ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Proprio l’8 marzo 2025, nella Giornata internazionale dei diritti delle donne, il Governo Meloni ha inteso offrire alle donne la sorpresa di un disegno di legge il cui fulcro è la creazione di una nuova fattispecie di delitto esplicitamente denominata “femminicidio”. Ne viene fornita una definizione («chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna o per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità») e, quanto al profilo sanzionatorio, la previsione della pena è quella dell’ergastolo (fisso, automatico).
Le reazioni allo scoop governativo hanno trovato consenso e plauso da parte di chi ha accolto tale modifica normativa come rivoluzionaria e innovativa, esaltando e apprezzando la valenza culturale, pedagogica e di uso promozionale del diritto penale, che già dal cambiamento nominalistico trarrebbe forza propulsiva verso un diritto penale moderno, non più neutro e falsamente universale, ma finalmente declinato anche al femminile. Dissentiamo da tali posizioni perché, puntando sul fattore lessicale invece che sulla effettività, assecondano una opzione di politica criminale solo simbolica, che cioè strumentalizza le valenze simboliche del diritto penale in chiave di pretesa rassicurazione collettiva. Purtroppo si incoraggiano così le politiche di legislazione criminale che sfociano nelle leggi-manifesto e del cd. populismo punitivo (nella realtà severo a senso unico, soltanto contro i diversi, i dissenzienti e i ritenuti nemici del sistema).
Peraltro dovremmo prender atto che in Italia la parola femminicidio si è ormai imposta e affermata nella attenzione pubblica e mediatica, nella politica e nella accademia. Ad oggi le resistenze iniziali alla sua concettualizzazione sono state vinte, come dimostra anche il fatto che nel 2023 Treccani, il prestigioso istituto italiano che si occupa di lingua e cultura, ha riconosciuto il femminicidio “parola dell’anno” e che già nel 2013 l’Accademia della Crusca aveva dedicato alla parola una consulenza linguistica. Dunque il femminicidio “esiste” nella rappresentazione sociale, tanto che compare nel lessico dei giuristi (ma come termine sociologico) e anche nei testi delle sentenze attente alla cd. prospettiva di genere (o di quelle che nominano il femminicidio, ma per escluderlo).
La tragedia del delitto Turetta in danno di Giulia Cecchettin ha rafforzato tale diffusa consapevolezza sociale e, sotto questo profilo valoriale, il mero riconoscimento nominalistico a livello giuridico penale nulla può aggiungere. Del resto è questione discussa se il diritto registri e segua i mutamenti nelle coscienze oppure li stimoli e li anticipi: quando il diritto è quello penale, si riducono le capacità di cambiamento sociale tramite lo strumento punitivo della minaccia e della inflizione della pena.
Certo le parole contano, eccome! Sia nel linguaggio comune che nel linguaggio giuridico. Ma le relative trasposizioni vanno verificate attentamente nei loro effetti.
Intanto la tipicizzazione penale prospettata dal Governo deve misurarsi con la varietà delle possibili scelte lessicali. In Italia ha prevalso il termine femminicidio e il Governo ha seguito tale onda; ma c’è chi preferisce femicidio o femmicidio o congiuntamente femicidio/femminicidio oppure ginocidio. In effetti l’origine del termine è l’inglese femicide, di natura sociologica, introdotto negli anni ’70 da Diana H. Russell, che voleva significare qualcosa di più ampio delle violenze contro le donne inquadrabili nel delitto di omicidio. Ma l’elaborazione giuridica si è assai dinamicamente sviluppata altrove, nel mondo sudamericano, e dunque in lingua spagnola (feminicidio), sulla base della impostazione antropologica della messicana Marcela Lagarde, mirata ad attirare l’attenzione politica sulla drammatica situazione vissuta dalle donne in Messico e volta a smascherare le responsabilità statali e istituzionali.
Sono assai numerosi i paesi sudamericani – a cominciare dal Costa Rica nel 2007 fino agli stati federali del Mexico – che hanno utilizzato lo strumento penale contro gli omicidi di donne, ma con una eterogeneità sorprendente nelle soluzioni praticate: basta consultare a livello ONU le accurate rassegne online (su Unodoc di Patsili Toledo Vasquez e su Unwomen di Alicia Deus e Diana Gonzalez), purché si riesca a orientarsi nella consultazione delle intricate tabelle di raffronto. Orbene la comparazione giuridica con la varietà delle opzioni nei sistemi penali sudamericani rende evidente la difficoltà di intervenire legislativamente in materia e dimostra che il disegno governativo è intervenuto d’imperio e ha scelto con l’accetta tra tutte le possibili opzioni tecniche di struttura: bene tutelato (“in quanto donna”); definizione e elementi costitutivi; fattispecie autonoma invece che omicidio aggravato; qualità e numero delle aggravanti; entità della pena; autore neutro o sessuato; soggetto passivo solo donna o altro; contestuale normazione penale di tutte le altre forme di violenza contro le donne; e, soprattutto, contestuali norme di prevenzione e di stanziamento risorse; oltre che nomen iuris (anche la Croazia ha recentemente normato l’omicidio di donna, ma senza rinominarlo, esattamente al contrario della riforma del Belgio, che ha nominato senza rinormare).
Il testo governativo circola ancora in bozza. Vedremo il definitivo. Ma non si dica che sarà poi il Parlamento a correggere e rettificare: l’esperienza della dinamica Governo-Parlamento non induce fiducia! E l’attuale sistema delle audizioni parlamentari non è certo veicolo di discussione aperta e confronto democratico, giacché non può dar voce a tutti gli operatori coinvolti sul campo.
Piuttosto la comparazione con il Sudamerica ci suggerisce un profilo di significativa differenza. Là, soprattutto nei paesi con numeri più impressionanti di assassini di donne (l’organismo ONU ECLAC – Commissione Economica per l’America latina e i Caraibi conteggia nell’anno 2023 una media di ben 11 donne al giorno assassinate per motivi basati sul genere), l’attenzione riformatrice era rivolta primariamente a creare consapevolezza sociale della tragica realtà machista e patriarcale, legittimata e impunita. È a questo fine che i movimenti femministi attuarono tutte le possibili pratiche politiche, ivi comprese quelle di nominazione giuridica. Oggi la tensione è volta piuttosto alla creazione di osservatori istituzionali che consentano la raccolta di dati, presupposto per progettare le politiche corrette. Peraltro i bilanci delle singole e differenziate scelte ordinamentali sudamericane, ormai più che decennali, non sono stati ancora redatti e purtroppo, anche a causa della accentuata diversità delle opzioni tecnico-criminali praticate dai vari sistemi, sono difficilmente comparabili tra loro.
Mi sembra che la condizione della realtà italiana non sia equivalente e che, dunque, possiamo evitare politiche e strategie giuridiche affrettate e, nella sostanza, di primazia penalistica.
Ma non vogliamo, con la sottolineatura delle innegabili difficoltà di politica e di tecnica criminale, portare acqua al mulino di quei critici del disegno di legge governativo che, nel formulare censure condivisibili, non riescono tuttavia a nascondere il loro profondo misoginismo nei confronti di ogni iniziativa che iscriva nell’agenda politica il contrasto alla violenza contro le donne basata sul genere.
Contributo già apparso qui e oggi ripubblicato con l'autorizzazione dell'autrice, che si ringrazia.
Sul tema si veda anche: Nominare il femminicidio. Non in nostro nome di Maria Virgilio e Nominare la violenza maschile contro le donne: diritto penale e giustizia tra conflitto simbolico e responsabilità politica di Ilaria Boiano.
Immagine: particolare da Suzanne Valadon, Girl on a Small Wall, 1930, olio su tela, National Museum of Women in the Arts, DC, Gift of Wallace and Wilhelmina Holladay.
Sommario: 1. L’intelligenza artificiale tra percezioni soggettive e regolazioni normative (a cura di Santo Di Nuovo) - 2. L’AI Act alla prova delle sfide globali: potenzialità e limiti di un modello regolatorio (a cura di Mariavittoria Catanzariti) - 3. Protezione dei dati personali e Intelligenza Artificiale) a cura di Gianluigi Ciacci - 4. Intelligenza Artificiale e azione amministrativa. L'articolo 30 del codice dei contratti pubblici (a cura di Elio Guarnaccia) - 5. I progetti di legge italiani per la disciplina dell’Intelligenza Artificiale (a cura di Mario Valentini) - 6. Due osservazioni (a cura di Carlo Pennisi) - 7. Conclusioni (a cura di Angelo Costanzo).
1. L’intelligenza artificiale tra percezioni soggettive e regolazioni normative (a cura di Santo Di Nuovo)
Una recente rassegna sul “diritto digitale guidato dall'intelligenza artificiale” [2] riassume i vantaggi dell’I.A. che possono migliorare i metodi forensi tradizionali: analizzare vasti insiemi di dati, identificare modelli complessi e automatizzare compiti ripetitivi. Al tempo stesso però evidenzia le sfide etiche e legali proposte dall’impiego dell'I.A.: tra esse, la parzialità delle catene algoritmiche, l'ammissibilità delle prove generate dall'IA in ambito giudiziario, le preoccupazioni sulla privacy degli utenti. Man mano che l'interazione tra le capacità dell'IA e le competenze umane si evolve – conclude l’autore - i professionisti del diritto devono rimanere vigili nell'affrontare le sfide associate, assicurando che le considerazioni tecniche ed etiche siano integrate nelle nuove metodologie proposte dall’I.A. per mantenere il necessario equilibrio tra il progresso tecnologico e il mantenimento di standard etici nelle pratiche forensi.
In questa introduzione accennerò all’atteggiamento dell’utente umano verso le innovazioni basate su A.I., fonte spesso di confusione e incertezza. Esso oscilla tra l’entusiasmo per gli indubbi vantaggi e la paura di perdere il controllo delle operazioni che gli agenti intelligenti possono svolgere in autonomia. C’è chi pensa all’uso della I.A. generativa come utile aiuto per sintetizzare in tempi brevi una grande mole di dati, ma anche per ottimizzare le relazioni o le sentenze (o farle scriverle del tutto?). All’opposto ci sono i timori, derivati da spunti letterari e cinematografici, sull’eccessivo potere attribuito agli agenti artificiali, e sulla possibilità di “eterogenesi dei fini” per cui l’I.A. programmata per certi scopi poi potrebbe perseguirne altri, andando fuori controllo.
Per superare questa dicotomia - poco produttiva se radicalizzata – occorre un aumento delle conoscenze critiche sull’I.A. e le sue applicazioni; conoscenze che sono però molto complesse, per cui si finisce per affidarsi ai “tecnici” considerando le tecnologie come una “scatola nera” di cui si vedono gli esiti senza conoscerne i principi e il funzionamento.
Certo è utile che gli operatori abbiano consapevolezza dei problemi di uso, anche se non possono avere conoscenza di come la tecnologia funziona tecnicamente. Del resto, è quello che avviene quando si usano software di videoscrittura o di calcolo senza conoscere gli algoritmi che sono alla base del loro funzionamento. Quando si usa la realtà virtuale o un robot (anche quello che aiuta in cucina o nelle pulizie, o nella domotica, o nella guida dei veicoli), ma anche lo smartphone che ci accompagna in ogni momento della nostra vita, non occorre sapere come è programmata la rete neurale che ne costituisce la “mente” artificiale. Sappiamo però a che cosa servono questi strumenti “intelligenti”, come possono aiutarci, e dobbiamo essere consapevoli di quali sono i loro limiti e i rischi di un cattivo uso.
Lo stesso vale per l’I.A. applicata al diritto, che peraltro include temi molto diversi tra loro:
- raccolta e analisi di big data
- automatizzazione di procedure con o senza controllo dell’operatore umano
- rilevamento di malware o di disfunzioni nei sistemi
- ottimizzazione delle reti organizzative e della condivisione di pratiche
- generazione di testi
- protezione, o indebita appropriazione, dei dati
Ognuno di questi aspetti comporta problemi diversi: tecnici (di usabilità, di accettabilità, di generalizzabilità a contesti diversi), etici e normativi. Va in ogni caso assicurata la controllabilità dell’agente artificiale per garantire le comunità di riferimento che verranno coinvolte negli usi applicativi - nell’ambito del diritto: magistrati, personale ausiliario, avvocati, periti, investigatori, ecc. – affinché gli scopi e gli esiti siano compatibili con il funzionamento e il benessere della comunità sociale. In linea con l’obiettivo ribadito dagli orientamenti etici per l’I.A. della Commissione Europea[3] (da cui è poi derivato l’IAct del 2024 in attesa di applicazione anche nel nostro Paese): creare una cultura dell'IA affidabile, che permetta a tutti di sfruttarne i vantaggi in un modo che garantisca il rispetto dei nostri valori fondamentali: i diritti fondamentali, la democrazia e lo Stato di diritto.
2. L’AI Act alla prova delle sfide globali: potenzialità e limiti di un modello regolatorio (a cura di Mariavittoria Catanzariti)
Il Regolamento EU 2024/1689 del Parlamento europeo e del Consiglio del 13 giugno 2024 sulla AI (cosiddetto AI Act) entrato in vigore lo scorso agosto rappresenta il primo corpus iuris in materia di intelligenza artificiale a firma del legislatore europeo. L’UE rinsalda il suo collaudato ruolo di first mover regolatorio digitale, inaugurato con Regolamento Generale sulla protezione dei dati personali (GDPR), che conferma la costruzione di un modello giuridico ispirato alla compatibilità tra libertà economiche e diritti fondamentali.
I capisaldi di questo regolamento sono essenzialmente quattro: l’approccio antropocentrico fondato sulla dignità della persona, la gradualità del rischio dei sistemi di intelligenza artificiale, l’ampia portata materiale e territoriale del regolamento europeo e l’elenco dei sistemi ad alto rischio. L’architettura giuridica complessiva, tuttavia, lascia adito a non poche criticità, alcune delle quali sono oggetto delle brevi riflessioni svolte di seguito.
Sotto il primo profilo occorre precisare che il Regolamento era stato preceduto nel 2019 dalle Linee guida etiche per una intelligenza artificiale affidabile, che avevano svolto una funzione uniformatrice e preparatoria rispetto ai principi applicabili all’uso dei sistemi di intelligenza artificiale – tra i quali trasparenza, robustezza, qualità e protezione dei dati. Il controllo umano sulle decisioni automatizzate è stato inteso come baluardo della autodeterminazione informativa in contrasto a pratiche manipolatorie. Tuttavia, gli strumenti di effettiva realizzazione del controllo umano si risolvono in meccanismi di autocertificazione obbligatoria per i sistemi di intelligenza artificiale ad alto rischio ad opera di produttori, sviluppatori e utilizzatori - sulla falsariga del modello di responsabilità da prodotto – e di adesione a codici di condotta per i sistemi non ad altro rischio. Rispetto alle violazioni dell’AI Act, infatti, non è prevista alcun tipo di interlocuzione da parte dell’individuo, né tampoco rimedi giurisdizionali specifici, salvo la possibilità di presentare un reclamo a un'autorità di vigilanza del mercato o il diritto a ottenere dall’utilizzatore spiegazioni chiare e significative sul ruolo dell’uso sistema AI nella procedura decisionale.
Con riguardo alla gradualità del rischio, l’art. 5 del Regolamento vieta l’uso dei sistemi che comportano un rischio inaccettabile, prevedendo per le imprese un obbligo di conformità entro sei mesi dall’entrata in vigore. Si tratta di sistemi utilizzati per pratiche di manipolazione, sfruttamento e controllo sociale e previsti dall’art. 5 del Regolamento, come i sistemi che utilizzano tecniche subliminali manipolatorie, che sfruttano la vulnerabilità di soggetti, che valutano o classificano le persone in base a un social scoring, che effettuano valutazioni sul rischio di commissione di reati, che ampliano banche dati di riconoscimento facciale mediante tecniche di scraping, che inferiscono emozioni personali sul luogo di lavoro e nei luoghi di istruzione, che compiono categorizzazione biometrica con finalità discriminatoria o remota in spazi accessibili al pubblico e tranne che per finalità di contrasto tassativamente previste. Anche rispetto a tali sistemi, se è vero che essi costituiscono pratiche vietate, non è chiaro che tipo di rimedi individuali specifici renda disponibili il Regolamento. Al momento l’unica norma applicabile sembrerebbe quella di cui all’art. 22 GDPR in ordine al diritto alla decisione umana, sulla quale di recente la Corte di Giustizia si è espressa delineando le caratteristiche del significato di decisioni automatizzate produttive di effetti giuridici e includendo tra esse la profilazione (C-634/21, Schufa Holding (Scoring), 7 dicembre 2023). Sembrerebbe piuttosto che la centralità dell’approccio antropocentrico si risolva in una valutazione a monte circa l’inaccettabilità del rischio che non pone l’individuo al centro di un contesto mutevole nel quale possono variare le situazioni pregiudizievoli a seconda degli interessi meritevoli ma preconfeziona una sorta di obbligazione di risultato.
In relazione all’ampia portata dell’AI Act, va osservato che esso si applica dal punto di vista territoriale e materiale tanto alla immissione sul mercato (distribuzione e uso nel corso di attività commerciali) quanto alla messa in servizio nel mercato UE (fornitura all’utilizzatore per il primo uso) da parte di utilizzatori anche se non stabiliti o ubicati all’interno dell’UE di sistemi di IA o modelli di IA per finalità generali nell'Unione, utilizzatori stabiliti o ubicati all’interno dell’UE, importatori e distributori di sistemi AI, fabbricanti di prodotti che immettono sul mercato o mettono in servizio un sistema di IA insieme al loro prodotto e con il loro nome o marchio, rappresentanti dei fornitori non stabiliti in UE, persone interessate che si trovano in UE, fornitori e utilizzatori nell’Unione stabiliti o ubicati in un paese terzo, qualora l’output prodotto sia utilizzato nell’UE. Si prevede sostanzialmente un ambito di applicazione esteso persino agli output prodotti in Europa, con evidente difficoltà di inquadramento del fatto giuridico nello spazio e nel tempo in ossequio al principio di certezza del diritto, in quanto un output di un sistema di AI può addirittura riferirsi a un’utilizzazione diluita nel tempo dei risultati indipendentemente dalla utilizzazione del sistema stesso in Europa. Tra le deroghe si annoverano la sicurezza nazionale, la difesa e l’uso militare - con evidenti discrasie in ordine al dual use, mentre sono esenti dall’applicazione dell’AI Act le autorità pubbliche di paesi terzi e organizzazioni internazionali.
Ultimo profilo, non di poco conto, riguarda l’elenco di cui all’Allegato III sui sistemi ad alto rischio, considerati legittimi, per i quali vige un obbligo di certificazione, che può essere aggiornato nel tempo dalla Commissione, con ulteriori profili dubbi ancora una volta in ordine alla certezza del diritto. Tra i settori più problematici si evidenziano quelli relativi allo scoring lavorativo e all’accesso alle prestazioni pubbliche essenziali in ordine alla valutazione dell’affidabilità creditizia, nonché quelli relativi all’amministrazione della giustizia e ai processi democratici. In particolare, con riguardo a questi ultimi, appare molto labile la previsione normativa che circoscrive l’applicabilità delle previsioni relative ai sistemi ad alto rischio alla sola attività di supporto alla decisione giudiziale, identificato nella ricerca e nell'interpretazione dei fatti e del diritto e nell'applicazione della legge a una serie concreta di fatti, ma non esprimendosi nettamente sul punto e lasciando ampio spazio alla interpretazione.
Le perplessità sono dunque molteplici a fronte di un successo regolatorio indiscutibile che tuttavia invita all’esercizio della consapevolezza.
3. Protezione dei dati personali e Intelligenza Artificiale) a cura di Gianluigi Ciacci
Lo sviluppo di un’attenzione “diffusa” per l’IA, conseguenza anche del moltiplicarsi delle sue applicazioni nella quotidianità degli utenti (si pensi ad esempio agli assistenti virtuali nei cellulari o in device casalinghi, ed all’“esplosione” dei chatbot e dell’intelligenza artificiale generativa), oltre a portarla al di fuori della discussione tra esperti, ha fatto nascere un dibattito sulla necessità di trovare un equilibrio fra due opposte esigenze:
– non rallentare, o addirittura bloccare, il progresso del settore, e quindi le conseguenze positive dello stesso (e poi sì, anche l’enorme business da essa resa possibile direttamente, per il valore in sé dell’IA e, indirettamente, per la ricchezza prodotta dalle sue applicazioni);
– impedire che tale progresso avvenga in danno dei suoi utenti.
Dicotomia che raggiunge una forte criticità, da una parte, proprio nel momento in cui dal suo sviluppo dipendono enormi interessi economici (“aumentando la posta in gioco”); e, dall’altra, quando il danno agli utenti riguarda i loro dati personali: in questo secondo caso soprattutto a causa della presenza di una normativa forte, rappresentata dal Regolamento UE 27 aprile 2016, n. 679 (il c.d. GDPR), finalizzata proprio a prevenire, o comunque limitare, tale danno. Infatti questa disciplina applicata ai sistemi di I.A. incontra diversi problemi, che rendono il rispetto degli obblighi da essa dettati estremamente complesso per i titolari di trattamento che usano, in diverse realtà, tali sistemi.
Per risolvere tali difficoltà applicative, ci si deve muovere dall’analisi del contesto normativo che oggi regolamenta l’I.A. e le sue applicazioni, attraverso la conoscenza approfondita della disciplina in materia di protezione dei dati personali, per poi arrivare a “tracciare” la strada da seguire.
Così, con riferimento alle prime norme dettate per le macchine intelligenti, la loro analisi dimostra come siano sempre presenti riferimenti, più o meno specifici, alla tutela delle informazioni relative agli individui: riferimenti che ribadiscono e sottolineano l'importanza del rispetto dei diritti fondamentali dell'individuo, in particolare quello alla protezione dei suoi dati personali, anche nella realtà delle applicazioni dell’I.A.. Situazione che pone il contrasto indicato non tanto e non solo nella dicotomia “applico/non applico”, ma anche nella più ampia scelta tra “rispetto/non rispetto” la legge: e allora non si può certo ritenere ammissibile la rinuncia alla legalità, e nella specie a tale protezione.
Provando allora ad immaginare le possibili soluzioni a tale contrasto, le “cose da fare”, indichiamo tre differenti ambiti.
Innanzitutto, dal punta di vista dei “player” del settore, cioè da un lato i produttori/fornitori di sistemi di I.A., dall’altro gli utilizzatori di tali sistemi (comunque tutti “titolari del trattamento” se questi vengono applicati ad informazioni relative a dati personali), questi devono essere portati ad adeguarsi obbligatoriamente e in maniera corretta ed effettiva al sistema della protezione dei dati personali introdotto dal Regolamento 2016/679, ognuno nell’ambito della propria attività di trattamento di tali dati.
Con riferimento poi agli utenti delle macchine intelligenti, occorre sviluppare il più possibile una tutela “dal basso”, cioè posta in essere dagli stessi interessati che, in maniera più o meno consapevole, cedono i loro dati ai player citati: tutela che deve partire dalla loro corretta ed efficace informazione e formazione, in generale sulla realtà digitale in cui vivono, ma anche in particolare su quella del trattamento dei dati personali, sugli utilizzi che se ne fanno nei sistemi di intelligenza artificiale, e quindi sulle modalità della loro tutela. Portandoli in questo modo a realizzare che non possono più essere solo passivi fruitori della sempre più pervasiva innovazione tecnologica, né d’altro canto “tecno-entusiasti” senza alcun senso critico: ma che devono diventare “tecno-consapevoli”, capaci così di gestire tale innovazione, e dunque di proteggere i propri diritti fondamentali, non ultimo per evitare di essere gestiti da essa.
Infine, si ritiene necessario potenziare il più possibile anche la tutela “dall’alto”, sia a livello normativo, realizzando discipline che non si limitino solo a semplici richiami o ad affermazioni generali di principio, ma che individuino regole certe ed efficaci; sia rispetto alle Autorità di controllo (nel nostro Paese il Garante per la protezione dei dati personali), in particolare potenziandole e rendendole maggiormente operative. Dando quindi a queste ultime la possibilità di fornire un concreto ausilio per la realizzazione di quanto appena riportato: e dunque di condurre all’adeguamento alla disciplina normativa, in maniera qualitativamente migliore, i citati “player” del settore e, allo stesso tempo, di rendere consapevoli il maggior numero possibile di interessati.
Soluzioni sicuramente ambiziose, e allo stesso tempo di difficile realizzazione, e comunque non in tempi brevi. Ma occorre capire innanzitutto che, a fronte della repentina evoluzione delle macchine intelligenti, sempre più potenti ed invasive della nostra sfera privata, non si può non fare qualcosa per giungere alla soluzione del contrasto tra sviluppo dell’I.A. e protezione dei dati. E questo avendo ben chiaro che il problema in realtà si pone su un livello più alto di quanto possa sembrare: in particolare quello tra la limitazione, o addirittura la rinuncia a un diritto fondamentale dell’individuo per l’importanza (economica) del settore, il cui sviluppo può comunque avere indubbi vantaggi per tutti noi, ed in ogni caso è oramai impossibile fermare.
Per questo motivo la soluzione sembra essere fondamentalmente quella di un “salto culturale”, giuridico e tecnologico, finalizzato a portare al 100% di successo il sistema di protezione dei dati personali, quale contrappeso e limite rispetto agli innovativi (e di moda) sistemi di intelligenza artificiale. Sfruttando in questo modo le utilità che possono apportare alla nostra vita, senza doverne subire necessariamente gli aspetti negativi .
4. Intelligenza Artificiale e azione amministrativa. L'articolo 30 del codice dei contratti pubblici (a cura di Elio Guarnaccia)
La digitalizzazione della pubblica amministrazione, avviata normativamente nel 1997 con il decreto legislativo che ha disciplinato per prima volta in Europa la firma digitale, vive un periodo di profonda maturazione, sia in conseguenza dell’ormai piena attuazione del codice dell’amministrazione digitale, il decreto legislativo 82 del 2005, sia, proprio con riferimento agli appalti pubblici, alla luce dell’intera digitalizzazione del ciclo di vita dei contratti pubblici voluta dal decreto legislativo 36 del 2023.
E infatti, il corpus normativo attualmente vigente in materia di appalti pubblici, ha inteso prevedere in modo generalizzato e vincolante per tutte le pubbliche amministrazioni la digitalizzazione di tutti gli step del procedimento di approvvigionamento pubblico, ossia programmazione, progettazione, pubblicazione, affidamento ed esecuzione. E ciò non in esecuzione di nuove direttive comunitarie, ma sulla scorta del cd. principio del risultato, nel quadro della spinta voluta dal PNRR per la ripresa del nostro paese dopo la pandemia, e comunque in piena conformità con i principi, gli strumenti e le regole imposti dal codice dell’amministrazione digitale nel settore della transizione digitale della PA.
Ed è proprio un articolo del codice contratti pubblici, l’articolo 30, l’unica norma di legge vigente del nostro ordinamento giuridico, che si occupa di intelligenza artificiale. E lo fa esprimendo una preferenza verso la scelta delle stazioni appaltanti di “automatizzare le proprie attività ricorrendo a soluzioni tecnologiche, ivi incluse l'intelligenza artificiale e le tecnologie di registri distribuiti”.
Ma questa preferenza viene espressa mantenendo fermo l’ormai consolidato rapporto di strumentalità tra uso dell’informatica e efficienza dell’azione amministrativa, specificando infatti che l’adozione di applicativi di AI deve essere in ogni caso volta a “migliorare l'efficienza”, così come d’altronde ritroviamo all’art. 3bis della legge n. 241\90, laddove già il legislatore del 2005 sanciva che “le amministrazioni pubbliche agiscono mediante strumenti informatici e telematici … per conseguire maggiore efficienza nella loro attività”.
La norma in commento, dunque, disciplina espressamente le regole che le stazioni appaltanti devono seguire per inglobare nelle piattaforme di approvvigionamento digitale -la via maestra per l’espletamento delle gare d’appalto, segnata dall’art. 25 del codice- specifici applicativi di intelligenza artificiale.
In particolare, il comma 2 prevede che, nell'acquisto di soluzioni di AI, le stazioni appaltanti devono prioritariamente assicurare “la disponibilità del codice sorgente”, inclusa la relativa documentazione ed ogni altro elemento utile a comprenderne le logiche di funzionamento.
È evidente dunque l’esigenza del legislatore di garantire alla PA committente maggiore trasparenza e conoscibilità possibile dell’algoritmo, che al tal fine opera un’evidente inversione di tendenza rispetto all’art. 68 CAD, che invece, nel prevedere l’acquisto da parte delle pubbliche amministrazioni di programmi informatici, i cd. software -nel cui ambito devono annoverarsi le soluzioni algoritmiche e automatizzate- indicava come soluzione preferibile il “software sviluppato per conto della pubblica amministrazione”, relegando al terzo posto, dopo il riutilizzo di software, il software a codice sorgente aperto.
Ma l’art. 30 si spinge oltre: recependo la giurisprudenza amministrativa già stratificatasi sul punto, essa infatti prevede quali debbano essere le caratteristiche necessarie che devono avere i provvedimenti amministrativi formati con l’intelligenza artificiale: a) conoscibilità e comprensibilità, b) non esclusività, c) non discriminazione.
Si tratta, dunque, di una norma primaria di grande portata. E ciò anche perché la sua formulazione di fatto la fa diventare paletto normativo da seguire per qualsiasi procedura di acquisto pubblico di intelligenza artificiale, e per di più a prescindere dall’utilizzo a cui l’AI verrà destinata dalla pubblica
5. I progetti di legge italiani per la disciplina dell’Intelligenza Artificiale (a cura di Mario Valentini)
Introduzione
Il Disegno di Legge (DDL) sull'Intelligenza Artificiale, presentato al Senato il 20 maggio 2024, ha l'obiettivo di bilanciare le opportunità offerte dalle nuove tecnologie con i rischi legati al loro uso improprio. Questo provvedimento, composto da 27 articoli e suddiviso in 6 capi, affronta una serie di temi cruciali per la regolamentazione dell'IA in Italia. Tra questi, si trovano i principi e le finalità dell'IA, le disposizioni di settore, la strategia nazionale, la tutela degli utenti, il diritto d'autore, le disposizioni penali e quelle finanziarie.
Il DDL è stato approvato dal Senato il 20 marzo 2025 e attende ora la discussione alla Camera dei deputati. Un concetto chiave del disegno di legge è l'autonomia: l'IA è vista come uno strumento che coadiuva le decisioni umane senza sostituirle, promuovendo lo sviluppo di sistemi comprensibili e tecnologicamente avanzati. Questo approccio vuole garantire che le decisioni automatizzate siano sempre controllate dall'autodeterminazione umana.
1. Dalle prescrizioni etiche allo sviluppo economico
Gli articoli 3, 4 e 5 stabiliscono le prescrizioni etiche e operative per l'IA in Italia, concentrandosi su dignità umana, sicurezza e trasparenza, e promuovendo lo sviluppo economico.
2. Salute, lavoro e giustizia: il Capo II del DDL Intelligenza artificiale
Il Capo II del DDL riguarda l'uso dell'IA in sanità, lavoro e giustizia, migliorando efficienza e trasparenza. L'articolo 7 disciplina l'uso dell'IA nel settore sanitario, mentre l'articolo 10 regola l'uso dell'IA nel settore lavorativo.
3. Difesa e sicurezza nazionale
Il DDL prevede l'uso dell'IA nella difesa e sicurezza nazionale per monitorare minacce, proteggere dati e gestire emergenze informatiche. Include strumenti per il disaster recovery e il miglioramento della cybersicurezza. L'articolo 6 esclude le attività di IA legate alla sicurezza nazionale dalla normativa generale. I sistemi di IA destinati all'uso pubblico devono essere installati su server ubicati in Italia per garantire la sicurezza dei dati sensibili.
4. Strategia e governance
Il DDL assegna la governance dell'IA ad AgID e ACN, una decisione contestata da alcune associazioni per i diritti digitali che preferivano un'autorità indipendente. Il Garante della Privacy ha evidenziato la mancanza di un ente autorizzato per i sistemi di identificazione biometrica in tempo reale e si è candidato per questo ruolo. Le opposizioni propongono la creazione di vari osservatori e commissioni, tra cui un Osservatorio sui Diritti Digitali a Palazzo Chigi, una commissione per l'uso dell'IA in ambito giudiziario, una commissione dati, analisi e la ricerca clinica presso il Ministero della Salute.
5. Investimenti nell'IA
L'articolo 21 delinea gli investimenti nei settori dell'IA, cybersicurezza e calcolo quantistico. Il governo ha previsto un fondo da 1 miliardo di euro, gestito da Cdp Venture Capital Sgr, per sostenere lo sviluppo dell'IA in Italia. Questo fondo è destinato sia alle PMI che alle grandi aziende per favorire ricerca e innovazione. Tuttavia, l'apertura del fondo a investitori stranieri ha suscitato dibattiti sulla tutela dell'industria nazionale e il controllo strategico delle tecnologie emergenti.
6. Sistema sanzionatorio
L'articolo 25 del DDL apporta modifiche al Codice penale, inasprendo le pene per reati commessi mediante l'uso dell'IA. Le aggravanti sono previste quando l'IA costituisce un mezzo insidioso, ostacola la difesa pubblica e privata, o peggiora le conseguenze del reato. Viene introdotto il reato di "Illecita diffusione di contenuti generati o alterati con sistemi di IA" (articolo 612-quater), punendo chi causa danni ingiusti, diffondendo immagini, video o voci falsificati o alterati senza consenso, utilizzando l'IA.
Il DDL Intelligenza Artificiale è stato approvato lo scorso 20 marzo 2025 al Senato e si attende ora la sua discussione alla Camera dei deputati.
6. Due osservazioni (a cura di Carlo Pennisi)
Dal punto di vista sociologico si tratta di due questioni connesse, sul piano culturale, tecnico e normativo.
La prima riguarda un aspetto del carattere performativo che rivestono gli strumenti di cui si parla rispetto alle decisioni in cui vengono coinvolti, sia che si propongano in forma di piattaforme, di software o di chatbot. Ciascuno di questi strumenti, in effetti, sembra andare oltre la predisposizione delle alternative decisionali, la contestuale riduzione e moltiplicazione degli ambiti di interrogazione o di applicazione. Ciascuno di essi deriva infatti da un processo di digitalizzazione della realtà e della sua rappresentazione (testuale o iconica) che, in attesa degli sviluppi operativi della logica quantistica, implica selezioni, classificazioni, tipizzazioni e generalizzazioni volte ad adeguare al carattere binario dell’universo digitale ciascuna delle dimensioni di realtà interessate; volte a rendere “discrete” dimensioni della realtà che devono spesso la propria identità al loro carattere continuo (comunicazioni, interazioni, emozioni, sentimenti, i loro processi e gli esiti).
In questo senso, il carattere performativo di tali strumenti si realizza anche, pur suscitando meno attenzione e dibattito, sul piano cognitivo, sul piano della determinazione dei contenuti sui quali si esercita la decisione alla quale vengono dedicati questi strumenti (definizioni, imputazioni, previsioni, acquisti, ma anche formulazioni di testi).
Nell’ambito della pratica giuridica il ruolo cognitivo di questi strumenti non può essere sottovalutato. Può comportare che l’attribuzione di significato normativo, ad una prescrizione la cui fattispecie sia derivata da processi di quel tipo, sfugga alla normatività che le deriva dalla sua qualificazione giuridica e venga piuttosto derivata dallo stato di fatto digitalmente predefinito – molta della logica “evidence based” non sfugge a questo rischio. La performatività sul cognitivo compiuta dal digitale può così risultare una sottrazione di potere normativo all’ordinamento a favore di un passaggio che si rivela certamente di potere ma la cui autorità, la cui legittimazione istituzionale, rimane ancora da verificare.
La seconda questione ha a che fare con quello che si dice “uso consapevole” di queste tecnologie, quale strumento di prudenza e di difesa dalle loro eventuali distorsioni. Al di là dell’auspicio, questa indicazione di solito fa riferimento alla consapevolezza relativa all’oggetto di cui si parla, ossia ancora i software, il loro funzionamento e le loro regole. È una prospettiva comprensibile dal punto di vista professionale. Poiché si tratta di strumenti, la responsabilità nel loro uso impone prudenza e conoscenza, quindi informazione e formazione continua.
Tuttavia, l’aspetto della consapevolezza sul quale occorre richiamare l’attenzione, anche rispetto a quanto già osservato, ha a che fare con la specifica dimensione riflessiva dell’esercizio professionale. Un approccio professionale nei confronti della tecnologia impone anche un atteggiamento autocontrollato sulla professione che sorregga e dia contenuto al carattere, appunto, “strumentale” della tecnologia rispetto ai fini, al quadro normativo ed empirico nel cui ambito si realizza l’esercizio professionale.
Tale carattere strumentale, tuttavia, rimane tale solo sino a quando l’uso della tecnologia risulta decidibile. Su questa decidibilità si conserva, professionalmente, il carattere di strumento della tecnologia. Interrogarsi soltanto sulla semplice “utilità” delle tecnologie che si propongono alle pratiche professionali, sul risparmio di tempo, sulle loro potenzialità economiche, può celare, paradossalmente, proprio il loro carattere strumentale, ossia il fatto che vengono scelte e adoperate in vista di un obiettivo, di un fine che, professionalmente non può essere solo individuale. E celare il loro carattere strumentale significa divenirne “utenti”, ossia operatori “configurati” dalle regole e dalle decisioni del software.
Ora, se nell’uso quotidiano questa configurazione da utente molte volte risulta inevitabile (con tutte le conseguenze che la ricerca ha messo in luce), nell’uso professionale finisce col risultare contraddittoria proprio con la dimensione professionale della pratica entro cui si realizza il ricorso al software. Perché, in effetti, non si è soli dinanzi a questi strumenti, e meno che mai lo si è da professionisti. Anche solo la disponibilità del loro uso è frutto di una o più decisioni già prese da altri – e capire in quale veste sarebbe già informativo.
Ma, soprattutto, la decisione di adoperarli è compiuta nell’ambito di un esercizio di ruolo che non può essere concepito esclusivamente sul piano individuale e psicologico (come talvolta rischia di fare generalizzando la problematica della relazione uomo-macchina). In quest’ambito, la decisione di servirsi di tecnologia, e il modo in cui lo si fa, è parte di una pratica che possa dirsi professionale nella misura in cui è configurata dall’ordinamento entro il quale quel ruolo assume senso e identità. Questa condizione non è esclusivamente normativa, ma si specifica in molteplici dimensioni: l’organizzazione pubblica di cui si è parte o con la quale si è in relazione, le prassi procedimentali e processuali nelle quali si opera, le scelte deontologiche e regolatorie dell’ordine professionale al quale si appartiene, le pratiche di studio consolidate, le relazioni con il cliente. Ciascuna di queste dimensioni operative e normative interagisce con tutte le altre e definisce nel concreto la selettività specifica, di fatto e normativa, in cui si realizza l’uso dei software che si rendono disponibili al professionista.
Da questo punto di vista, la consapevolezza non riguarda più soltanto l’oggetto ma, appunto, il suo carattere strumentale rispetto agli obiettivi, ai fini e, va detto, rispetto ai valori, ai quali è orientato ciascuno degli ambiti normativi e di pratiche entro i quali assume senso l’esercizio professionale. In altri termini, la consapevolezza riguarda anche il quadro di istituzioni sociali e giuridiche che danno senso, orientamento normativo e valore all’esercizio professionale, perché è solo in riferimento a queste dimensioni che si definisce in senso proprio il carattere strumentale nell’uso della tecnologia.
Tale consapevolezza, motore della riflessività della pratica professionale, assume rilevanza in due direzioni inseparabili. Per un verso, rende progressivamente chiare le sfide ed i cambiamenti necessari nel quadro istituzionale e normativo che orienta l’esercizio professionale, sul piano dei fini e dei loro rapporti con i mezzi disponibili. Per un altro verso sollecita il professionista a mantenere soltanto strumentale il proprio rapporto con la tecnologia, rapportandone gli usi che gli sono possibili ai fini ed al quadro istituzionale entro cui si muove.
La tecnologia trasforma le professioni, gli ordinamenti, i ruoli e le pratiche non per una propria forza, ma attraverso l’uso che se ne compie e, soprattutto, attraverso modalità che riescono o meno a salvaguardare ciascuno degli obiettivi specifici dei livelli di senso, empirici e normativi, entro cui il professionista esercita il proprio ruolo.
7. Conclusioni (a cura di Angelo Costanzo)
L’espressione «intelligenza artificiale» (coniata durante il convegno di Dartmouth nel 1956), mentre esprime correttamente la natura artificiale dei sistemi che vengono così denominati, inganna circa le sue vere capacità.
Converrebbe, allora, abituarsi a riconsiderare i diversi strumenti offerti dalla cosiddetta intelligenza artificiale, dando loro nomi aderenti alle variegate realtà in cui si articolano.
In generale, potremmo parlare di forme di «razionalità algoritmica a base elettronico-silicea». Oppure ─ nel caso di sistemi che, con strumenti matematici scoprono schemi in miriadi di dati e poi trasformano i risultati nel linguaggio simbolico o nel linguaggio scritto ─ usare (ma forse non avrebbe successo…) l’espressione, da qualcuno proposta, «sintetizzatori di schemi antropoglossi».
Il diritto guidato dall'intelligenza artificiale offre nuove risorse e comporta nuovi impegni per i giuristi, specialmente in relazione alla IA generativa.
Infatti, è evidente che chi usa questi strumenti, sebbene non possa avere la conoscenza che appartiene agli esperti del settore, dovrebbe comunque essere nella condizione di comprendere i meccanismi di funzionamento.
Fondamentale è comprendere quali sono gli scarti fra i criteri che si utilizzano quando ci si serve della sola intelligenza umana e quelli sulla base dei quali funzionano gli strumenti offertigli dalla IA.
Il modello giuridico che regge il cosiddetto AI Act europeo enfatizza, fra i suoi punti essenziali, un l’approccio antropocentrico alla IA e si preoccupa della compatibilità tra la libertà economica nella produzione e nel diffusione dei nuovi strumenti e il rispetto dei diritti fondamentali. In questa prospettiva, delinea i rischi accettabili e quelli inaccettabili.
Tuttavia, restano da definire concretamente i percorsi attraverso i quali gli enti (privati o pubblici) che svilupperanno i sistemi saranno in grado di comprendere per tempo se e come il loro impegno di risorse umane e economiche riceverà il lasciapassare dalle autorità preposte al controllo del settore.
Inoltre, rimane ardua la soluzione del problema della efficacia delle regole europee rispetto ai sistemi provenienti dall’esterno dell’Unione.
Occorrerà vedere, ancora, con quali diverse declinazioni le legislazioni nazionali specificheranno i contenuti delle regolamentazione europea.
In Italia, il disegno di legge sulla IA, in corso di approvazione, ribadisce il principio che le decisioni automatizzate devono essere sempre controllate dal decisore umano nei settori della salute, della lavoro e della giustizia. Prefigura una disciplina derogatoria per le attività di IA connesse alla sicurezza nazionale dalla normativa generale. Assegna la governance dell'IA ad Agi e ACN. Prevede un fondo per sostenere favorire in Italia la ricerca e l’innovazione in materia.
Intanto, nel mercato, gli enormi interessi economici in campo possono condurre a situazioni che travalicano gli interessi degli utenti, particolarmente per quel che riguarda la protezione dei loro dati personali, che ─ va sempre ricordato ─ si realizza anzitutto attraverso la tecno-consapevolezza da parte degli utenti.
In questo ambito, in Italia, l’azione del Garante per la protezione dei dati personali andrebbe potenziata e resa più diffusamente conoscibile dal pubblico.
Gli strumenti della IA offrono sempre più rilevanti possibilità di utilizzo alla Pubblica amministrazione, che costituisce la sede nella quale la loro implementazione e i loro controllo possono essere ottimali.
Per altro verso, nello svolgimento delle professioni, gli strumenti di IA possiedono una forza performativa che deriva da una digitalizzazione delle rappresentazioni della realtà che incide della determinazione dei contenuti delle decisioni raggiunte (anche) tramite questi strumenti: per esempio, questo può produrre distorsioni nella interpretazione delle norme e, quindi, una dislocazione dei poteri normativi a agenti non legittimati.
Inoltre, in vari modi gli strumenti della possono modificare i profili delle professioni intellettuali nei diversi settori giuridici, in che implica scelte deontologiche e regolatorie che non andrebbero lasciate ai singoli professionisti, ma esercitate dagli ordini professionali in relazione ai valori sociali ai quali si ispirano le professioni.
[1] Incontro del 4 marzo 2025 promosso dal Centro di ricerca sulla giustizia dei minori e della famiglia “Enzo Zappalà” dell’Università di Catania.
[2] R. T. Yadav, AI-Driven Digital Forensics. International Journal of Scientific Research & Engineering Trends, Vol. 10 (2024), Issue 4, pp. 1673-1681.
[3]European Commission. Ethics guidelines for trustworthy AI, 2019. https://digital-strategy.ec.europa.eu/en/library/ethics-guidelines-trustworthy-ai.
Immagine: Lynn Hershman Leeson, Logic Paralyzes the Heart, fonte MOMENTA.
Memoria, testimonianze e ritratti di giuristi italiani del Novecento - a cura di Vincenzo Antonio Poso
Leggere Giovanni Tarello
Sommario: 1. Introduzione - 2. Filosofia del diritto - 3. Interpretazione - 4. Scienza giuridica - 5. Tarello su Tarello.
1. Introduzione
Giovanni Tarello è stato un maestro della filosofia analitica del diritto. Come Norberto Bobbio (si parva licet), Uberto Scarpelli, Luigi Ferrajoli… Ma bisogna precisare che quella di Tarello è una filosofia del diritto alquanto peculiare.
Scorro rapidamente le sue opere maggiori. Il primo studio italiano su Il realismo giuridico americano (1962). Il memorabile (per i giuslavoristi) Teorie e ideologie del diritto sindacale (1967). Una lunga serie di “studi di teoria e metateoria del diritto” raccolti con il titolo Diritto, enunciati, usi (1974). Una Storia della cultura giuridica moderna (1976). Il volume del Trattato Cicu-Messineo su L’interpretazione della legge (1980). La raccolta di saggi postuma, Cultura giuridica e politica del diritto (1988), che include tra le altre cose un corso di lezioni su La disciplina costituzionale della proprietà (1973) e una nota alla prima sentenza costituzionale (n. 16, 1978, relatore Paladin) sui criteri di ammissibilità del referendum abrogativo, Tecniche interpretative e referendum popolare (1978). La raccolta, ancora postuma, di studi storici sulla formazione del diritto processuale civile con il titolo Dottrine del processo civile (1989).
Ebbene, si può dire che tutti i lavori di Tarello siano – per dirla con Bobbio – opera di meta-giurisprudenza: analisi logica o, secondo i casi, storiografica delle dottrine dei giuristi.
Per leggere con soddisfazione intellettuale questi (ed altri) lavori, ci sono tre idee di Tarello che conviene conoscere previamente.
La prima riguarda la filosofia del diritto.
La seconda riguarda l’interpretazione.
La terza riguarda la “scienza giuridica”, cosiddetta, ossia la dottrina, la dogmatica.
2. Filosofia del diritto
In generale, Tarello concepisce il discorso filosofico – alla maniera del positivismo logico – come un discorso di secondo grado, o meta-discorso, il cui oggetto è costituito dai discorsi delle diverse scienze. La medesima idea, per menzionare un altro grande giurista, si ritrova in Alf Ross.
Le scienze hanno ad oggetto il mondo. La filosofia no: la filosofia ha ad oggetto le scienze stesse. Non esiste un mondo ulteriore (metafisico) oltre quello studiato dalle scienze, e oggetto di una conoscenza “più alta” (metafisica appunto).
Ciò comporta evidentemente una radicale riduzione delle varie discipline filosofiche a meta-scienze, o filosofie delle scienze (dell’una o dell’altra scienza). Vi sarà dunque una filosofia della fisica, una filosofia della matematica, una filosofia della chimica, e via enumerando, fino a giungere alla filosofia del diritto (anzi: della scienza giuridica). Ma non può esservi una filosofia senza complementi di specificazione: la «panfilosofia scissa da qualsivoglia specifica disciplina scientifica o tecnica», secondo Tarello, è vaniloquio.
Da questo punto di vista, la filosofia del diritto non può che essere analisi linguistica, storiografica, sociologica, e politica della “giurisprudenza”, intesa qui nel senso classico di prudentia juris.
In questo modo, Tarello vuole accreditare, tra l’altro, l’idea che la filosofia del diritto sia ancillare al lavoro dei giuristi, e perciò non possa essere coltivata se non dai giuristi stessi. Insomma, il filosofo del diritto dovrebbe essere – per formazione intellettuale, interessi, e competenze – un giurista tra gli altri giuristi.
È ovvio che, da questo punto di vista, opere come i Lineamenti di filosofia del diritto di Hegel, malgrado il nome, sono chiacchiere prive di qualsiasi interesse per gli studi giuridici. Questo modo di pensare, inoltre, conduce a screditare come irrilevante, e tendenzialmente estraneo alla filosofia del diritto bene intesa, almeno uno dei tradizionali e più coltivati settori di riflessione dei gius-filosofi professionisti: la cosiddetta filosofia della giustizia (che è, propriamente, un’etica normativa).
Ecco, dunque, che quasi tutti i lavori di Tarello si presentano come studi di meta-giurisprudenza analitica ed empirica.
(i) Meta-giurisprudenza analitica: nel senso che Tarello si avvale degli strumenti caratteristici dell’analisi del linguaggio, da lui stesso rielaborati nel saggio (un piccolo libro in effetti, poi rifuso nel volume del 1974) Introduzione al linguaggio precettivo (1968).
La filosofia analitica – si noti – non è “una filosofia” nel senso tradizionale (e volgare) di questa parola: non è una concezione del mondo e, ovviamente, neppure una scienza. Anzi si oppone fermamente a quel modo di filosofare che consiste nel blaterare dei massimi sistemi e/o pretende di attingere, oltre le scienze, alla essenza ultima del mondo: cosa di cui «si deve tacere», direbbe Wittgenstein. La filosofia – la sola “buona” filosofia – è l’analisi logica del linguaggio delle scienze (e, marginalmente, del linguaggio ordinario).
(ii) Meta-giurisprudenza empirica: nel senso che Tarello non fa un discorso sulla scienza giuridica in generale (come è d’uso fare, da parte di filosofi del diritto), ma compie una indagine concreta sopra le dottrine effettivamente elaborate dall’uno o l’altro gruppo circoscritto di giuristi in un determinato frangente.
Ne risulta definitivamente screditata come irrilevante e priva di interesse (almeno: irrilevante per i giuristi, irrilevante in una Facoltà di giurisprudenza) qualunque filosofia del diritto che non consista in, o non sia ultimamente finalizzata a, l’analisi delle dottrine giuridiche.
3. Interpretazione
L’opera fondamentale di Tarello in tema di interpretazione è ovviamente L’interpretazione della legge, del 1980 (anche se diversi frammenti erano già stati pubblicati in varie dispense degli anni precedenti, a sei mani, con Silvana Castignone e chi scrive). Ma già nel 1966 Tarello aveva pubblicato un breve saggio, “Il ‘problema dell’interpretazione’: una formulazione ambigua”, in cui metteva in discussione quel modo di vedere tradizionale secondo cui l’interpretazione è un’attività conoscitiva che si esercita su norme. È un modo di vedere oggidì generalmente screditato, ma tuttora presente nei modi di argomentare della dottrina e della giurisprudenza, per tacere delle inconsapevoli facezie di molti politici, secondo cui le leggi non si interpretano affatto, si applicano.
Sicché: (a) le norme preesistono all’interpretazione, e l’attività interpretativa consiste appunto nel prenderne conoscenza; (b) gli enunciati interpretativi (“Il testo normativo T significa S”) hanno valori di verità, cioè si danno interpretazioni vere e interpretazioni false. Per ogni testo normativo, vi è una interpretazione vera, tutte le altre essendo false. La cosiddetta “scienza giuridica” è un’impresa genuinamente scientifica, il cui prodotto è l’insieme delle interpretazioni vere. Da questo punto di vista, “il” problema dell’interpretazione ha natura non politica, ma epistemologica: qual è il metodo corretto per scoprire il “vero” significato dei testi normativi?
Tarello, per contro, delinea i tratti fondamentali di una teoria alternativa dell’interpretazione, scettica o realistica.
(i) In primo luogo, le norme non hanno significato per la banale ragione che sono esse stesse null’altro che significati: entità concettuali, per così dire, non linguistiche. Le norme sono altra cosa degli enunciati normativi che le esprimono: non sono quegli stessi enunciati, ma il loro contenuto di senso. Si osserva o si viola una norma, non un enunciato.
(ii) Pertanto, le norme sono non già l’oggetto dell’interpretazione, ma il suo prodotto. Non preesistono all’interpretazione, ma ne derivano. L’interpretazione consiste precisamente nella ascrizione di significato agli enunciati normativi delle fonti del diritto.
(iii) Senonché gli enunciati normativi, di solito, ammettono (non una sola interpretazione, ma) una pluralità di interpretazioni sincronicamente confliggenti e diacronicamente mutevoli, che dipendono dalla ambiguità e dalla vaghezza del linguaggio in cui le norme sono formulate, dalle circostanze di fatto in cui le formulazioni normative sono interpretate, dalla varietà di metodi interpretativi in uso, dalla molteplicità di elaborazioni dottrinali, e – s’intende – dalle idee di giustizia degli interpreti.
(iv) Ne segue che l’interpretazione non è né vera né falsa: tecnicamente, gli enunciati interpretativi non hanno valori di verità. Dire che una data interpretazione è vera e un’altra falsa è pura propaganda politica: di politica del diritto, s’intende.
Questo saggio di Tarello sull’interpretazione, recentemente ristampato (Lo Stato, n. 16, 2021), riveste uno speciale interesse poiché è, per molti aspetti, il lavoro seminale della “Scuola di Genova”.
4. Scienza giuridica
In gioventù, Tarello aveva studiato il realismo giuridico americano, cui aveva dedicato un libro nel 1962, e palesemente ne era rimasto profondamente influenzato. Il realismo di Tarello si caratterizza soprattutto per il cosiddetto “scetticismo delle norme” (e secondariamente per lo “scetticismo dei fatti”). Le sue tesi principali sono ben tratteggiate nel saggio cui accennavo sopra.
A farla breve: il diritto è indeterminato. Sicché la discrezionalità interpretativa è pervasiva. E, ovviamente, le questioni di interpretazione sono decise in ultima istanza dai giudici (o, più in generale, dagli organi dell’applicazione, giacché non tutto il diritto, specie il diritto costituzionale, è giustiziabile). Sicché in un certo senso – per dirla con i realisti americani – il diritto è quello che i giudici dicono che sia.
È facile congettura che questo modo di vedere sia condizionato dal sistema di common law e dalla regola del precedente vincolante. Ma vi è, nel realismo di Tarello e della sua Scuola, un tratto che lo distingue dal realismo americano. Mi riferisco all’idea che – almeno nella cultura giuridica continentale – la dottrina, la dogmatica, prima ancora della giurisprudenza, sia un’attività squisitamente nomopoietica, e che il diritto sia modellato, costruito, prima che dai giudici, dai giuristi.
È la dottrina, infatti, che fatalmente condiziona la giurisprudenza, elaborando concetti, metodi di interpretazione, proposte interpretative, schemi di argomentazione, costruzioni dogmatiche, norme implicite: determinando, in ultima analisi, la stessa forma mentis dei giudici. Vi sono intere parti del diritto vigente che sono Juristenrecht. Il diritto sindacale è un caso paradigmatico.
Le ricerche meta-giurisprudenziali di Tarello screditano definitivamente come falso e mistificatorio quel modo di vedere corrente secondo cui i giuristi-interpreti non creano diritto, e dunque non fanno politica, ma si limitano a prendere conoscenza del diritto che trovano bello e fatto ad opera del legislatore. Almeno in certe circostanze, il diritto nasce non dalla legge, ma proprio dalle costruzioni concettuali dei giuristi. «La dottrina giuridica – scrive Tarello, riferendosi in particolare alle dottrine gius-lavoristiche – interviene nel processo di creazione del diritto; e, in alcuni settori, interviene da protagonista».
Non vi è alcuna possibile confusione tra la rotazione della terra attorno al sole e la scienza astronomica che la descrive, giacché l’astronomia è conoscenza degli astri, ma non un astro essa stessa. E il movimento dei pianeti, a differenza della scienza astronomica, non è un’entità linguistica. Quando invece si tratta delle relazioni tra diritto e dottrina giuridica, siffatta confusione è possibile e di fatto si produce. Così è perché tanto il diritto quanto la dottrina giuridica altro non sono che linguaggi (discorsi).
In altre parole, è impossibile tracciare una distinzione netta tra il linguaggio del diritto e il linguaggio dei giuristi: essi sono soggetti ad un continuo processo osmotico. Il discorso dei giuristi non “verte su” il discorso delle fonti normative: piuttosto i giuristi modellano ed arricchiscono continuamente il loro oggetto di studio, come un violinista che interpolasse note apocrife nello spartito che sta eseguendo.
Insomma, l’interpretazione non è un’impresa conoscitiva, e la dogmatica, la dottrina, è non già conoscenza del diritto, ma parte costitutiva del diritto stesso, e quindi non “scienza giuridica”, ma oggetto di studio di una scienza giuridica bene intesa. Questo modo di vedere è pervasivo anche nei lavori storici di Tarello.
5. Tarello su Tarello
Concludo rileggendo, sine glossa, due paginette autobiografiche di Tarello. Si tratta della trascrizione, rivista dall’autore, di un intervento pronunciato ad un seminario della scuola analitica di filosofia del diritto, svoltosi a Camerino nel 1971.
«Come e perché mi sono dedicato a ciò che si chiama “filosofia analitica del diritto” è presto detto. Per un’esigenza che è venuta fuori nell’ambito di studi di diritto in una Facoltà di giurisprudenza, da problemi che venivano fuori da studi giuridici tecnici. La mia formazione non era inizialmente la formazione di un filosofo; e, devo dire, l’interesse “filosofico” (in qualsiasi senso di questa parola) è stato per me un interesse tardo.
Nel corso degli studi di giurisprudenza mi sono trovato di fronte a un’esigenza non già “morale” ma “metodologica” o, se vogliamo, funzionale: e precisamente l’esigenza di sgombrare la strada da concetti che mi sembravano o inutili o dannosi; dannosi o dal punto di vista della efficienza, o dal punto di vista politico-ideologico.
Nel corso di un tentativo di trovare le armi per liberarmi almeno di alcuni di questi concetti, che mi sembravano molto ingombranti, ho diretto la mia attenzione prima di tutto al c.d. “realismo giuridico americano”, che mi sembrava il recipiente degli strumenti più distruttori e bombardieri che, a livello metodologico, fossero a disposizione. Nello studiare e mettere insieme delle idee che mi sembrava di poter attribuire ai realisti americani, o a quelli che andavano sotto questa rubrica, mi sono accorto di aver formato un libro sul “realismo americano”, secondo un piano che era ben lontano dallo spirito dei membri di quel movimento della cultura giuridica. Avevo interpretato quel movimento come critica di due tipi di concetti (concetti sistematici e concetti dogmatici) e come critica dell’argomentazione giuridica; e il dare conto del lavoro metodo logico dei realisti americani mi suggeriva la possibilità di fare a meno del principale concetto in uso nella “teoria (generale) del diritto”.
Il principale concetto in uso nella teoria del diritto è quello di norma. A differenza di Bobbio e Scarpelli (questo discorso è anche un discorso sui tempi di una vicenda) il mio problema non era quello di chiarire e utilizzare il concetto di norma, ma quello di farne a meno.
Una serie di tentativi di studiare, da una parte, le operazioni degli operatori giuridici e, dall’altra parte, l’interpretazione giuridica, hanno avuto la loro motivazione (forse psicologica) nella possibilità che ravvisai, e nell’esigenza che provai, di incrinare il concetto di norma in quanto centro della ricostruzione teorica del diritto. Mi è sembrato successivamente, e questo è stato cronologicamente il momento e psicologicamente la ragione del mio accostamento agli studiosi “analitici”, che, portando il discorso da questo concetto di norma (che mi sembrava uno di quei termini che “non fanno senso”) ai documenti e al loro impiego, avrei potuto risolvere qualche problema metodologico.
Per cui direi che il perché del mio assumere un atteggiamento “analitico” è un perché molto diverso dal perché (ad esempio) di Scarpelli. Il quale Scarpelli, per la verità, è stato allora il mio punto di riferimento critico e perciò anche di ispirazione; cioè guardavo ai lavori di Scarpelli, e soprattutto non ai primi ma alla Semantica del linguaggio normativo, cioè al terzo suo libro, come a un lavoro metodologicamente il più interessante tra quelli che mi sembrava di avere a disposizione, e d’altra parte come a quello che avrebbe potuto funzionare non solo come termine di confronto ma come oggetto di aggressione, proprio per il fatto che il discorso di Scarpelli manteneva, in fin dei conti, al centro di un interesse teorico-giuridico la “norma”, e non invece dei documenti, degli enunciati, il loro uso da parte di operatori giuridici.
L’idea che bisognasse arrivare a fare una teoria (non delle norme ma) delle operazioni dei giuristi ha motivato, sotto il profilo metodologico (e non certo sotto il profilo di una mia storia personale), l’attenzione per le ideologie dei giuristi e per le operazioni giuridiche, viste come operazioni al servizio di qualche cosa e perciò come operazioni che o esprimono, o sono espressioni di, ideologie.
A questo “perché” del mio assumere un atteggiamento analitico consideravo collegati quegli studi che in realtà volevo fare, e che riguardavano alcune zone della cultura giuridica e alcune “ideologie” (in un senso molto Iato, cioè ideologie degli operatori giuridici).
Un’altra ragione, un altro perché, del mio accostarmi agli studi “analitici” o, dal punto di vista della distinzione di Pattaro, agli studi di “logica giuridica” è da vedersi in una mia opinione sull’uso della logica giuridica da parte dei teorici del diritto, probabilmente molto diversa da quella che è maggioritaria intorno a questo tavolo. Cioè io ho sempre pensato che lo studio della logica fosse “liberatore” (nel senso che gli studi di logica permettono di non confondere mai delle operazioni giuridiche con dei calcoli logici e che “la logica” non è mai, né può essere, al servizio di nessuna sua “applicazione”, perché nessuno schema vuole piuttosto un’interpretazione che un’altra interpretazione). Io credo, continuo a credere, che non si possa fare sensatamente un discorso precettivo nei confronti dell’operatore giuridico partendo da uno studio di carattere logico; e non credo vi sia ·alcuna associazione, nemmeno remota, tra gli studi logici e qualsiasi atteggiamento normativistico o positivistico.
Quanto a ciò che osservava Scarpelli, dirò che non credo di essere sulla strada di allontanarmi da queste posizioni perché le due ragioni per le quali mi sono accostato a queste posizioni, e cioè – ripeto – il carattere liberatore degli studi logici e la aggressione che un atteggiamento analitico mi consente, a livello di teoria, nei confronti di qualsiasi sistema di concetti, sono ragioni che permangono e credo che permarranno.»
Seguendo l'onda lunga che sempre caratterizza le decisioni delle Corti Internazionali si potrebbe affermare che gli eventi che in questi giorni hanno portato il governo attualmente in carica in Israele al centro dell'attenzione internazionale siano le dirette conseguenze del parere espresso dalla Corte internazionale di giustizia nel luglio 2024 sulle politiche e sulle pratiche di Israele nei territori palestinesi occupati, nonché delle successive attività della stessa Corte che, prescindendo dai mandati di arresto connessi a crimini contro l’umanità che pure la Corte ha emanato, stanno affrontando, sotto vari aspetti, le problematiche connesse al conflitto israelo-palestinese.
È in corso attualmente il cosiddetto “processo alla fame” - la cui prima udienza è appena stata celebrata in aprile - che su istanza delle Nazioni Unite nonché dell'Autorità Palestinese vede il governo di Israele sul banco degli imputati del diritto internazionale per aver utilizzato il blocco degli aiuti umanitari, e quindi la fame, come arma di guerra.
Sempre di questi giorni la notizia che l'UE sta procedendo, su spinta di una forte maggioranza di Stati membri, alla revisione dell'Accordo di Associazione con Israele, che regola i rapporti economici tra Bruxelles e Tel Aviv, sulla base della violazione dell'articolo 2 dell'Accordo stesso che impone alle parti il rispetto dei diritti umani quali valori essenziali su cui si fonda l'intesa.
Tutti questi accadimenti sembrano dar ragione a quanti avevano ritenuto che il parere reso a luglio dalla Corte internazionale di giustizia fosse un passo senza precedenti che avrebbe fatto storia nell'ambito delle questioni giuridiche che sotto vari aspetti riguardano il conflitto; inoltre che, ancorché i pareri consultivi della CIG non siano giuridicamente vincolanti e non possano di per sé costringere i governi ad agire, il parere del luglio 2024 avrebbe rappresentato un atto di grande peso legale e morale destinato ad avere un'influenza significativa sulle decisioni e sulla politica estera degli Stati, con il potenziale di modificare la capacità della comunità internazionale ad assumere posizione rispetto al conflitto.
E dunque, a voler accedere a una visione ottimistica dell'andamento delle cose internazionali seguendo percorsi giuridicamente corretti, potrebbe ritenersi, alla luce degli eventi recenti, che la pronuncia della Corte abbia rappresentato un punto di partenza che, associato agli eventi politici connessi agli equilibri geopolitici internazionali, può essere in grado di contribuire alla risoluzione del conflitto nonché al tentativo di pacificazione dell'area, con forme che, prima della deliberazione del parere, non erano neppure immaginabili, anche accelerando percorsi diplomatici che sembravano bloccati.
La questione posta alla Corte dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite[1] riguarda in primo luogo le conseguenze giuridiche derivanti da alcune politiche e pratiche di Israele in quanto potenza occupante in una situazione di occupazione belligerante dal 1967; in secondo luogo riguarda il modo in cui tali politiche e pratiche influenzano lo status giuridico dell'occupazione alla luce di alcune norme e principi del diritto internazionale nonché le conseguenze giuridiche che derivano da tale status.
Ancorché già nel 2004 la stessa CIG avesse espresso un parere consultivo sulle conseguenze legali della costruzione di un muro nel territorio palestinese occupato, non vi è dubbio che, per il numero dei soggetti coinvolti, per la pluralità delle questioni trattate e per i punti di analisi esaminati, questo pronunciamento, reso al termine di un procedimento durato 18 mesi in cui sono stati auditi oltre 50 Stati e al quale hanno partecipato varie organizzazioni internazionali, rappresenta una coraggiosa novità e forse, secondo alcuni[2], una manifestazione della crescita del ruolo strategico della Corte internazionale di giustizia nell'ambito del conflitto.
Ampliando la prospettiva di analisi in forme mai fatte prima la Corte parte dal concetto di occupazione secondo il diritto internazionale specificandone la sua natura temporanea e la sua finalizzazione a ristabilire la legge e l'ordine ed eliminare eventuali minacce; precisando che, pur non potendosene stabilire limiti temporali precisi, l’occupazione, per non alterare il suo proprio status legale, deve rispettare tale requisito.
I giudici della Corte rilevano, infatti, che un'occupazione non può essere usata come forma di controllo indefinito e che non può trasferire il titolo di sovranità alla potenza occupante[3].
E inoltre che lo Stato occupante ha il dovere di amministrare il territorio a beneficio della popolazione locale e deve comunque rispettare, sulla base di detti principi, le condizioni di necessità e proporzionalità; sì che una occupazione che prosegua senza rispettarli è inevitabilmente illegale. Escluso poi che una potenza occupante possa stabilire la propria sovranità o esercitare poteri sovrani su un territorio occupato.
Attagliando tali concetti alla situazione attuale, la CIG[4] ha ritenuto che la continua presenza di Israele nei territori palestinesi quale potenza occupante è illegale, ritenendola contraria al divieto dell'uso della forza nelle relazioni internazionali e al correlato divieto di acquisizione del territorio mediante l’uso della forza. E che Israele non abbia diritto alla sovranità o all'esercizio di poteri sovrani in nessuna parte dei territori palestinesi occupati.
Escludendo che l'occupazione prolungata da parte di Israele soddisfi le condizioni di necessità e proporzionalità del diritto internazionale, la CIG di fatto nega la fondatezza dell'argomentazione giustificativa israeliana che collega l'occupazione a ragioni di sicurezza e a legami storici con il territorio, rendendo pertanto inevitabilmente illegale la sua prosecuzione.
Pronunciandosi per la prima volta sulla legittimità dell'occupazione nel contesto del conflitto israelo-palestinese che perdura da ben 57 anni, la Corte quindi ha esaminato la conformità al diritto internazionale di diverse politiche e pratiche di Israele riscontrandone l'illiceità sostanziale. In particolare ha stabilito che il trasferimento di coloni attraverso la confisca e requisizione di ampie aree di terra ai palestinesi viola l'articolo 49 della IV Convenzione di Ginevra, che proibisce il trasferimento e la deportazione forzata di massa da territori occupati; inoltre ha rilevato l'incapacità sistematica di Israele di prevedere e punire gli attacchi dei coloni contro il popolo palestinese nonché l'uso eccessivo della forza in violazione degli obblighi previsti dai vari trattati internazionali[5].
E dunque la Corte - e in questo l'estrema novità di questo pronunciamento - dichiara che l'occupazione israeliana, inizialmente giustificata come difensiva, è degenerata in una violazione del divieto di annessione di territori in spregio al divieto dell'uso della forza.
La Corte ha poi aggiunto un'ulteriore punto di analisi, esaminando le politiche e pratiche israeliane esercitate nei territori palestinesi occupati sotto il diverso profilo del diritto umanitario, stabilendo che tali politiche e pratiche violano altresì il diritto all'autodeterminazione dei popoli e concretizzino di fatto una sistematica discriminazione del popolo palestinese evidenziata dalla privazione delle risorse naturali e dall'impedire il diritto allo sviluppo economico, sociale e culturale.
Pur non richiamando espressamente il fenomeno dell’Apartheid, come invece richiesto da alcuni dei soggetti terzi intervenuti nel procedimento, la Corte ha fatto comunque riferimento all'articolo 3 della convenzione internazionale sulla eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale (CERD) il quale richiede alla Comunità internazionale di condannare la segregazione razziale e di impegnarsi a prevenire, proibire ed eliminare tali pratiche.
Il punto finale del parere riguarda gli obblighi che la CIG attribuisce agli Stati, poiché la Corte formalizza le conseguenze giuridiche delle sue determinazioni sia per Israele che per la restante comunità internazionale: per Israele sancendo l’obbligo di cessare tutte le attività illecite nei territori palestinesi occupati il più rapidamente possibile e di risarcire i danni; includendo nel concetto di risarcimento la restituzione della terra e dei beni immobili confiscati a persone fisiche e giuridiche sin dall'inizio dell'occupazione nel 1967, nonché dei beni culturali e delle risorse sottratte ai palestinesi e alle istituzioni palestinesi inclusi archivi e documenti; richiedendo altresì l'evacuazione di tutti coloni degli insediamenti esistenti e lo smantellamento delle sezioni del muro eretto da Israele nei territori palestinesi occupati; ed infine il ripristino del diritto di ritorno per i palestinesi sfollati durante l'occupazione, consentendo loro di tornare ai loro luoghi di residenza originari.
Per gli Stati ha sancito l'obbligo di non offrire aiuti o assistenza in nessuna forma a sostegno dell'occupazione illegale poiché ciò comporterebbe una violazione del diritto internazionale, stabilendo che gli Stati hanno l'obbligo di astenersi dall'avviare o mantenere con Israele rapporti economici e commerciali riguardanti i territori palestinesi occupati o parti di essi che possano consolidare la presenza illegale nei territori; ed inoltre di adottare misure per impedire relazioni commerciali di investimento che contribuiscano al mantenimento della situazione illegale creatasi.
Un primo importante seguito al deliberato della Corte già si è palesato nell’ottobre 2024 con l’Interrogazione del Parlamento europeo alla Commissione[6] in cui si chiede il rispetto e l'attuazione del parere consultivo della Corte internazionale di giustizia relativo al commercio dell'UE con gli insediamenti israeliani illegali, esigendo dagli Stati membri un divieto generale di commercio con gli insediamenti.
Altre interrogazioni hanno riguardato la situazione umanitaria a Gaza e i rischi di una escalation regionale; altre iniziative sono da ascriversi a singoli o a gruppi di Stati che hanno protestato contro il silenzio della comunità internazionale attiva a fronte del blocco degli aiuti umanitari verso i territori palestinesi occupati o della drastica riduzione degli stessi in modo da non consentire alla popolazione civile, bambini compresi, neppure il livello di mera sussistenza: accadimenti che ben possono leggersi come una filiera unica che partendo dalla ineludibile ancorché non vincolante pronuncia della Corte arriva agli eventi recenti di questi giorni, di cui si è detto.
L’onda è lunga ma è pur sempre un'onda.
[1] Risoluzione A/RES/77/247.
[2] Luca Dettorri - Diritti Comparati- Settembre 2024.
[3] Così paragrafo 105.
[4] La Corte considera come territori occupati sia la Cisgiordania sia Gerusalemme Est, annessa con una procedura non riconosciuta a livello internazionale, sia Gaza.
[5] Tra questi l'articolo 46 delle regole dell'Aia, l'articolo 27 della IV Convenzione di Ginevra e gli articoli 6 e 7 del Patto Internazionale sui diritti civili e politici.
[6] E-002150/2024.
Il referendum abrogativo parziale dell’art. 9, comma 1, lett. b), e dell’intero art. 9, comma 1, lettera f), della l. 5 febbraio 1992, n. 91, in materia di cittadinanza, per consentire a tutti gli stranieri maggiorenni extraeuropei di ottenere la cittadinanza italiana dopo cinque anni di residenza legale in Italia
V. A. Poso. Su iniziativa di +Europa e altri partiti (Possibile, Radicali Italiani, Partito Socialista Italiano, Rifondazione Comunista) e di molte associazioni di varia formazione e operanti in campo sociale e solidaristico (con il fattivo sostegno anche della CGIL, impegnata nella promozione dei quattro referendum abrogativi di importanti norme lavoristiche ) è stato promosso il referendum abrogativo di alcune disposizioni normative del comma 1 dell’art. 9, l. 5 febbraio 1992, n. 91 (dopo la comunicazione in data 4 settembre 2024 dell’iniziativa referendaria, l’annuncio delle richieste è stato pubblicato nella G.U. n. 208 del 5 settembre 2024).
Questa la denominazione proposta dai promotori: «Cittadinanza italiana: Abrogazione delle disposizioni che non permettono la concessione della cittadinanza italiana allo straniero maggiorenne non appartenente a uno Stato membro dell’Unione europea dopo cinque anni di residenza legale nel territorio della Repubblica».
Questo il quesito referendario «“Volete voi abrogare l’art. 9, comma 1, lettera b), limitatamente alle parole "adottato da cittadino italiano" e "successivamente alla adozione"; nonché la lettera f), recante la seguente disposizione: "f) allo straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica.", della legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante nuove norme sulla cittadinanza"?».
Il manifesto pubblicitario di questo referendum, confezionato da + Europa, sintetizza in maniera efficace il significato di questo referendum e gli obiettivi da realizzare con l’esito positivo del voto: «Grazie a questo referendum verranno ridotti da 10 a 5 gli anni di residenza legale in Italia richiesti per poter avanzare la domanda di cittadinanza italiana che, una volta ottenuta, sarebbe automaticamente trasmessa ai propri figli e alle proprie figlie minorenni.
Questa semplice modifica rappresenterebbe una conquista decisiva per la vita di molti cittadini di origine straniera (secondo le stime si tratterebbe di circa 2.500.000 di persone) che, in questo Paese, non solo nascono e crescono, ma da anni vi abitano, lavorano e contribuiscono alla sua crescita. Partecipare agevolmente a percorsi di studio all’estero, rappresentare l’Italia nelle competizioni sportive senza restrizioni, poter votare, poter partecipare a concorsi pubblici come tutti gli altri cittadini italiani. Diritti oggi negati».
Vi chiedo, di illustrare la disciplina normativa oggetto di questo referendum. Innanzitutto, un quadro sintetico dei soggetti ai quali si applica e delle condizioni che legittimano la concessione della cittadinanza, spiegando, anche, le ragioni di politica del diritto, di integrazione e inclusione, poste a fondamento della l. n. 91/1992.
G. D’Amico. Il criterio principale di acquisto della cittadinanza italiana è definito dalla legge n. 91/1992 nel c.d. ius sanguinis e cioè dalla nascita da un genitore di cittadinanza italiana. Si afferma infatti che è cittadino per nascita il figlio di padre o di madre cittadini. Limitata operatività ha nel nostro ordinamento il c.d. ius soli, e cioè la rilevanza della nascita sul territorio ai fini dell’acquisto della cittadinanza. Si tratta del caso di chi è nato nel territorio della Repubblica se entrambi i genitori sono ignoti o apolidi, ovvero se il figlio non segue la cittadinanza dei genitori secondo la legge dello Stato al quale questi appartengono. In tal modo si vuole evitare la condizione di apolidia in cui potrebbe incorrere il minore. Si prevede inoltre che sia considerato cittadino per nascita anche il figlio di ignoti trovato nel territorio della Repubblica, se non venga provato il possesso di altra cittadinanza. Si tratta dunque di ipotesi che hanno un ambito di operatività assai limitato.
Connessa allo ius sanguinis è anche l’ipotesi dell’acquisto della cittadinanza per adozione, che vede legare la condizione di parentela all’acquisizione della cittadinanza italiana: i minori stranieri che siano stati adottati da un/a cittadino/a italiano/a diventano cittadini per effetto della trascrizione del provvedimento di adozione nei registri dello stato civile. Gli adottati maggiorenni, invece, possono chiedere la cittadinanza trascorsi cinque anni dall’adozione. Quest’ultima previsione è oggetto del quesito referendario volto ad ampliarne la portata anche oltre l’ambito dell’adozione.
Vi sono poi altre modalità di acquisto della cittadinanza, tra cui quella per matrimonio: possono acquisire la cittadinanza italiana gli stranieri (o gli apolidi) che contraggono matrimonio o un’unione civile con un cittadino italiano o una cittadina italiana, quando, dopo il matrimonio o l’unione, risiedano legalmente da almeno due anni nel territorio della Repubblica, oppure dopo tre anni dalla data del matrimonio o dell’unione se residenti all’estero. In entrambi i casi, non devono essere intervenuti lo scioglimento, l’annullamento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio e non deve sussistere la separazione personale dei coniugi.
Si può acquistare la cittadinanza anche per naturalizzazione e cioè decorso un certo numero di anni di residenza legale sul territorio come condizione di acquisto della cittadinanza. In Italia tale periodo è tra i più lunghi, se comparato con gli Stati dell’Unione europea, perché è stato fissato a 10 anni.
F. Biondi Dal Monte. In via generale, le varie modalità di acquisto della cittadinanza possono essere classificate tra i casi c.d. per beneficio di legge e quelli per concessione. Nel primo caso, il soggetto in possesso dei requisiti stabiliti dalla legge ha diritto, se intende usufruirne, di acquistare la cittadinanza: si tratta dunque di casi a cui corrisponde un diritto soggettivo tutelabile dinanzi al giudice ordinario. Nei casi di concessione, invece, la cittadinanza è acquisita a seguito di una valutazione discrezionale da parte della pubblica amministrazione, in relazione alla quale l’interessato può vantare soltanto un interesse legittimo.
Tra i casi classificabili come beneficio di legge rientra quello dello straniero o apolide, del quale il padre o la madre o uno degli ascendenti in linea retta di secondo grado sono stati cittadini per nascita, se, oltre a dichiarare di voler acquistare la cittadinanza, si trovi in una delle seguenti condizioni: a) aver prestato effettivo servizio militare per lo Stato italiano (con dichiarazione preventiva di voler acquistare la cittadinanza italiana); b) aver assunto un pubblico impiego alle dipendenze dello Stato, anche all’estero (con dichiarazione di voler acquistare la cittadinanza italiana); c) residenza da almeno due anni nel territorio della Repubblica al raggiungimento della maggiore età, con dichiarazione, entro un anno dal compimento dei 18 anni, di voler acquistare la cittadinanza italiana.
Altro caso molto importante di acquisto della cittadinanza per beneficio di legge è quello dello straniero che sia nato in Italia e vi abbia risieduto legalmente senza interruzioni fino al raggiungimento della maggiore età. L’art. 4 della legge n. 91/1992 prevede che tali stranieri possano chiedere la cittadinanza entro un anno dal compimento dei 18 anni.
Vari sono stati i problemi legati alla dimostrazione della residenza legale sul territorio fino al compimento della maggiore età, che può essere inficiato da eventuali interruzioni nelle registrazioni anagrafiche, o dalla mancata richiesta dichiarazione di voler acquistare la cittadinanza entro il termine di un anno dalla maggiore età. Positiva la disciplina adottata con il d.l. 21 giugno 2013, n. 69, convertito nella legge 9 agosto 2013, n. 98, e volta a semplificare il procedimento di acquisto della cittadinanza italiana per lo straniero nato in Italia, al quale non devono essere imputati eventuali inadempimenti riconducibili ai genitori o agli uffici della pubblica amministrazione, purché egli possa comunque dimostrare la sua presenza effettiva in Italia fino alla maggiore età con idonea documentazione (ad esempio pagelle scolastiche, certificazioni di vaccinazioni sanitarie, ecc.). Inoltre, al fine di favorire la conoscenza di tale modalità di acquisto della cittadinanza, il d.l. n. 69 del 21 giugno 2013, convertito, con modificazioni, dalla l. 9 agosto 2013, n.98, all’art. 33,comma 2, ha anche introdotto un obbligo per gli ufficiali di stato civile di comunicare agli interessati, nei sei mesi precedenti il compimento della maggiore età, la possibilità di esercitare il diritto all’acquisto della cittadinanza entro il compimento del diciannovesimo anno di età. In mancanza di tale comunicazione, il diritto all’acquisto della cittadinanza può essere esercitato anche dopo la scadenza di detto termine.
Dall’altro lato, tra i casi di cittadinanza per concessione vi sono, ai sensi dell’art. 9 della legge n. 91/1992: i) il caso dello straniero del quale il padre o la madre o uno degli ascendenti in linea retta di secondo grado sono stati cittadini per nascita, o che è nato nel territorio della Repubblica e, in entrambi i casi, vi risiede legalmente da almeno tre anni, comunque fatto salvo quanto previsto dall’articolo 4, comma 1, lettera c); ii) il caso dello straniero maggiorenne adottato da cittadino italiano che risiede legalmente nel territorio della Repubblica da almeno cinque anni successivamente alla adozione; iii) il caso dello straniero che ha prestato servizio, anche all’estero, per almeno cinque anni alle dipendenze dello Stato; iv) il caso del cittadino di uno Stato membro dell’Unione europea se risiede legalmente da almeno quattro anni nel territorio della Repubblica; v) il caso dell’apolide che risiede legalmente da almeno cinque anni nel territorio della Repubblica; infine vi) il caso dello straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica.
Tale ultima previsione, secondo la proposta referendaria, verrebbe ad essere abrogata e verrebbe altresì modificata la previsione relativa al maggiorenne adottato, per estenderla a tutti gli stranieri riducendo quindi conseguentemente la residenza da 10 a 5 anni.
V. A. Poso Si tratta, comunque, di una modifica – quella prospettata dal referendum – che è limitata solo a ridurre il requisito minimo di residenza legale dello straniero extracomunitario in Italia. Per una maggiore comprensione del quesito referendario ci illustrate, in termini generali, se e quali sono le differenze, con riferimento agli stranieri di Stati non appartenenti all’Unione Europea, per ottenere la cittadinanza italiana, rispetto ai cittadini europei?
F. Biondi Dal Monte. Come anticipato, l’art. 9 della legge n. 91/1992, introduce varie differenze nella durata della residenza legale interrotta ai fini dell’acquisto della cittadinanza italiana, differenziando da un minimo di 3 anni ad un massimo di 10 anni. Per i cittadini di altri Stati dell’Unione europea, anche alla luce del favor per la cittadinanza europea, tale durata è estesa fino a 4 anni. La residenza deve essere legale e continuativa e pertanto la persona deve essere iscritta all’Anagrafe senza periodi di residenza all’estero o di irreperibilità in Italia.
G. D’Amico. Anche i cittadini dell’Unione possono incontrare le difficoltà comuni ad altre categorie di straniero: e cioè il possesso di un determinato livello di reddito, la conoscenza della lingua italiana e l’assenza di precedenti penali e/o condanne, con sentenza definitiva per alcune tipologie di reato, o la sussistenza di comprovati motivi inerenti alla sicurezza della Repubblica Italiana.
V. A. Poso Ci sono molti altri aspetti della cittadinanza italiana e dei requisiti necessari per ottenerla, anche nella prospettiva di alcune riforme preannunciate. Iniziamo dal requisito dello ius sanguinis, con uno sguardo anche alla legislazione degli altri Stati europei.
G. D’Amico. Negli ultimi mesi si sono susseguite alcune iniziative legislative che si sono concretizzate, dapprima, nell’approvazione di un disegno di legge e, poi, nell’adozione di un decreto-legge di cui parlerà la prof.ssa Biondi Dal Monte. Il 28 marzo 2025 il Consiglio dei Ministri ha approvato un disegno di legge in tema di cittadinanza, che introduce il principio del “legame effettivo” tra la persona e lo Stato ai fini dell’acquisto della cittadinanza, condizionandola dunque alla sussistenza di un effettivo vincolo con il Paese che la conferisce. Tale legame viene considerato effettivo se la persona può vantare una “residenza qualificata” in Italia, caratterizzata da un periodo di tempo sufficientemente lungo (pari almeno a due anni continuativi).
F. Biondi Dal Monte. Parallelamente il Consiglio dei ministri ha anche approvato un decreto-legge che introduce disposizioni urgenti in materia di cittadinanza, d.l. 28 marzo 2025, n. 36, pubblicato nella G.U. n. 73 del 28 marzo 2025 (il relativo d.d.l. di conversione in legge, che è stato approvato, con modificazioni, il 15 maggio dal Senato e, in via definitiva, il 20 maggio dalla Camera dei deputati, è in corso di pubblicazione sulla G.U.), che anticipa l’entrata in vigore di alcune delle norme previste nel richiamato disegno di legge e relative alla limitazione nella trasmissione automatica della cittadinanza iure sanguinis. Le nuove previsioni stabiliscono che i discendenti di cittadini italiani, nati all’estero, saranno automaticamente cittadini solo per due generazioni: solo chi ha almeno un genitore o un nonno nato in Italia sarà cittadino dalla nascita. I figli di italiani acquisteranno automaticamente la cittadinanza se nascono in Italia oppure se, prima della loro nascita, uno dei loro genitori cittadini ha risieduto almeno due anni continuativi in Italia. Tali limiti valgono solo per chi ha un’altra cittadinanza, per evitare casi di apolidia, e si applicano a prescindere dalla data di nascita (prima o dopo l’entrata in vigore del decreto-legge).Saranno comunque esaminate secondo la previgente normativa le richieste di riconoscimento della cittadinanza documentate e presentate entro le 23.59 (ora di Roma) del 27 marzo 2025.
V. A. Poso. E poi lo ius scholae, che ritorna spesso nelle riforme proposte da alcuni partiti e movimenti. Cosa significa, concretamente, e quanto lo ritenete realizzabile?
F. Biondi Dal Monte. La legge n. 91/1992 è stata al centro di numerose proposte di modifica finalizzate prevalentemente a adeguare la disciplina alle nuove istanze provenienti dalla società civile, che ha visto stabilizzare la presenza dei cittadini stranieri in Italia, aumentare il numero dei nati da genitori stranieri e i nuclei familiari, incrementare il numero degli alunni stranieri nelle scuole italiane.
Tra queste, meritevoli di particolare attenzione sono le proposte riguardanti la possibilità di acquisto della cittadinanza per i minori entrati sul territorio nei primi anni di vita o comunque prima della maggiore età (c.d. ius domicilii) e per coloro che avessero frequentato e/o concluso uno o più cicli di istruzione in Italia (c.d. ius scholae o anche ius culturae). Tale ultimo caso, declinato in vario modo nelle differenti proposte di modifica, ha il pregio di valorizzare il percorso di effettiva integrazione della persona sul territorio e la sua partecipazione alla vita scolastica, sostituendo a criteri per lo più statici una condizione che ha il pregio di valorizzazione anche un profilo “dinamico” della vita della persona sul territorio.
Al di là delle varie opzioni normative, le proposte di riforma pendenti testimoniano la necessità di valorizzare la presenza stabile e strutturale dei cittadini stranieri nella società contemporanea e le seconde e terze generazioni di migranti, privilegiando il legame di fatto sviluppato tra l’individuo e lo Stato rispetto a una rigida applicazione di convenzioni formali.
G. D’Amico. Senza entrare nel merito di proposte di riforma che finora non hanno mai superato l’esame nella commissione parlamentare competente, si tratta di progetti che perseguono l’obiettivo di riconoscere la cittadinanza italiana a giovani che hanno concluso un percorso di formazione in Italia al punto da doversi ritenere perfettamente integrati nel contesto sociale e culturale italiano, e che anzi percepiscono come assai sfumato il rapporto di appartenenza con il paese di origine dei loro genitori. Peraltro, siffatte proposte si collocano su una posizione intermedia tra coloro che immaginano il riconoscimento della cittadinanza per ius soli e quanti invece si oppongono a qualsiasi modifica della legge n. 91. Proprio per questa ragione quelle anzidette sono proposte intorno alle quali potrebbe coagularsi in Parlamento un consenso trasversale. Si tratta quindi di iniziative che, a mio avviso, devono essere sostenute e incentivate.
V. A. Poso. Qual è lo stato dell’arte della normativa degli altri Stati europei sullo ius scholae?
G. D’Amico. Il tema della comparazione con quanto stabilito in altri ordinamenti è un leit-motiv di ogni dibattito su possibili riforme (siano esse legislative o costituzionali). Spesso però l’argomento comparativo viene utilizzato per sostenere la propria posizione o per screditare quella della parte avversa, senza il necessario approfondimento sull’utilità della comparazione e soprattutto sulla sua fattibilità.
Al riguardo, infatti, merita di essere precisato che solitamente l’asserita comparazione si riduce a una rassegna di diritto “straniero”, senza cioè che siano adeguatamente approfonditi i contesti storici, culturali, politici e sociali in cui la normativa esaminata è sorta e si è evoluta. Faccio solo un esempio per rendere maggiormente esplicito il senso di quanto sto dicendo: se si volessero trarre dall’esperienza legislativa della Francia (che pure è un Paese vicino culturalmente, oltre che geograficamente, all’Italia) indicazioni utili sul tema della cittadinanza, bisognerebbe inevitabilmente fare i conti con una realtà che, per ragioni legate al passato coloniale e a più recenti politiche di “ghettizzazione” nelle grandi città metropolitane, si presenta profondamente diversa da quella italiana, al punto da rendere fuorviante o comunque assai problematica l’“importazione” di modelli legislativi.
F. Biondi Dal Monte. Nel merito degli ordinamenti di singoli Paesi, occorre precisare che in alcuni Paesi (come ad esempio in Germania e in Francia), pur non essendo previsto un legame tra la concessione della cittadinanza e la frequenza del sistema scolastico, non mancano alcuni modi di ottenimento della cittadinanza legati, ad esempio, ad un livello eccezionale di integrazione, anche dimostrabile con il raggiungimento di risultati scolastici di lato livello (Germania) o alla conclusione del ciclo scolastico obbligatorio (Francia, sia pure in presenza di alcune ulteriori condizioni).
Quanto poi a forme “più dirette” di riconoscimento della cittadinanza per ius scholae, esse sono previste in Grecia (che presenta la normativa maggiormente simile a quella che si vorrebbe introdurre in Italia) e in Portogallo, ma anche in Lussemburgo e in Slovenia (sebbene siano previsti anche altri requisiti).
A prescindere però dai punti di contatto e di differenza delle legislazioni di questi Paesi rispetto a quella che si vorrebbe introdurre in Italia, occorre ribadire che la comparazione non deve essere intesa come uno strumento per legittimare un’acritica trasposizione di modelli legislativi nati da esperienze diverse da quella italiana ma come un ausilio per testare la validità di soluzioni normative già sperimentate in altri ordinamenti.
V. A. Poso. Ritornando, in particolare, alle disposizioni oggetto del quesito referendario, come giudicate, nel merito, la richiesta referendaria? La ritenete sufficiente? Può essere l’occasione di una riforma organica della cittadinanza?
F. Biondi Dal Monte. Il quesito referendario ha il pregio di sollecitare una riflessione sul tema e stimolare l’attenzione dell’opinione pubblica sull’acquisto della cittadinanza per naturalizzazione. Tuttavia, mi pare che il disegno di legge approvato a fine marzo da parte del Consiglio dei Ministri – e ancora di più il d.l. n. 36 del 2025 – vada in una direzione differente rispetto ad una riforma organica della materia, concentrandosi solo su alcuni profili ritenuti meritevoli di attenzione. Si evidenzia comunque che, nelle premesse al d.l. n. 36/2025, la straordinaria necessità e urgenza di introdurre misure per evitare “un eccezionale e incontrollato afflusso di domande di riconoscimento della cittadinanza, tale da impedire l’ordinata funzionalità degli uffici consolari all’estero, dei comuni e degli uffici giudiziari” è affermata “nelle more dell’approvazione di una riforma organica delle disposizioni in materia di cittadinanza”. L’auspicio è pertanto quello di favorire un ampio confronto parlamentare sul disegno di legge annunciato a fine marzo, affinché in quella sede possano essere ampliati gli obiettivi della riforma.
Occorre dunque distinguere tra l’effetto diretto della richiesta referendaria che non può non investire solo alcune (poche) disposizioni e l’effetto (per così dire) indiretto, individuabile nell’apertura di un dibattito pubblico su una questione che dovrebbe occupare un ruolo centrale nell’agenda politica del Parlamento e del Governo.
G. D’Amico. La richiesta referendaria ha – com’era inevitabile – un carattere “parziale”, incidendo solo su alcune specifiche e ben circoscritte disposizioni. D’altra parte, non poteva avvenire diversamente. Se infatti fosse stato richiesta l’abrogazione totale dell’intera legge n. 91, siffatto quesito sarebbe incorso in una facilmente prevedibile inammissibilità, incidendo su una normativa costituzionalmente necessaria.
Ad analogo esito sarebbe andata incontro anche una richiesta che avesse investito più disposizioni della legge in parola, senza che fosse rinvenibile una matrice razionalmente unitaria.
Quanto poi al fatto che la richiesta referendaria possa essere l’occasione per una riforma organica della cittadinanza, credo che a questo esito possa giungersi solo nel caso di raggiungimento del quorum nella consultazione referendaria e di prevalenza dei voti favorevoli all’abrogazione delle disposizioni oggetto del quesito. Provo a spiegarmi meglio. Non v’è dubbio che la richiesta di referendum abbia contribuito a “rispolverare” il tema della modifica della legge sulla cittadinanza portandolo al centro del dibattito pubblico, ma basterebbe il mancato raggiungimento del quorum per farlo nuovamente cadere nel dimenticatoio per poi riemergere magari in occasione di qualche tornata elettorale.
V. A. Poso. È opportuno, credo, fare una riflessione sulla giurisprudenza delle Alte Corti, anche sovranazionali, per gli aspetti che possono interessare il tema oggetto del quesito referendario.
G. D’Amico. L’esame, sia pure superficiale, della giurisprudenza delle altre Alte Corti, sconta quel limite di cui sopra si è detto a proposito della comparazione. In altre parole, l’utilità della pronuncia di questa o quella Corte costituzionale o Corte Suprema o Tribunale costituzionale va sempre valutata alla luce del contesto di riferimento. Non si vuole qui negare in radice che l’argomento comparativo sia o possa essere un proficuo supporto per il giudice interno, ma si intende solo sottolineare l’importanza di un suo uso accorto. Nel caso di specie, questa preoccupazione tende a sfumare a seconda del livello di regolazione preso in esame. In altre parole, se si guarda al livello costituzionale della disciplina in materia non può che rilevarsi una comprensibile affinità tra le normative di Paesi diversi e quindi tra le giurisprudenze delle relative Corti Supreme; se invece, si scende al livello della legislazione primaria o organica (là dove essa è prevista) si colgono in tutta evidenza le diverse sfumature e quindi l’inevitabile divergenza delle relative giurisprudenze costituzionali.
F. Biondi Dal Monte. Muovendo dalla prospettiva in parola, non può non sottolinearsi l’importanza della pronuncia della Corte internazionale di giustizia nel caso Nottebohm del 1955, nel quale per la prima volta è stata sottolineata l’esistenza di limiti alla discrezionalità dei legislatori statali in materia di cittadinanza. Limiti, che, com’è facilmente comprensibile, si rendono necessari per evitare quei conflitti (sia positivi sia negativi) che possono sorgere tra le normative di Stati diversi nel caso in cui la loro applicazione comporti o il riconoscimento in capo a un individuo di plurime cittadinanze o, all’opposto, il mancato riconoscimento di alcuna cittadinanza e quindi la condizione di apolidia. Di qui l’esigenza pratica di rinvenire un nucleo fondamentale del diritto alla cittadinanza e legare il vincolo di cittadinanza tra la persona/cittadino e lo Stato all’esistenza di legami effettivi e genuini (genuine link).
Senza entrare nel merito delle decisioni di alcune Corti sovranazionali, merita di essere richiamato il fatto che la Convenzione europea dei diritti dell’uomo non menziona siffatto diritto, che, nondimeno, ha trovato spazio (e riconoscimento) nella giurisprudenza della Corte EDU per il tramite dell’art. 8 della Convenzione. A fronte delle difficoltà che la Corte EDU ha incontrato nel riconoscere e garantire la cittadinanza come diritto fondamentale, si segnala invece come la Corte interamericana dei diritti umani abbia svolto da tempo un’opera di costante “rafforzamento” della configurazione della cittadinanza come diritto umano, sottolineando i limiti internazionali che la discrezionalità degli Stati incontra. Particolarmente interessanti anche alcune pronunce della Corte di Giustizia dell’Unione europea in relazione al legame tra acquisizione/perdita della cittadinanza di uno Stato membro e cittadinanza dell’Unione.
V. A. Poso. Passiamo all’ordinanza dell’Ufficio Centrale per il Referendum della Corte di Cassazione pubblicata il 12 dicembre 2024 che ha dichiarato conforme a legge la richiesta di referendum abrogativo sul quesito relativo all’art. 9, comma 1, lett. b) e lett. f), della l. n. 91/1992 (nei termini più sopra illustrati) al quale è stato assegnato il seguente titolo sintetico, che meglio definisce l’iniziativa referendaria: “Cittadinanza italiana: Dimezzamento da 10 a 5 anni dei tempi di residenza legale in Italia dello straniero maggiorenne extracomunitario per la richiesta di concessione della cittadinanza italiana”: così semplificando la denominazione proposta dai promotori, della quale abbiamo detto sopra, e aggiungendo alla originaria proposta avanzata dalla Cassazione (con l’ordinanza interlocutoria del 2 dicembre 2024), per la migliore comprensione del quesito, il rifermento numerico ai tempi dimezzati, da 10 a 5 anni.
Nessun problema si pone per i requisiti di ammissibilità del referendum abrogativo individuati dalla Cassazione e per gli obiettivi perseguiti dai promotori chiaramente diretti a realizzare il dimezzamento dei tempi necessari per ottenere la cittadinanza italiana da parte degli stranieri extracomunitari. Altrettanto penso si possa dire del carattere immediatamente e univocamente comprensibile ai cittadini chiamati al voto dell’oggetto del quesito referendario come individuato dalla sintetica denominazione adottata. Avete qualche osservazione e precisazione al riguardo?
F. Biondi Dal Monte. In proposito, occorre ricordare che l’Ufficio Centrale per il Referendum della Corte di cassazione è chiamato a svolgere un controllo sulla regolarità della richiesta referendaria che quindi non si sovrappone a quello della Corte costituzionale ma ne costituisce la premessa logica. La verifica della conformità a legge della richiesta non può infatti che precedere l’esame della sua ammissibilità che, come vedremo, comporta un sindacato anche sul quesito referendario.
Quanto poi alla denominazione del quesito, mi sembra evidente come la formula approvata dall’Ufficio centrale sia decisamente più comprensibile per l’elettorato.
G. D’Amico. Anche a mio avviso, l’Ufficio centrale per il Referendum non era chiamato a particolari approfondimenti per licenziare la richiesta referendaria, che si presentava lineare e di agevole comprensione. Per quanto possa apparire paradossale, semmai la denominazione originaria della stessa poteva indurre a qualche fraintendimento, essendo troppo legata, dal punto di vista letterale, alle disposizioni della legge n. 91 del 1992.
V. A. Poso. Con la sentenza n.11 del 7 febbraio 2025, la Corte Costituzionale ha dichiarato ammissibile la richiesta di referendum per l’abrogazione della norma e per le parti indicate oggetto del quesito.
La Corte Costituzionale, dopo aver rilevato che le disposizioni oggetto della richiesta referendaria sono estranee alle materie per le quali l’art. 75, comma 2, Cost. preclude il ricorso all’istituto del referendum abrogativo, ha affermato di essere chiamata a valutare il rispetto dei soli requisiti concernenti la formulazione del quesito, non venendo in rilievo limiti concernenti l’ambito materiale investito dal quesito referendario. E richiama i principi espressi nella sentenza n. 16 del 1978.
Quali sono le Vostre valutazioni, di carattere generale, in merito al rispetto della norma costituzionale?
G. D’Amico. La sentenza n. 11 del 2025, pur non affermando principi nuovi, presenta profili di unicità nel panorama giurisprudenziale relativo alle norme sulla cittadinanza.
Se è vero, infatti, che la Corte, più volte e anche in tempi recenti, è stata investita di questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto norme della legge 5 febbraio 1992, n. 91(si pensi, tra le più recenti, alla sentenza n. 25 del 2025, in merito all’esonero dalla prova di conoscenza della lingua italiana del richiedente affetto da gravi limitazioni alla capacità di apprendimento linguistico, alla sentenza n. 195 del 2022, sulle cause ostative al riconoscimento del diritto di cittadinanza, e alla sentenza n. 258 del 2017 sull’obbligo di prestare il giuramento di fedeltà alla Repubblica per le persone affette da disabilità), con la decisione qui esaminata il Giudice delle leggi è stato chiamato per la prima volta ad affrontare un giudizio di ammissibilità di un referendum sulla legge in parola. A ciò si aggiunga che mai prima d’ora la Corte era stata investita di una questione attinente alla durata temporale del periodo di residenza in Italia affinché uno straniero potesse acquistare la cittadinanza italiana. È inutile aggiungere che la rilevanza di questa novità deriva dall’attualità del tema nel dibattito pubblico italiano, in cui ormai da anni si discute, in modo – a dire il vero – più propagandistico che reale, di ius soli e/o di ius scholae.
Nel giudizio definito con questa sentenza la Corte non era certamente chiamata ad occuparsi di questi profili, né, più semplicemente, a giudicare sulla costituzionalità della normativa vigente. Peraltro, per giurisprudenza costante (in realtà, più declamata che praticata), esula dalla valutazione di ammissibilità del referendum il sindacato sulla legittimità costituzionale della relativa norma di risulta.
Nel caso di specie, la domanda dei richiedenti ha ad oggetto l’abrogazione dell’intera disposizione di cui alla lettera f) del comma 1 dell’art. 9 della legge de qua e di alcune parole della lettera b) del medesimo comma. Entrambe le disposizioni elencano alcuni dei soggetti a cui può essere concessa la cittadinanza italiana. In particolare, la lettera f) menziona lo «straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica». La lettera b) si rivolge invece allo «straniero maggiorenne adottato da cittadino italiano che risiede legalmente nel territorio della Repubblica da almeno cinque anni successivamente alla adozione».
È evidente che la prima delle due disposizioni reca la disciplina generale per la concessione della cittadinanza allo straniero, stabilendo un periodo di residenza legale di almeno dieci anni, mentre la seconda costituisce una delle previsioni speciali che consentono agli stranieri che si trovino in particolari condizioni (ad esempio, maggiorenni adottati da cittadini italiani, cittadini di Stati membri U.E., apolidi e rifugiati) di ottenere la cittadinanza anche dopo un periodo di residenza legale inferiore ai dieci anni (rispettivamente, cinque, quattro e cinque anni).
L’intento dei promotori è dunque quello di abrogare la norma generale, sostituendo a questa la previsione di cui alla lettera b), che diventerebbe tale in virtù dell’abrogazione dei riferimenti, ivi contenuti, all’adozione da parte di un cittadino italiano.
F. Biondi Dal Monte. La Corte costituzionale ha confermato che, in caso di approvazione del referendum abrogativo, verrebbe a essere modificato esclusivamente il tempo di residenza legale necessario per poter presentare la domanda di cittadinanza – pari a cinque anni – restando invece fermi i soggetti che potranno fare la richiesta, i restanti requisiti per presentarla (la residenza nel territorio della Repubblica e, ai sensi dell’art. 9.1 della l. n. 91/1992, l’adeguata conoscenza della lingua italiana), nonché la natura di «atto squisitamente discrezionale di “alta amministrazione”» del provvedimento concessorio.
Profilo importante della decisione, è anche la considerazione che la normativa di risulta non è estranea alla cornice normativa di riferimento. La Corte chiarisce infatti che lo stesso quinquennio di residenza legale sul territorio nazionale – oltre a essere stato per lungo tempo, nell’ordinamento giuridico italiano, il requisito temporale la cui sussistenza era necessaria allo straniero per poter richiedere la cittadinanza italiana (art. 4, comma primo, numero 2, della legge n. 555 del 1912) – è il requisito già oggi necessario ove vogliano richiedere la cittadinanza italiana gli stranieri maggiorenni adottati da cittadino italiano (ai sensi dell’altra disposizione oggetto della richiesta referendaria, l’art. 9, comma 1, lettera b), gli apolidi (art. 9, comma 1, lettera e), nonché coloro che siano stati riconosciuti rifugiati (art. 16): i cinque anni di residenza legale, pertanto, non sono una cifra che «figura in tutt’altro contesto normativo» (sentenza n. 36 del 1997) ma, al contrario, sono cifra già utilizzata dal legislatore per le medesime esigenze (sentenza n. 26 del 2017). Ciò esclude anche la natura manipolativa del quesito, perché l’approvazione della richiesta referendaria non genererebbe «un assetto normativo sostanzialmente nuovo […] da imputare direttamente alla volontà propositiva di creare diritto, manifestata dal corpo elettorale» (sentenza n. 26 del 2017). Secondo la Corte, la normativa di risulta, al contrario, sarebbe pienamente in linea non solo con i princìpi (sentenza n. 49 del 2022), ma anche con le stesse regole già contenute nel testo legislativo sottoposto a parziale abrogazione, impiegando un criterio già utilizzato dal legislatore (sentenza n. 13 del 1999) e del quale non muterebbe i «tratti caratterizzanti» (sentenza n. 10 del 2020).
V. A. Poso. Secondo la Corte costituzionale, la combinazione delle due diverse abrogazioni, avrebbe l’esito di consentire a tutti gli stranieri maggiorenni extracomunitari di ottenere, previa richiesta, la concessione della cittadinanza italiana, rendendo il quesito «omogeneo, chiaro e univoco» (punto n. 5 del Considerando in diritto). Condividete questa valutazione espressa anche alla luce delle precedenti sentenze n. 16 del 1978, n. 49 del 2022 e n. 50 del 2022?
F. Biondi Dal Monte. Sì, come affermato dalla Corte, è ammissibile anche la formulazione di quesiti che abbiano a oggetto singole parole o singole frasi, eventualmente anche prive di un autonomo significato normativo (sentenza n. 32 del 1993), come nel caso in questione. Tale tecnica – pur potendo portare a «importanti sviluppi normativi» (sentenza n. 49 del 2022), in quanto «abrogare non significa non disporre, ma disporre diversamente» (sentenze n. 16 e n. 15 del 2008) – non deve però trasformare il referendum abrogativo ex art. 75 Cost. in referendum propositivo. E infatti nel caso di specie, la richiesta non è volta a sostituire la disciplina vigente «con un’altra disciplina assolutamente diversa ed estranea al contesto normativo, che il quesito ed il corpo elettorale non possono creare ex novo né direttamente costruire» (sentenza n. 13 del 1999). Non risulta dunque superata la “soglia di tollerabile manipolatività” consentita al quesito, la quale del resto è in certa misura inevitabile, senza che per ciò solo il referendum dismetta il proprio carattere abrogativo.
G. D’Amico. La parte in diritto della motivazione della sentenza n. 11 si apprezza per la sua sintesi; la Corte, infatti, liquida rapidamente il problema dell’eventuale esistenza di limiti concernenti l’ambito materiale investito dalla richiesta referendaria, affermando perentoriamente che non vengono in rilievo nel caso di specie. Si aggiunga che siffatto approccio è anche giustificato dal carattere parziale e, tutto sommato, marginale dell’intervento abrogativo richiesto, limitato – come si è detto – a due disposizioni. Ben altro discorso si sarebbe reso necessario in presenza di un quesito di più ampia portata, che probabilmente avrebbe reso inevitabile il riconoscimento della legge in parola come costituzionalmente necessaria. Ciò nondimeno, la domanda referendaria non si rivolge affatto ad aspetti di dettaglio della legge, bensì a una delle norme centrali (appunto la previsione generale per gli stranieri extracomunitari), incidendo sul requisito temporale della residenza legale.
Il Giudice delle leggi si sofferma quindi sul «rispetto dei soli requisiti concernenti la formulazione del quesito», sottolineandone l’omogeneità, la chiarezza e l’univocità, oltre all’esistenza di una matrice razionalmente unitaria. Esclude poi che l’effetto abrogativo richiesto possa determinare una modificazione in peius della posizione dello straniero maggiorenne adottato da cittadino italiano. Aggiunge che non è superata la «soglia di tollerabile manipolatività», mancando quei «connotati di manipolatività [del quesito] idonei a denotare un carattere “surrettiziamente propositivo” dell’alternativa posta al corpo elettorale». La disciplina vigente non è, infatti, sostituita con un’altra diversa ed estranea al contesto normativo.
Si tratta di considerazioni che non possono non essere condivise anche perché in linea con la giurisprudenza consolidata della Corte che, nell’ambito dell’ammissibilità referendaria, non brilla per la coerenza delle posizioni assunte nel tempo e soprattutto si segnala per un atteggiamento tendenzialmente restrittivo nei confronti delle richieste popolari di abrogazione di leggi.
V. A. Poso. C’è da dire, anche, concordando con la posizione difensiva espressa dai promotori e condivisa dalla Consulta, che la parziale abrogazione dell’art. 9, comma 1, lett. b), non determinerebbe alcuna modifica in peius della posizione dello straniero maggiorenne adottato da un cittadino italiano perché lo rende legittimato a richiedere la concessione della cittadinanza italiana solo dopo cinque anni di residenza in Italia, mentre in base alla normativa vigente i cinque anni decorrono dall’adozione, anche per il caso in cui si tratti di soggetto già legalmente in Italia.
F. Biondi Dal Monte. Sì, certamente, la posizione dello straniero maggiorenne adottato da un cittadino italiano non subirebbe alcuna modifica in peius, poiché questi potrebbe comunque richiedere la concessione della cittadinanza italiana dopo cinque anni di residenza in Italia.
G. D’Amico. Concordo con la risposta della prof.ssa Biondi Dal Monte e aggiungo che la disposizione oggi vigente (art. 9, comma 1, lettera b) prevede la concessione della cittadinanza «allo straniero maggiorenne adottato da cittadino italiano che risiede legalmente nel territorio della Repubblica da almeno cinque anni successivamente alla adozione». Di conseguenza, nel quadro normativo attuale, il periodo di cinque anni di residenza in Italia si calcola a partire dall’adozione mentre, qualora fosse approvata l’abrogazione referendaria, si calcolerebbe a prescindere dal momento dell’adozione, ben potendo quindi essere anteriore a quest’ultima.
V. A. Poso. E tuttavia potrebbe ritenersi contraddetta la natura abrogativa dell’istituto referendario (v. sentenza n. 59 del 2022) proprio dalla combinazione di due abrogazioni, una parziale e una totale, per dar vita alla norma di risulta che abbiamo sopra illustrato. La Corte Costituzionale lo esclude (punto n. 6 del Considerando in diritto) richiamando alcuni precedenti giurisprudenziali.
G. D’Amico. La motivazione svolta sul punto dalla Corte mi pare condivisibile. La constatazione che la normativa di risulta venga fuori dalla combinazione di due abrogazioni, una parziale e una totale, non mi sembra di per sé un argomento per escludere in generale l’ammissibilità di una richiesta referendaria e, nel caso di specie, di quella qui in esame.
F. Biondi Dal Monte. Anch’io condivido la posizione assunta dalla Corte sul punto. D’altra parte, a voler ragionare in termini diversi si finirebbe con il negare l’ammissibilità della gran parte dei quesiti referendari e con il ritornare quindi a una logica formalistica per cui con il referendum ex art. 75 Cost. si può solo chiedere la rimozione di una o più disposizioni senza che si possa produrre alcun effetto di riespansione di una previsione già esistente.
V. A. Poso. Una ulteriore valutazione che deve essere fatta è se il quesito referendario sia «privo di quei connotati di manipolatività idonei a denotare un carattere “surrettiziamente propositivo” dell’alternativa posta al corpo elettorale» (sentenza n. 57 del 2022). Si potrebbe sostenere, infatti, che la consultazione referendaria è volta a sostituire la disciplina vigente «con un’altra disciplina assolutamente diversa ed estranea al contesto normativo, che il quesito ed il corpo elettorale non possono creare ex novo né direttamente costruire» (sentenza n. 13 del 1999), con riferimento non solo al dimezzamento dei tempi necessari per formulare la richiesta di concessione della cittadinanza, ma anche alla parificazione dei soggetti adottati, ai fini del requisito della residenza legale in Italia.
Sotto questo profilo a Vostro avviso risulta superata la “soglia di tollerabile manipolatività” consentita al quesito referendario?
F. Biondi Dal Monte. A mio parere, la soglia di tollerabile manipolatività non è affatto superata per le ragioni indicate nella sentenza e richiamate nella domanda. Anzi il caso in esame mi sembra costituire una vicenda emblematica del funzionamento del meccanismo di espansione della portata applicativa di una disposizione già presente nel sistema a seguito dell’abrogazione di un’altra previsione normativa.
G. D’Amico. Condivido anch’io la tesi per cui, nel caso di specie, non è superata la «soglia di tollerabile manipolatività», mancando – come testualmente dice la Corte – quei «connotati di manipolatività [del quesito] idonei a denotare un carattere “surrettiziamente propositivo” dell’alternativa posta al corpo elettorale». La disciplina vigente non è, infatti, sostituita con un’altra diversa ed estranea al contesto normativo.
Se tutto ciò è vero, come in effetti lo è, non può però negarsi che l’eventuale abrogazione referendaria finirebbe con l’appiattire i requisiti temporali voluti dal legislatore. La legge n. 91 del 1992 si caratterizza, infatti, per l’aver previsto una variegata gamma di termini di durata della residenza legale, distinguendo tra le varie ipotesi al fine di differenziare la posizione dei soggetti a seconda delle loro caratteristiche. Si pensi, al riguardo: ai due anni di residenza legale richiesti allo straniero o apolide, al raggiungimento della maggiore età, del quale il padre o la madre o uno degli ascendenti in linea retta di secondo grado siano stati cittadini per nascita (art. 4, comma 1, lettera c); alla residenza ininterrotta fino alla maggiore età per lo straniero nato in Italia (art. 4, comma 2); ai due anni per il coniuge, straniero o apolide, di cittadino italiano (art. 5, comma 1), che possono diventare uno in presenza di figli (art. 5, comma 2) e così via dicendo.
Da questo punto di vista, eliminando il termine lungo di residenza decennale, l’abrogazione referendaria schiaccerebbe verso il basso l’articolazione temporale voluta dal legislatore.
Poteva questa considerazione indurre alla Corte a una decisione di inammissibilità? Probabilmente, sarebbe stato eccessivo questo esito. Nondimeno, resta il fatto che l’eventuale accoglimento del quesito referendario dovrebbe indurre il legislatore a rimettere mano all’articolazione temporale di cui si è appena detto.
V. A. Poso. Escludete, quindi, mi pare di capire, che l’approvazione della richiesta referendaria verrebbe a generare «un assetto normativo sostanzialmente nuovo […] da imputare direttamente alla volontà propositiva di creare diritto, manifestata dal corpo elettorale» (v. sentenza n. 26 del 2017). Insomma, la normativa di risulta, sarebbe pienamente in linea con i princìpi (v. sentenza n. 49 del 2022), e con le stesse regole già contenute nel testo legislativo sottoposto a parziale abrogazione, impiegando un criterio mai utilizzato dal legislatore (v. sentenza n. 13 del 1999) e del quale muterebbe i «tratti caratterizzanti» (v. sentenza n. 10 del 2020), in base alle considerazioni espresse prima?
G. D’Amico. Mi sento di poter escludere categoricamente che l’approvazione della richiesta referendaria possa generare un assetto normativo nuovo. Come ho cercato di evidenziare nella precedente risposta, l’eliminazione di quella “distribuzione”, voluta dal legislatore quanto ai periodi di residenza, non determina affatto un assetto sostanzialmente nuovo della disciplina di cui qui si discute.
F. Biondi Dal Monte. Non vi è dubbio che l’abrogazione referendaria comporti, per sua stessa natura, un quid novi. D’altra parte, se così non fosse, non avrebbe ragion d’essere. Ciò nondimeno, nel caso di specie, la regola nuova della residenza legale protratta per cinque anni sarebbe il frutto della espansione di una previsione già presente nel tessuto normativo in parola. Mi sento quindi di escludere che si possa determinare un assetto normativo sostanzialmente nuovo.
V. A. Poso. Quindi, anche secondo Voi, il ritaglio operato non determina lo stravolgimento dell’originaria ratio e struttura della disposizione, tale da comportare l’introduzione di una nuova statuizione del tutto estranea all’originario contesto normativo, come argomenta la Corte.
F. Biondi Dal Monte. Sì, è proprio così. Non mi pare che si possa rilevare alcuno stravolgimento dell’originaria ratio e struttura della disposizione, tale da comportare l’introduzione di una nuova statuizione del tutto estranea all’originario contesto normativo.
G. D’Amico. Sono d’accordo con la prof.ssa Biondi Dal Monte. Ritengo infatti che l’osservazione da me fatta in merito allo “schiacciamento” dei tempi di durata della residenza legale, determinato dall’eventuale abrogazione referendaria, non produca alcuno stravolgimento.
V. A. Poso. Già subito dopo la pubblicazione della sentenza della Corte Costituzionale gli scenari che si potevano prospettare per evitare il voto popolare erano assai problematici. A maggior ragione, ora, che siamo ormai prossimi al voto. La mia domanda, quindi, è davvero retorica. Si fa, così, per discutere: quale potrebbe essere l’intervento del legislatore (non solo quello demolitorio, ovviamente) sufficiente ad evitare il referendum abrogativo?
G. D’Amico. Siamo ormai a ridosso della consultazione referendaria. Di conseguenza, qualsiasi tentativo di bloccarla mi parrebbe velleitario e destinato all’insuccesso. In linea puramente teorica, un intervento legislativo idoneo a evitare il referendum avrebbe potuto essere quello volto a modificare il termine di durata della residenza legale di cui alla lettera f) del comma 1 dell’art. 9 o addirittura a riscrivere l’intero impianto della legge n. 91 del 1992. È facile però rilevare che nessuno di questi interventi era nell’agenda politica del Parlamento e del Governo
F. Biondi Dal Monte. Condivido quanto detto dal prof. D’Amico e aggiungo che il d.l. n. 36 del 2025 è stato già convertito in legge, come abbiamo detto sopra, con l’approvazione del 20 maggio 2025 da parte della Camera dei deputati. Certo, la conversione del disegno di legge poteva essere l’occasione per intervenire sulla materia oggetto del referendum in esame, ma così non è stato.
V. A. Poso. Mi sembrano ovvi e scontati gli scenari che si prospettano in caso di esito positivo del voto popolare, trattandosi di norma di risulta auto-applicativa. Potrebbe essere, questo referendum, l’occasione per un intervento del legislatore diretto a riformare integramente la normativa sulla cittadinanza italiana? Quali sono, secondo Voi, i punti essenziali di una riforma che risponda alla migliore integrazione degli stranieri extracomunitari nel contesto politico, sociale ed economico esistente?
F. Biondi Dal Monte. Sinceramente mi auguro che l’esito positivo di questa consultazione referendaria dia avvio a un percorso riformatore della legge n. 91 del 1992. A mio avviso, una riforma organica della legge sulla cittadinanza dovrebbe valorizzare, al di là della propaganda politica, l’esistenza di quei legami effettivi tra la persona e la comunità italiana. Nell’individuazione dei presupposti per il riconoscimento della cittadinanza, dovrebbero dunque essere privilegiati alcuni indici di integrazione sul territorio, eliminando ogni inutile aggravamento burocratico per gli stranieri che risiedono da tempo in uno Stato o che, addirittura, vi sono nati. Si tratta di un processo che deve prioritariamente compiersi in via politica e dal quale dipenderà la coesione sociale delle future società democratiche. I progetti di riconoscimento della cittadinanza in base al c.d. ius scholae vanno sicuramente in questa direzione.
G. D’Amico. L’auspicio è che la stagione referendaria attuale non finisca con l’essere un fuoco di paglia, destinato a spegnersi nel breve volgere di qualche settimana, specie se – come temo – non si raggiungerà il quorum di validità. Più in generale, mi pare sia emersa in gran parte della dottrina, oltre che tra gli operatori del settore, l’esigenza di una completa riscrittura della legge n. 91 del 1992, approvata in un contesto sociale e politico completamente diverso da quello attuale. In particolare, credo che la riscrittura della legge sulla cittadinanza non possa prescindere da una visione d’insieme (e quindi dalla considerazione) del fenomeno migratorio. È chiaro però che finché quest’ultimo verrà affrontato solo in termini di gestione dell’ordine pubblico, ogni speranza di mettere mano a una riforma organica di questa legge resterà nel libro dei sogni.
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