ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il non - processo amministrativo nel diritto dell’emergenza Covid 19.
di Fabio Francario
Sommario: 1.- Processo amministrativo, principi generali del processo e disciplina emergenziale. 2.- Il dl 8 marzo 2020 n 11; 3.- Il d.l. 17 marzo 2020 n. 18. 4.- Il dl 4 aprile 2020 n. 23. 5.- Considerazioni conclusive.
1. Processo amministrativo, principi generali del processo e disciplina emergenziale.
Nell’ambito delle disposizioni generalmente dettate per governare lo svolgimento dell’attività giudiziaria nel periodo dell’emergenza, i diversi decreti legge finora emanati stanno riservando al processo amministrativo un trattamento differenziato. La differenziazione finisce però con il dettare una disciplina che non sembra riconducibile ad alcun principio generale del processo, ingenerando il timore che il diritto dell’emergenza, attraverso una diminuzione oltre misura delle garanzie tipiche di un rimedio processuale giurisdizionale, stia nuovamente degradando il processo amministrativo ad una mera procedura di ricorso.
E’ noto che non basta fregiare una procedura di ricorso con l’appellativo di processo per poterla considerare tale [1] perché è necessario che l’esercizio della funzione giurisdizionale si svolga nel rispetto di principi fondamentali e di regole certe[2].
Nel caso del processo amministrativo ciò si è verificato anche in assenza della codificazione avvenuta con il d lgs 104/2010. Anzi, l’assenza di una compiuta codificazione ha fatto sì che il legame con i principi generali del processo sia sempre stato particolarmente forte, che questi abbiano spesso direttamente integrato le lacune esistenti nella disciplina quando i principi non erano chiaramente espressi da norme già codificate nel c.p.c.. In passato la più autorevole dottrina si è molto impegnata per chiarire che, se il c.p.c. rappresentava un termine di riferimento presso che obbligato per l’integrazione della lacunosa e frammentata disciplina del processo amministrativo, ciò non significava anche che nella ricostruzione degli istituti si dovesse rinunciare a guardare direttamente a principi comuni del diritto processuale[3]. In un costruttivo dialogo con l’Adunanza Plenaria e con la Corte costituzionale, proprio la continua ricerca e l’affinamento dei principi processuali generali ha consentito di chiarire, ben prima dell’entrata in vigore del codice, che quello amministrativo è un processo di parti[4], soggetto pertanto al principio della domanda, al principio dispositivo e al principio del contraddittorio, principi tutti che convivono con l’immanente principio di effettività della tutela giurisdizionale. Ciò ha consentito di ricostruire gli istituti processuali e di governare il processo con ragionevolezza e uniformità anche senza e ancor prima della codificazione del processo amministrativo.
Orbene, se si guardano le norme dettate per contrastare la situazione di emergenza che interessano il processo amministrativo si deve constatare non tanto il fatto che si differenzino da quelle dettate per la generalità degli altri processi, quanto piuttosto, a malincuore, che non rispondono ad alcun principio. Si disperdono infatti in una confusa e contraddittoria disciplina di dettaglio di cui non si sentiva affatto la necessità e che finisce con il produrre un generale disorientamento.
Che la tutela cautelare debba continuare ad essere erogata anche nei periodi di sospensione del processo, quale ne sia la causa, non è una graziosa concessione della attuale decretazione d’urgenza, ma l’applicazione di un fondamentale principio processuale comune, riconducibile al principio di effettività della tutela giurisdizionale, per il quale la tutela cautelare non può subire soluzioni di continuità[5]. Nel caso del processo amministrativo la decretazione non si è limitata a confermare quanto era ovvio e già insito nel sistema, e cioè che la tutela cautelare rimaneva fruibile nel periodo di sospensione e che i processi avrebbero ripreso a svolgersi nei termini e nelle forme ordinarie al termine della sospensione, precisando magari soltanto che le misure emergenziali in atto impedivano unicamente la trattazione orale che, come fatto per il periodo dell’emergenza dal processo civile, veniva sostituita da una comparizione figurata delle parti all’udienza camerale attraverso la presentazione di brevi note d’udienza. Si è invece diffusa nel ridisciplinare forme, tempi e modi del giudizio cautelare[6] e dello stesso giudizio di merito al termine della sospensione. Qualsiasi avvocato dedito alle cause amministrative[7] potrà testimoniare di non aver saputo più con certezza se, come e quando sarebbero state trattate le istanze cautelari durante il periodo dell’emergenza o se fosse tenuto espletare le attività difensive durante il periodo di sospensione o se quelle ugualmente espletate durante tale periodo possano considerarsi ugualmente valide per le udienze fissate al termine della sospensione o se la considerazione delle stesse dipenderà dalla personale interpretazione del giudice o ancora qual sia il loro rapporto con le brevi note che possono essere presentate due giorni prima dell’udienza[8].
2. Il dl 8 marzo 2020 n 11. In verità le cose non erano partite tanto male. Il dl 8 marzo 2020 n 11 detta misure straordinarie per contrastare l’emergenza epidemiologica e contenere gli effetti negativi con riferimento esclusivamente allo svolgimento dell’attività giudiziaria. Con maggior chiarezza rispetto alle analoghe disposizioni dettate per i giudizi civili, penali, tributari e militari, con specifico riferimento al processo amministrativo l’art 3 del decreto prevede di governare l’emergenza applicando eccezionalmente l’istituto processuale della sospensione dei termini (primo comma: “Le disposizioni di cui all’articolo 54, commi 2 e 3, del codice del processo amministrativo di cui al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, si applicano altresì dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino al 22 marzo 2020”). Applicazione logica e razionale dell’istituto processuale che la dottrina processualistica ha sempre ritenuto naturalmente deputato a regolare lo svolgimento dell’attività giudiziaria non solo nel caso delle ferie estive, ma anche in ipotesi di eventi calamitosi[9]. Connaturati al regime di tale istituto, che per i principi codificati nell’art 298 c.p.c. comporta l’interruzione dei termini in corso e un vero e proprio divieto di compiere gli atti processuali, sono l’assoggettamento al regime di sospensione di tutti i termini processuali [10] e, come già ricordato, l’esclusione della tutela cautelare, che deve continuare ad essere garantita per assicurare il rispetto del principio di effettività della tutela giurisdizionale[11]. L’imprevedibilità della sospensione e le particolari ragioni che hanno imposto la sospensione, dovuta alla necessità di evitare spostamenti da e per gli uffici giudiziari e assembramenti negli uffici medesimi per udienze e attività di cancelleria varie, hanno poi logicamente richiesto due particolari accorgimenti: lo spostamento delle udienze già fissate nel periodo di sospensione al termine della stessa (primo comma, secondo cpv: “A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto e sino al 22 marzo 2020, le udienze pubbliche e camerali dei procedimenti pendenti presso gli uffici della giustizia amministrativa sono rinviate d’ufficio a data successiva al 22 marzo 2020”) e la eliminazione della udienza camerale, sostituita dalla pronuncia con provvedimento cautelare provvisorio adottato in forma monocratica (“I procedimenti cautelari, promossi o pendenti nel medesimo lasso di tempo, sono decisi, su richiesta anche di una sola delle parti, con il rito di cui all’articolo 56 del medesimo codice del processo amministrativo e la relativa trattazione collegiale è fissata in data immediatamente successiva al 22 marzo 2020”).
Sotto questo profilo la normazione recata dall’art 3 del dl 11/2020 non ha posto particolari problemi interpretativi, tranne che per il caso in cui non fossero state ricalendarizzate le udienze in modo da evitare che venissero in scadenza nel periodo si sospensione i termini a difesa calcolati a ritroso dall’udienza. Problema comunque agevolmente risolvibile chiedendo in tal caso di essere rimessi in termini, possibilità peraltro espressamente prevista dal medesimo decreto (art 3, comma 7).
Per lo svolgimento delle udienze al termine del periodo di sospensione l’art 3 aveva poi previsto, al quarto comma, il passaggio in decisione “sulla base degli atti, salvo che almeno una delle parti abbia chiesto la discussione in udienza camerale o in udienza pubblica con apposita istanza da notificare alle altre parti costituite e da depositare almeno due giorni liberi prima della data fissata per la trattazione”, udienza che si sarebbe comunque svolta con collegamento da remoto (comma 5).
Un improvvido parere reso dal Consiglio di Stato nell’Adunanza della Commissione speciale del 10 marzo ha però inspiegabilmente escluso che si fosse di fronte ad un’applicazione eccezionale dell’istituto della sospensione dei termini processuali contemplato dall’art 54 del d lgs 104/2010, e che si dovesse ritenere in realtà sospeso unicamente il termine per la notifica del ricorso originando un’incertezza interpretativa della quale francamente non si sentiva alcuna necessità[12].
3. Il d.l. 17 marzo 2020 n. 18. L’art. 84 del d.l. 17 marzo 2020 n. 18 dispone l’abrogazione dell’art 3 del dl 11/2020 regolando diversamente il regime della sospensione, che viene prorogata fino al 15 aprile. La nuova disciplina[13], se per un verso elimina l’incertezza interpretativa originata dal parere del Consiglio di Stato, precisando che sono sospesi “tutti i termini relativi al processo amministrativo”, per l’altro introduce significative innovazioni. Laddove secondo l’art 3 del d.l. 11/2020 la trattazione della domanda cautelare, con decreto monocratico, durante il periodo di sospensione, rimaneva comunque un’eventualità rimessa all’iniziativa di parte, onerata di presentare apposita istanza in tal senso, a prescindere dalla sussistenza dei più restrittivi presupposti richiesti dal primo comma dell’art 56 del d.lgs. 104/2010 (“caso di estrema gravità e urgenza”, in luogo del “pregiudizio grave e irreparabile” richiesto dall’art 55 primo comma per le misure cautelari collegiali); nell’art. 84 viene invece escluso che la trattazione (monocratica) possa dipendere da un’iniziativa di parte e viene imposta come forma “ordinaria” di trattazione durante il periodo della sospensione: “I procedimenti cautelari, promossi o pendenti nel medesimo lasso di tempo, sono decisi con decreto monocratico dal presidente o dal magistrato da lui delegato, con il rito di cui all’articolo 56 del codice del processo amministrativo, e la relativa trattazione collegiale è fissata a una data immediatamente successiva al 15 aprile 2020” (art 84 comma 1, terzo cpv). Opportunamente, si dispone però che la decisione monocratica venga assunta “nel rispetto dei termini di cui all’articolo 55, comma 5, del codice del processo amministrativo” (non prima quindi di venti giorni dalla notifica e di dieci dal deposito), facendo salva la possibilità della parte di chiedere, al ricorrere dei già ricordati più restrittivi presupposti richiesti dal primo comma dell’art. 56, la pronuncia monocratica non solo “secondo il rito” ma “ai sensi” dell’art. 56, senza attendere pertanto i termini di cui all’art 55.
Come eccezione nell’eccezione, il secondo comma dell’art 84 prevede inoltre la possibilità che le controversie possano essere comunque trattate, sia in udienza camerale sia in udienza pubblica, nel periodo compreso tra il 6 e il 15 aprile, ove vi sia l’accordo delle parti; rendendo in tal modo disponibile alle parti la sospensione del processo. Tralasciamo ogni considerazione sulla disposizione dettata, evidentemente sempre “in deroga a quanto previsto dal comma 1”, per la trattazione nel medesimo periodo 6 – 15 aprile dei procedimenti cautelari in cui sia stato emanato decreto monocratico di accoglimento totale o parziale della domanda cautelare.
Al quinto comma, l’art 84 del d.l. 18/2020 conferma la previsione, già recata dall’art 3 del dl 11/2020, di un periodo, che si suppone di transizione verso il rispristino della normalità, nel quale le controversie, sia di merito che cautelari, vengono decise seguendo una procedura semplificata che, in deroga al disciplina ordinaria recata dal codice del processo amministrativo, a fini acceleratori, esclude la discussione in udienza pubblica o camerale: “Successivamente al 15 aprile 2020 e fino al 30 giugno 2020, in deroga alle previsioni del codice del processo amministrativo, tutte le controversie fissate per la trattazione, sia in udienza camerale sia in udienza pubblica, passano in decisione, senza discussione orale, sulla base degli atti depositati, ferma restando la possibilità di definizione del giudizio ai sensi dell’articolo 60 del codice del processo amministrativo, omesso ogni avviso”.
4. Il dl 4 aprile 2020 n. 23. L’art 36 del dl 4 aprile 2020 n. 23 al primo comma ha prorogato fino all’11 maggio 2020 la sospensione per i processi civili, penali, tributari e militari e dettato nuovamente una disposizione atipica per il processo amministrativo al terzo comma, prevedendo che “Nei giudizi disciplinati dal codice del processo amministrativo sono ulteriormente sospesi, dal 16 aprile al 3 maggio 2020 inclusi, esclusivamente i termini per la notificazione dei ricorsi, fermo restando quanto previsto dall’articolo 54, comma 3, dello stesso codice”.
Viene dunque nuovamente distorta l’applicazione logica e lineare dell’istituto della sospensione dei termini, riproducendo la già criticata e incomprensibile teorizzazione proposta dal Consiglio di Stato nel parere reso dalla Commissione speciale nell’adunanza del 10 marzo 2020 con riferimento al dl 11/2020. Dopo che il dl 18/2020 aveva chiarito che la sospensione dovuta all’emergenza Covid 19 si applicasse “a tutti” i termini processuali.
Si è già detto che rimane in assoluto incomprensibile la logica di ritenere che le peculiari ragioni alla base della attuale eccezionale sospensione dei termini per contrastare l’emergenza Covid 19 impongano la sospensione del solo termine di proposizione del ricorso. Il problema sembrava sopito ma è stato riproposto con forza dal nuovo decreto, costringendo la dottrina a tornare immediatamente sul tema per sottolineare quanto è forse ancora più grave ; e cioè come possa mai “dirsi “equo e imparziale” e rispettoso del principio “della parità delle parti” un processo in cui –nonostante il Governo abbia ritenuto che l’emergenza pandemica fosse ancora tale da giustificare la sospensione dei termini giudiziali civili, penali, tributari e contabili e di quelli per la notifica dei ricorsi dinanzi al giudice amministrativo – le parti (tendenzialmente quelle resistenti e controinteressate) che, per pura (drammatica e assolutamente non prevedibile) ventura, si sono trovate a incorrere nelle scadenze di cui all’art. 54 c.p.a. nel periodo tra il 16 aprile e il 3 maggio prossimi), non possono adeguatamente difendersi contro le censure, le eccezioni e i rilievi che le loro controparti hanno potuto “tranquillamente” redigere e “documentare” in un periodo anteriore all’emergenza (circostanza che, evidentemente, consente a queste ultime una più agevole e limitata produzione documentale e difensiva in vista dell’udienza”[14].
Detto in altri termini: essendo venuta meno la possibilità di chiedere fondatamente la rimessione in termini in vista delle udienze la cui fissazione richieda lo svolgimento dell’attività difensiva nel suddetto arco temporale, la falsa sospensione dei termini obbliga le parti a riaprire e tenere aperti gli studi professionali per poter preparare e svolgere comunque l’attività difensiva nel perdurare dell’emergenza sanitaria e poco importa se l’avvocato non avrà tempo e modo di predisporre le attività difensive (si suppone per le medesime ragioni che inducono a sospendere il termine per la predisposizione e notifica dei ricorsi): la causa passa comunque in decisione all’udienza già fissata. Al di là della mancata considerazione dell’esigenza sanitaria che è alla base di tutte le disposizioni emergenziali, ciò in buona sostanza significa che la disciplina del processo amministrativo, differentemente da quella degli altri processi giurisdizionali, non si preoccupa di garantire la pienezza del contraddittorio, consentendo di sollevare più che fondati dubbi sulla sua costituzionalità[15].
Oltre a quello relativo alla ratio normativa, la disposizione pone comunque anche innumerevoli problemi esegetici, solo in parte risolti dalla relazione illustrativa che precisa che il riferimento ai “ricorsi” comprende quelli “di primo e secondo grado: introduttivo, appello, incidentale e per motivi aggiunti, ecc.”, sui quali non ci si vuole per il momento soffermare preferendo giungere alle osservazioni conclusive del discorso sin qui svolto.
5.- Considerazioni conclusive.
Il solo balletto cui si è assistito, su come debba intendersi l’istituto processuale della sospensione nel giudizio amministrativo (tutti i termini; no, solo quelli per ricorrere; tutti i termini; no, solo quelli per ricorrere), è fatto di per sé deprecabile perché fornisce il classico esempio di una prassi che è la causa prima della paralisi dei processi decisionali di qualsivoglia operatore giuridico in qualsivoglia settore dell’ordinamento: iperproduzione normativa, continuamente cangiante con meccanismi di pura e semplice sovrapposizione alle normative preesistenti, con effetto di disorientamento finale.
Ma in questa sede preme sottolineare che (solo) nel caso del processo amministrativo la disciplina dell’istituto della sospensione si allontani dal rispetto di principi comuni di diritto processuale per approdare ad una falsa sospensione priva di qualsivoglia ratio normativa.
La preoccupazione forse più grave è che tutte queste incertezze interpretative siano al fondo ingenerate da una tendenza volta a diminuire le garanzie processuali nei giudizi amministrativi. Le incertezze interpretative di questa decretazione d’urgenza sono all’evidenza ingenerate da una disciplina eccessivamente analitica che, per un verso, condiziona la rimodulazione in concreto dei calendari delle udienze collegiali come se questi fossero noti al legislatore e come se la finalità da perseguire non fosse quella di evitare gli spostamenti degli operatori da e verso gli uffici giudiziari e gli assembramenti al loro interno per udienze e attività di cancelleria; e che, per l’altro, non si preoccupa di garantire che tale rimodulazione prima di ogni altra cosa dovrebbe invece garantire il rispetto della pienezza del contraddittorio.
Ciò lascia più o meno chiaramente intravedere un disegno che potrebbe prendere corpo nel futuro prossimo venturo, una volta terminata l’emergenza, secondo il quale si potrà praticamente fare a meno di tutta l’attività processuale delle parti diversa dalla proposizione delle domande (memorie, repliche, produzioni documentali, richieste istruttorie e trattazione orale).
La strisciante ma costante riduzione delle garanzie tipiche di un processo giurisdizionale rischia così di ricondurre il processo amministrativo nei limiti originari di una procedura paragiurisdizionale, correndo il rischio, paventato da un insigne Maestro, derivante dal fatto che “se si riconosce al ricorrente la sola potestà di dar vita ad un processo mentre nel contempo sia attribuito al giudice, anche in via concorrente, il potere di determinare l’oggetto del giudizio o la sua effettiva estensione … in realtà si nega in un tale processo ogni garanzia di giustizia”[16].
E’ un rischio che deve essere assolutamente scongiurato per evitare che venga depotenziata l’efficacia e incisività dell’intervento giurisdizionale (non penale) nei confronti dell’attività contra jus della pubblica amministrazione.
A maggior ragion se nell’immediato futuro si dovranno assicurare efficienza e legalità di un piano straordinario di rilancio dell’economia[17].
[1] E. Fazzalari, Procedimento e processo (teoria gen.), in Enc. Dir., XXXVII, Milano, 1987, 821 ss.
[2] “Il processo è uno strumento che fornisce certezza in quanto risolve una situazione d’incertezza che origina la controversia; esso deve essere il più possibile certo” (così C. E. Gallo, Contributo allo studio della invalidità degli atti processuali nel giudizio amministrativo, Milano, 1983, 34). In tema v. di recente i contributi raccolti in F. Francario, M.A. Sandulli (a cura di), Principio di ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica, Editoriale scientifica, Napoli, 2018 e in F. Francario, M.A. Sandulli (a cura di), La sentenza amministrativa ingiusta e i suoi rimedi, Editoriale scientifica, Napoli, 2018.
[3] Per tutti v. M. Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna, 1979, 301, 302: “Per note ragioni storiche le leggi processuali civili sono diventate la sede di norme che, per il fatto di esprimere o richiamare principi fondamentali del nostro ordine costituzionale o da questi immediatamente derivanti – perché relativi all’esercizio del potere giurisdizionale considerato nella sua essenza unitaria e in rapporto all’autonomia dei soggetti giuridici, costituzionalmente tutelata – valgono per tutti i processi; o di norma tecniche che esprimono principi valevoli ugualmente per tutti i processi ma per ragioni diverse dalla precedente, cioè per il fatto di ricollegarsi alla fondamentale unitaria natura della norma processuale proprio come norma secondaria , dalla quale scaturisce l’identica funzione tecnica di alcuni istituti quale che sia il processo in cui trovano attuazione. La fonte principale d’integrazione diretta del diritto processuale amministrativo è data da questi principi, che non sono però principi propri del processo civile, ma principi di un diritto processuale comune, pur se questo ha la sede di elezione nella legge processuale civile”. Sul significato e sui limiti dell’attuale rinvio dell’art 39 c.p.a. al c.p.c. v. G.P. Cirillo, Diritto processuale amministrativo, Milano, 2017, 11.
[4] Per tutti v. E. Cannada .- Bartoli, voce Processo amministrativo (considerazioni introduttive), in Noviss Dig. It., XIII, 1966, 1077 ss.
[5] Cfr. F. Francario, Regolamento di competenza e tutela cautelare nel processo amministrativo, Napoli, 1990, V. anche M.A. Sandulli, La fase cautelare, in Diritto processuale amministrativo, 4/2010.
[6] C. Saltelli, Note sulla tutela cautelare dell’art 84 del d.l. 27 marzo 2020 n. 18, in Giustamm.it, sottolinea efficacemente che “se sono auspicabili riforme del sistema della giustizia amministrativa per garantire una risposta sempre più pronta ed efficace alle istanze dei cittadini, devono invece sicuramente evitarsi interventi asistematici e parziali di per sé idonei a garantire e ad accrescere la qualità della risposta giurisdizionale”
[7] Non sarebbe inutile ricordare anche la sottolineatura fatta da V. Domenichelli, Sulla ragionevolezza dei termini nel processo amministrativo, in F. Francario, M.A. Sandulli, Principio di ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica, cit. 371, per cui “i termini processuali sono un incubo e possono togliere il sonno agli avvocati”
[8] Chi abbia dubbi può comunque vedere gli approfondimenti tematici a cura di T. Cocchi, B. Gargari e V. Sordi, in www.giustamm.it. , e la rassegna statistica di G. Veltri, in www.giustizia-amministrativa.it, “emergenza coronavirus”. Si veda in ogni caso il comunicato del 10 aprile 2020 dell’Unione Nazionale Avvocati Amministrativisti avente oggetto “D.L. 8 aprile 2020 n. 23 e giustizia amministrativa”.
[9] S. Cassarino, Manuale di diritto processuale amministrativo, Milano, 1990, 237: “Fra le cause più note di sospensione o di proroga dei termini si possono ricordare gli eventi bellici, le calamità naturali, il mancato funzionamento degli uffici giudiziari, le ferie estive. … La sospensione per calamità naturali (terremoti, mareggiate, alluvioni etc) è disposta dal legislatore (di solito dal Governo con decreto legge) il quale stabilisce il periodo di sospensione”.
[10] Si suol dire che con la sospensione il processo entra in una fase di quiescenza, e cioè che pende ma non procede: cfr. E.T. Liebman, Sulla sospensione propria e “impropria del processo, in Riv. Dir. Proc., 1958, 153 ss; F. Cipriani, Sospensione, in Enc. Giur. Treccani, XXX, Roma, 2004; C. Punzi, L’interruzione del processo, Milano, 1963284 ss; S. Menchini, Sospensione del processo civile, in Enc dir., XLIII, Milano 1990, 55.
[11] V. ante sub nt 16.
[12] L’interpretazione del Consiglio di Stato è stata unanimemente criticata dai commenti dottrinali immediatamente dedicati al d.l. 11/2020. V. in ptcl F. Francario, L’emergenza coronavirus e le misure straordinarie per il processo amministrativo, In Federalismi.it; M.A. Sandulli, Sospensione dei termini processuali dall’8 al 22 marzo: il Parere del CdS sulle misure urgenti anti-COVID-19 non risolve ma aumenta l’insicurezza, in Lamminstrativista.it; F. Volpe, Commento all’art 3, D.L. 8 marzo 2020, n. 11, in LexItalia.it, ai quali adde anche gli Autori citati sub nota seguente.
[13] Per i primi commenti v. F. Francario, L’emergenza Coronavirus e la “cura” per la giustizia amministrativa. Le nuove disposizioni straordinarie per il processo amministrativo, in Federalismi.it – Osservatorio emergenza Covid 19, 23 marzo 2020; M.A.Sandulli, Vademecum sulle ulteriori misure anti Covid 19 in materia di giustizia amministrativa: l’art 84 del decreto “cura Italia”, in Lamministrativista.it ; Id. I primi chiarimenti del Presidente del Consiglio di Stato sul decreto “cura Italia”, ivi; F. Saitta, Sulla decisione di prevedere una tutela cautelare monocratica ex officio nell'emergenza epidemiologica da Covid-19: chi? come? ma soprattutto, perché?, in Federalismi.it – Osservatorio emergenza Covid 19, 6 aprile 2020; N. Paolantonio, Il processo amministrativo dell’emergenza : sempre più speciale, in Giustamm.it.; F. Volpe, Riflessioni dopo una prima lettura dell’art. 84, D.L. 17 marzo 2020, n. 18 in materia di processo amministrativo, in Lexitalia.it.; C. Cataldi, La giustizia amministrativa ai tempi del Covid 19, in Giustamm.it.
[14] M.A. Sandulli, Nei giudizi amministrativi la nuova sospensione dei termini è riservata alle azioni: neglette le posizioni dei resistenti e dei controinteressati e il diritto al pieno contraddittorio difensivo, in Federalismi.it, Osservatorio emergenza COVID 19, 9 aprile 2020; Id., Nei giudizi amministrativi la nuova sospensione dei termini è 'riservata' alle azioni. Con postilla per una proposta di possibile soluzione, ivi.
[15] M.A. Sandulli, op. ult. Cit.
[16] F. Benvenuti, L’istruzione nel processo amministrativo, Padova, 1953, 36.
[17] Per questi profili si rinvia a F. Francario, Guido Corso, Guido Greco, Maria Alessandra Sandulli e Aldo Travi, In difesa di una tutela piena nei confronti della pubblica amministrazione, pubblicato su www.giustizia-amministrativa.it .
I “Fratelli minori” di Contrada e le possibili conseguenze nei rapporti con la Corte europea dei diritti dell’uomo: note a margine di SS.UU. n. 8544 24.10.2019 – 3.3.2020 Genco.
di Marina Silvia Mori
Ancora sulla sentenza a Sezioni Unite n. 8544/2020 (ric. Genco) in tema di concorso esterno in associazione mafiosa e sulle ricadute della sentenza di Corte EDU Contrada (n. 3) contro Italia. Nel testo si esaminano alcune delle problematiche riscontrabili nella pronuncia di legittimità, in particolare in relazione alle sentenze della Corte europea che individuano violazioni strutturali al di fuori delle procedure “pilota” e “quasi – pilota”, alle modalità di adeguamento già poste in essere in passato dall’ordinamento interno e, infine, alle conseguenze che la pronuncia Genco potrebbe comportare, non solo nei confronti dei condannati per concorso esterno per fatti precedenti alla sentenza Demitry.
Sommario: 1.Premessa. 2. Il mito della sentenza pilota e l’individuazione della violazione strutturale. 3.Gli effetti generali e speciali della pronuncia: l’impasse sulle violazioni strutturali non conclamate e la inefficacia sopravvenuta dei rimedi interni. 4. I possibili sviluppi.
1. Premessa.
Il reato di concorso esterno in associazione mafiosa e, in particolare, la sua applicazione nella vicenda Contrada continuano a essere un indiscutibile nervo scoperto per l’ordinamento italiano. Dopo i ripetuti interventi della Cassazione nella sua composizione più ampia[1], per la definizione dei margini applicativi di una fattispecie astratta dalla connotazione sfuggente, la notissima e assai commentata sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che concludeva la sorte del terzo ricorso presentato dall’ex dirigente del SISDE[2], è stata l’indiretto (ma obbligato) oggetto di una pronuncia del Supremo Consesso in ordine alla possibilità di estenderne il principio a coloro i quali, pur non avendo adito la Corte europea, si trovassero in una situazione analoga a quella di Contrada.
È indubbio, infatti, che la massima parte delle motivazioni della sentenza Genco è incentrata su un esame delle caratteristiche della pronuncia Contrada (n. 3).
Si eviterà in questa sede di affrontare specifiche prese di posizione della sentenza europea (prime fra tutte, il “reato di creazione giurisprudenziale” e l’attribuzione alla sentenza Demitry di connotazioni tali da integrare mutamento in malam partem), che hanno già abbondantemente occupato il dibattito dottrinale[3] e che sono state riprese, per lo più in termini significativamente critici, da varie pronunce di legittimità.
Si cercherà, invece, esaminate alcune caratteristiche delle sentenze della Corte EDU, di comprendere se la pronuncia delle Sezioni Unite potrà avere – e quali – conseguenze sui rapporti con la Corte alsaziana, in relazione in particolare alla esecuzione delle sentenze nei confronti dell’Italia.
Come noto, le Sezioni unite della Corte di Cassazione, su rinvio della Sesta Sezione Penale, dirimevano la questione di diritto sollevata dalla Sezione rimettente esprimendo il seguente principio: “I principi affermati dalla sentenza della Corte EDU del 14 aprile 2015, Contrada contro Italia, non si estendono nei confronti di coloro che, estranei a quel giudizio, si trovino nella medesima posizione quanto alla prevedibilità della condanna per il reato di concorso esterno in associazione a delinquere di tipo mafioso, in quanto la sentenza non è una sentenza pilota e non può considerarsi espressione di una giurisprudenza europea consolidata”.
L’attenzione delle Sezioni Unite si è, in particolare, soffermata sulle caratteristiche della pronuncia europea, riprendendo note indicazioni offerte dalla Corte Costituzionale, per escludere la possibilità di un suo recepimento da parte dell’ordinamento interno che potesse superare gli obblighi di adeguamento imposti dall’art. 46 della Convenzione europea, che riguarderebbero la sola posizione giuridica del singolo ricorrente vittorioso a Strasburgo.
2. Il mito della sentenza pilota e l’individuazione della violazione strutturale
Il requisito di “sentenza pilota”, ripreso direttamente dai parametri evidenziati dalla sentenza 49/2015 della Corte Costituzionale per individuare un potere “espansivo” di una sentenza della Corte EDU, costituirebbe una etichetta indicatrice di una violazione strutturale: di conseguenza, lo Stato non potrebbe sottrarsi all’adeguamento e dovrebbe predisporre misure strutturali idonee a sanare la problematica individuata dalla Corte europea.
Se è indubbio che la sentenza pilota individua una violazione strutturale, la corrispondenza è solo univoca, in quanto è falso il ragionamento inverso per cui ogni violazione strutturale sarebbe necessariamente individuata attraverso una sentenza pilota.
La procedura pilota è codificata nell’art. 61 del Regolamento della Corte[4], norma modificata nel 2011 che, nella nuova formulazione, cristallizzava una via procedurale già intrapresa in alcuni casi dalla Corte europea, espressione di esigenze di carattere essenzialmente pratico.
Il problema si pose, in particolare, con il caso Broniowski[5], complessa vicenda relativa ai risarcimenti in favore di coloro che erano stati rimpatriati in Polonia dopo la Seconda Guerra Mondiale e la fissazione dei nuovi confini dello Stato polacco. Per il significativo numero di ricorsi pendenti al momento della redazione della sentenza e di molti altri che, presumibilmente, sarebbero stati successivamente inviati[6], la Corte aveva valutato sia il rischio di un aggravamento della responsabilità dello Stato convenuto, sia, più prosaicamente, le difficoltà che la gestione di un tale numero di potenziali ricorsi, per quanto ripetitivi, avrebbe causato allo strumento convenzionale di protezione dei diritti.
Ne seguiva una valutazione ripresa in altre pronunce successive (anche non ascrivibili alla categoria delle sentenze pilota): premesso che non spetta alla Corte indicare le misure di adeguamento conseguenti all’obbligo di cui all’art. 46 della Convenzione, tuttavia, per l’imponente numero di potenziali vittime della medesima violazione, a giudizio della Corte si imponeva la adozione di misure di carattere generale adatte a rimediare al deficit strutturale da cui derivava la violazione individuata, con introduzione di rimedi nazionali anche, eventualmente, ad effetto retroattivo[7].
Due note questioni riguardanti l’Italia hanno, in particolare, portato all’applicazione della procedura pilota: in materia di sovraffollamento carcerario, per cui è stato stabilito un termine entro il quale lo Stato convenuto avrebbe dovuto approntare un rimedio interno che soddisfacesse i requisiti di accessibilità ed adeguatezza come ricavabili dall’art. 35 della Convenzione[8], e in relazione al mancato riconoscimento dell’indennità integrativa speciale per danno da trasfusione di emoderivati infetti[9].
La procedura pilota “in senso stretto”, utilizzata dalla Corte in circa quindici occasioni[10] insomma, trova la sua origine nella risoluzione di un problema eminentemente pratico di gestione dei ricorsi da parte della Corte europea, e si caratterizza per il numero significativamente elevato di potenziali ricorrenti che potrebbero adire la Corte di Strasburgo. Lo Stato, del resto, ha l’obbligo di evitare che la Corte sia destinataria di ricorsi ripetitivi[11] predisponendo le misure interne adeguate.
Per le caratteristiche della imputazione di concorso esterno in associazione mafiosa, che non pare coinvolgere un numero ipotetico di ricorrenti tale da mettere a rischio il funzionamento del meccanismo convenzionale, e per il ridotto numero di relativi ricorsi pendenti in Corte europea[12] l’abusato riferimento alla mancanza di “sentenza pilota” pare, francamente, una clausola di stile, né sarebbe ipotizzabile, da parte della Corte europea, l’utilizzo di detto meccanismo procedurale per invitare lo Stato a predisporre misure generali adeguate.
Oltre alle sentenze pilota in senso stretto, però, la Corte europea ha utilizzato nel tempo una seconda procedura, non espressamente qualificata nel Regolamento, caratteristica di casi in cui la sentenza individui comunque la necessità da parte dello Stato di introdurre misure di carattere generale per evitare la reiterazione di ricorsi aventi ad oggetto la medesima violazione. Nessuno potrebbe negare che sentenze come Sejdovic[13] o Scoppola[14], sebbene non qualificabili come “pilota” in senso stretto, abbiano affrontato violazioni sistemiche presenti nell’ordinamento italiano e che abbiano comportato, come conseguenza, l’adozione di strumenti generali – non necessariamente legislativi - atti a impedire nuove violazioni (in caso del processo contumaciale, incidentalmente, la riforma dell’art. 175 c.p.p. era già intervenuta prima della pronuncia della sentenza). Proprio le Sezioni Unite della Corte di Cassazione nella nota vicenda Ercolano[15] evidenziavano le caratteristiche della sentenza Scoppola come spia di una problematica strutturale, con un ragionamento che, evidentemente, non è stato condiviso dalla attuale composizione della Corte di legittimità nell’affrontare la problematica dei “Fratelli minori” di Contrada. Tra le decisioni più recenti, le sentenze Cestaro[16] e Marcello Viola (n. 2)[17] hanno certamente evidenziato ulteriori problemi strutturali dell’ordinamento italiano, sebbene in nessuna delle due pronunce sia indicata nel dispositivo la necessità di prevedere misure generali di intervento.
L’aspetto più significativo, però, della prassi della Corte europea, tra sentenze “pilota” e “quasi pilota”, e che purtroppo non è stato oggetto di esame da parte della sentenza Genco, è che una terza categoria di sentenze – tra le quali potrebbe essere inserita anche la Contrada (n. 3), per i motivi che si diranno – pur non contenendo l’esplicito accertamento della natura strutturale della violazione e nemmeno la specificazione relativa alla necessità di adozione di misure generali, evidenzia comunque problematiche sistemiche dell’ordinamento dello Stato convenuto[18].
Si pensi, ad esempio, alla sentenza Brazzi[19]: detta pronuncia non contiene, né nel dispositivo, né nella motivazione, un espresso riferimento alla necessità di introdurre rimedi generali a una violazione strutturale. La Corte evidenzia come la previsione di una verifica successiva alla perquisizione da parte di un giudice possa compensare l’assenza di un controllo ex ante sull’operato del pubblico ministero; nel caso di specie tale controllo successivo non era previsto, in quanto l’ordinamento italiano non consente la verifica giurisdizionale in assenza di sequestro. E, nel respingere l’eccezione del Governo in tema di ricevibilità, la Corte precisa: “Per quanto riguarda la posta in gioco oggettiva della causa, la Corte rileva che quest’ultima riguarda l’esistenza, nell’ordinamento italiano, di un efficace controllo giurisdizionale rispetto a una misura di perquisizione, ossia una questione di principio importante sia a livello nazionale che sul piano convenzionale”[20]. L’aspetto strutturale della violazione, insomma, non è inserito nel dispositivo e non è oggetto di espresse valutazioni ai sensi dell’art. 46, ma si annida nel giudizio prodromico di ricevibilità. Ne consegue che solo l’attenta lettura di una pronuncia e l’individuazione delle caratteristiche della violazione riscontrata, al di là di rigidi indicatori che peccano di artificiosità e mal si attagliano alle caratteristiche delle sentenze della Corte europea, consente di classificare come “strutturale” la carenza dell’ordinamento interno[21].
È appena il caso di evidenziare che la frase “la Corte constata che il reato in questione è stato il risultato di una evoluzione giurisprudenziale iniziata verso la fine degli anni ottanta del secolo scorso e consolidatasi nel 1994 con la sentenza Demitry. Perciò, all’epoca in cui sono stati commessi i fatti ascritti al ricorrente (1979-1988), il reato in questione non era sufficientemente chiaro e prevedibile per quest’ultimo. Il ricorrente non poteva dunque conoscere nella fattispecie la pena in cui incorreva per la responsabilità penale derivante dagli atti da lui compiuti”[22], sulla base delle premesse esposte, per come formulata è oggettivamente indicativa di una problematica suscettibile di valutazione anche in relazione a casi analoghi.
Un’indicazione utile, e con caratteristiche di oggettività, per rinvenire l’esistenza di una violazione strutturale caratteristica è ricavabile dalla scelta da parte del Comitato dei Ministri di prevedere una sorveglianza rafforzata sull’esecuzione di una determinata sentenza, procedura che infatti può riguardare anche sentenze non classificabili come pilota o quasi pilota. Lo Stato, cioè, diventa destinatario dell’onere di predisporre piani di azione e rapporti di azione con l’indicazione delle misure generali da approntare per fare fronte alla violazione sistemica. La sentenza Contrada (n. 3) è stata inserita dal Comitato dei Ministri tra i leading cases meritevoli di sorveglianza rafforzata[23].
Secondo la sentenza Genco, la circostanza non sarebbe invece decisiva, e il fatto che la Contrada (n. 3) non abbia individuato i rimedi interni generali da approntare porterebbe ad escludere una sua potenziale applicabilità estensiva[24].
Detta considerazione, alla luce della ricostruzione delle caratteristiche delle sentenze di Corte EDU, non è decisiva. Prima di tutto, anche nelle sentenze pilota più classiche, da Broniowski in poi, la Corte premette e precisa sempre di non avere tra le proprie prerogative quella di indicare o imporre il rimedio interno che lo Stato convenuto dovrebbe approntare per risolvere la violazione strutturale. Poi, come si è visto per le violazioni strutturali non conclamate, anche in questo caso la corrispondenza non è biunivoca: se l’indicazione delle misure generali consegue all’accertamento di una violazione strutturale, non tutte le violazioni strutturali sono individuabili grazie alla individuazione di misure generali. E già in passato la giurisprudenza interna ha sopperito alle carenze strutturali dell’ordinamento, sebbene fossero state evidenziate da una sentenza che non era stata emessa secondo i canoni della procedura pilota e che nemmeno conteneva la specificazione delle misure generali da assumere[25].
3. Gli effetti generali e speciali della pronuncia: l’impasse sulle violazioni strutturali non conclamate e la inefficacia sopravvenuta dei rimedi interni
La sentenza delle Sezioni Unite esclude sia la possibilità di utilizzare i parametri sopra individuati per verificare se la Contrada (n. 3) possa rientrare tra le sentenze indicatrici di una violazione strutturale, sia di affrontare la tematica dell’effetto di “chose interpretée” rispetto agli effetti della singola sentenza di Corte EDU[26], optando per la verifica della sussistenza dei parametri individuati dalla Corte Costituzionale per certificare la presenza di un orientamento “consolidato” nella giurisprudenza della Corte.
L’esclusione dell’orientamento consolidato sarebbe di per sé discutibile, specie in considerazione dello sbarramento imposto dalla Grande Camera al ricorso del Governo, del fatto che alcune delle sentenze regolarmente citate per escludere l’applicabilità dell’art. 7 CEDU al concorso esterno in associazione mafiosa patiscano il decorso del tempo e – quelle sì – il loro limitato ambito di applicazione[27], e che altre non siano, forse, state adeguatamente valorizzate[28].
Incidentalmente, in relazione al rigetto del ricorso in Grande Camera, è appena il caso di notare che, se il Governo avesse ritenuto profondamente errata la sentenza Contrada (n. 3), avrebbe potuto utilizzare le due procedure che il Regolamento prevede per superare la definitività di una pronuncia: la revisione (art. 80 Reg.) e la richiesta di interpretazione (art. 79 Reg.)[29], ad esempio in relazione all’esecuzione di eventuali misure generali, come detto non specificate nella sentenza.
Le conseguenze della pronuncia delle Sezioni Unite potrebbero essere diverse. Sotto un profilo generale, nel solco delle sentenze che hanno tentato di tipizzare le caratteristiche delle sentenze di Strasburgo passibili di estensione oltre l’effetto immediato e diretto nei confronti del ricorrente vittorioso, potrebbero essere difficilmente oggetto di esecuzione erga alios tutte le sentenze che non esplicitino l’esistenza di una violazione strutturale, con la conseguenza di rinviare alla Corte europea i ricorrenti con doglianze analoghe a quelle già esaminate da Strasburgo. Considerato che le uniche sentenze escluse (pilota e – forse – quasi pilota) sono un numero esiguo, rischierebbe allora di venir meno il principio di coordinamento tra ordinamenti interni e ordinamento sovranazionale finalizzato alla massimizzazione della tutela dei diritti fondamentali.
Per quanto i riguarda i cosiddetti “fratelli minori” di Contrada, viene in rilievo un ulteriore aspetto. È evidente che, a seguito della sentenza Genco e della valenza della composizione della Corte di legittimità che l’ha pronunciata, sarebbe al momento attuale ben difficile individuare un rimedio interno connotato da quei requisiti di adeguatezza che la Convenzione richiede per esaurire utilmente i ricorsi interni prima di accedere alla tutela sovranazionale. Quando un ricorso interno è votato all’insuccesso, non deve essere esperito, in particolare in presenza di una consolidata giurisprudenza interna sfavorevole al ricorrente[30]. L’attuale consolidamento verificatosi con la sentenza Genco potrebbe, allora, portare le persone interessate da condanne per concorso esterno in associazione mafiosa per fatti antecedenti alla sentenza Demitry a ricorrere direttamente a Strasburgo, senza dover prima esperire i rimedi interni (incidenti di esecuzione o revisioni europee che siano) che non offrirebbero possibilità di accoglimento. Sarebbero valutabili, inoltre, ulteriori violazioni, sia per la mancanza di un rimedio interno adeguato, sia per la discriminazione rispetto a chi, in una situazione giuridica sovrapponibile, abbia invece ottenuto la cessazione degli effetti penali della propria sentenza di condanna.
4. I possibili sviluppi
Il redde rationem di tutta la querelle sul concorso esterno potrebbe non essere lontano. Come si è anticipato, in Corte europea sono in fase di avanzata trattazione due procedure che sono quasi integralmente sovrapponibili alla Contrada (n. 3): Lo Sicco, comunicata al Governo il 5.7.2016 (e ignorata sia dalle Sezioni Unite che da vari commentatori) e la più nota Dell’Utri, comunicata al Governo il 16.11.2017. In particolare, per quanto qui di interesse, il ricorrente Dell’Utri nel ricorso introduttivo del dicembre 2014 lamentava la violazione dell’art. 7 sottolineando il carattere evanescente e privo di tipicità del delitto di concorso esterno, i cui elementi costitutivi tipici sono stati canonizzati solo in un momento molto successivo ai fatti oggetto della condanna, e l’applicazione del regime sanzionatorio più grave nonostante la parte più rilevante della condotta oggetto di condanna fosse precedente al 1982 e all’introduzione del delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso.
I quesiti posti dalla Corte al Governo[31], sempre limitandosi alla parte di interesse in relazione al presente contributo, sono i seguenti:
5. Les faits pour lesquels le requérant a été condamné étaient-t-ils constitutifs de l’infraction de concours externe en association de type mafieux avant le 13 septembre 1982 (date de l’entrée en vigueur de la loi no 646/1982 introduisant le délit d’association de malfaiteurs de type mafieux), au sens de l’article 7 de la Convention? En particulier, était-il suffisamment clair et prévisible que, en persévérant dans ses agissements répréhensibles postérieurement à l’entrée en vigueur de ladite loi, le requérant pouvait engager sa responsabilité sur la base de cette disposition à raison de ces mêmes agissements antérieurement à cette date (voir Rohlena c. République tchèque [GC], no 59552/08, CEDH 2015 et Veeber c. Estonie (no 2), no 45771/99, CEDH 2003‑I)?
6. L’infraction litigieuse était-elle définie, à l’époque des faits reprochés au requérant (jusqu’en 1992), avec suffisamment de clarté et de prévisibilité, au sens de l’article 7 de la Convention, pour permettre au requérant de savoir à l’avance que son comportement était répréhensible (Contrada c. Italie (no 3), no 66655/13, 14 avril 2015)?
7. Le requérant disposait-t-il d’un recours effectif au sens de l’article 13 de la Convention, pour faire valoir son grief tiré de l’article 7 à raison de l’absence de prévisibilité et clarté de la définition de l’infraction litigieuse?
Se la Corte europea, per le ragioni più disparate di ricevibilità o di merito, non giungesse ad individuare la violazione dell’art. 7 CEDU nei due casi citati, Contrada resterebbe figlio unico, e il possibile conflitto verrebbe solo posticipato.
Il problema si porrà se, però, Lo Sicco e Dell’Utri consolideranno (ulteriormente) l’interpretazione dell’art. 7 in relazione al concorso esterno in associazione mafiosa, pur con tutte le specificità dei singoli casi concreti. Le eventuali sentenze, infatti, potrebbero proseguire nel solco della Contrada (n. 3) senza esplicitare il carattere strutturale della violazione e senza indicare misure generali che, incidentalmente, nella questione oggetto di attenzione sfuggirebbero alla competenza della Corte, considerata anche la diatriba interna sull’eventuale rimedio esperibile, oggetto di rimessione alle Sezioni Unite. Certo è che il semplice richiamo alla pronuncia precedente, già esplicitato nei quesiti, fornirebbe comunque alle giurisdizioni interne un significativo elemento di valutazione di una possibile violazione strutturale non conclamata, e riproporrebbe la necessità di chiarire gli effetti di res interpretata delle sentenze della Corte EDU.
[1] Oltre alla sentenza Demitry (5.10.1994, spartiacque, secondo la Corte EDU, che avrebbe “fornito per la prima volta una elaborazione della materia controversa” e “finalmente ammesso in maniera esplicita l’esistenza del reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso nell’ordinamento giuridico interno” – Contrada c. Italia (n. 3), 14.4.2015, par. 69), si tratta, come noto, delle sentenze Carnevale (30.10.2002) e Mannino (12.7.2005).
[2] Contrada c. Italia (n. 3), cit.., ric. 66655/13. Le prime due decisioni della Corte europea sulla vicenda del ricorrente avevano, rispettivamente, escluso la sussistenza della violazione dell’art. 5 par. 5 CEDU (Contrada c. Italia, ric. 27143/95, 24.8.1998) e stabilito invece la violazione dell’art. 3 CEDU in relazione al mantenimento in detenzione nonostante le precarie condizioni di salute dell’interessato (Contrada c. Italia (n. 2), ric. 7509/08, 11.2.2014).
[3] Tra gli ultimi contributi in materia, in termini critici, si veda il recentissimo Cardamone, Le Sezioni Unite si pronunciano sulla non estensibilità degli effetti della sentenza della Corte EDU Contrada c. Italia del 14 aprile 2015 ai casi simili, Questione Giustizia.
[4] Nel testo inglese: “1. The Court may initiate a pilot-judgment procedure and adopt a pilot judgment where the facts of an application reveal in the Contracting Party concerned the existence of a structural or systemic problem or other similar dysfunction which has given rise or may give rise to similar applications. 2. (a) Before initiating a pilot-judgment procedure, the Court shall first seek the views of the parties on whether the application under examination results from the existence of such a problem ordysfunction in the Contracting Party concerned and on the suitability of processing the application in accordance with that procedure. (b) A pilot-judgment procedure may be initiated by the Court of its own motion or at the request of one or both parties. (c) Any application selected for pilot-judgment treatment shall be processed as a matter of priority in accordance with Rule 41 of the Rules of Court. 3. The Court shall in its pilot judgment identify both the nature of the structural or systemic problem or other dysfunction as established as well as the type of remedial measures which the Contracting Party concerned is required to take at the domestic level by virtue of the operative provisions of the judgment. 4. The Court may direct in the operative provisions of the pilot judgment that the remedial measures referred to in paragraph 3 above be adopted within a specified time, bearing in mind the nature of the measures required and the speed with which the problem which it has identified can be remedied at the domestic level. 5. When adopting a pilot judgment, the Court may reserve the question of just satisfaction either in whole or in part pending the adoption by the respondent Contracting Party of the individual and general measures specified in the pilot judgment. 6. (a) As appropriate, the Court may adjourn the examination of all similar applications pending the adoption of the remedial measures required by virtue of the operative provisions of the pilot judgment. (b) The applicants concerned shall be informed in a suitable manner of the decision to adjourn. They shall be notified as appropriate of all relevant developments affecting their cases. (c) The Court may at any time examine an adjourned application where the interests of the proper administration of justice so require. 7. Where the parties to the pilot case reach a friendly-settlement agreement, such agreement shall comprise a declaration by the respondent Contracting Party on the implementation of the general measures identified in the pilot judgment as well as the redress to be afforded to other actual or potential applicants. 8. Subject to any decision to the contrary, in the event of the failure of the Contracting Party concerned to comply with the operative provisions of a pilot judgment, the Court shall resume its examination of the applications which have been adjourned in accordance with paragraph 6 above. 9. The Committee of Ministers, the Parliamentary Assembly of the Council of Europe, the Secretary General of the Council of Europe, and the Council of Europe Commissioner for Human Rights shall be informed of the adoption of a pilot judgment as well as of any other judgment in which the Court draws attention to the existence of a structural or systemic problem in a Contracting Party. 10. Information about the initiation of pilot-judgment procedures, the adoption of pilot judgments and their execution as well as the closure of such procedures shall be published on the Court’s website.”
[5] Broniowski c. Polonia [GC], 22.6.2004.
[6] Broniowski, cit., par. 193: al momento della pronuncia risultavano pendenti 167 casi analoghi, ma il rimpatrio dai territori oltre confine aveva riguardato circa ottantamila persone, tutte nella stessa situazione giuridica di violazione dell’art. 1 Prot. 1.
[7] Broniowski, cit., par. 193. Si vedano anche Hutten-Czapska c. Polonia, 19.6.2006, par. 236; Rutkowski e altri c. Polonia, 19.6.2004. Per ulteriori approfondimenti sulla procedura pilota, Zagrebelsky – Chenal – Tomasi, Manuale dei diritti fondamentali in Europa, Il Mulino 2019, pag. 472 e ss.
[8] Torreggiani e altri c. Italia, 8.1.2013, par. 99: “les autorités nationales doivent sans retard mettre en place un recours ou une combinaison de recours ayant des effets préventifs et compensatoires et garantissant réellement une réparation effective des violations de la Convention résultant du surpeuplement carcéral en Italie. Ce ou ces recours devront être conformes aux principes de la Convention, tels que rappelés notamment dans le présent arrêt (…), et être mis en place dans un délai d’un an à compter de la date à laquelle celui-ci sera devenu définitif”.
[9] M. C. e altri c. Italia, 3.9.2013, con differimento di un anno dei ricorsi non esaminati e con indicazione, sia nella motivazione che nel dispositivo, della necessità di introdurre misure legislative e amministrative idonee ad assicurare il pagamento dell’indennità integrativa a chiunque ne avesse diritto.
[10] Per un elenco dettagliato comprensivo dei dati sull’incidenza della violazione strutturale e della modalità di gestione del contenzioso da parte della Corte, Saccucci, La responsabilità internazionale dello Stato per violazioni strutturali dei diritti umani, Editoriale Scientifica 2018, pag. 303 e ss., Tabella A.
[11] Nascimbene, Violazione «strutturale», violazione «grave» ed esigenze interpretative della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Rivista di diritto internazionale privato e processuale 3/2006, pag. 656, e riferimenti ivi. Tra le pronunce della Corte EDU sul punto, si veda ad es. Salah c. Paesi Bassi, 6.7.2006, par. 77.
[12] Per quanto disponibile sul sito ufficiale della Corte, in relazione ai ricorsi comunicati al Governo italiano – unici accessibili per una seppur parziale consultazione - risultano pendenti il ricorso Lo Sicco c. Italia (ric. 14417/09), comunicato il 5.7.2016, e il ricorso Dell’Utri c. Italia (ric. 3800/15), comunicato il 16.11.2017, sui quali si tornerà, più diffusamente, infra.
[13] Sejdovic c. Italia [GC], 10.11.2004, relativa al processo contumaciale e alla impossibilità di ottenere la celebrazione di un nuovo giudizio per chi non avesse avuto conoscenza effettiva del processo
[14] Scoppola c. Italia (n. 2) [GC], 17.9.2009, sulla applicazione retroattiva di una norma penale con effetti in malam partem.
[15] Cass. Pen. SS.UU. 19.4.2012, n. 34472: “di fronte a pacifiche violazioni convenzionali di carattere oggettivo e generale, già in precedenza stigmatizzate in sede europea, il mancato rimedio di cui all’art. 34 (ricorso individuale) e la conseguente mancanza, nel caso concreto, di una sentenza della Corte EDU cui dare esecuzione, non possono essere di ostacolo ad un intervento dell’ordinamento giuridico italiano, attraverso la giurisdizione, per eliminare una situazione di illegalità convenzionale (…) La sentenza della Corte EDU, G.C., 17/09/2009, Scoppola c. Italia, che viene in rilievo nel caso in esame, presenta i connotati sostanziali di una
[16] Cestaro c. Italia, 7.4.2015, parr. 243 – 246, che si riportano nella traduzione italiana a cura del Ministero della giustizia, in quanto emblematici dell’individuazione di problema strutturale al di fuori della ordinaria procedura pilota: “nell’ambito dell’analisi che riguarda il rispetto degli obblighi procedurali che derivano dall’articolo 3 della Convenzione, la Corte ha dichiarato che la reazione delle autorità non è stata adeguata (…). Dopo aver escluso negligenze o compiacenze da parte della procura o degli organi giudicanti, la Corte ha concluso che è la legislazione penale italiana applicata al presente caso ad essersi rivelata «inadeguata rispetto all’esigenza di sanzionare gli atti di tortura in questione e al tempo stesso priva dell’effetto dissuasivo necessario per prevenire altre violazioni simili dell’articolo 3 in futuro» (…). Il carattere strutturale del problema sembra quindi innegabile. Peraltro, tenuto conto dei principi posti dalla sua giurisprudenza relativa al profilo procedurale dell’articolo 3 (..) e ai motivi che l’hanno indotta nel caso di specie a giudicare sproporzionata la sanzione inflitta, la Corte ritiene che questo problema si ponga non soltanto per la repressione degli atti di tortura, ma anche per gli altri maltrattamenti vietati dall’articolo 3: mancando un trattamento appropriato per tutti i maltrattamenti vietati dall’articolo 3 nell’ambito della legislazione penale italiana, la prescrizione (…) come pure l’indulto (in caso di promulgazione di altre leggi simili alla legge n. 241 del 2006…) possono in pratica impedire non soltanto la punizione dei responsabili degli atti di «tortura», ma anche degli autori dei «trattamenti inumani» e «degradanti» in virtù di questa stessa disposizione, nonostante tutti gli sforzi dispiegati dalle autorità procedenti e giudicanti. 243. Per quanto riguarda le misure da adottare per rimediare a questo problema, la Corte rammenta innanzitutto che gli obblighi positivi imposti allo Stato in base all’articolo 3 possono comportare il dovere di istituire un quadro giuridico adatto, soprattutto per mezzo di disposizioni penali efficaci (…). 244. Come nella sentenza Söderman c. Svezia [GC], n. 5786/08, § 82, CEDU 2013, la Corte osserva, inoltre, che tale obbligo deriva, almeno in parte, anche da altre disposizioni internazionali quali, in particolare, l’articolo 4 della Convenzione contro la tortura e le altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti (…). Come sottolineano il ricorrente (…) e i terzi intervenienti (…), le osservazioni e le raccomandazioni del Comitato dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite, del CAT e del CPT vanno nella stessa direzione (…). 245. La competenza della Corte si limita, comunque, ad assicurare il rispetto degli obblighi che derivano dall’articolo 3 della Convenzione e, in particolare, ad aiutare lo Stato convenuto a trovare le soluzioni appropriate al problema strutturale individuato, ossia all’inadeguatezza della legislazione italiana. In effetti spetta in primo luogo allo Stato convenuto la scelta dei mezzi da utilizzare per adempiere al suo obbligo in base all’articolo 46 della Convenzione (…). 246. In questo quadro, la Corte ritiene necessario che l’ordinamento giuridico italiano si doti degli strumenti giuridici atti a sanzionare in maniera adeguata i responsabili degli atti di tortura o di altri maltrattamenti rispetto all’articolo 3 e ad impedire che questi ultimi possano beneficiare di misure che contrastano con la giurisprudenza della Corte.”
[17] Marcello Viola (n. 2) c. Italia, 13.6.2019, parr. 140 e ss.: “La Corte rammenta che, come interpretato alla luce dell’articolo 1 della Convenzione, l’articolo 46 crea per lo Stato convenuto l’obbligo giuridico non soltanto di versare agli individui interessati le somme accordate loro a titolo di equa soddisfazione, ma anche di scegliere, sotto il controllo del Comitato dei Ministri, le misure generali e/o, se del caso, individuali che si rendono necessarie per porre fine ai problemi all’origine delle constatazioni da essa operate e agli effetti degli stessi (…). Per agevolare il rispetto da parte dello Stato membro dei suoi obblighi derivanti dall’articolo 46, la Corte può, in via eccezionale, prevedere di indicare il tipo di misure individuali o generali auspicabili allo scopo di porre fine alla situazione di violazione constatata (…). 141. La presente causa mette in luce un problema strutturale che fa sì che un certo numero di ricorsi sono attualmente pendenti dinanzi alla Corte. In prospettiva, essa potrebbe dare luogo alla presentazione di molti altri ricorsi relativi alla stessa problematica. (…) 143. La natura della violazione riscontrata dal punto di vista dell’articolo 3 della Convenzione indica che lo Stato deve mettere a punto, preferibilmente su iniziativa legislativa, una riforma del regime della reclusione a vita che garantisca la possibilità di un riesame della pena, il che permetterebbe alle autorità di determinare se, durante l’esecuzione di quest’ultima, il detenuto si sia talmente evoluto e abbia fatto progressi tali verso la propria correzione che nessun motivo legittimo in ordine alla pena giustifichi più il suo mantenimento in detenzione, e al condannato di beneficiare così del diritto di sapere ciò che deve fare perché la sua liberazione sia presa in considerazione e quali siano le condizioni applicabili. La Corte considera, pur ammettendo che lo Stato possa pretendere la dimostrazione della «dissociazione» dall’ambiente mafioso, che tale rottura possa esprimersi anche in modo diverso dalla collaborazione con la giustizia e l’automatismo legislativo attualmente vigente. 144. Gli Stati contraenti godono di un ampio margine di apprezzamento per decidere la durata adeguata delle pene detentive per determinati reati, e il semplice fatto che una pena dell’ergastolo possa, in pratica, essere scontata nella sua totalità non la rende non riducibile (…). Di conseguenza, la possibilità di riesame della reclusione perpetua implica la possibilità per il condannato di chiedere una liberazione, ma non di ottenere necessariamente la scarcerazione se continua a costituire un pericolo per la società” (traduzione a cura del Ministero della giustizia).
[18] Per la suggestiva definizione di “violazioni strutturali invisibili”, Saccucci, cit., pag. 42 e ss., con ampia casistica in nota, che evidenzia anche l’impossibilità di individuare caratteristiche minime comuni di dette sentenze.
[19] Brazzi c. Italia, 27.9.2018.
[20] Brazzi, cit., par. 28 (traduzione italiana a cura del Ministero della giustizia).
[21] Per avere un’idea di quanto possa essere difficoltoso rinvenire un canone unitario nelle pronunce di Corte EDU, si pensi alle misure individuali che la Corte può indicare nella sentenza e che, a logica, dovrebbero risultare più agevolmente classificabili. Nella propria dissenting opinion a una nota sentenza in tema di esecuzione (Moreira Ferreira c. Portogallo (n. 2) [GC], 11.7.2017) il Giudice Pinto de Albuquerque ricostruisce ben dodici categorie diverse di misure individuali (contenute nel dispositivo o nella motivazione: Moreira Ferreira, cit., par. 16 della dissenting).
[22] Contrada (n. 3), cit., parr. 74-75.
[23] Cappelletti, Per le Sezioni Unite la sentenza Contrada c. Italia (n. 3) della Corte EDU non dispiega i suoi effetti erga omnes: i “fratelli minori” restano in attesa di riconoscimento da Strasburgo, in Giurisprudenza Penale Web, pag. 14. Si rinvia, in particolare, alla nota 34 del medesimo commento, nella quale è riportata relazione sullo stato d’esecuzione della sentenza Contrada (n. 3) presentata al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 12.4.2018.
[24] Si veda spec. pagg. 19-20 della sentenza.
[25] Cfr. supra, nota 15. Altro esempio significativo, oltre alla pronuncia Ercolano, si trae dall’intervento delle Sezioni Unite e della Consulta relativo agli effetti della sentenza De Tommaso c. Italia ([GC] 23.2.2017). Per una valutazione sul superamento dei criteri filtro e sull’utilizzo del bilanciamento nell’ottica di una maggiore estensione delle tutele, in opposizione alla pronuncia Genco, si veda Gaeta, Ipotesi di spiegazione sul revirement delle Sezioni unite circa la permeabilità dei princìpi europei nelle decisioni interne, Archivio Penale 2020, n. 1, pag. 4-5.
[26] La valenza di “cosa interpretata” delle sentenze della Corte rispetto a coloro che si trovino in situazioni analoghe a quella del ricorrente vittorioso (nei cui confronti le sentenze hanno valenza di “cosa giudicata”), nonché all’interno della stessa giurisprudenza della Corte, è materia complessa e non facilmente sintetizzabile. Già nel Mémorandum du Président de la Cour Européenne des Droits de l’Homme aux Etats en vue de la Conférence d’Interlaken il Presidente Costa, in relazione agli effetti estensivi di una pronuncia anche nei confronti di Stati non parti della controversia precisava: “Il n’est plus acceptable qu’un Etat ne tire pas le plus tôt possible les conséquences d’un arrêt concluant à une violation de la Convention par un autre Etat lorsque son ordre juridique comporte le même problème. L’autorité de la chose interprétée par la Cour va au-delà de la res judicata au sens strict. Une telle évolution ira de pair avec l’”effet direct” de la Convention en droit interne et avec son appropriation par les Etats” (testo poi trasfuso al punto 4c della Dichiarazione di Interlaken https://www.echr.coe.int/Documents/Speech_20090703_Costa_Interlaken_FRA.pdf), riportato anche nella dissenting di Pinto de Albuquerque in G.I.E.M. e altri c. Italia [GC], 28.6.2018, nota 161. Per un approfondimento, Sudre e a., Les grands arrêts de la Cour européenne del Droits de l’Homme, 2019, pag. 917 e ss. (La consolidation de l’autorité des arrêts). In relazione specificamente alla sentenza Genco, Esposito, Giochi di luce: quando il mostro diventa riconoscibile, Archivio Penale, 2020, 2.
[27] In particolare, S.W. c. Regno Unito, 22.11.1995.
[28] Ad esempio, Žaja c. Croazia, 4.1.2017. Sulle caratteristiche soggettive dell’imputato /ricorrente, ci si limita in questa sede a rinviare a Sotis, “Ragionevoli prevedibilità” e giurisprudenza della Corte Edu, Questione Giustizia 4/2018, spec. pag. 78, e Donini, Il caso Contrada e la Corte Edu. La responsabilità dello stato per carenza di tassatività/tipicità di una legge penale retroattiva di formazione giudiziaria, Rivista italiana di diritto e procedura penale, fasc.1, 2016, pag. 346, spec. par. 6 e ss.
[29] Zagrebelsky – Chenal – Tomasi, cit., pag. 493 e ss.
[30] Kleyn e a. c. Paesi Bassi, 6.5.2003, par. 156.
[31] Per il contenuto integrale dei quesiti posti dalla Corte, http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-179372
Il dialogo Habermas-Günther riletto dalla cultura giuridica italiana, parte prima.
Intervista di Roberto Conti a Gaetano Silvestri
Giustizia insieme, dopo avere ospitato il confronto fra Habermas-Günther messo a disposizione dal settimanale tedesco Die Zeit, nella sua versione italiana - Jürgen Habermas e Klaus Günther Diritti fondamentali: “Nessun diritto fondamentale vale senza limiti”- ha deciso di promuove un dialogo a distanza fra i due pensatori tedeschi e la cultura giuridica italiana.
Questo ciclo di approfondimenti è oggi inaugurato dal presidente emerito della Corte costituzionale Gaetano Silvestri, che ha risposto ad alcune sollecitazioni rivolte a rendere chiari ed accessibili temi delicati e complessi, quali quelli del bilanciamento fra i diritti fondamentali, del rango e ruolo del diritto alla vita rispetto alla dignità e della posizione assunta dal giudice, costituzionale e comunale, nell’attività di protezione di tali principi, non già attribuiti dall’ordinamento che anzi li trova già nel sistema e si limita a garantirli ed a renderli effettivi, efficaci, non di carta.
Le risposte del presidente Silvestri costituiscono un efficace passepartout per la comprensione e soluzione dei casi che potranno porsi all’attenzione del giudice, offrendo altresì una visione d’insieme su tematiche che, pur destinate a riproporsi in contesti nazionali ed ordinamentali diversi, trovano poi possibilità di approfondimento e soluzioni spesso non dissimili, a volte in ragione della condivisione di massima di quegli stessi principi da parte di popoli, com'è il caso della Germania e dell'Italia.
Silvestri insiste sulla centralità delle tecniche del bilanciamento e della proporzionalità, essendo il nostro il tempo della continua ricerca di un punto di equilibrio fra principi e diritti fondamentali.
In questo contesto il conflitto fra vita e dignità si trasforma in un'operazione di inarrestabile ricerca di equilibrio rispetto al quale la dignità, secondo Silvestri, va intesa come "punto archimedico" del sistema che si alimenta di tutti i diritti, ma non può essere mai compressa o graduata per fare spazio ad altri principi. Dunque mai la dignità potrà subire una compressione rispetto agli altri principi fondamentali. Ritorna qui lo spunto offerto da Habermas e Günther rispetto al quale erano emerse differenze non marginali fra i due pensatori.
Come che sia, la ricerca dell’equilibrio fra i diritti fondamentali passa, dunque, attraverso l’uso e la sperimentazione dei canoni del bilanciamento "dinamico" e della proporzionalità – entrambi accomunati dal concetto di equilibrio che definisce il nucleo dello Stato costituzionale – sottolinea in modo lapidario Silvestri, mai potendo un diritto fondamentale totalmente soccombere in funzione di un altro.
In questa prospettiva si inserisce il tema della interruzione volontaria della gravidanza - che ha visto per mera coincidenza pronunziarsi in un medesimo torno di tempo la Corte costituzionale tedesca e quella italiana- e, ancorra una volta, quello della centralità delle tecniche di bilanciamento, valorizzando peraltro i tratti comuni delle soluzioni offerte più che le differenze. Che vi sia, del resto, una ben profonda volontà di perseguire tecniche processuali collaborative fra dette Corti, del resto, non ha mancato di sottolineare la Presidente della Corte costituzionale Cartabia quando ha ricordato che la scelta di limitare gli effetti di consueta retrattività delle sentenze di incostituzionalità in ragione del bilanciamento con altri principi sia "affine" a quella maturata in Germania, ove le pronunce di «mera incompatibilità» si sono affermate nel caso in cui l’annullamento della legge produrrebbe una situazione ancora più in contrasto con la Costituzione, oppure nei casi in cui per rimediare al vizio di incostituzionalità non è sufficiente rimuovere la disposizione impugnata, ma occorre un intervento positivo del legislatore e si prospetta una pluralità di soluzioni per rimediare all’illegittimità costituzionale - cfr., Relazione sull’attività della Corte costituzionale nel 2019 -p.3.2.3-. Una prospettiva di complementarietà fra i due ordinamenti poliedrica rispetto ai vari settori del diritto e che anche di recente si è resa manifesta nel considerare con estrema attenzione alcune questioni esaminate dal Tribunale costituzionale tedesco- v., ad es., F. Viganò, La tutela dei diritti fondamentali della persona tra corti europee e giudici nazionali, in Quad.cost., 2, 2019, spec. 493 ss. e, di recente, su questa Rivista, G. Tesauro, Dove va l’Europa dei diritti dopo la sentenza del Tribunale costituzionale tedesco federale sul quantitative easing -
Un tempo dunque nel quale la "complessità" - sulla quale pure ritorna in modo efficace Salvatore Aleo nel saggio pubblicato da Giustizia insieme - Il modello dello Stato di diritto e l’epistemologia della complessità- può governarsi solo se si maneggiano con cura ed attenzione i materiali normativi e la giurisprudenza. Nel descrivere tale fenomeno Silvestri persuade quando insiste sulla necessità che i parametri utilizzati dai giudici comprendano oltre che la Costituzione anche le Carte dei diritti sovranazionali.
In questo senso, la prospettiva “universale” alla quale ha fatto cenno Silvestri merita particolare attenzione anche per il giurista, inevitabilmente orientandone l’attenzione e lo studio verso il fenomeno (ormai imprescindibile) della comparazione praticata non solo dalla scienza giuridica ma, altresì, dalla giurisprudenza. Prospettiva tutt'altro che in discesa, proprio in relazione alla possibile presenza di diversità di linguaggi giuridici per affrontare la quale occorrerà capacità di fertilizzazione e di integrazione da parte degli interpreti rispetto alle Carte dei diritti fondamentali. Qui l'invito di Silvestri a superare un approccio ed un metodo razionalistico non può essere lasciato cadere ma, anzi, va raccolto e compreso nel suo reale significato. Un approccio che reclama, ancora una volta, un giurista non chiuso nella torre eburnea, ma continuamente pronto a mettersi in discussione, lontano da un approccio di superiorità ed invece vicino ad una logica di ascolto vero, autentico della complessità crescente e di servizio verso la persona.
Malgrado i tempi appaiano oggi plumbei per l'immagine esterna della giurisdizione le risposte di Silvestri sembrano volere restituire il valore e la dignità alla funzione giudiziaria purchè essa riesca ad essere ed apparire autorevole, responsabile ed indipendente da quelle forze esterne ed interne che potrebberodi offuscarne il prestigio.
Da qui l’auspicio finale che Silvestri scolpisce nell'ultima risposta invitando i magistrati a non rifugiarsi nel rassicurante positivismo per sfuggure la complessità ma piuttosto a sperimentare l'interpretazione responsabile al servizio della protezione dei diritti fondamentali.
Qui il pensiero di Silvestri si incrocia, commendevolmente, con quello di un altro giurista e intellettuale del nostro tempo quando Renato Rordorf non ha mancato di sottolineare che le preoccupazioni e perplessità per un approccio “principialista”, dovute all’ampiezza del margine di discrezionalità entro il quale l’interpretazione giuridica si muove possono superarsi solo attraverso “...un elevato grado di consapevolezza e senso di responsabilità da parte dell’interprete, che deve pur sempre sapersi misurare con il limite oltre il quale si rischia di sconfinare nel soggettivismo e nell’arbitrio (e qui si potrebbe aprire un discorso sul valore dello stare decisis, che condurrebbe però troppo lontano) e deve motivare con onestà intellettuale le proprie scelte.- R.Rordorf in G. Canzio, G. Luccioli, E.Lupo, R.Rordorf, Diritti fondamentali e doveri del giudice di legittimità, in questa Rivista, 19 giugno 2019-.
Sarà probabilmente questo il futuro terreno di confronto fra diritto vivente e comunità scientifica, rispetto al quale occorre ben attrezzarsi.
Grazie Presidente Silvestri.
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1. Presidente Silvestri, nel dialogo fra Habermas e Günther, che si inserisce nel contesto dei problemi che hanno sconvolto anche la Germania nel secondo conflitto mondiale, ritorna più volte il tema del bilanciamento fra il diritto alla vita e altre libertà fondamentali che, in nome della dignità umana, potrebbero giustificare un sacrificio della prima, purché ciò avvenga nel rispetto del principio di proporzionalità. Nel nostro ordinamento possiamo dire che i termini del dibattito sono sovrapponibili a quello tedesco ovvero assumono connotati in parte diversi?
Credo che la problematica sia universale, almeno tra i popoli che si riconoscono nei valori che stanno alla base dei princìpi dello Stato costituzionale – che ormai tende ad espandersi, anche se in modo irregolare, in tutto il mondo – contrassegnato dalla priorità della persona sull’autorità. Vi possono essere poi accentuazioni diverse, come dimostra l’art. 1 della Costituzione tedesca. Le ragioni storiche sono troppo evidenti per doverle ancora ribadire.
2.Habermas e Günther discorrono in modo animato sulle dichiarazioni rilasciate dal Presidente Wolfgang Schäuble, secondo il quale Se c'è un valore assoluto ancorato nella nostra Costituzione, è la dignità delle persone, che è intoccabile. Ma questo non esclude che dobbiamo morire”. Sullo sfondo, ancora una volta, il tema della congruità e proporzionalità di misure restrittive delle libertà o rivolte a creare presidi sanitari che potessero garantire chances di guarigione ai malati. La tutela della vita nel nostro sistema è collegata ad un mero riconoscimento della sua esistenza o merita, invece, condotte attive dello Stato tese a garantirne in maniera effettiva la protezione. E se sì, in che misura e grado?
La dignità è, per così dire, il “punto archimedico” dell’ordinamento costituzionale delle democrazie pluralistiche contemporanee. Rappresenta la sintesi dei valori fondamentali intangibili, anche se bilanciabili. Per questo motivo la dignità non è, a sua volta, bilanciabile, giacché ogni bilanciamento tra diritti fondamentali dovrebbe tendere alla somma zero, se operato in modo rigoroso secondo un criterio di proporzionalità. Naturalmente, poiché non parliamo di entità corrispondenti a numeri, i risultati presentano sempre margini di opinabilità. Non mi sembra corretto contrapporre, in funzione di bilanciamento, vita e dignità. La vita è presupposto di tutti i diritti; poiché la dignità è sintesi dei diritti, la vita è presupposto anche della dignità. Tuttavia anche il diritto alla vita è bilanciabile, ma, poiché nelle operazioni di bilanciamento non trova posto il sacrificio totale di uno dei diritti messi a confronto, nessuna autorità ha il potere di decidere la soppressione di un essere umano. Il bilanciamento può portare, al massimo, a gradi diversi di esposizione al rischio di perdere la vita (poliziotti, cittadini in armi per la “difesa della Patria”, ex art. 52 Cost., etc.). Nessuna legge invece, neppure di rango costituzionale, potrebbe imporre il sacrificio, anche parziale, della dignità. Non avrebbe alcun senso una “graduazione di dignità” tra le persone umane. Ovviamente lo Stato ha il dovere di porre in essere tutte le “condotte attive” possibili per proteggere sia la vita che la dignità. Se queste condotte implicano la limitazione di qualche diritto fondamentale, vale, come ho detto prima, il criterio di proporzionalità, nel rispetto, ben s’intende, della riserva di legge.
3.Ed il bilanciamento è davvero la chiave di soluzione dei conflitti fra i diritti fondamentali o ci sono altri percorsi, altre vie, che muovono dalla conformazione dei singoli diritti fondamentali, per risolvere i casi di ipotetico conflitto?
I diritti fondamentali non nascono limitati dal legislatore, che non li “concede” secondo misure prefissate, ma li “trova” nel bagaglio storico-culturale di un popolo e li bilancia nel contesto del pluralismo e delle risorse disponibili. Per questo motivo, il bilanciamento non è statico, ma dinamico; esso muta nel tempo, con l’evoluzione della coscienza sociale e le variazioni della ricchezza collettiva. Pur consapevole che non conduce a risultati indiscutibili, non conosco metodi migliori del bilanciamento per risolvere i casi difficili.
4. Il bilanciamento e la proporzionalità sono tornati ormai di frequente nel linguaggio dei decisori politici e dei giuristi per valutare le misure via via adottate per contenere la diffusione del coronavirus. Si tratta di canoni che attengono soltanto alle scelte del legislatore ovvero appartengono anche al giudice costituzionale ed al giudice comune nell’esercizio delle funzioni ad essi riservati ed in che misura?
Bilanciamento e proporzionalità sono tecniche comuni – ciascuno nel proprio ambito di competenza – a legislatore e giudice costituzionale. Entrambi si riallacciano al concetto di “equilibrio”, fondamentale in una democrazia pluralista retta da istituzioni improntate alla separazione dei poteri. La finalità è quella di evitare la “tirannia dei valori”. In questo quadro, l’indirizzo politico nasce dalla combinazione e dal dosaggio di valori e princìpi tutti iscritti nell’orizzonte costituzionale.
5. Quando entrano in competizione diritti fondamentali dello stesso tipo – si pensi al diritto alla vita di malato che non viene ammesso alla terapia intensiva per la scarsità dei presidi ospedalieri che inducono a preferirgli altro malato in base a criteri di natura etica o scientifica – la scelta del decisore si basa sul bilanciamento o su cosa altro?
Il bilanciamento non può mai giungere – come dicevo prima – sino alla soppressione radicale di un diritto fondamentale, né mai può intaccare la dignità umana. Il bilanciamento non esclude tuttavia, a mio avviso, che si possano “pesare” valori e princìpi, con decisioni di cui si porta, quanto ai criteri prescelti, la responsabilità, altro concetto che, assieme ad equilibrio, definisce il nucleo dello Stato costituzionale. Se ogni volta che si confrontano diritti in potenziale o attuale collisione, si dovesse necessariamente arrivare alla conclusione della radicale esclusione di uno di essi, la democrazia pluralista durerebbe ben poco. Un bilanciamento con esito finale di arretramento puro e semplice di uno dei diritti in confronto, sarebbe una ricerca dell’assoluto rinviata. Non appartiene alla mia cultura.
6. Costituzione italiana, Costituzione tedesca e Carta dei diritti UE parlano allo stesso modo di dignità umana?
Tendenzialmente sì, anche se i linguaggi possono essere diversi. Occorre esercitarsi nella “traduzione” da un linguaggio ad un altro. Se si individuassero delle discordanze, politica e giurisdizione dovrebbero impegnarsi a trovare le vie dell’integrazione, anche attraverso una incessante “fertilizzazione” reciproca. Cosa che avviene nella realtà, anche se in modo irregolare e, ovviamente, non programmato. Sarebbe bene – specie per il giurista, ma non solo per lui - guardarsi dalla tentazione di ingabbiare la storia in linee di sviluppo costruite in astratto con metodi razionalistici.
7. Bundesverfassungsgericht, 25 febbraio 1975 -sulla quale si confrontano Habermas e Günther-, e Corte cost.n.27/1975: quali affinità e quali differenze fra Italia e Germania sulla tutela della vita del nascituro?
Le sentenze delle Corti costituzionali italiana e tedesca citate nella domanda sono dimostrazioni pratiche della natura dinamica e relativa del bilanciamento tra princìpi e diritti fondamentali posto a base della maggior parte dei giudizi di costituzionalità. Le motivazioni delle due sentenze del 1975 (tedesca e italiana) escludono che si possa parlare di mero “arretramento” di un diritto di fronte ad un altro. Nella sentenza tedesca del 1975 (BVerfGE 39, 1) si parte dal riconoscimento del diritto alla vita del nascituro e dal rigetto della graduabilità in base al decorso del tempo, per giungere però al suo bilanciamento con il pericolo di vita per la madre o di seria menomazione della sua salute. La soccombenza rispetto al diritto alla vita del nascituro è stata dichiarata dalla Corte germanica soltanto in comparazione con il solo diritto all’autodeterminazione della madre, il cui illimitato riconoscimento avrebbe determinato il sacrificio radicale del diritto alla vita del nascituro. Un percorso analogo ha seguito la Corte italiana (sentenza n. 27/1975), che non ha riconosciuto un indiscriminato diritto all’aborto, ma ha inteso operare, a sua volta, un bilanciamento tra il diritto alla vita del nascituro e la salute, fisica e psichica, della donna. Sul merito delle decisioni citate non mi pronuncio, trattandosi di materia complessa, che richiederebbe un’ampia trattazione apposita, fuor di luogo in questa sede. Peraltro il Tribunale costituzionale tedesco ha emesso un’altra pronuncia, nel 1993, in cui ha variato in parte i criteri di bilanciamento, che sarebbe troppo lungo commentare in questa sede. Mi basta dire che nessuna di esse ha proclamato la completa prevalenza di un diritto su un altro. Vi sarebbe stato o il divieto senza eccezioni o la completa libertà di abortire, soluzioni entrambe, a mio modesto avviso, in contrasto con le rispettive Costituzioni nazionali, nonché con le Carte dei diritti europee.
8. La dignità approda nella legge n.217/2019 quando proclama che essa tutela “il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona”. Una tecnica che sembra enunciare diritti fondamentali posti sullo stesso piano e dunque tutti bilanciabili. Ma è davvero così?
Ripeto: i diritti sono tutti bilanciabili, anche se, per poterlo fare, occorre pesarli. Non si tratta di una “pesatura” astratta e assoluta, ma concreta e relativa; un diritto pesa più o meno, a seconda del concreto rapporto in cui si trova, in una situazione data, con uno o più altri diritti. La discrezionalità, scacciata dalla porta, rientra dalla finestra. L’illusione di trovare la “verità oggettiva” o è frutto di ideologia (nel senso marxiano di “falsa coscienza”) oppure è effetto di una tendenza alla semplificazione, che confina con l’irrazionalismo. Non si tratta di questioni che possano essere risolte con un “tutto o niente”. Si aprirebbe la strada a lacerazioni etiche e sociali molto gravi. Le verità assolute le lascerei agli orrori del XX secolo. Anche le religioni che, per loro natura, si nutrono di assoluto, devono accettare il principio della tolleranza, di volterriana memoria.
9. La dignità ha mille volti e si sente un bisogno estremo di dignità, una fame di dignità. Ma cos’è per il giudice, costituzionale e non, la dignità: un’ancora, una scialuppa, un salvacondotto per intraprendere una scelta interpretativa ardua, un falso amico o cos’altro?
La dignità è la bussola che orienta la difficile navigazione nell’arcipelago irregolare e irto di insidie del pluralismo e dell’inevitabile bilanciamento dei princìpi e dei diritti. Di fronte alla tremenda responsabilità che ricade, oltre che sui legislatori, anche sui giudici, per effetto delle scelte riguardanti punti di equilibrio in continuo cambiamento, a poco varrebbe, per i giudici, la fuga in un rassicurante positivismo, che solo in apparenza esclude la discrezionalità, ma in realtà la nasconde dietro formule rituali difficilmente decifrabili dai “profani”. Spesso quanto è negato al bilanciamento è concesso all’interpretazione.
Libertà di culto ed emergenza sanitaria: il protocollo del 7 maggio 2020 concordato tra Ministero dell’Interno e Conferenza Episcopale Italiana*
di Alessandro Tira
Sommario: 1. Dalle tensioni del 26 aprile al protocollo del 7 maggio. – 2. Il protocollo Ministero dell’Interno-Cei sulla graduale ripresa delle celebrazioni in presenza dei fedeli. – 3. Verso un ‘giurisdizionalismo sanitario’?
1. Dalle tensioni del 26 aprile al protocollo del 7 maggio
Il 19 aprile 2020 ha riscosso grande attenzione la vicenda di Soncino, la piccola città in provincia di Cremona dove una messa domenicale è stata interrotta dall’intervento delle Forze dell’ordine. Nelle immagini che hanno circolato in rete (la celebrazione veniva infatti ripresa per la trasmissione on-line), un carabiniere, adempiendo in modo forse troppo zelante ai suoi doveri[1], interrompe a più riprese il celebrante, nel tentativo di far cessare la funzione liturgica che si sta svolgendo alla presenza di alcuni accoliti e sei fedeli. Il parroco, tuttavia, la porta a conclusione, invocando di fatto un’interpretazione opinabile (ma non impraticabile) dell’allora vigente art. 1, c. 1° lett. i) del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 10 aprile 2020[2] e dicendosi pronto ad adire le vie legali per far valere le sue ragioni contro quello che considera un sopruso[3].
La vicenda di Soncino non è stata un episodio isolato, ma solo il più noto di vari casi in cui i sacerdoti hanno ritenuto di ammettere alle celebrazioni i fedeli (quasi sempre pochi) che si presentavano in chiesa, talora rivendicando apertamente le ragioni di una scelta compiuta in nome del diritto/dovere dei fedeli stessi di prendere parte alla celebrazione eucaristica (can. 213 Codex Iuris Canonici)[4]. Per fare alcuni esempi: il 5 aprile a Sulmona (AQ) e a Livorno; il 7 aprile a Marsciano (PG); lo stesso 19 aprile a Piacenza e ad Acquafredda (BS). L’elenco potrebbe continuare e, attraverso una semplice rassegna delle notizie consultabili in rete, si può osservare un quadro in cui gli episodi di insofferenza del clero (soprattutto quello parrocchiale) verso la protratta impossibilità di celebrare messe aperte al popolo sono cresciuti in frequenza nel corso del mese.
Il pugnace don Lino Viola (questo il nome del sacerdote cremonese), insomma, è diventato per qualche giorno il simbolo di un equilibrio che non ha retto più: quello tra le istanze di tutela della sanità pubblica portate avanti dal Governo[5], da un lato, e i diritti dei fedeli e (si potrebbe dire, evocando un’espressione carica di significati) della libertas Ecclesiae[6], dall’altro. È facile intendere il perché, dato che qualsiasi sforzo massimo regge solo per il tempo minimo necessario allo scopo (o, meglio, per il tempo in cui regge la convinzione che lo sostiene) e il protrarsi della limitazione alle celebrazioni cum populo[7] non è più stato percepito come proporzionato in un momento in cui – per ragioni peraltro fondate e impellenti, quali quelle economiche – si iniziava a concretizzare qualche misura di uscita dal lockdown totale che l’Italia ha affrontato negli ultimi mesi.
Che a quel punto la tensione avesse raggiunto un nuovo livello è divenuto chiaro quando sono intervenuti a stigmatizzare i fatti di Soncino due prelati che rivestono ruoli di primo piano nella Santa Sede, il card. Angelo Becciu e il card. Konrad Krajewski. Con le loro prese di posizione a titolo personale, essi hanno in un certo senso anticipato un revirement di posizioni da parte della Conferenza Episcopale Italiana[8], che è invece giunto il 26 aprile, quando il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha ufficializzato un nuovo D.P.C.M. in vista della cosiddetta ‘fase 2’[9].
Benché abbia consentito la parziale riapertura di molte attività di rilievo economico a partire da lunedì 4 maggio 2020, il decreto porta infatti solo minime novità in materia di funzioni religiose. All’art. 1, comma 1°, lett. i), dove cerimonie religiose, eventi culturali e incontri sportivi vengono ancora una volta messi sullo stesso piano e sostanzialmente vietati, si contempla per il solo caso dei funerali la presenza di 15 persone al massimo. Troppo poco, secondo i vescovi italiani, tanto che la CEI la sera stessa del 26 aprile ha diffuso un comunicato in cui si richiamavano la Presidenza del Consiglio e il Comitato tecnico-scientifico al «dovere di distinguere tra la loro responsabilità – dare indicazioni precise di carattere sanitario – e quella della Chiesa, chiamata a organizzare la vita della comunità cristiana, nel rispetto delle misure disposte, ma nella pienezza della propria autonomia». Affermazioni impegnative, che hanno spiazzato il Governo e suscitato commenti anche pacati, ma altrettanto fermi da parte laica (come quello apparso sul Sole – 24 Ore a firma di Carlo Melzi d’Eril e Giulio Enea Vigevani[10]). Lo stesso papa Francesco, a distanza di pochi giorni, è intervenuto sul tema durante la celebrazione della messa nella cappella di Santa Marta in Vaticano, con un invito all’obbedienza all’autorità civile in cui alcuni hanno visto una sconfessione della CEI, ma che più probabilmente andava letto come un segnale di distensione per smussare le asprezze del dibattito.
Comunque vada interpretata la dialettica interna alla Chiesa cattolica, l’intervento della CEI ha smosso le acque di un tema che, sia pure per comprensibili ragioni, languiva ai margini delle preoccupazioni del Governo. Nei giorni successivi sono state formulate alcune proposte di intervento, a cominciare dal working paper del gruppo di ricerca Di.Re.So.M.[11] (ripreso poi da vari organi di stampa e fatto oggetto di particolare interesse da parte del Ministero dell’Interno) e sono state attivate le procedure per studiare una soluzione concordata del problema[12].
L’esito di questo tribolato percorso è il Protocollo del Ministero dell’Interno del 7 maggio, del quale vorremmo mettere ora in evidenza gli aspetti più rilevanti.
2. Il protocollo Ministero dell’Interno-CEI sulla graduale ripresa delle celebrazioni in presenza dei fedeli
Il 7 maggio 2020, dunque, è stato emanato dal Ministero dell’Interno (Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione) un Protocollo riguardante la graduale ripresa delle celebrazioni liturgiche con il popolo, in applicazione delle misure di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da Covid-19 previste dal D.P.C.M. 26 aprile 2020. Il testo è di un certo interesse, oltre che per la rilevanza pratica delle disposizioni che introduce, anche per alcuni profili generali. Torneremo su questi punti in conclusione, ma è opportuno anticipare qui il più evidente: il protocollo è un testo emanato congiuntamente dal Ministero dell’Interno e dalla Conferenza Episcopale Italiana, non solo perché alla sua elaborazione hanno partecipato esponenti di entrambe le parti[13], ma anche perché porta la firma – oltre che del presidente del Consiglio dei Ministri Giuseppe Conte e del ministro dell’Interno Luciana Lamorgese – anche del presidente della CEI, il cardinale Gualtiero Bassetti. Chi parla in quel testo, insomma, non è solo il Governo, ma anche (e forse soprattutto) i vescovi a cui il provvedimento si rivolge, e non occorre essere dei laici intransigenti per rilevare l’anomalia del fatto. Una ‘anomalia’ che, come vedremo tra poco, ha precisi riflessi sul contenuto del protocollo ed è funzionale agli obiettivi che si intendono raggiungere.
Entrando nel merito delle disposizioni, il protocollo è articolato in cinque punti che raggruppano per temi le «necessarie misure di sicurezza, cui ottemperare con cura» per la «graduale» ripresa delle celebrazioni in presenza dei fedeli (e già la scelta di utilizzare nella denominazione del protocollo il concetto prettamente canonistico di «popolo»[14] esprime bene la permeabilità che in questo caso c’è stata tra i due ordini giuridici).
Quanto all’accesso ai luoghi di culto in occasione delle celebrazioni liturgiche (art. 1), esso si dovrà svolgere in modo tale da evitare ogni assembramento sia nell’edificio, sia nei luoghi annessi (come le sagrestie e il sagrato). La capienza degli edifici di culto, naturalmente, non potrà essere sfruttata appieno, ma sarà compito del legale rappresentante dell’ente ecclesiastico individuare la capienza massima dell’edificio, tenendo conto del distanziamento minimo che dovrà essere di almeno un metro e mezzo in ogni direzione tra ciascun fedele. A questo scopo, l’art. 4.2 specifica che, tra le comunicazioni che si fa obbligo di affiggere all’ingresso di ogni chiesa, non dovrà mancare l’indicazione del numero massimo di persone che potranno stare contemporaneamente all’interno dell’edificio, naturalmente munite delle necessarie mascherine (art. 1.5). Sempre in materia di «adeguata comunicazione» (come recita la rubrica dell’art. 4), si introduce però un ulteriore livello di responsabilità, perché si afferma che «sarà cura di ogni Ordinario rendere noto i contenuti del presente Protocollo attraverso le modalità che [ne] assicurino la migliore diffusione» (art. 4.1)[15].
Particolare attenzione viene dedicata ai momenti dell’accesso e del deflusso dalla chiesa, che (fino a diversa disposizione) dovranno essere assistiti da «volontari e/o collaboratori» del legale rappresentante dell’ente i quali, indossando adeguati dispositivi di protezione individuale e «un evidente segno di riconoscimento», indirizzeranno i fedeli verso ingressi separati (dove possibile) e comunque avranno cura di tenere le porte aperte per evitare intralci nel flusso e contatti con maniglie o battenti (art. 1.4). Sarà compito di tali volontari e collaboratori vigilare sul rispetto dei limiti di capienza e, dove si constatasse che «la partecipazione attesa dei fedeli superi significativamente il numero massimo di presenze consentite», si invita i responsabili a considerare «l’ipotesi di incrementare il numero delle celebrazioni liturgiche» (art. 1.3). Si tratta di una soluzione che alcune Conferenze episcopali hanno già adottato da tempo (quella polacca, per esempio, fin dallo scorso 10 marzo), ma che presenta alcuni profili problematici non tanto rispetto al – superabile – limite canonico al numero di messe che ciascun sacerdote può celebrare in un giorno[16], quanto all’effettivo numero di sacerdoti disponibili in Italia e per le procedure di igienizzazione necessarie alla fine di ogni celebrazione, delle quali si dirà tra breve e che si profilano piuttosto complesse e onerose.
Alcune norme residuali impongono di rammentare espressamente ai fedeli che non è consentito l’accesso in caso di sintomi influenzali e respiratori o con temperatura corporea pari o superiore a 37,5°C (art. 1.6) e che non è consentito l’accesso neppure a quanti siano stati a contatto «nei giorni precedenti» con persone positive al Sars-Cov-2 (art. 1.7). Stante l’indeterminatezza del precetto e l’impossibilità di procedere a verifiche individuali, bisogna ritenere che la sanzione debba ricadere – una volta soddisfatto da parte dei preposti l’onere del controllo e della comunicazione, ribadito dall’art. 4.2 tra gli avvisi da affiggere all’ingresso della chiesa – sul singolo fedele che non rispetti l’indicazione, quindi secondo le vigenti sanzioni amministrative o le più gravi ipotesi di reato configurabili per situazioni analoghe[17]. Per quanto possibile deve essere favorito l’accesso delle persone diversamente abili, prevedendo spazi appositi per la loro partecipazione alle celebrazioni nel rispetto della normativa vigente (art. 1.8) e all’ingresso delle chiese – al pari di quanto le normative nazionali e regionali dispongono per gli altri luoghi aperti al pubblico – dovranno essere resi disponibili liquidi igienizzanti (art. 1.9).
L’art. 2 del protocollo tratta dell’igienizzazione dei luoghi e degli oggetti e si può ritenere che sarà, all’atto pratico, uno degli snodi problematici della materia. Non vi sono, infatti, indicazioni particolari riguardo alla composizione chimica degli «idonei detergenti ad azione antisettica» o alle modalità con cui procedere alla regolare disinfezione dei luoghi di culto («ivi comprese le sagrestie»). L’azione di pulizia e il ricambio dell’aria sono richieste al termine di ogni celebrazione, cosa che in qualche misura può ostacolare il susseguirsi delle celebrazioni, laddove ciò fosse previsto. Sempre al termine di ogni celebrazione, i vasi sacri, le ampolline e gli altri oggetti utilizzati, e in particolare i microfoni, dovranno essere accuratamente disinfettati (art. 2.2). Si dovrà continuare a tenere vuote le acquasantiere (art. 2.3), secondo una cautela disposta dalla CEI sin dalla fine di febbraio, quando le singole diocesi iniziavano ad assumere i primi provvedimenti.
È nelle disposizioni dell’art. 3, tuttavia, che risalta con maggiore evidenza la peculiare natura del protocollo del Ministero dell’Interno. L’articolo tratta infatti di materie che, in tempi normali, esulerebbero dalle competenze dell’ordinamento civile perché coinvolgono, sempre in nome dell’igiene pubblica, precetti eminentemente liturgici, siano essi riferiti alla sola celebrazione della messa o anche alle celebrazioni diverse da quella eucaristica ma solitamente inserite in essa (battesimo, matrimonio, unzione degli infermi ed esequie) (art. 3.8).
Si chiede innanzi tutto di ridurre al minimo la presenza di concelebranti, ministri e accoliti[18], i quali – si specifica – sono comunque tenuti al rispetto delle distanze previste per tutti, anche nel presbiterio. Si tratta di una specificazione opportuna, che elimina una zona d’ombra di non poco conto, poiché l’interpretazione dei D.P.C.M. pacificamente invalsa, secondo cui la celebrazione delle funzioni liturgiche era consentita purché in assenza dei fedeli, non affrontava il punto di quali soggetti si potessero ritenere necessari o ammessi ai fini della celebrazione. Sicché si sono viste in varie occasioni chiese vuote e presbiterii piuttosto affollati (anche nel caso di Soncino, ricordato in apertura, dei tredici astanti i fedeli che assistevano dalla navata erano solo sei, mentre altrettanti – più il celebrante – erano coloro che in qualche misura collaboravano alla celebrazione). Un intervento unilaterale del Governo o anche del potere legislativo sulle modalità di celebrazione delle messe sarebbe stato esorbitante, dunque si è rimediato con delle specificazioni – quelle ora esposte – che sono suffragate dal coinvolgimento dell’autorità confessionale. Analoghe considerazioni valgono per l’eventuale presenza di un organista (concessa) e per l’esclusione del coro (non solo perché comporterebbe la necessità strutturale di un assembramento, ma anche perché è noto che nel cantare si proiettano a distanze maggiori saliva e germi)[19]. Quanto agli oggetti, per evidenti motivi non potranno essere messi a disposizione sussidi per i canti o di altro tipo (come i fogli con il proprium missae del giorno) (art. 3.6) e le offerte non verranno raccolte durante la celebrazione, ma attraverso contenitori da collocarsi agli ingressi o in altri luoghi idonei (art. 3.7).
Venendo alla parte più sensibile, l’art. 3 prescrive che, tra i riti preparatori alla Comunione, si continui a omettere lo scambio del segno di pace (art. 3.3) e che la distribuzione della Comunione stessa «avvenga dopo che il celebrante e l’eventuale ministro straordinario» (ossia colui che è autorizzato a distribuirla ai fedeli) «avranno curato l’igiene delle loro mani e indossato guanti monouso». Gli stessi, «indossando la mascherina e avendo massima attenzione a coprirsi naso e bocca e mantenendo un’adeguata distanza», dovranno offrire l’ostia «senza venire a contatto con le mani dei fedeli» (art. 3.4). La delicatezza della situazione è evidente, perché per i fedeli il momento della comunione è il più importante della messa. Al tempo stesso è molto difficile immaginare di esercitare un controllo effettivo sull’osservanza delle precauzioni elencate, che non sia anche, per sua stessa natura, un’intrusione rispetto al momento in cui il singolo fedele riceve il sacramento. La ligia applicazione di questa norma, pertanto, non potrà che essere rimessa alla responsabilità e alla buona volontà degli interessati.
La medesima esigenza di riservatezza si ripropone, in misura ancor più accentuata, nel caso del sacramento della penitenza. Da un lato, sia il diritto canonico (can. 983 c.i.c.) sia quello dello Stato[20] tutelano massimamente il segreto del confessionale; dall’altro lato, le esigenze sanitarie impediscono che sacerdote e fedele possano stare così vicini da praticare la confessione auricolare dei peccati. Per questo, oltre alla consueta raccomandazione della mascherina, l’art. 3.9 prescrive che «il sacramento della Penitenza sia amministrato in luoghi ampi e areati, che consentano a loro volta il pieno rispetto delle misure di distanziamento e la riservatezza richiesta dal sacramento stesso». L’art. 3.10, infine, rinvia tout court la celebrazione delle cresime, che poiché prevedono l’unzione del confermando con il crisma comportano necessariamente un contatto fisico (e, al tempo stesso, non hanno le connotazioni di urgenza tipiche dell’unzione degli infermi, che per questo motivo è invece consentita, con le dovute cautele, dall’art. 3.8).
Per chiudere sul punto, quelle in esame sono certamente disposizioni ragionevoli e opportune, anche se forse sarebbe stato più rispettoso della distinzione degli ordini – quello dello Stato e quello della Chiesa – se si fosse lasciato a un’istruzione complementare della sola CEI di disporre su questi aspetti che si potrebbero ben definire interna corporis acta. Al di là dell’eccezionalità della situazione e dell’ambito di applicazione limitato del protocollo, in prospettiva una soluzione siffatta potrebbe costituire un precedente per estendere poteri di controllo più pervasivi da parte dello Stato anche ad altri ambiti dei rapporti con le confessioni religiose.
Infine, sotto la rubrica «altri suggerimenti», l’art. 5 contiene alcune disposizioni che sono unite dall’esigenza di contemperare il diritto/dovere dei fedeli ad accedere alla celebrazione eucaristica e le difficoltà concrete a cui, probabilmente, in molti casi essi andranno ancora incontro. Così l’art. 5.1 dispone che gli ordinari diocesani possano valutare, laddove i luoghi di culto non siano idonei, la possibilità di celebrare messe all’aperto, «assicurandone la dignità e il rispetto della normativa sanitaria». Sarebbe contrario al senso del provvedimento, infatti, lasciare che, per effetto dell’applicazione di norme volte a garantire la riapertura ai fedeli delle celebrazioni liturgiche, per una specifica comunità di fedeli la possibilità o meno di accedervi dipenda in ultima battuta dalla forma della chiesa locale. L’art. 5.2 ricorda la dispensa dal precetto festivo di assistere alla messa[21], che può essere concessa per ragioni di età e di salute (e ancora una volta è inusuale che un protocollo emesso dal Ministero dell’Interno solleciti il ricorso a specifiche disposizioni canoniche). Infine, l’art. 5.3 richiama le forme alternative di partecipazione al culto, favorendo «le trasmissioni delle celebrazioni in modalità streaming per la fruizione di chi non può partecipare alla celebrazione eucaristica».
3. Verso un ‘giurisdizionalismo sanitario’?
A conclusione di questa rassegna dei contenuti del protocollo del 7 maggio 2020, vorremmo sottolineare alcuni aspetti che, al di là del tenore delle singole disposizioni, rendono a nostro avviso degno di nota il provvedimento, innanzi tutto sotto il profilo dei modelli giuridici in materia di rapporti tra Stato e Chiesa.
Innanzi tutto, si deve richiamare ancora una volta la peculiarità di un provvedimento del Ministero dell’Interno che è stato sottoscritto anche dalla Conferenza episcopale italiana. In modo inedito, ma con ragionevolezza, quella del coinvolgimento diretto dell’interlocutore ecclesiastico è stata ritenuta la via più semplice per soddisfare varie esigenze. Da parte del Governo si è voluto rimediare così alla lamentata mancanza di «bilateralità»[22], perseguendo una forma di collaborazione che (più che valorizzare la distinzione degli ordini, politico e religioso) mette insieme autorità civile e autorità ecclesiastica in nome dell’emergenza sanitaria. Dall’altro lato il testo che ne risulta, e che vale sia per lo Stato sia per la Chiesa, attraverso l’intervento ‘di vertice’ della CEI intende evitare che le singole Diocesi procedano in ordine sparso, quando si tratterà di affrontare una questione su cui le sensibilità, anche in seno al clero, erano e restano varie e divergenti[23]. Il protocollo del 7 maggio sembra dunque avere introdotto una declinazione peculiare della bilateralità pattizia – secondo il principio sancito dagli articoli 7 e 8 della Costituzione – per cui i rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose possono dare forma a norme emanate di comune accordo anche a un livello più pervasivo di quanto normalmente avvenga, in nome dell’identità di vedute espressa dalla firma congiunta dell’atto interno di uno dei due ordinamenti coinvolti[24].
Quelle del protocollo ministeriale sono precauzioni opportune, non c’è che dire, ma il fatto che vengano scritte nero su bianco dal Governo (per quanto con l’accordo della CEI) fa venire in mente i classici modelli del giurisdizionalismo, quando era il potere civile a indicare all’autorità ecclesiastica come fare per adempiere al meglio, nel comune interesse, alle sue funzioni. Questo revival non è un fenomeno del tutto isolato, perché il binomio «controllo dello Stato» e «cooperazione delle confessioni religiose», che è l’essenza del giurisdizionalismo, ad avviso di alcuni studiosi sta riemergendo nelle società europee già in altri settori e per altre ragioni[25]; una sua estensione, pertanto, sarebbe agevolata da quei precedenti. Per tornare al caso specifico, si può forse ritenere che l’emergenza abbia fatto convergere lo Stato e la Chiesa verso una sorta ‘giurisdizionalismo sanitario’ che, in altri momenti, la Chiesa non avrebbe accettato.
Sullo sfondo resta sempre il problema di tutte le norme giuridiche, quello dell’effettività e delle sanzioni. Che cosa succederà se saranno violate le regole così stabilite? Le sanzioni amministrative ed eventualmente l’art. 650 c.p. o le più gravi fattispecie penali puniranno i comportamenti irrispettosi delle disposizione contenute nel protocollo? Questa sembra dover essere la soluzione se dovesse stabilizzarsi, sul piano normativo, l’attuale configurazione di un divieto generale delle celebrazioni (quello previsto dai vari D.P.C.M. che si sono susseguiti); divieto però attenuato ad hoc da una normativa derogatoria per le funzioni religiose (cattoliche e, prossimamente, delle altre confessioni).
Depone in questo senso la circostanza che la data prevista per l’entrata in vigore del protocollo sia fissata a lunedì 18 maggio 2020, ossia il giorno successivo alla caducazione del decreto del Presidente del Consiglio del 26 aprile e ciò fa supporre che le soluzioni normative che il Governo adotterà per il prossimo periodo saranno molto simili a quelle attuali. Incidentalmente, si deve anche ritenere che l’entrata in vigore del protocollo per la Chiesa cattolica e l’atteso protocollo per le confessioni diverse dalla cattolica introdurranno – a prescindere dall’eventuale evoluzione del quadro normativo generale – una nuova ipotesi di spostamento lecito, oltre a quelle fin qui tassativamente individuate (semplificando un po’: si potrà uscire di casa anche solo per andare a messa, mentre fino a questo momento l’accesso ai luoghi di culto per la preghiera individuale era considerato lecito solo se non era l’unica ragione che aveva determinato l’uscita del fedele). In ogni caso il problema, ben difficile da sciogliere, resterà quello di evitare che si creino margini di interpretazione troppo ampi nell’applicazione dei precetti ministeriali.
Vi è poi, un po’ più sfumato, il problema delle responsabilità giuridiche. Il protocollo, come si è visto, chiama in causa vari soggetti (oltre ai fedeli, che ovviamente resteranno responsabili delle proprie azioni): i titolari delle chiese, parroci o rettori che siano, ma anche i loro collaboratori e, almeno per quanto riguarda la pubblicazione e la diffusione delle norme, i vescovi diocesani. Come verranno qualificate le eventuali inosservanze delle prescrizioni protocollari da parte di questi soggetti? E a quale tipo di conseguenze giudiziali potrebbe dare luogo la loro violazione?
Sul piano pratico, inoltre, già ad uno sguardo superficiale i costi organizzativi ed economici che il nuovo sistema comporterà saranno ingenti e, forse, non tutte le parrocchie saranno in grado di sostenerli. Se però la ragione che ha mosso la CEI a concordare col Governo una simile soluzione è quella di garantire uno svolgimento, per quanto possibile, regolare e uniforme del munus sanctificandi, sarebbe difficile accettare che la possibilità concreta di riaprire, sia pure tra mille cautele, le Messe ai fedeli possa dipendere, in ultima battuta, dalla forma della singola chiesa o dalla disponibilità di mezzi, denaro e personale di ciascuna parrocchia o santuario. Probabilmente sarà necessario un ulteriore sforzo di organizzazione e di aiuto reciproco, magari a livello diocesano (e dunque a livello di diritto canonico particolare), per gestire le aperture e soccorrere le comunità che dovessero avere difficoltà a soddisfare i giusti, ma onerosi requisiti che il protocollo impone. Ma è un problema che riguarda la vita interna della Chiesa, dunque non è il caso di farvi qui altro che un cenno.
Infine, partecipando alla stesura e all’approvazione del protocollo, la Chiesa italiana ha implicitamente ammesso di trovare in quel testo soddisfazione alle sue esigenze. Ma esso varrà solo per la Chiesa cattolica e, per quanto sia imminente l’estensione del modello con un protocollo valido per tutte le altre confessioni religiose, è auspicabile che le differenze di disciplina siano minime e tali da non penalizzare nessuno. Sempre, naturalmente, sul presupposto che alla prova dei fatti il sistema così congegnato risulti sostenibile sul piano sanitario e organizzativo.
Anche in considerazione di tutto ciò sembra di poter condividere il richiamo di Alessandro Ferrari, il quale afferma che questo campo «resta il luogo della ragionevole prudenza e della responsabilità. Una responsabilità non solo dall’alto, ma anche dal basso dei concreti accomodamenti che ogni singola comunità, civile e religiosa, dovrà trovare, lì dove è insediata, per arginare il virus e ricostruire il ‘vivere insieme’»[26].
* NOTA: questo scritto è stato consegnato giovedì 14 maggio 2020. Come è emerso in modo cursorio qua e là nel testo, si è ancora in attesa dell’approvazione del protocollo del Ministero dell’Interno per le confessioni diverse dalla cattolica, che avrebbe dovuto essere sottoscritto in data odierna. Tuttavia, poiché il quadro relativo alla Chiesa cattolica sembra essersi delineato, almeno nelle sue caratteristiche principali, sembra opportuno rimandare ad altra occasione l’analisi del secondo protocollo e degli eventuali ulteriori sviluppi.
[1] Perché queste annotazioni non vengano interpretate come un’acritica difesa del celebrante contro l’operato dei Carabinieri, entriamo per un attimo nel merito della vicenda. Ad avviso di chi scrive quella di sanzione del comportamento di celebrante e fedeli è stata una decisione corretta, ma sarebbe stato più opportuno, oltre che consono al luogo e alla situazione, se anche a Soncino le Forze dell’ordine avessero agito come si è fatto in alcuni dei casi citati infra. Vale a dire attendendo che la celebrazione si concludesse prima di elevare le sanzioni, naturalmente una volta appurato che in concreto, per il numero e la disposizione degli astanti, non sussistessero pericoli gravi e imminenti di contagio.
[2] D.P.C.M. 10 aprile 2020, Ulteriori disposizioni attuative del decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19, recante misure urgenti per fronteggiare l'emergenza epidemiologica da COVID-19, applicabili sull'intero territorio nazionale. L’art. 1, c. 1° lett. i) di tale decreto (ripetuto con poche modifiche nell’omologo comma del D.P.C.M. 26 aprile 2020) prevedeva che «l’apertura dei luoghi di culto [fosse] condizionata all’adozione di misure organizzative tali da evitare assembramenti di persone, tenendo conto delle dimensioni e delle caratteristiche dei luoghi, e tali da garantire ai frequentatori la possibilità di rispettare la distanza tra loro di almeno un metro. Sono sospese le cerimonie civili e religiose, ivi comprese quelle funebri». Il parroco riteneva di poter superare il divieto di tenere pubbliche cerimonie attraverso la previsione delle «misure organizzative» e delle «dimensioni e caratteristiche dei luoghi», trattandosi di pochi fedeli in una chiesa grande. L’interpretazione, benché forzata, può trovare appigli nella formulazione imprecisa del decreto. Secondo un’interpretazione letterale, infatti, la «sospensione» delle cerimonie avrebbe dovuto colpire tutte le cerimonie – dunque anche quelle celebrate alla presenza dei soli accoliti – oppure se consentita, come era evidente che fosse, si sarebbe potuta compiere nel rispetto delle stesse condizioni che consentono ai fedeli l’accesso agli edifici di culto al di fuori dei momenti liturgici, ossia rispettando distanze e precauzioni igieniche.
[3] Quanto alle altre norme che vengono in rilievo per il caso, un profilo d’interesse è quello dell’eventuale applicabilità dell’art. 405 c.p., che prevede e punisce il turbamento delle funzioni religiose, e dell’art. 5, c. 2° del vigente Concordato. Premettiamo peraltro che, nel richiamare queste norme, non si intende necessariamente sostenere la tesi della loro violazione, ma solo prospettare il problema dell’applicabilità alla vicenda in esame. L’art. 5, c. 2° dell’accordo di revisione del Concordato lateranense, reso esecutivo con la l. 25 marzo 1985, n. 121, così dispone: «Salvo i casi di urgente necessità, la forza pubblica non potrà entrare, per l’esercizio delle sue funzioni, negli edifici aperti al culto, senza averne dato previo avviso all’autorità ecclesiastica». Come si può vedere, è una norma imperfetta, in quanto priva di sanzione espressa, ma nondimeno è norma vigente. Quanto all’eventuale applicabilità dell’art. 405 c.p. cfr. R. Santoro, La tutela penale del sentimento religioso ai tempi del Covid-19: il caso del turbamento di funzioni religiose da parte delle Forze dell’ordine, in Olir.it, 22 aprile 2020. Più in generale sulla materia si vedano G. Fiandaca e E. Musco, Diritto penale, parte speciale, I, Bologna 2012, pp. 459-461; N. Marchei, “Sentimento religioso” e bene giuridico. Tra giurisprudenza costituzionale e novella legislativa, Milano, Giuffrè, 2006 e V. Pacillo, I delitti contro le confessioni religiose dopo la Legge 24 febbraio 2006, n. 85, Milano, Giuffrè, 2007.
[4] Cfr. sul tema V. Pacillo, Il diritto di ricevere i sacramenti di fronte alla pandemia. Ovvero, l’emergenza da COVID-19 e la struttura teologico-giuridica della relazione tra il fedele e la rivelazione della Grazia, in Olir.it, 6 aprile 2020.
[5] Istanze di cui lo Stato si fa custode con provvedimenti emergenziali estremamente pervasivi (cfr. ex multis A. Ferrari, Covid-19 e libertà religiosa, in SettimanaNews, 6 aprile 2020; A. Fuccillo, M. Abu Salem e L. Decimo, Fede interdetta? L’esercizio della libertà religiosa collettiva durante l’emergenza Covid-19: attualità e prospettive, in Calumet, 2020, pp. 87-117; A. Licastro, Il lockdown della libertà di culto pubblico al tempo della pandemia, in Consulta Online, 2020, 1, pp. 229-241; G. Macrì, La libertà religiosa alla prova del Covid-19. Asimmetrie giuridiche nello “stato di emergenza” e nuove opportunità pratiche di socialità, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, 2020, 9, pp. 23-49). A tali interventi, peraltro, la Chiesa aveva aderito nella forma e anche nello spirito, fin dai primi provvedimenti delle diocesi lombarde (quando il contagio pareva cosa contenuta entro poche aree dell’Italia settentrionale), non senza qualche contestazione di alcune voci cattoliche (cfr. P. Consorti, Religions and virus, in Diresom.net, 9 marzo 2020). Il rapporto tra tali interventi e l’ordine concordatario è stato al centro di vari contributi, tra cui si segnalano: M. Carrer, Salur rei publicae e salus animarum, ovvero sovranità della Chiesa e laicità dello Stato: gli artt. 7 e19 Cost. ai tempi del coronavirus, in «BioDiritto», 2020, 2 (online first) e V. Pacillo, La sospensione del diritto di libertà religiosa nel tempo della pandemia, in Olir.it, 16 marzo 2020.
[6] Cfr. G. Dalla Torre, La città sul monte, Roma, AVE, 2007, pp. 113-122.
[7] Già per tempo era intervenuto, a sostegno della decisione di sospendere le celebrazioni pubbliche e argomentandone la sostenibilità anche sul piano canonistico (pur lasciando intravedere in controluce le tensioni che ne sarebbero scaturite), G. Dalla Torre, Gli ordini dati dallo Stato e gli ordini interni della Chiesa, in Avvenire, 22 marzo 2020; su altri aspetti del tema si veda M. d’Arienzo, È legittima la sospensione della Messa in forma pubblica?, in Acistampa.com, 23 aprile 2020.
[8] Cfr. F. Balsamo, La leale collaborazione tra Stato e confessioni religiose alla prova della pandemia da Covid-19. Una prospettiva dall’Italia, in Diresom.net, 27 marzo 2020.
[9] Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 26 aprile 2020, Ulteriori disposizioni attuative del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, recante misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell'emergenza epidemiologica da COVID-19, applicabili sull’intero territorio nazionale, in Gazzetta Ufficiale. Serie Generale, n. 108 del 27 aprile 2020 (consultabile qui).
[10] C. Melzi d’Eril e G.E. Vigevani, Messe ancora senza fedeli: perché la reazione della Cei è eccessiva. La Chiesa «esige» di poter riprendere la sua azione pastorale ma il rischio di contagio è ancora troppo elevato, in Il Sole – 24 Ore, 27 aprile 2020; in senso critico si veda anche A. Ferrari, Cei, un’occasione mancata, in SettimanaNews.it, 29 aprile 2020. Cfr. invece, a sostegno della posizione della CEI, l’intervento di mons. Vincenzo Bertolone, Le riflessioni dell’Arcivescovo Metropolita di Catanzaro – Squillace sui problemi posti dalla sospensione delle cerimonie religiose, in Olir.it, 28 aprile 2020 e quello di Cesare Mirabelli, Limitazione eccessiva, tutelare la salute fisica e spirituale dei cittadini, in Agensir.it, 27 aprile 2020.
[11] Cfr. M. d’Arienzo, A Messa insieme in sicurezza. La proposta di un gruppo di giuristi, in Aleteia.it, 30 aprile 2020.
[12] A ben vedere, il dialogo tra Chiesa e Governo sembrava già sostanzialmente ripristinato all’altezza del 30 aprile, quando a un parere del Ministero dell’Interno sulle celebrazioni funebri ha fatto seguito una «nota complementare» della CEI, che per molti aspetti prefigurava le soluzioni di metodo e di merito poi concretizzatesi con il protocollo del 7 maggio.
[13] Oltre ad alcuni esperti esterni, tra cui il prof. Pierluigi Consorti dell’Università di Pisa, promotore del già citato working paper Di.Re.So.M. che ha costituito una base di riflessione (in modo particolare per quanto riguarda l’emanando protocollo per le confessioni diverse dalla cattolica).
[14] Il vigente Codex iuris canonici, al can. 204, §1, afferma che «i fedeli sono coloro che, essendo stati incorporati a Cristo mediante il battesimo, sono costituiti popolo di Dio» (corsivo aggiunto). Si rimanda sul tema a G. Feliciani, Il popolo di Dio, Bologna, Il Mulino, 2003.
[15] La disposizione sembra coinvolgere e impegnare la libertà dei Vescovi, ordinari diocesani, di cui all’art. 2, c. 2° dell’Accordo di revisione del Concordato del 1984. Tale articolo assicura la libertà delle comunicazioni tra la Santa Sede e il clero italiano, e in seno a quest’ultimo, e per quanto qui interessa garantisce «la libertà di pubblicazione e diffusione degli atti e documenti relativi alla missione della Chiesa».
[16] Il can. 905 stabilisce il divieto per i sacerdoti, salvo i casi espressamente previsti, «di celebrare o concelebrare l’Eucarestia più volte nello stesso giorno». Tuttavia, al §2, si specifica che «nel caso in cui vi sia scarsità di sacerdoti, l’Ordinario del luogo può concedere che i sacerdoti, per giusta causa, celebrino due volte al giorno e anche, se lo richieda la necessità pastorale, tre volte nelle domeniche e nelle feste di precetto». Non vi è dubbio che, a questo riguardo, l’ipotesi contemplata dal protocollo integrerebbe agli occhi del diritto canonico una giusta causa.
[17] Sul tema delle sanzioni si veda M. Domenici, Coronavirus: FAQ sulla violazione delle restrizioni previste dal decreto lockdown, in Altalex.com, 30 marzo 2020.
[18] Si tratta dei laici che, a norma del can. 230, possono assistere in modo stabile o temporaneo i sacerdoti nelle funzioni connesse alla celebrazione eucaristica (per es. la distribuzione della Comunione ai fedeli, cfr. can. 910, §2); una disciplina sostanzialmente analoga è prevista per i lettori.
[19] In Germania, dove la riapertura delle chiese al culto pubblico è avvenuta in vari Länder già domenica 3 maggio, è stato fatto divieto anche ai fedeli di intonare i canti religiosi.
[20] Cfr., per portare solo l’esempio più significativo, l’art. 200, c. 1° lett. a) c.p.p. Sul tema si rimanda a D. Milani, Segreto, libertà religiosa e autonomia confessionale. La protezione delle comunicazioni tra ministro di culto e fedele, Lugano 2008.
[21] Can. 1247: «La domenica e le altre feste di precetto i fedeli sono tenuti all’obbligo di partecipare alla Messa; si astengano inoltre da quei lavori e da quegli affari che impediscono di rendere culto a Dio e turbano la letizia propria del giorno del Signore o il dovuto riposo della mente e del corpo».
[22] Sul significato e l’estensione del concetto giuridico della bilateralità si veda J. Pasquali Cerioli, L’indipendenza dello Stato e delle confessioni religiose. Contributo allo studio del principio di distinzione degli ordini nell’ordinamento italiano, Milano, Giuffrè, 2006.
[23] La questione del valore normativo del protocollo per l’ordinamento canonico, e soprattutto la sua capacità di vincolare le singole diocesi, è tema di sicuro interesse, ma che va oltre gli intenti del presente scritto. Merita però un accenno il fatto che, per il diritto canonico, la potestà normativa delle Conferenze episcopali non è originaria, bensì derivata da quelle dei singoli Ordinari diocesani che le compongono e dunque limitata. In altre parole, il rapporto tra la CEI e le Diocesi non può essere interpretato alla stregua di un semplice rapporto gerarchico tra autorità superiore e inferiore e ciò potrebbe riverberarsi anche sull’applicazione del protocollo in esame.
[24] Che tale bilateralità – per così dire – ‘interna’ sia però strutturalmente limitata, o che almeno renda più incerti i confini delle rispettive competenze, è circostanza di cui ha già dato un’avvisaglia la nota del Ministero dell’Interno del 13 maggio, indirizzata al card. Bassetti. Nella nota si comunica che il Comitato tecnico-scientifico «approva il documento [del 7 maggio], raccomandando che, per le cerimonie religiose da svolgere nei luoghi di culto chiusi», ferme restando tutte le cautele e misure di prevenzione sanitaria previste, «il numero massimo di persone non superi le 200 unità. Il CTS ritiene, inoltre, che eventuali cerimonie religiose celebrate all’aperto, se organizzate e gestite in coerenza con le misure raccomandate, debbano prevedere la partecipazione massima di 1000 persone. Di ciò, si porta a conoscenza l’Eminenza Vostra ai fini della predisposizione delle necessarie misure di sicurezza cui ottemperare in vista della ripresa delle celebrazioni liturgiche con il popolo». Si tratta di una questione di dettaglio (tanto più che, almeno per il prossimo periodo, è difficile immaginare che quei numeri vengano raggiunti), ma resta il fatto che, comunicando non un’interpretazione, ma una determinazione che introduce ex novo delle restrizioni a quanto già concordato con la CEI, il Ministero ha dimostrato di riservarsi la possibilità di modificare in via unilaterale i termini dell’accordo sancito nel protocollo (dove non si fa menzione di ‘tetti massimi’ al numero di fedeli compresenti).
[25] Il riferimento, in particolare, è ai rapporti con l’Islam e alla funzione di controllo, spesso in chiave securitaria, delle attività cultuali e, in senso lato, religiosamente connotate. Il tema è stato posto in rilievo (con riferimenti comparatistici che riguardano anche l’Italia) da L. Musselli, Edilizia religiosa, Islam e neogiurisdizionalismo in Europa. Alcune note sul nuovo «Islamgesetz» austriaco e sul divieto di edificare minareti in Svizzera, in Quaderni di Diritto e Politica ecclesiastica, 2015, 2, pp. 441-460.
[26] A. Ferrari, Cei, un’occasione mancata, cit.
La rivalutazione delle detenzioni domiciliari per gli appartenenti alla criminalità organizzata, la magistratura di sorveglianza e il corpo dei condannati nel d.l. 10 maggio 2020 n. 29.
di Fabio Gianfilippi
SOMMARIO: 1. Il perimetro del nuovo intervento urgente. 2. La revoca della detenzione domiciliare surrogatoria del differimento della pena e la sua irretroattività. 3. La rivalutazione obbligatoria frequentissima delle detenzioni domiciliari connesse all’emergenza sanitaria concesse ai condannati per reati di criminalità organizzata e la sua portata retroattiva. 4. Competenza ed adempimenti istruttori. 5. La ratio dell’istituto, con lo sguardo più indietro che avanti.
1. Il perimetro del nuovo intervento urgente. Nei media non si placa l’onda lunga delle polemiche a commento di alcuni provvedimenti di scarcerazione, rectius di sottoposizione a misure domiciliari (detenzione domiciliare per i condannati e arresti domiciliari in sostituzione della custodia cautelare in carcere per i detenuti con posizioni non ancora definitive), di detenuti per gravi reati di criminalità organizzata. L’esame dettagliato dei dati disponibili dipinge in effetti un quadro assai diverso dal narrato, con soltanto tre detenuti in regime differenziato di cui all’art. 41-bis ord. penit. effettivamente attinti da provvedimenti di questo tipo[1] a causa di gravissime pregresse condizioni di salute. Il Governo decide perciò di intervenire ulteriormente, attraverso il dl 10 maggio 2020 n. 29, che segue di pochissimi giorni il dl 28/2020, già incidente sulla medesima materia [2].
Il decreto legge, concentrandosi sulle previsioni che incidono sull’ordinamento penitenziario, introduce varie disposizioni tra le quali spicca la rivalutazione a strettissimo giro, affidata al magistrato di sorveglianza o al tribunale di sorveglianza che abbiano assunto la decisione, dei provvedimenti concessivi di misure domiciliari a condannati per ben determinati delitti “per motivi connessi all’emergenza sanitaria da COVID-19”, da effettuarsi entro quindici giorni dall’adozione del provvedimento la prima volta e, in seguito, con cadenza mensile.
La verifica rimessa all’autorità giudiziaria è sulla permanenza dei motivi legati all’emergenza sanitaria e si prevede che sia richiesto un parere alla DDA competente, nonché alla DNA nel caso di detenuti già ristretti in regime differenziato di cui all’art. 41-bis ord. penit., e sia fatta istruttoria mediante l’acquisizione di informazioni dal Presidente della Giunta Regionale circa la situazione sanitaria locale e dal DAP in ordine alla disponibilità di strutture penitenziarie o di “reparti di medicina protetta” in cui possa riprendere l’esecuzione penale intramuraria nei confronti dell’interessato, senza pregiudizio per le sue condizioni di salute.
Se il DAP comunica la sopravvenuta disponibilità di una di queste strutture, la valutazione deve aver luogo immediatamente, anche prima della decorrenza dei termini indicati.
Le disposizioni introdotte, al di là di quanto emerso in alcuni poco controllati proclami giornalistici, e nonostante sia difficile non leggere queste novità in termini censori rispetto alle decisioni assunte nel tempo dell’emergenza dall’autorità giudiziaria, sembrano comunque preservare il cuore della autonomia valutativa del giudice, pur quasi soverchiato dalla messe di pareri che gli è imposto di acquisire, poiché la decisione ultima, all’esito della complessa istruttoria descritta, rimane al magistrato di sorveglianza o al tribunale di sorveglianza competenti.
Questa affermazione non esime poi da una indagine critica sulle non poche difficoltà sistematiche ed applicative delle disposizioni introdotte, che finiscono per sovrapporsi a cadenze procedimentali che apparivano in realtà già in grado, in tempi più realistici e comunque anch’essi opportunamente modulabili caso per caso dall’autorità giudiziaria, di consentire verifiche adeguate sul persistere dei presupposti legittimanti la misura di detenzione domiciliare.
Occorre infatti ricordare che il magistrato di sorveglianza assume il provvedimento urgente di differimento, eventualmente nelle forme della detenzione domiciliare ex art. 47-ter comma 1-ter ord. penit., ai sensi dell’art. 684 cod. proc. pen. La decisione, di accoglimento o rigetto, viene quindi portata al tribunale di sorveglianza per il vaglio definitivo, che può intervenire anche entro pochissime settimane.
Quando a provvedere in senso favorevole è il tribunale di sorveglianza, lo stesso art. 47-ter comma 1-ter ord. penit. prevede che sia fissato un termine di durata dell’applicazione, che può essere prorogata.
Prima di quella data, secondo il disposto dell’art. 147 ult. comma cod. pen., è comunque possibile che il provvedimento sia revocato anticipatamente.
La norma in questione appaia l’ipotesi della revoca a quella del rigetto del differimento facoltativo della pena in presenza di un concreto pericolo di commissione di delitti.
In tal senso la S.C. ha affermato in passato che la revoca può compiersi anche a fronte del venir meno delle condizioni di grave infermità che hanno determinato la concessione del differimento, ma a ben vedere nel caso scrutinato dalla cassazione si trattava della situazione di un soggetto riconosciuto cieco, che aveva persistito nella commissione di delitti, per cui più che di guarigione (miracolosa) sembrava che si rappresentasse una ipotesi di concreta recidiva nel delitto, tale da giustificare la revoca (cfr. cass. 16.02.1995 n. 982).
Sino ad oggi quindi una adeguata rivalutazione del permanere delle ragioni del differimento, mediante una apposita istruttoria concernente le condizioni di salute dell’interessato e il suo concreto comportamento nel corso della misura, è stata sempre consentita al tribunale di sorveglianza, ma la stessa deve compiersi nel tempo individuato dall’autorità giudiziaria in sede di concessione.
2. La revoca della detenzione domiciliare surrogatoria del differimento della pena e la sua irretroattività. Con l’art. 1 del dl in commento viene introdotta una modifica nel comma 7 dell’art. 47-ter ord. penit.
La disposizione prevedeva la revocabilità di alcune ipotesi di detenzione domiciliare (inserite nei commi 1 e 1-bis) al venir meno delle condizioni previste (limiti di pena o particolari condizioni oggettive come l’età minore di dieci anni del figlio), e non richiamava l’ipotesi di cui al comma 1-ter, che ora viene aggiunta.
Sembra dunque che da oggi sia consentita una rivalutazione in ogni tempo del venir meno delle condizioni di salute o delle situazioni di inattuabilità delle cure in ambiente carcerario poste a base della decisione, che si pone tuttavia in significativa frizione con l’apposizione del termine di durata prima di una rivalutazione, espressamente richiesto dalla norma.
Opportunamente il dl non prevede, nelle disposizioni transitorie, l’applicazione retroattiva di questa disposizione, che quindi opererà soltanto per i differimenti della pena nelle forme della detenzione domiciliare ex art. 47-ter comma 1-ter ord. penit. che saranno concessi da oggi in poi.
I condannati che abbiano già ottenuto la predetta misura, invece, continueranno a poterne subire la revoca nell’ipotesi di comportamenti colpevoli e dimostrativi di un aggravarsi del pericolo di recidiva nel delitto, ma si vedranno rivalutate le condizioni di salute solamente al termine stabilito nel provvedimento del tribunale di sorveglianza.
Deve d’altra parte riconoscersi che la reimmissione in un contesto esterno in cui le cure possano trovare migliore attuazione è tanto più efficace e significativa, in quanto la persona possa confidare in uno spazio temporale destinato alle terapie e ad una sperabile convalescenza, il cui protrarsi nel tempo è strettamente funzionale all’obbiettivo di tutela della salute che sta alla base dell’emissione del provvedimento. Proprio il vaglio in concreto delle effettive necessità del condannato ha sempre guidato il tribunale di sorveglianza nella definizione del termine, che segna un orizzonte temporale più o meno limitato a seconda delle ragioni che militano per la necessità di cure da svolgersi in contesto esterno.
3. La rivalutazione obbligatoria frequentissima delle detenzioni domiciliari connesse all’emergenza sanitaria concesse ai condannati per reati di criminalità organizzata e la sua portata retroattiva. La disposizione contenuta nell’art. 2, già anticipata, concerne la rivalutazione frequentissima delle detenzioni domiciliari applicate nei confronti di detenuti per particolari tipologie di delitti.
In queste ipotesi appare del tutto vanificato il senso dell’apposizione del termine da parte del tribunale di sorveglianza, che diviene assolutamente ultroneo.
Le disposizioni transitorie contenute nell’art. 5 del d.l. 29/2020 prevedono per altro che le rivalutazioni siano da compiersi con riferimento anche a tutti i provvedimenti assunti a far data dal 23.02.2020, dunque con portata retroattiva.
Per i procedimenti già decisi quindi il meccanismo nullifica la valutazione prognostica effettuata dall’autorità giudiziaria circa i tempi entro i quali doveva ritenersi credibile un opportuno nuovo vaglio delle condizioni di salute dell’interessato e di adeguatezza delle strutture penitenziarie a fornirgli cure appropriate.
Il d.l. prevede che la rivalutazione riguardi soltanto le posizioni di condannati (ma nell’art. 3 analogamente si stabilisce per i detenuti in posizione cautelare) per alcune tipologie di reato. Viene inserito dunque un nuovo elenco (terrorismo anche internazionale, partecipazione ad associazione a delinquere ex art. 416-bis cod. pen., delitti commessi con finalità o modalità mafiose, partecipazione con ruolo direttivo ad associazione a delinquere ex art. 74 Dpr 309/90, e comunque tutti i condannati ed internati sottoposti al regime differenziato di cui all’art. 41-bis ord. penit.) che non è sovrapponibile a quello dell’art. 4-bis comma 1 ord. penit., e neppure a quelli di cui all’art. 51 commi 3-bis e 3-quater cod. proc. pen., utilizzati nel d.l. 28/2020 in relazione alle richieste istruttorie per il medesimo tipo di procedimenti oggi attinti dal nuovo intervento normativo. Ciò comporterà, all’evidenza, una moltiplicazione dei protocolli istruttori che gli uffici saranno chiamati ad applicare e che non potrà non appesantire la gestione dei fascicoli pendenti.
Desta perplessità la scelta di utilizzare lo strumento della retroattività con riferimento a questo art. 2, optando per altro per una soluzione difforme rispetto all’art. 1 (che invece serba forse memoria dell’insegnamento della sentenza Corte Cost. 32/2020).
Si determina infatti, a fronte di misure domiciliari tutte concesse dalla magistratura di sorveglianza in relazione a condizioni di salute molto gravi, e dunque per finalità umanitarie rientranti nel disposto dell’art. 27 comma 3 Cost., una sperequazione tra destinatari condannati per reati diversi da quelli indicati nell’elenco contenuto nell’art. 2 del d.l., che continuano a poter contare su una misura alternativa per ragioni di salute che ha un orizzonte di durata ben definito da parte del tribunale di sorveglianza prima di una rivalutazione, e condannati per i delitti rientranti nell’elenco, che vedono invece travolto quell’affidamento, dal sopravvenire di una normativa che impone scansioni temporali acceleratissime. Il discrimine, per altro, non trova ragione nei comportamenti agiti dagli interessati nel corso delle misure, sempre censurabili, e dunque non si giustifica per l’emersione di concreti profili di pericolosità sociale, ma viene effettuato sulla sola base della tipologia di delitti commessi.
Non può d’altra parte dirsi che la speciale frequenza degli accertamenti sia neutra rispetto alla stessa finalità perseguita dalla concessione della detenzione domiciliare, che non ha valenza premiale ma disegna comunque un tempo vissuto fuori dalle strutture penitenziarie, con una percezione di relativa stabilità che potrebbe non essere secondaria nel determinare la stessa efficacia delle terapie eventualmente prescritte, ed il cui venir meno improvviso pone perplessità anche rispetto al parametro della necessaria umanità della pena.
4. Competenza ed adempimenti istruttori. La competenza è rimessa al magistrato di sorveglianza o al tribunale di sorveglianza che hanno assunto la decisione.
Tenuto conto della scansione procedimentale sopra riassunta, almeno per quanto concerne i procedimenti già definiti sino ad oggi, gli uffici avranno già trasmesso gli atti ai tribunali di sorveglianza competenti, e sarà dunque necessario acquisirli nuovamente. La disposizione, per altro, non indicando un atto d’impulso, conta sulla memoria dei singoli uffici e li onera di uno scrutinio relativo alle decisioni che hanno già assunto, al fine di impostare la procedura di urgentissima rivalutazione immaginata.
Nell’ipotesi di provvedimenti che, all’esito dell’istruttoria di cui si parlerà, confermino la necessità del differimento nelle forme della detenzione domiciliare, il nuovo fascicolo dovrà essere trasmesso al tribunale di sorveglianza, permanendo la misura alternativa e senza impugnazione del PM, tenuto conto delle ordinarie scansioni dei procedimenti provvisori assunti dinanzi al magistrato di sorveglianza.
Nell’ipotesi in cui non si ritengano più sussistenti, invece, i presupposti per la detenzione domiciliare, la disposizione prevede la revoca del provvedimento emesso, con efficacia immediatamente esecutiva, secondo il disposto dell’ultimo comma dell’art. 2. Anche in questo caso, tuttavia, sembra che il provvedimento dovrà confluire agli atti del fascicolo già pendente dinanzi al tribunale di sorveglianza, ai fini di una valutazione globale, trattandosi di una ipotesi in tutto assimilabile a quella di rigetto del provvedimento provvisorio.
In questa fase non può non rilevarsi come difetti qualsiasi forma di contraddittorio, e alla difesa non resti che la possibilità di attivarsi trasmettendo eventuali memorie e documentazione in autonomia, contribuendo al tantalico sforzo istruttorio periodicamente necessario.
Quando a disporre la misura sia stato il Tribunale, la competenza resterà ivi incardinata a questi soli fini, anche laddove la detenzione domiciliare si stia svolgendo fuori dalla ordinaria competenza territoriale dell’autorità giudiziaria. Tale profilo è destinato a determinare non poche difficoltà, soprattutto nell’interlocuzione con quei diversi territori, ed anche per l’individuazione dell’istituto penitenziario ove l’amministrazione intenda, in ipotesi, reinserire il condannato.
Ciò per altro accadrà soltanto in relazione alle rivalutazioni connesse all’emergenza COVID-19, mentre quelle previste con il nuovo art. 47-ter comma 7 ord. penit. con riferimento alle detenzioni domiciliari di cui all’art. 47-ter comma 1-ter ord. penit. sembrano destinate a seguire le ordinarie regole sulla competenza territoriale.
I profili istruttori indicati nell’art. 2 sono particolarmente onerosi, soprattutto se letti insieme alla estrema celerità nel disbrigarli imposta dalla disposizione.
Deve essere “sentita” l’autorità sanitaria regionale, individuata nel Presidente della Giunta regionale, circa la situazione sanitaria locale, evidentemente in merito alla diffusione del virus e alla sussistenza di adeguati dispositivi di prevenzione. Dal testo sembrerebbe che ci si riferisca alla regione nella quale si trova l’istituto penitenziario ove era ubicato il condannato, che dunque viene immaginata come quella di sua possibile nuova destinazione.
Vengono però anche richieste informazioni al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria in ordine all’eventuale disponibilità di strutture penitenziarie o di “reparti di medicina protetta” in cui l’interessato possa riprendere la detenzione o l’internamento senza pregiudizio per le sue condizioni di salute. Nel comma 3 si fa tuttavia riferimento anche ad “altre” strutture e ciò sembra indicare un vaglio più ampio di opzioni, che non si limita alla mera verifica che nell’istituto penitenziario di provenienza sia stata ripristinata una condizione più confacente alle cure dell’interessato, ma esplora anche territori diversi.
Affinché il vaglio della magistratura di sorveglianza sia effettivo deve ad ogni modo ritenersi che il DAP non potrà fare un generico riferimento alla sussistenza in astratto di luoghi ritenuti idonei, ma dovrà indicarli precisamente, ed ove si tratti di strutture penitenziarie sarà necessario che si individui anche quale tipologia di stanza detentiva sarà fornita all’interessato e se la stessa sia da dividersi con altri, elementi necessari a consentire un vaglio concreto ed effettivo all’autorità giudiziaria.
Di più difficile definizione invece i reparti di medicina protetta, espressione che potrebbe indicare reparti ospedalieri presidiati da personale di polizia penitenziaria e che, però, non sono capillarmente diffusi sul territorio e spesso, proprio per questo, risultano gravati da lunghe liste di attesa prima di potervi accedere.
L’autorità giudiziaria dovrà, infine, acquisire un parere da parte del Procuratore Distrettuale antimafia competente in relazione al luogo in cui è stato commesso il reato, ed anche del Procuratore Nazionale antimafia nell’ipotesi di condannati in regime di 41-bis ord. penit.
Per come la disposizione è costruita sembrerebbe trattarsi di un parere in senso proprio, avente ad oggetto la sussistenza delle condizioni per confermare la misura domiciliare, e non invece una informativa sull’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata e la pericolosità, come previsto dal d.l. 28/2020 per la valutazione della concedibilità della misura.
Ciò comporta la necessità di trasmettere alla DDA e alla DNA tutta l’istruttoria pervenuta e dunque di richiedere il parere all’esito della prevista acquisizione.
Tenuto conto del tempo peculiarmente esiguo concesso dalla disposizione per la decisione sulla conferma, appare assai difficile che si possa realisticamente ottenere quanto richiesto.
Nell’art. 3, sul quale il presente contributo non si diffonde, poiché disegna un procedimento per la conferma con tratti assimilabili a quelli sino ad ora descritti, ma collegato alla fase cautelare (con tutte le criticità che derivano dalla diversa prospettiva che dovrebbe guidare la valutazione del giudice sulla scelta di quelle misure), è inserito al comma 2 un ultimo significativo periodo in cui si prevede che, quando l’autorità giudiziaria non sia in grado di decidere allo stato degli atti, il giudice possa disporre, anche d’ufficio e senza formalità, accertamenti in ordine alle condizioni di salute dell’imputato o procedere a perizia, nelle forme di cui agli articoli 220 e ss. cod. proc. pen., acquisendone gli esiti nei successivi quindici giorni.
Una analoga previsione non è espressamente contenuta nella disposizione pensata per il procedimento di sorveglianza. La facoltà di svolgere tali accertamenti è tuttavia certamente discendente dalle disposizioni generali dettate, seppur in pochi tratti, dagli artt. 666 comma 5 cod. proc. pen. e 185 disp. att. cod. proc. pen., mentre occorre chiedersi se il ricorso a tali strumenti consenta una analoga dilazione nella decisione per quindici giorni. L’opzione negativa appare da scartare, essendo prioritaria la verifica in concreto, tante volte richiesta dalla S.C., circa l’idoneità della soluzione intramuraria prospettata, tanto più in questo caso in cui sarà volta a superare il convincimento da pochi giorni espresso dal giudice sull’incompatibilità della protrazione dello stato detentivo del condannato.
5. La ratio dell’istituto, con lo sguardo più indietro che avanti. La verifica richiesta all’autorità giudiziaria ha ad oggetto la permanenza dei motivi che hanno giustificato l’adozione del provvedimento di ammissione (art. 2 comma 3), in particolare di quelli legati all’emergenza sanitaria da COVID-19. Risulta evidente soprattutto l’intento del legislatore di consentire una revisione delle decisioni già assunte a far data dall’inizio dell’emergenza nel nostro territorio nazionale, individuata, con la disposizione transitoria, nel 23.02.2020.
Come si è accennato, ciò sembra dovuto al clamore suscitato da alcuni provvedimenti riguardanti detenuti con posizioni verticistiche all’interno di alcune associazioni criminali.
In disparte il peculiare attagliarsi del rimedio oggi offerto ad un caso mediaticamente più sensibile degli altri, sembra che lo strumento prescelto, al di là del notevole carico di lavoro che impone agli uffici e ai tribunali di sorveglianza, in una fase che li vede, come spesso accade, fronteggiare con risorse limitate una ingente mole di istanze, ponga rilevantissimi problemi di effettiva praticabilità a fronte dell’esiguo numero di giorni nei quali la complessa istruttoria deve essere acquisita.
Sembra inoltre piuttosto generica la formula utilizzata nel riferirsi all’emergenza sanitaria. Un dato difficilmente controvertibile è, mentre ancora tutta l’Italia è sottoposta a significative limitazioni di movimento e nella vita quotidiana, che la stessa sia ancora in corso. D’altra parte le strutture penitenziarie, anche quelle che non hanno fortunatamente subito l’insulto effettivo del virus, continuano ad essere intrinsecamente inadatte a consentire il distanziamento sociale, a meno che non si parli forse delle sezioni di 41-bis, in cui le stanze sono singole e i momenti di socialità rarefatti.
Tuttavia, proprio il d.l. in commento, nel suo art. 4, opportunamente, inizia a superare, con prudenza, la fase 1 dell’emergenza in carcere, prevedendo che i colloqui dei detenuti con i familiari fino al 30 giugno si svolgano ordinariamente con strumenti da remoto approntati negli istituti penitenziari, o mediante corrispondenza telefonica, ma che sia comunque garantito almeno un colloquio in presenza a tutti i detenuti e con almeno un congiunto o altra persona una volta al mese. Questa misura, come altre di progressiva necessaria riapertura che il Governo sta sperimentando sul territorio nazionale, incrementerà inevitabilmente, pur con l’uso indispensabile dei presidi preventivi a tutti suggeriti, il rischio di contagio, in questo caso tanto tra detenuti, quanto tra il personale che opera negli istituti penitenziari.
In questa chiave occorre ricordare che neppure le sezioni di regime differenziato ex art. 41-bis ord. penit. possono escludere contatti dei detenuti con il personale, ed anzi chi vi è ristretto è sottoposto a plurimi controlli quotidiani che impongono il contatto fisico con gli operatori.
Soprattutto ad essere difficile è che risulti nel breve periodo ripristinato l’ordinario accesso degli specialisti in carcere (già in tempi normali a volte episodico), in questi mesi spesso interrotto, e che i presidi territoriali riprendano ad effettuare con regolarità gli accessi dei pazienti che debbono sottoporsi ad accertamenti e terapie che, anche se urgenti, siano state comunque ritenute procrastinabili a fronte del propagarsi dell’epidemia.
I provvedimenti assunti dalla magistratura di sorveglianza in materia sembrano per altro collegarsi variamente all’emergenza penitenziaria, e non sempre con portata dirimente[3]. Sarà dunque necessario un vaglio caso per caso delle argomentazioni poste a base del provvedimento concessivo, che si arricchisca poi di una attualizzazione delle verifiche circa le condizioni di salute del condannato, che potrebbero essersi aggravate, divenendo per ciò, ove già non lo fossero, elemento autonomamente rilevante per disporre il differimento, nonché circa lo stato delle cure medio tempore intraprese all’esterno ed il concreto livello di cure apprestabili in suo favore nel contesto intramurario.
C’è da attendersi per altro che le nuove procedure si applicheranno soprattutto a casi già decisi al momento di entrata in vigore del d.l., con le perplessità sopra rappresentate. E ciò non, come pure già qualche voce ha strumentalmente ipotizzato, a causa delle nuove disposizioni normative, che avrebbero ridotto il rischio di decisioni altrimenti avventate, ma perché le posizioni di condannati gravati da condizioni di salute più critiche sono venute all’esame dell’autorità giudiziaria già nei primissimi tempi della pandemia, ed in molti casi verosimilmente pendevano da tempo richieste di differimento della pena collegate a pregresse e gravi patologie, giunte al vaglio dei tribunali di sorveglianza quando l’assistenza sanitaria intramuraria ha subito il colpo dell’emergenza.
Al di là degli indiretti effetti defatigatori delle procedure previste nelle disposizioni, la magistratura di sorveglianza continuerà ad effettuare con il consueto rigore le sue valutazioni, e ciò nonostante quanto disposto, e molti commenti mediatici poco misurati, sembrino adombrare un retropensiero perplesso circa la correttezza delle decisioni assunte sino ad oggi.
Al centro, ancora una volta, dovrà stare il rispetto per la persona del condannato, e per il suo corpo in particolare, viene da dire, anche quando si sia macchiato del più atroce delitto, secondo l’insegnamento offertoci dalla Corte Costituzionale e dalla lunga sequenza di pronunce della Corte Europea dei diritti dell’uomo, che spesso ha condannato l’Italia per i livelli di cure offerte ai suoi detenuti (si pensi ai casi Scoppola 2009, Cara Damiani 2012, Cirillo 2013, C.G. 2014…) o ha richiesto che le ragioni dell’imposizione del regime differenziato fossero adeguatamente vagliate anche alla luce della loro proporzionalità allo scadimento delle condizioni di salute dell’interessato (cfr. Provenzano 2018).
C’è soprattutto bisogno che sia consentito all’autorità giudiziaria di continuare ad effettuare con piena serenità le sue valutazioni informate e prudenti, lontano dai clamori e dalle tensioni della piazza, inverando così sempre la funzione costituzionale delle pene e verificandone innanzitutto l’umanità.
[1] Cfr. M. PALMA, La situazione nelle carceri. Parla Mauro Palma. in www.treccani.it/magazine/atlante/societa, in cui il Garante Nazionale, sulla base dei dati ufficiali a sua disposizione, parla di provvedimenti relativi a 376 detenuti, di cui 372 in regime di Alta Sicurezza 3, uno in regime di Alta Sicurezza 1, e 3 in regime di 41-bis. Si aggiunge che 195 detenuti hanno ottenuto provvedimenti cautelari più miti, mentre a 181 condannati definitivi è stata concessa una misura domiciliare, non però sempre per motivi di salute, ma legata alla misura di cui all’art. 123 DL 18/2020, ora convertito con L. 27.04.2020, oppure ex L. 199/2010. Ciò significa che tali condannati avevano già interamente espiato le quote di pena relative a delitti di criminalità organizzata ed erano ormai detenuti per reati comuni.
[2] Per alcuni primi commenti a quel provvedimento si veda, sulle pagine di questa rivista, P. CANEVELLI, La magistratura di sorveglianza, D.L. 30 aprile 2020, n. 28 in www.giustiziainsieme.it, 8 maggio 2020 e, volendo, F. GIANFILIPPI, Emergenza sanitaria in carcere, provvedimenti a tutela di diritti fondamentali delle persone detenute e pareri sui collegamenti con la criminalità organizzata nell’art. 2 del dl 30 aprile 2020 n. 28, in Giurisprudenza Penale web, 2020, 5.
[3] Cfr. A. DELLA BELLA, Emergenza COVID e 41 bis: tra tutela dei diritti fondamentali, esigenze di prevenzione e responsabilità politiche, in www.sistemapenale.it, 1.05.2020, e V. MANCA, Umanità della pena, diritto alla salute ed esigenze di sicurezza sociale: l’ordinamento penitenziario a prova di (contro)riforma, in Giurisprudenza Penale web, 2020, 5, per ampi commenti sul tema e rassegne di provvedimenti assunti dalla magistratura di sorveglianza.
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