e degli Avvocati dello Stato.
[47] Se a ciò si aggiunge l’occasionale attribuzione di cariche parlamentari a personalità provenienti dal Consiglio di Stato, suona solo appena un po’ forzata la conclusione di chi rileva che si determina nella pratica “una vera e propria partecipazione all’esercizio di tutte e tre le funzioni fondamentali dello Stato, di un assetto organizzativo che viene a configurarsi come un microcosmo di Stato assoluto”, al punto che “paradossalmente rovesciando il problema, ci sarebbe da chiedersi quali siano le garanzie di indipendenza del potere politico dal Consiglio di Stato e non viceversa” (A. Orsi Battaglini, op. cit., p. 98).
[48] Sul punto, cfr. S. Baccarini, op. cit.
[49] Al riguardo si mostrano dubbiosi E. Follieri, op. cit., e S. Baccarini, op. cit.
[50] Ci si riferisce ai due episodi, noti alle cronache, delle autorizzazioni rilasciate dal Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa per l’assunzione dell’incarico di capo di gabinetto del Ministero dell’economia nel Governo Conte-1 e dal C.S.M. per l’assunzione dell’incarico di Presidente dell’Autorità per la concorrenza e per il mercato, su cui cfr. rispettivamente G. Meletti, Kamasutra giuridico per far andare Carbone al Tesoro, in Il Fatto Quotidiano, 9 gennaio 2019, e I. Proietti, Le fatiche del Csm per l’ok a Rustichelli, ivi, 9 febbraio 2019.
[51] Né è conducente, come è perfino banale rilevare, l’osservazione che siffatte disfunzioni possano occasionalmente essersi verificate anche presso altre magistrature, compresa quella ordinaria.
[52] Cfr. E. Follieri, op. cit.
[53] Cfr. E. Follieri, op. cit., il quale peraltro osserva che, anche anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 186/1982, i Governi si erano sempre mostrati, salvo in un paio di occasioni, tendenzialmente rispettosi delle prerogative di autonomia e indipendenza dell’organo di vertice della giustizia amministrativa.
[54] È noto alla scienza costituzionalistica come, nei sistemi a costituzione scritta, le conventions of the constitution, per quanto autorevolmente formatesi e consolidate nel tempo, sono per loro natura “cedevoli” e inidonee ad assumere valore vincolante per il futuro agire degli organi costituzionali, restandone l’applicazione rimessa alla leale collaborazione tra le istituzioni interessate: cfr. G.U. Rescigno, Ripensando le convenzioni costituzionali, in Pol. dir., 1997, pp. 499 ss., e più di recente Q. Camerlengo, Le convenzioni costituzionali tra principio di leale collaborazione e teoria dei giochi, in Consulta online, n. 1/2022.
[55] Ciò è evidente fin dalle dichiarazioni rese dal Presidente del Consiglio Renzi nel discorso programmatico al Senato: “Parto dalla giustizia amministrativa. Siamo un Paese in cui – lasciatevelo dire da chi costantemente ci batte la testa – lavorano più, negli appalti pubblici, gli avvocati che i muratori. Negli appalti pubblici non c’è alternativa al ricorso sul controricorso con la sospensiva. Siamo al punto che i tribunali amministrativi regionali discettare di tutto. Siamo al punto che un provvedimento di un sindaco (in alcuni casi, anche del Parlamento) è comunque costantemente rimesso in discussione in una corsa ad ostacoli impressionante. Ma come possiamo dare certezza del diritto se noi per primi abbiamo un sistema (sono partito da quello amministrativo) che crea inquietudine non già soltanto agli investitori stranieri, ma agli stessi operatori del diritto, a partire dai giudici amministrativi che in più circostanze hanno sottolineato la necessità di riforme strutturali?” (dalla trascrizione stenografica riportata in www.ilpost.it).
[56] Cfr. E. Follieri, op. cit.
[57] Cfr. E. De Francisco-H. Simonetti, La nomina del Presidente del Consiglio di Stato: quello che noi credevamo, in www.giustamm.it, n. 2/2016.
[58] In tal senso si sono espressi a suo tempo A.M. Sandulli, La riforma della magistratura amministrativa, in Foro amm., 1982, II, pp. 1429 ss., e G. Abbamonte, Note sul nuovo ordinamento della giurisdizione amministrativa – L. 27 aprile 1982, n. 186, in Dir. proc. amm., 1983, pp. 9 ss. Negli stessi termini, più di recente, V. Cerulli Irelli, La giurisdizione amministrativa nella Costituzione, in www.astrid.eu, 2009.
[59] Con la già citata sentenza n. 273/2011, la Corte costituzionale ha ritenuto infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate in relazione alla “cesura” di carriera che – come meglio illustrato nel testo – investe i magistrati che transitano dai Tar al Consiglio di Stato, in ragione dell’attribuzione a quest’ultimo organo anche delle funzioni consultive, considerate elemento “specializzante” sufficiente e idoneo a fondare la scelta legislativa di differenziare il percorso di carriera dei suoi magistrati rispetto a quello dei Tribunali di primo grado.
[60] La vera e propria “mistica” costruita attorno al concorso a Consigliere di Stato (indubbiamente di estrema difficoltà e quasi sempre rivelatosi idoneo a selezionare le migliori intelligenze giuridiche disponibili) si alimenta sovente perfino del richiamo a una novella di Luigi Pirandello, Concorso per referendario al Consiglio di Stato, risalente al 1902, epoca in cui in effetti la prima qualifica cui si accedeva tramite il concorso de quo era appunto quella di referendario (L. Pirandello, Novelle per un anno, Milano, CDE, pp. 788 ss.).
[61] Come peraltro confermato dalla stessa Corte costituzionale, nella più volte citata sentenza n. 273/2011.
[62] Per la verità, ai sensi dell’articolo 22 della delibera del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa del 18 gennaio 2013, recante “Disposizioni per assicurare la qualità, la tempestività e l’efficientamento della giustizia amministrativa”, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato “può essere composta sulla base dei seguenti criteri alternativi: a) dai quattro Presidenti titolari delle sezioni giurisdizionali e dai due consiglieri più anziani di ciascuna delle quattro sezioni giurisdizionali; b) in modo da assicurare la partecipazione di magistrati con maggiore anzianità e di magistrati di più recente nomina”; tuttavia, nella prassi il criterio applicato dai Presidenti del Consiglio di Stato è stato sempre il primo (in disparte gli effetti del recente incremento fino a sei delle Sezioni giurisdizionali).
[63] Per una interessante ricostruzione ab externo della vicenda cui si accenna nel testo, cfr. G. Pellegrino, Riflessioni – Il conflitto tra magistrati nella giustizia amministrativa, in Nuovo Quotidiano di Puglia, 28 luglio 2021.
[64] Non risulta però che analoghe previsioni siano contenute nella disciplina di concorsi, anche più lunghi e complessi di quello qui in questione, ivi compreso quello per l’accesso in magistratura ordinaria.
[65] Al riguardo, il quarto comma dell’articolo 21 della l. n. 186/1982 stabilisce che dell’anzianità di servizio maturata nel ruolo dei magistrati Tar torni a tenersi conto ai soli fini della nomina a Presidente di Tribunale amministrativo regionale.
[66] Così G. Romeo, op. cit., p. 714, secondo cui era precisamente tale “autopercezione” di entrare a far parte di una élite a rendere appetibile il transito per anzianità in Consiglio di Stato, nonostante gli inconvenienti segnalati.
[67] Ossia senza che ciò sia determinato da particolari situazioni o scelte personali ovvero da sanzioni disciplinari o altre vicende che ne abbiano pregiudicato il percorso di carriera.
[68] Esemplare la vicenda trattata nella sentenza del Tar Lazio, sez. I, 3 dicembre 2021, n. 12518, laddove veniva in discussione la questione di legittimità costituzionale delle disposizioni (articolo 1, comma 97, lett. e), della legge 30 dicembre 2004, n. 311, e articolo 18, comma 3, del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 273, convertito in legge 23 febbraio 2006, n. 51), che avevano consentito l’assunzione “prioritaria” degli idonei dell’ultimo concorso a Consigliere di Stato espletato entro la data del 31 dicembre 2004, nonché l’impugnazione delle deliberazioni con cui il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa aveva ritenuto di estendere in via interpretativa tali previsioni anche a concorsi successivi.
[69] In questo senso, può essere condivisa l’affermazione di chi ha ritenuto che proprio la disciplina del processo amministrativo, soprattutto dopo l’entrata in vigore del codice del 2010, abbia costituito la garanzia destinata a bilanciare dal punto di vista dinamico il deficit di indipendenza e imparzialità che emerge sul piano statico e strutturale: cfr. M. Protto, op. cit., p. 98.
[70] Emblematico è quanto avvenuto in occasione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), concordato con l’Unione europea per l’impiego delle risorse da questa erogate a fini di sostegno alla ripresa economica dopo la crisi innescata dalla pandemia da Covid-19, laddove, a fronte dell’inserimento della riforma dell’ordinamento giudiziario tra le riforme “orizzontali” qualificanti finalizzate a ridare efficienza e celerità al sistema giustizia, nulla al riguardo è stato previsto per la giustizia amministrativa, interessata unicamente dalle misure di rafforzamento dell’Ufficio del processo in vista dell’incremento numerico delle cause da definire: cfr. Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza #nextgenerationItalia, in www.italiadomani.gov.it, pp. 50 ss.
[71] Cfr. P. De Lise, Verso il Codice del processo amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it, 28 aprile 2010.
[72] Sembra comunque che più di recente prevalga la tesi della non appellabilità. Sulla questione, cfr. I. Genuessi, Sull’appellabilità del decreto cautelare monocratico: tra esigenze di tutela conseguenti alla pandemia e orientamenti giurisprudenziali contrastanti, in www.giustiziainsieme.it, 20 aprile 2021.
[73] Sotto tale profilo non può non richiamarsi, fra i casi più recenti, l’ordinanza con la quale la Sezione di Lecce del Tar della Puglia, in aperto dissenso rispetto ai principi affermati dal Supremo Collegio, ha rimesso alla Corte di giustizia la questione della compatibilità con il diritto unionale delle norme interne in materia di affidamento e durata delle concessioni demaniali marittime (Tar Lecce, sez. I, ord. 11 maggio 2022, n. 743, sulla quale la Corte di giustizia si è poi pronunciata con la sent. sez. III, 30 aprile 2023, C-348/22).
[74] Cfr. A. Liberati, La ricorribilità delle sentenze del Consiglio di Stato innanzi alla Corte europea dei Diritti dell’Uomo: l’inizio della fine di Palazzo Spada, in www.lexitalia.it, n. 4/2011, il quale peraltro sul punto non spinge la propria analisi, in punto di prospettata violazione dell’articolo 6 CEDU, al di là della semplice notazione della vistosa anomalia che connoterebbe una controversia in cui una sentenza è “appellata (tra gli altri) dal Consiglio di Stato (in persona del presidente p.t.), innanzi al Consiglio di Stato, per sentire dichiarare la legittimità dell’operato del presidente del Consiglio di Stato p.t., in qualità di presidente ex lege della commissione di concorso per l’accesso al Consiglio di Stato, e delle conseguente nomina di alcuni consiglieri di Stato”.
[75] Cfr. M.A. Sandulli, op. e loc. cit., che a sua volta, sia pur cursoriamente, annovera fra le “criticità” del sistema l’affidamento allo stesso giudice amministrativo del sindacato sulle decisioni del proprio organo di autogoverno.
[76] Cass. civ., sez. un., 12 dicembre 2013, n. 27847.
[77] § 5, che così prosegue: “Quindi la garanzia di terzietà del giudice corre su questo doppio binario: conformità al parametro costituzionale dell’art. 111 Cost., comma 2, - che evoca il controllo di costituzionalità invocabile dalla parte con la relativa eccezione ed attivabile dal giudice comune, anche d’ufficio, L. n. 87 del 1953, ex art. 23 - e conformità alle regole di rito attuative di tale garanzia nel processo, le quali evocano il sindacato di legittimità innanzi al giudice che lo esercita in ultima istanza; sindacato quest’ultimo, che nell’attuale sistema ordinamentale, solo ispirato alla tendenziale unitarietà della giurisdizione, ancora si conforma all’assetto tuttora differenziato della giurisdizione, ordinaria e speciale, che discende dall’art. 111 Cost., comma 7”.
[78] § 9.
[79] In effetti, nella vicenda trattata dalle Sezioni unite (così come negli altri casi in cui la questione è stata sottoposta all’esame della S.C.), si auspicava, previa declaratoria di illegittimità costituzionale delle norme attributive della giurisdizione al giudice amministrativo, una sorta di refluenza della relativa cognizione nella sfera del giudice ordinario, considerato giudice naturale “residuale” proprio alla stregua dell’articolo 24 Cost.
[80] Sterminata è la letteratura sull’applicazione del principio di ragionevolezza nella giurisprudenza della Corte costituzionale: fra i contributi più recenti, cfr. R. Romboli, Il giudizio di ragionevolezza: la nozione e le diverse stagioni della stessa attraverso la giurisprudenza costituzionale, in Scritti per Roberto Bin, Torino, Giappichelli, 2019, pp. 567 ss.; M. Cartabia, I principi di ragionevolezza e proporzionalità nella giurisprudenza costituzionale italiana, in www.cortecostituzionale.it, 2013.
[81] Cfr. M. Protto, op.cit., p. 106, il quale motiva il proprio giudizio “in primo luogo perché le norme [sull’astensione e la ricusazione] si riferiscono al singolo rapporto processuale e ad ipotesi puntuali che sono suscettibili di incrinare la posizione di imparzialità del giudice e, in secondo luogo, perché non sono idonee a colmare il deficit di indipendenza che deriva dal particolare status del giudice amministrativo”.
[82] Sul concetto di indipendenza interna, e sul modo in cui viene declinato in relazione alla magistratura amministrativa, si tornerà infra, nel prossimo paragrafo.
[83] Cfr. Corte EDU, sez. V, Agrokompleks c. Ucraina; id., sez. I, 22 dicembre 2009, Parlov-Tkalčić c. Croazia.
[84] Cfr. ad esempio Cass. civ., sez. III, 20 ottobre 2006, n. 22540; id., sez. I, ord. 12 ottobre 2002, n. 14573.
[85] Per una puntuale applicazione, cfr. Cons. Stato, sez. IV, 2 aprile 2012, n. 1957.
[86] Possono qui richiamarsi, a titolo di esempio, la già citata Tar Lazio, sez. I, n. 12518/2017, in cui il ricorso proposto da un Consigliere di Stato avverso la nomina a Presidente di Sezione di colleghi che lo precedevano in ruolo dopo aver avuto accesso all’Istituto in applicazione di norme delle quali era lamentata l’incostituzionalità (sollecitandosi il giudicante a sollevare la relativa questione dinanzi alla Corte costituzionale) è stato dichiarato inammissibile/improcedibile a causa della mancata tempestiva impugnazione di precedenti atti “con efficacia esterna immediatamente lesiva” intervenuti nel corso degli anni pregressi - segnatamente i decreti di costituzione delle Sezioni del Consiglio di Stato, i decreti trimestrali di formazione dei collegi nelle Sezioni di appartenenza etc. – che avrebbero “consolidato” la postergazione del ricorrente sulla base del ruolo, ponendosi in frontale contrasto con l’opposto indirizzo espresso dalla Corte costituzionale in una sentenza (n. 276 del 20 dicembre 2017) nella quale, nel dichiarare inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata nell’ambito di un giudizio concernente la separazione dei ruoli dei magistrati amministrativi, si era affermato il difetto di lesività della mera “deteriore collocazione nel ruolo” la quale “non rileva di per sé, ma solo in quanto incida su provvedimenti che siano fondati sulla posizione che i magistrati abbiano nel ruolo medesimo”; nonché Cons. Stato, sez. VII, 7 aprile 2023, n. 3624, nella quale, chiamata a decidere della legittimità di una delibera del C.p.g.a. afferente ai criteri di nomina dei Presidenti di Sezione del Consiglio di Stato, la Sezione, provvedendo in un momento in cui tutti i magistrati interessati come parti del giudizio avevano conseguito la detta nomina senza che la delibera fosse applicata, stante la sua sospensione cautelare, ha ritenuto ancora esistente l’interesse all’impugnazione e annullato l’atto gravato sulla scorta del rilievo che sarebbe stato pur sempre possibile invocarne l’applicazione all’esito della sua riacquisizione di efficacia dopo la conclusione del giudizio, con ciò facendo strame di ultrasecolare giurisprudenza in tema di attualità dell’interesse a ricorrere (oltre che, probabilmente, contravvenendo al precetto di cui all’articolo 34, comma 2, primo periodo, c.p.a.).
[87] Cfr. V. Caianiello, Consiglio di Stato, in Noviss. dig. it., App. II, Torino, Utet, 1981, p. 453, il quale paventava – per vero riferendosi alla possibile “soggezione” che il giudice avrebbe percepito rispetto a una parte processuale che era anche l’organo titolare di poteri di amministrazione e disciplinari nei suoi confronti – che una siffatta giurisdizione “domestica” potesse alimentare “il più deteriore corporativismo dell’organizzazione unitaria della giurisdizione amministrativa”.
[88] Sulle tabelle degli uffici giudiziari, oggetto di copiosa e pluridecennale elaborazione da parte del C.S.M., cfr. G. Gilardi, Le tabelle degli uffici tabellari – Prima parte – Il sistema tabellare, in www.giustiziainsieme.it, 8 luglio 2021, il quale richiama, a fondamento della rilevanza di tale complesso di regole, il “principio secondo cui l’organizzazione del lavoro giudiziario deve ispirarsi all’esigenza - comune a ogni ramo della pubblica amministrazione - di garantire il buon funzionamento e l’imparzialità del servizio e, insieme, a quella di assicurare che lo svolgimento delle funzioni giurisdizionali avvenga al riparo da ogni condizionamento non solo esterno, ma anche interno alla magistratura”, con la conseguenza che “come l’assegnazione di ciascun magistrato a questo o a quel posto dell’organico deve avvenire in base a concorsi interni diretti a garantire la trasparenza delle procedure, l’obiettività delle scelte e la funzionalità del servizio, così i singoli affari debbono essere distribuiti in base a criteri oggettivi, predeterminati e insuscettibili di deroghe che non siano a loro volta obiettivamente motivate”.
[89] La legge n. 186/1982 si limita prevedere l’acquisizione di un parere del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa sui provvedimenti con i quali annualmente il Presidente del Consiglio di Stato e i Presidenti dei Tribunali amministrativi regionali stabiliscono la composizione delle Sezioni in cui si articolano i rispettivi uffici, l’assegnazione dei magistrati alle stesse nonché le rispettive competenze, nonché a stabilire limiti minimi e massimi (peraltro non cogenti) di permanenza di un singolo magistrato presso una medesima Sezione.
[90] Trattasi peraltro di ripristino di una previsione di ricusazione “atipica” già contenuta nel sistema prima della novella del 2006: cfr. M. Stella, Imparzialità degli arbitri, decadenza e ricusazione nella riforma del c.p.c., in Riv. dir. proc., 2023, I, pp. 231 ss.
[91] A. Briguglio, Interessi in conflitto e conflitto di interessi nel processo civile, intervento svolto al Convegno “Il conflitto di interessi” (Milano, Università Statale – Centro di ricerca “Studi sulla giustizia”, 9-10 luglio 2019), reperibile in www.antoniobriguglio.com.
[92] Al riguardo, basti rimandare ai casi esemplificati supra, alla nota 84.
[93] Sul ruolo spesso improprio che il richiamo dei precedenti assume in particolare nell’esperienza della giurisdizione amministrativa, cfr. M.A. Sandulli, Processo amministrativo, sicurezza giuridica e garanzia di buona amministrazione, in Il Processo, n. 1/2018, pp. 45 ss. (e specialmente pp. 64-71).
[94] Sul punto, sia consentito rinviare a R. Greco, Il sindacato del giudice amministrativo sugli atti di autogoverno del Consiglio Superiore della magistratura, in Giustizia Insieme, n. 2/2010, pp. 20 ss., ma anche, più di recente, a R. De Nictolis, Il sindacato del giudice amministrativo sui provvedimenti del CSM, in www.ildirittoamministrativo.it, 8 novembre 2019, e F. Patroni Griffi, Atti del CSM e sindacato giurisdizionale nel D.L. 24 giugno 2014, n. 90, in www.giustizia-amministrativa.it, 4 agosto 2014.
[95] Approcci di questo tipo a tutt’oggi sono riproposti nonostante l’ormai consolidata giurisprudenza costituzionale sul punto: cfr. ad esempio L. Geninatti Satè, Il sindacato giurisdizionale sugli atti del Csm: una questione politico-istituzionale, in Questione Giustizia, n. 4/2017.
[96] Basti richiamare, al riguardo, la recente sentenza con la quale la S.C. (sez. un., 9 marzo 2020, n. 6690), ponendosi in apparente distonia rispetto al tradizionale indirizzo fondato sulla immedesimazione organica tra il pubblico dipendente e l’ufficio di appartenenza in conseguenza del rapporto d’impiego, ha ritenuto rientrare nella giurisdizione del G.O. l’azione di risarcimento danni proposta, ex articolo 2043 c.c., da un ex Consigliere di Stato colpito da sanzione disciplinare destitutoria nei confronti di due componenti del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa che aveva irrogato la predetta sanzione, sulla scorta del prospettato abuso dei poteri di autogoverno che sarebbe stato perpetrato in suo danno.
[97] È noto che le recenti ipotesi di riforma dell’autogoverno della magistratura e del CSM, culminate da ultimo nella legge 17 giugno 2022, n. 71 (Deleghe al Governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario e per l’adeguamento dell’ordinamento giudiziario militare, nonché disposizioni in materia ordinamentale, organizzativa e disciplinare, di eleggibilità e ricollocamento in ruolo dei magistrati e di costituzione e funzionamento del Consiglio superiore della magistratura), non hanno sopito il dibattito, alimentato dalle vicende richiamate nel testo, sulla necessità di spezzare il circuito perverso tra autogoverno e correnti della magistratura associata, affacciandosi anche più volte l’ipotesi di prevedere la designazione dei membri del Consiglio per sorteggio, anziché mediante elezioni (sul punto, cfr. T.F. Giupponi, Il Consiglio superiore della magistratura e le prospettive di riforma, in Quaderni costituzionali, n. 1/2021) ovvero quella di istituire un’Alta Corte, a composizione “mista” con la presenza anche di soggetti esterni all’ordine giudiziario, con competenza sulla materia disciplinare e sugli atti degli organi di autogoverno di tutte le magistrature (cfr. M. Lipari, Verso l’Alta Corte disciplinare e dei conflitti? Unità funzionale della giurisdizione, responsabilità del giudice e autogoverno delle magistrature, in www.giustizia-amministrativa.it, 7 agosto 2022; M.A. Sandulli, Intervista nell’ambito del Forum sull’Istituzione dell’Alta Corte. La rivoluzione dell’assetto giurisdizionale in vista dell’istituzione di una giurisdizione speciale per i giudici, in www.giustiziainsieme.it, 28 marzo 2022).
[98] Fino a quel momento avevano operato, ma con composizione e funzioni totalmente diverse, i Consigli di presidenza del Consiglio di Stato e dei Tribunali amministrativi regionali, previsti rispettivamente dall’articolo 35 del r.d. 21 aprile 1942, n. 444, e dall’articolo 49 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034.
[99] Così G. Romeo, op. cit., p. 713 (il quale in effetti riteneva che al Consiglio di Stato principalmente fossero da attribuire tutte le resistenze a una reale modernizzazione del sistema).
[100] Cfr. G. Romeo, op. cit., pp. 721 ss. In tempi più recenti, l’A. è tornato sul tema, registrando come negli ultimi anni l’intento risulti perseguito soprattutto operando su materie quali l’elaborazione di regole in materia di carichi di lavoro massimi esigibili dai magistrati e l’autorizzazione di incarichi extragiudiziari, spesso in modo avulso da qualsivoglia considerazione circa la compatibilità delle scelte operate con il buon funzionamento della giustizia amministrativa (La giustizia amministrativa, la grande Babilonia (a margine del primo incontro tra i magistrati amministrativi titolari di incarichi direttivi e semi-direttivi sul tema dell’organizzazione dell’ufficio giudiziario), in Dir. proc. amm., 2012, 3, pp. 1193 ss.
[101] Cfr. L. Maruotti, Insediamento del Presidente del Consiglio di stato Luigi Maruotti e Relazione sull’attività della Giustizia amministrativa, Roma, 30 gennaio 2023, p. 29.
[102] F. Patroni Griffi, Ridurre il peso delle correnti: ecco la modifica sulla giustizia amministrativa, in Il Dubbio, 20 luglio 2021, con osservazioni condivisibilissime, ma che sarebbero forse più credibili se non provenissero da chi, oltre a ricoprire più volte la carica di presidente dell’Associazione dei Magistrati del Consiglio di Stato (su cui, v. infra al paragrafo successivo), è stato per anni uno dei massimi rappresentanti dei Consiglieri di Stato di provenienza concorsuale in tutte le sedi istituzionali.
[103] Cfr. A. Orsi Battaglini, op. cit., pp. 81-82, il quale non esita a definire “senz’altro incostituzionale” questo aspetto della disciplina vigente.
[104] Cfr. P. De Lise, Audizione sulla riforma della giustizia (resoconto dell’audizione del Presidente del Consiglio di Stato dinanzi alle Commissioni riunite I e II della Camera dei Deputati, 27 maggio 2011), in www.giustizia-amministrativa.it, p. 11, il quale, pur senza spingersi a suggerire soluzioni organizzative specifiche, auspicava un “riconoscimento costituzionale” del C.p.g.a.
[105] Cfr. A. Orsi Battaglini, op. loc. ult. cit.
[106] Al riguardo, cfr. G. Gilardi, Unità della giurisdizione, giudici speciali, giudici specializzati, in Aa.Vv., in Questione Giustizia, n. 3/1997, pp. 518 ss.
[107] Emblematica, tra le più recenti, la vicenda che ha indotto a schierarsi lo stesso Presidente pro tempore del Consiglio di Stato, come riportato supra alla nota 102.
[108] Il tema dell’indipendenza interna, usualmente approfondito dai costituzionalisti in relazione alle garanzie di indipendenza della giurisdizione ordinaria (cfr. ex plurimis A. Lollo, L’indipendenza interna dei magistrati nell’evoluzione della giurisprudenza costituzionale, in www.rivistaaic.it, n. 4/2012, 16 ottobre 2012), è stato più recentemente approfondito con riferimento alla posizione del P.M., in conseguenza dei rilevanti effetti sull’organizzazione delle Procure della Repubblica determinati dal d.lgs. 20 febbraio 2006, n. 106 (cfr. M. Bignami, L’indipendenza interna del pubblico ministero, in Questione Giustizia, n. 1/2018).
[109] Principio considerato dalla dottrina, difatti, il fondamento costituzionale dell’indipendenza interna dei magistrati: cfr. per tutti, N. Zanon - F. Biondi, Il sistema costituzionale della magistratura, Bologna, Zanichelli, 2008, p. 78.
[110] Cfr. Corte cost., ord. 21 dicembre 2001, n. 434; ord., 4 dicembre 2000, n. 542; sent. 16 gennaio 1978, n. 1.
[111] Un germe di tale rimeditazione è forse rinvenibile nella motivazione della più volte citata sentenza della Corte n. 273/2011, laddove, sia pure con obiter dictum, si rileva che la separazione originaria tra i Tar e il Consiglio di Stato, che la legge n. 186/1982 aveva inteso superare, “si risolveva(…) in una forma anomala di subordinazione gerarchica” dei primi rispetto al secondo.
[112] Articolo 2, in www.magistratiamministrativi.it.
[113] Ciò emergerebbe, secondo alcuni osservatori, dall’essere state alla fine preferite soluzioni transitorie, idonee ad assicurare utilità ai magistrati in servizio in un determinato momento storico ma suscettibili di produrre effetti esiziali a lungo termine: al riguardo, si veda quanto osservato supra al § 3, e specificamente il contributo di Giovanni Pellegrino citato alla nota 63.
[114] Di modo che si assume come fatto notorio che Magistratura Democratica rappresenterebbe la “sinistra” della magistratura, Magistratura Indipendente la parte conservatrice, e così via.
[115] Fra i tanti interventi del genere svolti dai vertici dell’associazione, cfr. ad esempio G. Serlenga, Spuntare le armi ai Tar non sblocca i cantieri, in L’Espresso, 13 novembre 2022, p. 45.
[116] Basterà citare, fra gli episodi più recenti, le prese di posizione contro la proposta legislativa di soppressione delle sedi staccate dei Tar (Associazione magistrati Anma: “Taglio sedi Tar? Costoso e inutile”, in La Repubblica, 3 luglio 2014) e quella di modifica della composizione del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa (cfr. ANSA del 18 luglio 2021: Giustizia: toghe amministrative chiedono tavolo di confronto “Modifiche dirigistiche a nostro organo di autogoverno”).
[117] V. supra, § 3.
[118] Cfr. ad esempio F. D’Agostino, Intervento in Atti del seminario di studi “Il giudice amministrativo e il codice del processo: la difficile sfida”, Roma, 27 maggio 2010, pp. 5 ss.
[119] In particolare, quelle che si sono esaminate supra al § 2.
[120] Su quest’ultimo punto, cfr. N. Rossi, Il policentrismo giurisdizionale e la coesistenza di sistemi di tutela giurisdizionale diversi ed equiordinati, in Questione Giustizia, n. 1/2021, pp. 5 ss.
[121] Così lucidamente G. Romeo, op. cit., p. 731: “In questa direzione è indubbio che si smarrisce la consapevolezza di essere magistrati ‘orientati verso i cittadini’, chiamati in prima persona ad essere interpreti della conflittualità sociale in virtù del proprio potere-sapere. Si tende più al contatto immediato con il potere che non con la realtà amministrativa in trasformazione”.
[122] Fra le più recenti e “informate”, non possono non citarsi S. Rizzo, Potere assoluto. I cento magistrati che comandano in Italia, Milano, Mondadori, 2022, e Anonimo – G. Salvaggiulo, Io sono il potere. Confessioni di un capo di gabinetto, Milano, Feltrinelli, 2020.
[123] Cfr. A. Proto Pisani, Tavola rotonda, in Convegno di Lecce 16-17 ottobre 2015, pp. 155 ss.
[124] Il riferimento è alle note sentenze 6 luglio 2004, n. 204, e 11 maggio 2006, n. 191.
[125] Per una lucida e organica esposizione di questo punto di vista, cfr. P. De Lise, La pienezza della tutela del cittadino come obiettivo “condiviso” delle magistrature supreme, in www.giustamm.it, 30 settembre 2021.
[126] Cfr. A. Pajno, op. cit., pp. 8-9.
[127] Si vedano le considerazioni di G. Romeo riportate alla nota 25.
[128] Cfr. E. Follieri, op. cit., il quale auspica che una spinta al superamento delle perduranti criticità possa provenire dalle sentenze della CEDU e della Corte di giustizia dell’Unione europea.
[129] M.S. Giannini, Per l’unità della giurisdizione amministrativa, in La giustizia amministrativa come funzione dello Stato democratico, Atti del seminario promosso dall’Assessorato agli affari istituzionali del Comune di Venezia in collaborazione con l’Università di Venezia e la Presidenza del Consiglio regionale del Veneto, 12-14 maggio 1978, Venezia, 1979, p. 289.
Sommario: 1. Il comma 1-bis dell’art. 573 c.p.p. - 2. Il contrasto di giurisprudenza - 3. L’intervento delle Sezioni unite.
1. Il comma 1-bis dell’art. 573 c.p.p.
Com’è noto l’art. 538 c.p.p. prevede che solo quando pronuncia sentenza di condanna il giudice penale può decidere sulla domanda per le restituzioni e per il risarcimento del danno: quando pronuncia sentenza di assoluzione o di proscioglimento, il giudice penale di primo grado non può riconoscere la responsabilità civile neppure nei casi in cui l’esclusione della responsabilità penale non lo precluderebbe.
Questa regola è derogata per i giudizi d’impugnazione dall’art. 576 c.p.p., che legittima la parte civile a impugnare ai soli effetti della responsabilità civile la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio, e dall’art. 578 c.p.p., che impone al giudice dell’impugnazione proposta contro una sentenza di condanna di pronunciarsi sull’azione civile anche se è sopravvenuta l’estinzione del reato per prescrizione o amnistia.
In tutti gli altri casi in cui non sia più in discussione la responsabilità penale, il giudice penale non può pronunciarsi sull’azione civile.
Con l’art. 573 comma 1-bis si è tuttavia previsto ora che, quando non sia più in discussione la responsabilità penale e l’impugnazione non sia inammissibile, l’azione civile sia trasferita in sede civile, in quanto il giudice d’appello o la Corte di cassazione «rinviano per la prosecuzione, rispettivamente, al giudice o alla sezione civile competente, che decide sulle questioni civili utilizzando le prove acquisite nel processo penale e quelle eventualmente acquisite nel giudizio civile». Ed è questa evidentemente una norma di favore per la parte civile, perché la esime dall’onere di iniziare daccapo in sede civile un giudizio in cui può ancora far valere la sua pretesa risarcitoria non preclusa dal giudicato.
Infatti la previsione che il giudice civile «decide utilizzando le prove acquisite nel processo penale», è certamente compatibile con l’orientamento prevalente della giurisprudenza civile, ma dovrebbe comportare il riconoscimento di un obbligo di utilizzazione delle prove provenienti dal processo penale, con un superamento dell’affermazione che il giudice civile «ben può utilizzare, senza peraltro averne l'obbligo, come fonte del proprio convincimento le prove raccolte in un giudizio penale»[1]. Vero è in realtà che le prove formate nel processo penale sono considerate atipiche nel processo civile; e che «l'art. 116 c.p.c. conferisce al giudice di merito un potere ampiamente discrezionale del quale, attenendo esso alle cosiddette prove atipiche o innominate, va motivatamente giustificato l'uso, e non già, come invece in caso di mancata valutazione delle prove tipiche (e salvo sempre il principio del libero convincimento), il non uso»[2]. Tuttavia ora l’art. 573 comma 1-bis c.p.p. prevede appunto l’obbligo, non solo la facoltà, del giudice civile di valutare le prove acquisite nel processo penale. Sicché solo quando si tratti di prove non ammissibili in sede civile, come la testimonianza del danneggiato dal reato, dovrebbe applicarsi l’art. 116 c.p.c., che ne ammette la valutazione come meri argomenti di prova[3].
2. Il contrasto di giurisprudenza
Nella giurisprudenza di legittimità si è nondimeno aperto un contrasto sull’applicabilità dell’art. 573 comma 1-bis c.p.p. anche nei giudizi di impugnazione proposti contro una sentenza pronunciata prima del 30 dicembre 2022, data di entrata in vigore della riforma[4].
Tuttavia, poiché non si tratta qui del regime di impugnabilità della decisione bensì del rito applicabile nel giudizio di impugnazione già in corso, deve ritenersi che la norma sia immediatamente applicabile anche nei giudizi relativi a impugnazioni proposte contro decisioni pronunciate prima della sua entrata in vigore.
Per escludere l’immediata applicabilità della riforma, si è sostenuto che «le indicazioni fornite dalla Corte costituzionale con sentenza n. 182 del 2021, secondo cui, in caso di prosecuzione del giudizio davanti al giudice civile, il giudice penale, chiamato a verificare la sussistenza del reato, deve attenersi al criterio civilistico del "più probabile che non", e non a quello penalistico dell'alto grado di probabilità logica, non legittimano la piena sovrapponibilità della fisionomia del giudizio relativo ai soli interessi civili svolto in sede penale rispetto a quello che si tiene dinanzi al giudice civile, in ragione delle peculiarità di quest'ultimo rispetto al primo, quali l'esigenza di tutela dell'affidamento maturato dall'impugnante - che può essere non solo la parte civile, ma anche il danneggiante, già imputato - in ordine alla certezza delle regole processuali e dei diritti eventualmente già maturati»[5].
Sennonché l’applicazione in sede civile del «criterio civilistico del "più probabile che non"» giova ovviamente al danneggiato, mentre l’applicazione in sede penale della regola dell'”alto grado di probabilità logica” non esime l’imputato dalla responsabilità civile eventualmente compatibile con l’esclusione della responsabilità penale.
Fonda dunque su una petizione di principio l’affermazione che, a «tutela dell'affidamento maturato dall'impugnante», occorre differire l’applicazione dell’art. 573 comma 1-bis c.p.p.
3. L’intervento delle Sezioni unite
Intervenute a risolvere il contrasto di giurisprudenza, le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno enunciato il seguente principio di diritto: «l'art. 573 comma 1-bis c.p.p., introdotto dall'art. 33 del d. lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, si applica alle impugnazioni per i soli interessi civili proposte relativamente ai giudizi nei quali la costituzione di parte civile sia intervenuta in epoca successiva al 30 dicembre 2022, quale data di entrata in vigore della citata disposizione»[6].
Ha ritenuto la corte che, poiché in caso di rinvio per la prosecuzione in sede civile «il giudizio è sempre quello iniziale che prosegue, senza soluzione di continuità, dalla sede penale a quella civile, il possibile epilogo decisorio oggi rappresentato, in caso di impugnazione residuata per i soli effetti civili, dall'art. 573 comma 1-bis, cit., dovrà essere contemplato dalla parte civile sin dal momento dell'atto di costituzione e a tale epilogo la stessa dovrà dunque far fronte strutturando le ragioni della domanda in necessaria sintonia con i requisiti richiesti dal rito civile», come ora prescrive l’art. 78 comma 1, lettera d) c.p.p., esigendo che, diversamente dal passato, l'esposizione delle ragioni che giustificano la domanda siano specificamente destinate «agli effetti civili». Sicché la parte civile costituitasi prima della riforma del 2022 potrebbe trovarsi ad aver formulato la propria domanda in forme incompatibili con l’imprevedibile trasferimento della decisione alla sede civile, considerato che ora l’art. 163 comma 3, n. 4, c.p.c. esige «l'esposizione in modo chiaro e specifico» delle ragioni della domanda.
Tuttavia anche questa argomentazione è palesemente fallace.
Vero è infatti che, secondo la giurisprudenza penale precedente la riforma del 2022, «per soddisfare i requisiti di cui all'art. 78, lett. d), è sufficiente il mero richiamo al capo di imputazione descrittivo del fatto, allorquando il nesso tra il reato contestato e la pretesa risarcitoria azionata risulti con immediatezza»[7]. Ma con riferimento alla causa petendi la giurisprudenza civile distingue tra "domande eterodeterminate", nelle quali è il fatto costitutivo a individuare la domanda (in quanto con esse vengono dedotti diritti, come quelli di obbligazione, che "possono esistere contemporaneamente più volte tra i medesimi soggetti con lo stesso contenuto"), e "domande autodeterminate", nelle quali è l'affermazione del rapporto giuridico a individuare la domanda (perché vengono dedotti in giudizio diritti, come quelli di proprietà, che non possono coesistere simultaneamente più volte tra gli stessi soggetti). Ed è indiscusso che con la pretesa risarcitoria si fa valere «un diritto di credito eterodeterminato, la cui individuazione avviene in base ai fatti costitutivi della "causa petendi"»[8]. Mentre è noto che, ai fini della contestazione dell’accusa nel processo penale, l’art. 417 esige appunto «l'enunciazione, in forma chiara e precisa, del fatto».
Sicché, essendo indiscusso nella giurisprudenza civile che «la domanda introduttiva di un giudizio di risarcimento del danno, poiché ha ad oggetto un diritto c.d. eterodeterminato, esige che l'attore indichi espressamente i fatti materiali che assume essere stati lesivi del proprio diritto»[9], è una petizione di principio affermare che non sia sufficiente ai fini dell’art. 163 c.p.c. il riferimento al capo di imputazione nel quale il fatto sia enunciato, come prescritto dall’art. 417, «in forma chiara e precisa».
Infatti si ritiene correttamente che l'impegno argomentativo necessario a giustificare l'esercizio dell'azione civile nel processo penale dipende dalla natura delle imputazioni e dal rapporto tra i fatti lamentati e la pretesa fatta valere in giudizio dalla parte civile, perché si richiede l'enunciazione delle ragioni che giustificano la proposizione della domanda, non anche delle ragioni che possano determinarne l'accoglimento. Sicché, quando questo rapporto è immediato, come nel caso in cui si lamenti un'ingiuria o un danneggiamento o una minaccia, ai fini dell'esposizione della causa petendi è sufficiente il riferimento al fatto descritto nel capo d'imputazione e all'identificazione dell'attore con la persona destinataria offesa[10]. E contrariamente a quanto si assume, l’esplicito riferimento alla finalità civile della domanda, aggiunto nel 2022 all’art. 78 comma 1, lettera d) c.p.p., ha attenuato, non aggravato, l’onere argomentativo per la parte civile che intenda costituirsi nel processo penale.
[1] Cass. civ., III, 7 maggio 2021, n. 12164, m. 661325, Cass. civ., sez. III, 25 giugno 2019, n. 16893, m. 654422.
[2] Cass., sez. II, 24 febbraio 2004, n. 3642, m. 570448.
[3] A. NAPPI, Nuova guida al codice di procedura penale, www.guidanappi.it, §79.2, Cass., sez. I, 14 settembre 2022, n. 27016, m. 665988.
[4] In senso affermativo Cass., sez. IV, 11 gennaio 2023, Fca Italy , m. 284012, Cass., sez. II, 2 febbraio 2023, Seno, m. 284216, Cass., sez. III, 11 gennaio 2023, Ambu, m. 284248, Cass., sez. II, 3 febbraio 2023, Guccio, m. 284396. In senso negativo Cass., sez. V, 20 gennaio 2023, Razzaboni, m. 284019, Cass., sez. V, 16 gennaio 2023, Cucinotta, m. 284121, Cass., sez. V, 24 gennaio 2023, Bertuzzi, m. 284329. Le due prime decisioni sono pubblicate in Sist. Pen. 2023, con nota di L.PARODI. La questione è stata rimessa alle Sezioni unite. In tema anche G. BIONDI, La riforma Cartabia e le impugnazioni: le prime questioni di diritto intertemporale sull'applicabilità dell'art. 573, comma 1-bis, c.p.p. ai giudizi in corso, in Sist. pen., 2023, G. SPANGHER, Regime transitorio delle impugnazioni per i soli interessi civili. (Impugnazioni - Interessi civili), in Giur. it., 2023, p. 675.
[5] Cass., sez. V, 16 gennaio 2023, Cucinotta, m. 284121.
[6] Cass., sez. un., 25 maggio 2023, Di Paolo.
[7] Cass., sez. II, 15 luglio 2020, Rosati, m. 279490.
[8] Cass., sez. I, 12 novembre 2013, n. 25378, m. 628474, Cass., sez. I, 15 settembre 2020, n. 19186, m. 658987.
[9] Cass., sez. I, 12 ottobre 2012, n. 17408, m. 624080, Cass., sez. I, 4 maggio 2018, n. 10577, m. 648595.
[10] A. NAPPI, Nuova guida al codice di procedura penale, www.guidanappi.it, §79.1.
Il 16 gennaio 2023 è una data da cerchiare in rosso vivo sul calendario: segna una decisiva - e da tempo attesa - vittoria dello Stato contro la mafia, l'affermazione dello stato di diritto rispetto alla barbarie di Cosa Nostra. Quel giorno, nel placido mattino invernale di Palermo, è stato arrestato il più pericoloso e ricercato stragista corleonese, latitante da trent'anni.
Una vittoria investigativa che riempie di speranza, eppure dal retrogusto amaro. Perché "La Cattura" (che dà il titolo al libro del procuratore Maurizio de Lucia e di Salvo Palazzolo, Feltrinelli, 2023) di Matteo Messina Denaro ha fatto emergere il vero volto della borghesia mafiosa, composta di intrecci e complicità su tutti i livelli, sopratutto i più elevati.
«La mafia è un sistema che in Sicilia contiene e muove gli interessi economici e di potere di una classe che approssimativamente possiamo dire borghese». Lo diceva Sciascia nel 1971, utilizzando proprio questo avverbio: "approssimativamente". Quell’anno si inaugurava la striscia degli omicidi eccellenti con Pietro Scaglione, il primo dei magistrati uccisi dalla mafia. Vent’anni dopo quella classe approssimativamente borghese si è imborghesita del tutto e ha avuto la forza militare e le complicità necessarie per uccidere i due magistrati più esposti. Dovevano passare ancora vent'anni, anzi trenta, per assicurare alla giustizia quel Messina Denaro allievo prediletto di Totò Riina, penetrato a tal punto nel tessuto sociale della Sicilia da non dovere più nascondere il suo volto: la sua era una vita piena, oggi si direbbe borghese (per l'appunto), e in quell'intreccio di relazioni scorreva una latitanza che sembrava dover essere eterna.
Così, "La cattura", col suo racconto in presa diretta dallo stile secco e avvincente (proprio come si sviluppa una indagine nel concreto operare di magistrati e polizia giudiziaria in sinergia tra loro: in stile secco e avvincente), si traduce nel progressivo disvelamento della rete che ha protetto la latitanza del boss. Personaggi - non solo della sua famiglia, non solo del suo ambiente criminale, questo il punto - che emergono da una nebbia investigativa che via via si dirada. Emerge l'insospettabile che ha prestato la sua identità al boss per consentirgli di curarsi; emerge il "cerchio magico" degli imprenditori collusi, che ha permesso a Messina Denaro di accumulare un patrimonio inestimabile; emergono i colletti bianchi che hanno concesso tutte le garanzie e tutti gli agi di una latitanza dorata, tra i quali spiccano i politici che hanno messo a disposizione il proprio ruolo istituzionale in cambio del sostegno elettorale delle famiglie mafiose. E' sempre la solita storia. E' il cuore della borghesia mafiosa, il cuore nero della mafia, che è una realtà conclamata, tanto abominevole quanto insondabile, inafferrabile. Ma non invincibile.
Nel libro questa selva di personaggi è infatti spazzata via dalla forza simbolica contenuta nelle gesta di altri - ben altri - personaggi, i veri protagonisti della storia, a prescindere dal loro ruolo e dai loro nomi - perché quando si sta dalla parte giusta non esiste primo, secondo o terz'ordine, né un registro dei presenti. Ci sono i ragazzi della "Siena 2", la scorta di finanzieri che proteggono il procuratore de Lucia da una vita; ci sono i ragazzi di Crimor guidati sul campo da <<un giovane maggiore che ha un bel nome di battaglia, Ulisse. Speriamo porti fortuna>>; quelli del Gis arrivati da Livorno, alcuni viaggiando in nave fingendosi camionisti; c'è il colonnello Arcidiacono, <<un ragazzone alto un metro e novantasei, sempre di buon umore, anche nei momenti complicati>>; c'è Paolo Guido, il procuratore aggiunto che dal 2017 coordina l'inchiesta su Messina Denaro, costretto a rinviare il viaggio a Torino per vedere il concerto di Paolo Baglioni perché la "cattura" sembra essere diventata una possibilità concreta - e c'è tanta umanità nell'abbraccio che si scambia col suo procuratore il giorno prima della cattura, e prima di chiedersi: <<Chi dormirà stanotte?>>.
E poi, appunto, c'è Maurizio de Lucia, tornato a Palermo dopo 13 anni e una brillante carriera inanellata di importanti vittorie dello Stato sulle cosche della Sicilia, compreso lo scacco alla mafia dei Nebrodi. Questo libro è, sopratutto, il racconto appassionato e in prima persona - in forma di diario - del procuratore della Repubblica di Palermo, un ufficio <<che non è più il palazzo dei veleni, com'era negli anni Ottanta>>, oggi capofila nella lotta alla mafia dove <<l'entusiasmo e l'impegno non mancano>>, anche se a volte magistrati e investigatori <<si rabbuiano in volto>>.
Ma nella sua intima sostanza, questo non è il diario del procuratore de Lucia. E' il diario di uno Stato che non si arrende: nonostante le operazioni, gli arresti e le condanne in gran numero, <<sembra che Cosa nostra non abbia alcuna intenzione di indietreggiare. Ma neanche noi indietreggiamo>>. E' il diario di un magistrato integro che restituisce orgoglio a tutta la categoria, funestata da una questione morale che dura ormai (troppi) anni, che lavora a testa bassa <<per rendere più efficiente il servizio giustizia alla comunità>>. E' il diario di un cittadino siciliano - che ha un cane di nome Fidel che abbaia ad ogni trillo del citofono - a tratti preso dallo sconforto perché <<la lotta alla mafia non è una priorità. Nella società, nella politica>>.
Il procuratore de Lucia sembra un personaggio romanzato, uscito dalla penna di Vázquez Montalbán, invece è tanto reale, è tanto calato nel flusso degli eventi (eventi che riguardano tutti noi), da essere stato proprio lui ad avere annunciato in conferenza stampa l'arresto di Matteo Messina Denaro quel fatidico 16 gennaio, affermando che veniva così saldato, almeno in parte, il debito della Repubblica nei confronti dei suoi martiti. Parole che rimarranno scolpite nella storia di questo Paese, e che da oggi hanno quale corollario anche la storia della "cattura", che racconta cosa c'è stato prima, cosa dopo, cosa dietro. E poi c'è il futuro della lotta alla mafia. <<Una storia in cui è stato messo un punto, ma non c'è ancora la parola fine>>.
La borghesia mafiosa è il
cuore nero della mafia, ed è una realtà conclamata, tanto
abominevole quanto insondabile, inafferrabile: lo riconosco.
Come l’ha chiamata lei, invece? La zona grigia.
La zona grigia non esiste, è solo un nome convenzionale
che diamo, senza saperlo, alla nostra incapacità di discernere
tra bene e male, ai nostri sentimenti più pavidi,
che ci impediscono di scegliere da che parte stare una
volta per tutte.
*Intervento al convegno di Modanella 16-17 giugno 2023 “Sindacato sulla discrezionalità e ambito del giudizio di cognizione
Gli autorevoli e diversificati interventi di queste Giornate di Studio ci hanno offerto l’occasione per riflettere sulla ormai più che secolare esperienza del sindacato sulla discrezionalità della pubblica amministrazione.
Da alcuni casi portati in rassegna dai relatori che mi hanno preceduto emerge che il tipo di sindacato del giudice amministrativo è inevitabilmente legato alla fiducia o sfiducia verso l’operato della pubblica amministrazione. In particolare, come evidenziato magistralmente dal Presidente Marco Lipari, durante i lavori di queste giornate di studio sono emerse due prospettive di analisi: “troppo sindacato o troppo poco sindacato del giudice amministrativo”.
La presunta differenziazione tra un eccesso e un difetto di sindacato giurisdizionale mi convince che non c’è, anzi che non deve esserci, una regola uniforme applicabile a tutte le fattispecie oggetto di cognizione da parte del giudice amministrativo. Diversamente opinando, per la risoluzione delle controversie, basterebbe affidarsi all’intelligenza artificiale. Ritengo, dunque, che il sindacato sia a geometria variabile ovvero vari a seconda dei settori nei quali viene esercitato (pianificazione urbanistica, interdittive antimafia, pianificazione e programmazione sanitaria, concorsi pubblici, ecc.).
Il mio intervento, quindi, muove dall’assunto che non sia possibile stabilire una regola standard, in quanto il tipo di sindacato del giudice amministrativo è influenzato da vari fattori e muta, altrettanto, in relazione al grado di dettaglio della norma attributiva del potere alla pubblica amministrazione.
In tale contesto, partendo dal caso singolo, il mio contributo intende analizzare l’esercizio del potere nel settore dell’incentivazione energetica, alla luce dei principi ormai consolidati nella giurisprudenza[1]. Andrò quindi a focalizzare il sindacato giurisdizionale sugli atti del G.S.E..
Al centro del mio interesse sono il potere e il suo esercizio da parte del Gestore, il correlativo controllo giudiziale in relazione alla natura del potere esercitato, assumendo, quale prospettiva di analisi, la necessità che sia assicurata la tutela piena ed effettiva al cittadino o all’impresa.
Il GSE s.p.a. è il soggetto che, seppur nella veste di società per azioni, il cui azionista unico è il Ministero dell’economia e delle finanze, svolge funzioni di natura pubblicistica nel settore elettrico e, in particolare, in tema di incentivazione dell’energia elettrica da fonte rinnovabile, sovraintendendo alla gestione del relativo sistema pubblico di incentivazione, anche mediante la concreta erogazione delle tariffe. Rientra, quindi, nel novero dei soggetti privati svolgenti pubbliche funzioni, posto che è munito dalla legge di funzioni pubbliche correlate – tra l’altro – alla diffusione delle energie da fonte rinnovabile[2], al controllo ed alla gestione dei flussi energetici di tale provenienza ed all’assolvimento degli obblighi imposti dalla legge agli operatori del settore energetico.
Il Gestore dei Servizi Energetici S.p.a. cura sia i procedimenti amministrativi volti al riconoscimento del diritto all'incentivo sia la successiva erogazione.
Le modalità per l'ammissione ai benefici sono disciplinate attraverso lo svolgimento di procedure di gara competitive, condotte in base a principi di trasparenza e non discriminazione.
Il rapporto incentivante è regolato da una convenzione che accede al provvedimento di accoglimento dell'istanza di incentivazione. Al riguardo, la Corte costituzionale, n. 16 del 2017, ha evidenziato che le convenzioni stipulate con il Gestore sono negozi di diritto privato accessori ai provvedimenti di concessione degli incentivi e “costituiscono strumenti di regolazione, volti a raggiungere l’obiettivo dell’incentivazione di certe fonti energetiche nell’equilibrio con le altre fonti di energia rinnovabili, e con il minimo sacrificio per gli utenti che pure ne sopportano l’onere economico”.
Nella normativa internazionale e in quella comunitaria si rinviene un netto favore, con conseguente politica di incentivazione per le fonti energetiche rinnovabili, al fine di eliminare la dipendenza dai carburanti fossili. Il sistema di sostegno alle fonti di energia rinnovabile è funzionale al raggiungimento di una pluralità di obiettivi, tra i quali la tutela dell'ambiente e la realizzazione di meccanismi di risparmio ed efficienza energetica diffusi a tutti i livelli, che consentono di conseguire lo sviluppo sostenibile della società con un minore impiego di energia, così soddisfacendo le esigenze delle generazioni attuali, senza compromettere la qualità della vita e le possibilità delle generazioni future.
Tale favor si traduce in concreto in varie forme di incentivazione economica e in un sistema di semplificazione normativa[3] per l’installazione degli impianti di produzione di energia da fonte rinnovabile. Le forme di incentivazione economica alle imprese che operano nella produzione di energie alternative hanno l'obiettivo di tendere ad una equiparazione delle capacità di reddito dei relativi impianti rispetto a quelli tradizionali, così favorendo gli investimenti nel settore.
La previsione di contributi tariffari, e quindi lo stesso regime di sostegno e promozione delle fonti rinnovabili di energia, costituisce uno strumento d’indirizzo della produzione energetica nazionale, innestandosi in un’area dominata dalla necessità di tutelare e bilanciare rilevanti interessi pubblici e privati.
In genere, al GSE sono affidati i compiti di verificare la sussistenza dei presupposti e dei requisiti normativi per l’accesso e il mantenimento degli incentivi per la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili.
Tra le funzioni svolte dal Gestore vi è quella, tra l’altro, di verificare se gli importatori o i produttori di energia prodotta da fonti non rinnovabili abbiano o meno rispettato, in rapporto all’annualità chiusa al 31 dicembre dell’anno precedente alla verifica, la cd. quota d’obbligo, e cioè l’obbligo legale di produrre e immettere in rete (ovvero di acquistare per il tramite dei cd. certificati verdi) una quota di energia prodotta da fonte rinnovabile.
Tale compito di verifica si risolve in una eminente funzione amministrativa di controllo sull’attività economica privata e, come tale, si caratterizza per la sua significativa rilevanza pubblica, inquadrandosi nell’alveo dei controlli, espressamente previsti dalla Carta costituzionale (art. 41, comma 3 Cost.), che i pubblici poteri esercitano sull’attività economica privata per assicurare che la stessa persegua gli specifici fini sociali previsti dalla legge[4]. In tale contesto, l’adempimento della quota d’obbligo, riguardata dal versante dei soggetti obbligati, si atteggia alla stregua di una prestazione patrimoniale imposta (art. 23 Cost.), la cui previsione a livello di normazione primaria (art. 11 del d.lgs. n. 79/99) soddisfa il requisito costituzionale della riserva relativa di legge.
Da queste premesse consegue che hanno natura provvedimentale gli atti a mezzo dei quali il GSE dispone la decadenza degli incentivi o accerta il mancato assolvimento, da parte degli importatori o produttori di energia da fonte non rinnovabile, degli obblighi, previsti dalla normativa di settore, per il conseguimento e mantenimento delle tariffe incentivanti.
In sintesi, i procedimenti tesi all’erogazione di incentivi per la produzione di energia da fonti rinnovabili hanno tratti prettamente pubblicistici di natura evidenziale, in quanto: 1) gestiti da un soggetto a totale partecipazione pubblica e deputato al perseguimento di fini pubblici; 2) caratterizzati da una predeterminazione normativa dei requisiti e dei criteri di priorità (penso all’iscrizione nei registri degli impianti idroelettrici); 3) volti ad individuare gli operatori economici meritevoli di percepire una risorsa scarsa, quale è l’ausilio finanziario pubblico; 4) fondate sull’autoresponsabilità dei concorrenti; nella logica si semplificazione del procedimento- secondo una linea confermata recentemente in generale anche dalla previsione dell'art. 18, comma 3-bis, L. 7 agosto 1990, n. 241[5]- grava sull'interessato l'onere di fornire tutti gli elementi documentali e dichiarativi idonei a dar prova della sussistenza delle condizioni per l'ammissione ai benefici inerenti alle tariffe incentivanti per gli impianti fotovoltaici, ricadendo sullo stesso eventuali carenze che incidano sul perfezionamento della fattispecie agevolativa.
Illustrato il quadro normativo di riferimento, prima di passare ad analizzare il sindacato giurisdizionale sugli atti del GSE occorre circoscrivere il perimetro del sindacato del GA, in base alla natura degli atti del GSE.
L’Adunanza plenaria 9/2019 evidenzia la natura duale (provvedimentale/non provvedimentale) degli atti del GSE ai fini della tutela in giudizio:
- se viene in contestazione un provvedimento di rigetto o di decadenza dagli incentivi ovvero un atto accertativo della inadempienza dell’operatore agli obblighi stabiliti, attesa la natura provvedimentale dell’atto, si applica l’ ordinario termine decadenziale di impugnazione di 60 giorni;
- se viene in contestazione, invece, la determinazione del dovuto da parte del GSE, con una azione di ripetizione dell’indebito, la controversia non afferisce all’esercizio di un potere autoritativo, ma a mere posizioni patrimoniali delle parti, giustiziabili nel termine prescrizionale del diritto fatto valere.
Tale natura duale, d’altra parte, risulta pienamente coerente con la scelta del legislatore, non altrimenti giustificabile ove non connessa all’esercizio di potere autoritativi (cfr. Corte Cost. 204/2004), di attribuire alla giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo la giurisdizione in questa materia (art. 133, comma 1, lett.o c.p.a.[6])
Passando al tema del sindacato del GA sugli atti del GSE è evidente che questo varia in relazione alla diversa natura del potere esercitato.
Con riferimento ai provvedimenti con i quali il GSE dispone la “revoca” (in senso a-tecnico) degli incentivi, la giurisprudenza li qualifica come provvedimenti di decadenza[7], adottati all’esito di una vicenda pubblicistica estintiva, ex tunc (o in alcuni casi ex nunc), di una posizione giuridica di vantaggio (c.d. beneficio).
È stato, infatti, chiarito che la decadenza è un istituto che, pur presentando tratti comuni con il più ampio genus dell’autotutela e del riesame, ne deve essere opportunamente differenziato, caratterizzandosi specificatamente:
a) per la tipologia del vizio, more solito individuato nella falsità o non veridicità degli stati e delle condizioni dichiarate dall’istante, o nella violazione di prescrizioni amministrative ritenute essenziali per il perdurante godimento dei benefici, ovvero, ancora, nel venir meno dei requisiti di idoneità per la costituzione e la continuazione del rapporto; b) per il carattere vincolato del potere, una volta accertato il ricorrere dei presupposti previsti dalla legge.
Tale potere è vincolato nei provvedimenti di rigetto della domanda o di decadenza dagli incentivi. A sua volta tale decadenza può essere totale o parziale. È parziale se è disposta solo con riferimento ad una determinata maggiorazione tariffaria[8] oppure in applicazione del potere di decurtazione (infra).
Tali provvedimenti, alla luce della numerosa casistica giurisprudenziale, implicano l’espletamento di accertamenti tecnici[9] da parte del GSE.
I provvedimenti di decadenza emessi dal Gestore ai sensi dell’art. 42, comma 3, del d.lgs. n. 28 del 2011 dalla pacifica e unanime giurisprudenza hanno carattere vincolato. Questi non sono stati ritenuti assimilabili a quelli di autotutela amministrativa e ciò anche dopo la novella all’art. 42 operata dall’art. 56, comma 7, del D.L.76/2020, convertito dalla legge 11 settembre 2020, n.120, che rimanda, nell’esercizio del potere di decadenza, alla verifica dei presupposti di cui all’art. 21 nonies della legge 7 agosto 1990, n. 241. Trattandosi di potere vincolato e di procedimenti ad istanza di parte, ciò comporta la necessità di motivare da parte del GSE il provvedimento di decadenza dal regime incentivante. Dunque, con le novità introdotte dall’art. 56 il GSE , anche in fase di recupero degli incentivi, dovrà valutare e ponderare, non solo l’interesse pubblico a tutela della finanza pubblica, ma anche il distinto interesse pubblico alla produzione energetica da fonte rinnovabile e quindi i valori ambientali e produttivi, confrontandolo con l’interesse privato al mantenimento del beneficio concesso. In altri termini, il GSE non può conferire automatica priorità alla conservazione delle risorse assegnategli tenuto conto che il DL 76/2020, impone, sia in fase di decadenza sia in fase di riesame, una motivazione sulle singole fattispecie che hanno indotto alla decadenza dall’incentivazione[10].
Occorre ora passare ad esaminare l’esercizio del potere discrezionale del GSE.
Il potere è puramente discrezionale: nella valutazione della non grave rilevanza delle violazioni accertate, presupposto che giustifica la decurtazione della sanzione (decadenza parziale), anziché la decadenza totale dall’incentivo.
L’accertamento della “rilevanza” della violazione assume importanza primaria anche con riferimento all’intensità del collegamento tra il comportamento violativo e il beneficio goduto, di modo che la decadenza non abbia a provocare effetti ablatori esorbitanti rispetto al beneficio innanzi riconosciuto.
È pure frutto di scelta discrezionale, non solo l’“an”, ma anche il “quantum” ovvero la misura della decurtazione dell’incentivo, che la legge consente di effettuare tra il minimo del 10 e il massimo del 50 % , in ragione dell’entità della violazione, eccettuati i casi in cui è la legge stessa che, per gli impianti fotovoltaici, al dichiarato fine di salvaguardare la produzione di energia elettrica derivante da tale fonte rinnovabile, ha già stabilito la decurtazione minima del 10 % della tariffa incentivante per l’ipotesi di installazione di moduli non certificati o con certificazioni non rispondenti alla normativa europea, con previsione di una minore decurtazione del 5% per l’ipotesi di “ravvedimento operoso” ovvero qualora tale mancanza sia dichiarata dal soggetto beneficiario al di fuori dei procedimenti di controllo.
A tali diversi poteri corrisponde, sul piano del sindacato giurisdizionale, un diverso grado di tutela.
In caso di rigetto della domanda o di decadenza dall’incentivo il provvedimento del GSE sottrae un bene economico al privato e comprime la sua sfera giuridica con un atto restrittivo a fronte del quale si configura un interesse legittimo di tipo oppositivo. In questi casi, il processo ha finalità caducatorie: l’interesse materiale del ricorrente è immediatamente e pienamente soddisfatto dall’annullamento dell’atto, a seguito del quale la situazione sostanziale si riespande ed assume la dimensione che per legge deve avere. Possono ad esempio rendersi necessarie, eventualmente, misure ripristinatorie e risarcitorie, oggi esplicitamente previste anche dal codice del processo amministrativo (artt. 30 e 34, comma 1, lett. c), c.p.a.), al fine di rendere la situazione di fatto conforme a quella di diritto e di reintegrare, dal punto di vista patrimoniale, la posizione di colui che è stato danneggiato dall’illegittimo uso del potere. Il privato, per ottenere tutela contro gli atti di decadenza dagli incentivi del GSE, non ha bisogno che venga emanato un nuovo atto o un nuovo provvedimento, essendo sufficiente l’annullamento di quello impugnato; anzi, la sua aspirazione è che sia impedito al GSE di incidere nuovamente sulla sua posizione giuridica, con atti di contenuto uguale o simile a quello annullato. Il giudicato, quindi, deve ostacolare la riedizione del potere, impedendo l’emanazione di nuovi atti (lesivi) di tipo ripetitivo.
L’accoglimento del ricorso, con l’annullamento del provvedimento di decadenza, comporta la reviviscenza dell’originario provvedimento di erogazione degli incentivi per la produzione di energia da fonti rinnovabili, con conseguente pieno soddisfacimento della pretesa sostanziale. La tutela in questi procedimenti può dirsi rispondere al principio-cardine, solennemente fissato dal c.p.a nel suo primo articolo, di pienezza ed effettività della tutela, che si realizza, nella maggioranza dei casi, nel giudizio di cognizione; il sindacato del GA, in sede di giurisdizione esclusiva (art. 133, comma 1, lett.o c.p.a.), si esercita, infatti, sul provvedimento che ha disposto la decadenza dagli incentivi o dall’incentivazione degli interventi di efficienza energetica (TEE o cosiddetti certificati bianchi).
Diverso tipo di sindacato è invece configurabile sul potere di decurtazione della tariffa incentivante prevista dall’art. 42 comma 3 del D.lgs. 28/2011, come risultante dalle modificazioni introdotte dall’art. 56 del D.L. 76/2020, contenente, la previsione della decurtazione dell'incentivo in misura ricompresa fra il 10 e il 50 per cento in ragione dell'entità della violazione. Il legislatore ha introdotto, nell'esercizio dei poteri di controllo in materia di riconoscimento degli incentivi per la produzione di energia da fonti rinnovabili, il principio di proporzionalità e adeguatezza dell'azione amministrativa: non tutte le violazioni rilevanti ai fini dell'erogazione degli incentivi, come tali individuate nella decretazione ministeriale attuativa, determinano l'impossibilità di accedere agli incentivi ovvero la decadenza dagli stessi, ma soltanto quelle connotate da maggiore gravità.
Il legislatore[11] ha demandato ad un decreto ministeriale attuativo del Ministero dello sviluppo economico la disciplina di un nuovo sistema organico dei controlli, con l’individuazione delle violazioni “non rilevanti”, che danno luogo a decurtazione dell'incentivo, in relazione a ciascuna fonte, tipologia di impianto e potenza nominale.
Tale decreto attuativo, previsto dalla legge 205 del 2017 (art. 1, comma 960), alla data del presente intervento, non risulta adottato.
Il GSE ha quindi sostenuto che la mancata adozione del DM priverebbe il Gestore del potere di disporre la decurtazione dell’incentivo, potendo solo disporre la decadenza.
Tale tesi non è stata tuttavia accolta dalla Giurisprudenza, la quale ha stabilito che il potere di decurtazione percentuale, unitamente alla misura minima e massima di decurtazione consentita, è già stabilito dalla normativa vigente. Al decreto di cui al comma 5 lett. c bis) del citato art. 42 è demandata solo la specificazione delle singole violazioni e dell’entità percentuale di decurtazione correlata a ciascuna di esse. Al decreto attuativo spetta quindi la perimetrazione dell’attività tecnico discrezionale del Gestore con conseguente semplificazione del relativo onere motivazionale.
La giurisprudenza, dunque, in mancanza della disciplina di riferimento, ha stabilito che la rilevanza delle violazioni accertate deve essere ancorata alle fattispecie indicate nell’allegato 1 al c.d. decreto controlli (d.m. 31 gennaio 2014)[12], con una elencazione per la quale, peraltro, viene espressamente esclusa la tassatività (ex art. 11 del citato decreto controlli).
Al di fuori di questa elencazione, non tassativa e in attesa dell’adozione del nuovo decreto controlli è demandata alla discrezionalità del Gestore, la verifica, caso per caso, nelle fattispecie concrete di violazioni, elusioni o inadempimenti, pur rilevanti ma diversi da quelli contemplati nell’allegato 1, dai quali consegua l’indebito accesso agli incentivi che giustifica il provvedimento di decadenza.[13]
In particolare, il GSE è tenuto a ponderare gli interessi in gioco: la salvaguardia del particolare interesse economico sotteso alla realizzazione dell’investimento, nonché dell’interesse generale alla produzione di energia da fonti rinnovabili; la tutela dell’interesse pubblico al corretto e razionale utilizzo delle risorse della collettività.
Quindi il GSE, non solo decide quali sono le violazioni rilevanti che comportano la decadenza dagli incentivi, ma, per le violazioni non gravi, ha anche il potere di stabilire la decurtazione dell’incentivo nell’ambito delle percentuali minime e massime stabilite dalla legge, tenendo in considerazione la gravità e la rilevanza della violazione riscontrata.
In questi casi, viene in gioco un ampio potere discrezionale del GSE che, in virtù del principio di riserva di amministrazione, non consente al GA di sostituirsi al GSE nella valutazione della gravità e rilevanza della violazione ai fini dell’esercizio del potere di decurtazione dell’incentivo da applicare.
Può il giudice amministrativo valutare la congruità della decurtazione della tariffa operata dal GSE?
Il sindacato sul potere di decurtazione e sulla valutazione di rilevanza delle violazioni, in assenza di un potere regolatorio da parte del Ministero, apre inevitabilmente il varco ad un ampio spazio di discrezionalità del GSE.
Il ragionamento sin qui svolto ci permette così di giungere al cuore della questione, concernente l’intensità del sindacato del giudice amministrativo nei confronti degli atti del GSE, avendo delineato alcune linee di fondo e, soprattutto, avendo operato una chiara scelta sul piano metodologico che richiede, coerentemente con quell’approccio pragmatico che è stato seguito, una preventiva indagine sulla struttura del potere di volta in volta sottoposto al vaglio del giudice amministrativo, da intendersi quale condizione imprescindibile per una verifica della coerenza del controllo giurisdizionale concretamente esercitato, con il canone della pienezza ed effettività del sindacato. Quest’ultimo è principio-cardine, solennemente fissato nel primo articolo del codice del processo amministrativo.
Più si allargano i confini della discrezionalità e del merito amministrativo, più il sindacato giurisdizionale incontrerà dei limiti e, di conseguenza, il grado di intensità della tutela sarà meno penetrante. Di contro, laddove nell’ambito delle scelte dell’amministrazione sia possibile operare una distinzione tra attività discrezionale e attività di interpretazione, ovvero, escludere in radice l’esistenza di profili di discrezionalità, il controllo giurisdizionale nei confronti della relativa attività ermeneutica svolta dall’amministrazione non incontrerà limiti, risultando perciò il relativo sindacato pieno ed effettivo.
Sul piano processuale, nel caso del potere di decurtazione, qualora il ricorrente contesti l’eccessiva misura della decurtazione subita (decadenza parziale dall’incentivo) l’interesse del ricorrente non è soddisfatto dal semplice annullamento dell’atto, ma è necessario che sia posto in essere un nuovo atto per conseguire il bene della vita. Da qui, l’esigenza che il giudicato definisca il potere e la sua fattispecie e che dia un comando e una regola di condotta pregnanti e vincolanti, di modo che al titolare sia vietato di addurre elementi impeditivi ulteriori, al fine di contrastare la realizzazione della pretesa della controparte. In virtù del principio di separazione dei poteri (c.d. riserva di amministrazione) il giudice non può sostituirsi all’amministrazione.
Mi avvio alle conclusioni.
Il potere amministrativo, come nel caso della mancata adozione del Decreto previsto dalla legge 205/2017, non sempre è conformato dal legislatore. In questo caso, il Giudice amministrativo, in via interpretativa, al fine di garantire una tutela piena ed effettiva, ha individuato un parametro legale nel “decreto controlli” del 2014.
Credo, dunque, che non sia possibile operare una teorizzazione generale sulla possibilità/impossibilità di sindacare la discrezionalità amministrativa ovvero sulla misura del sindacato esercitabile (“troppo sindacato/troppo poco sindacato”). Inevitabilmente occorre prendere atto che l’attività interpretativa del giudice amministrativo è influenzata da alcuni fattori: il dettaglio normativo; l’esistenza di principi nell’ordinamento di settore e gli scopi per cui il legislatore attribuisce un determinato potere.
Non è possibile quindi individuare una teoria unica della discrezionalità: ogni potere richiede un tipo di sindacato diverso. Si può discutere, dunque, su come il singolo potere è esercitato. Insomma, non esiste un metodo di sindacato standard: va utilizzato il metodo casistico del diritto romano, analizzando gli interessi di volta in volta coinvolti. D’altra parte, il diritto è una scienza pratica e quindi, nel caso analizzato, il giudice, a fronte di fior di investimenti realizzati dalle imprese nel settore dell’energia e, al fine di tutelare l’interesse pubblico perseguito dal legislatore (la prosecuzione degli impianti alla produzione di energia da fonte rinnovabile), in alcune fattispecie, ha ritenuto non coerente con tale politica di incentivazione, l’esercizio, da parte del Gestore, del potere di decadenza dagli incentivi, affermando la diretta applicazione, da parte del GSE, della decurtazione degli incentivi, pur in mancanza del decreto attuativo.
Ciò dimostra che, laddove il legislatore (o comunque il soggetto pubblico al quale il primo delega il potere di normazione) abdica all’esercizio pieno della propria funzione inevitabilmente- pena la realizzazione di un deficit di tutela- aumentano le maglie del sindacato del giudice amministrativo.
E quest’ultimo può intervenire solo in via interpretativa, non come “inventore” del diritto, ma come investigatore del significato dello ius positum, analizzando il quadro sistematico in coerenza con gli atti di indirizzo politico, nel rispetto del primato della legge e dello Stato costituzionale di diritto, nel quale spetta al legislatore dettare ilriferimento normativo dell’agire.
[1]Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, sentenze nn. 18 del 2020 e 9 del 2019; Corte costituzionale sentenze n. 237 del 2020 e n. 51 del 2017 e Corte di giustizia dell’Unione europea, sez. X, 11 luglio 2019, C-180/18, C-286/18, Agrenergy.
[2] Le fonti energetiche rinnovabili, anche definite alternative, sono quelle forme di energia che per loro caratteristica intrinseca si rigenerano o non sono "esauribili", il cui utilizzo non pregiudica le risorse naturali per le generazioni future.
[3] Nel sistema italiano - che già aveva sperimentato le misure di incentivazione introdotte dal D.Lgs. 29 dicembre 2003, n. 387 (Attuazione della direttiva 2001/77/CE relativa alla promozione dell'energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell'elettricità) – si rivela cruciale l'emanazione del D.Lgs. n. 28 del 2011, che, recependo la direttiva 28/2009/CE, nell'esercizio della delega di cui alla L. 4 giugno 2010, n. 96 (Disposizioni per l'adempimento di obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle Comunità europee - Legge comunitaria 2009), ha riordinato il sistema degli incentivi nel rispetto, in particolare, del criterio direttivo di "adeguare e potenziare il sistema di incentivazione delle fonti rinnovabili" (art. 17, comma 1, lettera h, della legge di delega), perseguendo, tra l'altro, l'obiettivo indicato dallo stesso decreto legislativo di raggiungere nel 2020 la quota complessiva di energia da fonti rinnovabili sul consumo finale lordo di energia pari al 17 per cento (art. 3, comma 1).
[4] Cass., S.U., 10 aprile 2019, n. 10020, Cass., Sez. U., 24 febbraio 2014, n. 4326; Cass., S.U., 27 aprile 2017, n. 10409; Cass., S.U., 4 maggio 2017, n. 10795; Cass., S.U., 13 giugno 2017, n. 14653.
[5] L'art. 12, comma 1, lett. h), n. 2), D.L. 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla L. 11 settembre 2020, n. 120, ha aggiunto all’art. 18 della legge 241/1990 il comma 3 bis, il quale prevede che: “nei procedimenti avviati su istanza di parte, che hanno ad oggetto l'erogazione di benefici economici comunque denominati, indennità, prestazioni previdenziali e assistenziali, erogazioni, contributi, sovvenzioni, finanziamenti, prestiti, agevolazioni, da parte di pubbliche amministrazioni ovvero il rilascio di autorizzazioni e nulla osta comunque denominati, le dichiarazioni di cui agli articoli 46 e 47 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, ovvero l'acquisizione di dati e documenti di cui ai commi 2 e 3, sostituiscono ogni tipo di documentazione comprovante tutti i requisiti soggettivi ed oggettivi richiesti dalla normativa di riferimento, fatto comunque salvo il rispetto delle disposizioni del codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159”.
[6] La norma devolve alla giurisdizione esclusiva del GA: “le controversie, incluse quelle risarcitorie, attinenti alle procedure e ai provvedimenti della pubblica amministrazione concernenti la produzione di energia, i rigassificatori, i gasdotti di importazione, le centrali termoelettriche e quelle relative ad infrastrutture di trasporto ricomprese o da ricomprendere nella rete di trasmissione nazionale o rete nazionale di gasdotti”.
[7] Cons. Stato, Adunanza Plenaria 18/2020.
[8] Cons. Stato, Adunanza Plenaria 18/2020 ha ritenuto scindibile il beneficio, con conseguente possibilità per il GSE, di disporre una decurtazione parziale degli incentivi, ad esempio limitandole alla sola porzione incentivante, laddove la normativa prevede, in caso di ricorrenza di determinati presupposti, l’applicazione di una maggiorazione tariffaria (v. ad es. Decreto del Ministero dello sviluppo economico 5 maggio 2011, che stabilisce maggiorazioni tariffarie per gli impianti fotovoltaici aventi determinate caratteristiche, quali quella del 10 per cento per impianti costruiti con moduli provenienti, per almeno il 60%, dall’Unione europea).
[9] L’art. 2 del DM 31 gennaio 2014, che disciplina i controlli in materia di erogazione degli incentivi, prevede, ad esempio, che, “ai fini della verifica del diritto all'incentivo e della relativa determinazione, il GSE valuta, nell'esercizio delle funzioni di controllo, l'eventuale necessità di effettuare operazioni di campionamento e caratterizzazione chimico-fisica dei combustibili utilizzati negli impianti alimentati da biogas, bioliquidi e biomasse, ivi inclusi i rifiuti”.
Ancora, ad esempio: accertamento se un impianto fotovoltaico sia o meno integrato architettonicamente; accertamento della sussistenza del deflusso minimo vitale negli impianti idroelettrici ai fini dell’ottenimento di un maggiore incentivo; se il cogeneratore sia o meno di nuova installazione.
[10] Tar Lazio, sentenza 5 maggio 2022, n. 5602, Sezione III ter ha precisato che, in base ai principi affermati dalla Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 17 ottobre 2017, n. 8, in materia di autotutela, <<l’onere motivazionale gravante sul Gestore dei Servizi Energetici (GSE), in sede di esercizio del potere a questi spettante, potrà risultare “attenuato” in ragione della rilevanza e autoevidenza degli interessi pubblici tutelati e coinvolti nella vicenda oggetto di riesame, “al punto che, nelle ipotesi di maggior rilievo, esso potrà essere soddisfatto attraverso il richiamo alle pertinenti circostanze di fatto e il rinvio alle disposizioni di tutela che risultano in concreto violate, che normalmente possano integrare, ove necessario, le ragioni di interesse pubblico che depongano nel senso dell’esercizio del ius poenitendi>>.
[11] Art. 1, comma 960, lett. b), della legge 205/2017, che ha modificato l’art.42, comma 5, d.lgs. 28/2001 prevede che:“Entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto, il GSE fornisce al Ministero dello sviluppo economico gli elementi per la definizione di una disciplina organica dei controlli che, in conformità ai principi di efficienza, efficacia e proporzionalità, stabilisca: … c-bis) le violazioni che danno luogo a decurtazione dell'incentivo ai sensi dell'ultimo periodo del comma 3”.
[12] Questo l’elenco delle violazioni rilevanti contenuto nell’allegato 1 al DM 2014:
a) presentazione al GSE di dati non veritieri o di documenti falsi, mendaci o contraffatti, in relazione alla richiesta di incentivi, ovvero mancata presentazione di documenti indispensabili ai fini della verifica della ammissibilità agli incentivi;
b) violazione del termine per la presentazione dell'istanza di incentivazione e, nel caso in cui sia determinante ai fini dell'accesso degli incentivi, la violazione del termine per l'entrata in esercizio;
c) inosservanza delle prescrizioni contenute nel provvedimento del GSE relativo all'esito dell'attività di controllo;
d) indisponibilità della documentazione da tenere presso l'impianto ai sensi dell'art. 9, comma 3, nel caso in cui se ne sia già accertata l'assenza nell'ambito di una precedente attività di controllo;
e) comportamento ostativo od omissivo tenuto dal titolare dell'impianto nei confronti del preposto al controllo o del gestore di rete, consistente anche nel diniego di accesso all'impianto stesso ovvero alla documentazione;
f) manomissione degli strumenti di misura dell'energia incentivata;
g) alterazione della configurazione impiantistica, non comunicata al GSE, finalizzata ad ottenere un incremento dell'energia incentivata;
h) interventi di rifacimento e potenziamento realizzati in difformità dalle norme di riferimento ovvero da quanto dichiarato in fase di qualifica o di richiesta dell'incentivo;
i) inefficacia del titolo autorizzativo per la costruzione ed esercizio dell'impianto;
j) insussistenza dei requisiti per la qualificazione dell'impianto, per l'accesso agli incentivi ovvero autorizzativi;
k) utilizzo di combustibili fossili di due punti percentuali oltre la soglia consentita, non previamente comunicato al GSE;
l) utilizzo di combustibili rinnovabili in difformità dal titolo autorizzativo o dalla documentazione presentata in sede di qualifica ovvero di istanza di incentivazione;
m) mancata trasmissione al GSE della certificazione di fine lavori dell'impianto nei termini previsti dalla normativa di incentivazione, nel caso in cui sia determinante ai fini dell'accesso o della determinazione agli incentivi;
n) utilizzo di componenti contraffatti ovvero rubati.
[13] Cons. Stato, II, 4 gennaio 2023, n. 127, nel sindacare l’esercizio del potere di decadenza, anziché di decurtazione, ha ritenuto rilevanti, sulla base del parametro indicato nell’allegato 1 del d.m. 31 gennaio 2014 le seguenti violazioni:
“a) la mancata riferibilità dei moduli fotovoltaici installati all’attestato di factory inspection e al certificato di conformità presentati dal soggetto responsabile;
b) l’origine dei moduli a marchio Lenus Solar, per i quali non è possibile identificare in maniera univoca lo stabilimento di produzione;
c) le difformità rilevate con riferimento alla marcatura CE;
d) l’assenza dei requisiti di cui all’art. 7 co. 3 del decreto, con riferimento alla conformità alle norme CEI EN 61215 e CEI EN 61730-2; il mancato rispetto delle prescrizioni dell’art. 7 co. 5, lett. b e c del decreto, aventi ad oggetto il possesso di requisiti di certificazione sulla qualità del processo produttivo; il mancato rispetto della condizione di cui all’art. 2 co. 1 lett. v. del decreto, che richiede “impianti con componenti principali realizzati unicamente all’interno di un Paese che risulti membro dell’UE/SEE”;
e) il mancato rispetto delle condizioni e dei requisiti che rendono legittimo il riconoscimento della tariffa, richiesta ed erogata, “su edificio”;
f) la mancata evidenza, nel corso del procedimento di verifica, del titolo abilitativo alla realizzazione dell’impianto”.
Sommario: 1. La vicenda - 2. Gli argomenti adoperati dalle Sezioni Unite. La qualificazione giuridica dell’affidamento riposto dal privato nella condotta della pubblica amministrazione - 3. La rilevanza della conformità dell’azione amministrativa ai canoni di buona fede e correttezza. Uno sguardo all’evoluzione giurisprudenziale - 4. Ancora incertezze sulla giurisdizione? La natura della responsabilità della pubblica amministrazione per lesione dell’affidamento incolpevole - 5.Conclusioni.
1. La vicenda
Una società a responsabilità limitata è proprietaria di terreni aventi destinazione agricola e rientranti in un progetto di trasformazione che subordina il completamento di un esistente «tessuto residenziale» urbano alla «piantumazione preventiva» dell’area ad opera del soggetto interessato, nel termine di sei mesi.
La società attrice presenta il progetto di piantumazione preventiva, che incontra l’approvazione della Giunta municipale, e la proposta di piano attuativo, assoggettata a valutazione di impatto ambientale. Ad intervento di piantumazione avviato, sopraggiunge la sentenza 27 febbraio 2015, n. 576, del TAR Lombardia (confermata dal Consiglio di Stato con sentenza 28 giugno 2016, n. 2921), con cui, all’esito del ricorso proposto da terzi, si dispone la caducazione dello strumento pianificatorio.
La società in questione si rivolge al giudice ordinario per ottenere il risarcimento del danno patito per lesione dell’affidamento da essa riposto nella legittimità della deliberazione recante l’approvazione, da parte del Consiglio comunale, del Piano di Governo del Territorio. Il Comune si costituisce in giudizio eccependo il difetto di giurisdizione del giudice ordinario e chiedendo il rigetto della domanda, ritenuta infondata. Il Tribunale di Milano accoglie la domanda e condanna l’amministrazione al risarcimento del danno cagionato.
Il Comune propone appello contro la decisione, che viene rigettato dalla Corte d’Appello di Milano. In sede di appello, l’errore commesso dall’amministrazione comunale è individuato nella sottrazione «dal computo della superficie urbanizzata di quella destinata ad attrezzature pubbliche o di uso pubblico d’interesse comunale o sovracomunale», non essendosi correttamente interpretato l’art. 84 Norme Tecniche Att. Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale. E’ esclusa la devoluzione della controversia alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, sul rilievo per cui alla radice di essa si pone un comportamento tenuto dall’amministrazione, indipendentemente dal rispetto di regole procedimentali. Il differente radicamento della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo presuppone l’inquadramento della condotta complessiva dell’amministrazione in un contesto di carattere pubblicistico, con annessa sussistenza di una connessione tra la condotta medesima e l’esercizio del potere.
L’affidamento è, in questa sede, qualificato alla stregua di una «situazione autonoma», in quanto tale meritevole di tutela, la cui lesione presenta un diritto soggettivo in qualità di causa petendi. Nel giudizio della Corte, ai fini del consolidamento dell’affidamento della società appellata, rivestono rilievo le rassicurazioni prospettate, nel corso delle riunioni tecniche, dai funzionari comunali ai rappresentanti della società in ordine alla legittimità dell’attività svolta nonché del PGT oggetto di impugnazione, contestualmente escludendo l’esigenza di espletare verifiche aggiuntive ovvero valutazioni di carattere ambientale. Né il contenuto delle predette riunioni è stato smentito in giudizio da parte dello stesso Comune.
A sostegno della propria tesi, il giudice di seconde cure richiama l’orientamento giurisprudenziale sulla scorta del quale la lesione dell’affidamento nella correttezza della condotta della pubblica amministrazione determina il sorgere di un regime di responsabilità relazionale o da contatto sociale qualificato.
Il Comune propone ricorso per cassazione contro la pronuncia resa dalla Corte d’Appello.
2. Gli argomenti adoperati dalle Sezioni Unite. La qualificazione giuridica dell’affidamento riposto dal privato nella condotta della pubblica amministrazione
La pronuncia che si annota affronta le tematiche della qualificazione giuridica nonché della tutela dell’affidamento e dei confini della giurisdizione del giudice amministrativo.
Il Comune sottopone alla Corte di Cassazione la questione afferente al difetto di giurisdizione del giudice ordinario, censurando la decisione della Corte d’Appello nella parte in cui ricostruisce l’affidamento come situazione giuridica dotata di autonomia. Sostiene l’ente ricorrente che l’affidamento integri, diversamente, un criterio alla cui stregua condurre la valutazione in ordine al comportamento tenuto dalle parti. Nel rapporto amministrativo, l’affidamento dovrebbe ricondursi alla situazione giuridica soggettiva di interesse legittimo, in quanto la sua lesione sarebbe connessa all’esercizio del potere amministrativo; e anche laddove la posizione rivestita dalla società attrice sia qualificabile in termini di diritto soggettivo sussisterebbero gli estremi della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, considerando che l’affidamento di cui è lamentata la lesione trae origine «dall’esercizio di un potere in materia urbanistica ed edilizia».
Il motivo di impugnazione è ritenuto infondato dalla Suprema Corte. Del pari infondate, a giudizio della Corte, sono le contestazioni di parte ricorrente dell’elemento soggettivo dell’illecito, della profilazione dell’affidamento incolpevole, del carattere ingiusto del danno, del nesso eziologico tra quest’ultimo e il comportamento dell’amministrazione.
La violazione della fiducia riposta dalla società nella coerenza e nella non contraddittorietà della condotta amministrativa fonda, nel giudizio delle Sezioni Unite, l’integrazione dell’illecito. Le scaturigini del danno sono individuate dalle Sezioni Unite nella lesione dell’affidamento riposto dal privato sulla legittimità del provvedimento amministrativo o, meglio, nella fattispecie complessa integrata, oltre che dalla predetta illegittimità, da circostanze rivelative dell’inosservanza delle regole di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi la condotta dell’amministrazione; l’idoneità di quest’ultima a determinare la formazione della «fiducia incolpevole» deve essere valutata in relazione al caso concreto.
La condotta amministrativa difforme dai canoni di correttezza e buona fede, lesiva dell’affidamento del privato, si colloca su un piano differente rispetto a quello della scansione procedimentale culminante nel provvedimento amministrativo; in termini diversi, il comportamento della pubblica amministrazione, secondo le Sezioni Unite, non intrattiene alcun collegamento con l’esplicazione del potere amministrativo. Sorreggerebbe tale conclusione la circostanza che la società abbia fatto valere non l’illegittimità del provvedimento amministrativo, ma il comportamento tenuto dall’amministrazione, determinante nella parte in cui questa «ha insistito per l’attuazione dell’intervento programmato e fornito assicurazioni in ordine alla legittimità dello stesso, escludendo la necessità di approfondimenti istruttori e suscitando in tal modo un affidamento incolpevole, la cui lesione costituisce quindi il vero fondamento della pretesa risarcitoria».
La nozione di affidamento ha faticato a rinvenire un terreno fertile nel diritto amministrativo nazionale, in ragione della sua estraneità rispetto al diritto pubblico, così come affermata nella giuspubblicistica tedesca[1]. Carattere decisivo per la maturazione dibattito sull’argomento rivestono gli studi condotti da Merusi nel corso degli anni Settanta del secolo scorso[2], che forniscono stimolo alla riflessione dottrinale successiva[3]. La garanzia dell’affidamento è dapprima collocata nella fase di adozione del provvedimento amministrativo: la tutela relativa viene, in tal modo, a qualificarsi come «applicazione di una norma integrativa della decisione», connessa allo spiegarsi del potere discrezionale e, dunque, alla ponderazione degli interessi operata all’insegna del principio di ragionevolezza. Laddove, diversamente, la pubblica amministrazione debba riconsiderare una sua precedente determinazione, la tutela dell’affidamento è individuata in un bilanciamento che annovera tra gli interessi da considerare lo stesso affidamento[4].
E’ nota l’acquisizione secondo cui l’ubi consistam della tutela dell’affidamento è costituito dal principio di buona fede[5]. Precisamente, tale tutela è intesa come protezione della situazione soggettiva in cui versa chi ripone fiducia nell’altrui comportamento conforme a buona fede[6]. Il principio dell’affidamento si pone come estrinsecazione del principio di buona fede oggettiva[7], di cui si distinguono due accezioni: buona fede oggettiva latamente intesa come obbligo di comportarsi secondo una correttezza determinabile non sul piano astratto, ma in relazione alla fattispecie concreta e alle sue «implicazioni con le istanze della costituzione economico-materiale»; buona fede oggettiva strettamente intesa come divieto di ledere l’aspettativa alimentata dalla propria condotta in un altro soggetto. Alla prima accezione corrisponde una nozione di affidamento quale aspettativa che tutti i soggetti dell’ordinamento con cui si interagisce osservino «lo strictum jus» nonché le regole di correttezza scaturenti dal principio di buona fede. All’accezione ristretta di buona fede oggettiva si riconnette l’affidamento «come aspettativa di coerenza rispetto a un precedente comportamento dell’amministrazione»[8]. Peculiare dell’affidamento è, dunque, il parametro di giudizio adoperato, rappresentato dall’assetto degli interessi anteriormente esistente[9].
Altrettanto conosciute sono le radici del legittimo affidamento: frutto dell’elaborazione giurisprudenziale della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, i relativi elementi costitutivi, così come emergenti dalla stessa giurisprudenza europea, sono: a) quello temporale, consistente nell’avvenuto decorso di un lasso di tempo che possa essere fondamento della certezza del diritto; b)quello oggettivo della preesistenza in capo al privato di una situazione giuridica di vantaggio, che derivi da un provvedimento espresso o dal silenzio; c) l’elemento soggettivo, individuato nella convinzione in ordine alla legittimità del provvedimento[10].
Il legittimo affidamento trova un valido riscontro nella legge sul procedimento. Più puntualmente, il riconoscimento del corrispondente principio era già desumibile, in via ermeneutica, dall’art. 1, nella parte in cui contiene il richiamo, mobile[11], ai principi dell’ordinamento comunitario[12]. Lo stesso principio trova, poi, specificazione negli artt. 2 bis, 21 quinquies e 21 nonies[13]. Su tale linea, è stato rilevato che la determinazione della misura della tutela dell’affidamento è operata ex lege[14], e non più in via interpretativa.
Non risulta superfluo, in questa sede, ricordare il progresso compiuto con la L. n. 15/2005, introduttiva, nel testo dell’art. 1 della legge sul procedimento, al comma 2 bis, dell’espresso riferimento ai principi di collaborazione e buona fede che devono ispirare il rapporto tra pubblica amministrazione e cittadino[15]. Le regole di condotta menzionate hanno carattere bilaterale, in quanto concernenti un rapporto partecipato[16]; la loro inosservanza comporta la produzione di un vizio del provvedimento, per violazione di una norma di legge[17].
Ciò posto, occorre precisare che le Sezioni Unite, nella pronuncia in commento, assumono come determinante una nozione di affidamento che ritengono differente rispetto a quella tipizzata ai sensi dell’art. 21 nonies della legge sul procedimento e, in generale, rispetto a quella ravvisabile nell’ambito dell’autotutela. Stando alla pronuncia in commento, l’affidamento che viene in rilievo nella fattispecie in disamina si sostanzia in una situazione autonoma, come evidenziato in sede d’appello, di per sé meritevole di tutela (prescindendo dalla connessione con l’interesse pubblico). La nozione a cui riferisce la Corte di Cassazione è quella civilistica di affidamento incolpevole[18], desumibile dagli artt. 1337 e 1338, c.c., connotata dalla sussistenza del coefficiente soggettivo dell’incolpevolezza, che funge da «contemperamento tra la tutela della fiducia, fondata sulla buona fede, e il principio di autoresponsabilità»[19]. L’incolpevolezza dell’affidamento postula una condotta altrui che abbia ingenerato un’aspettativa idonea a porsi alla radice del comportamento lesivo, circostanza efficacemente esemplificata dal trinomio fiducia - delusione della fiducia - danno conseguente alla condotta ispirata alla fiducia mal riposta. Come evidenziato da accorta dottrina, l’affidamento è qualificabile come incolpevole e suscettibile di tutela nella misura in cui risulti idoneo a rivestire «efficacia causale» rispetto ad una data condotta lesiva[20]. Affinché, poi, la condotta possa dirsi causativa del danno è necessario che sia positivamente valutata la sua idoneità a spingere un soggetto diligente al compimento di scelte dannose[21].
La differenza tra le due nozioni di affidamento richiamate può cogliersi in quanto segue. Se la delusione dell’aspettativa del cittadino si inquadra in un contesto di rapporti privatistici, l’amministrazione andrà incontro ad una responsabilità per lesione dell’affidamento incolpevole. Diversamente, la delusione dell’aspettativa del privato che si consumi sul piano dei rapporti di matrice pubblicistica determinerà l’integrata violazione dell’affidamento legittimo. E’ stato, infatti, constatato che i principi che reggono l’attività amministrativa hanno una connotazione obiettiva e precludono la considerazione di elementi di carattere personale sovente sottesi alla formazione dell’affidamento incolpevole. In tal senso, nel diritto amministrativo, non si discorre di affidamento incolpevole, bensì di affidamento legittimo. Il ricorso a «categorie interprivatistiche» sarebbe, così, preordinato alla dissociazione tra la tutela della legittimità dell’attività amministrativa e quella dell’affidamento; in tale ultimo ambito, l’amministrazione è equiparata ad un soggetto privato: il suo agire è vincolato anche al rispetto dei canoni di correttezza e buona fede[22].
3. La rilevanza della conformità dell’azione amministrativa ai canoni di buona fede e correttezza. Uno sguardo all’evoluzione giurisprudenziale
La controversia in commento evoca il confronto tra differenti orientamenti giurisprudenziali.
In tempi risalenti, il Consiglio di Stato ha qualificato la buona fede e la correttezza come parametri, afferenti esclusivamente all’autonomia privata, «alla cui stregua il giudice ordinario risolve i conflitti intersoggettivi nascenti dal loro mancato rispetto». A mente dello stesso orientamento, il giudizio amministrativo sarebbe preordinato alla conduzione di un «controllo di legalità delle modalità» di svolgimento dell’attività amministrativa, alla luce dei principi costituzionali di imparzialità e buon andamento. Il carattere eventualmente illecito del comportamento dell’amministrazione, che apre la strada al risarcimento del danno cagionato al privato, sarebbe, dunque, determinato dall’illegittimo esercizio della funzione amministrativa, a sua volta riconducibile all’adozione di un provvedimento contra legem ovvero alla mancata adozione di un provvedimento dovuto, ma non ad una valutazione della condotta amministrativa sotto i profili della buona fede e della correttezza[23]. Tale conclusione si pone in netta antitesi rispetto a quelle elaborate dalle Sezioni Unite a partire dalle note ordinanze gemelle nonché dalla giurisprudenza amministrativa successiva.
Con le ordinanze nn. 6594, 6595, 6596 del 2011, le Sezioni Unite hanno riconosciuto la giurisdizione del giudice ordinario in materia di risarcimento del danno subito per lesione dell’affidamento nella legittimità di un provvedimento illegittimo, ampliativo della sfera giuridica del privato, rimosso in sede di autotutela ovvero ope judicis. Aderendo all’iter argomentativo seguito dalla Corte, dell’atto annullato residua il «mero comportamento» degli organi che hanno provveduto all’emanazione, con conseguente imputazione, in applicazione del principio di immedesimazione organica, alla pubblica amministrazione della responsabilità per violazione dell’art. 2043, c.c., per inosservanza del principio del neminem laedere, avendo essa alimentato, tramite l’«apparente legittimità» del provvedimento, l’affidamento del privato.
La dottrina immediatamente successiva alle tre pronunce vi ha riconosciuto il merito di aver ampliato la tutela dell’affidamento del cittadino nell’operato dell’amministrazione, ampliamento che si pone come corollario dell’applicazione all’azione amministrativa delle regole di correttezza e buona fede[24]. I contestuali dubbi che sono stati manifestati hanno interessato il versante della compatibilità della soluzione elaborata con la regola della concentrazione delle tutele, applicazione del principio di effettività della tutela giurisdizionale. In ottemperanza a tale regola, la domanda risarcitoria dovrebbe rientrare nella cognizione del giudice amministrativo a cui sia stato richiesto l’annullamento del provvedimento illegittimo. A tale osservazione si è obiettato che la tutela risarcitoria, ritenuta in quella sede l’unica invocabile[25], mira a compensare un danno cagionato all’esito del venir meno ai doveri comportamentali facenti capo al soggetto pubblico, prescindendo da considerazioni in merito all’esercizio del potere. Di conseguenza, pregiudicato l’affidamento del privato, gli aspetti risarcitori afferenti alla lesione dell’affidamento medesimo dovrebbero essere esaminati avuto riguardo al caso concreto[26].
Sempre in senso critico rispetto all’approdo registrato con le ordinanze gemelle, si è rimarcato che il provvedimento annullato costituisce, in ogni caso, estrinsecazione del potere pubblico e che, pertanto, il pregiudizio inferto deve essere sottoposto alla cognizione del giudice amministrativo, perlomeno nelle materie devolute alla giurisdizione esclusiva[27]. Nel tentativo di confutare tale argomento, le Sezioni Unite hanno ribadito l’originarsi della lesione non dal provvedimento, bensì dall’inosservanza delle regole di correttezza e buona fede[28].
Nella giurisprudenza amministrativa ha gradualmente trovato conforto la configurazione in termini di responsabilità dell’agere amministrativo difforme dai canoni di lealtà e correttezza. Si è precisato che il sorgere della «responsabilità da comportamento», che si affianca alla responsabilità «da provvedimento», prescinde da valutazioni in punto di legittimità del provvedimento amministrativo. Si pensi all’ipotesi di rimozione in sede di autotutela di atti di gara legittimi a causa del comportamento negligente tenuto dall’amministrazione; nel qual caso risulterà integrata la violazione dell’obbligo di buona fede - correttezza nella fase delle trattative, da ricondursi al paradigma della responsabilità precontrattuale[29].
Nella fattispecie della responsabilità da comportamento scorretto, la distinzione tra regole di diritto pubblico e regole di diritto privato, che operano in modo sinergico e contestuale, è tracciata per evidenziare la diversità degli effetti prodotti dalle rispettive violazioni: invalidità provvedimentale, nel primo caso, e responsabilità, nel secondo. La delineazione del regime di responsabilità a carico dell’amministrazione presuppone un comportamento, oltre che lesivo dell’affidamento incolpevole, oggettivamente difforme rispetto ai doveri di lealtà e correttezza; la soggettiva imputabilità all’amministrazione della violazione, dolosa o colposa, dei doveri di correttezza; la produzione delle prove, da parte del privato, in ordine al danno - evento, al danno - conseguenza, ai nessi di causalità intercorrenti tra essi e la condotta scorretta imputata all’amministrazione[30].
4. Ancora incertezze sulla giurisdizione? La natura della responsabilità della pubblica amministrazione per lesione dell’affidamento incolpevole
Per quanto strettamente attiene alla questione di giurisdizione, nella giurisprudenza successiva alle ordinanze gemelle non sono mancate oscillazioni, manifestandosi propensioni talvolta per l’affermazione della giurisdizione del giudice ordinario (insistendo sulla lesione di un diritto soggettivo)[31], talaltra per l’affermazione della giurisdizione del giudice amministrativo[32].
Nella vicenda in esame, il Comune ricorrente colloca a fondamento delle proprie ragioni l’indirizzo giurisprudenziale che pone entro i confini della giurisdizione del giudice amministrativo l’esercizio dell’azione risarcitoria conseguente alla lesione dell’affidamento riposto dal privato nella legittimità dell’atto amministrativo successivamente annullato, concependo l’affidamento come «mero riflesso dell’azione amministrativa illegittima», incapace di influire sulla giurisdizione[33]. Tale orientamento, che la Suprema Corte ritiene definitivamente superato, è da inquadrarsi nel novero delle pronunce successive alle ordinanze gemelle delle Sezioni Unite, che si discostano dall’indirizzo in esse espresso[34].
Sul punto, le Sezioni Unite, nell’ordinanza che si annota, chiariscono che «perché sussista la giurisdizione del giudice amministrativo, è necessario, anche nelle materie di giurisdizione esclusiva, che la causa petendi si radichi nelle modalità di esercizio del potere amministrativo, ciò che non accade quando la causa del danno di cui il privato chiede il risarcimento risieda non già nel cattivo esercizio del potere amministrativo, bensì in un comportamento la cui illiceità venga dedotta prescindendo dal modo in cui il potere è stato esercitato e venga prospettata come violazione di regole comportamentali di buona fede e correttezza alla cui osservanza è tenuto qualunque soggetto, sia esso pubblico o privato».
Percorrendo tale via, la Suprema Corte giunge a confermare la responsabilità del Comune «per la lesione dell’affidamento generato nella società attrice in ordine alla legittimità del proprio operato», condividendo la ricostruzione effettuata dalla Corte d’Appello nella sentenza impugnata. Precisamente, è individuata a carico dell’amministrazione una responsabilità da contatto sociale qualificato «dallo status della pubblica amministrazione quale soggetto tenuto all’osservanza della legge come fonte della legittimità dei propri atti».
Nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, le prime tracce della responsabilità da contatto sociale qualificato si rinvengono nella sentenza n. 157 del 2003. In quella sede, la Corte sottolineava che il contatto tra cittadino e amministrazione, che prelude all’instaurazione di un rapporto «specifico e differenziato», è qualificato da uno «specifico dovere di comportamento». Avviato il procedimento, l’interessato è destinatario di un complesso di garanzie enucleate dalla sentenza n. 500 del 1999: trattasi degli obblighi di correttezza e buona amministrazione gravanti sul soggetto pubblico, ricostruiti come «limiti esterni alla discrezionalità», dunque assoggettabili alla valutazione del giudice ordinario[35].
Affinché sorga il regime di responsabilità in commento, è necessaria la costituzione di «momenti relazionali socialmente o giuridicamente qualificati, dai quali derivano a carico delle parti reciproci obblighi di buona fede, protezione ed informazione». Il contatto sociale si caratterizza per la peculiarità dello status rivestito dalle parti in esso coinvolte. In particolare, dalla pubblica amministrazione, la cui azione è sottoposta al rispetto di principi costituzionalmente presidiati, il cittadino si attende, ragionevolmente, una più fedele osservanza degli obblighi di correttezza, lealtà, tutela dell’affidamento[36]. Tale aspettativa nei confronti della condotta del soggetto pubblico comporta un rafforzamento del dovere di correttezza e di protezione sussistente in capo ad esso sin dal momento in cui il cittadino entra in contatto con l’amministrazione. Il rapporto tra amministrazione e privato qualifica la responsabilità della prima per il danno da lesione dell’affidamento nella correttezza della sua azione; per tale ragione, la predetta responsabilità deve ascriversi nel quadro della responsabilità relazionale, a sua volta sussumibile nella responsabilità contrattuale[37].
Di differente avviso è risultata la giurisprudenza amministrativa, secondo cui, anche nell’ipotesi in cui il potere non si sia concretizzato in un provvedimento tipico, ma si sia arrestato al livello di comportamento, l’operato della pubblica amministrazione rimane espressione dei poteri ad essa attribuiti ai fini della cura dell’interesse pubblico. L’affidamento (legittimo o incolpevole) trarrebbe fondamento da «una situazione di apparenza costituita dall’amministrazione con il provvedimento, o con il suo comportamento correlato al pubblico potere, in cui il privato abbia senza colpa confidato». Assumendo che la situazione giuridica rilevante abbia la natura di interesse legittimo, in ragione dell’asserita connessione con il potere, si pone in quanto conseguenza l’affermazione della giurisdizione amministrativa[38].
Non può prescindersi dal rilevare che l’appurata divergenza tra gli orientamenti espressi dalle magistrature supreme potrebbe costituire il risvolto del tentativo, ascrivibile ad entrambe, di dilatare i confini delle rispettive giurisdizioni[39]. Secondo un’opinione, tale «persistente contrasto» tra le Corti sul riparto giurisdizionale affonderebbe le origini nella sentenza n. 500 del 1999. Il riconoscimento della risarcibilità dell’interesse legittimo avrebbe introdotto un elemento destabilizzante nell’ambito del tradizionale sistema di riparto incentrato sul binomio cattivo esercizio di potere – carenza di potere[40].
Nel novero delle soluzioni prospettate, si inseriscono ricostruzioni in chiave “evolutiva” dell’interesse legittimo, volte a ricomprendere entro i relativi confini anche l’interesse del privato al conseguimento stabile e definitivo del bene della vita oggetto di aspirazione. Si è, in tal modo, opinato che la Cassazione abbia ignorato l’esistenza del potere: nei rapporti autoritativi, l’interesse legittimo corrisponde alla situazione giuridica soggettiva che interagisce con il potere. Una tale impostazione, insistendo sulla natura sostanziale dell’interesse legittimo, conduce ad esiti divergenti rispetto a quelli propri di orientamenti giurisprudenziali, incluso quello in commento, che aderiscono alla teoria della responsabilità da contatto sociale qualificato[41].
Il comportamento della pubblica amministrazione, sia esso inquadrato nell’ambito del procedimento ovvero del rapporto instauratosi in esito al rilascio di un provvedimento favorevole, è riconducibile al potere: il suo contesto di appartenenza è rappresentato dal procedimento preordinato all’esercizio del potere amministrativo e regolamentato dal diritto pubblico[42]. Pertanto, le controversie sulla responsabilità dell’amministrazione per lesione della buona fede dovrebbero devolversi alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo[43].
5. Conclusioni
L’orientamento inaugurato dalle ordinanze gemelle non è rimasto confinato alle sole ipotesi di proposizione di domande risarcitorie conseguenti alla violazione dell’affidamento derivante dall’adozione e dalla successiva rimozione di un provvedimento amministrativo, ma è stato esteso anche a quelle in cui la base dell’affidamento è costituita da un mero comportamento dell’amministrazione, difettando un provvedimento di estrinsecazione del potere amministrativo. A suggello del consolidamento dell’indirizzo racchiuso nelle predette ordinanze si pone anche la pronuncia in commento.
Riannodando le fila della ricostruzione svolta nei precedenti paragrafi, l’orientamento ascrivibile alla Corte di Cassazione fonda la riconduzione della tutela dell’affidamento al giudice ordinario sull’asserita lesione di un diritto soggettivo[44]; sulla derivazione della lesione da una condotta; sull’afferenza delle regole di correttezza e buona fede non alla legittimità dell’azione amministrativa, ma al diritto privato[45]. Quando a tale ultimo punto, anche nella giurisprudenza amministrativa ricorrono orientamenti che definiscono le regole di buona fede e correttezza come privatistiche, pur precisandone l’estensione alla condotta del soggetto pubblico[46]. La dottrina anche più risalente, con cui si concorda, precisa, invece, che il fondamento del dovere di buona fede deve rinvenirsi non nel codice civile, ma nel testo costituzionale e, precisamente, nel dovere di solidarietà sociale di cui all’art. 2, Cost., traducendosi nell’obbligo, gravante in capo a tutti i soggetti, «di agire senza recare danno ad altri»[47]. Alla medesima conclusione si perviene avuto riguardo al dovere di correttezza: «l’eterogeneità e la molteplicità degli interessi tutelati» postulano che esso informi il comportamento della totalità dei soggetti dell’ordinamento. Dagli stessi studi di diritto privato è emerso che il principio di buona fede non si sostanzia in una regola da limitarsi al rapporto obbligatorio; trattandosi di riflessioni che affondano le radici nella Costituzione, esse risultano applicabili, oltre che «a qualunque soggetto di un rapporto giuridico», «a qualsiasi settore dell’ordinamento»[48].
Quanto, invece, alla scomposizione dell’affidamento in legittimo e incolpevole, voluta dalla Corte di Cassazione, con annessa delimitazione di un nuovo ambito di giurisdizione riferibile giudice ordinario, occorre precisare che, sebbene incida sulla qualificazione della situazione giuridica soggettiva rilevante, essa non deve compromettere l’unitarietà della nozione di affidamento, che rimane ancorata all’altrui condotta conforme a buona fede[49].
Ancora, si è posto in luce che gli orientamenti richiamati denoterebbero la progressiva adesione dell’ordinamento nazionale ad un modello di rapporti tra amministrazione e cittadino informato alla pari - ordinazione[50]. In altri termini, il dovere di comportarsi secondo buona fede, gravante su entrambe le parti del rapporto amministrativo, determinerebbe l’instaurazione di una relazione che non contempla la titolarità di potere, sostanziando di attualità, si è ritenuto, l’idea benvenutiana di un diritto amministrativo paritario[51]. Ma, com’è stato fondatamente osservato, un tale risultato sarebbe contemplabile sul presupposto dell’esistenza del potere in capo al soggetto pubblico parte del rapporto, condizione non soddisfatta nelle ipotesi di relegazione dell’affidamento «nell’angusto spazio dei meri comportamenti», che non intrattengono alcun legame con l’esercizio del potere[52].
Ciò che si intende evidenziare, conclusivamente, è che il comportamento rilevante ai fini dell’affidamento non può essere sradicato dal suo contesto fisiologico, che è quello in cui viene esercitato il potere amministrativo. Pur se l’affidamento incolpevole è dovuto, nel nostro ordinamento, all’accertamento di un contatto sociale qualificato, e non all’illegittimità del provvedimento, è innegabile che tale “contatto” si concretizzi nel procedimento, anche in funzione di una serie di regole ad esso relative quali la partecipazione, la ponderazione di tutti gli interessi, la prevedibilità delle scelte basate su regole predeterminate[53].
[1] Il riferito scetticismo nutrito dalla dottrina muoveva dalla centralità conferita all’interesse pubblico, che non poteva costituire oggetto di una disciplina sinallagmatica, come nel diritto civile. G. Mannucci, L’affidamento nel rapporto amministrativo, Editoriale Scientifica, 2023, 20 – 21.
[2] F. Merusi, L’affidamento del cittadino, Giuffrè, 1970.
[3] La dottrina successiva agli studi condotti da Merusi ha coltivato l’idea di un sindacato sull’affidamento concentrato sul piano provvedimentale, giungendo anche ad anticipare la formazione dell’affidamento allo stadio del procedimento, in ragione della preventiva determinazione dei profili della decisione (vedi infra). Sul punto: G. Mannucci, L’affidamento nel rapporto amministrativo, cit., 26 – 27.
[4] G. Mannucci, L’affidamento nel rapporto amministrativo, cit., 23 ss.
[5] La buona fede, lungi dal costituire una riproduzione dell’interesse pubblico rimesso alla cura dell’amministrazione, corrisponde ad un principio generale che trova applicazione nei riguardi di qualsivoglia attività, sia essa di diritto pubblico ovvero di diritto privato. In tal senso, M. G. Pulvirenti, Considerazioni sui principi di collaborazione e di buona fede nei rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione, in Il diritto dell’economia, 2023, 1, 118. L’Autore respinge l’orientamento favorevole alla sottrazione dell’attività amministrativa, in quanto attività di pubblico interesse, ad una parte consistente della disciplina privatistica (in argomento, si veda, ad esempio, M. Giorgianni, Il diritto privato ed i suoi attuali confini, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1961, 391 ss).
[6] M. C. Cavallaro, Buona fede e legittimità del provvedimento amministrativo, in PA Persona e Amministrazione, 2022, 2, 139. In termini più puntuali, per quanto rileva in questa sede, come statuito dal Consiglio di Stato, l’affidamento integra «un principio generale dell’azione amministrativa che opera in presenza di una attività della pubblica amministrazione che fa sorgere nel destinatario l’aspettativa al mantenimento nel tempo del rapporto giuridico sorto a seguito di tale attività». Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, n. 5011/2020.
[7] F. Roselli, Appunti sull’affidamento come principio generale vincolante anche i soggetti pubblici, in Giustizia Civile, 2021, 2, 383.
[8] Si tratta di distinzioni poste in luce da M. Trimarchi, Buona fede e responsabilità della pubblica amministrazione, in PA Persona e Amministrazione, 2022, 2, 76 – 77.
[9] Occorre precisare, com’è stato opportunamente evidenziato, che l’affidamento integra «uno dei possibili elementi indicativi della correttezza», costituendo esclusivamente quest’ultima l’oggetto dell’accertamento condotto dal giudice. In tal senso, F. Manganaro, Principio di buona fede e attività delle amministrazioni pubbliche, Edizioni Scientifiche Italiane, 1995, 202.
[10] G. della Cananea, I principi del diritto pubblico globale, in M. Renna, F. Saitta (a cura di), Studi sui principi del diritto amministrativo, Giuffrè, 2012, 70. Quanto all’ultimo elemento tra quelli elencati, la giurisprudenza nazionale ha chiarito che, affinché la lesione dell’affidamento nel provvedimento favorevole annullato determini il sorgere della responsabilità della pubblica amministrazione, è necessario il «ragionevole convincimento» del destinatario in ordine alla legittimità del provvedimento medesimo. La responsabilità dell’amministrazione per lesione dell’affidamento è, di conseguenza, esclusa nell’ipotesi di evidente illegittimità ovvero laddove il destinatario abbia avuto contezza dell’avvenuta impugnazione del provvedimento. In tal senso, Ad. Plen., n. 19/2021.
[11] In tal senso, E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, Giuffrè, 2020, 391.
[12] Invero, l’esplicito richiamo al legittimo affidamento era stato previsto in sede di riforma della legge sul procedimento amministrativo, ma successivamente rimosso in occasione dell’approvazione definitiva della legge 11 febbraio 2005, n. 15. La soppressione, che ha riguardato anche i principi di efficienza e proporzionalità, è stata motivata in relazione all’assodata presenza dei principi in discorso all’interno dell’ordinamento nazionale, garantita dal richiamo all’ordinamento comunitario. In tal senso, M. T. P. Caputi Jambrenghi, Il principio del legittimo affidamento, in M. Renna, F. Saitta (a cura di), Studi sui principi del diritto amministrativo, Giuffrè, 2012, 161.
[13] Cass., Sez. Un., n. 8236/2020.
[14] G. Tulumello, La tutela dell’affidamento del privato nei confronti della pubblica amministrazione fra ideologia e dogmatica, in R. Ursi, G. Armao, C. Ventimiglia (a cura di), Liber Amicorum per Salvatore Raimondi, Editoriale Scientifica, 2022, 363.
[15] Secondo Cass., Sez. Un., n. 12428/2021, l’art. 1, comma 2 bis, L. n. 241/1990, imprimerebbe alla nozione di buona fede la funzione «di modellare l’esercizio del potere fronteggiato dall’interesse legittimo».
[16] Ad. Plen., n. 20/2021.
[17] M. G. Pulvirenti, Considerazioni sui principi di collaborazione e di buona fede nei rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione, cit., 116.
[18] Nel quadro del dibattito dottrinale più recente, la posizione di un confine tra l’affidamento legittimo e l’affidamento incolpevole ad un’impostazione intermedia tra quelle pubblicistica (che propugna l’applicazione della tutela ponderativa ad ambiti ulteriori rispetto a quello dell’autotutela) e privatistica (che intende elevare la buona fede a «parametro di validità» dell’intera attività amministrativa). In tal senso, G. Mannucci, L’affidamento nel rapporto amministrativo, cit., 33 ss.
[19] M. Trimarchi, Buona fede e responsabilità della pubblica amministrazione, cit., 79.
[20] F. Trimarchi Banfi, Affidamento legittimo e affidamento incolpevole nei rapporti con l’amministrazione, in Dir. Proc. Amm., 2018, 827.
[21] F. Trimarchi Banfi, Affidamento legittimo e affidamento incolpevole nei rapporti con l’amministrazione, cit., 825.
[22] Si tratta di riflessioni di C. Napolitano, Legittimo affidamento e risarcimento del danno: la Plenaria si pronuncia (nota a Cons. Stato, Ad. Plen., 29 novembre 2021, n. 20), in www.giustiziainsieme.it, 2021.
[23] Cons. Stato, Sez. V, n. 6389/2002.
[24] F. G. Scoca, Scossoni e problemi in tema di giurisdizione del giudice amministrativo, in Il Processo, 2021, 1, 10.
[25] Precisamente, l’azione risarcitoria, in quella determinata fattispecie, ha costituito l’unico mezzo adoperabile per tutelare il «diritto soggettivo all’integrità patrimoniale» e non un ulteriore mezzo di tutela dell’interesse legittimo rispetto a quelli demolitorio e conformativo, come nell’ambito della giurisdizione di legittimità. In tal senso, R. Caponigro, Questioni attuali in un dibattito tradizionale: la giurisdizione nei confronti della pubblica amministrazione, in www.federalismi.it, 2011.
[26] C. Napolitano, Potere amministrativo e lesione dell’affidamento: indicazioni ermeneutiche dall’Adunanza Plenaria, in Rivista Giuridica dell’Edilizia, 2022, 35.
[27] In tal senso, M. A. Sandulli, Il risarcimento del danno nei confronti delle pubbliche Amministrazioni: tra soluzione di vecchi problemi e nascita di nuove questioni (brevi note a margine di Cons. Stato, ad. plen. 23 marzo 2011 n. 3, in tema di autonomia dell’azione risarcitoria e di Cass. SS. UU., 23 marzo 2011 nn. 6594, 6595 e 6596, sulla giurisdizione ordinaria sulle azioni per il risarcimento del danno conseguente all’annullamento di atti favorevoli), in www.federalismi.it, 2011.
[28] Cfr. Cass., Sez. Un., n. 8236/2020, in cui si ripercorrono le ragioni sottese all’orientamento inaugurato dalle ordinanze gemelle.
[29] F. Trimarchi Banfi, Affidamento legittimo e affidamento incolpevole nei rapporti con l’amministrazione, cit., 852. Secondo l’Autrice, l’evidenziata connessione tra il dovere di correttezza che vincola una parte e l’onere di diligenza gravante sull’altra non sarebbe stata adeguatamente approfondita dalla giurisprudenza amministrativa.
[30] Cfr. Ad. plen., n. 5/2018. In questa sede, il comportamento scorretto dell’amministrazione è stato ritenuto incidente su un diritto soggettivo, precisamente «sul diritto soggettivo di autodeterminarsi liberamente nei rapporti negoziali».
[31] Cass., Sez. Un., n. 17586/2015; n. 19171/2017; n. 22435/2018; n. 6885/2019.
[32] Al di là del riparto di giurisdizione, molte nubi si addensano anche in ordine alla corretta individuazione della giurisdizione dello stesso giudice amministrativo: sul punto, F. Francario, L’incerto confine tra giurisdizione di legittimità e di merito, in questa Rivista, 22 giugno 2023
[33] Cass., Sez. Un., n. 8057/2016.
[34] In tal senso, si vedano Cass., Sez. Un., n. 13454/2017; n. 13194/2018.
[35] Cass., Sez. Un., 8236/2020.
[36] Ad. Plen., n. 5/2018.
[37] L’inquadramento evidenziato si riferisce al rapporto obbligatorio, non al contratto in quanto atto. In tal senso, Cass., Sez. Un., n. 8236/2020.
[38] Cfr. Ad. plen. n. 20/2021.
[39] E’, ad esempio, di tale avviso M. C. Cavallaro, Buona fede e legittimità del provvedimento amministrativo, cit., 142 ss.
[40] M. C. Cavallaro, L’azione di condanna nel giudizio amministrativo: questioni ancora aperte, in R. Ursi, G. Armao, C. Ventimiglia (a cura di), Liber Amicorum per Salvatore Raimondi, cit., 109 – 110.
[41] G. Serra, Legittimo affidamento del privato nei confronti della p.a. e riparto di giurisdizione: la storia infinita, in www.federalismi.it, 2021.
[42] Quanto al rapporto amministrativo che si sviluppa in seno al procedimento, si è ritenuto che l’affidamento possa nascere esclusivamente nel margine di scelta «che sta oltre le norme che governano l’agire dell’amministrazione», sostanziandosi in una pretesa interna al rapporto e strettamente connessa al potere. In tal senso, G. Mannucci, L’affidamento nel rapporto amministrativo, cit., 220.
[43] La giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia è una conseguenza dall’assenza del riferimento ai comportamenti anche mediatamente riconducibili al potere nel testo di cui al comma 4, dell’art. 7, c.p.a., che, nel definire l’ambito della giurisdizione di legittimità, menziona le sole controversie afferenti ad atti, provvedimenti ovvero omissioni delle amministrazioni. Le considerazioni riportate sono svolte da M. Trimarchi, Buona fede e responsabilità della pubblica amministrazione, cit., 100 ss.
[44] Sulla situazione giuridica soggettiva lesa, l’Adunanza Plenaria (n. 5/2018) ha parlato di un diritto soggettivo all’autodeterminazione nei rapporti negoziali, mentre la Corte di Cassazione (n. 8236/2020) ha identificato il predetto diritto nell’«aspettativa di coerenza e non contraddittorietà del comportamento dell’amministrazione fondato sulla buona fede». Ad avviso di F. G. Scoca, Scossoni e problemi in tema di giurisdizione del giudice amministrativo, cit., 11 – 12, l’aspettativa oggetto di tutela «si armonizza» con una delle «manifestazioni» dell’interesse legittimo; di conseguenza, la situazione giudica pregiudicata sarebbe qualificabile come interesse legittimo. In senso affine, si veda C.E. Gallo, La lesione dell’affidamento sull’attività della Pubblica Amministrazione, in Dir. proc. amm., 2016, 564 ss.
[45] F. G. Scoca, Scossoni e problemi in tema di giurisdizione del giudice amministrativo, cit., 10.
[46] A titolo esemplificativo, Ad. plen., n. 2/2013 inserisce i principi di correttezza e buona fede in una prospettiva privatistica.
[47] F. Manganaro, Principio di buona fede e attività delle amministrazioni pubbliche, cit., 121.
[48] F. Manganaro, Principio di buona fede e attività delle amministrazioni pubbliche, cit., 115 – 116. L’Autore ha, in particolare, rilevato (47 ss) che «alle origini del diritto romano, l’istituto della fides riguardava proprio rapporti di tipo non paritario, cioè rapporti giuridici in cui una delle parti esercitava un potere di supremazia sull’altra ed è in questo ambito che la buona fede veniva generalmente riconosciuta come limite all’esercizio del potere». Su tale linea, la tutela della buona fede risulterebbe maggiormente necessaria nel diritto amministrativo piuttosto che nel diritto privato.
[49] M. C. Cavallaro, Buona fede e legittimità del provvedimento amministrativo, cit., 145.
[50] In tal senso, Cass., Sez. Un., n. 615/2021, laddove «l’idea di un diritto amministrativo paritario» è ricondotta ai casi in cui il danno consegua alla «violazione delle regole di correttezza e buona fede, di diritto privato, cui la pubblica amministrazione è tenuta a conformarsi al pari di qualunque altro soggetto».
[51] G. Tulumello, La tutela dell’affidamento del privato nei confronti della pubblica amministrazione fra ideologia e dogmatica, cit., 368. In senso difforme, si è evidenziato che, invero, la paritarietà benvenutiana non avrebbe nulla a che vedere con una «presunta privatizzazione del rapporto amministrativo»; essa afferirebbe alla lungimirante «affermazione di diritti e prerogative che ribaltano la posizione di passiva subalternità del privato verso l’autorità che, in divenire, si fa funzione nel procedimento». L’opinione evocata è espressa da N. Paolantonio, Buona fede e affidamento delle parti, in PA Persona e Amministrazione, 2022, 2, 119.
[52] G. Tropea – A. Giannelli, Comportamento procedimentale, lesione dell’affidamento e giurisdizione del g.o., in www.giustiziainsieme.it, 2020.
[53] M. T. P. Caputi Jambrenghi, Il principio del legittimo affidamento, cit., 162. A. Police, La predeterminazione delle decisioni amministrative. Gradualità e trasparenza nell’esercizio del potere discrezionale, Edizioni Scientifiche Italiane, 1998, 71 – 72.
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