ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
CEDU e cultura giuridica italiana. 12) Carta dei diritti fondamentali UE e CEDU.
Intervista di Roberto Conti al Prof. Enzo Cannizzaro
Riprendiamo il filo delle interviste che Giustizia Insieme ha, prima della crisi pandemica, dedicato al ruolo della CEDU nell'ordinamento interno, ora approfondendo i nessi di collegamento, non sempre nitidi, con la Carta UE dei diritti fondamentali. L'argomento è di notevole importanza anche in relazione alle recenti prese di posizione della Corte Costituzionale sul ruolo della Carta UE nel sistema di protezione dei diritti fondamentali e del giudice comune rispetto alle ipotesi di concorrente rilevanza della Costituzione. Le risposte del Prof. Cannizzaro indagano in modo profondo sulle disposizioni delle due Carte dei diritti sovranazionali ed offrono orizzonti di notevole profondità non soltanto dogmatico, individuando operativamente le prospettive che dovrebbero animare i giudici -comune e non - nell'opera di armonizzazione dei livelli di protezione dei diritti - che trovano concorrente protezione nelle tre Carte - e di individuazione dello standard più elevato di tutela. Emerge, così, una prospettiva dinamica che sembra nettamente valorizzare il piano dell'interpretazione per gestire quello delle fonti, nella quale l'opera del diritto vivente risulta tanto affascinante quanto impegnativa, evocando livelli di conoscenza e di approfondimento dei paradigmi normativi che chiamano, ancora una volta, gli operatori pratici del diritto a livelli di responsabilità e professionalità certamente elevati.
1) Qual è, a suo giudizio, il metodo che l’interprete deve adottare per individuare, all’interno della Carta UE, i diritti immediatamente precettivi e i principi, al fine di modularne l’efficacia nei rapporti verticali ed orizzontali?
Non è facile attribuire un contenuto normativo alla distinzione fra regole e principi nei termini indicati dall’art. 52, par. 5, della Carta. Tale disposizione, difatti, non indica alcun criterio che consenta all’interprete di operare tale distinzione.
La prima parte della disposizione indica che “(l)e disposizioni della presente Carta che contengono dei principi possono essere attuate da atti legislativi e esecutivi adottati da istituzioni, organi e organismi dell’Unione e da atti di Stati membri allorché essi danno attuazione al diritto dell’Unione, nell’esercizio delle loro rispettive competenze”. Questa frase dovrebbe valere, indistintamente, per tutte le disposizioni della Carta e non soltanto per quelle che contengano principi. Sarebbe ben strano che le norme della Carta che formulino regole possano essere attuate da atti delle Istituzioni e da quelli degli Stati membri al di fuori dall’ambito delle proprie competenze. Una considerazione analoga vale altresì per la seconda frase dell’art. 52, par. 5, la quale indica che i principi “possono essere invocate dinanzi a un giudice solo ai fini dell’interpretazione e del controllo di legalità di detti atti”. Non si vede, francamente, a quale altro fine potrebbero essere invocate le disposizioni della Carta che costituiscono regole.
Dato che l’art. 52, par. 5, non fornisce alcun elemento per determinare la differenza fra regole e principi, è ragionevole ritenere che la qualificazione di una disposizione della Carta come regola ovvero come principio dovrà essere compiuta caso per caso, sulla base di una interpretazione delle singole disposizioni della Carta.
Ciò è quel che ha fatto la Corte di giustizia. Partendo dal presupposto che, rispetto alle regole, i principi dovrebbe avere, logicamente, una contenuto normativo “attenuato”, la Corte ha, in varie occasioni, identificato dei principi sulla base di una interpretazione casistica. In particolare, la Corte di giustizia ha teso a qualificare come principi quelle disposizioni della Carta il cui contenuto va identificato attraverso l’attività legislativa di esecuzione. Così, nella nota sentenza AMS (15 gennaio 2014, C‑176/12), la Corte, pur senza qualificare l’art. 27 della Carta come un principio, ha indicato che “(r)isulta dunque chiaramente dal tenore letterale dell’articolo 27 della Carta che tale articolo, per produrre pienamente i suoi effetti, deve essere precisato mediante disposizioni del diritto dell’Unione o del diritto nazionale”.
Di converso, nella sentenza 6 novembre 2018, causa C-684/16, Max Planck, la Corte ha precisato che “(d)isponendo, in termini imperativi, che «[o]gni lavoratore» ha «diritto» a «ferie annuali retribuite», senza segnatamente rinviare in proposito – come fatto, ad esempio, dall’articolo 27 della Carta, che ha dato luogo alla sentenza del 15 gennaio 2014, Association de médiation sociale – ai «casi e alle condizioni previsti dal diritto dell’Unione e dalle legislazioni e prassi nazionali», l’articolo 31, paragrafo 2, della Carta, riflette il principio essenziale del diritto sociale dell’Unione al quale non è possibile derogare se non nel rispetto delle rigorose condizioni di cui all’articolo 52, paragrafo 1, della Carta …”.
Insomma, nel medesimo settore dei diritti sociali, la Corte sembra indicare che, al fine di determinare la natura di una disposizione della Carta, occorra guardare al grado della completezza dispositiva al fine di verificare se essa sia capace di incardinare un diritto fondamentale in capo ai singoli senza l’assistenza di norme di esecuzione, europee o nazionale.
Questa conclusione sembra evocare la notissima distinzione fra norme dell’Unione aventi effetti diretti e norme dell’Unione che ne sono invece prive. Questa distinzione, però, mal si attaglia al campo dei diritti fondamentali. Una norma europea non aventi effetti diretti, infatti, non può essere applicata dal giudice nazionale se non a fini interpretativi mentre, come si è detto, l’art. 52, par. 5, prevede che una disposizione della Carta che formuli un principio ben potrà essere utilizzata non solo come parametro di interpretazione, ma anche come parametro di validità del diritto dell’Unione e delle norme nazionali che ricadono nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione. Se così non fosse, infatti, si riproporrebbe, su base europea, la distinzione fra norme precettive e norme programmatiche della Costituzione, che venne spazzata via già dalla prima sentenza pronunciata dalla Corte costituzionale
Ritengo, quindi, che la differenza fra regole e principi nell’ambito delle disposizioni della Carta vada compiuta sulla base di una analisi caso per caso, che tenga conto del contenuto della disposizione della Carta ma anche di altre disposizioni che potrebbero contribuire alla determinazione di tale contenuto. Nella citata sentenza Max Planck, difatti, la Corte ha ricostruire il contenuto del diritto alle ferie retribuite sulla base di atti internazionali vincolanti per l’Unione. Non è escluso che tale metodo non possa essere utilizzato anche per interpretare le disposizioni della Carta che prevedono una attività di integrazione e precisazione ad opera di norme derivate, europee o nazionali.
Ritengo altresì che la differenza fra regole e principi non attenga alle conseguenze giuridiche prodotte. Sia le regole che i principi, infatti, orientano l’interpretazione degli atti europei e di quelli nazionali che operano nella sfera del diritto dell’Unione e costituiscono parametro di validità per tali atti. La differenza dovrebbe invece consistere nella circostanza che i principi, a differenza delle regole, potranno essere precisati nel loro contenuto attraverso una attività interpretativa che consideri altre norme del sistema.
In ogni caso, sia le regole che i principi della Carta non possano essere applicate al di là dell’ambito di applicazione del diritto europeo. In particolare, una disposizione della Carta non potrà attribuire ad un atto europeo effetti che esso non possa di per sé produrre.
2) L’orientamento inaugurato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 269/2017 ed i successivi seguiti (Corte cost. nn.20/2019, 69/2019, 117/2019 e 182/2020) in che misura può determinare una diversità di tutela fra i diritti contemplati nella Carta UE e nella CEDU e, in caso di risposta positiva, presta il fianco a critiche?
Il sistema presupposto dal noto dictum formulato dalla Corte costituzionale nella sentenza 269/2017, era teso a risolvere il problema della doppia pregiudizialità attraverso un criterio di priorità: una legge confliggente, in ipotesi, sia con i diritti tutelati dalla Carta che con quelli garantiti dalla Costituzione avrebbe dovuto far preliminarmente oggetto di rinvio incidentale di costituzionalità. L’inevitabile conseguenza di tale regola sarebbe stato l’accentramento in capo alla Corte costituzionale del potere di disporre un rinvio pregiudiziale di interpretazione riferito a disposizioni della Carta.
Dal dictum della Corte, peraltro irragionevolmente sintetico, si può trarre una seconda regola, di carattere sostanziale, che si accompagna a tale criterio di priorità. Tale regola riguarda lo standard di tutela dei diritti: un problema centrale nell’attuale coesistenza di sistemi alternativi di tutela. La Corte ha precisato, infatti, che, nel considerare le disposizioni della Carta, ne avrebbe assicurato una interpretazione conforme rispetto alla Costituzione.
Ambedue le regole - quella procedurale sull’ordine di priorità e quella sostanziale sui parametri interpretativi e sugli standards di tutela - appaiono molto criticabili e ispirate a posizioni ideologiche piuttosto che a una equilibrata esigenza di cooperazione.
Innanzitutto, l’imposizione di un dovere in capo al giudice di disporre un rinvio incidentale di costituzionalità di una legge confliggente con una disposizione della Carta avrebbe privato il giudice nazionale simultaneamente di due prerogative delle quali esso dispone in virtù del diritto europeo: il potere di sollevare un rinvio interpretativo alla Corte di giustizia e il potere, o fors’anche il dovere, di disapplicare la legge reputata in conflitto con una disposizione di diritto europeo dotata di effetti diretti.
Una tale privazione sarebbe stata ancor più penalizzante qualora la vicenda normativa all’attenzione del giudice nazionale avesse richiesto un rinvio pregiudiziale di validità ovvero un rinvio in parte di interpretazione e in parte di validità. Ciò sarebbe avvenuto, in tutta evidenza, qualora l’interpretazione di una norma della Carta fosse stata richiesta dal giudice nazionale al fine di determinare la validità di un atto europeo frapposto fra la Carta e la legge nazionale.
Lungi dal rappresentare una ipotesi teorica, questa appare, al contrario, la tipica vicenda giuridica che metta in essere l’interpretazione della Carta. È noto, infatti, che la Carta opera, ai sensi del suo art. 51, par. 1, rispetto ad atti dell’Unione nonché ad atti nazionali che ricadano nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione. Or bene, la tipica situazione nella quale un atto legislativo nazionale ricade nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione è data da una legge nazionale adottata in attuazione di un atto dell’Unione. In tal caso, un giudice nazionale potrebbe disporre un rinvio pregiudiziale di interpretazione rispetto ad una norma della Carta proprio al fine di valutare la compatibilità con la Carta della sola legge nazionale, ovvero dell’atto europeo, ovvero di ambedue. In tali situazioni, che possono mettere in gioco sia l’interpretazione della Carta che la validità di un atto europeo, il giudice nazionale, pur se non di ultimo grado, avrebbe l’obbligo incondizionato di disporre il rinvio pregiudiziale.
Né appare convincente la seconda pretesa, di carattere sostanziale, che si rispecchia nella sentenza 269/2017: quella di modellare il contenuto dei diritti formulati dalla Carta secondo i canoni interpretativi e le esigenze proprie del proprio ordine costituzionale nazionale. Ciò, infatti, condizionerebbe in maniera impropria le politiche interpretative della Corte di giustizia. Come emerge dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, la funzione del rinvio pregiudiziale è proprio quella di evitare il rischio di orientamenti interpretativi nazionali che frammenterebbe l’uniforme applicazione del diritto europeo. Una tale pretesa, se realizzata, avrebbe l’effetto di moltiplicare i conflitti fra la Corte costituzionale e la Corte di giustizia, per la quale sarebbe davvero inaccettabile una ricostruzione del contenuto dei diritti della Carta operata sistematicamente alla luce delle esigenze costituzionali di uno Stato membro. L’idea stessa di una armonizzazione europea dei diritti fondamentali e dei loro meccanismi di tutela verrebbe svuotata di ogni significato.
Né tale pretesa potrebbe costituire un contributo proveniente da una esperienza giuridica nazionale, a ricostruire il contenuto dei diritti fondamentali europei attraverso l’interpretazione delle disposizioni della Carta. Per assolvere a tale funzione, di carattere essenziale nelle dinamiche giurisprudenziali europee, occorrerebbe una disponibilità a mettere in gioco le proprie tradizioni giuridiche e accettare che esse vengano composte con quelle europee dall’unico organo abilitato a farlo, vale a dire la Corte di giustizia. Ma non è questo il motivo che ha ispirato la redazione del dictum della sentenza 269/2017. Al contrario, esso sembra proprio teso a rivendicare un monopolio interpretativo della Corte costituzionale nella ricostruzione dei diritti fondamentali europei in virtù della loro sovrapposizione con gli analoghi, ma non identici, diritti tutelati dalla Costituzione italiana.
Insomma, la soluzione adottata dalla sentenza 269/2017 non sembra coerente con l’esigenza di apertura dell’ordinamento costituzionale al processo di integrazione europea: una esigenza anch’essa tutelata dalla Costituzione e, addirittura, da uno dei suoi principi fondamentali, vale a dire l’art. 11 Cost. Sfortunatamente, tale norma sembra aver smarrito il proprio ruolo negli orientamenti interpretativi della Corte costituzionale negli ultimi anni (sia consentito rinviare, in proposito, al mio scritto I valori costituzionali oltre lo Stato, in Osservatorio delle fonti, 2018, n. 2).
3) Quando la Corte costituzionale afferma che occorre assicurare che i diritti garantiti dalla citata Carta dei diritti siano interpretati in armonia con le tradizioni costituzionali, pure richiamate dall’art. 6 del Trattato sull’Unione europea e dall’art. 52, comma 4, della CDFUE come fonti rilevanti in tale ambito (Corte cost.nn.269/2017, 20/2019, 112 e 117 del 2019) intende rivolgere tale indicazione metodologica anche al giudice comune nazionale e quali sono gli effetti derivanti dall’inosservanza di tale indicazione nel processo?
I richiami alla prassi interpretativa nazionale operati dalla Corte costituzionale al fine di ricostruire il contenuto dei diritti della Carta alla luce delle tradizioni costituzionali italiane sembrano proprio diretti ad imporre una interpretazione costituzionalmente orientata della della Carta da parte dei giudici nazionali.
L’idea che gli organi giudiziari nazionali possano contribuire alla ricostruzione del contenuto dei principi della Carta dei diritti fondamentali non appare né irragionevole né contraria al diritto europeo. Al contrario, tale contributo ben potrebbe aiutare a risolvere un evidente paradosso insito nel sistema europeo dei diritti fondamentali.
Tale paradosso deriva dalla difficile coesistenza di più sistemi concorrenti di diritti fondamentali, il cui concorso è disciplinato da una serie quanto mai incerta di criteri ordinatori. Il principale, ai fini del problema in esame, è quello relativo all’ambito di applicazione del diritto europeo. Come è noto, i diritti fondamentali europei operano solo nell’ambito di applicazione del diritto europeo, mentre i diritti nazionali, inclusi quelli di origine internazionale quali la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, operano in via residuale, vale a dire nell’ambito di situazioni puramente interne.
Tuttavia, questo criterio presenta lo svantaggio di provocare una sorta di discriminazione nel godimento dei diritti fondamentali. Infatti, dato che la distinzione fra l’ambito delle situazioni regolate dal diritto europeo e quello relativo alle situazioni puramente nazionali ha carattere funzionale, ben può accadere che situazioni giuridiche materialmente identiche siano governate da diritti appartenenti a sistemi diversi. Né si tratta di una differenza puramente formale, dato che il contenuto dei diritti, come è noto, corrisponde, appunto, a prassi e a tradizioni interpretative proprie del sistema al quale appartengono.
Or bene, questa conseguenza potrebbe essere attenuata qualora il contenuto dei diritti provenienti dai vari sistemi concorrenti di tutela convergesse verso un contenuto più o meno uniforme. A tal fine occorrerebbe, evidentemente, che le prassi e tradizioni costituzionali proprie di ciascuno Stato membro, insieme al sottostante assetto di valori e interessi che le ispira, contribuissero alla definizione di uno standard uniforme di tutela dei diritti fondamentali, propri sia all’ordinamento europeo che a quelli dei suoi Stati membri. Si tratta, evidentemente di una prospettiva ben diversa rispetto alla astratta rivendicazione di un monopolio nella definizione dell’assetto assiologico del proprio ordinamento. Tale prospettiva comporta, infatti, un processo dinamico di definizione di tale standard uniforme, al quale sono chiamati a partecipare sia le Corti costituzionali nazionali, sia la Corte di giustizia, sia, infine, i giudici nazionali. Essi, infatti, costituiscono parte essenziale del complesso ordinamento giudiziario europeo e hanno la prerogativa di poter dialogare con la Corte di giustizia anche esprimendo posizioni difformi dalle rispettive Corti costituzionali.
In questa prospettiva concettuale, che sembra descrivere l’attuale sistema dei rapporti fra Costituzioni nazionali e Carta dei diritti fondamentali, la pretesa di una Corte costituzionale di dettare ai giudici comuni una linea di condotta orientata univocamente alla salvaguardia delle prassi e tradizioni interpretative nazionali appare irragionevole se non anche antistorica. La logica del rinvio pregiudiziale è proprio quella di consentire a qualsiasi giudice nazionale di prospettare alla Corte di giustizia gli elementi per la ricostruzione dei diritti fondamentali e, più in generale, del diritto europeo. Si tratta di un compito affidato ai giudici dai Trattati istitutivi, in particolare dall’art. 267 del TFUE. Un tale compito non viene meno rispetto all’inquadramento formale di tali giudici nell’ambito di un ordinamento nazionale, a meno di non alterare l’assetto dei principi strutturali sui quali si fonda l’ordinamento europeo.
4) L’uso che il giudice nazionale fa della Carta UE può considerarsi, a suo avviso, appagante? I sistemi di raccordo fra Carta UE e CEDU introdotti all’interno della Carta stessa consentono di individuare delle linee guida per il giudice nazionale chiamato a fare applicazione di un diritto contemplato dalla Carta che riproduce il contenuto di una disposizione della CEDU?
Sfortunatamente quando si passa dal piano dei ragionamenti per principi e si scende nell’analisi tecnica, ci si avvede della precarietà logica delle soluzioni adottate dalla Carta in tema di rapporti con le altre fonti dei diritti fondamentali, in particolare con la Convenzione europea. I rapporti fra gli standards di tutela derivanti dalla Carta e quelli derivanti dalla Convenzione europea sono, come è noto, regolati dal criterio della protezione più estesa. Sia la Carta che la convenzione prevedono, ambedue all’art. 53, che l’adozione di uno standard di tutela abbia un contenuto minimo e non pregiudica l’applicazione dello standard di tutela dei diritti fondamentali più alto assicurato dall’altro strumento di tutela.
Purtroppo, è più facile enunciare il criterio della protezione più estesa che applicarlo in pratica. A ciò concorrono due motivi. Il primo è di carattere sistematico; il secondo è piuttosto relativo alle caratteristiche diverse dei due cataloghi di diritti.
Il motivo di carattere sistematico, molto noto, è dato dalla circostanza che il contenuto e l’intensità della tutela di un diritto fondamentale sono necessariamente fondati su un bilanciamento fra le esigenze sottese a tale diritto e quelle relative ad altri diritti o interessi, di carattere individuale e collettivo. Ne consegue una evidente difficoltà di determinare lo standard di tutela più alto i diritti individuali, dato che l’innalzamento del livello di tutela di un diritto fondamentale potrebbe comportare una corrispondente riduzione di tutela per altri, soventi altrettanto fondamentali.
Vi è, però, un altro motivo, riconnesso alla profonda eterogeneità nella natura e nella funzione della Carta rispetto a alla Convenzione. Con stretto riferimento alla domanda posta, è sufficiente ricordare che la Carta intende armonizzare i diritti fondamentali operanti nell’ordinamento europeo al fine di evitare che una frammentazione su base nazionale dello standard di tutela possa pregiudicare l’uniforme applicazione del diritto europeo. Or bene, ciò è quel che potrebbe accadere se si applicasse, nei rapporti fra Carta e Convenzione, il principio della protezione più estesa. In forza di tale principio, infatti, un giudice nazionale, tenuto ad applicare lo standard di tutela di un diritto - in ipotesi più elevato - assicurato dalla Convenzione, sarebbe legittimato a disapplicare una norma europea incompatibile con tale livello di tutela ma compatibile con il livello di tutela, in ipotesi meno elevato, assicurato dalla Carta.
Questo esempio chiarisce, a mio avviso, le grandi difficoltà tecniche nel delineare un equilibrato rapporto fra gli strumenti di tutela apprestati rispettivamente, dalla Carta, dalla Convenzione europea e dalle Costituzioni nazionali.
La mia opinione è che tali difficoltà, difficilmente superabili sul piano tecnico, potrebbero ridursi grandemente attraverso il circolo virtuoso che ho delineato nella risposta alla precedente questione. Tale circolo è composto, idealmente, da due fasi. La prima è la fase nella quale gli organi giudiziari determinano il livello di tutela di un diritto fondamentale attraverso un processo di bilanciamento degli interessi e valori confliggenti, sulla base delle prassi e tradizioni interpretative di ciascuno dei sistemi concorrenti: la Carta, la Convenzione, gli ordinamenti nazionali. La seconda fase è quella nella quale gli attori percepiscono, anche attraverso conflitti laceranti, l’esigenza di armonizzazione del contenuto e dell’intensità della tutela dei diritti fondamentali come un valore prevalente rispetto all’esigenza di realizzare integralmente le esigenze del proprio sistema di tutela. La determinazione di tale standard uniforme consegue, quindi, alla rinuncia di ciascuno degli attori in gioco a risolvere i conflitti sulla base di criteri formali, quale l’ordine gerarchico di un giudice, ovvero la sua pretesa di esprimere l’identità nazionale o addirittura la sovranità assiologica del proprio ordinamento di appartenenza.
Franco Benigno, ordinario di Storia moderna presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, nella sua precedente opera dal titolo “La mala setta. Alle origini di mafia e camorra. 1859-1878” (Einaudi, 2015) aveva rilustrato il rapporto fra il neonato Stato italiano e la criminalità organizzata avvalendosi delle fonti, poliziesche giudiziarie e giornalistiche dell’epoca.
Nel recente “L'Italia Come Storia: Primato, Decadenza, Eccezione” (Viella, 2020), scritto assieme a Igor Mineo, docente di Storia medioevale nell’Università di Palermo, si interroga circa il metodo e il merito dell’indagine storiografica sull’Italia, sul carattere degli italiani e sulla loro presunta ‘eccezione’ rispetto alle virtù delle altre genti, anche considerando che i rivolgimenti successivi al 1989 hanno cambiato profondamente la prospettiva sulla storia dell’Italia.
Su questo tema è centrato l’articolo da lui scritto per Giustiziainsieme
Superare l’eccezionalismo come visione della storia d’Italia
Fra pratica storiografica e polemica pubblica il canone nazionale italiano, ovvero un insieme di temi e problemi fondamentali relativi all’identità storica del paese, si aggira nella sfera pubblica e nei testi accademici, sia pure ormai solo come spettro. Esso tiene assieme, come due facce della stessa medaglia, discorsi sul primato e discorsi sul ritardo o sulla decadenza, con l’avvertenza che, sul lungo periodo, questi ultimi si sono rivelati più̀ resistenti e influenti dei primi. Il suo principale segno di riconoscimento è in una forma di eccezionalismo, che non consiste solo nell’idea di una storia speciale, peculiare e distinta da quella del resto del mondo ma in qualcosa di più: la fisionomia dell’Italia di oggi, e soprattutto i suoi mali, vi appaiono non come l’effetto di una serie di condizioni rintracciabili nel presente o nel passato recente, ma come il risultato di un sedimentato deposito di tare originarie, tali da definire una contorta morfologia storica.
La genealogia esplicativa per via d’eccezione ha goduto negli ultimi anni di una rinnovata fortuna nell’opinione pubblica. Connessa a bisogni politici immediati, oltreché a un diffuso sentire collettivo, essa tende a raccontare la vicenda del paese come un succedersi di vuoti e di carenze, di ritardi e di mancanze, rimandando a un «peccato originale», identificato nei modi più̀ vari, tra cui la mancanza vuoi di una riforma protestante, vuoi di una vera rivoluzione, vuoi di un’autentica dimensione statuale. Più spesso l’essenza di tale fenomeno è stata identificata in un presunto «carattere degli italiani», espresso da una serie di tratti perniciosi quali l’individualismo, l’intelligenza furbesca, lo scarso senso civico, il familismo e, sul piano politico, il conformismo delle élites e il radicato quietismo delle maggioranze di governo. Ne è risultato una sorta di patriottismo alla rovescia, un atteggiamento pesantemente autocritico spinto fino alla fustigazione di sé e addirittura al sentimento dell’intima vergogna nel dirsi italiani
Soprattutto, nel caso italiano il senso comune eccezionalista ha imposto agli intellettuali la funzione non di interpreti dei processi della modernizzazione economico-sociale e politico-istituzionale del paese, ma di denunciatori dei ritardi e delle insufficienze di quegli stessi processi, della progettualità sconfitta, delle riforme inattuate e delle rivoluzioni mancate. La formula dell’«ideologia dell’assenza» risulta azzeccata: la tendenza, evidente già agli inizi del XX secolo (senza risalire più indietro, come sarebbe possibile, a Leopardi per esempio), a leggere la storia d’Italia come marcata da ciò che non è molto più che da ciò che è, dai vuoti più che dai pieni.
In occasione del centocinquantesimo anniversario dell’Unità, il nucleo profondo di tali tendenze sarebbe risultato ancora visibile, e con esse l’antica querelle sulle radici profonde del fascismo nei vizi antichi della nazione italiana. E’ proprio di questi anni una storiografia di successo che, insieme alla contestazione della tradizionale storia etico-politica e di una retorica celebrativa divenuta col tempo stantia, recupera parti significative del paradigma rielaborando, su basi metodologiche aggiornate, la continuità tra Risorgimento e fascismo: riafferma così qualcosa tradizionalmente rivendicato da parte dell’Italia d’opposizione, l’idea dello Stato nazionale come “manufatto incompiuto”, incapace di integrare le varie parti del paese, e in specie del Meridione, in un insieme organico.
L’altro terreno decisivo di incubazione dell’eccezionalismo è stato certamente quello dell’economia. Ricostruirne la storia ha significato a lungo discutere sulle insufficienze del processo unitario, inquadrate in un retroterra di lungo o lunghissimo periodo, segnato dal ristagno o dalla decadenza. È facile oggi notare come in questi discorsi economici la prospettiva unitaria proiettata all’indietro risulti, se possibile, ancora più incongrua di quella concentrata sui fenomeni politici, tanto differenziata risulta la mappa delle economie preindustriali in termini di capacità produttiva, di attitudini al consumo, e di modi di integrazione in reti di mercato multiformi, una mappa che con l’ordinata silhouette della penisola non ha alcuna attinenza sensata.
Naturalmente, se dalla politica e dall’economia si sposta sulla società lo sguardo eccezionalista trova facilmente appigli per ulteriori elaborazioni. Basti pensare alla famiglia, spesso identificata come la causa causans dei guasti della vita pubblica del paese, una sorta di dato di fondo esplicativo della tanto deprecata mancanza di solidarietà e di partecipazione civica. Quante volte è stata declinata la rappresentazione della famiglia italiana come trincea, ghetto egoista, impedimento a un compiuto approdo alla modernità? Oppure quella speculare di un’Italia spezzata, in cui la distanza tra Nord e Sud rimane incolmabile non solo per le congiunture politiche ed economiche, ma in ragione dei processi divergenti di strutturazione dei sistemi parentali?
Il dualismo Nord/sud, la visione della penisola come la giustapposizione di due mondi contrapposti: è indubbio che sia questo uno dei capitoli cruciali del ricco repertorio dell’Italia come eccezione. Stella polare per molto tempo del meridionalismo classico, durante la crisi politica della cosiddetta prima Repubblica, esso è divenuta anche qualcos’altro, il grimaldello su cui far leva per la costruzione della cosiddetta «questione settentrionale». Gli anni Novanta, cioè, quelli in cui è venuta montando la preoccupazione collettiva per la “disunione d’Italia” sono stati anche quelli in cui il Meridione, sorta di quintessenza dei mali del paese, è divenuto il luogo di concentrazione dei timori per il declino nazionale, l’ambiente di propagazione del contagio malefico, l’inferno.
Così, al tradizionale vittimismo meridionale, invocante l’intervento straordinario in ragione dei torti storici inflitti dall’unificazione al Mezzogiorno, ha fatto seguito, come una sorta di copione invertito o di spartito rovesciato, un vittimismo settentrionale di nuovo conio, l’idea di un Nord bloccato dalla «palla al piede» meridionale, e impossibilitato perciò a dispiegare le sue potenzialità virtuose, non solo economiche ma anche implicitamente morali.
Oggi questo momento, in una diversa stagione politica, sembra superato e l’ansia collettiva si rivolge di nuovo alle sorti generali del paese. Colpisce tuttavia il fatto che rimanga inarticolato un ragionamento su quanto simili siano state storicamente la narrazione sull’Italia intera (la sua cultura, il suo “carattere”) e quella sul Meridione del paese (la sua cultura, e anche qui, il suo “carattere”). Si può dire di più. Non appena si scrostano le parole, solo apparentemente dissimili, ci si accorge con chiarezza che si tratta di variazioni sul tema, che ci si appoggia sulla stessa scala valoriale, che si adopera la stessa tavolozza di colori. Ci si rende conto, in altre parole, che il “familismo” è, per il dibattito sulla specificità negativa del Meridione, più o meno ciò che il “particolarismo” rappresenta come singolarità negativa dell’Italia in generale. E ancora, che il “gattopardismo” è per il Sud del paese quel che il “trasformismo” è per l’Italia nel suo insieme. Questo perché tutte queste narrazioni appartengono a uno stesso registro discorsivo polarizzato, quello che definisce in un sistema sociale ciò che è giusto, bello e buono come opposto a ciò che è sbagliato, brutto e cattivo.
Risulta evidente, dopo che se ne sono definiti i contorni, che il paradigma dell’eccezionalismo italiano costituisce in realtà una sorta di costellazione fatta di astri di diversa natura e intensità, alcuni fissi, altri intermittenti. Ciò che forse si può affermare, alla fine, è che l’unico carattere relativamente eccezionale della storia d’Italia è costituito dalla continuità di una riflessione ancipite, di taglio inguaribilmente negativo o superbamente rivendicativo, sulle debolezze del paese e sui vizi che ne connoterebbero la natura, o all’opposto sulla sua speciale funzione di battistrada nei processi di civilizzazione; di una riflessione, in ogni modo, concentrata su una irregolarità. Prevalendo, da circa un secolo e mezzo, il segno negativo di tale irregolarità, «italiano» è diventato alla fine uno stigma, come si è visto, fatto oggetto di lamentazioni ripetute, che hanno assunto non di rado una sofferta intonazione autodistruttiva: il «dolore di essere italiani» comporta automaticamente l’identificazione con una serie di comportamenti deprecabili di cui ci si vergogna, con la conseguenza paradossale che, com’è stato osservato, «italiani sono sempre gli altri».
In conclusione. Per capire come si esce dalla crisi del “canone nazionale”, vera per la storia d’Italia, ma non meno probante altrove, è assai probabile che occorra pensare la storia degli ultimi secoli su una scala diversa, e che forse a un rinnovamento duraturo occorrerebbe un più avanzato processo di costruzione di una «storia d’Europa». Diventerebbe così più praticabile un punto di vista sul passato che non si limitasse a indagare, comparativamente, influssi culturali reciproci, prestiti istituzionali, condizionamenti politici fra aree e fra paesi, mescolanze e concorrenze fra fedi e credi, ma che guardasse in modo integrato alla nascita e alla diffusione di modelli economici e imprenditoriali, di forme di statualità e di disciplinamento, di urbanizzazione, di sistemi di appartenenza e di identificazione collettiva, e così via, cioè dei caratteri che sembrano potere connotare il continente come spazio storicamente intellegibile.
Forse non viviamo un momento favorevole a una simile impresa. I processi di ri-nazionalizzazione sembrano segnare il nostro presente. Sicché v’è da chiedersi quali effetti potrebbe produrre sull’indagine del passato comune europeo il ritorno a letture in chiave statual-nazionale o peggio, etnico-identitaria, condite magari da qualche apertura alla visione globale. Riattivare per davvero la lente del nazionalismo storiografico è, in realtà, molto difficile; è certamente alto tuttavia il rischio che rallenti molto la costruzione dell’unica dimensione che potrebbe ridare senso a una storia, e per noi a una storia d’Italia, sviluppata in chiave non eccezionalista ma critica, la dimensione europea.
Ancora dubbi sulla (nuova) disciplina della discussione orale da remoto (art. 25 d.l. n. 137/2020) [1]
Veronica Sordi
In risposta all’esigenza manifestata dalle associazioni rappresentanti la magistratura amministrativa di disporre interventi normativi urgenti per continuare a garantire la tutela della salute di tutti (magistrati, avvocati, personale amministrativo), oltre che l’efficiente e il regolare svolgimento delle udienze, alla luce dell’evoluzione della pandemia da Covid-19 (consistenti, in particolare, nella richiesta di svolgimento delle udienze da remoto)[2], il Governo ha adottato il d.l. 28 ottobre 2020, n. 137 (“Ulteriori misure urgenti in materia di tutela della salute, sostegno ai lavoratori e alle imprese, giustizia e sicurezza, connesse all'emergenza epidemiologica da Covid-19”), il quale ha “riportato in vita” il regime emergenziale introdotto, dapprima con l’art. 84, d.l. n. 18/2020 e, successivamente, dall’art. 4[3] d.l. n. 28/2020, come convertito nella l.n. 70/2020[4].
Nello specifico, il nuovo decreto, all’art. 25, rubricato “Misure urgenti relative allo svolgimento del processo amministrativo”[5], ha stabilito
- al primo comma, che le udienze pubbliche e le camere di consiglio che si svolgono dal 9 novembre 2020 al 31 gennaio 2021 soggiacciono alle previsioni dettate dall’art. 4, comma 1, d.l. n. 28/2020, che disciplinano la discussione orale da remoto, a richiesta di tutte le parti costituite o disposta ex officio dal giudice;
- al secondo comma, il passaggio in decisione sulla base degli atti depositati e senza discussione orale - salvo, ovviamente, che non venga disposta la discussione da remoto -, ferma restando la possibilità di definizione del giudizio con sentenza in forma semplificata ex art. 60 del c.p.a., omesso ogni avviso (analogamente a quanto era stato previsto ai sensi dell’art. 84, co. 5 d.l. 18/2020);
- al terzo comma, che l’istanza di discussione orale da remoto per le udienze pubbliche e camerali, nel periodo compreso dal 9 al 20 novembre 2020, può essere presentata fino a cinque giorni liberi prima dell’udienza camerale.
In altre parole, dal 9 novembre 2020 al 31 gennaio 2021, le udienze, pubbliche e camerali, non si svolgeranno più in presenza, con la conseguenza che le controversie saranno decise senza discussione sulla base degli atti depositati, ferma restando (i) la possibilità, su richiesta di parte o d’ufficio, che venga disposta la discussione orale da remoto, e (ii) la possibilità di definizione del giudizio in sede cautelare con sentenza in forma semplificata, ai sensi dell'articolo 60 del c.p.a.
Si precisa che (dopo una fase transitoria per le udienze calendarizzate nel periodo dal 9 al 20 novembre, nella quale, ai sensi dell’art. 25, comma 3, l’istanza di discussione poteva essere presentata “fino a cinque giorni liberi prima dell’udienza camerale”) la discussione orale può essere richiesta dalle parti con apposita istanza depositata entro il termine per il deposito delle memorie di replica (ossia venti giorni prima per il rito ordinario e dieci per quelli speciali) ovvero, per gli affari cautelari, fino a cinque giorni liberi prima della camera di consiglio.
Alla luce di quanto sin qui illustrato, pare opportuno segnalare che la nuova previsione, “coerentemente” con il regime che l’ha preceduta (in particolare, l’art. 4, d.l. n. 28/2020), lascia ancora aperti molti dubbi interpretativi sulla portata delle disposizioni che la compongono e che delineano il regime processuale “emergenziale” attualmente in vigore[6].
Emblematico di tale quadro è il recente decreto adottato dal TAR Emilia Romagna[7] nell’ambito di una controversia instaurata avverso un provvedimento di aggiudicazione di una gara.
Nella specie, in vista della camera di consiglio del 12.11.2020, la controinteressata aveva presentato, il 9.11.2020, l’istanza di discussione da remoto e, in pari data, la ricorrente aveva proposto opposizione alla predetta istanza, rappresentando che (i) la domanda di discussione da remoto sarebbe stata tardiva in quanto presentata oltre il termine previsto dall’art. 25 comma 3 del d.l n. 137/2020 (secondo cui “l’istanza di discussione orale di cui al quarto periodo del decreto legge n.28 del 2020 può essere presentata fino a cinque giorni liberi prima dell’udienza pubblica”); (ii) il difensore della parte ricorrente sarebbe stato impegnato nello stesso giorno nella discussione da remoto presso il Consiglio di Stato per altre cause dal medesimo patrocinate.
Il giudice amministrativo, nel respingere l’opposizione all’istanza di discussione, ha ritenuto “non ostative” alla discussione richiesta le ragioni avanzate dalla ricorrente. A tal proposito, ha rilevato (i) che la previsione di cui all’art. 25, co. 3, d.l. n. 137 cit. “va interpretata nel senso che il termine fino a cinque giorni liberi prima dell’udienza non è perentorio” e (ii) che la circostanza che il difensore di parte ricorrente sarebbe stato impegnato nel medesimo giorno in altra udienza non potesse precludere lo svolgimento della discussione orale da remoto, ben potendo l’avvocato farsi sostituire da un collega debitamente delegato.
In conclusione, peraltro, il Presidente del TAR, proprio in ragione degli interessi coinvolti e della peculiare delicatezza delle situazioni e delle questioni oggetto della controversia, sia in punto di fatto che in diritto[8], ha ritenuto “quanto mai utile la discussione orale sia pure da remoto della causa”.
La posizione assunta dal TAR Emilia Romagna, sotto il profilo della non perentorietà del termine dei cinque giorni liberi prima dell’udienza entro cui la parte che ha interesse può presentare l’istanza di discussione da remoto, non sembra condivisa dal Presidente della Seconda sezione del TAR Lazio, che, già nella Comunicazione fornita per la trattazione delle udienze camerali del 12.11.2020, ha espressamente affermato che i “difensori interessati alla discussione orale (mediante collegamento da remoto) delle istanze cautelari inerenti alle cause da essi patrocinate sono tenuti a presentare (attraverso Pat) apposita istanza entro il termine (da ritenersi perentorio) di cinque giorni liberi prima della camera di consiglio fissata per la trattazione collegiale”. In tale ottica, si pongono, peraltro, una serie di decreti[9] con cui il Presidente della Sezione I-bis del TAR Lazio ha dichiarato irricevibili e, pertanto, ha rigettato, le istanze di discussione orale presentate tra il 9.11 e l’11.11.2020 per le camere di consiglio del 13.11.2020 e, quindi, oltre il termine (ritenuto anche in questo caso perentorio) dei cinque giorni liberi prima dell’udienza di cui all’art. 25, co. 3 d.l. cit..
È evidente quindi che la disciplina emergenziale lascia ancora (troppo) spazio alle diverse interpretazioni dei giudici amministrativi mettendo a serio rischio la posizione e gli interessi delle parti in giudizio che, ancora una volta, sono rimesse alla “sensibilità” del giudice chiamato a dirimere la controversia.
Resta, soprattutto, sempre vivo il problema della eventuale esigenza di replicare alle “note di udienza” depositabili, in luogo della discussione, fino alle 12 del giorno antecedente all’udienza[10]. A tale proposito, sarebbe ragionevole che il giudice amministrativo accogliesse la richiesta di discussione da remoto presentata il giorno prima dell’udienza laddove proposta al precipuo scopo di replicare alle note depositate in assenza di fissazione dell’udienza da remoto, ovvero di procedere, in casi estremi, al rinvio dell’udienza stessa. Ciò al fine di garantire il principio del contraddittorio, irrinunciabile espressione del valore del giusto processo sancito a livello costituzionale e sovranazionale.
[1] Per un maggiore approfondimento sul tema sia consentito rinviare a “L’istanza di discussione orale da remoto e la relativa opposizione. Prime applicazioni da parte del giudice amministrativo”, in giustiziainsieme.it, 22 giugno 2020; “Ancora sull'opposizione alla discussione da remoto”, ivi, 30 luglio 2020.
[2] “Nota COVID-19, magistrati amministrativi: Governo ripristini udienze da remoto”, 12 ottobre 2020, in www.giustizia-amministrativa.it.
[3] Art. 4, d.l. 28/2020 (come modificato in sede di conversione dalla l. n. 70/2020) “Disposizioni integrative e di coordinamento in materia di giustizia amministrativa”: “1. All'articolo 84, commi 3, 4, lettera e), 5, e 9, del decreto-legge 17 marzo 2020 n. 18, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, le parole «30 giugno 2020» sono sostituite con «31 luglio 2020». ((All'articolo 7 del decreto-legge 31 agosto 2016, n. 168, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 ottobre 2016, n. 197, il comma 4 è abrogato. All'articolo 84 del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, l'ultimo periodo del comma 10 è soppresso.)) A decorrere dal 30 maggio e fino al 31 luglio 2020 può essere chiesta discussione orale con istanza depositata entro il termine per il deposito delle memorie di replica ovvero, per gli affari cautelari, fino a cinque giorni liberi prima dell'udienza in qualunque rito, mediante collegamento da remoto con modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e l'effettiva partecipazione dei difensori all'udienza, assicurando in ogni caso la sicurezza e la funzionalità del sistema informatico della giustizia amministrativa e dei relativi apparati e comunque nei limiti delle risorse attualmente assegnate ai singoli uffici. L'istanza è accolta dal presidente del collegio se presentata congiuntamente da tutte le parti costituite. Negli altri casi, il presidente del collegio valuta l'istanza, anche sulla base delle eventuali opposizioni espresse dalle altre parti alla discussione da remoto. Se il presidente ritiene necessaria, anche in assenza di istanza di parte, la discussione della causa con modalità da remoto, la dispone con decreto. In tutti i casi in cui sia disposta la discussione da remoto, la segreteria comunica, almeno ((tre giorni)) prima della trattazione, l'avviso dell'ora e delle modalità di collegamento. Si dà atto a verbale delle modalità con cui si accerta l'identità dei soggetti partecipanti e la libera volontà delle parti, anche ai fini della disciplina sulla protezione dei dati personali. Il luogo da cui si collegano i magistrati, gli avvocati e il personale addetto è considerato udienza a tutti gli effetti di legge. In alternativa alla discussione possono essere depositate note di udienza ((fino alle ore 12 del giorno antecedente a quello dell'udienza stessa)) o richiesta di passaggio in decisione e il difensore che deposita tali note o tale richiesta è considerato presente a ogni effetto in udienza. Il decreto di cui al comma 2 stabilisce i tempi massimi di discussione e replica. 2. Il comma 1 dell'articolo 13 dell'allegato 2 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, recante le norme di attuazione al codice del processo amministrativo, è sostituito dal seguente: «1. Con decreto del Presidente del Consiglio di Stato, sentiti il Dipartimento della Presidenza del Consiglio dei ministri competente in materia di trasformazione digitale, ((il Consiglio nazionale forense, il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa e le associazioni specialistiche maggiormente rappresentative)) che si esprimono nel termine perentorio di trenta giorni dalla trasmissione dello schema di decreto, sono stabilite, nei limiti delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, le regole tecnico-operative per la sperimentazione e la graduale applicazione degli aggiornamenti del processo amministrativo telematico, anche relativamente ai procedimenti connessi attualmente non informatizzati, ivi incluso il procedimento per ricorso straordinario. Il decreto si applica a partire dalla data nello stesso indicata, comunque non anteriore al quinto giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana.». 3. A decorrere dal quinto giorno successivo a quello della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del primo decreto adottato dal Presidente del Consiglio di Stato di cui al comma 1 dell'articolo 13 dell'allegato 2 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, come modificato dal comma 2 del presente articolo, è abrogato il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 16 febbraio 2016, n. 40. È abrogato il comma 2-quater dell'articolo 136 dell'allegato 1 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, recante il codice del processo amministrativo”.
[4] Per un approfondimento sulle conseguenze della normativa emergenziale sul processo amministrativo si veda G. Veltri, Un primo bilancio del processo amministrativo in periodo emergenziale, in www.giustizia-amministrativa.it.
[5] Art. 25, d.l. n. 137/2020 “1. Le disposizioni dei periodi quarto e seguenti del comma 1 dell'articolo 4 del decreto-legge 30 aprile 2020, n. 28, convertito in legge, con modificazioni, dall'articolo 1 della legge 25 giugno 2020, n. 70 , si applicano altresì alle udienze pubbliche e alle camere di consiglio del Consiglio di Stato, del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana e dei tribunali amministrativi regionali che si svolgono dal 9 novembre 2020 al 31 gennaio 2021 e, fino a tale ultima data, il decreto di cui al comma 1 dell'articolo 13 dell'allegato 2 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, prescinde dai pareri previsti dallo stesso articolo 13. 2. Durante tale periodo, salvo quanto previsto dal comma 1, gli affari in trattazione passano in decisione, senza discussione orale, sulla base degli atti depositati, ferma restando la possibilità di definizione del giudizio ai sensi dell'articolo 60 del codice del processo amministrativo, omesso ogni avviso. Il giudice delibera in camera di consiglio, se necessario avvalendosi di collegamenti da remoto. Restano fermi i poteri presidenziali di rinvio degli affari e di modifica della composizione del collegio. 3. Per le udienze pubbliche e le camere di consiglio che si svolgono tra il 9 e il 20 novembre 2020, l'istanza di discussione orale, di cui al quarto periodo dell'articolo 4 del decreto-legge n. 28 del 2020, può essere presentata fino a cinque giorni liberi prima dell'udienza pubblica o camerale”.
[6] Tra i primi commenti del regime introdotto dall’art. 25, d.l. n. 137/2020, si veda F. D’Alessandri, Decreto Ristori: ripristino del regime di emergenza nel processo amministrativo con l’udienza in videoconferenza, in Il Quotidiano giuridico, 30 ottobre 2020.
[7] TAR Emilia Romagna, Bologna, sez. I, 10 novembre 2020, n. 208, Pres. A. Migliozzi.
[8] Non è possibile specificare quali siano tali situazioni e questioni delicate in quanto nulla si evince dal decreto in esame.
[9] TAR Lazio, sez. I-bis, 12 novembre 2020, n. 3420, 3421, 3422, 3423, 3424, Pres. Concetta Anastasi. Più precisamente, nei decreti nn. 3420, 3421 e 3422 le istanze erano state presentate il 9.11.2020 intorno alle 18; nel decreto n. 3423 era stata proposta l’11.10.2020 intorno alle 16, mentre nel decreto n. 3424 l’istanza di discussione era stata presentata il 10.11.2020 intorno alle 11.
[10] Sul punto M.A. Sandulli, Un brutto risveglio? L’oralità “condizionata” del processo amministrativo, lamministrativista.it, 1° maggio 2020; Id., Covid-19, fase 2. Pregi e difetti del diritto dell’emergenza per il processo amministrativo, 4 maggio 2020, in giustiziainsieme.it; Id., L’emergenza non sacrifichi il diritto di difesa, neppure nel processo amministrativo, in Il Dubbio, 6 maggio 2020; Id., Cognita causa, in giustiziainsieme.it, 6 luglio 2020; C.E. Gallo, La discussione scritta della causa nel processo amministrativo, 16 luglio 2020, ivi.
Il silenzio assenso nella disciplina del permesso di costruire. L’inefficacia della decisione tardiva nel d.l. n. 76/2020 (c.d. decreto semplificazioni) (note a margine di Cons. Stato, Sez. VI, 13 agosto 2020, n. 5034 e T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II-bis, 1 luglio 2020, n. 7476)
di Marco Calabrò
Sommario: 1. Il contrasto giurisprudenziale sul regime del provvedimento tardivo in ipotesi di silenzio assenso. – 2. Il nuovo art. 2, co 8-bis della l. n. 241/1990: quesiti ancora aperti. – 2.1. Mera inefficacia o invalidità/inefficacia? – 2.2. Può configurarsi il diritto al rilascio di un atto successivo a carattere ricognitivo? – 2.3. Quali limiti per l’autotutela? – 3. Conclusioni.
1. Il contrasto giurisprudenziale sul regime del provvedimento tardivo in ipotesi di silenzio assenso.
Il nuovo co. 8-bis dell’art. 2 della l. n. 241/1990, introdotto dal d.l. n. 76/2020 (c.d. decreto Semplificazioni),sancisce l’inefficacia del provvedimento emanato oltre i termini procedimentali in tutti i casi in cui operi il regime del silenzio assenso, nonché nelle ipotesi di s.c.i.a. Tale disposizione è destinata ad incidere profondamente sulla disciplina del silenzio significativo, con particolare riferimento al tema del c.d. provvedimento tardivo, e l’analisi di due recenti pronunce, di tenore contrastante, offre l’occasione per esaminare le potenziali ricadute scaturenti dalla recente riforma.
Il T.A.R. del Lazio, Roma, Sez. II-bis, con la sentenza n. 7476 del 1 luglio 2020 ha deciso su un ricorso avverso un diniego di rilascio di permesso di costruire, emanato successivamente al decorso del termine per la formazione degli effetti del silenzio assenso. Si trattava, in particolare, di un’istanza volta ad ottenere un titolo in variante in corso d’opera di un permesso già assentito e l’amministrazione comunale – nel respingere, seppur oltre il termine, la richiesta – aveva contestato l’avvenuta produzione degli effetti del silenzio significativo in ragione di un presunto contrasto tra il progetto di variante e una disposizione delle Norme tecniche di attuazione del PRG. Il collegio, in quell’occasione, ha accolto le difese dell’amministrazione ritenendo che – accanto ai requisiti formali consistenti nella regolarità dell’istanza e nella completezza della documentazione – ai fini della formazione del silenzio assenso sia altresì necessaria “la sussistenza dei requisiti di carattere sostanziale, consistenti nell’effettiva compatibilità del progetto con la disciplina urbanistica ed edilizia che viene in rilievo”.
Di tenore diametralmente opposto, invece, la di poco successiva pronuncia del Consiglio di Stato, Sez. VI, 13 agosto 2020, n. 5034, con la quale il giudice d’appello ha deciso su un ricorso avverso l’autorizzazione formatasi per silenzio assenso in capo ad una società telefonica per l’installazione di una stazione radio base sul lastrico solare di un edificio. Nel caso di specie, i ricorrenti contestavano che si fossero prodotti gli effetti del silenzio significativo in quanto non era stato rispettato un limite distanziale rispetto a siti sensibili (una scuola), stabilito da un regolamento comunale. Il collegio, tuttavia, ha ritenuto perfezionatasi l’autorizzazione silenziosa “non ostandovi la dedotta violazione del limite distanziale, la quale andava verificata all’interno della fase istruttoria e nel termine di 90 giorni, e, una volta spirato tale termine, poteva tutt’al più formare oggetto di provvedimento di annullamento in autotutela”.
Il contrasto giurisprudenziale appena illustrato riflette il panorama di sostanziale incertezza che connotava la fattispecie in esame prima della riforma oggetto delle presenti riflessioni. Il dibattito verteva, di fatto, sulla natura, perentoria o ordinatoria, da riconoscere al termine finale nelle ipotesi nelle quali vige l’istituto del silenzio assenso. La giurisprudenza maggioritaria sosteneva che il potere di provvedere permanesse solo fino allo scadere del termine, momento che avrebbe segnato l’impossibilità di pronunciarsi in maniera espressa da parte della p.a. Secondo tale ricostruzione, in altri termini, il formarsi degli effetti del silenzio significativo era da considerarsi legato unicamente alla regolare presentazione dell’istanza ed allo spirare del termine, in ragione sia dell’avvenuta consumazione del potere, sia della necessaria osservanza dei principi di buona fede e legittimo affidamento[1].
Si registrava, tuttavia, un orientamento minoritario secondo il quale anche in caso di silenzio assenso sarebbero residuati in capo all’amministrazione spazi di esercizio del potere di provvedere oltre il termine procedimentale. Tale tesi, come visto, muoveva dal convincimento che la produzione degli effetti del silenzio assenso avrebbe richiesto non solo la correttezza formale dell’istanza e lo spirare del termine, bensì anche la sussistenza di tutti i requisiti soggettivi e oggetti richiesti dalla legge per l’ottenimento del provvedimento espresso a carattere positivo. Da qui sarebbe discesa la legittimità di un provvedimento tardivo ad esito negativo con il quale si negava contestualmente il perfezionarsi stesso della fattispecie di silenzio assenso[2].
In questo susseguirsi di pronunce dal tenore antitetico – che finiva per creare una situazione di grave indeterminatezza tale da rendere impossibile per il cittadino (pur in buona fede) avere certezza circa l’effettiva titolarità delle proprie situazioni giuridiche soggettive – si inserisce la novità introdotta dal Decreto semplificazioni.
2. Il nuovo art. 2, co 8-bis della l. n. 241/1990: quesiti ancora aperti. L’art. 12, co. 1, lett. a) del d.l. n. 76/2020 (c.d. decreto Semplificazioni, convertito in l. n. 120/2020) introduce un nuovo co. 8-bis all’art. 2 della l. n. 241/1990. Tale disposizione sancisce che le determinazioni relative a fattispecie in cui opera il regime del silenzio assenso e i provvedimenti inibitori relativi alle ipotesi di s.c.i.a. “adottati dopo la scadenza dei termini ivi previsti, sono inefficaci, fermo restando quanto previsto dall’articolo 21-nonies, ove ne ricorrano i presupposti e le condizioni”[3].
Le riflessioni che seguono hanno come specifico oggetto di analisi le ipotesi di silenzio assenso, rispetto alle quali le novità che emergono sono essenzialmente due. In primo luogo, la nuova disposizione introduce una deroga al principio generale in base al quale il termine procedimentale avrebbe carattere ordinatorio. In realtà, già prima della riforma era possibile sostenere la natura perentoria del termine finale nelle ipotesi di silenzio assenso, tuttavia – come evidenziato – si registravano indirizzi contrastanti, il che ha evidentemente indotto il legislatore a chiarire espressamente il carattere perentorio del termine, con effetti decadenziali.
Una seconda e più rilevante novità è rappresentata dalla espressa qualificazione in termini di inefficacia del provvedimento emanato tardivamente. La ratio di tale previsione riposa evidentemente nella volontà di introdurre uno strumento in grado di incentivare il rispetto dei termini procedimentali, nonché di garantire la piena operatività dei meccanismi di silenzio assenso[4]. Tale garanzia deriverebbe dalla espressa dichiarazione della improduttività degli effetti di quei provvedimenti emanati dall’amministrazione nonostante si sia già formato il silenzio significativo.
Si potrebbe ritenere, ad una prima superficiale analisi, che – atteso il tenore della disposizione – essa sia stata impropriamente inserita all’interno di una riforma tesa ad incidere sul profilo della semplificazione amministrativa, non trattandosi di una norma inquadrabile nelle espressioni più tipiche delle politiche di semplificazione, quali la riduzione degli oneri procedimentali, la razionalizzazione delle procedure, o la riorganizzazione dei rapporti tra pubbliche amministrazioni[5].
Ad un più approfondito esame, tuttavia, appare possibile registrare un effetto “semplificante”, nella misura in cui la nuova ipotesi di inefficacia – almeno nella intentio legis – dovrebbe incidere positivamente sul grado di certezza e affidabilità dell’azione pubblica. La riforma, infatti, rende finalmente “chiaro” un punto fino ad oggi “oscuro” della regolazione, indicando espressamente e inequivocabilmente la conseguenza del decorso del termine procedimentale. In precedenza, la legge chiariva gli effetti dell’inerzia dell’amministrazione solo ex parte civis, riconoscendo a quest’ultimo la titolarità di una posizione giuridica soggettiva analoga a quella che avrebbe avuto se fosse stato rilasciato il provvedimento a carattere positivo. La stessa chiarezza non sussisteva, invece, ex parte publica, non essendo espressamente indicati gli effetti del decorso del termine sull’esercizio della funzione da parte dell’amministrazione. Probabilmente, in questo caso, sarebbe più corretto parlare di semplificazione normativa e non di semplificazione procedimentale, trattandosi di una misura volta ad attribuire effettiva efficacia semplificante a un istituto (il silenzio assenso) introdotto per l’appunto con tale finalità ma foriero, in concreto, di numerose complicazioni[6].
Ciò posto, nel prosieguo del presente contributo si intende far emergere come – nonostante il suddetto effetto “semplificante” – permangano dubbi interpretativi che daranno inevitabilmente vita a criticità in sede applicativa della nuova disposizione. I profili ancora poco chiari riguardano, in particolare: a) l’effettiva valenza da riconoscere alla qualificazione di inefficacia attribuita al provvedimento tardivo; b) la sussistenza o meno di un divieto di emanare qualsiasi genere di atto successivo allo spirare del termine procedimentale, anche a carattere ricognitivo; c) gli effetti della riforma sull’esercizio del potere di autotutela nei confronti del silenzio assenso illegittimamente formatosi.
2.1. Mera inefficacia o invalidità/inefficacia? Come illustrato supra, il nuovo co. 8-bis cit. sembrerebbe aver finalmente posto fine al dibattito sorto in merito alla sorte del provvedimento tardivo nelle ipotesi di silenzio assenso, avendo il legislatore espressamente aderito all’indirizzo maggioritario teso a non ammettere in nessun caso l’esercizio della funzione di amministrazione attiva da parte della p.a. oltre il termine finale.
Merita ulteriori riflessioni, tuttavia, la scelta del legislatore di qualificare come inefficace e non come invalido il provvedimento tardivo. E’ noto il dibattito sorto in passato in dottrina sulla possibilità o meno di inquadrare l’inefficacia in chiave autonoma rispetto alla invalidità. Necessariamente semplificando una disputa complessa (e, in alcuni casi, ancora aperta, specialmente tra i civilisti), si può ricordare come un primo orientamento – che riconosceva la sussistenza di un nesso necessario tra invalidità ed inefficacia[7] è stato poi tendenzialmente superato da un secondo indirizzo che inquadrava l’inefficacia come categoria a sé stante[8].
In effetti, se solo si pensa agli istituti della sospensione o della revoca, è ben possibile rinvenire nell’ordinamento fattispecie di atti perfettamente validi, eppure inefficaci, in quanto resi temporaneamente o definitivamente improduttivi di effetti. Ancora più agevole la dimostrazione della insussistenza dell’endiadi validità/efficacia, alla luce della dinamica che tradizionalmente opera nel diritto amministrativo, laddove, come noto, il provvedimento è efficace anche se illegittimo (quindi invalido), sino al suo eventuale annullamento derivante dall’iniziativa altrui[9].
Tuttavia, pur aderendo alla tesi dell’accezione “autonoma” dell’inefficacia rispetto all’invalidità, si ritiene che la stessa inefficacia non possa affatto inquadrarsi come una condizione autonoma dell’atto in senso assoluto: essa, infatti, configura in ogni caso un effetto scaturente da “altro”, ovvero da alcune patologie (nullità, annullabilità) o stati (sospensione, revoca) del provvedimento. Emerge, in tal senso, quella che probabilmente configura la principale criticità della riforma in esame: l’aver adoperato la categoria dell’inefficacia senza in alcun modo specificare quale sia – nel caso di specie – il prius logico di tale stato dell’atto.
E’ possibile, allora, prospettare tre diversi scenari.
Una prima ipotesi è quella di ritenere che la voluntas legis sia stata proprio quella di sancire l’incapacità di produrre effetti del provvedimento tardivo, pur mantenendone in piedi la validità, il che consentirebbe teoricamente al cittadino di non tener conto del contenuto dell’atto senza per questo doverlo impugnare. Si tratterebbe, però, di un vantaggio solo apparente: come è stato condivisibilmente osservato, infatti, il privato ben difficilmente sarebbe “propenso a ritenere non efficace un provvedimento espresso comunque validamente adottato”[10].
Escludendo allora che la volontà del legislatore possa essere stata quella di considerare pienamente valido, ma inefficace, il provvedimento tardivo, una seconda ipotesi potrebbe essere quella di ritenere che l’inefficacia sia da considerarsi la conseguenza della illegittimità (sub specie di annullabilità) dell’atto emanato oltre il termine. Ma anche tale opzione deve essere immediatamente scartata: se il provvedimento fosse annullabile, infatti, le conseguenze dell’inefficacia non potrebbero prodursi ex lege (come invece sancisce espressamente la norma), dovendo piuttosto discendere dall’eventuale annullamento dell’atto stesso (in sede giurisdizionale o in autotutela)[11].
Sembra, dunque, doversi necessariamente orientare per il terzo scenario, ovvero che l’atto tardivo sia stato qualificato inefficace perché sì invalido, ma non in quanto annullabile, bensì in quanto nullo. In tal modo ci si porrebbe, tra l’altro, nella scia di quell’indirizzo giurisprudenziale secondo cui, una volta spirato il termine e consumatosi il potere di decidere, la successiva eventuale attività provvedimentale sarebbe da considerarsi tamquam non esset[12]. Certo, la formulazione della norma si rivela alquanto “infelice”: sarebbe stato preferibile qualificare espressamente come nullo (e solo conseguentemente anche inefficace) il provvedimento tardivo; nullità testuale evidentemente giustificata in ragione di una sopravvenuta carenza assoluta di potere[13].
2.2. Può configurarsi il diritto al rilascio di un atto successivo a carattere ricognitivo? Un’ulteriore criticità che caratterizza la riforma in esame è l’assenza della previsione di un regime differenziato tra provvedimento tardivo a carattere negativo e provvedimento tardivo a carattere positivo.
La disposizione, in effetti, ha il pregio di segnare il definitivo superamento di quell’indirizzo giurisprudenziale minoritario secondo cui il decorso del termine consentirebbe comunque all’amministrazione di provvedere in senso satisfattivo per il destinatario dell'atto finale: il provvedimento positivo espresso, tardivamente intervenuto, “cancellerebbe” il silenzio[14].
Ci si è già soffermati sulle ragioni per le quali non si ritiene sia possibile aderire a tale orientamento,incompatibile con la prospettata ricostruzione del silenzio assenso quale sanzione della violazione del dovere di provvedere (nel termine)[15], che ha come necessaria conseguenza la consumazione del potere dell’amministrazione (sia in senso negativo che positivo). Tuttavia, la riforma sarebbe potuta intervenire al fine di superare la situazione di incertezza nella quale viene a volte a trovarsi il richiedente che non riceva piena soddisfazione dagli effetti del silenzio assenso.
La posizione del cittadino che ha beneficiato del regime del silenzio assenso non sempre è analoga a quella del cittadino a cui è stato rilasciato il provvedimento positivo espresso. Spesso aver ottenuto un silenzio assenso si rivela una vittoria “monca” per il privato, per il quale non è affatto agevole dimostrare l’effettivo possesso del titolo: si pensi, ad esempio, ai rapporti con i terzi - siano essi soggetti pubblici (un’altra amministrazione) o soggetti privati (una banca). In questi casi il silenzio assenso non genera affidamento nel soggetto richiedente e, soprattutto, non consente a quest’ultimo di generare affidabilità. Si viene a creare una situazione di sostanziale incertezza, con tutte le ben note conseguenze, anche a carattere economico.
Si sarebbe potuto, invece, prevedere un obbligo in capo alla p.a. di rilasciare, su richiesta, un atto ricognitivo che attestasse l’avvenuta produzione degli effetti scaturenti ex lege dal decorso del termine. Tale soluzione si sarebbe rivelata pienamente coerente con l’avvenuta consumazione del potere (il rilascio di un atto ricognitivo, infatti, non configura esercizio del potere di amministrazione attiva), e, nello stesso tempo, anche del tutto satisfattiva delle pretese di affidamento e certezza delle situazioni giuridiche del cittadino[16].
L’introduzione di un obbligo di rilascio, su richiesta, di un atto di certazione della formazione del silenzio assenso non si sarebbe rivelata, tra l’altro, una assoluta novità. L’art. 264, co.1, lett. e) del d.l. n. 34/2020 (c.d. decreto rilancio) – sebbene in via solo transitoria, per il periodo di durata della pandemia Covid 19 – ha infatti introdotto l’obbligo di adottare entro trenta giorni il provvedimento conclusivo del procedimento nei casi di formazione del silenzio assenso endo-procedimentale tra amministrazioni[17]. Se non si vuole ritenere che tale disposizione si ponga in piena contraddizione con il nuovo regime dell’inefficacia del provvedimento tardivo, anche a carattere positivo, allora essa deve essere necessariamente interpretata nel senso di imporre un obbligo di adozione di un atto che per l’appunto accerti e certifichi l’avvenuta produzione degli effetti del silenzio significativo in sede endo-procedimentale.
Ancora più significativo, in tale ottica, si rivela il nuovo capoverso del co. 8 dell’art. 20 del d.P.R. n. 380/2001 (Testo Unico per l’Edilizia), introdotto dallo stesso d.l. Semplificazioni (art. 10, co. 1). Proprio al fine di venire incontro alle istanze di certezza del cittadino in punto di dimostrazione a terzi dell’avvenuto formarsi degli effetti del silenzio assenso, è stato espressamente riconosciuto, in capo a chi ha richiesto il rilascio di un permesso di costruire, il diritto di ricevere un’attestazione circa il decorso dei termini procedimentali ed il conseguente perfezionarsi della fattispecie provvedimentale silenziosa[18]. Ebbene, non si vede per quale ragione tale previsione – potenzialmente idonea a garantire finalmente un adeguato livello di certezza anche nelle fattispecie di silenzio significativo – sia stata introdotta unicamente in ambito edilizio e non, piuttosto, resa di generale applicazione in tutte le ipotesi nelle quali operi il regime del silenzio assenso.
Se semplificare non vuol dire semplicemente “ridurre”, bensì razionalizzare[19], anche l’inserimento di qualche onere in più – se strumentale a superare una situazione di incertezza – si sarebbe potuto o, meglio, dovuto far legittimamente rientrare nell’intervento di semplificazione perseguito dal legislatore. Certo, ciò non sarebbe necessario se si potesse fare “affidamento” sulla espressa comminatoria di inefficacia introdotta dalla riforma: essa configurerebbe, in linea teorica, un rimedio più che idoneo a garantire certezza ai rapporti giuridici, mediante la semplice dimostrazione di un fatto (data di presentazione dell’istanza) accompagnata dalla dichiarazione sostitutiva dell’assenza di provvedimenti a carattere negativo intervenuti entro il termine procedimentale. Tuttavia, come già osservato, la mera qualificazione normativa di inefficacia – priva di un atto che ne certifichi l’intangibilità (se non in sede di autotutela) – rischia di non rivelarsi affatto in grado, in concreto, di soddisfare le legittime istanze di certezza del cittadino.
2.3. Quali limiti per l’autotutela? Il nuovo co. 8-bis cit., oggetto delle presenti riflessioni, termina con una formulazione apparentemente priva di carattere “innovativo”, laddove chiarisce che “resta fermo” il possibile esercizio del potere di annullamento d’ufficio. In effetti, il fatto che l’amministrazione possa esercitare il potere di autotutela ove ritenga che il silenzio assenso si sia formato illegittimamente è da tempo pacifico[20], e trova ormai conferma nell’art. 20 della l. n. 241/1990[21].
Alcuni primi commentatori, tuttavia, hanno ipotizzato che il rinvio all’autotutela operato dal nuovo co.8-bis potrebbe essere interpretato nel senso che all’amministrazione sarebbe consentito annullare i provvedimenti tardivi (già inefficaci) al fine di eliminarli del tutto dal “mondo giuridico”[22]. Non è, tuttavia, possibile aderire a tale indirizzo per una semplice, ma dirimente, ragione: come è noto, uno dei presupposti dell’annullamento d’ufficio è l’illegittimità dell’atto e, come detto – essendo il provvedimento tardivo dalla stessa disposizione qualificato come inefficace – esso non può nel contempo configurarsi come illegittimo.
Sembra, pertanto, più coerente e rispettosa della intentio legis una interpretazione della norma intesa a confermare il riconoscimento, in capo alla p.a., della facoltà di intervenire – in presenza dei presupposti di legge – con l’annullamento d’ufficio degli effetti del provvedimento silenzioso eventualmente formatisi.
Sempre in ordine all’esercizio del potere di autotutela, inoltre, si ritiene di poter escludere che il nuovo regime dell’inefficacia debba estendersi anche agli eventuali provvedimenti di annullamento d’ufficio di un silenzio significativo emanati tardivamente. Come noto, il termine “ragionevole” entro il quale poter procedere all’annullamento d’ufficio di un atto è fissato dal 2015 in 18 mesi[23], ma in caso di superamento di tale termine l’atto è comunemente considerato illegittimo (quindi efficace finché non annullato) non certo inefficace[24]. Una differente interpretazione limiterebbe ulteriormente la possibilità di esercitare il potere di autotutela, che, in relazione a fattispecie, quale il silenzio assenso, che presuppongono (o, comunque, consentono) il “ritrarsi” dell’esercizio della funzione di amministrazione attiva[25], ricopre invece un ruolo centrale.
3. Conclusioni. Alla luce delle brevi riflessioni proposte, può dirsi che l’intento del legislatore di rendere pienamente operativo il regime del silenzio assenso sia stato raggiunto solo in parte, sia a causa delle criticità connesse alla qualificazione del provvedimento tardivo in termini di inefficacia (e non di nullità), sia per la ridotta incidenza dell’intervento normativo sul piano della certezza delle posizioni giuridiche soggettive del cittadino.
D’altro canto, è indubbio che la nuova inefficacia del provvedimento tardivo segni, comunque, un “passo in avanti”. Se non altro essa chiarisce definitivamente che – una volta decorso il termine procedimentale – nelle fattispecie di silenzio assenso l’amministrazione non ha più il potere di intervenire, e se lo fa il suo intervento non è in grado di incidere sulle posizioni giuridiche soggettive dei destinatari della decisione.
L’introduzione della “sanzione legale” dell’inefficacia, inoltre, potrebbe avere anche un ulteriore effetto positivo, ponendosi quale strumento di moral suasion in grado di ridurre, nel lungo periodo, il numero di provvedimenti tardivi, scoraggiandone l’emanazione. Sino ad oggi, vista la sostanziale incertezza che connotava il regime del provvedimento tardivo, il funzionario non aveva particolari freni a pronunciarsi anche una volta spirato il termine finale, mettendo in tal modo il cittadino in una situazione di grande incertezza. In quest’ottica sarà interessante verificare se in futuro l’eventuale provvedimento emanato fuori termine darà vita ad ipotesi di responsabilità del funzionario, per i danni causati al privato posto in una condizione di oggettiva incertezza a fronte di un ormai indiscutibilmente improprio esercizio del potere pubblico.
[1] Cfr. T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VII, 28 maggio 2018, n. 3493, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, Sez. IV, 28 ottobre 2013, n. 5188, in Riv. giur. ambiente, 2014, 237; T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VIII, 3 maggio 2010, n. 2266, in Foro amm. TAR, 2010, 1797; Cons. Stato, Sez. IV, 19 giugno 2006, n. 3626, in Riv. giur. edilizia, 2007, 401. In dottrina v. A. Colavecchio, L’obbligo di provvedere tempestivamente, Torino, 2013, 56 ss.; V. Parisio, I silenzi della pubblica amministrazione. La rinuncia alla garanzia dell’atto scritto, Milano, 1996, 136.
[2] Cfr. T.A.R. Puglia, Lecce, Sez. II, 14 gennaio 2019, n. 38, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, Sez. IV, 12 luglio 2018, n. 4273, ivi; Cons. Stato, Sez. VI, 29 maggio 2018, n. 3204, in www.giustizia-amministrativa.it. In dottrina, aderivano a tale indirizzo G. Bergonzini, Silenzio-assenso ed effetti della domanda dell’interessato: riflessioni critiche, in www.giustamm.it, 7/2012, 4; A. Cioffi, Dovere di provvedere e silenzio-assenso della pubblica amministrazione dopo la legge 14 maggio 2005 n. 80, in Dir. amm., 2006, 179.
[3] “Le determinazioni relative ai provvedimenti, alle autorizzazioni, ai pareri, ai nulla osta e agli atti di assenso comunque denominati, adottate dopo la scadenza dei termini di cui agli articoli 14-bis, comma 2, lettera c), 17-bis, commi 1 e 3, 20, comma 1, ovvero successivamente all’ultima riunione di cui all’articolo 14-ter, comma 7, nonché i provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli eventuali effetti, di cui all’articolo 19, commi 3 e 6-bis, primo periodo, adottati dopo la scadenza dei termini ivi previsti, sono inefficaci, fermo restando quanto previsto dall’articolo 21-nonies, ove ne ricorrano i presupposti e le condizioni”.
[4] In tal senso anche il Dossier del Servizio Studi del Senato sugli emendamenti approvati dalle Commissioni 1° e 8a all’A.S. 1883. Conversione in legge del decreto legge 16 luglio 2020, n. 76, recante “misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale”, 229. Il testo è reperibile al seguente link: http://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/01178105.pdf.
[5] M.R. Spasiano, La semplificazione amministrativa e la garanzia di effettività dell’esercizio del potere pubblico, in Foro amm. TAR, 2010, 3041 ss.; M.A. Sandulli, La semplificazione dell’azione amministrativa: considerazioni generali, in Nuove autonomie, 3-4/2008, 405 ss.
[6] M.A. Sandulli, Le novità in tema di silenzio, in Libro dell'anno del Diritto, 2014, Roma, 2014.
[7] C. Esposito, La validità delle leggi. Studio sui limiti della potestà legislativa, i vizi degli atti legislativi e il controllo giurisdizionale, Milano, 1964.
[8] M.S. Giannini, Inefficacia (dir. amm.), in Enc. dir., XXI, 1971, 377.
[9] M.R. Spasiano, Il regime dei provvedimenti: l'efficacia, in F.G. Scoca (a cura di), Diritto amministrativo, Torino, 2019, 273; M. Trimarchi, La validità del provvedimento amministrativo. Profili di teoria generale, Pisa, 2013.
[10] M. Macchia, L’inefficacia del provvedimento amministrativo e gli oneri regolatori nel decreto legge “Semplificazioni”, in Quaderni costituzionali, 3/2020, 181.
[11] [11] In tal senso, in passato, si sono espressi T.A.R. Campania, Napoli, Sez. V, 1 aprile 2019, n. 1798, in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Sicilia, Palermo, Sez. I, 20 marzo 2009, n. 544, in Foro amm. TAR, 2009, 901.
[12] T.A.R. Puglia, Bari, Sez. II, 16 marzo 2004, n. 1316, in Foro amm. TAR, 2004, 812; Cons. Stato, Sez. V, 8 aprile 2003, n. 1854, in Foro amm. CDS, 2003, 1310.
[13] F. Luciani, Contributo allo studio del provvedimento amministrativo nullo. Rilevanza ed efficacia, Torino, 2010.
[14] Cfr. T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. III, 17 novembre 2015, n. 2416, in www.giustizia-amministrativa.it.
[15] A. Travi, Silenzio-assenso e legittimazione ex lege nella disciplina delle attività private in base al d.P.R. 26 aprile 1992 n. 300, in Foro amm., 2-3/1993, 607.
[16] Sul punto sia consentito rinviare, amplius, a M. Calabrò, Silenzio assenso e dovere di provvedere: le perduranti incertezze di una apparente semplificazione, in Federalismi.it, 10/2020, 57-59. Tale orientamento è stato già fatto proprio da alcune pronunce: v. T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II-bis, 26 aprile 2019, n. 5308, in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Liguria, 2 marzo 2017, n. 156, in Riv. giur. edilizia, 2017, I, 459.
[17] “Al fine di garantire la massima semplificazione, l'accelerazione dei procedimenti amministrativi e la rimozione di ogni ostacolo burocratico nella vita dei cittadini e delle imprese in relazione all'emergenza COVID-19, dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino al 31 dicembre 2020: […] e) nelle ipotesi di cui all'articolo 17-bis, comma 2, ovvero di cui all' art. 14-bis, commi 4 e 5 e 14 ter, comma 7 della legge 7 agosto 1990, n. 241, il responsabile del procedimento è tenuto ad adottare il provvedimento conclusivo entro 30 giorni dal formarsi del silenzio assenso”.
[18] “Decorso inutilmente il termine per l’adozione del provvedimento conclusivo, ove il dirigente o il responsabile dell’ufficio non abbia opposto motivato diniego, sulla domanda di permesso di costruire si intende formato il silenzio-assenso, fatti salvi i casi in cui sussistano vincoli relativi all’assetto idrogeologico, ambientali, paesaggistici o culturali, per i quali si applicano le disposizioni di cui agli articoli da 14 e seguenti della legge 7 agosto 1990, n. 241. Fermi restando gli effetti comunque prodotti dal silenzio, lo sportello unico per l’edilizia rilascia anche in via telematica, entro quindici giorni dalla richiesta dell’interessato, un’attestazione circa il decorso dei termini del procedimento, in assenza di richieste di integrazione documentale o istruttorie inevase e di provvedimenti di diniego; altrimenti, nello stesso termine, comunica all’interessato che tali atti sono intervenuti”.
[19] In termini di rapporto di strumentalità tra razionalizzazione e semplificazione si è espresso, di recente, Cons. Stato, Sez. III, 11 giugno 2019, n. 3908, www.giustizia-amministrativa.it. In dottrina, sul punto, si rinvia alle riflessioni di M. A. Sandulli, Il procedimento amministrativo e la semplificazione. Report annuale-2013, in www.iuspublicum.com; M.R. Spasiano, Riflessioni sparse in tema di semplificazione amministrativa, in Nuove autonomie, 1/2009, 75 ss.
[20] Cfr., ex multis, T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. II, 16 ottobre 2019, n. 2171, in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Campania, Napoli, Sez. II, 14 giugno 2018, n. 3980, ivi. A. Romano, A proposito dei vigenti artt. 19 e 20 della l. 241/1990: divagazioni sull’autonomia dell’amministrazione, in Dir. amm., 2006, 508; E. Scotti, Silenzio-assenso e discrezionalità tra legalità e autonomia: la lezione istituzionale, in Studi in onore di Alberto Romano, II, Napoli, 2011, 943 ss.
[21] “Nei casi in cui il silenzio dell'amministrazione equivale ad accoglimento della domanda, l'amministrazione competente può assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli articoli 21-quinquies e 21-nonies” (art. 20, co. 3, l.n. 241/1990).
[22] M. Macchia, L’inefficacia del provvedimento amministrativo e gli oneri regolatori nel decreto legge “Semplificazioni”, cit., 183.
[23] F. Francario, Autotutela amministrativa e principio di legalità (nota a margine dell’art. 6 della l. 7 agosto 2015, n. 124, in Federalismi.it, 2015; M.A. Sandulli, Gli effetti diretti della7 agosto 2015 L. n. 124 sulle attività economiche: le novità in tema di s.c.i.a., silenzio-assenso e autotutela, in Federalismi.it, 2015.
[24] La più attenta dottrina, tuttavia, con specifico riferimento alla previsione che – in relazione ai provvedimenti che concedono benefici durante il periodo dell’emergenza Covid-19 – limita temporalmente l’esercizio del potere di annullamento a soli tre mesi (art. 264, co. 1, d.l. 19 maggio 2020 n. 34), ha chiarito che il suddetto termine debba comunque considerarsi perentorio, pena la perdita di senso dell’intento semplificatorio e liberalizzante della norma, concludendo che “sul piano delle situazioni giuridiche soggettive, dopo la scadenza dei tre mesi, il potere amministrativo si estingue e al suo posto ci sono libertà e diritti dei cittadini”, A. Cioffi, Annullamento d’ufficio e revoca dei benefici economici concessi in emergenza. Prima lettura dell’art. 264, primo comma, del D.L. 19 maggio 2020 n. 34, in Giustamm.it, 6/2020, 2.
[25] Per una critica alla tesi che afferma come nelle fattispecie di silenzio assenso la p.a. sarebbe legittimata a non esercitare la sua funzione di amministrazione attiva, v. M.A. Sandulli, Il procedimento amministrativo e la semplificazione. Report annuale-2013, cit.
Violenza sessuale mediante “abuso di autorità”: il revirement delle Sezioni Unite
(nota a Cass., Sez. un., sent. 16 luglio 2020, n. 27326, Pres. Fumu, Est. Ramacci)
di Francesca Vitiello
Sommario: 1. Premessa – 2. L’abuso costrittivo e le possibili interferenze con la violenza presunta di cui al 609-quater c.p. – 3. Sul concetto di «abuso di autorità»: gli orientamenti contrapposti – 3.1. La decisione delle Sezioni Unite – 4. Conclusioni.
1. Premessa
Le Sezioni unite penali con la pronuncia n. 27326 del 16 luglio 2020 (dep. il 1° ottobre 2020) hanno posto fine alla vexata quaestio delineatasi in tema di violenza sessuale sull’esatta interpretazione del sintagma “abuso di autorità”, di cui all’art. 609-bis, co. 1, c.p., da sempre oggetto di letture difformi nella giurisprudenza di legittimità.
Nonostante una – ormai risalente – pronuncia sulla materia de qua[1], sempre ad opera della Cassazione nella sua più autorevole composizione, la sezione rimettente aveva rilevato la sussistenza di un contrasto giurisprudenziale sulla natura eminentemente pubblicistica o anche privatistica della posizione di autorità di cui il soggetto agente abusa per costringere la persona offesa a compiere o subire atti sessuali. Invero, nell’ordinanza di rimessione, la terza sezione aveva posto in evidenza due differenti indirizzi interpretativi: il primo, “pubblicistico”, di carattere restrittivo e tassativizzante, speculare rispetto al secondo, anche detto “privatistico”, maggiormente estensivo.
Tuttavia, prima di soffermarsi sulla soluzione interpretativa cui sono pervenute le Sezioni Unite, appare opportuno, preliminarmente, comprendere agevolmente le dinamiche che hanno caratterizzato l’evoluzione giurisprudenziale del concetto di “abuso di autorità” nel delitto di violenza sessuale mediante costrizione. Funzionale a tal fine è la disamina della relativa normativa, oggetto di una profonda metamorfosi a livello legislativo e applicativo in virtù dei mutamenti registratesi nel contesto storico-culturale di riferimento.
Sulla base di tali premesse, profonda è la convinzione che solo un’analisi trasversale e comparativa della fattispecie in esame con quelle “pregresse” e “contigue”, unita ad un’indagine sulla sua ratio legis, consentirà di cogliere quegli elementi – dirimenti – che hanno orientato la decisione dell’organo di suprema nomofilachia, il cui approdo ermeneutico, per quanto condivisibile, consente qualche residua perplessità.
2. L’abuso costrittivo e le possibili interferenze con la violenza presunta di cui al 609-quater c.p.
Il reato di violenza sessuale è previsto dall’art. 609-bis c.p., introdotto dalla l. 15 febbraio 1996, n. 66 all’esito di una lunga e articolata gestazione parlamentare che ha costituito un punto di svolta per la normativa penale sul tema. La legge n. 66/1996, infatti, ha riplasmato la collocazione dei c.d. reati sessuali, inserendoli nell’ambito dei «delitti contro la persona» e, in particolare, fra quelli contro la libertà individuale (e non più tra quelli contro «la moralità pubblica e il buon costume»).
Si tratta di una novità, quest’ultima, che riflette un sensibile mutamento nella percezione dei valori[2] e del bene giuridico tutelato, ora inequivocabilmente costituito dalla libertà sessuale quale una delle estrinsecazioni fondamentali della libertà umana, e non già dai valori morali della collettività.
La novità più significativa dell’art. 609-bis, così come introdotto dalla riforma del ’96, è stata la tipizzazione dell’abuso di autorità, quale mezzo di coartazione dell’altrui volontà, alternativo alla violenza o alla minaccia[3]: mediante tali modalità il soggetto attivo costringe la persona offesa a compiere o subire atti sessuali.
Gli elementi costitutivi sono la costrizione (chiaramente psichica)[4] e gli atti sessuali. In questo senso, l’abuso costrittivo viene inteso dalla dottrina come una pressione effettuata strumentalizzando la propria posizione di supremazia, meno “forte” sulla vittima di quanto non lo sarebbe una minaccia o una violenza, ma con una consistenza maggiore in termini di coartazione della volontà, rispetto alla persuasione che integra l’induzione[5]. Se la ratio dell’innovazione è piuttosto trasparente, risulta comunque non agevole stabilire a quale casistica concreta la disposizione in esame possa essere specificamente riferita.
Il concetto di abuso di autorità resta connotato da contorni incerti e non determinabili, che pongono la sotto-fattispecie normativa ai limiti del rispetto del principio di tipicità.
Il problema – che si interseca con quello oggetto della rimessione – attiene, nello specifico, all’esatta individuazione della tipologia di autorità (pubblica o anche privata) il cui abuso diventa penalmente rilevante. La riforma del 1996, infatti, ha utilizzato il sostantivo senza prevedere accanto ad esso alcun attributo che ne riesca a connotare il carattere, lasciando, di fatto, questo non semplice compito agli interpreti.
La decodificazione di tale formula comporta, sul versante sostanziale, implicazioni di non poco conto circa l’ambito di applicazione della fattispecie, soprattutto quando la persona offesa sia minorenne e legata all’autore del reato da un particolare tipo di rapporto. In tali casi – come dimostra la vicenda oggetto della sentenza in commento – si può porre un problema di interferenza tra la sotto-fattispecie di abuso costrittivo di cui al 609-bis e alcune ipotesi, sotto molti aspetti ritenute “contigue”, di violenza cd. presunta, punita dall’art. 609-quater. Le possibili interferenze riguardano, in particolare, le ipotesi di cui all’art 609-quater, comma 1 n. 2) e comma 2, nelle quali ad essere sanzionato è l’abuso di una posizione di supremazia i cui effetti negativi sulla volontà della vittima nel primo caso vengono presunti in ragione del particolare rapporto che lo lega al soggetto attivo; nel secondo, invece, in relazione della diversa età del minore e della ritenuta diversa maturità, è necessario conseguano da un effettivo comportamento di strumentalizzazione dei poteri[6].
Queste due situazioni possono, almeno in apparenza, essere sovrapponibili con l’abuso di autorità, soprattutto se si ritiene di leggere quest’ultima endiadi come riferita anche ad autorità di natura privatistica, quando chi abusi, ad esempio, eserciti poteri di supremazia connessi a rapporti familiari, di cura o di istruzione.
Individuare quale delle due norme sia applicabile non è, del resto, solo un’operazione di mera correttezza ermeneutica ma ha rilevanza per conseguenze di vario tipo che ne derivano.
Sotto quest’ultimo profilo, è agevole ricordare che, benché le fattispecie di cui agli artt. 609-bis e 609-quater co. 1 c.p. siano sanzionate in modo identico quoad poenam, si differenziano per il regime delle aggravanti configurabili, essendo applicabili alla sola fattispecie di cui al 609-bis c.p. quelle di cui all’art. 609-ter. Inoltre, fino alla modifica prevista dalla l. 69 del 2019 era dissimile il regime di procedibilità ex art. 609-septies c.p.; mentre resta tutt’oggi differente – e in modo significativo – il regime sanzionatorio per il reato di cui al 609-bis c.p. (reclusione da 6 a 12 anni) da quello di cui al 609-quater co. 2 c.p. (reclusione da 3 a 6 anni).
Da tali rilievi si evince il peso che l’esatta perimetrazione del sintagma “abuso di autorità” assume ai fini del giudizio di responsabilità penale, incidendo sull’esatta qualificazione giuridica e, conseguentemente, a seconda del concreto atteggiarsi dei fatti, anche sulla relativa cornice edittale.
Infatti, come emerge dal caso oggetto della pronuncia in commento, qualora la vittima del reato sia una persona infraquattordicenne legata al colpevole da un particolare rapporto, il pendolo della risposta punitiva oscilla tra la più pesante cornice edittale prevista per la forma aggravata del reato di violenza sessuale, giusto disposto degli agli artt. 609-bis e 609-ter co. 2 (rectius 609-ter co. 1 n.1)[7], e quella più lieve riferibile al 609-quater co.1 n. 1) e 2).
3. Sul concetto di «abuso di autorità»: gli orientamenti contrapposti
Venendo all’esame del tema posto al vaglio delle Sezioni Unite, il quesito di diritto oggetto di rimessione era così formulato: «Se, in tema di violenza sessuale, l’abuso di autorità di cui al’art. 609-bis, primo comma, cod. pen. presupponga nell’agente una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico o, invece, possa riferirsi anche a poteri di supremazia di natura privata di cui l’agente abusi per costringere il soggetto passivo a compiere o subire atti sessuali»[8].
La vicenda che aveva dato origine alla valutazione giudiziale riguardava le plurime condotte tenute da un insegnante di ripetizioni private nei confronti di due alunne minori degli anni quattordici, sicché un’interpretazione restrittiva dell’art. 609-bis c.p. avrebbe imposto una riqualificazione del fatto nel meno grave reato di atti sessuali con minorenne di cui all’art. 609-quater c.p. (con le già viste differenze sanzionatorie).
Al fine risolvere la questione, relativa, appunto, alla corretta interpretazione dell’endiadi “abuso di autorità”, i giudici di legittimità hanno ripercorso i due difformi orientamenti giurisprudenziali maturati sul punto.
Il primo, di tipo restrittivo, si è affermato quasi all’indomani dell’entrata in vigore della l. n. 66/1996 e sostiene la tesi della natura pubblicistica e formale della posizione di autorità del soggetto agente[9]; dunque, non vi rientrerebbe l’insegnante privato.
Su tale presa di posizione ha indiscutibilmente inciso un precedente autorevole delle Sezioni Unite. Invero, con sentenza n.13/2000 si era affermato, se pure in via incidentale, che l’abuso di autorità di cui all’articolo 609-bis, co. 1, c.p., presuppone nell’agente una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico. Pertanto, ne avevano escluso la configurabilità nei confronti di un insegnante privato che aveva compiuto atti sessuali con un minore di anni sedici, a lui affidato per ragioni di istruzione ed educazione. Di contro, avevano ritenuto corretta la qualificazione del fatto – operata dai giudici di merito – in atti sessuali con minorenne di cui all’articolo 609-quater c.p.
Tale pronuncia ha contribuito a consolidare, negli anni, quell’indirizzo restrittivo[10] che avvalora la propria teoria con un doppio argomento, uno di carattere storico e l’altro di tipo sistematico.
Quanto all’argomento storico, esso prende le mosse dalla constatazione di un “rapporto di filiazione” tra l’attuale sotto-fattispecie di cui al 609-bis, co.1, e quelle precedentemente previste dagli abrogati artt. 519, co.1, 520 e 521 c.p., ritenendo l’abuso di autorità coincidente con l’abuso della qualità di pubblico ufficiale già contemplato dall’art. 520.
A livello sistematico, invece, tale orientamento osserva che, considerando l’abuso di autorità riferibile anche a poteri di carattere privatistico, verrebbe meno la possibilità di distinguere l’ipotesi di reato contemplata dall’art. 609-bis, co.1, c.p., dall’ipotesi di rapporto sessuale con abuso di potere parenterale o tutorio ora previsto dall’art. 609-quater, co. 2, c.p. Invero, intendendo come autorità ogni posizione sovraordinata pubblicistica o privatistica, l’art. 609-quater co.2 resterebbe praticamente privo di effetti, atteso che la clausola di riserva contenuta nel suo incipit («fuori dei casi di cui all’art. 609-bis») farebbe confluire anche l’abuso del potere parenterale in quello di autorità. Tale argomentazione intesa a salvaguardare la coerenza normativa del sistema, individua come unica strada percorribile la qualificazione dell’autorità menzionata nell’art. 609-bis come avente natura pubblicistica e riconoscere al potere di cui al 609-quater, invece, connotazione privatistica.
La giurisprudenza di legittimità è rimasta impermeabile a questa lettura dell’espressione abuso di autorità per oltre un decennio dall’entrata in vigore della legge del 1996. Solo dal 2008 si fa strada una corrente giurisprudenziale di più ampio respiro, che trova terreno fertile in un’evoluzione, già da tempo in atto, del sentire sociale protesa ad ampliare la sfera di tutela del soggetto passivo.
Il secondo orientamento pretorio, avallato dalla dottrina prevalente[11], dilata la portata del significato di autorità di cui al 609-bis c.p. sino a farvi rientrare «ogni relazione, anche di natura privata, in cui l’autore del reato riveste una posizione di supremazia della quale si avvale per coartare la volontà della persona offesa». È quanto affermato dalla Cassazione nel 2009[12], con un primo (molto timido) cambio di rotta rispetto al passato, senza, tuttavia, manifestare un esplicito dissenso rispetto alle precedenti decisioni. Bisognerà attendere il 2012 per la sentenza[13] che traccerà, in modo specifico, un primo effettivo confronto con l’opposto orientamento. Ad essa faranno seguito altre pronunce[14] che si pongono in linea con quest’ultima decisione e che contribuiranno, in maniera decisiva, a delineare le coordinate della opzione interpretativa alternativa, che muove dalla confutazione dei principali argomenti adottati dal primo indirizzo esposto.
In primo luogo, tale filone giurisprudenziale smentisce la prospettata continuità normativa tra la nuova fattispecie recata nell’art. 609-bis e quella dell’abrogato art. 520 c.p., assumendo a fondamento del proprio ragionamento il concetto di “autorità” così come espresso dall’articolo 61 n. 11 c.p. Detta disposizione, che include tra le aggravanti comuni il fatto di realizzare la condotta criminosa con abuso di autorità, è sempre stata interpretata dalla giurisprudenza in modo molto ampio, tale da ricomprendere sia posizioni autoritative pubblicistiche sia posizioni di natura privata. Peraltro, laddove il legislatore ha voluto qualificare come pubblica una posizione autoritativa, lo ha indicato expressis verbis, come era accaduto nell’art. 520 e come oggi accade nel caso del 608 c.p. (che fa esplicito riferimento al “pubblico ufficiale”).
In secondo luogo, avverso le argomentazioni secondo le quali l’interpretazione estensiva del concetto di autorità di cui all’articolo 609-bis c.p. porterebbe all’abrogazione implicita dell’articolo 609-quater, co.2, c.p., si è evidenziato non solo l’utilizzo di formule diverse – “abuso di autorità” nel primo caso, “abuso di poteri” nel secondo – ma anche, soprattutto, la diversità ontologica tra le due fattispecie, che vale a conferire loro un distinto ambito di operatività. Viene fatto rilevare, a tale proposito, che mentre nell’abuso di autorità l’atto sessuale è frutto di «costringimento», nell’ipotesi di cui al 609-quater, l’atto è viceversa consensuale, ancorché il legislatore presuma tale consenso viziato ex ante per l’esistenza di particolari circostanze[15]. Non a caso, il bene giuridico tutelato da quest’ultima fattispecie non è la libertà di autodeterminazione del minore bensì la sua integrità fisico-psichica nella prospettiva di un corretto sviluppo della sua sessualità.
3.1. La decisione delle Sezioni Unite
Al termine della disamina giurisprudenziale sopra sintetizzata, e tenuto conto delle argomentazioni poste a sostegno dei due orientamenti, le Sezioni Unite, con la sent. 27326/2020, hanno ritenuto non (più)[16] condivisibile un’interpretazione restrittiva del concetto di abuso di autorità.
I giudici di legittimità, recependo e in parte arricchendo le ragioni addotte dall’orientamento estensivo, hanno formulato il seguente principio di diritto: «l’abuso di autorità cui si riferisce l’art. 609-bis co.1 c.p. presuppone una posizione di preminenza, anche di fatto e di natura privata, che l’agente strumentalizza per costringere il soggetto passivo a compiere o subire atti sessuali».
Più nello specifico, l’opera ermeneutica del quid consistam l’abuso di autorità si snoda attraverso due successivi passaggi argomentativi: il primo volto a stabilire se l’autorità rilevante ai sensi dell’art. 609-bis c.p. debba avere natura esclusivamente pubblica o anche privata; il secondo concernente la fonte, necessariamente legale o anche fattuale, da cui l’autorità discende.
Sotto il primo profilo, le Sezioni Unite muovono dall’effetto, ossia la costrizione promanante dalle condotte (violenza, minaccia, abuso di autorità) tipizzate al comma 1 del 609-bis c.p., per poi risalire alla causa, individuandola, per quanto attiene all’abuso di autorità, in una «vera e propria condizione di sudditanza materiale o psicologica ma non psichica e, quindi, di origine patologica in senso stretto»[17]. In questo senso, deve ritenersi riconducibile all’abuso di autorità qualsiasi posizione di supremazia, pubblica o privata, causalmente efficiente a realizzare il risultato coercitivo.
Ciò pare confermare una prassi interpretativa orientata, ormai, a dilatare il concetto di violenza, polarizzandolo più sul risultato della condotta (lo stato di coazione) che sulle modalità violente, sì da valorizzare anche le ipotesi di dissenso implicito o addirittura meramente potenziale della parte offesa[18], come pure di giungere all’affermazione di responsabilità nel caso in cui intervenga una revoca del consenso, qualora il soggetto attivo non interrompa l’atto sessuale divenuto non consensuale.
Tale risultato, seppur meritorio in termini di effettività della tutela, consentirà di sollevare qualche dubbio nelle considerazioni conclusive in ordine al rischio, verosimile nei fatti, di trasformare la figura delittuosa in commento in un reato a condotta libera.
Nel prosieguo del ragionamento della Corte viene poi richiamato l’argomento storico, incentrato sul confronto con le disposizioni abrogate di cui agli artt. 519 e 520 c.p.[19], impiegate dalle Sezioni Unite del 2000 per sostenere esattamente la tesi opposta (cioè che per autorità si intende quella di stampo pubblicistico). L’odierna sentenza smentisce quella vecchia lettura, accentuando che il nuovo art. 609-bis non è parente prossimo, né deve esserlo, delle disposizioni previgenti. Invero, la collocazione del nuovo art. 609-bis tra i reati contro la libertà personale e la sua qualificazione come delitto comune starebbero ad indicare – secondo i giudici di legittimità – la volontà legislativa di ampliare le maglie della punibilità del reato in esame, svincolandolo dal riferimento alla figura del pubblico ufficiale, di cui al previgente art. 520 c.p.
Dopo il richiamo al dato storico, la Corte procede su un piano letterale e sistematico. In primo luogo, osserva che se il legislatore del ’96 all’art. 609-bis avesse voluto riferirsi alla sola autorità pubblica avrebbe dovuto espressamente dirlo, come ha fatto nel caso dell’art. 608 c.p. concernente “abuso di autorità contro arrestati o detenuti” il quale richiede in capo all’agente la qualifica di pubblico ufficiale. Successivamente, la Corte rimanda ad altre disposizioni penali – artt. 61 n. 11) c.p., 571, 600-octies, 600 e 601 – onde evidenziare come il concetto di autorità sia altrove già inteso in senso ampio, come pacificamente comprensivo anche di posizioni di preminenza non pubblicistica.
Quanto alla paventata sovrapposizione tra 609-bis e la fattispecie di cui all’art. 609-quater co. 2 c.p., i giudici di legittimità fondano la loro confutazione, oltre che sulla presenza della clausola di riserva espressa, contenuta nel co. 1 e ribadita nel co. 2 del 609-quater, sulla diversità delle azioni punite dalle due norme incriminatrici: l’art 609-bis si riferisce all’abuso di autorità; l’art 609-quater co. 2 all’abuso di poteri. Tali locuzioni, lungi dall’essere equipollenti, avrebbero, infatti, un proprio e distinto significato semantico, rievocando quella ricostruzione giurisprudenziale[20] secondo cui l’abuso di autorità consiste in una strumentalizzazione della dimensione soggettiva dell’autorità; l’abuso di potere, invece, in una strumentalizzazione della dimensione oggettiva, funzionale dei poteri connessi alla posizione.
Quest’ultima argomentazione, benché autorevolmente sostenuta, non sembra cogliere al meglio l’essenza della distinzione, giacché il concetto di abuso di autorità, proprio per l’effetto costrittivo che ingenera nella vittima, ingloba di per sé anche l’abuso di potere, declinandosi in concreto in un esercizio distorto dei poteri connessi alla posizione di supremazia. Piuttosto, il riferimento alla strumentalizzazione della dimensione soggettiva appare maggiormente pertinente all’ultronea espressione “abuso della qualità”[21].
Quanto detto sembra essere ulteriormente avvalorato dalla stessa sentenza allorché, ai fini del perfezionamento della fattispecie, impone la concreta dimostrazione di un’«arbitraria utilizzazione del potere»[22] confutando, così, a distanza di pochi capoversi, l’affermata diversità semantica e applicativa delle due formule.
Aderendo alla tesi più ampia per cui l’abuso è configurabile anche in presenza di un’autorità privata, resta da capire quale sia la fonte da cui il soggetto attivo deve attingere la propria autorità.
In altri termini: è necessario che tale autorità abbia una derivazione giuridica o è sufficiente una mera autorità di fatto sul soggetto passivo?
È questo il secondo passaggio argomentativo con cui la Corte si confronta. Ebbene, in chiusura, le Sezioni Unite precisano il loro approdo ermeneutico, affermando che l’autorità privata il cui abuso integra la condotta sanzionata dall’art. 609-bis c.p. può anche non derivare da una espressa previsione di legge ed essere, dunque, un’autorità di fatto, comunque determinatasi. La conclusione, a detta della corte, risulta coerente con le premesse in quanto, se ad avere rilevanza è la «coartazione della volontà della vittima, posta in essere da una posizione di preminenza, la specifica qualità del soggetto agente resta in secondo piano rispetto alla strumentalizzazione di tale posizione, quale ne sia l’origine».
La Corte, sciogliendo il nodo interpretativo sottoposto alla sua attenzione, conclude quindi per la configurabilità in capo all’imputato del reato di violenza sessuale con abuso di autorità, aggravato dall’età inferiore ai quattordici anni delle due vittime.
4. Conclusioni
Le Sezioni Unite, con la sentenza in commento, accolgono una nozione estremamente ampia di abuso di autorità, richiamando un iter interpretativo-motivazionale che, pur astrattamente convincente sul piano logico, non dissipa in concreto ogni perplessità.
Più nello specifico, del tutto condivisibile appare l’opzione per un’accezione lata del concetto di autorità non circoscritta esclusivamente a quella pubblica. Militano, in questa direzione, una pluralità di argomenti, a partire dalla ratio legis. Invero, dai lavori preparatori della riforma del ’96 emerge chiaramente che l’obiettivo politico-criminale perseguito dal legislatore era quello di apprestare un’ampia tutela ai soggetti in posizione di debolezza rispetto a chi possa esercitare nei loro confronti un potere di supremazia, al fine di indurli all’atto sessuale[23]. In secondo luogo, a confortare tale interpretazione estensiva si aggiungerebbe il dato normativo: la mancata previsione di alcun attributo alla tipologia di autorità è, già di per sé, elemento escludente della volontà legislativa di porre un limite. Si potrebbe a ciò obiettare che l’autorità è, par excellence, quella statuale di stampo pubblicistico; nondimeno, tale circostanza nulla toglie alla possibilità di ricomprendere sotto l’ampio ombrello del concetto di autorità anche relazioni che, pur avendo natura eminentemente privatistica, replicano quel rapporto di potestà-soggezione che costituisce essenza stessa di autorità. Del resto, ciò che rende un’autorità tale sono «l’insieme dei poteri, conferiti dalla legge ad un soggetto, che lo pongano in una situazione giuridica di preminenza nei confronti di altro soggetto»[24]. Ecco allora che autorità ben può essere anche quella privata, ma a condizione che sia munita di poteri giuridicamente fondati, delimitati e apprezzabili, e non fattuali, idonei a determinare un rapporto asimmetrico tra le parti. Si pensi, al riguardo, alla condizione di supremazia del datore di lavoro, del responsabile di un pool aziendale o comunque del superiore in ambito lavorativo e ai connessi poteri disciplinati dal codice civile, dalla contrattazione collettiva e da quella individuale[25]. Come pure alla condizione di sovra-ordinazione del direttore penitenziario o del cappellano nei confronti del detenuto; o ancora, al ruolo rivestito dall’allenatore di una squadra sportiva che, sulla base delle regole previste dalla federazione di appartenenza e dalla l. 91/1981, vanta poteri di direzione, di controllo tecnico e di valutazione nei confronti dell’atleta professionista. Analogamente a quanto accade in relazione all’abuso di autorità del pubblico ufficiale, anche qui potranno configurarsi ipotesi di costrizione abusiva. Infatti, la paura del lavoratore di perdere il posto o la disperata speranza del detenuto di essere trasferito in una cella migliore possono in certi casi essere assimilabili al timore della prostituta di essere denunciata dal poliziotto o alla preoccupazione dell’alunno di essere valutato negativamente, financo bocciato, dall’insegnante scolastico.
Di converso, affermare – come la Corte ha fatto – che l’autorità privata di cui il soggetto abusa può promanare anche da una mera posizione de facto sbilanciata, quale sarebbe quella assunta dall’insegnante privato[26], indurrebbe a ravvisare l’autorità ovunque, persino nella posizione (per nulla apprezzabile) del capo mafioso, conducendo verosimilmente ad una confusione tra i concetti di “abuso di autorità” di cui al 609-bis c.p. e “abuso di poteri” di cui al 609-quater c.p., dalla stessa Corte ritenuti etimologicamente differenti.
È indubbio che la Corte, nell’elaborazione di tale segmento motivazionale, si sia ispirata alle intenzioni più nobili: polarizzare il disvalore sul solo effetto costrittivo dell’abuso, prescindendo dall’origine del potere, significa massimizzare la tutela della libertà sessuale della persona che la legge persegue. Eppure, sembra aver sottovalutato la circostanza che se è vero che non può esistere un’autorità senza poteri, non è, però, vero il contrario[27].
Il possesso di meri poteri fattuali, non giuridicamente conferiti, posizionerebbe il soggetto titolare dei medesimi in una posizione di autorevolezza più che di autorità strictu sensu, il cui abuso striderebbe con la tipicità delle condotte modali costrittive richieste per la configurazione della fattispecie di violenza sessuale.
Il confine è labile, ma esiste e va tracciato, al fine di evitare una lettura ablativa della tipicità del reato di cui 609-bis c.p. che porterebbe ad interpretarlo come se punisse «chiunque costringe taluno a compiere o subire atti sessuali». È questo, forse, l’aspetto più critico del ragionamento della Corte, che restituisce una fattispecie incriminatrice non diminuita di quel coefficiente di indeterminatezza e genericità con cui è nata[28].
Auspicabile, pertanto, è un intervento legislativo che miri a chiarire la fonte da cui il soggetto attivo debba attingere la propria autorità, tanto più necessario e urgente in una materia – quale quella sessuale – così delicata e complessa che giammai può lamentare un tale vulnus.
Del resto, dire che per la configurazione dell’abuso è necessaria un’autorità che abbia derivazione giuridica o è sufficiente una mera autorità di fatto sul soggetto passivo, comporta una consistente variazione dei comportamenti penalmente rilevanti e, invero, non spetterebbe all’ordine giudiziario in sede di interpretazione ed applicazione della norma operare tali importanti scelte di politica criminale.
[1] Cass., Sez. Un., 31.05.2000, n. 13, in Cass. pen., 2001.
[2] Tale mutamento è da ricondurre sostanzialmente al movimento del ’68 e al sorgere del c.d. femminismo. In questi termini: Mulliri, Le legge sulla violenza sessuale. Analisi del testo, primi raffronti e considerazioni critiche, in Cass. pen., 1996, pp. 734 e ss.
[3] Alla violenza e alla minaccia facevano già espressamente riferimento gli abrogati artt. 519 e 521 c.p.
[4] Come evidenziato da Palumbieri, Violenza sessuale, in Cadoppi-Canestrari-Papa, I reati contro la persona, vol.III, 2006, p. 74: la costrizione psichica «non deve trasmodare nella minaccia, altrimenti non saremmo in presenza di una modalità alternativa alla stessa».
[5] Così, Cadoppi, Art. 609 bis, in Cadoppi (a cura di), Commentario delle norme contro la violenza sessuale e contro la pedofilia, Padova, 2006, p. 512; in termini analoghi Palumbieri, Violenza sessuale, ibidem.
[6] Beltrani – Marino, Le nuove norme sulla violenza sessuale, Napoli, 1996, p. 40; Borgogno, Il delitto di violenza sessuale, in Coppi (a cura di), I reati sessuali. I reati di sfruttamento dei minori e di riduzione in schiavitù per fini sessuali, Torino, 2007, p. 120.
[7] Per quel che riguarda la vicenda oggetto di rimessione non bisogna trascurare che, poiché il fatto è stato commesso prima dell’inasprimento delle sanzioni previste dalla l. 69/2019 (c.d. “Codice rosso”), al reo deve essere applicata la disciplina più favorevole vigente al momento del fatto, ai sensi dell’art. 2, co. 4, c.p. Pertanto, secondo la valutazione che fa leva sulla fattispecie dell’art. 609-bis c.p., aggravato dal dettato dell’art.609-ter c.p., la pena sarebbe stata della reclusione da sei a dodici anni, mentre facendo leva sulla fattispecie di cui all’art. 609-quater, la pena sarebbe stata della reclusione da cinque a dieci anni. Cfr., sul punto, Pittaro, Le Sezioni Unite definiscono l’abuso di autorità nel reato di violenza sessuale, in http://ilpenalista.it/, 2 novembre 2020.
[8] Cass., Sez. III, ord. 4.10.2019 (dep. 24 gennaio 2020), n. 2888, in Sistema penale, con nota di Finocchiaro, L’abuso di autorità dell’insegnante privato tra violenza sessuale (art. 609-bis) e atti sessuali con minorenne (art. 609-quater): la parola alle Sezioni unite, 20 febbraio 2020.
[9] Cass., Sez. III, 07.10.1999, Colafemmina, in Giust. Pen., 2000, p. 557, ed in Cass. pen., 2001, p. 1224, con nota di De Amicis, Sulla configurabilità del concorso fra i delitti di concussione e violenza sessuale con abuso d’autorità: in cui, costituisce abuso di autorità la condotta di un ufficiale comandante di un battaglione dell’esercito, il quale strumentalizzi la sua posizione di preminenza nella gerarchia militare. In senso restrittivo, anche parte (minoritaria) della dottrina: v. Borgogno, Il delitto di violenza sessuale, cit., pp. 121 e ss.
[10] Ex multis: Cass., Sez. III, 19.06.2002, n. 32513, in CED, N. 223101; Cass., Sez. III, 11.10.2011, n. 2681; Cass., Sez. IV, 19.01.2012, n. 6982; Cass., Sez. III, 04.10.2012, n. 47869, in Cass. pen., 2013, p. 3996; Cass., Sez. III, 24.03.2015, n. 16107, in Cass. pen., 2015, p. 4476.
[11] In tal senso, ex multis: Antolisei, Diritto penale, Parte speciale, I, Milano, 2016; Mantovani, in Diritto penale, Parte speciale, Milano, 2019, p. 454; Romano, Delitti contro la sfera sessuale della persona, Padova, 2009, p. 106; Cadoppi, Art. 609 bis, cit., p. 507-509; Fiandaca, Violenza sessuale, in Enc. dir., Agg. IV, cit., p. 1159; Mattencini, I reati contro la libertà sessuale, Milano, 2000, p. 69; Balbi, voce Violenza sessuale, in Enc. Giur., agg 1999, p. 10.
[12] Cass., Sez. III, 03.12.2008 (dep. 2009), n. 2119, M., Rv 242306 – 01.
[13] Cass., Sez. III, 19.04.2012, n. 19419, S, Rv. 252768 – 01.
[14] Cass., Sez. III, 27.03.2014, n. 36704, A, Rv. 260172 – 01; Sez. III, 30.04.2014, n. 49990, G, Rv. 261594 – 01.
[15] La minore età (609-quater co. 1 n.1); i particolari rapporti con il colpevole (609-quater co. 1 n.2).
[16] Ponendosi in netta antitesi con la precedente citata decisione n. 13/2000.
[17] Cass., Sez. Un., 16.07.2020, n. 27326, p. 12.
[18] Mattencini, I reati contro la libertà sessuale, cit., p. 66; v. anche Cass., Sez. III, 5.10.15, n. 39865, in Cass. pen., 2016, p. 771.
[19] Ove si faceva espresso riferimento al pubblico ufficiale quale soggetto attivo del reato.
[20] Cass., Sez. III, 08.03.2016, n. 33042, Rv. 267453.
[21] Sul punto, Mantovani, in Diritto penale, Parte speciale, cit., p. 454.
[22] Cass., Sez. Un., 16.07.2020, n. 27326, p. 15.
[23] A cominciare dai contesti segnatamente privatistici, quali i rapporti di lavoro e di famiglia. Così: Palumbieri, Violenza sessuale, cit., p. 7.; Musacchio, Il delitto di violenza sessuale, Padova, p. 46.
[24] Il passo tra virgolette è tratto da Mantovani, Diritto penale, Parte speciale, cit., p. 454;
[25] Poteri leciti, quando non addirittura doverosi, che vanno dal richiamo formale al licenziamento. In proposito, si è anche affacciata l’ipotesi che la nuova fattispecie possa fungere da strumento normativo surrettizio per punire almeno le più gravi forme di molestie sessuali, il cui ambiente tipico è proprio il mondo del lavoro. Cfr. sul punto: Cadoppi, Art. 609 bis, cit., p. 511.; concorda Proverbio, in Marinucci-Dolcini (a cura di), Codice penale commentato, p. 3173.
[26] Ruolo che non sembra conferirgli alcun potere disciplinare o valutativo tale da renderlo, diversamente dai docenti scolastici, un’autorità agli occhi degli alunni.
[27] Balbi, voce Violenza sessuale, cit., p. 11.
[28] Particolarmente dure le critiche di Pecoraro-Albani, Violenza sessuale e arbitrio del legislatore, Napoli, 1997, p. 92 e p. 126, il quale ritiene la presente ipotesi criminosa - definita un «non senso giuridico» - un vacuum che non consente di cogliere la voluntas legis.
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