ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Corte EDU, Parfitt v. UK: diritto alla vita e alla morte del malato minore e conflitti fra genitori, sanitari e curatore. Le acque agitate del giudice comune europeo
di Gabriella Cappello
La Corte EDU torna sul tema del fine vita e lo fa in un caso che mette in risalto le difficoltà del bilanciamento di opposti diritti inviolabili, ponendo al centro, ancora una volta, la tutela della dignità della persona umana quale criterio assolutamente incomprimibile.
Sommario: 1. La sentenza Parfitt v. UK: il caso - 2. Il concetto di dignità della persona umana come super valore o valore dei valori – 3. Il fine vita e la legge n. 219 del 2017; gli artt. 2 e 3 della legge n. 219/2017; le forme di tutela per i casi di minori e incapaci – 4. Le proposte di riforma e la figura del curatore speciale – 5. Le acque agitate del giudice comune europeo.
1. La sentenza Parfitt v. UK: il caso.
La quarta sezione della Corte EDU, con sentenza del 20 aprile 2021, (Parfitt c. Regno Unito, n. 18533/21), ha dichiarato inammissibile il ricorso della madre di una bambina, cui era stata diagnosticata una rara infermità, definita Encefalopatia Acuta Necrotizzante (ANE), che lamentava, tra l’altro, la violazione degli artt. 2 e 8 della Convezione da parte del Regno Unito, con riferimento alla decisione dei giudici inglesi di autorizzare la interruzione del mantenimento artificiale in vita della minore, chiesta dal National Health Service Trust (NHS), responsabile dell’ospedale che l’aveva in cura, a causa delle sue condizioni di salute ingravescenti e irreversibili.
La Corte di Strasburgo è ritornata sul tema della tutela della salute e della vita privata e familiare e dei margini di discrezionalità riconosciuti agli Stati nell’individuazione delle soluzioni migliori per la cura e la tutela degli interessi e della salute dei pazienti.
La minore, nel caso in esame, è stata rappresentata da un tutore nominato dal Tribunale che, con l’assistenza di avvocati incaricati per suo conto, ha aderito alla domanda del Trust. La madre della bambina, invece, si è opposta, chiedendo la prosecuzione del trattamento terapeutico in ambiente domestico.
Nei vari gradi di giudizio, la ricorrente e il Trust si sono avvalsi del patrocinio di avvocati esperti e il parere di ben dodici specialisti di fama è stato acquisito al processo. L’opinione dei medici curanti è stata unanime nel considerare la proposta della madre contraria all’interesse della figlia (ritenendo costoro che vi fossero limitate possibilità di sopravvivenza per la bambina ove fosse stata dimessa, in quanto la sua condizione richiedeva trattamenti specifici disponibili solo in ospedale). Alcuni specialisti indipendenti, tuttavia, hanno riconosciuto la praticabilità di una gestione in ambiente esterno, pur affermando che la transizione richiederebbe almeno sei mesi per approntare i macchinari necessari e praticare una tracheotomia e una gastrostomia per ventilare e alimentare la paziente che, in ogni caso, richiederebbe una assistenza giornaliera continua. Tutti gli esperti, comunque, hanno dichiarato che le aspettative di vita in ambiente domestico sarebbero più basse rispetto alla permanenza in terapia intensiva ospedaliera.
Il giudice di prima istanza ha valutato le tre opzioni in campo (supporto ventilatorio meccanico in terapia intensiva; avviamento di una procedura finalizzata a trasferire la paziente in ambiente domestico con un macchinario di ventilazione portatile, come sollecitato dalla madre; interruzione del trattamento di mantenimento in vita con supporto ventilatorio, come sollecitato dal National Health Service Trust) e ritenuto conclusivamente che la interruzione della ventilazione meccanica, con limitazioni anche ai trattamenti successivi, fosse la scelta migliore nell’interesse della minore, siccome l’unica in grado di assicurarle la possibilità di morire. Il permanere dello stato vegetativo, infatti, secondo la valutazione dei giudici inglesi, non apporterebbe alcun beneficio medico alla sua condizione, laddove il suo trasferimento in ambiente domestico, con scarse possibilità di riuscita, arrecherebbe un danno alle sue già precarie condizioni, senza che la paziente possa trarre alcun beneficio da quell’ambiente e men che meno godere di una vita di relazione con gli altri. Il Tribunale ha, dunque, rigettato l’argomento difensivo della madre, basato sullo stato di incoscienza della bambina, affermando che la valutazione deve essere condotta dal punto di vista del minore, senza considerare il benessere di terzi.
La decisione è stata confermata dai giudici d’appello, i quali, dal canto loro, hanno affermato che, in base alle circostanze del caso concreto, gli eventuali benefici di un trattamento domiciliare verrebbero vanificati da altri fattori dannosi per l’interesse della minore. La Corte Suprema ha dichiarato inammissibile il ricorso.
I giudici di Strasburgo hanno dichiarato manifestamente infondato il ricorso della madre, soffermandosi essenzialmente sulla dedotta violazione dell’art. 2 della Convenzione, con riferimento alla protezione del diritto alla vita della minore, e dell’art. 8, con riferimento al fatto che la decisione sul fine vita è stata presa dallo Stato e non dalla madre.
Quanto al primo aspetto, la Corte EDU ha scrutinato il caso concreto prendendo le mosse dai precedenti Lambert e altri c. Francia [GC], n. 46043/14, § 124, 2015 e Gard e altri c. Regno Unito (dec.), n. 39793/17, § 80, 27 giugno 2017, nel primo dei quali la questione dell’interruzione del mantenimento in vita era stata esaminata dal punto di vista degli obblighi positivi dello Stato (tenuti distinti nelle diverse ipotesi di interruzione terapeutica e di volontaria soppressione della vita). Ha, dunque, verificato se (1), nel diritto e nella prassi inglesi, esistesse un quadro normativo compatibile con i requisiti di cui all'articolo 2 cit.; (2) fosse stata operata una valutazione dei desideri precedentemente espressi dal paziente o dalle persone più prossime e anche della opinione di personale medico; (3) fosse stata garantita la possibilità di rivolgersi all’autorità giudiziaria in caso di incertezze circa la decisione migliore nell’interesse del paziente.
In merito al fine vita, peraltro, la Corte ha ricordato di avere già riconosciuto agli Stati un margine di discrezionalità, sia quanto alla possibilità di interrompere il mantenimento artificiale in vita, che avuto riguardo alla individuazione degli strumenti funzionali a garantire un bilanciamento tra la tutela della vita dei pazienti e la garanzia del rispetto della loro vita privata e familiare, margine di apprezzamento non illimitato, tuttavia, poiché la Corte si riserva di verificare di volta in volta se lo Stato abbia rispettato gli obblighi di cui all’art. 2 citato.
In merito al primo dei tre parametri suindicati, ha affermato la piena compatibilità tra la legislazione interna del Regno Unito a tutela del diritto alla vita e l’art. 2 della Convenzione [richiamando, oltre a Gard e altri c. Regno Unito cit., § 81, anche Glass v. the United Kingdom, no. 61827/00, (dec.), 18 marzo 2003].
Ha ritenuto pienamente soddisfatto anche il secondo criterio, essendo stati attentamente vagliati, non solo le opinioni e i desideri espressi dalla madre della bambina, ma anche le dichiarazioni dei medici e acquisita l’opinione di numerosi, qualificati esperti sulla trattabilità della paziente in ambiente domestico. Anzi, la Corte ha posto in risalto l’attenzione riservata dai giudici dell’appello alle prospettazioni della madre ricorrente e il fatto che gli interessi della minore fossero stati rappresentati in maniera autonoma da un tutore nominato dal Tribunale, con il patrocinio di avvocati esperti che hanno aderito alla domanda del Trust.
Quanto al terzo parametro, la Corte ha dato atto della natura procedimentalizzata della decisione, essendosi il Trust rivolto all’autorità giudiziaria per ottenere l’autorizzazione e gli ordini necessari a procedere alla interruzione del trattamento.
Riconosciuta la interferenza della decisione dei giudici nazionali con il diritto fondamentale presidiato dall’art. 8 della Convenzione, la Corte EDU ha però sottolineato la necessità di valutarlo alla stregua del contrapposto interesse a salvaguardare i diritti e le libertà della minore e confermato la legittimità dell’intervento dei tribunali in caso di divergenza di opinioni tra i genitori e i medici circa le scelte terapeutiche più opportune per i pazienti minori. I giudici nazionali, nella specie, non hanno adottato decisioni arbitrarie; in entrambi i gradi di giudizio il loro vaglio è stato meticoloso e approfondito; tutte le parti sono state autonomamente rappresentate; sono stati acquisiti pareri specialistici altamente qualificati; le motivazioni delle decisioni sono state chiare e complete.
L’applicazione, da parte del giudice nazionale, del criterio del migliore interesse del bambino rientra nell’ambito della discrezionalità concessa agli Stati, strumentale alla ricerca di un punto di equilibrio tra la tutela della vita del paziente e quella della vita privata e dell’autonomia personale (sul punto richiamando Vavřička e altri c. Repubblica ceca [GC], nn. 47621/13, 3867/14, 73094/14, 19298/15, 19306/15 e 43883/15, § 288, 8 Aprile 2021, in cui si è, per l’appunto, sancito l’obbligo degli Stati di porre l’interesse dei bambini al centro delle decisioni aventi a oggetto la loro salute e il loro sviluppo).
2. Il concetto di dignità della persona umana come super valore o valore dei valori
La vicenda riassunta chiama direttamente in causa il concetto di dignità della persona umana, definito “valore dei valori” o “diritto dei diritti”, da cui discendono tutti i diritti fondamentali, la cui centralità e intangibilità trovano pieno riconoscimento sia nelle Costituzioni del ventesimo secolo, che nelle Carte sovranazionali e conferma che non esistono diritti fondamentali incomprimibili, ma un unico super diritto che non può subire restrizioni, per l’appunto la dignità dell’uomo.
La Corte EDU, perfettamente consapevole della centralità del tema, ancora una volta si pronuncia in materia di bio diritto con un intervento che accende i riflettori sulla intricata tela dei rapporti tra i contrapposti interessi in gioco, nella specie quello di una madre che chiede il prolungamento del trattamento di mantenimento in vita della figlia minore, perché sia affermata la centralità del diritto alla vita familiare; e quello di garantire a una minore, in stato vegetativo irreversibile, la possibilità di morire con dignità.
La peculiarità del caso, con ogni evidenza, risiede proprio nel fatto che non viene in rilievo una volontà del soggetto interessato e che il conflitto tra gli interessi in gioco oppone l’ospedale che l’ha in cura e un esercente la potestà genitoriale sul soggetto.
Lo scrutinio dei giudici sovranazionali rappresenta, quindi, una ulteriore occasione per verificare come il bilanciamento possa essere condotto nel tentativo di individuare la soluzione che assicuri una effettiva tutela della dignità dell’uomo, riaffermandone in concreto la incondizionata intangibilità, ma sollecita più di una riflessione con riferimento al livello di copertura normativa di simili situazioni.
Il punto della decisione nel quale si coglie appieno la portata dello sforzo valutativo preceduto dall’aperto confronto degli opposti interessi in gioco è quello in cui la Corte EDU, una volta rilevato che lo stato vegetativo della bambina non consentiva di prendere in considerazione i benefici derivanti da un trasferimento in ambiente domestico, ha ritenuto che la soluzione dei giudici inglesi sia stata adottata nell’interesse della minore, la quale non avrebbe tratto beneficio dal prolungamento delle terapie invasive e ha giudicato recessivo il diritto della madre alla protezione dell’interesse alla integrità della vita familiare e a decidere per la propria figlia.
È evidente la linea di continuità seguita dalla Corte sovranazionale.
Anche nella vicenda Lambert e a. c. Francia (che aveva riguardato il caso di un soggetto tetraplegico in stato vegetativo, in cui si erano trovati a confronto la decisione dei medici curanti di interrompere la nutrizione artificiale secondo la normativa nazionale, c.d. legge “Leonetti” del 2005, e la volontà contraria dei genitori), la Corte Edu non ha ravvisato la violazione dei parametri convenzionali chiamati in causa, proprio perché la legislazione transalpina aveva procedimentalizzato quel tipo di decisione, garantendo la verifica giudiziale dell’operato svolto in ambiente medico anche con l’ausilio di specialisti. Lo stesso è avvenuto in Gard e altri c. Regno Unito del 2017 e in Afiri e Biddarri c. Francia del 2018: chiamata ancora una volta a verificare la compatibilità convenzionale della scelta dei sanitari di interrompere le cure nei confronti di due minori in condizioni irreversibili, malgrado il contrario avviso dei genitori, la Corte ha escluso la violazione dei parametri di riferimento, perché le legislazioni britannica e francese avevano fatto corretto uso del margine di apprezzamento riconosciuto agli Stati in ordine alle modalità di interruzione di trattamenti sanitari non salvifici, mettendo a punto un modello procedimentale che aveva garantito l’effettiva partecipazione di tutti i soggetti coinvolti, il vaglio – anche mediato da pareri specialistici – delle varie, contrapposte opinioni e un effettivo controllo giudiziale sulla decisione di interrompere il trattamento. Il che pone tali interventi statuali fuori dal cono della violazione dell’obbligo procedurale positivo di protezione della vita del paziente.
3. Il fine vita e la legge n. 219 del 2017; gli artt. 2 e 3 della legge n. 219/2017; le forme di tutela per i casi di minori e incapaci
La decisione in commento offre, poi, lo spunto per riflettere sul tema, lungamente dibattuto nel nostro Paese e ancora attuale, del fine vita che ha trovato un positivo riconoscimento nella legge n. 219 del 2017, in vigore dal 31 gennaio 2018, recante “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”.
L’art. 2 della legge citata sembra introdotta al fine di emarginare condotte di c.d. accanimento terapeutico, rispondendo all’esigenza da più parti evidenziata della possibilità del rifiuto (informato) di cure sproporzionate da parte del paziente, raggiungendo anche l’obiettivo di scongiurare eventuali accuse a carico del medico (quali i reati di omicidio del consenziente o di aiuto al suicidio), senza tuttavia introdurre un sistema di legalizzazione dell’eutanasia. In particolare, è il comma 2 della norma a prevedere che, nei casi di <>, il medico si astenga da una irragionevole somministrazione di cure e trattamenti inutili o sproporzionati, potendo ricorrere alla sedazione palliativa nel caso di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari.
Tale disposizione sembra disporre a carico del sanitario un vero obbligo di astensione/interruzione delle cure che egli ritenga inutili. Obbligo che sembra superare anche la diversa volontà del paziente o dei suoi familiari.
L’interrogativo, nel silenzio della legge, è dunque quello di stabilire se la disciplina contenuta nelle disposizioni in commento possa, in taluni casi, ledere gli interessi del paziente, soprattutto alla luce della considerazione che la scelta del sanitario è, in tali casi, assunta senza alcuna procedimentalizzazione, non essendo neppure previsto che egli, in presenza di una diversa volontà del malato o dei suoi familiari, svolga attività di consultazione con i congiunti del paziente o con esperti circa l’opportunità e doverosità della scelta che intende praticare. Nei termini così riassunti, non è azzardato affermare che la disciplina positiva si pone in antitesi con la protezione dei beni in gioco e con la giurisprudenza della Corte Edu, secondo il protocollo da ultimo richiamato in Parfitt v. UK (con specifico riferimento al parametro n. 3, che garantisce la possibilità di rivolgersi all’autorità giudiziaria in caso di incertezze circa la decisione migliore nell’interesse del paziente).
Allo stato, qualche indicazione per una corretta interpretazione della normativa in commento, può forse trarsi dalla norma cardine sul controllo giudiziario in materia, contenuta nell’art. 3 della legge n. 219/2017, quella cioè che regola il caso del rifiuto delle cure proposte dal medico, espresso dal rappresentante legale del soggetto in cura, di cui all’art. 3, c. 5, legge n. 219/2017 [richiamato anche dall’art. 4, c. 5 stessa legge, con specifico riferimento all’esistenza di disposizioni anticipate di trattamento (DAT), in caso di contrasto tra il soggetto fiduciario e il medico].
Secondo il modello procedurale ricavabile da tale combinato disposto, figura centrale del controllo giudiziale è il giudice tutelare. Pertanto, nel silenzio della legge, non è azzardato ipotizzare che a tale figura possa essere demandato il controllo giudiziario su decisioni inerenti al fine vita, del tipo di quelle scrutinate dalla Corte EDU nella sentenza in commento e che a costui spetterà, in definitiva, all’esito di una istruttoria il più possibile approfondita, acquisire le opinioni dei soggetti coinvolti (personale medico e parenti innanzitutto), con l’intervento di esperti qualificati, per poter addivenire a una composizione degli interessi in gioco coerente con il quadro normativo di riferimento e con i principi di matrice costituzionale e sovra nazionale sopra delineati, garantendo così un maggior grado di tutela alla dignità del paziente, secondo il protocollo procedurale che la Corte EDU ha ribadito in Parfitt v. U.K.
4. Le proposte di riforma e la figura del curatore speciale
Spetterà, dunque, al giudice comune sciogliere delicati dubbi, integrando le eventuali lacune legislative mediante l’applicazione dei principi di matrice convenzionale o, in caso di irresolubilità di essi, mediante l’incidente di incostituzionalità del testo scritto.
Alcune indicazioni utili, peraltro, si rinvengono nella sentenza n. 144 del 2019, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate, per erroneità del presupposto interpretativo, le questioni di legittimità costituzionale – sollevate dal Giudice tutelare del Tribunale di Pavia in riferimento agli artt. 2, 3, 13 e 32, Cost. – dell’art. 3, c. 4 e 5, della legge n. 219/2017, nella parte in cui stabilisce che l'amministratore di sostegno, la cui nomina preveda l'assistenza necessaria o la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, in assenza delle disposizioni anticipate di trattamento, possa rifiutare, senza l'autorizzazione del giudice tutelare, le cure necessarie al mantenimento in vita dell'amministrato. In quella sede, il giudice delle leggi ha ritenuto che l'esegesi della norma, tenuto conto dei principi che conformano l'amministrazione di sostegno, porta a escludere che il conferimento della rappresentanza esclusiva in ambito sanitario rechi con sé, anche e necessariamente, il potere di rifiutare i trattamenti sanitari necessari al mantenimento in vita. Le norme censurate si limitano a disciplinare il caso in cui l'amministratore di sostegno abbia ricevuto anche tale potere: spetta al giudice tutelare, tuttavia, attribuirglielo in occasione della nomina – laddove in concreto già ne ricorra l'esigenza, perché le condizioni di salute del beneficiario sono tali da rendere necessaria una decisione sul prestare o non il consenso a trattamenti sanitari di sostegno vitale – o successivamente, allorché il decorso della patologia del beneficiario specificamente lo richieda. Secondo la giurisprudenza costituzionale, l'ambito dei poteri dell'amministratore di sostegno è puntualmente correlato alle caratteristiche del caso concreto, secondo quanto previsto dal giudice tutelare nel provvedimento di nomina.
Pur nella diversità del caso sottostante, sembra di cogliere nella pronuncia richiamata un chiaro riferimento al ruolo centrale del giudice tutelare nel risolvere conflitti rappresentati dalle divergenti posizioni dei soggetti cui è deputata la cura del paziente incapace di esprimere una propria volontà e la tutela della vita, anche nella sua proiezione familiare.
Qualche ulteriore, utile indicazione, ai fini della procedimentalizzazione delle scelte sul fine vita riguardante minori, sembra ricavarsi anche dai lavori della Commissione Luiso, contenente proposte di interventi in materia di processo civile. Il diritto vivente, infatti, ha già da tempo previsto la figura del curatore speciale del minore nei giudizi de potestate (ricavandola dal combinato disposto di cui agli art. 336, c. 1 e 4, cod. civ. e 78, c. 2, cod. proc. civ., cfr., ex multis, cass. sez. 1, n. 1471 del 25/1/2021, Rv. 660382-01; n. 5256 del 6/3/2018, Rv. 647744-01) e la Commissione propone la modifica dell’art. 336 cod. civ. e dell’art. 78 cod. proc. civ. nel senso di valorizzarla al di fuori dei procedimenti de potestate, facendone una figura di carattere generale, cui il giudice può ricorrere in tutti i casi di potenziale conflitto di interessi tra il minore e i soggetti esercenti la potestà genitoriale e alla quale attribuire la rappresentanza processuale e specifici poteri di rappresentanza sostanziale del minore.
5.Le acque agitate del giudice comune europeo.
La straziante vicenda umana che fa da sfondo al caso esaminato pone in risalto il tema del difficile compito del giudice comune, chiamato a “dipanare” l’intricata tela dei rapporti tra i diritti fondamentali coinvolti, e quello della centralità del ruolo dell’interprete tra testo scritto e esperienza. Ruolo che oggi è divenuto ancor più complesso per più ordini di ragioni: la dilatazione della locuzione “testo scritto”, innanzitutto, vero e proprio crogiolo di norme prodotte a livello nazionale e sovranazionale, talvolta sovrapposte in maniera non coerente; la complessità delle materie oggetto di interventi legislativi a lungo attesi, soprattutto in settori come il bio diritto, nei quali la conflittualità tra i vari interessi in gioco è massima e spesso causa stessa dei ritardi; la sensibilità dei temi trattati; infine, le ricadute sociali delle scelte operate dal legislatore.
In questo oceano agitato nuota il giudice comune europeo che Antonio Ruggeri descrive da anni magistralmente come un giurista chiamato a ricavare, dal coacervo delle norme rinvenibili nel sistema multilivello che presidia i diritti fondamentali, tutti astrattamente intangibili, la regola iuris che attui la miglior tutela del super valore della dignità della persona umana, questo concretamente insopprimibile. In un tale contesto, spetta al legislatore non solo il compito di produrre norme che, pur garantendo ineludibili spazi di discrezionalità, siano chiare e coerenti, ma anche quello di assicurare al giudice lo strumentario necessario per portare a termine il suo, diverso compito. E, in questa prospettiva, non pare ultroneo richiamare la opportunità di recepire e implementare gli strumenti che il diritto unitario e convenzionale appronta per realizzare la tutela dei diritti fondamentali, anche attraverso l’interazione proficua tra le Corti nazionali e sovranazionali.
Il riferimento è alla occasione perduta, ci si augura solo temporaneamente, di introdurre, attraverso la ratifica del protocollo 16 annesso alla CEDU, la facoltà per le Alte Corti delle Parti contraenti di richiedere, nel corso del procedimento interno, un parere consultivo non vincolante alla Corte Europea dei diritti dell’uomo su questioni di principio riguardanti la interpretazione o l’applicazione dei diritti e delle libertà previsti nella Convenzione stessa o nei suoi Protocolli. Proprio il bio diritto, a ben guardare, offre numerosi spunti per mettere in pratica quella osmosi di informazioni utile per la individuazione della regola che realizzi la miglior tutela del diritto fondamentale in gioco, trattandosi di un ambito nel quale la giurisprudenza ha già dimostrato, con le note vicende Cappato, Welby e Englaro, la capacità di svolgere un ruolo fondamentale nell’elaborazione di soluzioni, in parte recepite dallo stesso legislatore, nello sforzo costante di realizzare la tutela di quel valore insopprimibile.
Non punibile il vilipendio dell’ordine giudiziario. Vox populi?
di Rosario Russo
Il 14 febbraio 2016, nel corso di un’affollata riunione di partito (mandata in onda dal TG1), l’Onorevole Sempronio proclamò: «Qualcuno usa gli stronzi che mal amministrano la giustizia. Difenderò qualunque leghista che venga indagato da quella schifezza che è la magistratura italiana che è un cancro da estirpare».
Pochi giorni fa, il Giudice torinese ha dichiarato non punibile tale condotta di Sempronio, imputato del reato di cui all’art. 290 c.p. (delitto sanzionato con pena esclusivamente pecuniaria), ai sensi dell’art. 131 bis c.p. Questa esimente dalla sanzione penale consiste in una fattispecie composita. Non solo è richiesto che, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, l’offesa sia tenue, ma occorre che sia anche particolarmente tenue, cioè di scarsissima intensità. Il che comporta che l’esimente non possa applicarsi, e debba emettersi condanna, se l’offesa (nella specie il vilipendio dell’ordine giudiziario) non sia particolarmente tenue ovvero sia addirittura non tenue, rivelandosi invece grave.
Nonostante l’inerzia dovuta al pensionamento, mi è venuto il ghiribizzo di chiedermi quale espressione oltraggiosa, oggettivamente più grave di quella profferita da Sempronio, avrebbe potuto integrare il reato di vilipendio in danno dell’Ordine giudiziario, senza esentare da pena il colpevole.
Pur non essendo un esperto in contumelie, ho scartato subito quelle offese assai comuni che, riguardando l’onestà e la moralità dei parenti o del coniuge della persona, suonerebbero soltanto ridicole (e quindi oggettivamente inidonee all’offesa) se profferite nei confronti di un ‘Ordine’, per giunta giudiziario.
Ho quindi intrapreso una lotta filologica con il lessico della nostra lingua per rinvenire predicati o aggettivi più affilati e insolenti di quelli adottati da Sempronio e, in questa direzione, ho dovuto constatare intanto che:
-‘stronzo’ [«massa fecale solida di forma cilindrica»: Vocabolario Treccani]: ha un’ampia rete di significati allusivi e spregiativi, tra cui vigliacco, canaglia, carogna, infame, disonesto, malfido, sleale; i linguisti registrano anche un uso scherzoso del termine tra vecchi amici, ma con tutta la buona volontà non è consentito individuare trasporti amicali nell’espressione di Sempronio;
-‘schifezza’: in perfetta sintonia con il precedente lemma, indica la sensazione assai spiacevole e addirittura disgustosa, nauseante e ripugnate di chiunque abbia a che fare con l’Ordine giudiziario, siccome precedentemente non a caso qualificato;
-‘cancro’: qui non è un segno zodiacale, ma una neoplasia o un tumore maligno; in senso figurato rappresenta il male assoluto, che comporta l’annientamento se non venga precocemente e vittoriosamente ‘estirpato’.
Confesso che la mia sfida linguistica non ha avuto successo, perché non sono riuscito ad individuare offese più gravi di quelle adoperate da Sempronio, perciò tali da sottrarsi in teoria alla menzionata causa di non punibilità.
Ho dovuto concludere che, se passi in giudicato la decisione torinese (di cui leggeremo con attenzione la motivazione), il reato di vilipendio dell’ordine giudiziario sarebbe sempre non punibile o – detto in altri termini – che la magistratura sarebbe impunemente esposta a qualunque forma di vilipendio. E, poiché l’Ordine giudiziario non ha soggettività giuridica esterna, l’autore del vilipendio sarebbe praticamente esente anche da responsabilità civile (art. 651 bis c.p.p.).
Mi sono anche chiesto quanto abbia inciso sulla decisione torinese la situazione di degrado in cui da un paio d’anni versa – soprattutto a seguito dello scandalo delle «toghe sporche» - l’istituzione giudiziaria.
La risposta non era e non è rassicurante (cfr. R. RUSSO, Giustizia è sfatta. Appunti per un accorato necrologio, 8 gennaio 2020, in Judicium.it).
Mi terrorizza infine un ultimo drammatico dubbio: e se il Giudice torinese avesse inteso, se pure inconsciamente, interpretare la vox populi?
Una ragione in più per leggere la motivazione della decisione, meditare e soprattutto rimediare, se ...siamo ancora in tempo.
Il Processo civile telematico in Cassazione: la prima sentenza pubblicata!
di Franco De Stefano
Il 14 maggio 2021, con il n. 13158, è stata pubblicata la prima sentenza della Corte suprema di cassazione in via telematica: come si potrà notare, risulta sostanzialmente replicata la struttura dei documenti e della loro pubblicazione che il PCT conosce per i gradi di merito da molti anni. Dopo il primo periodo di avvio, può dirsi in pieno fervore l’attività per rendere operativo e fruibile un applicativo complesso, pensato e progettato specificamente per la Corte di legittimità ed il suo processo civile, che ha bisogno ancora di molti aggiustamenti sul campo e, soprattutto, di una paziente cooperazione di tutti gli operatori coinvolti, per apprenderne il funzionamento ed indicare ai responsabili i punti critici cui ovviare. Grande disponibilità è stata finora dimostrata da tutti i soggetti che hanno preso parte alla sperimentazione indispensabile per l’avvio; ed i risultati vanno ancora calibrati sulle effettive potenzialità dell’applicativo, che si auspica sarà all’altezza delle esigentissime attese. Per il momento, comunque, proseguono intense le attività di formazione degli utenti interni alla Corte e, soprattutto, di superamento di numerosi ostacoli e difficoltà, di ordine pratico ma pure progettuale, che si stanno via via incontrando e che hanno reso possibile finora, nonostante l’entusiasmo di alcuni e la sincera e generosa disponibilità, la pubblicazione di una sola sentenza. Se Roma non è stata fatta in un giorno, almeno abbiamo iniziato: e con il piede giusto; ed il primo dei diecimila passi di questa lunga marcia verso la telematizzazione del processo civile di legittimità almeno è stato fatto…
Dante e il diritto
Giustizia insieme prosegue il suo viaggio di conoscenza dedicato a "Dante e il diritto" e, ancora una volta con il Prof.Justin Steinberg, docente di letteratura italiana dell'Università di Chicago, autore del primo saggio dedicato a "Dante e l'eccezione, affronta oggi il tema, ricco di suggestioni anche per il giurista, dei miracoli "costituzionali".
2.I miracoli costituzionali di Dante (Monarchia 2.4 and Inferno 8-9)*
di Justin Steinberg
Estratto da Lettere Italiane
2016/3 ~ a. 68 Anno LXVIII • numero 3 • 2016
*Traduzione realizzata da Anna Carocci e Geri Ferrara
ABSTRACT
Political theorists have long invoked the miracle as an analogue to the sovereign’s right to operate outside the law in times of crisis. Just as God can intervene within the reigning order of creation by directly suspending the laws of nature, the Monarch can suspend the constitutional laws of the community he is charged to protect – a secular miracle. Dante, however, does not subscribe to this voluntarist view of the miracle. His own account is much more normative – almost “constitutional.” In the first part of this essay, I argue that Dante’s discussion of miracles in his treatise Monarchia is a direct response to the absolutist model of the miracle as it was promoted by canon lawyers. In the second section, I propose that the addresses to the reader in the Commedia should themselves be understood as a kind of narrative miracle.
I filosofi politici hanno a lungo equiparato il miracolo al diritto di operare al di là della legge che il sovrano si arroga in tempo di crisi. Così come Dio può intervenire entro l’ordine vigente della creazione sospendendo le leggi della natura, allo stesso modo il Monarca può sospendere le leggi costituzionali della comunità che ha l’incarico di proteggere: si tratta di un miracolo secolarizzato. Dante, però, non aderisce a questa visione volontaristica del miracolo; il suo resoconto è molto più normativo, quasi “costituzionale”. Nella prima parte di questo saggio sostengo che la trattazione dantesca dei miracoli nella Monarchia sia una risposta diretta a quel modello assolutista del miracolo che era promosso dai canonisti. Nella seconda sezione propongo che gli appelli al lettore nella Commedia vadano letti a loro volta come una sorta di miracolo della narrazione.
Per molto tempo, i teorici politici hanno invocato il miracolo come un equivalente del diritto del sovrano ad agire al di fuori della legge in tempi di crisi. Come Dio può intervenire nell’ordine vigente della creazione, sospendendo direttamente le leggi della natura, il Monarca può sospendere le leggi costituzionali della comunità che ha l’incarico di proteggere: un miracolo secolarizzato. È un concetto politico-teologico che, a dispetto della sua storia complessa e insidiosa, continua a influenzare le nostre idee sul rapporto tra le leggi di una nazione e coloro che sono incaricati di difenderle. Eppure, la rappresentazione del miracolo come un atto divino completamente estraneo alle leggi della creazione è solo una delle possibili versioni del funzionamento dei miracoli: nel tardo Medioevo era anzi ancora un punto di vista minoritario, sostenuto soprattutto dai partigiani dell’assolutismo papale.
Dante era profondamente consapevole di questo contesto politico: i suoi commenti dovrebbero perciò essere interpretati in forma dialettica, come strumento per controbilanciare il peso dei miracoli nella legittimazione dell’assolutismo papale. La sua analisi dei miracoli nella Monarchia, ad esempio, è una risposta al lavoro di scavo e selezione cui i giuristi canonici sottoponevano gli scritti teologici per giustificare i “miracoli” delle dispense papali anche in casi estremi, quando queste dispense ribaltavano l’ordine prestabilito della Chiesa, lo status ecclesiae, sospendendo temporaneamente la legge naturale e/o divina. Dante non si allinea con questa visione volontaristica del miracolo: le sue considerazioni sono molto più normative – quasi "costituzionali".
Per due volte, nella teorizzazione sui miracoli che mette a punto durante la sua analisi della storia romana nel capitolo IV del libro II della Monarchia, Dante cita la Summa Contra Gentiles di Tommaso d'Aquino. Questi riferimenti mostrano che è in accordo con la categorizzazione dei diversi gradi di miracoli fatta dall’Aquinate: riprendendo la classificazione del Dottore Angelico, Dante propone un’interpretazione dei miracoli non come qualcosa che si eleva al di sopra o contro la natura ma come qualcosa al di là della natura stessa, e in seguito contrappone questa concezione più normativa e ordinata del miracolo alla concezione assolutista dei giuristi canonici.
In queste pagine, analizzerò il modo in cui Dante costruisce e mette alla prova la sua concezione normativa attraverso una lettura ravvicinata della sua analisi dei miracoli nella Monarchia; in conclusione, esaminerò in breve come la concezione dantesca dei miracoli abbia un’influenza anche sulla sua poetica. Analizzando la scena della discesa dell’angelo davanti alle porte dell’Inferno in Inferno VIII-IX, mi interrogherò su cosa può significare, in termini narrativi, quando l’artista sovrano interviene direttamente, miracolosamente, nella sua stessa creazione.
Nel II libro della Monarchia, dopo aver affermato che il genere umano ha bisogno di un impero universale per prosperare, Dante si chiede se l’impero romano fosse stato scelto come incarnazione di questo principio. Per sostenere questa affermazione, deve dimostrare che l’impero romano si è affermato in modo legale e non semplicemente con la violenza. Partendo dalla premessa che qualsiasi cosa Dio voglia nella sua provvidenza è giusta, cerca di mettere in evidenza i vari segni della provvidenza divina che si sono rivelati nella storia della fondazione dell’impero romano. I segni più significativi del destino di Roma sono i miracoli compiuti da Dio in suo favore, in quanto diretta espressione del piano divino. La giustificazione teologica che Dante fornisce all’imperialismo e alla colonizzazione di Roma è stata a lungo motivo di disagio per gli studiosi moderni, ai cui occhi la tesi dei miracoli divini, insieme a quella secondo cui le vittorie militari romane erano l’equivalente di un duello giudiziario, sembra estremamente debole, addirittura puerile. Senza contare che la descrizione dantesca del destino civilizzatore di Roma può sembrare troppo vicina alla propaganda sciovinista di poteri imperiali più recenti. Eppure, c’è una profonda differenza tra il giustificare una violenza fondatrice e in più appartenente a un passato lontano e il giustificare una violenza contemporanea perpetrata da una nazione imperialista. Nella sua storia teologica, Dante cerca effettivamente di arginare quelle istituzioni politiche in via di affermazione che avrebbero costituito le basi per lo stato moderno, ovvero la Chiesa da poco centralizzata e la monarchia francese, «che usurpano i pubblici poteri nella mendace convinzione che il popolo romano abbia fatto lo stesso» (II.i.6). Di fronte a queste nuove rivendicazioni di potere sovrano e giurisdizione territorializzata, Dante controbatte con i principi universali di un diritto comune e condiviso. In quest’ottica, i duelli giudiziari – legati alla giustizia comunitaria, ai rituali di vecchia data e al valore fattuale di ciò che Peter Brown ha descritto come un «miracolo quotidiano» – contrastano nettamente con gli statuti emanati dall'alto di uno stato razionalizzato. Nella sua visione giuridica, Dante privilegia le norme universali rispetto alle semplici leggi positive. Anche quando il sovrano divino sospende miracolosamente le leggi della natura (leges), i principi costituzionali della provvidenza (iura) continuano a regnare. Dante sottolinea questa concezione normativa o "costituzionale" nella sua definizione dei miracoli all'inizio del quarto capitolo:
Illud quoque quod ad sui perfectionem miraculorum suffragio iuvatur, est a Deo volitum; et per consequents de iure fit. Et quod ista sit vera patet quia, sicut dicit Thomas in tertio suo contra Gentiles, miraculum est quod preter ordinem in rebus comuniter institutum divinitus fit. (II.iv.1)
(Anche ciò che si giova dell’intervento dei miracoli per raggiungere la propria perfezione è voluto da Dio; e di conseguenza avviene di diritto. E che ciò sia vero è palese, perché, come dice Tommaso nel terzo libro della sua Summa Contra Gentiles, miracolo è ciò che avviene per intervento divino fuori dall’ordine normale delle cose.)
«Fuori dell'ordine normale delle cose» («preter ordinem in rebus comuniter institutum»): con questa espressione, Dante mostra di aderire a una concezione del miracolo "ordinata" piuttosto che "assoluta", lucidamente articolata da Tommaso d’Aquino nella sua Summa Contra Gentiles.
Essendo uno dei pochi scritti teorici contemporanei cui Dante fa esplicito riferimento, la trattazione dei miracoli di Tommaso d'Aquino merita di essere esaminata nel dettaglio. Per l'Aquinate, i miracoli non sospendono le inesorabili leggi della natura, ma occupano piuttosto uno spazio parallelo, al di fuori (praeter) del normale corso della natura («consuetus cursus Naturae»). L'ordine naturale consiste in ciò che accade "di solito" (solet) e "nella maggior parte dei casi" (frequenter) – e non, come si penserà durante l’Illuminismo, in un insieme di inesorabili leggi fisiche. Alla luce di questa prospettiva basata sulla regola piuttosto che sulla legge, Tommaso ammette che, senza mai violare la divina provvidenza, in alcune rare occasioni la natura può commettere un errore, e, ad esempio, generare un uomo con sei dita. E, se nel creato si possono verificare prodigi di questo tipo per cause secondarie, di certo Dio può agire in modo diretto, al di fuori del normale corso della natura, per compiere un miracolo. Nell’agire al di fuori del normale ordine della natura Dio manifesta il suo potere, dimostrando che la natura intera è soggetta alla sua volontà. E tuttavia sorge spontanea la domanda: essendo onnipotente, Dio può agire anche al di fuori della sua stessa provvidenza? Tommaso d’Aquino risponde riecheggiando l’opinione più diffusa: può, se consideriamo il suo potere “assoluto” in senso astratto; ma, essendo immutabile, è impossibile che Dio desideri qualcosa che in precedenza aveva rifiutato, o impari qualcosa di nuovo, o lo realizzi in un modo diverso. Dio non cambierà mai opinione sulla Creazione; di conseguenza, l’ordine stabilito della natura e della grazia è al sicuro da qualsiasi futura modifica divina. Simile all’imparziale monarca di Dante, che può essere al di sopra della legge per quanto riguarda i suoi mezzi ma non i suoi fini, il sovrano divino dell’Aquinate è limitato dalla sua stessa giustizia. Fin qui l’interpretazione dei miracoli di Dante e di Tommaso d’Aquino è stata messa a confronto con quella moderna; ma non si vuole suggerire che le opinioni medievali sui miracoli fossero omogenee o indifferenziate. Per quanto Tommaso sia un buon rappresentante della visione maggioritaria, all’epoca di Dante circolavano opinioni diverse, che insistevano su una prospettiva più “volontaristica” del rapporto di Dio con la sua creazione. Ad esempio, secondo il teologo Duns Scoto potenza assoluta e potenza ordinata non costituiscono due prospettive dell’onnipotenza divina bensì due diverse forme di azione divina. Il Dio-sovrano può agire in base al suo potere ordinato (de iure) oppure in base al suo potere assoluto (de facto), cioè miracolosamente. Anche quando agisce contro l’ordine da lui creato, Dio non agisce mai fuor di misura perché ogni suo desiderio è legge. Dante doveva essere particolarmente sensibile al modo in cui giuristi canonici come Giovanni d’Andrea o come l’Ostiense piegavano a scopi politi questa interpretazione assolutista dell’azione divina. L’Ostiense, ad esempio, ignorando la precedente e consolidata dottrina, sosteneva che il papa, nella pienezza dei suoi poteri, poteva sciogliere anche i fondamentali voti monastici di povertà e castità. Purché fosse per il bene superiore della Chiesa, in particolari circostanze poteva modificare la natura dello stato monastico «non attraverso il suo potere ordinato ma attraverso il suo potere assoluto».
Nella Monarchia, Dante rifiuta gli abusi di questo tipo di miracoli papali, insistendo sul fatto che ci sono dei limiti anche all’azione divina: Dio non può volere ciò che non vuole (III.ii.4); non può cambiare il passato e disfare cose già fatte (III.vi.7); non può assolvere qualcuno che non si è ancora pentito (III.viii.7). E, se Dio non è libero dalle leggi dell’universo cui lui stesso ha dato ordine, è ovvio che il suo vicario sulla terra debba essere ancora più vincolato, come Guido da Montefeltro apprende dal demonio-avvocato alla fine del XXVII canto dell’Inferno.
Esaminiamo invece i miracoli della storia di Roma che Dante riprende da storici e poeti pagani (soprattutto Lucano e Virgilio) e inserisce nella Monarchia: 1) il santo scudo o “ancile” che cade dal cielo durante il sacrificio di Numa Pompilio; 2) le strida dell’oca sulla cima del Campidoglio, che avvertono le guardie dell’attacco dei Galli; 3) l’improvvisa grandinata che trattiene Annibale e infine gli impedisce di conquistare Roma nella Seconda Guerra Punica; 4) Clelia, tenuta in ostaggio, che rompe le catene e rientra a Roma attraversando il Tevere durante l’assedio di Porsenna. Tutti e quattro questi avvenimenti sono connessi con un’interpretazione preternaturale del miracolo, e, come dimostrerò nelle prossime pagine, sostengono una visione “ordinata” piuttosto che “assolutista” della creazione divina.
Com’è noto, per molta dell’analisi del destino provvidenziale di Roma della Monarchia Dante sfrutta e rielabora un ragionamento molto simile messo a punto nel Convivio (IV,5). In questo passo Dante divide i prodigi romani voluti dal cielo in due categorie, entrambe riconducibili alla promessa che Dio fa a Mosè nell’Esodo di salvare gli israeliti «con mano potente e braccio teso». Nella prima categoria Dante colloca gli “strumenti” attraverso cui possiamo percepire la potenza del braccio teso di Dio («più volte parve esse braccia di Dio essere presenti», IV.v.17): sono modelli di virtù romana, che comprendono Fabrizio, Curio, Mucio, Bruto, Torquato, i Dieci, i Drusi, Regolo, Cincinnato, Camillo e Catone. Nella seconda categoria elenca le azioni in cui possiamo vedere il diretto intervento di Dio nella storia per mezzo delle «mani propie»: la prima battaglia tra Albani e Romani, l’avvertimento dell’oca durante l’attacco dei Galli, la vittoria di Scipione contro Annibale e la difesa della libertà compiuta dal nuovo cittadino Cicerone contro Catilina. Nel II libro della Monarchia, Dante seleziona con cura molti di questi esempi e li riorganizza e ridispone in tre sezioni: la sezione dei miracoli (II.iv), la sezione del governo virtuoso dei Romani (II.v) e la sezione dei duelli o combattimenti giudiziari (II.ix). Il riuso dello stesso materiale nei due lavori è talmente notevole che, se lo si confronta caso per caso, ci permette uno sguardo ravvicinato al laboratorio poetico di Dante.
Nella sezione sui miracoli della Monarchia, infatti, Dante apporta una serie di mirate e significative modifiche al materiale del Convivio. In primo luogo, due dei miracoli sono nuovi: lo scudo che cade dal cielo – trasportato dai forti venti libici, secondo l’invocata autorità di Lucano – e l’attraversamento del Tevere da parte di Clelia. Il terzo miracolo è ripreso dal Convivio: la vittoria romana contro Annibale; ma, mentre nel primo lavoro questa vittoria è dipesa dal «benedetto Scipione», che ha agito come strumento di Dio, nella Monarchia Dante la attribuisce a una miracolosa grandinata. La storia dell’avvertimento dell’oca è l’esempio più vicino al testo del Convivio, ma, anche in questo caso, Dante aggiunge un dettaglio importante, che contraddice addirittura la sua fonte pagana: se secondo Livio l’oca era allevata in Campidoglio, in quanto sacra a Giunone, nella Monarchia non era mai stata vista prima.
Attraverso questo sottile gioco di rielaborazioni dei materiali preesistenti, Dante eleva la sua analisi dei miracoli romani dal piano soggettivo e fenomenologico (sono ciò che causa meraviglia) a quello obiettivo e ontologico (sono causati dalla diretta azione divina senza la mediazione di agenti secondari). Conferendo ai suoi miracoli romani una cornice filosofia e teorica di cui erano privi nel Convivio, Dante fa il suo ingresso nel dibattito politico-teologico.
Anche con queste modifiche, però, i prodigi romani rimangono sostanzialmente “normativi” –preternaturali piuttosto che soprannaturali, rientrano nel livello più basso della gerarchia dei miracoli che Tommaso d’Aquino descrive nel Contra Gentiles (III.101). Per l’Aquinate esistono tre gradi di miracoli. I miracoli di primo grado (soprannaturali) sono gli eventi in cui Dio compie qualcosa che la natura non avrebbe mai potuto compiere – come il sole che inverte il suo corso o si ferma, o le acque del mare che si aprono. I miracoli di secondo grado (contro natura) sono quelli in cui Dio compie qualcosa possibile per la natura, ma con ordine inverso: la vita dopo la morte; la vista dopo la cecità; il camminare dopo la paralisi. Infine, i miracoli del terzo e più basso grado (preternaturali) sono quelli in cui Dio compie qualcosa normalmente compiuto dalla natura, ma senza impiegare i «principi della natura»: una pioggia improvvisa da un cielo senza nubi, una febbre che guarisce senza cure.
Nella Monarchia, Dante modifica gli eventi mitici della storia di Roma in modo da farli rientrare nel terzo grado dei miracoli teorizzato da Tommaso d’Aquino. In ciascuno dei casi mette in primo piano un singolo fenomeno – uno scudo trasportato da un vento potente, un’oca che appare dal nulla, un’improvvisa grandinata, un’eccezionale prova di forza da parte di una donna – che potrebbe accadere in modo naturale ma che, in questi esempi, si verifica al di fuori del normale corso delle cause secondarie. Un caso particolarmente evidente è la Guerra Punica: Dante sposta l’attenzione dalla virtù di Scipione all’improvvisa grandinata perché Tommaso usa la pioggia inaspettata come esempio dei miracoli di terzo grado.
La grandinata provvidenziale è in linea con gli scopi di Dante anche perché ricorda la micidiale grandine che Dio scatena contro l’Egitto, la settima delle dieci piaghe dell’Esodo. Dante getta le premesse per questa associazione quando, in apertura del capitolo, nomina esplicitamente la terza piaga (le zanzare) come esempio del diretto intervento divino nel creato. Ancora una volta, egli usa la piaga come un segno dell’intervento della “mano” di Dio nel testo della storia: «Digitus Dei est hic» (Monarchia II.iv.2; Esodo 8.19). L’entità miracolosa di questo fenomeno potenzialmente naturale, continua a spiegare Dante, è dimostrata quando i maghi del faraone, che possono ricorrere solo ai «principi di natura» (naturalibis principiis), non riescono a ripeterlo. Il dettaglio dei principi di natura non è presente nel racconto dell’Esodo, ma deriva invece dalla trattazione di Tommaso d’Aquino dei miracoli di terzo grado, che si verificano «absque principiis naturae operantibus», come quando piove «sine operatione principiorum naturae». Per mezzo di questa sottile interpolazione della narrazione dell’Esodo, Dante tenta di fondere i prodigi della Roma antica e i miracoli di terzo grado di Tommaso con i presagi del Vecchio Testamento.
Per riassumere: nel II libro della Monarchia, Dante ricorre ai miracoli preternaturali per legittimare la violenza fondativa che istituisce il diritto e l’impero di Roma; nel III libro, tuttavia, rifiuta l’uso dei miracoli soprannaturali come giustificazione di un’azione illimitata del sovrano pontefice. Mentre l’Ostiense sostiene che, come talvolta Dio agisce in modo assoluto all’interno dell’universo, violandone le leggi ordinarie, il papa possiede il potere assoluto di sciogliere un monaco dai suoi voti, Dante ricorda ai canonisti che, come il papa «non potrebbe […] far sì che la terra andasse verso l’alto, né che il fuoco si rivolgesse verso il basso in virtù dell’ufficio affidatogli» (III.vii.5), così non può togliere una moglie a un marito ancora vivo e legarla a un altro o assolvere qualcuno che non si sia prima pentito.
Questo contrasto tra l'Antico Testamento, i miracoli preternaturali di terzo grado e i miracoli cristologici e soprannaturali di primo e secondo grado aiuta anche a spiegare l'ultima difficile frase del quarto capitolo. Dante conclude così la sua analisi della miracolosa provvidenza di Roma:
Sic Illum prorsus operari decebet qui cuncta sub ordinis pulcritudine ab ecterno providit, ut qui visibilis erat miracula pro invisibilibus ostensurus, idem invisibilis pro visibilibus illa ostenderet. (II.iv.11)
(Così conveniva che operasse colui che dall’eternità tutto provvide nella bellezza del suo ordine, affinché chi si sarebbe fatto visibile per dare prove miracolose delle cose invisibili, anche da invisibile le mostrasse come visibili.)
Questo passo ha a lungo irritato i commentatori, che ne hanno attribuito l’oscurità alla smodata passione di Dante per i parallelismi. Ma, se lo si legge alla luce del contesto della politica dei miracoli, mi sembra che il senso sia chiaro: da una parte, i miracoli preternaturali che Dio ha operato prima del suo avvento si dovrebbero considerare segni provvidenziali del diritto di Roma all’impero; dall’altra, i miracoli soprannaturali compiuti da Dio incarnato non dovrebbero assolutamente giustificare pratiche di governo secolarizzato sulla terra, come l’eccezionale pienezza di poteri del papa, ma costituiscono invece un’anticipazione figurale di un governo puramente celeste.
Inoltre, l’insistenza di Dante, in questo passo conclusivo, sul fatto che tutti i miracoli (preternaturali, contro natura e soprannaturali) da ultimo rientrano nella giurisdizione di un piano provvidenziale stabilito ab ecterno è più significativa di quanto si sia compreso finora. Dante apre il capitolo con l’analisi di fenomeni che, nelle parole di Tommaso d’Aquino, sono «fuori dell’ordine normale delle cose» («praeter ordinem»), e lo chiude riinserendo questi fenomeni «nella bellezza del suo ordine» («sub ordinis pulcritudine»): in questo modo, afferma con chiarezza che i miracoli appartengono a un universo ordinato, e costituiscono la manifestazione divina di un’azione straordinaria piuttosto che assolutista. Il punto di vista di Dante è, ovviamente, teologicamente ortodosso: abbiamo già visto, ad esempio, come Tommaso sostenga a sua volta che i miracoli rientrano nella sfera della provvidenza. Ma la descrizione dantesca dell’“armonia” o della “bellezza” del piano provvidenziale aggiunge una suggestiva dimensione estetica alla sua posizione teologica. Sembra quasi che Dante ammiri il modo perfetto in cui questi eventi si inseriscono in una trama concepita a livello globale.
In effetti, una delle essenziali premesse del libro II, esposta nel secondo capitolo, è che Dio è un artista e il mondo la sua opera d’arte. Usando i cieli come suo strumento, Dio imprime nella materia del mondo sublunare l’impronta della sua mente divina. Per comprendere il concetto dell’artista, possiamo rileggerlo a partire dalla sua opera d’arte: dall’impronta della cera possiamo risalire al sigillo. In questo modo possiamo identificare la volontà di Dio nella storia, ciò che dichiara lecito e giusto, attraverso dei segni (per signa), proprio come la volontà umana si rivela attraverso i segni linguistici. L’immagine di Dio artigiano ha una lunga storia ed era una delle metafore predilette dalla Scolastica. Per Dante, però, l’arte divina riguarda non solo il progettare nello spazio, ma anche lo svilupparsi nel tempo: per lui è cruciale che, oltre ad essere un artigiano, Dio sia anche un narratore. L’inclinazione di Dante a raffigurare Dio come un artista è naturalmente molto nota. Ma cosa succederebbe se considerassimo l’analogia con la stessa sua serietà invertendone i termini? Se Dio è come un artista, come fa l’artista ad essere come Dio? O, in rapporto più diretto alla nostra analisi, che tipo di “miracoli” compie l’artista nella propria opera d’arte? Nella trattazione dei miracoli di Tommaso d’Aquino, una delle metafore più suggestive è quella del divino arista che rivede il proprio lavoro dopo averlo completato: «Tutta la natura è come un manufatto dell'arte divina. Ora, non è contro la natura del manufatto che l'artefice faccia dei ritocchi alla sua opera, anche dopo avergli dato la sua prima forma. Dunque neppure è contro natura che Dio compia nelle cose naturali qualcosa di diverso dal corso ordinario della natura». Al posto di quest’immagine di revisionismo petrarchista, in cui l’artista sovrano ritorna al suo artefatto ormai già esistente per limarlo e perfezionarlo, come potrebbe apparire il miracolo “interno” e “ordinato” di Dante? Cosa cambia se Dio viene considerato non un artigiano ma un narratore?
Nel mio libro Dante e i confini del diritto, sostengo che la discesa del messaggero celeste nel IX canto dell’Inferno per mettere fine allo scontro tra Dante e i diavoli alle porte di Dite dovrebbe essere vista come un miracolo regolato o “costituzionalizzato”. Avviene al di fuori delle normali convenzioni del viaggio, ma è comunque legata a una più alta norma provvidenziale. Di solito, infatti, l’invocazione della volontà e del potere di Dio da parte di Virgilio è sufficiente a far sì che i guardiani infernali rispettino il passaggio dei viaggiatori; in questo singolo caso, invece, Dio interviene direttamente, al di fuori del normale ordine delle cause secondarie. Restando nella struttura legalistica della Monarchia, Viriglio agisce come vicarius di Dio, con limitati poteri discrezionali, mentre il messo celeste è il suo nuncius, colui che manifesta direttamente la sua volontà nella sua straordinaria funzione di speciale emissario ad hoc.
Tanto la regola quanto l’eccezione – la formula di Virginio e l’intervento dell’angelo – rientrano però in un superiore ordine costituzionale, «sub ordinis pulcritudine». I diavoli non possono ribellarsi contro quanto è stato decretato, «Che giova ne le fata dar di cozzo» (IX, 97). La violazione della sovranità di Dite, il superamento delle leggi municipali, l’inefficace scritta morta di «Lasciate ogni speranza, voi ch'intrate» sono giustificate sulla base di un più alto principio di ius commune, perché i diavoli sono sempre già colpevoli per via della loro primordiale violazione del Paradiso: sono «cacciati del ciel, gente dispetta» (IX, 91). In questo senso, tutta la drammatica scena della discesa agli Inferi può essere vista come una prova (Inf., VIII, 122) piuttosto che come un puro atto di forza: come un duello giudiziario, un iudicium piuttosto che un litigium, che, risolvendosi «sanz’alcuna guerra» (IX, 106), serve a dimostrare la presenza di un ordine percepibile ed interpretabile dietro eventi apparentemente casuali.
La re-inscrizione del meraviglioso all’interno dell’ordinario è realizzata anche attraverso la struttura drammatica della discesa dell’angelo. In primo luogo, la mancanza senza precedenti di uno scioglimento narrativo tra VIII e IX canto dà all’episodio un’aura di suspense; anche la digressione di Virgilio che copre gli occhi di Dante per proteggerlo dallo spettro di Medusa contribuisce all’atmosfera soprannaturale, quasi si stesse preparando una teofania. Ma, quando infine l’angelo arriva, sembra più che altro irritato, perché è stato costretto a mettere da parte il suo prediletto compito di gioire nella visione di Dio per occuparsi dell’opposizione dei diavoli. Non appena li ha allontanati senza sforzo, ritorna immediatamente da dove è venuto, senza neppure guardare Dante o Virgilio, come se la sua mente fosse occupata da cose più importanti: «fé sembiante / d’omo cui altra cura stringa e morda» (Inf., IX, 101-102). In questo anti-climax, Dante presenta il miracolo politico-teologico come l’operato non di un sovrano assolutista che agisce in una legale terra di nessuno, ma di un funzionario burocratico annoiato dal proprio lavoro. Eppure in questi canti Dante non si limita a descrivere un miracolo: ne realizza anche uno. Sia nel Convivio che nella Monarchia abbiamo visto esempi del divino artigiano che mette improvvisamente da parte i suoi strumenti e influenza direttamente la sua creazione con le «mani propie». Da molto tempo, i critici hanno notato che la Commedia funziona come un microcosmo, che riproduce strutturalmente l’armonia dell’arte divina. Eppure, in quest’universo così modellato, dov’è lo spazio del miracolo? In altre parole, cosa significherebbe per l’artista umano intervenire direttamente sulla sua creazione, senza affidarsi a cause secondarie? A mio parere, mentre i protagonisti aspettano di attraversare le porte di Dite, fa la sua prima comparsa un miracolo artistico di questo tipo, la cui prodigiosità è stata nascosta, come dice Agostino, da una familiarità quotidiana. Mi riferisco ovviamente agli appelli al lettore in Inferno VIII, 93-96, e IX, 61-63. Per lo più Dante poeta parla attraverso i suoi personaggi, gli strumenti della sua arte, proprio come Dio parlava per mezzo dei pagani virtuosi o perfino, come ci viene detto nella Monarchia (II.11.6), per mezzo degli ignari Erode e Caifa; eppure, in questi appelli al lettore, il poeta si fa immediatamente riconoscere. Nonostante questi interventi siano al di fuori del normale corso della narrazione, rimangono all’interno dei confini del lavoro progettato nel suo complesso. In un miracolo extradiegetico, l’autore – come Dio per mezzo del suo angelo – discende sulla sua creazione, e si manifesta, e ci ricorda la mano che modella l’opera: «’l poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra» (Par., XXV, 2). Protendendosi al di fuori della cornice mimetica, Dante sostanzia miracolosamente la reale presenza della sua voce: Pensa, lettor.
Il sistema dei reati tributari e le riforme di cui al d.l. n. 124 del 2019 e al d.lgs. n. 75 del 2020*
di Stefano Tocci
La risposta penale all’illecito tributario, soprattutto quella in senso detentivo, non è da sempre esistente nel sistema giuridico italiano. Immediatamente dopo l’Unità d’Italia infatti, la normativa in materia di imposte dirette prevedeva soltanto sanzioni di carattere pecuniario, dal contenuto punitivo e risarcitorio, denominate pene pecuniarie e soprattasse.
La prospettiva di una sanzione detentiva cominciò a balenare con la L.n. 2834/1928, ma con l’effettivo riordino della materia punitiva tributaria, che si realizzò con la L.n. 4/1929 ed il correlato R.D. 1608/1931, la sanzione detentiva non aveva ancora preso pienamente piede.
La L.n. 4 del 1929 ebbe una fondamentale importanza per la edificazione del sistema penale tributario, articolato in senso coerente, e concepito come un diritto speciale, prevedendosi ampie e significative deroghe alle norme generali della materia penale. Detta legge infatti esprimeva due principi molto caratterizzanti:
- il principio di “ultrattività”, basato sul tempus regit actum, per cui le norme penali tributarie continuavano ad essere applicate per i fatti consumati durante la loro vigenza anche se in seguito abrogate o modificate in melius; l’art. 20 della L.n. 4/1929 prevedeva infatti espressamente che le disposizioni penali delle leggi finanziarie e quelle che prevedono ogni altra violazione di dette leggi si applicano ai fatti commessi quando tali disposizioni erano in vigore, ancorché le disposizioni medesime siano abrogate o modificate al tempo della loro applicazione; evidente la piena deroga al generale principio consacrato nell’art. 2 c.p. del Codice Zanardelli e ribadito, sempre all’art. 2, dal Codice Rocco.
- la “pregiudiziale tributaria”, ossia la sospensione dell’azione penale, in materia di imposta dirette, fino al completo accertamento da parte della giustizia tributaria dell’imposta evasa e delle consequenziali sopratasse. Praticamente al giudice penale era consegnato l’esito dell’accertamento fiscale già completo nella sua dimensione erariale, pronto per la sua valutazione in termini penalistici.
L’efficacia deterrente del sistema sanzionatorio risultava ancora insufficiente a causa delle modeste entità delle pene. Bisogna attendere il D.P.R. n. 645/1958, testo unico in materia di imposte dirette, per vedere comparire la sanzione detentiva nello scenario del sistema penale tributario, ma l’effetto di prevenzione generale è ancora minimo.
Il primo importante impatto della sanzione penale come risposta all’illecito tributario può farsi quindi risalire alla riforma tributaria dei primi anni ’70, e precisamente all’introduzione dell’art. 50 D.P.R. n. 633/1972, in materia di IVA, ed all’art. 56 D.P.R. n. 600/1973 in materia di imposte dirette, che comminavano per alcune fattispecie, oltre ad una forte pena pecuniaria, la sanzione della pena detentiva. Tale normativa si caratterizzava dell’introduzione delle soglie di punibilità per alcune delle molteplici fattispecie ivi contemplate, e ciò evidentemente rispondeva all’esigenza, avvertita dal Legislatore, di non “criminalizzare” gli illeciti nella loro essenza, comunque sempre suscettibili di sanzione amministrativa fiscale, ma solo nella loro entità, al di là di un ammontare in ragione del quale il danno erariale appariva meritevole di una risposta penale. Tale meccanismo punitivo, in astratto ben più incisivo di quanto precedentemente previsto nell’ordinamento, comunque trovava un notevole ostacolo, nel suo funzionamento, nella persistente vigenza della pregiudiziale tributaria, sempre presente nel rallentare il processo penale, ancora visto in prospettiva consequenziale rispetto all’accertamento tributario definitivo.
La riforma organica del diritto penale tributario il nostro ordinamento la vede finalmente con il D.L n. 429/1982 converto nella L.n. 516/1982, la cd. Legge “Manette agli evasori”, che costituisce un articolato specifico dotato di una propria struttura autonomamente definita. Le peculiarità del nuovo sistema incriminatorio sono costituite da:
- l’abbandono della pregiudiziale tributaria, e conseguentemente la creazione di un doppio binario, non del tutto perfetto, tra giustizia tributaria e giustizia penale;
- l’adozione di una tecnica di formulazione normativa estremamente casistica, diretta a prevedere e colpire non tanto l’evento danno per l’erario quanto condotte prodromiche all’illecito tributario vero e proprio, con un conseguente arretramento della tutela penale a fattispecie non ancora costituenti un fatto di evasione bensì sintomatiche di un pericolo in tal senso.
Quest’ultima caratteristica costituirà il limite della riforma del 1982, apparendo l’apparato sanzionatorio predisposto soprattutto a tutela dell’accertamento fiscale e non come risposta al danno erariale effettivamente verificatosi, con tutti i consequenziali problemi di conformità costituzionale ai principi di offensività e determinatezza che connaturano il nostro ordinamento penale.
Il Legislatore proverà a rimediare con la L.n. 154 del 1991, diretta a risolvere aspetti interpretativi nel frattempo insorti, ma il tentativo risulterà abbastanza timido, soprattutto alla luce del necessario coordinamento con la riforma del sistema sanzionatorio amministrativo tributario, introdotto col D. Lgs. N. 472/1997, per cui si decise di promuovere l’ennesima riforma organica della materia attraverso la delega al Governo di cui alla L.n. 205/1999, art. 9, che poneva in sostanza i seguenti obiettivi:
- previsione di una ristretta rosa di reati di natura esclusivamente delittuosa, di entità sanzionatoria significativa;
- carattere di effettiva offensività delle fattispecie penali con riferimento ai concreti interessi erariali da tutelare;
- elemento psicologico del reato caratterizzato dal dolo specifico, di evadere l’imposta o di conseguire un indebito rimborso;
- ricorso alla previsione di soglie di punibilità, in modo da rendere effettiva la risposta punitiva dello Stato rispetto ad un concreto danno erariale, ad eccezion fatta per il reato di falsità in fatturazione o distruzione di documentazione contabile, trattandosi di fattispecie di per sé lesive degli interessi fiscali.
La svolta, concretizzatasi quindi col D. Lgs. N. 74/2000, in attuazione della suddetta legge delega, consiste nell’orientare la tutela penale a fatti dotati di reale significatività economica, con la rinuncia alla criminalizzazione di violazioni formali o di proiezioni meramente sintomatiche di un danno erariale, per concentrare l’azione del diritto penale tributario al perseguimento di fatti realmente dotati di offensività per gli interessi fiscali dello Stato. Tale linea prospettiva veniva ribadita nella delega di riforma fiscale di cui alla L.n. 80/2003, il cui art. 2 lett. m) prescriveva il principio che la legge penale tributaria dovesse essere riservata ai soli casi di frode e di effettivo e rilevante danno per l’erario.
Ma il sistema penale tributario continuerà a non trovare pace, diventando sempre più, col passare del tempo, uno strumento malleabile destinato a piegarsi alle emotività legislative, adoperato sovente, nella sua finalità di contrasto al fenomeno dell’evasione fiscale, diversamente interpretato a seconda del momento politico, a perseguire, più negli intenti che nella realtà, anche gli effetti economici e finanziari di una organica riforma fiscale ancora lungi da all’essere attuata o, rectius, concepita.
Con il d.L. n. 138/2011, convertito nella L.n. 148/2011, abbiamo il primo sensibile ritocco all’articolato del D. Lgs. n. 74/2000, ma praticamente solo con riferimento agli aspetti sanzionatori, ed invero:
- sono abolite alcune circostanze attenuanti specifiche;
- sono ridotte le soglie di punibilità;
- sono aumentati di 1/3 i termini di prescrizione per quasi tutte le norme incriminatrici;
- la sospensione condizionale della pena non potrà più essere applicata in ragione di una evasione superiore al 30% del volume d’affari del contribuente e, congiuntamente, a tre milioni di euro;
- l’accesso al rito alternativo del patteggiamento è consentito solo nel caso di estinzione del debito tributario.
È evidente che la modifica attiene solo agli aspetti più crudamente repressivi del sistema penale tributario, chiamato a mostrare i muscoli in un momento di grave crisi economica.
Ulteriori interventi, sull’ordinamento qui studiato, si registrano nell’anno 2015, e precisamente segue prima il D. lgs. N. 128/2015, che riveste enorme importanza in materia di abuso del diritto ed elusione fiscale: l’art. 37 bis D.P.R. n. 600/1973, che contemplava le principali operazioni ritenute elusive inopponibili all’amministrazione finanziaria, viene infatti abrogato e con il comma 13 dell’art. 10 bis L.n. 212/2000 si introduce l’irrilevanza penale delle condotte abusive in materia fiscale.
Fa quindi seguito il D. Lgs n. 158/2015 che, sia pur in linea, almeno astrattamente, con la direttrice del D. Lgs. N. 74/2000, interviene sulla disciplina penale tributaristica in modo più articolato: rafforza la sanzione penale per fattispecie più pregnanti per gli interessi erariali con contestuale attenuazione del rigore sanzionatorio per fattispecie con minore disvalore; alcune fattispecie non sono più penalmente rilevanti ma nuove incriminazioni vengono introdotte; il pagamento del debito erariale diventa causa di non punibilità per alcune fattispecie e circostanza diminuente della pena per altre.
Di rilievo appare poi l’introduzione dello strumento della confisca (art. 10 che ha novellato il D Lgs. N. 74/2000 inserendo l’art. 12 bis) nel caso di condanna o applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 c.p.p. per uno dei delitti previsti dal D. Lgs. N. 74/2000. Trattasi di confisca obbligatoria dei beni che costituiscono profitto o il prezzo di detti reati, salvo che non appartengano a persona diversa dal reo, ed eseguibile anche “per equivalente” in caso di impossibilità, ossia: quando non è possibile rivalersi direttamente sul profitto o prezzo del delitto, saranno confiscabili beni per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto. Detta misura non opera per la parte di debito erariale che il contribuente condannato s’impegna a corrispondere al fisco.
L’evoluzione del sistema però non si è fermata qui, essendo il Legislatore intervenuto anche più recentemente con il d.L. 124/2019 e quindi il D. Lgs. 74/2020, i cui effetti saranno appresso esaminati.
Prima di osservare le più recenti modifiche al sistema normativo, mi sembra opportuno delineare in estrema sintesi come lo stesso risultava strutturato fino all’ultima modifica qui menzionata, ossia al 2015.
Il D. Lgs. N. 74/2000 costituisce sempre l’ossatura portante del sistema penale tributario, sebbene, come visto, abbia conosciuto ripetuti interventi abrogativi, modificativi ed integrativi. Il primo titolo, riempito dall’art. 1, ha una mera elencazione di definizioni, ossia di esplicazione del significato dei termini che si incontrano nel successivo articolato, con l’evidente funzione di restringere l’ambito degli interventi interpretativi sul tema. Quindi segue la delineazione dei vari reati, distinguibili in:
- delitti dichiarativi, ossia la dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 2); la dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, cioè compiuta mediate operazioni oggettivamente o soggettivamente simulate ovvero altri documenti falsi, diversi da quelli di cui all’articolo precedente, o altri mezzi fraudolenti idonei ad indurre in errore l’amministrazione finanziaria (art. 3). Per entrambe le norme appena citate il reato sussiste allorquando i documenti falsi (fatture o altro) siano registrati nelle scritture contabili, e solo per le ipotesi di cui all’art. 3 è prevista una soglia di punibilità. Ugualmente è prevista una soglia di punibilità per i reati di dichiarazione infedele (art. 4), quando cioè, al di fuori delle ipotesi precedentemente dette, in una delle dichiarazioni annuali sono indicati elementi attivi in misura inferiore a quella reale ovvero elementi passivi inesistenti, nonché per l’omessa presentazione della dichiarazione (art. 5). L’art. 6 esclude espressamente la configurabilità del tentativo per detti reati.
- delitti documentali, quali l’emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 8). Il Legislatore, al comma 2, ha prescritto non solo che l’emissione di più fatture o documenti falsi nell’ambito dello stesso periodo d’imposta si considera un unico reato, escludendosi pertanto l’applicazione della disciplina della continuazione, ma anche, all’art. 9, che l’emittente e l’utilizzatore delle fatture o documenti falsi non concorrono nei rispettivi reati previsti dagli artt. 8 e 2 citati. L’art. 10 invece sanziona l’occultamento o la distruzione di documenti contabili.
Sia i delitti dichiarativi che quelli documentali sono delineati come reati a dolo specifico, ossia l’elemento psicologico del reato deve essere teleologicamente orientato all’evasione dell’imposta sui redditi o sul valore aggiunto.
- i delitti in materia del pagamento delle imposte, ossia l’omesso versamento di ritenute dovute o certificate (art. 10 bis), reato proprio del sostituto d’imposta, l’omesso versamento dell’I.V.A. (art. 10 ter), il delitto di indebita compensazione (art. 10 quater) e di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11), tutte norme incriminatrici che per la loro configurazione prevedono il superamento di definite soglie di punibilità.
Su tale contesto ha nuovamente operato il Legislatore con il d.L. 124/2019, convertito nella L.n. 157/2019, effettuando, rispetto alle innovazioni del 2015, una notevole deviazione, se non una vera e propria inversione di marcia, nel senso di un maggior inasprimento degli aspetti punitivi, nell’intento di mostrare, nuovamente, i muscoli nella repressione del fenomeno dell’evasione fiscale. Infatti stavolta il Legislatore ha operato seguendo tre direttrici: 1) l’intervento sul trattamento sanzionatorio dei reati tributari di cui al d.lgs. 74/2000; 2) l’introduzione della confisca allargata; 3) la previsione della responsabilità degli enti ex D. Lgs. 231/2001 per gli illeciti penali tributari.
In primo luogo va ravvisata una evidente anomalia, se non una vera e propria violazione costituzionale, nella tecnica legislativa adottata: l’efficacia delle modifiche in materia penale previste dal decreto-legge è stata normativamente posticipata al momento dell’entrata in vigore della legge di conversione (art. 39, comma 3, d.l. 124/2019). Evidente la contraddizione tra l’adozione dello strumento della decretazione d’urgenza e la funzione ad essa attribuita dalla Costituzione, ed il differimento dell’efficacia delle norme. Lasciando ai costituzionalisti l’analisi della problematica, per quel che riguarda questa sede possiamo osservare:
- quanto al primo profilo, l’inasprimento della politica sanzionatoria si è realizzata con l’elevazione delle cornici edittali di pena per molti dei reati contemplati, con ricadute per alcuni di essi anche sui termini di prescrizione; ovvero abbassando le soglie di punibilità ivi previste, così estendendosi l’area di rilevanza penale dell’illecito fiscale. Questi effetti, tuttavia, sono stati smorzati dalle modifiche apportate dalla legge di conversione, che infatti ha ammorbidito l’effetto innovativo della riforma. Da una parte l’innalzamento delle pene per i reati di cui agli artt. 4 e 5 d.lgs. 74/2000, pur confermato, è stato ridimensionato; d’altro canto, il prospettato abbassamento delle soglie di punibilità, mantenuto all’art. 4, non è stato invece confermato rispetto ai reati di omesso versamento ex art. 10-bis e 10-ter, i cui limiti configurativi rimangono pertanto invariati. Inoltre, le suindicate novità, volte ad irrigidire il sistema penale tributario, sono state controbilanciate da un ampliamento dell’ambito applicativo della causa di non punibilità dell’art. 13, comma 2, che viene estesa anche ai reati di cui agli artt. 2 e 3.
Il decreto-legge viene altresì modificato, in sede di conversione, nella parte in cui prevedeva l’abrogazione della disposizione di cui al comma 1-ter dell’art. 4, in forza della quale si escludeva la punibilità delle “valutazioni” che, singolarmente considerate, differissero in misura inferiore al 10% da quelle corrette, precisando altresì che gli importi compresi in tale percentuale non fossero computati ai fini del superamento delle soglie di punibilità. La legge di conversione ha mantenuto in vigore il comma 1-ter, prevedendo però che le valutazioni non debbano essere “singolarmente” considerate, bensì “complessivamente” considerate.
Trova conferma, senza modificazione rispetto al decreto-legge, l’inasprimento sanzionatorio per il reato di “emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti” (art. 8), ove la previgente pena della reclusione da un anno e sei mesi a sei anni viene elevata a quella della reclusione da 4 a 8 anni; viene però inserita in un nuovo comma 2-bis una soglia di punibilità, statuendosi che la pena rimane invece quella della reclusione da un anno e sei mesi a sei anni «se l’importo non rispondente al vero indicato nelle fatture o nei documenti, per periodo d’imposta, è inferiore a euro centomila».
La legge di conversione introduce poi un’ulteriore novità, non contemplata dal decreto-legge: la causa di non punibilità del pagamento del debito tributario di cui all’art. 13, comma 2, originariamente prevista per i soli reati di omessa o infedele dichiarazione di cui agli artt. 4 e 5, può trovare applicazione anche per i reati di dichiarazione fraudolenta di cui agli artt. 2 e 3.
- Novità di enorme rilievo è costituita dall’introduzione nel sistema penale tributario dell’istituto della “confisca allargata”. Come detto l’art. 10 comma 1 del D. Lgs. N. 158/2015 aveva già introdotto la cd. “confisca tributaria” con l’art. 12 bis sia nella forma della “confisca diretta”, quando l’ablazione investe beni che costituiscono il profitto, il prodotto o il prezzo del reato o qualunque vantaggio patrimoniale direttamente derivante dal reato, anche se consistente in un risparmio di spesa (in tal senso Cass. SS.UU. n. 10561/2013), sia della “confisca per equivalente” ossia altri beni di valore equivalente al profitto.
L’art. 39 d.L. n. 124/2019 convertito con modificazioni dalla L.n. 157/2019 ha ulteriormente introdotto l’art. 12 ter rubricato “casi particolari di confisca”. Tale norma prevede che nei casi di condanna o di applicazione della pena su richiesta a norma dell'articolo 444 del codice di procedura penale per i delitti di seguito indicati, si applica l'articolo 240 bis del codice penale quando:
a) l'ammontare degli elementi passivi fittizi è superiore a euro 200.000 nel caso del delitto previsto dall'articolo 2;
b) l'imposta evasa è superiore a euro 100.000 nel caso del delitto previsto dall'articolo 3;
c) l'importo non rispondente al vero indicato nelle fatture o nei documenti è superiore a euro 200.000 nel caso del delitto previsto dall'articolo 8;
d) l'ammontare delle imposte, delle sanzioni e degli interessi è superiore a euro 100.000 nel caso del delitto previsto dall'articolo 11, comma 1;
e) l'ammontare degli elementi attivi inferiori a quelli effettivi o degli elementi passivi fittizi è superiore a euro 200.000 nel caso del delitto previsto dall'articolo 11, comma 2.
Trattasi di una previsione speciale della cd. “confisca allargata” o “per sproporzione” di cui all’art. 240 bis c.p., introdotta nell’ordinamento penalistico dal D. Lgs. n. 21/2018, in cui è confluito il primo comma dell’art. 12 sexies d.L. n. 306/1992 convertito nella L.n. 356/1992, in materia di lotta alla criminalità mafiosa, la cui ratio era colpire una disponibilità economica di valore sproporzionato al reddito del perseguito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica. Questa confisca ex art. 240 bis c.p., dunque, consiste in una forma di ablazione fondata essenzialmente sulla sproporzione patrimoniale, che consente la formulazione di una presunzione iuris tantum di origine illecita dei beni, secondo un meccanismo di accertamento non dissimile da quello proprio della confisca di prevenzione di cui al c.d. codice antimafia: come si è espressa la Corte Costituzionale con sentenza n. 33/2018 si presume “che il patrimonio stesso derivi da attività criminose che non è stato possibile accertare”, cioè, in altri termini, che “il condannato abbia commesso non solo il delitto che ha dato luogo alla condanna, ma anche altri reati, non accertati giudizialmente, dai quali deriverebbero i beni di cui egli dispone”. Da ciò consegue che la confisca “per sproporzione” non richiede l’accertamento del nesso di pertinenzialità tra la res ed il delitto per cui è stata pronunciata sentenza di condanna o applicazione pena. L’art. 12 ter non contiene la previsione di inoperatività della confisca “per la parte che il contribuente s’impegna a versare all’erario” sancita nell’art. 12 bis comma 2.
Le fattispecie penali tributarie suscettibili di provocare l’applicazione della “confisca allargata” sono connotate da condotte fraudolenti, rimanendo fuori dalla sua sfera di operativa i reati documentali e puramente dichiarativi.
La giurisprudenza, anche costituzionale, è costante nell’attribuire alla confisca allargata una natura ibrida perché sospesa tra funzione special-preventiva e vero e proprio intento punitivo. La giurisprudenza convenzionale è invece orientata a ritenere la “confisca allargata” come mera misura preventiva, volta ad impedire l’uso illecito di beni di cui non è provata l’origine lecita da parte di soggetti pericolosi (così CEDU, Sentenza Bocellari e Rizza contro Italia, 13 novembre 2007 -ricorso n. 399/02).
La “confisca allargata” di cui all’art. 12 ter quindi si aggiunge alla “confisca per equivalente” di cui all’art. 12 bis investendo solo le condotte poste in essere successivamente alla data di entrata in vigore della legge di conversione del d.L. n. 124/2019: ciò è espressamente previsto dal Legislatore all’art. 1 comma 1 bis del detto decreto Legge, in deroga all’art. 200 c.p. che invece prevede per le misure di sicurezza la vigenza del principio tempus regit actum.
Va segnalato infine, per quanto attiene alla materia della confisca tributaria, che l’art. 12 ter fa richiamo all’art. 240 bis c.p. che è a sua volta richiamato dall’art. 578 bis c.p.p., a norma del quale il giudice di appello o la corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per prescrizione o per amnistia, decidono sull'impugnazione ai soli effetti della confisca, previo accertamento della responsabilità dell'imputato.
-Altra importante novità introdotta dall’art. 39 comma 2 d.L. 124/2019 convertito nella L.n. 157/2019 è costituita dall’inserimento di alcuni reati tributari nel catalogo dei reati-presupposto della responsabilità dell’ente ex D.Lgs. 231/2001. L’orizzonte prospettato nel decreto-legge appariva ristretto al solo reato di cui all’art. 2 d.lgs. 74/2000, ma la legge di conversione l’estende anche agli artt. 3, 8, 10 e 11 d.lgs. 74/2000.
Più in particolare, viene aggiunto nel D. Lgs. n 231/2001 un nuovo art. 25-quinquiesdecies, rubricato “Reati tributari”, che prevede in capo all’ente responsabile:
a) per il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti previsto dall’art. 2, comma 1, la sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote;
b) per il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti previsto dall’art. 2, comma 2-bis, la sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote;
c) per il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici previsto dall’art. 3, la sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote;
d) per il delitto di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti previsto dall’art. 8, comma 1, la sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote;
e) per il delitto di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti previsto dall’art. 8, comma 2-bis, la sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote;
f) per il delitto di occultamento o distruzione di documenti contabili previsto dall’art. 10, la sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote;
g) per il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte previsto dall’art. 11, la sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote.
Come è noto la sanzione pecuniaria prevista dal D. Lgs. 231/2001 è quantificata con il sistema delle “quote” (unità di misura così espressamente definita dal legislatore). La determinazione del quantum è rimessa, nel rispetto della cornice edittale normativamente fissata, alla discrezionalità del giudice il quale procede attraverso due distinte fasi valutative: 1) nella prima fase, individua il numero delle quote da applicare che può variare da un minimo di 100 ad un massimo di 1.000. In tale fase i parametri di riferimento sui quali il giudicante fonda la propria discrezionale determinazione sono la gravità del fatto, il grado di responsabilità dell’ente (considerando, ad esempio, se risultano essere stati adottati o meno modelli organizzativi, codici etici, sistemi disciplinari, nonché il loro eventuale grado di efficacia), la sussistenza di eventuali condotte riparatorie nei confronti dei soggetti danneggiati;
2) nella seconda fase, determina il valore di ogni singola quota che può variare da un minimo di 258 euro ad un massimo di 1.549 euro. In tale fase, per assumere le proprie determinazioni, il giudice valuta le condizioni economiche e patrimoniali della società così da assicurare l’efficacia della sanzione. L’importo finale della sanzione sarà, dunque, il prodotto della moltiplicazione tra l’importo della singola quota e il numero di quote da applicare, per un ammontare complessivo che potrà, pertanto, variare da un minimo di 25.800 euro ad un massimo di 1.549.000 euro.
Se l’ente ha conseguito un profitto di rilevante entità, la sanzione pecuniaria è aumentata di un terzo. In tutti questi casi, si applicano le sanzioni interdittive di cui all’art. 9, comma 2, lettera c (divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio), lettera d (esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l'eventuale revoca di quelli già concessi) e lettera e (divieto di pubblicizzare beni o servizi).
Il mancato inserimento dei reati tributari nel novero di quelli previsti dal D. Lgs. n. 231/2001 era una distonia già evidenziata dalla Suprema Corte con la sentenza “Gubert”, SS.UU. n. 10561/2014, ma tale “irrazionalità”, segnalava il supremo consesso, “non è peraltro suscettibile di essere rimossa sollevando una questione di legittimità costituzionale, alla luce della costante giurisprudenza costituzionale, secondo la quale il secondo comma dell’art. 25 Cost. deve ritenersi ostativo all’adozione di una pronuncia additiva che comporti effetti costitutivi o peggiorativi della responsabilità penale, trattandosi di interventi riservati in via esclusiva alla discrezionalità del legislatore”. L’estensione della responsabilità amministrativa degli enti agli illeciti penali tributari era quindi divenuta non più eludibile. Nella Relazione illustrativa all’art. 39 cit. si afferma chiaramente che “Con l’introduzione della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche per i più gravi reati tributari commessi nel loro interesse o a vantaggio delle medesime, si inizia a colmare un vuoto di tutela degli interessi erariali che, pur giustificato da ampi settori della dottrina con la necessità di evitare duplicazioni sanzionatorie, non può più ritenersi giustificabile sia alla luce della più recente normativa eurounitaria, sia in ragione delle distorsioni e delle incertezze che tale lacuna aveva contribuito a generare nella pratica giurisprudenziale”. Evidente quindi il richiamo alla Direttiva (UE) 2017/1371 “relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione mediante il diritto penale” (cd. “direttiva PIF” cioè Protezione Interessi Finanziari), che ha imposto agli Stati membri l’adozione delle misure necessarie perché le persone giuridiche non siano esenti da responsabilità in ordine ai reati che ledono gli interessi finanziari dell’unione Europea, laddove questi siano commessi a loro vantaggio da soggetti apicali dell’ente (cioè che assumono funzioni di rappresentanza, decisionali o di controllo) ovvero da sottoposti, con omissione dei necessari controlli da parte dei primi, secondo i criteri di imputazione della responsabilità indicati nell’art. 6 D. Lgs. n. 231/2001). Notevoli le conseguenze che scaturiscono dall’inserimento delle fattispecie penali fiscali nell’art. 25 quinquiesdecies suddetto: innanzitutto non vi sono più incertezze interpretative sul riconoscimento della responsabilità dell’ente giuridico in ordine a reati tributari che siano fine di un reato associativo ai sensi dell’art. 416 c.p., ovvero siano reati presupposto di delitti di riciclaggio ed autoriciclaggio ai sensi degli artt. 648 bis e 648 ter c.p. Diventa quindi applicabile la confisca “diretta” o “per equivalente” prevista dall’art. 19 D. Lgs. n. 231/2001 anche con riferimento al prezzo o profitto del reato tributario, nonché, ovviamente, il sequestro preventivo ad essa funzionale.
Va segnalato il problema, già chiaro alla dottrina, che l’estensione della responsabilità da reato tributario alle persone giuridiche possa condurre ad una duplicazione di incriminazione con conseguente violazione del principio del ne bis in idem. Lasciando l’approfondimento della tematica a chi mi seguirà, segnalo che il Legislatore dovrà necessariamente prevedere un meccanismo di coordinamento tra le sanzioni pecuniarie tributarie di cui al D. Lgs. n. 472/1997 e le sanzioni di cui al D. lgs. n. 231/2001, da effettuarsi alla luce della giurisprudenza costituzionale, secondo cui non ricorre violazione del principio ne bis in idem quando “le due sanzioni perseguano scopi diversi e complementari, connessi ad aspetti diversi della medesima condotta; quando la duplicazione dei procedimenti sia prevedibile per l’interessato; quando esista una coordinazione, specie sul piano probatorio, tra i due procedimenti; e quando il risultato sanzionatorio complessivo, risultante dal cumulo della sanzione amministrativa e della pena, non risulti eccessivamente afflittivo per l’interessato, in rapporto alla gravità dell’illecito” (Corte Cost. Sent. N. 222 del 24/10/2019).
Se la citata Direttiva PIF n. 2017/1371 è stata una importante sollecitazione alla formulazione dell’art. 25 quinquiesdecies D. Lgs. n. 231/2001, che ha introdotto la responsabilità amministrativa degli enti giuridici da reato tributario, l’attuazione della stessa direttiva, col D. Lgs. n. 75/2020, ha comportato una ulteriore, limitata ma importante, riforma nel sistema penale tributario del nostro Paese.
Per conformarsi alle disposizioni innovative contenute nella direttiva (UE) 2017/1371 il Legislatore è intervenuto rivoluzionando la disciplina del delitto tentato contenuta nell’art.6 D. Lgs. n.74/2000. La disciplina precedente, infatti, come detto, escludeva che fossero punibili a titolo di “tentativo” le fattispecie delittuose di cui agli artt.2 “Dichiarazione fraudolenta mediante l’utilizzo di fatture relative ad operazioni inesistenti”, 3 “Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici” e 4 “Dichiarazione infedele”. La “ratio” della norma contenuta nel D. Lgs. 74/2000 era quella di evitare che l’aspirazione del Legislatore delegante di cui alla legge n.205/1999 di bandire il modello del cd. “reato prodromico”, ossia la criminalizzazione di condotte che ancora non comportassero un danno concreto all’erario, risultasse vanificato, in concreto, dall’applicazione dell’art.56 c.p. Conformemente si era espressa anche la Corte Costituzionale, che ha ritenuto che la scelta “di escludere la punibilità a titolo di tentativo dei delitti in materia di dichiarazione di tipo commissivo di cui agli artt. 2, 3 e 4, mira, oltre che a stimolare, nell’interesse dell’Erario, la resipiscenza del contribuente nel corso del periodo d’imposta, ad evitare che violazioni preparatorie già autonomamente represse nel vecchio sistema, possano essere ritenute tuttora penalmente rilevanti ex se, quali atti idonei, preordinati in modo non equivoco ad una falsa dichiarazione”
Con l’art.2 del decreto legislativo n.75/2020 il legislatore ha ora, all’opposto, aggiunto un ulteriore comma al suindicato art.6, prevedendo a tal fine che “… salvo che il fatto integri il reato previsto dall’articolo 8, la disposizione di cui al comma 1 non si applica quando gli atti diretti a commettere i delitti di cui agli articoli 2, 3 e 4 sono compiuti anche nel territorio di altro Stato membro dell’Unione europea, al fine di evadere l’imposta sul valore aggiunto per un valore complessivo non inferiore a dieci milioni di euro”. Per i “delitti in materia di dichiarazione” di cui agli artt. 2, 3 e 4 decreto legislativo n.74/2000, è quindi ora prevista la punibilità a titolo di “tentativo” (precedentemente espressamente esclusa dall’art. 6, cui è ora aggiunto il nuovo comma 1-bis), ma solo in presenza di determinate condizioni, ossia:
1. l’evasione d’imposta deve avere ad oggetto specificatamente l’imposta sul valore aggiunto;
2. l’imposta di cui è preordinata l’evasione deve avere un valore complessivo non inferiore a dieci milioni di euro;
3. la condotta che integra il “tentativo”, riferito alle fattispecie delittuose interessate dalla nuova disposizione normativa (ex artt.2, 3 e 4 d.lgs. n.74/2000), deve realizzarsi anche nel territorio di altro Stato membro dell’Unione europea; ovvero può interessare anche più Stati membri dell’U.E.;
4. Il “tentativo” oggetto di contestazione non deve integrare la fattispecie delittuosa prevista dall’articolo 8 D. Lgs .n.74/2000 “Emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”: trattasi di una vera e propria clausola di riserva. Resta comunque impregiudicato il principio della non punibilità in materia di “Concorso di persone nei casi di emissione o utilizzazione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti” di cui all’art.9 lett. a) D. Lgs. n.74/2000.
Altra novità di rilievo contenuta nel decreto legislativo n.75/2020 riguarda l’estensione del catalogo dei reati presupposto alla responsabilità da reato degli enti. Invero, con l’art.5 del D. Lgs. n.75/2020 il legislatore è intervenuto, nuovamente, sul D. Lgs. n.231/2001, ampliando significativamente il catalogo dei reati presupposto non compresi nella recente citata riforma contenuta nel d.L. n.124/2019, convertito con modificazioni nella L.n. 157/2019.
Difatti l’art.5, lett.c) del D. Lgs. n.75/2020 rubricato “Modifiche al decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231” ha inserito all’articolo 25-quinquiesdecies il comma 1-bis che include ora tra i reati presupposto anche le fattispecie delittuose previste dagli artt.4 “Dichiarazione infedele”, 5 “Omessa dichiarazione” e 10-quater “Indebita compensazione” del D. Lgs. n.74/2000, a condizione però che tali delitti siano commessi nell’ambito di sistemi fraudolenti transfrontalieri, al fine di evadere l’imposta sul valore aggiunto, e l’imposta evasa deve essere non inferiore a dieci milioni di euro. La ratio di entrambi gli interventi sul sistema penale tributario appaiono quindi incentrarsi sulla necessità, ravvisata dalla Direttiva PIF, di perseguire, anche a livello di tentativo nonché da parte di persone giuridiche, fatti di particolare rilevanza per l’entità del danno erariale in materia di IVA che possa derivare su scala transfrontaliera, per le sue ripercussioni sugli interessi finanziari dell’U.E.
Tale piccola ma incisiva modifica è destinata invero ad avere particolare importanza in prospettiva futura, allorquando sarà pienamente operativo il cd. Pubblico Ministero Europeo. Con Regolamento CE, 12/10/2017 n° 1939, l’U.E. ha infatti istituito la Procura Europea, per volontà di alcuni Stati membri, con lo scopo di far fronte a quelle frodi internazionali ai danni dell’Unione Europea aventi carattere transfrontaliero e rispetto alle quali le procure nazionali non hanno poteri di indagine sufficientemente rapidi e penetranti. La Procura Europea, nata mediante l’utilizzo della procedura di cooperazione rafforzata promossa da sedici Stati membri (oggi estesa a ventidue Stati) - in quanto la proposta della Commissione di instituirla per l’intera Unione, non è stata approvata all’unanimità dal Consiglio - opera a tutela degli interessi finanziari dell’U.E. in relazione a reati rilevanti ai sensi della direttiva 2017/1371, e precisamente investe:
- le condotte fraudolente ai danni del bilancio dell’Unione, comprese le operazioni finanziarie quali l'assunzione e l'erogazione di prestiti;
- i reati gravi contro il sistema comune dell’IVA, (es. frodi carosello, frodi commesse nell’ambito di operazioni criminali etc..), compiuti in due o più stati membri ed il cui danno complessivo sia almeno pari a 10 milioni di Euro;
- le condotte di appropriazione indebita di funzionari pubblici, di corruzione attiva e passiva;
- le condotte di riciclaggio.
Evidente appare pertanto la correlazione tra le modifiche introdotte dal D. Lgs n. 75/2020 in materia penale tributaria e lo spettro di competenza del Pubblico Ministero Europeo. Tale figura, che per certi versi sembrava costituire una mera prospettiva avveniristica, è ormai realtà alla luce del D. lgs. n. 9/2021, che stabilisce le norme necessarie ad adattare l’ordinamento giuridico nazionale alle previsioni del regolamento (UE) 2017/1939 del Consiglio, del 12 ottobre 2017, relativo all’attuazione di una cooperazione rafforzata sull’istituzione della Procura europea («EPPO»).
Il sistema penale tributario appare quindi destinato a nuove rivisitazioni che, con particolare riferimento alle imposte indirette, amplieranno la dimensione territoriale delle relative applicazioni, risultando non più adeguata una visione esclusivamente nazionalistica degli interessi finanziari protetti.
*Relazione svolta in occasione del seminario “Riforme del diritto penale tributario, prospettive sistematiche ed esperienze applicative”, tenutosi attraverso l’aula virtuale Teams presso la Corte di cassazione il 10 marzo 2021.
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