ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Conferimento di incarichi del CSM e giudice amministrativo: il lungo addio dall’ineffettività della tutela (Nota a Cons. Stato, sez. V, 15 luglio 2020, n. 4584)
di Giuseppe Tropea
Sommario: 1. Premessa - 2. La vicenda contenziosa e la decisione del Consiglio di Stato - 3. Il sindacato giurisdizionale (apparentemente) “debole” sui provvedimenti di conferimento di incarichi del CSM - 4. Il problema della conformazione al giudicato di annullamento e i persistenti limiti all’ottemperanza.
1. Premessa
In un momento particolarmente delicato per l’organo di autogoverno della magistratura, come per la magistratura tutta, leggere la sentenza che si annota fa venire alla mente l’osservazione fatta sul Conseil d’État francese da un importante etnografo che ha avuto il privilegio di assistere per un certo numero di mesi alle riunioni dell’organo: «Se cedono di un pollice, l’amministrazione, un po' alla volta, eroderà il loro potere; se fanno infuriare troppo l’amministrazione, essa li ignorerà o li accerchierà»[1]. Del resto, più di recente, anche per l’Italia si è messa in luce la delicata «tripolarità» giudice-legislatore-esecutivo e il ruolo strategico svolto dal nostro Consiglio di Stato[2].
La controversa questione del sindacato sugli atti volti al conferimento di incarichi direttivi o semidirettivi da parte del CSM riflette alla perfezione tali tensioni, ponendosi al crocevia di principi fondamentali quali la legalità e l’effettività della tutela da un lato, la separazione dei poteri dell’altro.
Non è in questione l’an del sindacato giurisdizionale ma il quomodo[3]. Le delibere del CSM, infatti, non si sottraggono al sindacato di legittimità, ai sensi dell’art. 17 l. n. 195/195, nonché a quello di merito, nell’ambito del giudizio di ottemperanza.
La Corte costituzionale ha confermato la legittimità di entrambe le scelte.
Ha ritenuto, infatti, attuazione dell’art. 24 Cost. l’impugnabilità anche degli atti di un organo di garanzia quale il CSM[4], e ha quindi ammesso l’esperibilità del giudizio di ottemperanza delle sentenze di annullamento delle deliberazioni consiliari nell’ambito di un conflitto di attribuzioni proposto dall’organo di autogoverno[5], poiché le competenze che discendono dall’art. 105 Cost. non possono comportare franchigie dell’attività di detto organo dal sindacato giurisdizionale, sia per il principio di legalità dell’azione amministrativa (artt. 97, 98 e 28 Cost.) che per il principio di effettività della tutela giurisdizionale (artt. 24, 101, 103 e 113 Cost.).
Nonostante i dubbi che in passato sono stati avanzati sull’indipendenza dell’organo giurisdizionale e sull’opportunità che fosse a questo devoluto tale tipo di contenzioso (giudicandosi inopportuno il controllo del giudice amministrativo in ragione della nomina governativa di una parte dei membri del Consiglio di Stato[6]), quest’ultimo ha invece dimostrato – una volta di più – di poter ben svolgere tale delicato ruolo, confermando l’idea secondo cui in un moderno Stato di diritto non vi sono organi sottratti a forme di controllo di natura politica o giuridica, compresi gli organi posti al vertice dello Stato, che si controllano reciprocamente per assicurare l’equilibrio tra i poteri[7].
2. La vicenda contenziosa e la decisione del Consiglio di Stato
La vicenda, nel confermare tali assunti di base, riflette un contenzioso piuttosto comune e diffuso in materia, e può essere compendiata nel modo che segue.
Il CSM decide di conferire l’ufficio direttivo superiore di Presidente Aggiunto della Corte di Cassazione a D.C., magistrato ordinario di settima valutazione di professionalità, preferendo questi a P.D., Presidente Aggiunto della Corte di cassazione. P.D. impugna tale determinazione al Tar Lazio, giudice di primo grado funzionalmente competente ex art. 135 c.p.a., che respinge il ricorso ritenendo che nei casi in questione sia sufficiente l’utilizzo di formule sintetiche, che facciano emergere gli snodi fondanti del giudizio di prevalenza. Il giudice d’appello, dopo aver premesso il principio consolidato secondo cui in materia il CSM è titolare di ampia discrezionalità, il cui contenuto resta estraneo al sindacato di legittimità del giudice amministrativo salvo che per irragionevolezza, omissione o travisamento dei fatti, arbitrarietà o difetto di motivazione[8], effettua un (apparente) “scarto” argomentativo di notevole peso e richiede un «particolare obbligo di motivazione» per l’importanza del posto in concorso, gli eccellenti profili dei candidati e la rilevanza dei loro curricula. In buona sostanza: «quanto maggiore è il rilievo istituzionale dell’incarico messo a concorso, tanto più pregante, puntuale, approfondita e precisa dev’essere la motivazione a supporto del provvedimento di nomina».
In tal modo si perviene a ribaltare la sentenza di primo grado, palesandosi un vizio di motivazione sul profilo professionale di P.D., anche in relazione ai criteri generali di autovincolo[9] che il CSM si è dato nel 2015 con riferimento alla dirigenza giudiziaria (circolare del 28 luglio 2015 del CSM). Ciò avviene essenzialmente su due fronti: i) con riguardo alle attitudini di P.D. derivanti dalla partecipazione alle Sezioni Unite penali (dunque alle funzione nomofilattica cd. “rafforzata”), alle quali si è attribuito un peso minore rispetto all’incarico di D.C. di vice direttore dell’Ufficio del Massimario, ufficio che ha solo una funzione strumentale di studio e informazione; ii) con riguardo all’improprio peso dato dal CSM allo svolgimento di pur rilevanti incarichi istituzionali fuori ruolo di D.C.
3. Il sindacato giurisdizionale (apparentemente) “debole” sui provvedimenti di conferimento di incarichi del CSM
Lungi dall’effettuare in questa sede un approfondimento sulla natura giuridica degli atti di conferimento degli uffici direttivi e semidirettivi[10], ci si limita ad osservare che comunemente essi si ritengono atti di alta amministrazione; del resto, lo stesso CSM è stato definito quale organo di alta amministrazione, o quale organo costituzionale chiamato ad esercitare funzioni amministrative e, in alcuni casi, di alta amministrazione.
D’altra parte, venendo immediatamente al fronte caldo del sindacato, anche il richiamo fatto in limine dal Consiglio di Stato all’ampia discrezionalità di tali atti pare evocare la perplessa categoria dell’atto di alta amministrazione[11]. Senonché, anche in passato il giudice amministrativo non si è sottratto ad un controllo assai penetrante nei confronti delle delibere del CSM, controllo tanto più approfondito quanto più precisi si sono rivelati i criteri elaborati dal Consiglio nell’esercizio della sua funzione paranormativa, la quale ha limitato grandemente quell’alta discrezionalità a cui il giudice amministrativo ha più volte fatto cenno nelle sue pronunce.
Per questa ragione c’è chi ha dubitato che la categoria della discrezionalità sia appropriata con riferimento all’attività del CSM di scelta dei capi degli uffici giudiziari e che il sindacato del giudice amministrativo sulle nomine sia, al di là delle formule tralaticie, un effettivo sindacato sulla discrezionalità[12]. In questo senso, poiché il criterio scelto per il conferimento dell’incarico è meritocratico e non fiduciario (v. T.U. sulla dirigenza giudiziaria del 28 luglio 2015), allora la scelta deve avvenire mediante valutazione comparativa, con criteri predeterminati, finalizzati a pervenire alla selezione del migliore con scarsi margini di opinabilità, che comunque compendiano non già una scelta di opportunità o merito amministrativo, ma un’attività di giudizio comparativo.
Anche qui si apre, come nel borgesiano giardino, una serie infinita di sentieri che si biforcano, per tutti quello che ci porta al tema sconfinato del sindacato sulla discrezionalità. Ci limitiamo a chiosare come, se è ben noto che la nostra dottrina discuta dell’esistenza di atti vincolati, sicché non vi sarebbe nulla di strano nel qualificare tutti gli atti amministrativi come discrezionali, tuttavia, altro è ritenere che tutti i provvedimenti contengano un margine di scelta ed altro è considerare i contenuti di questa scelta sempre ed invariabilmente non sindacabili da parte del giudice se non per ragione di errori macroscopici[13]. Sul punto, basti ricordare come, in materia antitrust, nel recente caso La Roche-Novartis il Consiglio di Stato ha introdotto il criterio di scrutinio della «maggiore attendibilità» (in luogo del precedente sindacato basato sulla semplice attendibilità) in relazione ai provvedimenti dell’Autorità che comportano la decifrazione dei c.d. concetti giuridici indeterminati e l’applicazione regole derivanti da scienze tecniche opinabili[14].
Non serve tuttavia indugiare su tali questioni di ordine generale.
Il sindacato sul vizio di motivazione, nel nostro caso, ha consentito e consente al giudice amministrativo un importante controllo sulle decisioni del CSM, dimostrando, una volta di più, come la motivazione del provvedimento sia «presupposto, fondamento, baricentro ed essenza stessa del legittimo potere amministrativo e, per questo, un presidio di legalità sostanziale insostituibile…»[15], contro ogni tendenza che ne predica la dequotazione, magari evocando l’art. 21-octies, co. 2, l. n. 241/1990[16].
La stessa giurisprudenza delle Sezioni unite, nel definire il confine del sindacato del giudice amministrativo sui provvedimenti del CSM in materia di incarichi direttivi, sembra muoversi sul crinale del distinguo tra sindacato sui criteri e sindacato sul modo in cui i criteri sono applicati in concreto: «per non eccedere dai limiti della propria giurisdizione il giudice amministrativo, chiamato a vagliare la legittimità di una deliberazione con cui il CSM ha conferito un incarico direttivo, deve astenersi dal censurare i criteri di valutazione adottati dall'amministrazione e la scelta degli elementi ai quali la stessa amministrazione ha inteso dare peso, ma può annullare tale deliberazione per vizio di eccesso di potere, desunto dall'insufficienza o dalla contraddittorietà logica della motivazione in base alla quale il CSM ha dato conto del modo in cui, nel caso concreto, gli stessi criteri da esso enunciati sono stati applicati per soppesare la posizione di contrapposti candidati»[17].
Anche per queste ragioni, la scelta parlamentare di non convertire in parte qua il d.l. n. 90/2014 che limitava il sindacato di tali atti all’eccesso di potere “manifesto” appare certamente condivisibile, nella misura in cui ha evitato una probabile declaratoria di incostituzionalità della norma per contrasto con il chiaro disposto dell’art. 113, co. 2, Cost.[18]
4. Il problema della conformazione al giudicato di annullamento e i persistenti limiti all’ottemperanza
Nel caso di specie, peraltro, non ha avuto modo di porsi il vero problema che negli anni ha riguardato tali vicende: il vincolo conformativo del giudicato di annullamento per difetto di motivazione.
Difatti l’appellato, D.C., è stato recentemente collocato a riposo per limiti di età, circostanza che gli è di ostacolo al partecipare utilmente al rinnovando giudizio comparativo circa l’accertato vizio di motivazione, che, come puntualizzato dal Consiglio di Stato, comporta l’obbligo di riprovvedere tenendo conto degli specifici motivi che hanno determinato l’annullamento, ferma restando la piena (ed esclusiva) discrezionalità delle valutazioni di merito sulla prevalenza di un candidato rispetto agli altri.
In buona sostanza ciò non è nel nostro caso possibile, almeno con riguardo all’appellato, in capo al quale vengono conservati gli effetti medio tempore prodotti dagli atti impugnati, tra cui quelli sul trattamento economico percepito e sulla quantificazione dei provvedimenti accessori o consequenziali, richiamandosi il principio discendente dall’art. 2126 c.c. e la giurisprudenza – per vero perplessa e discutibile – sulla modulabilità dell’efficacia temporale delle sentenze di annullamento del giudice amministrativo.
Al netto di tale riferimento, la vicenda concreta esclude la configurabilità di quello che, negli ultimi anni, è stato il vero “capo delle tempeste”, non solo strettamente giuridico, ovvero il tema dell’ottemperanza da parte del CSM di tali sentenze di annullamento.
Da un lato sul punto si è osservato che da un giudicato di annullamento per difetto di motivazione «deriva l’obbligo per l’amministrazione di rinnovare il potere esercitato in modo illegittimo, ora deprivato delle ragioni invalidanti, e cioè attraverso una motivazione che risulti adeguata e sufficiente rispetto ai presupposti sostanziali che erano stati presi in valutazione. Nel rinnovare il giudizio, l’Amministrazione deve sottrarsi al sospetto di elusione mediante la ricerca di un’addizione motivazionale sostitutiva, da applicare a una decisione sostanziale che resta in realtà già preacquisita: addizione semplicemente surrogatoria di quella precedente dichiarata illegittima e dunque venuta meno. Con ciò obliterando che – specie dopo l’innovazione dell’art. 3 l. n. 241 del 1990, che ha elevato il vizio di motivazione a violazione di legge, vale a dire a difetto di un elemento strutturale del provvedimento – la motivazione compone una caratteristica fondativa e intrinseca dell’atto, perché esterna il plausibile ragionamento che ha mosso e condotto l’amministrazione alla scelta: e con cui l’amministrazione esprime, a giustificazione e trasparenza del proprio operato, la scelta fatta che incide sui destinatari della sua azione. Questo significa che non è legittimo, nel caso di intervenuto annullamento giurisdizionale per un vizio di motivazione, semplicemente sostituire una motivazione con un’altra del tutto nuova che, in surroga dell’illegittima, automaticamente conduca al medesimo risultato pratico, quasi si tratti di elementi estrinseci e aggiuntivi all’atto, fungibili o intercambiabili. Al contrario, occorre ripercorrere l’intero ragionamento alla base delle valutazioni già fatte, espungendone quanto accertato illegittimo e valutando quanto residua di ciò che era stato acquisito: che è ciò di cui l’amministrazione era adeguatamente a conoscenza e responsabilmente stimava rilevante al momento delle sue determinazioni. Vero è che l’annullamento giurisdizionale cassa l’atto illegittimo: ma ciò avviene per specifiche e circoscritte ragioni di accertata illegittimità, che verrebbero vanificate se all’amministrazione fosse dato – come fosse stata introdotta una tabula rasa - di dismettere la considerazione della rilevanza da essa già responsabilmente data agli altri, non illegittimi, elementi che aveva assunto da ponderare ai fini decisori, per sostituirli con altri e nuovi elementi, dando luogo ad una banalizzazione, potenzialmente ad infinitum, del vizio di motivazione definitivamente accertato in giustizia»[19].
D’altro canto, come noto, con una molto discutibile sentenza, si è ritenuto che in sede di ottemperanza a un giudicato di annullamento di incarico direttivo, il giudice amministrativo non possa ordinare al CSM di provvedere alla nomina “ora per allora” essendovi la impossibilità fattuale che il nominato prendesse servizio[20]. In quel caso le Sezioni unite ritennero esservi una particolare ipotesi di travalicamento dei limiti esterni della giurisdizione allorché il giudice amministrativo conformi l’agire della pubblica amministrazione in un contenuto «impossibile» essendo la vicenda ormai «chiusa» con il definitivo accertamento dell'illegittimità del provvedimento annullato in sede di cognizione e non sussistendo più le condizioni perché la pubblica amministrazione possa provvedere ancora sicché la tutela dell'interesse legittimo violato, non più realizzabile nella forma (specifica) dell'ottemperanza, è indirizzata verso quella compensativa e risarcitoria.
Tale decisione, comunque, appare oggi nettamente smentita dalla rigorosa, e condivisibile, presa di posizione di Corte cost., n. 6/2018, in tema di ambito dei limiti “interni” ed “esterni” della giurisdizione, ed inoltre, nel merito, si pone in contrasto con la giurisprudenza maggioritaria che riconosce ampi margini di persistenza dell’interesse, morale e/o risarcitorio, nonostante il sopravvenuto pensionamento del ricorrente.
Il caso in esame è comunque inverso, posto che il collocamento a riposo ha riguardato l’appellato e non già l’appellante.
Sicché il problema non si pone.
Questo non significa che, quanto all’ottemperanza, non restino aperte delle importanti questioni. Si è già detto della mancata conversione del d.l. n. 90/2014 in punto di sindacato sull’eccesso di potere “manifesto”. Si deve qui rammentare, però, che la l. n. 114/2014 ha introdotto delle modifiche all’art. 17, co. 2, l. n. 195/1958, determinando un notevole temperamento dei poteri del giudice dell’ottemperanza in relazione ai provvedimenti di conferimento ai magistrati ordinari degli uffici direttivi e semidirettivi.
In particolare, si stabilisce che il giudice amministrativo, nel caso di azione di ottemperanza, qualora sia accolto il ricorso, ordina l’ottemperanza ed assegna al Consiglio superiore un termine per provvedere. Non si applicano le lett. a) e c) dell’art. 114, c. 4, c.p.a. La dichiarata inapplicabilità dell’art. 114, c. 4, lett. a), c.p.a., implica che il giudice amministrativo, nell’ordinare l’ottemperanza, non possa esercitare il potere direttamente sostitutivo con la determinazione del contenuto del provvedimento amministrativo o l’emanazione dello stesso in luogo dell’amministrazione. La dichiarata inapplicabilità dell’art. 114, c. 4, lett. c), specifico per le sentenze non passate in giudicato, implica che il giudice non possa determinare le modalità esecutive, considerando inefficaci gli atti emessi in violazione o elusione e provvedere di conseguenza, tenendo conto degli effetti che ne derivano.
Si tratta di disposizioni di dubbia costituzionalità, sia sotto il profilo della parità di trattamento che del buon andamento dell’amministrazione, che non tengono conto della sopra riportata evoluzione della giurisprudenza costituzionale, la quale non si è limitata (già nel lontano 1968) a ritenere conforme a Costituzione l’impugnabilità degli atti del CSM, ma si è più di recente spinta ad affermare che gli organi di rilevanza costituzionale, al pari di ogni altro soggetto di diritto, sono tenuti al rispetto della legge e che i principi di legalità dell’azione amministrativa e di effettività della tutela giurisdizionale «comportano esplicitamente l’assoggettamento dell’amministrazione medesima a tutti i vincoli posti dagli organi legittimati a creare diritto, fra i quali, evidentemente, gli organi giurisdizionali»[21].
In conclusione la sentenza commentata dimostra come il giudice amministrativo abbia in materia raggiunto un equilibrato dosaggio fra esigenze in parte collidenti, spingendo avanti il proprio sindacato e nel contempo rispettando l’autonomia dell’organo di autogoverno. Nel contempo poco dice, per ragioni banalmente legate alle peculiarità e allo stato del contenzioso, sui persistenti problemi – teorici e normativi – relativi all’ottemperanza delle statuizioni di annullamento dei conferimenti di incarichi del CSM.
Partita tuttora aperta, quest’ultima, che si gioca sul delicato crinale della teoria generale del processo, toccando l’effetto conformativo in caso di sentenza di annullamento sulla motivazione del giudizio di comparazione, e del diritto positivo, con riguardo alla costituzionalità dell’attuale portata della limitata applicabilità in materia dell’art. 114 c.p.a.
[1] B. Latour, La fabbrica del diritto. Etnografia del Consiglio di Stato, trad. it., Troina, 2007, 45.
[2] S. Cassese, Il contributo dei giudici allo sviluppo del diritto amministrativo, in Giorn. dir. amm., 2020, 342.
[3] R. De Nictolis, Il sindacato del giudice amministrativo sui provvedimenti del CSM, in www.giustizia-amministrativa.it, 9 novembre 2019, 3.
[4] Corte cost., n. 44/1968.
[5] Corte cost., n. 435/1995.
[6] Cfr. F. Cuocolo, Ancora sulla sindacabilità delle deliberazioni del C.S.M., in Giur. Cost., 1968, 681 ss.; U. De Siervo, A proposito della ricorribilità in Consiglio di Stato delle deliberazioni del Consiglio superiore della magistratura, ibidem, 690 ss.
[7] G. Silvestri, La parabola della sovranità. Ascesa, declino e trasfigurazione di un concetto, in Id., Lo Stato senza Principe. La sovranità dei valori nelle democrazie pluraliste, Torino, 2005, 88 ss.
[8] Tra i tanti precedenti richiamati v. Cons. Stato, sez. V, 9 gennaio 2020, n. 192.
[9] Sul rilievo dell’autovincolo dell’amministrazione per l’ampliamento del sindacato del giudice, in dottrina v. A. Police, La predeterminazione delle decisioni amministrative. Gradualità e trasparenza nell’esercizio del potere discrezionale, Napoli, 1997; in giurisprudenza v. Cons. Stato, sez. VI, 25 febbraio 2019, n. 1321.
[10] Tema sul quale può utilmente rinviarsi a F.F. Pagano, Il sindacato giurisdizionale sulle deliberazioni del Consiglio Superiore della Magistratura di conferimento degli uffici direttivi alla luce delle recenti modifiche normative, in www.federalismi.it, n. 2/2016.
[11] Cfr. V. Cerulli Irelli, Politica e amministrazione tra «atti politici» e atti di «alta amministrazione», in Dir. pubbl., 2009, 123 ss.
[12] R. De Nictolis, Il sindacato del giudice amministrativo sui provvedimenti del CSM, cit., 4.
[13] Per tale ragionamento v. L.R. Perfetti, Cerbero e la focaccia al miele, in pubblicazione sulla rivista Il processo; in chiave monografica B. Giliberti, Il merito amministrativo, Padova, 2013.
[14] Cons. Stato, sez. VI, 15 luglio 2019, n. 4990.
[15] Corte cost., ord. N. 92/2015.
[16] Sia consentito il rinvio a G. Tropea, Motivazione e giudizio sul rapporto: derive e approdi, in Dir. proc. amm., 2017, 1235 ss.
[17] Cass., sez. un., 8 marzo 2012 n. 3622; Id., 5 ottobre 2015 n. 19787.
[18] Per casistica in merito v. A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2019, spec. 95 ss.
[19] Cons. Stato, sez. V, 4 gennaio 2019 n. 108.
[20] Cass., sez. un., 9 novembre 2011, n. 23302, in Dir. proc. amm., 2012, 127 ss., con nota critica di G. Mari.
[21] Corte cost., 15 settembre 1995 n. 435; Id., 8 settembre 1995 n. 419.
Esternalizzazione della frontiera e finanziamento degli accordi con la “Libia” contro i diritti fondamentali dell’Uomo
di Fulvio Vassallo Paleologo
Sommario: 1. La politica di esternalizzazione della frontiera nel Mediterraneo tra Stati e Unione europea - 2. Gli accordi dell’Italia con la “Libia” e le missioni militari per assistere la Guardia costiera “libica” - 3. Il voto del Parlamento sul finanziamento della missione italiana in “Libia” - 4. Gli accordi tra Italia e “Libia” davanti alla giurisdizione interna - 5. L’invenzione della zona SAR ( Search and Rescue) “libica” e la delega delle operazioni di respingimento collettivo - 6. Riconoscimento dei diritti fondamentali della persona migrante o crimini contro l’umanità ? Le indagini della Corte Penale internazionale - 7. Conclusioni.
1. La politica di esternalizzazione della frontiera nel Mediterraneo tra Stati e Unione europea
In tempi in cui la pandemia da Covid-19 ha ridefinito il concetto di frontiera e di mobilità umana su scala globale si continua a ragionare, ed a praticare scelte politiche e giuridiche, come se non fosse cambiato nulla, come se le attività di controllo o di limitazione della libertà personale e di circolazione, le prassi di respingimento, o di espulsione, fossero praticabili con le stesse modalità adottate negli anni passati. La collaborazione con i paesi terzi rimane ancora basata sul contrasto dell’immigrazione irregolare, che altri definiscono ancora come “clandestina”, piuttosto che sulla riduzione di quel divario sempre più ampio tra paesi ricchi e paesi poveri, sul sostegno nelle campagne sanitarie, sulla lotta alla corruzione e sul ripristino di condizioni minime di rispetto dei diritti umani. Sarebbe il tempo per un riconoscimento effettivo dei diritti fondamentali delle persone, ma sembra invece che la cd. “ripartenza”, dopo il lockdown imposto dal COVID-19, sia caratterizzata da un accresciuto disvalore della vita e della dignità di chi è costretto a mettersi in viaggio senza avere risorse e documenti regolari. Persone, esseri umani come noi, ma ai quali si appiccica addosso anche l’etichetta di untori, da respingere a qualunque costo, anche a costo di vederli galleggiare per giorni in balia delle onde.
Gli eventi di soccorso in mare, normati dalle Convenzioni internazionali, come la Convenzione di Amburgo del 1979 sulla ricerca ed il soccorso in mare (SAR), tendono ad essere considerati come “eventi migratori”[1], così si legge in un recente comunicato della Centrale operativa della guardia costiera italiana (IMRCC). Le finalità di difesa dei confini nazionali sembrano prevalere sulla salvaguardia della vita umana in mare e della dignità della persona, ovunque essa si trovi e qualunque sia il suo stato giuridico. Per rendere esplicito questo capovolgimento di prospettiva, relativamente recente, se si pensa alle missioni di soccorso in acque internazionali seguite alle stragi del 3 e dell’11 ottobre 2013 tra Lampedusa e Malta, si fa ricorso alla esternalizzazione delle frontiere, definizione riassuntiva che rappresenta il coinvolgimento degli stati terzi (rispetto all’Unione Europea) nelle attività di blocco e di respingimento dei migranti che cercano di raggiungere le frontiere europee. Si tratta di politiche migratorie che sono state ampiamente collaudate nel tempo, nel Mediterraneo centrale a partire dai Protocolli operativi stipulati tra Italia e Libia nel dicembre del 2007 (governo Prodi), poi recepiti dal Trattato di amicizia concluso da Berlusconi con Gheddafi nel 2008, seguiti dagli accordi stipulati con la Libia da Maroni nel 2009, e poi da altri governi nel 2011, nel 2012 e infine dal governo Renzi nel 2017 con il Memorandum d’intesa tra l’Italia e il governo di Tripoli. Ancora lo scorso anno il Parlamento nazionale su proposta del governo rinnovava per un ulteriore triennio gli accordi contenuti nel Memorandum d’intesa firmato nel 2017.
Mentre l’Unione Europea ha gestito (e finanziato) in modo unitario, seppure sempre a livello di cooperazione intergovernativa, l’accordo con Erdogan concluso nel 2016 per “chiudere” la rotta balcanica e sigillare i passaggi verso la Grecia, con gli effetti che tutti oggi potrebbero verificare, se solo avessero la voglia di informarsi, con Malta, Italia e Spagna si è preferito lasciare l’iniziativa ai singoli stati, arrivando semmai a finanziare una parte degli accordi bilaterali contro l’immigrazione irregolare, soprattutto sotto il profilo delle missioni aeree di tracciamento delle imbarcazioni che trasportano migranti, e poi per le procedure di rimpatrio con accompagnamento forzato, procedure che oggi risultano assai rallentate proprio per effetto della pandemia, che colpisce in modo ancora virulento molti dei paesi di origine dei migranti, come ad esempio il Bangladesh.
2. Gli accordi dell’Italia con la “Libia” e le missioni militari per assistere la Guardia costiera “libica”
Il salvataggio delle vite in mare costituisce un dovere degli Stati e prevale sulle norme e sugli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare. Le Convenzioni internazionali di diritto del mare [2] cui l’Italia ha aderito costituiscono infatti un limite alla potestà legislativa dello Stato ai sensi degli articoli 10, 11 e 117 della Costituzione e non possono pertanto costituire oggetto di deroga da parte di valutazioni discrezionali dell’autorità politica e dei conseguenti indirizzi delle autorità amministrative e militari. Come ricorda anche la Corte di cassazione con la sentenza n. 112, 16 gennaio 2020 [3], “è utile richiamare la risoluzione n. 1821 del 21 giugno 2011 del Consiglio d’Europa (L’intercettazione e il salvataggio in mare dei domandanti asilo, dei rifugiati e dei migranti in situazione irregolare), secondo cui «la nozione di “luogo sicuro” non può essere limitata alla sola protezione fisica delle persone ma comprende necessariamente il rispetto dei loro diritti fondamentali» (punto 5.2.) che, pur non essendo fonte diretta del diritto, costituisce un criterio interpretativo imprescindibile del concetto di “luogo sicuro” nel diritto internazionale”. Nessuno stato, avvertito di un evento di soccorso di persone in situazione di pericolo in alto mare, può dunque rifiutare il coordinamento delle prime fasi delle attività SAR, o attendere dopo i primi soccorsi l’esito di trattative con altri stati, ad esempio con lo stato di bandiera della nave soccorritrice, allo scopo di “scaricare” su quest’ultimo l’onere dello sbarco a terra dei naufraghi, come in diverse occasioni è stato affermato dal ministro dell’interno Lamorgese [4].
Ritenere che la Libia possa costituire un “luogo sicuro”, e che questa circostanza possa essere percepita dai migranti già prima dell’imbarco, o ancora in caso di respingimento o di ritorno su mezzi della sedicente Guardia costiera libica, contrasta ancora oggi, come contrastava già nel 2018, con la realtà dei fatti e con il combinato disposto delle Convenzioni internazionali di diritto del mare e della Convenzione di Ginevra sui rifugiati.
Eppure, nelle dichiarazioni dei principali rappresentanti dell’attuale governo, malgrado i propositi di discontinuità proclamati al momento dell’insediamento, come ripete il ministro dell’interno Lamorgese, si continua poi ad invocare la solidarietà concreta dell’Europa ed un meccanismo di ricollocamento obbligatorio dei migranti che sbarcano. “Abbiamo inviato a Bruxelles – afferma la ministro dell’interno – idee e proposte con l’obiettivo di superare il principio di responsabilità” del Paese di primo approdo e promuovere regole per gli Stati bandiera cui dovrebbero attenersi le navi private”. Come ricorda l’ANSA, per Lamorgese, “la scommessa, riguardo quest’ultimo punto, è varare una sorta di Codice per le ong: le navi dovranno avere dotazioni adeguate ed equipaggi formati, gli interventi devono essere coordinati dal Centro marittimo competente, nel caso anche quello libico; gli Stati di bandiera dovranno indicare il porto sicuro ed impegnarsi ad accogliere i migranti che sbarcano in un altri Paesi”[5].
Tanta attenzione nei confronti delle navi delle Organizzazioni non governative, ormai bloccate, se non allontanate dal Mediterraneo centrale con il ricorso alla pratica dei fermi amministrativi disposti dalle Capitanerie di porto dopo ispezioni tecniche particolarmente “mirate”, non ha trovato riscontri dall’Unione Europea e non è valsa però a ridurre le partenze dalla Libia, e dalla vicina Tunisia, nella quale si sono probabilmente trasferiti anche trafficanti provenienti dalla Libia. Sono sempre più numerosi i cosiddetti “sbarchi autonomi”, sulle coste di Lampedusa o della Sicilia meridionale. Come si ripetono episodi di abbandono in mare, in acque internazionali, come quello verificatosi in occasione della “strage di Pasquetta” il 13 aprile 2020, sulla quale è stato depositato un esposto presso la Procura di Roma [6].
Si è intanto intensificata la collaborazione con la sedicente Guardia costiera libica, tanto da parte delle autorità maltesi, che da parte delle autorità italiane, che hanno inviato dal 2018, nel quadro della missione NAURAS, una nave della Marina militare nel porto militare di Tripoli ( Abu Sittah) con compiti di assistenza tecnica, formazione del personale e coordinamento operativo. Questa missione, che si inserisce nell’ambito dell’operazione Mare Sicuro,[7] ha visto l’avvicendamento delle unità Caprera e Gorgona, e non è stata ritirata da Tripoli neppure nei giorni nei quali i bombardamenti lambivano il porto ed alla periferia della città infuriava la battaglia tra le milizie fedeli al premier riconosciuto dalla comunità internazionale Serraj ed il Libyan National Army (LNA) del generale Haftar, sostenuto da egiziani e russi.
Gli accordi tra gli stati previsti dall’Annesso alla Convenzione di Amburgo che costituisce parte integrante della convenzione sono finalizzati al soccorso immediato delle persone in pericolo in mare e non si prestano a giustificare defatiganti trattative tra stati al fine della ripartizione dei naufraghi, se non respingimenti collettivi.
Le parti contraenti devono assicurare le necessarie disposizioni per l’approntamento di adeguati servizi di ricerca e soccorso intorno alle loro coste, in modo da garantire un’immediata risposta a qualsiasi chiamata di soccorso, e adottare urgenti azioni per la più appropriata assistenza a qualsiasi persona che si trovi in pericolo in mare . Le parti sono invitate a coordinare i loro servizi e mezzi nazionali, creando dei centri e sottocentri di coordinamento (RCC e RSC), questi ultimi dotati di mezzi per telecomunicazioni con le unità navali ed aeree e con gli RCC e RSC adiacenti. Il terzo capitolo dell’Annesso alla Convenzione SAR prevede il coordinamento delle operazioni di ricerca e soccorso di ciascun Paese con quelle dei Paesi vicini. In base al punto 3.1.9 della Convenzione di Amburgo del 1979, oggetto di un emendamento introdotto nel 2004, «la Parte responsabile della zona di ricerca e salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo la responsabilità di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e la cooperazione suddetti, affinché i sopravvissuti cui è stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in luogo sicuro, tenuto conto della situazione particolare e delle direttive elaborate dall’Organizzazione marittima internazionale (Imo). In questi casi, le Parti interessate devono adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve tempo ragionevolmente possibile». Tale obbligo ricorre anche nel caso in cui le attività di ricerca e soccorso debbano essere svolte al di fuori della zona Sar di competenza, laddove l’autorità dello stato che sarebbe, invece, competente in base alla delimitazione convenzionale delle zone Sar non intervenga, o non risponda entro un tempo ragionevole. Il bene primario da salvaguardare è la vita delle persone.
3. Il voto del Parlamento sul finanziamento della missione italiana in Libia.
Dopo il Senato anche la Camera dei deputati ha approvato - con il voto favorevole del centrodestra - la risoluzione sulle missioni internazionali [8]. A causa delle divisioni interne sugli interventi in favore del governo di Tripoli e della sedicente guardia costiera “libica” , il testo è stato votato per parti separate: la prima votazione, che ha escluso il capitolo del finanziamento alla missione in Libia, ha ottenuto 453 sì, nessuno voto contrario e 9 astenuti. La seconda votazione, relativa agli interventi sulla Libia, ha registrato 401 sì, 23 no e un’astensione [9].
All’indomani del voto in Senato, il 16 luglio, la ministro dell’interno Lamorgese si è recata a Tripoli dove ha incontrato il premier Serraj, il vicepresidente del Consiglio presidenziale Ahmed Maitig, il ministro dell'Interno Fathi Bashagha e quello degli Esteri Mohamed T.H.Siala. Lamorgese ha concordato con i libici l’intensificazione dei rapporti di collaborazione in campo economico [10] e sul fronte del contrasto dell’immigrazione “clandestina”, sottolineando però con una sua dichiarazione la “"necessità di attivare operazioni di evacuazione dei migranti presenti nei centri gestiti dal Governo libico attraverso corridoi umanitari organizzati dalla UE e gestiti dalle agenzie dell'Onu: Oim e Unhcr". Al centro dei colloqui con i libici è stata comunque “l'esigenza di gestire il controllo delle frontiere e i flussi dell'immigrazione irregolare sempre nel rispetto dei diritti umani e della salvaguardia delle vite in mare e in terra", come ha dichiarato la ministro dell’interno italiana, che auspica che la visita serva ad "imprimere un'accelerazione a tutte le attività di collaborazione" tra Italia e Libia con "una nuova e più stringente tabella di marcia" per prevenire l'immigrazione irregolare. A questo proposito sarebbe stata "condivisa l'esigenza di perfezionare la cooperazione tra le forze di polizia, attraverso progetti di formazione, anche al fine di rafforzare le capacità operative nella lotta contro le reti di trafficanti di migranti e la criminalità transnazionale". Risultati da raggiungere "anche attraverso un partenariato strategico in grado di sostenere l'azione del governo libico che ha già conseguito importanti risultati"[11]. Evidente il riferimento implicito della Lamorgese all’elevato numero di migranti intercettati in acque internazionali dalle motovedette libiche assistite dalla Marina militare italiana ( Missione Nauras) e riportati sulle coste libiche.
L’obiettivo dichiarato dal governo italiano sarebbe addirittura replicare con la “Libia” l’intesa raggiunta nel 2016 tra gli stati europei e la Turchia, in modo da contenere le partenze verso l’Europa. Un obiettivo che, alla luce dell’attuale situazione di guerra civile in Libia, appare assai difficile da conseguire, il governo di Tripoli non sembra infatti in grado di controllare il proprio territorio come può permettersi Erdogan in Turchia. Mentre è provato da numerose indagini giornalistiche [12], rimaste prive però di un tempestivo risc0ntro giudiziario, l’elevato “grado di coesione” tra le milizie che sostengono il governo Serraj, riconosciuto dalla comunità internazionale e le organizzazioni di trafficanti, basate soprattutto a Zawia [13]ed a Sabratah [14], i principali punti di partenza dei barconi diretti verso le coste italiane.
4. Gli accordi tra Italia e Libia davanti alla giurisdizione interna
Una recente sentenza della Corte di Appello di Palermo [15] ha “ribaltato” la precedente decisione del Tribunale di Trapani che lo scorso anno ha dichiarato nulli gli accordi esistenti tra l’Italia e le autorità libiche, assolvendo con il riconoscimento dell’esimente della legittima difesa due migranti accusati nel 2018 di avere “dirottato” nel Canale di Sicilia un rimorchiatore battente bandiera italiana, il Vos Thalassa, al fine di evitare, dopo essere stati soccorsi in acque internazionali, di essere ricondotti in Libia. La quarta sezione della Corte di Appello di Palermo ha così stabilito una condanna a 3 anni e 6 mesi per violenza privata, resistenza a pubblico ufficiale e favoreggiamento dell’ immigrazione clandestina, a carico di due dei 67 migranti raccolti a bordo della Vos Thalassa, che in realtà sarebbe meglio definire naufraghi, e non “clandestini”, come li definisce la sentenza, che erano stati soccorsi l’8 luglio 2018 in zona Sar libica da questo rimorchiatore, e poi trasbordati sulla nave Diciotti della Guardia costiera italiana, con la quale erano giunti a Trapani. Lo sbarco in porto a Trapani, fortemente contrastato dall’ex ministro dell’interno Salvini, avveniva soltanto dopo un intervento del Presidente della Repubblica [16].
Secondo quanto deciso dal Giudice delle indagini preliminari di Trapani il 23 maggio 2019, “il potere della autorità libiche di impartire a quelle italiane direttive in vista del rimpatrio in Libia di migranti provenienti da tale Paese…deriva dall’accordo stipulato tra Italia e Libia nel 2017”, che però, in assenza di una approvazione parlamentare ai sensi dell’art.80 della Costituzione, sarebbe “giuridicamente non vincolante e non avente natura legislativa”.
La sentenza del Tribunale di Trapani forniva una “un’ampia ricostruzione del fondamento nel diritto internazionale (consuetudinario e pattizio) del principio di non refoulement e del divieto di tortura, e conclude che “il memorandum Italia-Libia, essendo stato stipulato nel 2017, quando il principio di non-refoulement aveva già acquisito rango di jus cogens, è: – privo di validità, atteso che ai sensi dell’art. 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati ‘è nullo qualsiasi trattato che, al momento della sua conclusione, sia in contrasto con una norma imperativa di diritto internazionale generale; – incompatibile con l’art. 10, co. 1 Cost., secondo cui "l’ordinamento italiano si conforma alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, tra le quali rientra ormai anche il principio di non-refoulement". Inoltre, secondo lo stesso giudice trapanese, “se si riflette un momento sul fatto che i 67 migranti imbarcati dalla Vos Thalassa avevano subìto, prima della partenza dal territorio libico, le disumane condizioni rappresentate dalla Unhcr, appare evidente come il ritorno in quei territori costituisse per loro una lesione gravissima di tutte le prospettive dei fondamentali diritti dell’uomo. Emerge inconfutabilmente che tutti i soggetti imbarcati sulla Vos Thalassa (..) stavano vedendo violato il loro diritto ad essere condotti in un luogo sicuro” (…)
La sentenza della Corte di Appello di Palermo, adottata nel mese di giugno di quest’anno, “ribalta” questa impostazione, ed è stata pubblicata con ampi stralci sul Corriere della Sera [17], che all’epoca dei fatti aveva seguito con particolare attenzione la vicenda, dando anche spazio alle dichiarazioni dell’armatore della nave che escludeva qualsiasi “dirottamento” da parte dei naufraghi [18].
Secondo la Corte di Appello di Palermo, “l’assoluzione dei due migranti dirottatori (definiti dai giudici di appello come «clandestini») deriverebbe da un «approccio ideologico», e costituirebbe una interpretazione addirittura «criminogena» del concetto di «legittima difesa applicata al diritto del mare», che potrebbe «creare pericolose scorciatoie”, ammettendo «condotte dotate di grande disvalore penale ai limiti dell’ammutinamento»: al punto che «chiunque potrebbe partire dalle coste libiche con un barcone e farsi trasbordare da una unità italiana, sicuro di potere minacciare impunemente l’equipaggio qualora esso dovesse disobbedire a un ordine impartito dalla Guardia Costiera di uno Stato» (la Libia) «che, piaccia o no, è riconosciuto internazionalmente». Per la Corte di Appello di Palermo dunque, nel caso dei “dirottatori” soccorsi dalla Vos Thalassa, non sarebbe configurabile una legittima difesa rispetto al pericolo di un’offesa ingiusta perché “i migranti si posero in stato di pericolo volontariamente», e «venne creata artificiosamente una situazione di necessità (la partenza su un barcone di legno) atta a stimolare un soccorso che conducesse all’approdo in suolo italiano dei clandestini e al perseguimento del fine dell’organizzazione”.
Come aveva affermato il giudice di primo grado, invece, sembra evidente che la possibilità di configurare un respingimento collettivo in contrasto con il diritto internazionale e dell’Unione europea incide direttamente sulla possibilità di configurare la legittima difesa, in quanto “incide sul presupposto della sussistenza del diritto violato, rispetto al quale gli imputati avrebbero opposto una legittima resistenza”. Eppure su questo punto decisivo, nella sentenza di appello non si rinvengono argomentazioni in grado di smentire l’articolato quadro di ricostruzione gerarchica delle fonti normative, sovranazionali ed interne, proposto dal Tribunale di Trapani. Un esame che avrebbe dovuto svolgersi anche con riferimento alla sentenza di condanna dell’Italia pronunciata nel 2012 da parte della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, sul caso Hirsi. Perché quando si nega l’ingresso in porto di una nave che ha effettuato soccorsi in acque internazionale non si può eludere il tema dei respingimenti collettivi disciplinato dall’art.4 del Quarto Protocollo allegato alla CEDU,( ma anche dall’art.33 della Convenzione di Ginevra), e della violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti, sancito sia dall’art. 3 della CEDU che dall’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
Al di là della configurabilità, o dell’esclusione della esimente della legittima difesa, si rileva da questa recentissima sentenza il riconoscimento degli accordi di collaborazione stipulati dal governo italiano con il governo di Tripoli e con la Guardia costiera che vi fa riferimento, articolata secondo le varie città territoriali nelle quali si trovano le basi delle motovedette, in gran parte donate dall’Italia, in esecuzione del Memorandum d’intesa del 2 febbraio 2017 e dei precedenti accordi e protocolli operativi stipulati da diversi governi a partire dal dicembre del 2007. Da anni, tuttavia, come si ricava da rapporti ben documentati delle Nazioni Unite [19], costituisce fatto notorio la sorte dei naufraghi intercettati in mare dalla sedicente Guardia costiera “libica” e riportati a terra. Come del resto costituiva, e costituisce ancora oggi, fatto notorio la circostanza che il governo di Tripoli non riesce ad esercitare la sovranità sull’intero paese, diviso tra diverse milizie che si combattono tra loro con l’appoggio di Stati come l’Egitto, la Russia, la Turchia, e gli Emirati Arabi. Per effetto di questi combattimenti [20], la condizione della popolazione libica e dei migranti in transito in quel paese, nel quale fino allo scorso anno potevano ancora svolgere attività lavorative, prima che il generale Haftar sferrasse la sua offensiva nel Fezzan e nella Tripolitania, fino ad arrivare alla periferia di Tripoli, si è ridotta alla condizione di totale deprivazione dei diritti fondamentali che le Convenzioni internazionali riconoscono alle persone, in quanto tali, a partire dal diritto alla vita e dal diritto di non subire trattamenti inumani o degradanti.
Rimane da chiedersi a questo punto se i migranti che, per salvarsi dagli abusi e dalle violenze subite in Libia, sono costretti ad affidarsi ai trafficanti per raggiungere le coste europee, quando vengano soccorsi in acque internazionali, da un mezzo privato di uno stato dell’Unione Europea, siano ancora portatori di un nucleo minimo di diritti fondamentali, a partire dal diritto alla vita ed dal diritto di non subire respingimenti collettivi e quindi trattamenti inumani o degradanti vietati dalle Convenzioni internazionali.
Ancora oggi non sembra che il governo di Tripoli, che è stato più volte visitato in questo periodo da esponenti del governo italiano ( prima il ministro degli esteri Di Maio, poi la ministro dell’interno Lamorgese) possa garantire una effettiva tutela alle persone migranti, ed ai suoi stessi cittadini che si trovano nei territori che comunque controlla, affidandosi a milizie che sono sospettate di essere colluse proprio con quelle organizzazioni di trafficanti che si vorrebbero combattere. Si tratta adesso di vedere come la penseranno i giudici della Corte di Cassazione, che con la sentenza pubblicata il 20 febbraio 2020 [21], relativamente ad un caso di soccorso in acque internazionali nei quali si era anche pretesa una collaborazione con le autorità libiche, hanno chiaramente indicato la necessità di rispettare il principio di gerarchia delle fonti e dunque il carattere sovraordinato del diritto internazionale, come previsto dagli articoli 10, 11 e 117 della Costituzione, rispetto agli accordi bilaterali tra Stati.
5. L’invenzione della zona SAR ( Search and Rescue) “libica” e la delega delle operazioni di respingimento collettivo
La Convenzione Sar di Amburgo del 1979 si fonda sul principio della cooperazione internazionale. Le zone di ricerca e salvataggio sono ripartite d’intesa con gli altri Stati interessati. Tali zone non corrispondono necessariamente alle frontiere marittime esistenti. Esiste l’obbligo di approntare piani operativi che prevedono le varie tipologie d’emergenza e le competenze dei centri preposti. L’obbligo di ricerca e soccorso a carico delle autorità statali ricorre anche nel caso in cui tali attività debbano essere svolte al di fuori della zona Sar di competenza, laddove l’autorità dello stato che sarebbe, invece, competente in base alla delimitazione convenzionale delle zone Sar non intervenga, o non risponda entro un tempo ragionevole. Sarà l’autorità nazionale che ha avuto il primo contatto con la persona in pericolo in mare a coordinare le operazioni di salvataggio.
Gli Stati di bandiera non possono ritenersi competenti a coordinare operazioni di ricerca e salvataggio a migliaia di chilometri di distanza dalla sede delle Centrali operative di coordinamento (MRCC) e comunque le responsabilità possono essere difficili da individuare data la distinzione tra quelle navi che hanno una chiara relazione con la bandiera in base alla quale navigano e quelli che operano con il sistema di registro chiamato delle “bandiere di comodo”. Non sembra neppure che i governi possano applicare il diritto internazionale del mare in materia di salvaguardia della vita umana ed il diritto dei rifugiati a seconda della appartenenza della nave soccorritrice, in ipotesi ad una ONG, o a un vettore commerciale, o a seconda della diversa nazionalità del suo armatore.
Quando le autorità italiane individuano la responsabilità SAR “libica”, con riferimento alle persone che, trovandosi a bordo di gommoni in acque internazionali, sono state segnalate alle autorità italiane, e dunque ricadono già sotto la giurisdizione italiana, indipendentemente dallo stato di bandiera dei mezzi civili o militari che vengono impegnati nel soccorso, realizzano tutti gli estremi di una consegna (rendition) di quelle stesse persone alle autorità di un paese che non garantisce un luogo di sbarco sicuro, che non aderisce alla Convenzione di Ginevra sui rifugiati, nel quale sono note le collusioni tra autorità statali e trafficanti, e che da ultimo si trova in una fase di conflitto armato e di gravi violazione dei diritti umani anche ai danni della popolazione libica.
Il Mediterraneo centrale è ormai affollato di navi militari, ben oltre la fallimentare missione europea IRINI, anche per il conflitto civile in Libia, ma le persone che fuggono da quel paese, in preda alla guerra civile, rimangono per giorni abbandonate in alto mare, perchè si attende l’arrivo dei guardia coste libici. Per questo motivo, qualsiasi ritardo negli interventi, magari in attesa che intervengano i libici o i maltesi, come il silenzio sulle effettive modalità dei soccorsi, sulla loro esatta ubicazione, sulla nazionalità dei naufraghi e sull’intervento di assetti militari di altri paesi, che finiscono per agevolare respingimenti in Libia, costituisce una grave complicità dei governi nei gravi crimini che continuano ad essere commessi in mare ed in territorio libico ai danni delle persone migranti. . Non si riesce ancora ad imporre agli Stati il tempestivo avvio delle attività di ricerca e soccorso in alto mare che sarebbero imposte dalle Convenzioni internazionali. Basta incrociare i tracciati dei voli degli aerei di Frontex con i rilevamenti sui luoghi nei quali avvengono i soccorsi, meglio, le intercettazioni, da parte della Guardia costiera libica, per rilevare il grado di collusione tra le autorità militari europee e le milizie libiche. La situazione di emergenza sanitaria indotta dalla pandemia da COVID 19 ha indotto Italia e Malta a dichiarare i propri porti “non sicuri” [22] non nell’interesse dei migranti, però, bensì allo scopo di salvaguardare la tenuta del sistema sanitario nazionale.
Non sembra dunque che le dichiarazioni sul rispetto dei diritti umani in Libia rilasciate dalle autorità di Tripoli agli esponenti del governo italiano abbiano margini di credibilità, alla luce del fatto che si ripetono da anni, senza che la situazione dei migranti bloccati in Libia alla mercè delle milizie colluse con i trafficanti, sia significativamente migliorata. La situazione di degrado e violenza che subiscono i naufraghi riportati indietro dalla sedicente Guardia costiera “libica” è confermata e documentata nei più recenti rapporti delle Nazioni Unite [23] ancora operanti in Libia in alcuni punti di sbarco e nei pochi centri di detenzione che riescono a visitare. Per le Nazioni Unite non ci sono dubbi sulla sorte delle persone intercettate in acque internazionali nella cd. zona SAR “libica” e riportate in Libia dalla sedicente Guardia costiera libica. Questo il tenore di un recente comunicato congiunto di tutte le agenzie ONU presenti in Libia [24]:“Siamo anche consapevoli delle affermazioni secondo cui le chiamate di soccorso ai pertinenti centri di coordinamento per il salvataggio marittimo sono rimaste senza risposta o sono state ignorate, il che, se vero, mette seriamente in discussione gli impegni degli Stati interessati a salvare vite umane e rispettare i diritti umani. Nel frattempo, la Guardia costiera libica continua a riportare le navi sulle sue coste e collocare i migranti intercettati in strutture di detenzione arbitrarie dove si trovano ad affrontare condizioni orribili tra cui torture e maltrattamenti, violenza sessuale, mancanza di assistenza sanitaria e altre violazioni dei diritti umani. Queste strutture sovraffollate sono ovviamente ad alto rischio di essere attaccate dal COVID-19”.
Chiunque continua ancora a rappresentare la realtà dei soccorsi nel Mediterraneo centrale con il richiamo ad una zona SAR “libica” nega la realtà dei fatti, perché non esiste una intera zona di mare sotto il controllo di una unica centrale di coordinamento nazionale (MRCC) in Libia [25], e soprattutto perché la sedicente Guardia costiera libica, per quanto assistita dalla agli assetti italiani ed europei, non ha le capacità operative per garantire la salvaguardia della vita umana in mare nella vastissima zona che le si è assegnata.
Cosa si attende da parte delle Nazioni Unite, per sospendere il riconoscimento effettuato dall’IMO (Organizzazione internazionale del mare) nel giugno del 2018, che pure è un organismo delle stesse Nazioni Unite, di una zona SAR “libica” che da tempo costituisce l”escamotage” per legittimare i respingimenti collettivi delegati alle motovedette donate al governo di Tripoli e coordinate da assetti aerei e navali italiani ed europei ?
Diverse associazioni, tra le quali Statewatch, hanno sottoscritto una lettera aperta con cui si invita l’IMO a revocare la zona di ricerca e salvataggio libica (SAR), a causa del suo status irregolare e delle prassi che subordinano il diritto marittimo, il diritto internazionale e i diritti dei migranti agli obiettivi della politica sull’immigrazione. Nella lettera [26]si denuncia il riconoscimento di zone SAR esclusive, riservate ad un singolo stato, al fine di ritardare i soccorsi, per consentire respingimenti e suggerire che la nazionalità degli equipaggi delle navi di salvataggio possa essere utilizzata come motivo valido per ostacolare il completamento dei soccorsi. Inoltre, secondo la denuncia, questo riconoscimento di una competenza “esclusiva” dei libici viene utilizzato per punire i cittadini europei per aver salvato persone che altrimenti sarebbero state abbandonate al loro destino. Da tempo l’Imo, che ha sede a Londra, non risponde a queste denunce e gli stati che si avvalgono della finzione di una zona Sar libica si guardano bene dal sollecitare un diverso atteggiamento di questo organismo. Anche su questo si registra solo silenzio oppure disinformazione per non mettere in discussione le politiche migratorie che si basano sulla esternalizzazione dei controlli di frontiera.
6. Riconoscimento dei diritti fondamentali della persona migrante o crimini contro l’umanità? Le indagini della Corte Penale internazionale sulla sedicente Guardia costiera libica
Un atto di accusa assai documentato è stato depositato alla Corte Penale Internazionale[27], che stava già indagando sulla sedicente Guardia costiera libica, per denunciare le gravi violazioni del diritto internazionale ed europeo commesse dagli stati e dall’Agenzia europea FRONTEX nel Mediterraneo centrale a partire dalla fine imposta all’operazione italiana di soccorso in acque internazionali MARE NOSTRUM, conclusa nel dicembre del 2014 [28].
La denuncia sostiene che: “Per arginare i flussi migratori dalla Libia a tutti i costi… e al posto di operazioni di salvataggio e sbarco sicure come prescrive la legge, l’UE sta orchestrando una politica di trasferimento forzato nei campi di concentramento, come le strutture di detenzione (in Libia) dove vengono commessi crimini atroci”. Secondo l’atto di accusa inoltrato al Tribunale penale internazionale, “I funzionari dell’Unione europea e degli Stati membri avevano una conoscenza precoce e piena consapevolezza delle conseguenze letali della loro condotta”.
La Corte Penale internazionale, che sta ancora indagando sui crimini commessi in Libia a partire dal 2011 dopo la caduta di Gheddafi [29], impiegherà molti anni per arrivare ad una sentenza. Per questa ragione occorre valorizzare anche davanti ai giudici nazionali la imponente documentazione che è stata raccolta dagli avvocati internazionalisti che hanno presentato il ricorso alla Corte dell’Aja. Si tratta di una documentazione, e di testimonianze, che possono avere uno specifico rilievo penale, anche alla luce del diritto interno, e dunque di materiali che potrebbero rientrare in indagini condotte da una magistratura italiana che voglia ripristinare il principio di legalità e lo stato di diritto, rilevanti anche nelle relazioni internazionali a partire dalla valenza degli accordi con i libici e dalle prassi attuative che vedono direttamente coinvolte autorità italiane che dunque ricadono sotto la competenza della giurisdizione nazionale, anche se gli effetti dei loro atti si producono al di fuori dei confini italiani. Come riporta l’Avvenire, venerdì 17 luglio “per la prima volta in Italia ci sarà un processo con l’accusa di avere eseguito un respingimento di massa illegale verso la Libia: 101 migranti e potenziali richiedenti asilo tra cui minori non accompagnati. La procura di Napoli ha firmato la richiesta di rinvio a giudizio per il comandante della nave Asso 28 e per un rappresentante dell’armatore che nel luglio 2018 avevano riconsegnato ai libici decine di naufraghi soccorsi in acque internazionali. Come riferisce Nello Scavo, “a disposizione dei magistrati, oltre alle indagini svolte dalla capitaneria di porto di Napoli, ci sono anche le registrazioni audio delle conversazioni radio ascoltate il 30 luglio 2018 dalla nave Open Arms”.
Come è documentato da una importante intervista di Flore Murard Yovanovitch all’avv. Ousman Noor, “il Centre Suisse pour la Défense des Droits des Migrants (CSDM), un’organizzazione no profit fondata nel 2014 e con sede a Ginevra, Svizzera, ha inviato al Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura una richiesta di indagine formale ai sensi dell’articolo 20 della Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti concernenti la condotta dell’Italia nel Mediterraneo centrale, che attraverso l’addestramento e l’equipaggiamento della Guardia costiera libica sta portando alla tortura di massa, lo stupro e alla riduzione in schiavitù migliaia di rifugiati e migranti ricondotti in Libia. 50.000 persone per l’esattezza, dall’inizio del Memorandum of Understanding con la Libia del 2017”. Secondo l’avvocato Ousman Noor, “ormai sono anni, che esistono le prove documentate della sistematica tortura in Libia di migliaia di profughi ricondotti in Libia dalla Guardia costiera di Tripoli (rapporti Nazioni Unite e gruppi di diritti umani). L’Unhcr, l’Oim e il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa hanno anche chiesto di interrompere immediatamente la collaborazione con i libici. Affidando i respingimenti alla Guardia costiera libica, l’Italia viola gli impegni assunti con la Convenzione contro la tortura. La cooperazione dell’Italia con la Libia facilita, infatti, gli orribili abusi di migliaia di persone in cerca di sicurezza e rifugio, e la loro tortura da parte di attori libici. Sia i funzionari del governo italiano che di altri paesi europei hanno anche riconosciuto pubblicamente quanto sta accadendo. Nella nostra richiesta d’inchiesta dimostriamo che riconducendo i migranti in Libia, la Guardia costiera libica agisce per conto dell’Italia”. L’avvocato dell’organizzazione svizzera aggiunge che “ci sono anche lì prove schiaccianti che su imbarcazioni affollate, respinte e alle quali è stato vietato di sbarcare nei porti di Malta o d’Italia, inutili sofferenze fisiche – mancanza di cibo, di acqua, bruciature, ecc… – e psicologiche, sono inferte su persone vulnerabili e già esposte per giunta alla tortura in Libia. Pratiche che sono riconducibili alla tortura, ed è un aspetto che, dopo questo caso, vogliamo portare avanti con il Csdm”.
Oggi paghiamo le conseguenze delle politiche migratorie incentrate sula criminalizzazione dei soccorsi umanitari e dell’allontanamento delle ONG, che lo scorso anno venivano indicate sulle prime pagine di tutti i giornali come gli unici soggetti che avrebbero tratto profitto dai soccorsi, quando non fossero colluse con i trafficanti. Accuse infamanti che non hanno trovato alcun riscontro in sede dibattimentale davanti ai giudici. Non saranno certo i processi penali o lo schieramento dell’esercito a difendere la collettività da un nemico subdolo come il virus Covid-19, che sta dilagando in, adesso, tutto il mondo senza subire alcun freno alla sua diffusione dal regime di chiusura delle frontiere che quasi tutti gli Stati hanno stabilito e progressivamente inasprito. Adesso che per ragioni economiche le frontiere si vanno riaprendo, con gli attuali dati dei casi nel mondo globalizzzato, i rischi maggiori per una seconda ondata di contagi non provengono certo dalle rotte marine dei migranti che riescono ancora a fuggire dalla Libia, o che partono dalla Tunisia, un paese in ginocchio per la crisi economica seguita alla pandemia, ma con un sistema sanitario improntato a standard europei.
Le proposte che fanno i governi per il ritorno alla “normalità” ripropongono, attraverso gli accordi bilaterali con governi poco inclini al riconoscimento dei diritti umani, come quello di Tripoli, i vecchi strumenti della chiusura delle frontiere e della clandestinizzazione della forza lavoro migrante. La crisi, prima sanitaria, poi economica e presto anche politica, scaturita in seguito al diffondersi del Covid-19, sembra restare invece qualcosa a sé stante, imprevedibile nel suo futuro svolgersi, lontana da tutti i modelli che abbiamo conosciuto in passato. Il carattere di unicità e la trasversalità dell’impatto che essa ha avuto sul mondo, ha spiazzato gli esperti e i politici, interessati unicamente alla caccia del consenso elettorale, che non sono ancora capaci di andare oltre le logiche di chiusura delle frontiere e di respingimento collettivo, delegato alle autorità militari dei paesi terzi.
7. Conclusioni
Non si può accettare che la situazione di progressiva erosione dei diritti umani riconosciuti dalle Convenzioni internazionali, determinata dai condizionamenti imposti dagli stessi soggetti politici che poi sfruttano le immagini di abbandono e desolazione che derivano dalle loro politiche, possa continuare ancora ad aggravarsi nella lunga fase di “convivenza” con la pandemia da COVID-19. Senza una netta separazione tra realtà dei fatti e propaganda politica le decisioni continueranno ad essere prese su un piano inclinato che potrebbe portare presto alla negazione dei diritti fondamentali di tutti, migranti e cittadini.
Occorre una proposta complessiva e coraggiosa di svolta politica sui temi dell’immigrazione e del soccorso in mare, dal punto di vista legislativo e quindi delle prassi applicate, che segnino una vera discontinuità con quanto finora avvenuto, e che si continua a verificare, malgrado il parziale cambio di governo. Lo stato di emergenza proclamato in occasione della pandemia da COVID-19 rischia di subordinare i diritti umani dei migranti e la libertà di azione di chi li soccorre e presta loro assistenza, ad un astratto interesse generale di carattere sanitario che si presta come grimaldello per scardinare i diritti fondamentali che vanno riconosciuti a qualunque persona quale che sia la sua nazionalità o il suo stato giuridico (come ricorda l’art. 2 del Testo Unico sull’immigrazione n.286 del 1998).
La società civile e le organizzazioni non governative, per quanto oggetto di pesanti attacchi, proseguiranno nel loro lavoro quotidiano di denuncia. anche con riferimento ai casi di segnalazione di imbarcazioni in difficoltà in alto mare, non soccorse con la dovuta tempestività, o di persone riportate in Libia e scomparse o sottoposte ad altri abusi.
[1] http://www.mediterraneocronaca.it/2020/07/14/trovata-la-barca-che-nessuno-ha-soccorso-54-sbarcati-a-lampedusa-foto-e-video/
[2] I. Panicolopulu, G. Baj, Controllo delle frontiere statali e respingimenti nel diritto internazionale e nel diritto del mare, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, n. 1, 2020, pp. 42-47.
[3] https://www.giurisprudenzapenale.com/2020/02/21/le-motivazioni-della-cassazione-sulla-mancata-convalida-dellarresto-carola-rackete-nella-vicenda-sea-watch-3/
[4] https://www.ilmessaggero.it/politica/migranti_lamorgese_piano_ong_regolamentazione-4900910.html
[5] https://www.open.online/2019/12/05/migranti-lamorgese-rispolvera-il-codice-di-condotta-per-le-ong-la-protesta-non-serve-basta-il-diritto-internazionale/
[6] http://nuovidesaparecidos.net/?p=3589
[7] https://www.iltaccoditalia.info/2020/05/22/inchiesta-marina-militare-dirottati-fondi-per-navi-libiche-destinate-al-contrasto-del-traffico-di-esseri-umani/
[8] https://www.avvenire.it/attualita/pagine/libia-orrori-e-vergogna-migranti?fbclid=IwAR2mYLikryrbRyuaXSk552y5shTFVngQrGthkIG_af5J1_ORa26z0pmoWx0
[9] https://www.huffingtonpost.it/entry/la-camera-approva-il-rifinanziamento-della-missione-in-libia-23-no-dalla-maggioranza_it_5f101fa5c5b6d14c33635840?ncid=other_facebook_eucluwzme5k&utm_campaign=share_facebook&fbclid=IwAR1w9L7R-FKjgLRBANIpqHQAnrchd1_kthlRClNgEZxW6wgLkifwD1Ydllg
[10] https://www.libyaobserver.ly/news/al-sirraj-lamorgese-review-procedures-return-italian-firms-libya?fbclid=IwAR0SlBeyiSq9SkYuMJ8wubJztu-HtAfTsI843sdFRc2xLoEXnUUegeWw7VY
[11] https://www.ansa.it/sito/notizie/flash/2020/07/16/-lamorgese-a-sarrajevacuare-migranti-da-centri-libici-_47cd9a00-9f9a-4e67-a366-b1849c0f4b0a.html?fbclid=IwAR0OlzHi3KEiA_giCIRn55bYBixzspiB-o3XX1mwAyBfDeG0sD3X39UPsuU
[12] https://www.avvenire.it/attualita/pagine/migranti-trafficante-libico-pagato-da-europa
[13] https://espresso.repubblica.it/inchieste/2019/10/25/news/chi-e-bija-1.340267
[14] https://www.corriere.it/video-articoli/2020/04/16/libia-trafficante-esseri-umani-ammou-torna-sabratha-le-forze-sarraj/f67340f0-7fee-11ea-8804-717fbf79e066.shtml
[15] https://www.a-dif.org/2020/07/12/dopo-la-sentenza-della-corte-di-appello-di-palermo-sul-caso-vos-thalassa-quale-tutela-per-i-diritti-fondamentali-nel-mediterraneo-centrale/
[16] https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/07/13/nave-diciotti-dopo-intervento-del-colle-sbarcati-67-migranti-di-maio-rispettare-le-decisioni-di-mattarella/4489366/
[17] https://www.pressreader.com/italy/corriere-della-sera/20200710/281741271713095
[18] https://www.corriere.it/politica/18_luglio_12/caso-diciotti-parla-manager-vos-thalassa-noi-circondati-minacciati-ma-nessun-dirottamento-717cfa3e-8613-11e8-b570-8bf371a11210.shtml
[19] https://www.refworld.org/docid/5b8d02314.html
[20] https://www.repubblica.it/esteri/2020/07/15/news/gli_usa_in_libia_i_mercenari_russi_vicini_a_putin_hanno_lasciato_migliaia_di_trappole-bomba_-262029184/?fbclid=IwAR2o4McWBJgdKdKtoo_Ufqx3HLa9G6350O24H_J_ugP9ecfX8LKnakZ6V9s
[21] https://www.sistemapenale.it/it/scheda/cassazione-sea-watch-illegittimo-larresto-di-carola-rackete
[22] https://www.questionegiustizia.it/articolo/lo-stato-di-emergenza-sanitaria-e-la-chiusura-dei-porti-sommersi-e-salvati_21-04-2020.php
[23] https://www.iom.int/news/migrants-missing-libya-matter-gravest-concern
[24] https://www.unhcr.it/news/dichiarazione-congiunta-sulla-libia-unhcr-ocha-unicef-unfpa-wfp-oms-oim.html?fbclid=IwAR17i6eT-wgZS_UxQ3Af65ZndmT7hxeIxHNLivxIc45Xy-6CMY12wmE9tNY
[25] http://www.tempi-moderni.net/2020/03/31/esposto-allimo-per-demolire-lalibi-della-zona-sar-libica/
[26] https://docs.google.com/document/d/1XBW_nWU6kbF7nkzxeMRWjO5a4W7Cp4KR8EYR-_PuGMU/edit
[27] https://dossierlibia.lasciatecientrare.it/dalla-francia-nuovo-esposto-allaja-contro-litalia-i-politici-responsabili-di-crimini-contro-lumanita/
[28] https://euobserver.com/migration/145071
[29] https://nena-news.it/libia-migranti-schiavi-inchiesta-dellaia/
La “decadenza” del processo amministrativo
(Nota a Consiglio di giustizia amministrativa per la regione siciliana, 25 giugno 2020, n. 466)
di Filippo D’Angelo
1. L’ordinanza del Consiglio di giustizia amministrativa per la regione siciliana n. 466 del 25 giugno 2020 ha sollecitato l’intervento dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato in funzione di nomofilachia per una “esatta interpretazione dell’art. 114, c. 1, c.p.a.” (punto 7 dell’ordinanza di rimessione) e per una “riflessione aggiornata sulla natura del termine decennale alla stregua anche delle caratteristiche nuove che, nel tempo, ha assunto il giudizio di ottemperanza” (punto 7.2 dell’ordinanza di rimessione).
In particolare le ha deferito i seguenti quesiti tra loro collegati:
- se il termine decennale per esercitare l’azione di ottemperanza abbia natura decadenziale o prescrizionale
- se, nel secondo caso, il decorso dell’ipotetica prescrizione si interrompa solo con l’esercizio dell’azione di ottemperanza o anche con atti di natura stragiudiziale (come, ad esempio, una diffida rivolta all’amministrazione)
- se, ancora, l’eventuale prescrizione riguardi il diritto di azione processuale o il titolo giuridico riconosciuto dalla sentenza passata in giudicato.
2. Quanto alla prima questione, il giudice del rinvio è dell’avviso che il termine decennale previsto dall’art. 114, co. 1 c.p.a. operi “nella sostanza, come un termine di decadenza” (punto 8, lett. c) dell’ordinanza di rimessione), oltrepassando il dato letterale della norma per cui la “azione si prescrive con il decorso di dieci anni dal passaggio in giudicato della sentenza”.
Il giudice siciliano ha fatto leva su due argomenti, uno sistematico e l’altro “sostanziale”.
Rispetto al primo ha notato che tutti i termini per esercitare le azioni davanti al giudice amministrativo sono “ordinariamente perentori” (punto 7.5, lett. g) dell’ordinanza di rimessione), ivi compresi quelli propri dell’azione risarcitoria o di quella di nullità, e che non vi è pertanto ragione di escludere da tale regola l’azione di ottemperanza. Una diversa soluzione sarebbe “del tutto eccentrica e distonica rispetto al sistema delle azioni nel processo amministrativo” (punto 7.5, lett. a) dell’ordinanza di rimessione).
Quanto al secondo argomento ha invece rilevato che parlare di prescrizione o di decadenza nel caso dell’azione di ottemperanza a “poco rileva”, mentre conta la sostanza (punto 7.5, lett. d) dell’ordinanza di rimessione).
Importa cioè l’effettivo esercizio dell’azione processuale che deve avvenire entro il decennio dal passaggio in giudicato della sentenza ineseguita dall’amministrazione.
L’ordinanza di rimessione indugia sulla natura giuridica del termine per esercitare l’azione di ottemperanza e giunge ad una conclusione che ritiene “armonica” con la struttura del processo amministrativo (punto 8, lett. c) dell’ordinanza di rimessione).
Lascia perplessi la disinvoltura nel ritenere superata all’interno del processo amministrativo della distinzione tra i concetti di ‘decadenza’ e di ‘prescrizione’ in nome di un non meglio precisato criterio sostanziale, ma è tema che non può essere esaurito nella spazio della presente annotazione.
Al di là della specificità del caso dell’ottemperanza, non pare si possa infatti negare in assoluto che anche nell’ambito del processo amministrativo vi siano azioni a tutela di diritti proponibili nei termini di prescrizione.
3. Secondo quesito. Se in ogni caso la prescrizione si interromperebbe solo con l’esercizio dell’azione di ottemperanza o anche con atti di natura stragiudiziale.
Qui il Consiglio di giustizia sembrerebbe richiamare recenti orientamenti della giurisprudenza civile che hanno già sottolineato la “possibilità di interrompere il corso della prescrizione esclusivamente mediante l’atto di esercizio dell’azione, vale a dire con la proposizione della domanda giudiziale, e non anche con ogni altro atto che valga a costituire in mora il debitore” (così Cass., Sez. lav., 20 aprile 2017, n. 10016).
Con riferimento al ricorso per l’ottemperanza al giudicato amministrativo il giudice rimettente ritiene infatti che l’unico modo per impedire il decorso infruttuoso del termine decennale che attiene al “diritto di azione processuale” è “l’esercizio dell’azione stessa” (punto 7.5, lett. d) dell’ordinanza di rimessione).
A suo giudizio la progressione del termine processuale non può essere incisa da atti stragiudiziali preliminari, come una diffida indirizzata all’amministrazione inerte, che “non hanno effetto interruttivo” (punto 7.5, lett. f) dell’ordinanza di rimessione).
Diversamente la vicenda processuale verrebbe rimessa alla disponibilità di una sola parte in causa, cioè il privato, e si perverrebbe al “paradossale risultato di una serie di atti interruttivi stragiudiziali fatti nell’imminenza dello scadere dei dieci anni, reiterati ogni dieci anni, per un tempo potenzialmente indefinito” con possibili profili di illegittimità costituzionale (punto 7.5 dell’ordinanza di rimessione).
Ne discende la conclusione che “non è concepibile un atto stragiudiziale interruttivo del termine del diritto di azione processuale” (punto 7.5 dell’ordinanza di rimessione).
Nel caso del giudizio d’ottemperanza, l’art. 114 c.p.a. non impone più al privato di notificare una previa diffida all’amministrazione (l’obbligo è infatti caduto con l’entrata in vigore del Codice del processo amministrativo), ma concede una semplice facoltà in tal senso: “l’azione si propone, anche senza previa diffida, con ricorso notificato alla pubblica amministrazione e a tutte le altre parti del giudizio definito dalla sentenza o dal lodo della cui ottemperanza si tratta” (co. 1).
Se ne deduce che la diffida non ha rilevanza ai fini dell’ammissibilità del ricorso in ottemperanza, diversamente dai casi in cui l’esercizio dell’azione dev’essere necessariamente preceduto da una diffida indirizzata all’amministrazione resistente, come ad esempio nell’ipotesi di cui all’art. 3, co. 1 del d.lgs. 198/2009 che precisa che il ricorrente, prima di iniziare la ‘class ction’ amministrativa, “notifica preventivamente una diffidaall’amministrazione o al concessionario ad effettuare, entro il termine di novanta giorni, gli interventi utili alla soddisfazione degli interessati”. Casi in cui la diffida opera come condizione di procedibilità dell’azione e non vale certo a interrompere il relativo termine di esercizio.
Dal disposto dell’art. 114 c.p.a. si deduce invece che la diffida del privato, ove proposta, persegue altri scopi: da un parte stimolare l’amministrazione ad adempiere spontaneamente al giudicato ed evitare lo scontro giudiziario; dall’altra manifestare l’inequivocabile volontà di far valere il titolo giuridico sancito dalla sentenza di accoglimento e interrompere così il decorso della relativa prescrizione ove prevista dalla legge.
A fronte di ciò l’esigenza di trovare un ragionevole bilanciamento tra le esigenze del privato che può agire in giudizio nell’arco di una decade e quelle dell’amministrazione che non può essere condizionata oltre misura dall’iniziativa giudiziaria della controparte.
Anche di questo aspetto si dovrà occupare l’Adunanza plenaria.
4. Terza e ultima questione (in realtà al primo posto nell’ordinanza di rimessione dei quesiti). Se in ogni caso la prescrizione riguarderebbe il diritto di azione processuale o il titolo giuridico riconosciuto dalla sentenza passata in giudicato
Il collegio remittente non si sofferma particolarmente sulla motivazione ma si limitata praticamente ad asserire che l’art. 114, co. 1, c.p.a. si “riferisce chiaramente alla prescrizione dell’azione e non del diritto sottostante” (punto 7.5, lett. b) dell’ordinanza di rimessione).
L’Adunanza plenaria dovrà pronunciarsi anche sotto questo profilo.
Quantità ingente di droghe leggere: la Cassazione conferma i due chilogrammi
(ovvero, in common law il risultato conta più del metodo. Nota a Cass. SS.UU. n. 14722/2020, Polito).
di Lorenzo Miazzi
Sommario: 1. Dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo. La necessità di una common law in materia di stupefacenti - 2. Modica, ingente, lieve… Dal 1975 parole, parole, parole - 3. Cosa vuol dire ingente? “Disinvolta o spudorata?” - 4. Ingente, sì, ma quanti chili? Rispondono le Sezioni Unite - 5. L’errore contenuto nella sentenza ‘Biondi’ e le sue conseguenze - 6. SS.UU. Polito: ciò che conta è il risultato - 7. Qualche rischio e una precisazione.
1. Dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo. La necessità di una common law in materia di stupefacenti
Se è vero, come è vero, che buona parte del lavoro dei giudici penali coinvolge il mondo variegato degli stupefacenti[1], si può dire che quotidianamente uno dei problemi principali che affrontano i giudici è proprio quello di individuare le condotte punite dal T.U. n. 309/1990. Gli innumerevoli interventi della Corte di cassazione su tutti gli aspetti del fenomeno sono un indice inequivocabile di tale incertezza. E molti sollevano, non a torto, la questione della determinatezza della fattispecie penale, e cioè della possibile lesione del principio di legalità ex art. 25 della Costituzione.
Qui si tratta della materia degli stupefacenti, ma questo non è, ahimè, un fenomeno inconsueto. E’ un fatto che il legislatore in sempre più campi non legifera tempestivamente, e quando interviene è spesso lacunoso; che la velocità (dei cambiamenti) e la complessità (delle situazioni) rendono molto difficile ottenere una legislazione tempestiva e completa su tutto; che la domanda di giustizia non per questo si ferma, e anzi diviene più impaziente.
La conseguenza? E’ necessitata. Nell’assenza, o nell’assoluta inadeguatezza, della legge, il giudice è portato, indotto, costretto a creare una “propria” legge, sino a creare prassi giurisdizionali sempre meno vincolate da norme positive.
Nel settore degli stupefacenti (che non è certo materia nobile come la bioetica o l’economia o internet, dove il tema è altrettanto scottante) tocca alla giurisprudenza la creazione quotidiana del diritto: quantificare l’ingente quantità o al contrario l’uso personale, qualificare l’uso di gruppo e l’uso personale, individuare la soglia della lieve entità…. E passando agli aspetti procedurali, è toccato ai giudici letteralmente inventare un sistema per l’adeguamento delle sentenze già in giudicato al vorticoso mutamento di leggi applicabili: se e come si riduce la pena, se e come si interviene nei patteggiamenti…
E’ una creazione di diritto non voluta, spesso criticata[2], ma estesa e profonda. Nell’ambito delle varie fattispecie penali si va dall’infinitamente piccolo - i milligrammi di una dose stupefacente che bastano per concretizzare il reato di cessione[3] - all’infinitamente grande - ogni anno vengono sequestrati circa 100 tonnellate di stupefacenti - senza che vi sia una sola individuazione legislativa che precisi le quantità che determinano il passaggio dall’irrilevanza alla rilevanza penale e dall’una all’altra fattispecie criminosa.
A questo compito supplisce la giurisprudenza. Anzi, i giudici: è una common law necessaria. Mi permetto di dire che non c’è niente di pericoloso o terribile in questo. Noi siamo legati a forme diverse, ma nei paesi di common law ciò avviene ordinariamente. Tutti i giorni qualche giudice crea una norma nuova, adattando principi esistenti (precedenti e leggi) a casi inediti. Inevitabilmente, per quanto detto sopra, questo avviene e avverrà - non in tutti i campi, ma sempre di più - anche nel nostro ordinamento. Non vedo poi neppure troppi pericoli: la qualità media dei magistrati italiani è molto alta; la cornice è la Costituzione (con le norme convenzionali); la Cassazione e la Corte Costituzionale due buoni controllori per interpretazioni troppo ardite.
La sentenza delle Sezioni Unite in commento, la n. 17422, Polito, è un perfetto esempio di quanto premesso[4].
2. Modica, ingente, lieve… Dal 1975 parole, parole, parole
L’aggravante speciale di cui all’art. 80 comma 2 (“Se il fatto riguarda quantità ingenti di sostanze stupefacenti o psicotrope, le pene sono aumentate dalla metà a due terzi”) nasce con la legge n. 685/1975, la legge che pone le basi dell’attuale Testo Unico[5] e che per la prima volta stabilisce una tripartizione delle quantità di sostanze stupefacenti che si possono detenere o commerciare: accanto alla quantità “ordinaria”, punita con la pena ordinaria, prevede una soglia in basso, al di sotto della quale la detenzione non è punibile, e una soglia in alto, che porta ad un aumento di grande rilevo. Solo che per definire le soglie non usa un parametro numerico - come sarebbe naturale parlandosi di quantità - ma due parole, modica e ingente. La quantità modica non è punita, la quantità ingente è punita sino a due terzi in più.
Modica contro ingente, dunque, che significano non punibilità contro aggravamento: nascono così due vicende, parallele e mai più destinate a toccarsi, che giungono fino a oggi.
La vicenda della soglia in basso, quella che scrimina l’uso personale, è la più nota. Per determinare la “modica quantità” la giurisprudenza degli anni ’80 oscillò fra criteri soggettivi e oggettivi, quantitativi minimali e possibilità di scorte, sino a stabilizzarsi nel descriverla come “il quantitativo sufficiente per qualche giorno per il tossicodipendente medio”[6]: un criterio comunque piuttosto lasco, che portava a quantitativi non proprio ridotti che dispiacevano a una parte delle forze politiche.
Così ci provò il legislatore, a indicare le quantità: ma non ebbe fortuna. Il primo intervento, del 1990, che introdusse e determinò quantitativamente la “dose media giornaliera”, riducendo assai i parametri elaborati dalla giurisprudenza, venne travolto dal referendum del 1993; il secondo intervento, con la legge n. 49/2006 e le sue “dosi medie singole”, finì annegato nelle contraddizioni interne alla norma e sterilizzato dalla mancata coattività della determinazione sino a divenire pressoché irrilevante per la giurisprudenza. I due interventi fallirono perché partivano entrambi da posizioni proibizioniste pre-concette: legittime, ci mancherebbe, ma avulse sia dal contesto normativo (la legge n. 685/1975 è prevalentemente una legge di tutela della salute pubblica e della salute del tossicodipendente) che dal contesto reale, cui volevano imporre la camicia di forza di una valutazione quantitativa ordinata e prudente che il turbolento, disperato e ingovernabile mondo del consumo non poteva indossare.
Meno nota è la vicenda della soglia in alto, quella della determinazione della “quantità ingente”. Nella quale, più ancora che per l’uso personale, l’assoluta mancanza di interventi legislativi - primari o secondari o di semplice orientamento - ha determinato che questa sia nel modo più trasparente una vicenda di common law: intesa nel suo senso di sistema contrapposto alla civil law, in cui il diritto è creato dallo stesso giudice, in relazione ad un conflitto già insorto e sottoposto alla sua decisione.
Fra gli oggetti di creazione giurisprudenziale in materia di sostanze stupefacenti però non può mancare un cenno ad altra invenzione lessicale del legislatore. Negli anni ’80 infatti i giudici erano comprensibilmente restii a mandare in carcere per non pochi anni gli innumerevoli tossicodipendenti che detenevano qualche dose in più - in quantità si diceva “non modica”; e ciò spingeva i giudici ad alzare sempre più la soglia quantitativa della “modica quantità. Nel 1990, quindi, per sfuggire all’alternativa fra non punibilità e pena (severa) per il fatto ordinario il legislatore introdusse il gradino intermedio della punizione del piccolo spaccio, definendolo “fatto di lieve entità”. Fatto che per quanto il legislatore cercasse di precisarlo con disposizioni generali, finì con il creare un’ulteriore soglia quantitativa di creazione giurisprudenziale[7].
3. Cosa vuol dire ingente? “Disinvolta o spudorata?”
Dovendo applicare un’aggravante pesantissima (capace di portare la pena massima a più di trent’anni!) senza coordinate quantitative normative, la giurisprudenza degli anni ’80 e ’90 sperimentò disparate formule lessicali. Nelle diverse sentenze di quegli anni si legge, di volta in volta, che “ingente” significa “molto grande”, “rilevante, consistente”; “immane”; “non immane”; “notevole”; “particolarmente notevole e rilevante”; “imponente”; “pericoloso”… La situazione richiama irresistibilmente una delle battute più famose di un film di quegli anni, “Pretty Woman”, quando il venditore di cravatte chiede al ricchissimo Richard Gere : “Mi scusi signore, esattamente per sfacciata somma di denaro, che intendeva .. disinvolta o diciamo spudorata?”. Ma la giurisprudenza non rispondeva con la stessa chiarezza del magnate: “Spudorata, diciamo”.
L’inevitabile ricorso alle Sezioni unite produsse però una soluzione interlocutoria. La sentenza n. 17/2000, Primavera”, consolidato il fatto che l’aggravante prescinde da aspetti oggettivi e riguarda solo il dato quantitativo e che questo va verificato in base al principio attivo e non al lordo (due risultati di per sé allora non scontati), conclusivamente affermò che l’aggravante “ricorre ogni qualvolta il quantitativo di sostanza oggetto di imputazione, pur non raggiungendo valori massimi, sia tale da creare condizioni di agevolazione del consumo nei riguardi di un rilevante numero di tossicodipendenti, secondo l'apprezzamento del giudice del merito che, vivendo la realtà sociale del comprensorio territoriale nel quale opera, è da ritenersi in grado di apprezzare specificamente la ricorrenza di tale circostanza.”
È palese che tale principio non è sufficientemente chiaro, aggrovigliandosi intorno a formule vaghe (“quantitativi non massimi”, “numero rilevante”) e introducendo anzi un ulteriore elemento di incertezza, e cioè la valutazione territoriale variabile, capace di portare legittimamente a circa 200 soglie diverse in Italia (tanti erano i tribunali).
Così la giurisprudenza riprese a dividersi, ripresentando le medesime oscillazioni lessicali e quantitative, spesso censurando apertamente le SS.UU. Primavera rilevando come “il mercato della droga ha caratteri globali e, normalmente, non riceve significativi connotati da una determinata area territoriale”[8]; è in questa fase che si manifesta “l'esigenza di ancorare la nozione di ingente quantità ad un parametro improntato, per quanto possibile, a criteri oggettivi e ciò anche per evitare un insanabile contrasto fra la circostanza aggravante in questione ed il principio di determinatezza”[9], valorizzando i dati dell’esperienza giudiziaria. E le oscillazioni quantitative rimasero così estese da costringere le Sezioni Unite a un nuovo intervento.
4. Ingente, sì, ma quanti chili? Rispondono le Sezioni Unite
Il punto di svolta di questa vicenda giurisprudenziale si ha con la sentenza delle SS.UU. n. 35258/2012, Biondi. La sentenza finalmente prende atto dell’insufficienza dell’ennesima risposta lessicale e non quantitativa; la rassegna della giurisprudenza esaminata dal Massimario nel 2011 a beneficio della Corte squaderna l’evidenza che il termine “ingente” è fonte in merito delle quantificazione più disparate, che vanno da 15 grammi a 100 chilogrammi. E la sentenza amaramente rileva che si è giunti “alla - apparentemente paradossale - conclusione in base alla quale la sussistenza dell'aggravante (e l'aggravamento della pena) dipendono dalla concorrenza di una circostanza oggettiva, molto soggettivamente interpretata, però, in quanto essa è rimasta concettualmente incerta e quantitativamente fluttuante”[10].
La sentenza Biondi - giungendo a un dato quantitativo certo - opera quindi una vera e propria rivoluzione, di cui va posto in evidenza il criterio adottato.
Nella realtà, la sentenza parte dal dato empirico della “casistica scaturente dalla indagine condotta dall'Ufficio del Massimario di questa Corte, sul "materiale giudiziario" a sua disposizione” e ricava il dato medio del quantitativo ritenuto ingente: che è un quantitativo preciso, in grammi:; e conclude che non si può definire ingente un quantitativo di principio attivo inferiore in grammi a 500 per l’eroina, 1500 per la cocaina, 2000 per l’hashish e la marijuana.
Questa sentenza nega di “usurpare una funzione normativa, che ovviamente compete al solo legislatore” (forse perché teme di essere qualificata per quello che è, cioè una sentenza di common law) e afferma di “compiere una operazione puramente ricognitiva, che, sulla base dei dati concretamente disponibili e avendo, appunto, quale metro e riferimento i dati tabellari … individui, sviluppando detti dati, una "soglia verso l'alto", al di sopra della quale possa essere ravvisata la aggravante di cui al comma 2 dell'art. 80 d.P.R. 309 del 1990”.
Praticamente: per giustificare la scelta di indicare un dato quantitativo secco supplendo alla carente indicazione normativa, la sentenza elabora ex post un ancoraggio al dato normativo molto complicato: partendo dal concetto di “dose media giornaliera” del 1990 e dal dato della “dose media singola” (DMS) introdotto da un decreto ministeriale del 2006, valorizza il “quantitativo massimo detenibile” (QMD) ottenuto con il moltiplicatore della dose media singola suggerito dal decreto; infine moltiplica questo risultato per un moltiplicatore di sua propria invenzione (che quantifica in 2000) che serve a raggiungere il dato quantitativo da cui in realtà si era partiti. Un triplo salto mortale interpretativo. Che si traduce, limitandosi alle sostanze contenenti D9-THC che qui interessano, nel partire dalla DMS di 25 mg stabilita dal DM 11 aprile 2006, moltiplicarla per il moltiplicatore ministeriale - originariamente 20, ma poi aumentato a 40 dal DM 4 agosto 2006 - per ottenere un QMD di 1000 milligrammi per marijuana e hashish, moltiplicarlo per il moltiplicatore empirico (di elaborazione giurisprudenziale) 2000. Il risultato è di tornare cosi al risultato numerico - 2 chilogrammi - da cui si era partiti; risultato che per le droghe leggere peraltro si ricava in modo molto contorto al par. 15.2: si parte da 50 kg lordi, moltiplicati per la percentuale media di principio attivo del 5% (dato inesistente in natura, ma chiudiamo anche questo occhio) per arrivare di nuovo a 2 chilogrammi di principio attivo, che è l’ingente quantità.
In sintesi: nella soluzione fornita dalla sentenza Biondi viene prima il risultato finale, un dato quantitativo secco che è il frutto di un’operazione empirica; ma nella motivazione, per oscurare la creazione di common law col fumo di una motivazione ordinaria, si procede al calcolo (complicatissimo e astruso) partendo da un riferimento normativo tabellare inconferente.
È palesemente una giustificazione postuma, ma serve a evitare l’accusa di usurpare la funzione normativa. Glissando sul fatto che il legislatore, a esercitare quella funzione normativa, non ci pensasse proprio, e fosse ben lieto di scaricare la palla ai giudici.
5. L’errore contenuto nella sentenza Biondi e le sue conseguenze
Il diavolo fa le pentole, ma il Tar annulla i coperchi.
Va male, alla sentenza Biondi, questa operazione di mascheramento. Perché quella degli stupefacenti è una materia infida, in cui al ragionamento giuridico occorre accompagnare la pazienza di seguire la girandola di modifiche legislative, abrogazioni, annullamenti, orientamenti e revirements, norme europee e decreti ministeriali…
Ed era sfuggito in quella camera di consiglio che il Tar del Lazio il 21 marzo 2007 aveva disposto l’annullamento[11] del DM 4 agosto 2006, annullamento che però i codici non evidenziavano nitidamente (per la tecnica compilativa di non modificare le norme e solo annotare le sentenze)…
Per cui il calcolo corretto era (scusate, ma devo riproporlo) DMS 25 mg x 20 = QMD 500 mg x 2000 = 1 chilogrammo di principio attivo (ingente quantità).
Che fare? Correggere le Sezioni Unite o prenderle per buone anche se il dato normativo è sbagliato? Meglio la toppa o il buco? Il buco, risponde sulle prime la giurisprudenza di merito (correggere le Sezioni Unite è cosa che un giudice di campagna mai si sarebbe sognato di fare) seguita dalla giurisprudenza di legittimità che determina il limite del principio attivo in 1 chilogrammo. Ma a partire dal 2016 la Corte di cassazione comincia a pensare che è meglio la toppa, rifacendo il calcolo con metodi diversi (chi moltiplicando ancora la DMS per il moltiplicatore ministeriale 40, chi invece raddoppiando il moltiplicatore empirico a 4000…) purché si arrivi al risultato di 2 chilogrammi di principio attivo per l’ingente quantità, da cui era partita la sentenza Biondi.
E quindi si torna alle Sezioni Unite, cui si rivolge Cass. Sez. IV, con l’ordinanza n.38635/2019, in cui ci si chiede se la dichiarazione di incostituzionalità del 2014 e l’introduzione di nuove norme abbiano alterato il quadro di riferimento della sentenza Biondi e, ancora, se si deve correggerne il calcolo riguardo alle droghe leggere[12].
6. SS.UU. Polito: ciò che conta è il risultato
La questione viene affrontata e decisa dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 14722 del 30.1.2020, depositata il 12 maggio 2020, con massima che qui si riporta:
“a seguito della riforma introdotta nel sistema della legislazione in tema di stupefacenti dal D.L. 20 marzo 2014, n. 36, convertito con modificazioni dalla L. 16 marzo 2014, n. 79, mantengono validità i criteri fissati dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 36258 del 24 maggio 2012, Biondi, per l'individuazione della soglia oltre la quale è configurabile la circostanza aggravante dell'ingente quantità prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2;
con riferimento alle c.d. droghe leggere la soglia rimane fissata in 2 kg. di principio attivo”.
La sentenza ha il grande merito di dire le cose come sono; ha il torto di riproporre in parte un percorso motivazionale non necessario, che la espone a qualche rischio.
Ha poco senso ripercorrere l’articolato ragionamento giuridico della motivazione sulla persistenza del quadro giuridico di riferimento, oggetto della prima parte del quesito dell’ordinanza di rimessione: sia perché è chiaramente esposto nei paragrafi 12-14 , sia perché, come già nella sentenza Biondi, è una giustificazione ex post, è “fumo”. Interessa l’arrosto, che si trova al par. 14.3, che ripropongo letteralmente con evidenziazioni mie:
“In altre parole, nel ragionamento della Corte è venuta prima la verifica delle quantità definibili ingenti (significativo il riferimento esemplificativo ai 50 kg. di 'droghe leggere') e poi quella dei numeri atti a rappresentarle, sicché l'evidente errore di lettura del D.M. quanto al valore-soglia di principio attivo del THC non può inficiare in alcun modo l'accertamento empirico delle quantità rilevanti effettuato dalle Sezioni Unite, ma impone solo una correzione dei fattori del calcolo per ricostruirlo secondo i principi espressi in sentenza; e che questa correzione riguardi il moltiplicatore normativo della dose media singola (20 divenuto 40 e poi tornato 20) per ottenere la dose-soglia o, in alternativa, il moltiplicatore empirico di questa (2000 o 4000) poco importa, perché il risultato aderente all'esito dell'indagine induttiva delle Sezioni Unite cristallizzato nella sentenza 'Biondi' è che la soglia minima perché si possa intendere ingente una quantità di 'droga leggera' è di 2 kg. di principio attivo.”
Insomma, è chiarissimo: in common law, il risultato conta più del metodo.
I giudici hanno deciso che:
«L'aggravante della ingente quantità, di cui al comma 2 dell'art. 80 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, non è di norma ravvisabile quando la quantità sia inferiore a 1.500 grammi per la cocaina, 500 grammi per l'eroina, 2000 grammi per le droghe leggere, ferma restando la discrezionale valutazione del giudice di merito, quando tale quantità sia superata».
Quella che ho proposto è una fusione fra le sentenze Primavera, Biondi e Polito, ed è la nuova regola. L’hanno decisa i giudici, tutti: quelli del primo grado valutando ognuno il proprio processo e il quantitativo che ne era oggetto “secondo l'apprezzamento del giudice del merito, vivendo la realtà sociale del comprensorio territoriale nel quale opera”[13]; i giudici d’appello confermando o adattando quel giudizio; i giudici di legittimità stabilendo che quei quantitativi corrispondono “a quei criteri di ragionevolezza, di proporzionalità e di equità, che proprio la più volte ricordata sentenza Primavera, di queste Sezioni unite, ebbe, a suo tempo, a indicare.[14]” e che in particolare per le droghe leggere il quantitativo di 2000 grammi è “aderente al reale contenuto dell'analisi effettuata dalla sentenza 'Biondi' del 2012 come riferita alle caratteristiche oggettive della sostanza”[15].
7. Qualche rischio e una precisazione
Così impostata la soluzione, aveva poco senso spaccare il capello in quattro sul percorso, che conta relativamente. Ma anche stavolta, come si è detto, la Corte di Cassazione ripropone il ragionamento ex post per ancorarsi formalmente ad un dato normativo. Così facendo però espone la soluzione adottata a diversi rischi.
Il primo è che ipervalutando appositamente il significato del moltiplicatore empirico - sul quale la Corta ha sorvolato con un tranciante “poco importa”[16] - si chieda ora che il nuovo moltiplicatore - 4000 - sia esteso dalle droghe leggere alle droghe pesanti. Non ci vorrà molto per vedere arrivare i primi ricorsi in tal senso, e non saranno privi di una loro logica.
Il secondo rischio è che il dato oggettivo che individua l’ingente quantità viene ad essere collegato all’unico dato normativo esistente, cioè a quella ‘dose media singola’ stabilita dal D.M. 11 aprile 2006, secondo criteri che però sono del tutto opinabili e discussi; per questo non sarebbe imprevedibile né irragionevole una modifica normativa di quei criteri, che si tradurrebbe però, senza alcuna necessità, nella modifica del dato empirico della ingente quantità, che - ripeto - è nei fatti del tutto indipendente da esso.
Infine, una annotazione.
La sentenza si prende anche il compito di fare chiarezza lessicale e giuridica rispetto ad una formula che era stata ripresa da più parti, quella di “quantitativo massimo giornaliero”. La Corte di Cassazione ribadisce che la normativa vigente prevede la “dose media singola” intesa, ai sensi del D.M. 11 aprile 2006, come quantità di principio attivo per singola assunzione idonea a produrre in un soggetto tollerante e dipendente un effetto stupefacente e psicotropo; e prevede poi un quantitativo massimo definito “soglia”, significante la quantità massima detenibile ai sensi dell’art. 73 comma 1 bis (ora 75 comma 1 bis). Il rapporto fra dose media singola (DMS) e valore soglia, cioè quantitativo massimo detenibile (QMD) é dato da un moltiplicatore variabile di matrice normativa in relazione alle caratteristiche di ciascuna sostanza. Non si può perciò ritenere che il QMD rappresenti il quantitativo assumibile (e quindi detenibile) in un giorno, ma lo si deve ritenere destinato anzi a “consentire (tollerare) anche un modesto accumulo per più giorni, sempre presunto come destinato all'uso personale”.
Pertanto l’espressione “quantitativo massimo giornaliero”, utilizzata da una parte della giurisprudenza, compresa l’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite[17], non ha significato, dovendosi sempre fare riferimento solo alla DMS e al QMD. E’ una precisazione non solo lessicale, ma anche sistematica, utile a togliere qualche dubbio a chi, affrontando la complicata materia, si trovava a fare i conti persino con una formula non corrispondente al dato normativo.
[1] Buona parte quantomeno del lavoro “grave”, quello che porta gli imputati in carcere, se attualmente su 53.000 detenuti più di 21.000 lo sono per stupefacenti (cui aggiungere se si vuole anche i tossicodipendenti in carcere per reati finalizzati al consumo).
[2] Considerazioni critiche sul ruolo della giurisprudenza in materia di stupefacenti, con la chiara accusa di “usurpare” il ruolo del legislatore, si rinvengono ad esempio in G. Marinucci-E. Dolcini-G.L. Gatta, Manuale di Diritto Penale – Parte Generale, VIII ed., p. 69.
[3] Cass. Sez. 6, n. 8393 del 22.1.2013 ad esempio affronta una fattispecie in cui la dose attiva di eroina è risultata pari a gr. 0,0032, a fronte di una soglia minima di efficacia psicoattiva indicata dal perito in grammi 0,0005.
[4] Secondo una valutazione critica, la sentenza “accentua la tendenza dell’ordinamento penale verso quei caratteri del diritto penale giurisprudenziale propri delle tradizioni di common law” : Carlo Bray, “Le Sezioni unite stabiliscono in 2 kg di principio attivo il valore oltre cui è integrata l’aggravante dell’ingente quantità di droghe “leggere”. Law in action o vulnus alla riserva di legge?”, in www.sistemapenale.it, edito il 28.5.2020.
[5] La legge 685/1975 prevedeva all’art. 71 la sanzione per il traffico di sostanze stupefacenti (al quale, per quanto riguarda le sostanze stupefacenti o psicotrope classificate nelle tabelle II e IV, che interessano oggi, applicava già la reclusione da due a sei anni); all’art. 74, fra le aggravanti specifiche, che “se il fatto riguarda quantità ingenti di sostanze stupefacenti o psicotrope le pene sono aumentate dalla metà a due terzi”; infine all’art. 80 che non era punibile “chi illecitamente acquista o comunque detiene modiche quantità delle sostanze … per farne uso personale”.
[6] Sez. 6, Sentenza n. 7219 del 18/11/1989
[7] In ordine alla quale mi permetto di rinviare a: Lorenzo Miazzi, Determinazione della pena in materia di stupefacenti: è possibile elaborare delle linee-guida?, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, edito il 3.6.2014.
[8] Sez. 6, Sentenza n. 9029 del 2011.
[9] Ciò avviene con la sentenza n. 20119/2010, Castrogiovanni, la quale afferma che secondo i dati dell’esperienza giudiziaria apprezzabili in cassazione “di regola” non possano di regola definirsi 'ingenti' i quantitativi di droghe 'pesanti' o 'leggere' che, sulla base di una percentuale media di principio attivo per il tipo di sostanza, siano rispettivamente al di sotto dei limiti di 2 kg. e 50 kg.
[10] Si rinvia alla panoramica della giurisprudenza di merito contenuta a p. 16 della sentenza Biondi, al cui termine si legge la conclusione sopra riportata.
[11] Per motivi che la sentenza in commento definisce “non rilevanti”; ma non è proprio così. La sentenza amministrativa contiene infatti una “penetrante critica di carattere metodologico all’approccio che il mondo politico manifesta nei confronti della attività legislativa”: così Carlo Alberto Zaina, in “Annullato il decreto Turco sui quantitativi massimi di cannabis per uso personale”, in www.ristretti.it .
[12] L’ordinanza pone il seguente quesito:
"Se, con riferimento alle cd. "droghe leggere", la modifica del sistema tabellare realizzata per effetto del D.L. 20 marzo 2014 n. 36 convertito con modificazioni nella legge 16 maggio 2014, n. 79, imponga una nuova verifica in ordine alla sussistenza dei presupposti per l'applicazione della circostanza aggravante della ingente quantità, in considerazione dell'accresciuto tasso di modulazione normativa, oppure mantengano validità, per effetto della espressa reintroduzione della nozione di quantità massima detenibile, ai sensi del comma 1 bis dell'art. 75 d.P.R. n. 309 del 1990 e ss.mm .ii., i criteri basati sul rapporto tra quantità di principio attivo e valore massimo tabellarmente detenibile di cui alla sentenza delle SS.UU. n. 36258 del 24 maggio 2012, Biondi, Rv. 253150".
[13] Sentenza Primavera, par. 35.1
[14] Sentenza Biondi, par. 15.2
[15] Sentenza Polito, par. 14.3
[16] Anche C. Bray, op. cit. alla nota 4, ritiene che si debba “prestare maggiore attenzione su questo punto”.
[17] Cass. Sez , p. 4: “il d.m. 4 agosto 2006, che, con riferimento alle cd. "droghe leggere" aveva innalzato il quantitativo massimo giornaliero di principio attivo detenibile…” Ancora questa formula si rinviene in Sez. 4, Sentenza n. 49366 del 19/07/2018; in Sez. 6, Sentenza n. 36209 del 13/07/2017…
Covid-19 e legittimazione a ricorrere, o la degradazione dell’interesse pubblico ad interesse legittimo [1]
di Paolo Gentili
L’emergenza ha trasformato, ovviamente in parte, il processo amministrativo non solo nel suo svolgimento, ma, sempre in parte, anche nei suoi presupposti.
Mi riferisco alla legittimazione a ricorrere, vale a dire all’interesse legittimo.
E’ emerso infatti un fenomeno nuovo; nuovo, per lo meno, come fenomeno processuale ordinario e, come tale, tranquillamente accettato. Il fenomeno dello Stato ricorrente in primo grado.
I fatti sono noti: sono i due casi nei quali la presidenza del consiglio ha impugnato avanti al Tar l’ordinanza con cui il presidente della regione Marche aveva disposto, nella primissima fase dell’emergenza, la chiusura delle scuole nel territorio regionale; e l’ordinanza con cui, nella parte finale della fase 1, il presidente della regione Calabria aveva anticipato l’apertura regolamentata al pubblico di bar e ristoranti.
Entrambe le volte la presidenza ha escluso il ricorso per conflitto di attribuzioni in corte costituzionale e ha optato senza esitazioni per il ricorso al Tar.
Lo Stato si è quindi posto tranquillamente come “amministrato” rispetto alla regione. Ed è significativo che le difese regionali, a loro volta, solo pro forma hanno eccepito l’inammissibilità di questi ricorsi. Si sono limitate, infatti, ad affermare che le controversie presentavano il cosiddetto “tono costituzionale” e per questo spettavano alla corte costituzionale. Ma non hanno eccepito che, indipendentemente da questo, lo Stato non era comunque ammesso ad impugnare quelle ordinanze, entrambe basate sul potere del presidente della regione di adottare provvedimenti urgenti in materia sanitaria (art. 32 l. 833/78), semplicemente perché non è configurabile un interesse legittimo dello Stato in rapporto a questi provvedimenti.
Se rimane vero, anche durante l’emergenza, che per proporre un ricorso al Tar occorre essere titolari di un interesse legittimo, o per lo meno affermare di esserlo, come si spiega che in queste circostanze sia emerso un interesse legittimo dello Stato, ovvero che lo Stato si sia posto in posizione di amministrato della regione?
Per essermene dovuto occupare direttamente, e per averci quindi dovuto pensare, mi sono dato questa spiegazione.
Non c’era “tono costituzionale” legittimante un conflitto di attribuzioni perché questo presuppone un riparto di attribuzioni già fissato a priori dalla Costituzione e da norme subcostituzionali attuative; e un provvedimento che, esplicitamente o implicitamente (cioè per il suo contenuto), non rispetti quel riparto.
Nei casi in questione, invece, si stratificavano attribuzioni in materia di emergenza sanitaria spettanti sia allo Stato che alle regioni, senza una determinazione preventiva dell’ambito di esercizio spettante a questo e a quelle.
Il solo criterio utile a distinguere e, soprattutto, ad individuare chi dovesse intervenire, era quindi il principio di sussidiarietà, unitamente ai subprincipi di differenziazione e adeguatezza, enunciato nel primo comma dell’art. 118 Cost.
E’ stata la prima volta che questo principio ha avuto una applicazione diretta e operativa a livello di contenzioso amministrativo.
Che cosa significa sussidiarietà? Significa che deve provvedere, tra più livelli tutti teoricamente competenti, quello “più vicino al problema”, cioè quello dotato delle maggiori e più complete conoscenze degli aspetti tecnici e di fatto del problema.
Quindi, si vede che il principio di sussidiarietà non è un criterio di riparto preventivo di attribuzioni; bensì un criterio che opera a posteriori, “a valle”, dopo che il problema si è presentato, e che consente di individuare, vista la natura del problema, quale autorità è meglio in grado di affrontarlo.
Per questo non si poneva un problema costituzionale e preliminare di attribuzioni violate, ma, in definitiva, un problema di merito, di adeguatezza della capacità istruttoria dell’autorità intervenuta di dominare il problema; e, correlativamente, di adeguatezza dell’istruttoria in concreto posta a base del provvedimento.
Le regioni non disponevano della capacità istruttoria idonea ad intervenire in quei contesti, perché non disponevano della conoscenza globale, nazionale e internazionale, del problema epidemiologico, e potevano quindi effettuare solo interventi settoriali, basati sulla sola conoscenza della situazione regionale; che non potevano armonizzare e coordinare con la situazione generale di cui la situazione regionale era solo una parte, e una parte inscindibile.
Per questo doveva intervenire lo Stato: per assicurare (almeno in tesi) una istruttoria basata sulla conoscenza completa del problema.
Il ricorso al Tar proposto dallo Stato, dopo che le regioni erano, ciononostante, intervenute, mirava allora, essenzialmente, a far valere questo profilo, ben più che a rivendicare una competenza: mirava a pretendere interventi amministrativi di emergenza sanitaria basati su conoscenze effettive e complete del problema, cioè espressivi di una istruttoria adeguata, che le regioni non potevano assicurare.
Erano, in breve e nella sostanza, ricorsi per eccesso di potere da carenza istruttoria.
Vale a dire, ricorsi che qualsiasi privato, titolare di un interesse legittimo inciso da quei provvedimenti regionali, avrebbe potuto proporre.
Ma perché, allora, li proponeva lo Stato?
Secondo i Tar, in particolare il Tar Calabria nel secondo ricorso, perché, in pratica, vi era un interesse procedimentale dello Stato ad esercitare i propri poteri senza doversi confrontare, oltre che con la gravità del problema, anche con provvedimenti regionali o municipali interferenti, di cui limitare o assorbire gli effetti.
Ma un interesse solo procedimentale non è ancora un interesse legittimo.
La risposta che mi sono dato è che l’interesse legittimo fatto valere dallo Stato era un riflesso di quello che avrebbe potuto far valere il privato interessato (il genitore del bambino a cui hanno chiuso la scuola; il vicino del ristorante che improvvisamente si affolla), e che non lo faceva valere, ecco il punto, perché c’era l’emergenza.
Un’emergenza sanitaria di questa gravità è, anche, un limite oggettivo alle possibilità di tutela giurisdizionale dei singoli, che diventano molto teoriche e nella sostanza svaniscono, perché i singoli hanno altro a cui pensare, e comunque, subiscono gravi limitazioni nella libertà di movimento, che è il presupposto anche del pieno diritto alla tutela giurisdizionale.
Per questo, accanto all’interesse legittimo dei singoli, nell’emergenza e a causa dell’emergenza è sorto un interesse legittimo dello Stato, che lo ha esercitato in pratica come legittimazione sostitutiva.
Ma solo in pratica.
Non si è avuta, infatti, alcuna sostituzione processuale, che avrebbe dovuto essere prevista in modo espresso; né tanto meno un’azione popolare al contrario (anche se il mondo dell’emergenza è tutto un mondo rovesciato), dove lo Stato si surroga al quisque de populo e non viceversa.
Si è verificato, più precisamente, il paradosso del titolo: l’interesse pubblico, che è la situazione soggettiva dello Stato, degradato ad interesse legittimo.
L’interesse pubblico, quando vi sia un concorso di attribuzioni stratificate, si concretizza, attraverso il principio di sussidiarietà, nell’interesse ad un intervento amministrativo basato su istruttorie adeguate; che è un interesse legittimo appunto perché mira ad un risultato sostanziale, ad un provvedimento ben istruito. Non è una rivendicazione di competenza fine a se stessa, mirante solo a ribadire che deve intervenire lo Stato e non la regione (o anche viceversa).
Se il titolare dell’interesse legittimo, che è il privato, non può agire per l’impedimento giuridico costituito dall’emergenza, diviene attuale l’interesse dello Stato, che altrimenti non sarebbe azionabile come interesse legittimo in un processo amministrativo. L’impedimento del privato radica l’interesse a ricorrere dello Stato, perché altrimenti non vi sarebbe tutela giurisdizionale per l’interesse sostanziale ad avere provvedimenti di emergenza sanitaria ben istruiti, come il principio di sussidiarietà impone.
E così l’interesse generale, combinando emergenza e sussidiarietà, si trasforma (paradossalmente, si degrada) a interesse legittimo e consente allo Stato il ricorso al giudice amministrativo.
E’ un effetto processuale dell’emergenza su cui vale la pena di riflettere, perché dimostra la necessarietà della tutela giurisdizionale amministrativa, enunciata dall’art. 113 Cost.
Lo Stato avrebbe infatti avuto anche altri mezzi per superare i provvedimenti emergenziali regionali adottati senza rispettare la sussidiarietà; ma si sarebbe trattato di mezzi non giurisdizionali. La degradazione dell’interesse pubblico ad interesse legittimo è stata la condizione perché anche nell’emergenza non si creassero zone franche dalla tutela giurisdizionale amministrativa.
[1] L'articolo riproduce il testo del'intervento alle Giornate di studio sulla Giustizia Amministrativa, Webinar del 30 giugno-1 luglio 2020 su “L’EMERGENZA COVID 19 E I SUOI RIFLESSI SUL PROCESSO AMMINISTRATIVO. PRINCIPI PROCESSUALI E TECNICHE DI TUTELA TRA PASSATO E FUTURO”.
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