ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
L’algoritmo e la nuova stagione del costituzionalismo digitale: quali le sfide per il giurista (teorico e pratico)?
Conversando con Oreste Pollicino
di Roberto Conti e Franco de Stefano
L’intelligenza artificiale applicata al diritto. Il "tema del momento" in un momento particolare, in cui proprio a causa della stagione pandemica il mondo della giustizia vive da oltre un anno situazioni di stress particolari e particolarmente avvertite dagli operatori che vi gravitano.
La consapevolezza, comunemente percepita, di affrontare parte dei nodi irrisolti della giustizia attraverso strumenti informatici apre dunque al giurista le porte di un mondo solo in parte conosciuto, nel quale l’orizzonte rappresentato da modalità tecnologiche nuove di sviluppo dei rapporti negoziali e di svolgimento dei processi, in apparenza destinato a risultare neutro rispetto alle regole del diritto sostanziale, del processo e di giudizio, si interseca con quello che invece tende a prefigurare, con l’avvento sempre più marcato del digitale, ricadute niente affatto marginali sul ruolo del giudice.
Per iniziare una riflessione ad ampio spettro sul tema, Giustizia insieme ha chiesto al Prof. Oreste Pollicino, che coniuga la sua vocazione di autorevole costituzionalista ora pure impegnato come membro del Consiglio di amministrazione dell’Agenzia europea dei diritti fondamentali quella di essere uno dei massimi esperti italiani in tema di diritto del digitale.
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Professore Pollicino, secondo l’Avvocato Generale della Corte di Giustizia Giovanni Pitruzzella, stiamo andando velocemente verso un’era, ancora tutta da scrivere, rivolta al costituzionalismo di internet, nella quale il ruolo trainante dovrebbe essere dell’Europa alla quale il new deal della Presidenza Biden potrebbe dare grande impulso. Qual è il suo avviso in proposito?
Condivido la posizione del prof. Pitruzzella. Credo che il costituzionalismo debba rimanere fedele alla sua vocazione originaria, quella di essere limite, ed a volte argine, al potere. Proprio per questa ragione, se le coordinate del rapporto tra autorità e libertà mutano geometria, e si spostano da una dimensione verticale ad una orizzontale, relativa al rapporto tra piattaforme digitali ed utenti, anche il costituzionalista deve essere in grado di cambiare prospettiva ed interrogarsi su come gli strumenti privilegiati di limitazione del potere, a cominciare dalla applicazione diretta dei diritti fondamentali, possano essere declinati su un piano, per l’appunto, verticale e non solo orizzontale. Il costituzionalismo digitale non è altro che il “vecchio caro” costituzionalismo impegnato in una fase di rinnovamento, non di stravolgimento, che sia in grado di fare fronte alle nuove sfide legate all’esplosione della dimensione digitale. Alla geometria variabile del potere segue la geometria altrettanto variabile del costituzionalismo.
Nel Libro bianco della Commissione europea si dice che “è essenziale che l'IA europea sia fondata sui nostri valori e diritti fondamentali quali la dignità umana e la tutela della privacy.” Affermazione che entusiasma ed esalta ma dietro alla quale si ha difficoltà ad individuare delle precise linee operative che possano indirizzare la policy in tema di Intelligenza artificale. Potresti farci quache esempio per rendere concreto il messaggio della Commissione UE e al contempo individuare almeno in parte le linee strategiche di un futuro digitale “degno” della persona umana?
A mio avviso, l’intento della Commissione di adottare il Libro Bianco da voi citato citato e, più in generale il pacchetto di riforme della dimensione digitale europeo presentato a dicembre, tra cui spiccano Digital Service Act e Digital Market Act, è duplice. In primo luogo, superare una delle più grand debolezze della strategia per il mercato unico digitale lanciata dalla Commissione nel 2015. Vale a dire il fatto che i segmenti più rilevanti alla base di detta strategia non fossero comunicanti, ansi spesso siano in contraddizione. E qui c’è ben poco di strategico. Si pensi, per esempio, a come, in questi anni, si sia affrontato in modo settoriale (solo a titolo esemplificativo, copyright, servizi media audiovisivi, normativa antiterrorismo) la questione del necessario aggiornamento della disciplina, datata 2000, in materia di esenzione di responsabilità dei providers, alla natura attuale, assai più evoluta, non solo da un punto di vista tecnologico, delle nuove piattaforme digitali. Consapevoli dei rischi conseguenti alla frammentazione evocata, tanto a livello nazionale quanto, in misura ancora più significativa, a livello europeo emerge la volontà di affrontare in modo finalmente unitario - la questione dell’adozione nuove regole che siano in grado di trovare risposte più adeguate per prevenire il predominio non sono di carattere economico, ma anche politico delle nuove piattaforme, definite testualmente “gatekeepers” nel documento della Commissione relativo alla nuova strategia dei dati. Il secondo elemento che caratterizza la riforma europea appena varata, per provare a concretizzare quanto mi chiedevate nella domanda, della nuova stagione europea del digitale è in qualche modo racchiuso nella dichiarazione della Commissaria Verstager “poche grandi piattaforme online hanno un impatto enorme, ma dobbiamo riuscire a integrarle nella nostra democrazia”. Quindi un passaggio dalla logica del mercato unico digitale, mantra della riforma della Commissione Junker, all’idea di fondo alla base della “controriforma” della Commissione Von der Leyen: una democrazia digitale rapporto cui possa tendere il rapporto nuove tecnologie, diritti fondamentali e stato di diritto. Un passaggio, quello dalla dimensione esclusivamente economica a quella relativa alla tenuta complessiva del sistema democratico che è conseguenza diretta di una trasformazione o meglio trasfigurazione in corso. Si fa riferimento fatto che alcuni (i più grandi per riprendere lo spunto della Vestsagen) attori che forniscono servizi digitali a livello globale non esercitano più soltanto un diritto di iniziativa economica, ma ricoprono il ruolo di veri e propri poteri privati. Ecco che ritorna la geometria variabile (da verticale ad orizzontale) che caratterizza la sfida principale per la nuova stagione del costituzionalismo digitale.
Come conciliare i valori, tutti europei, che la Commissione continua a richiamare quale humus per un nuovo umanesimo digitale con la dimensione transnazionale del web? L’Unione europea rischia di diventare una fortezza del digitale in cui manchino i ponti levatoi di internossione con la dimensione globale delle nuove tecnologie?
Si tratta di una domanda fondamentale, specialmente alla luce della prospettiva transatlantica legata al necessario ponte di connessione digitale tra Europa e Stati Uniti. Si pensi a quanto è successo dopo i fatti di Capitol Hill e al silenziamento sui social del ex presidente Trump. Se cerchiamo una convergenza sui valori sostanziali in gioco, le asimmetrie, con riguardo ai modelli di tutela di libertà di espressione e di privacy, difficilmente si assottiglieranno. Con riguardo alla prima libertà, come si è spesso avuto occasione di ribadire, il primo Emendamento della Costituzione americana ha un valore quasi sacrale ed un ambito di estensione a tratti sconfinato. In Europa, al contrario, la libertà di espressione si gioca la sua partita alla pari con gli altri diritti fondamentali. Ed è invece proprio la tutela della privacy a rappresentare il “primo Emendamento” del costituzionalismo europeo, assieme alla tutela della dignità, oggetto di sistematica umiliazione nel periodo nazi-fascista. Tale asimmetria si ripercuote immediatamente sulla differenziazione dei modelli di protezione dei diritti fondamentali in gioco. Basti vedere come la reazione giuridica alla disinformazione e ai discorsi d’odio trovi una geometria variabile tra le due sponde dell’Atlantico.
Alla luce delle asimmetrie transatlantiche in termini di valori guida e normative di dettaglio, c’è un linguaggio comune che possa essere proposto per affrontare in modo, se non unitario, almeno meno divergente la sfida che pone il ground zero della regolamentazione digitale?
Forse sì. Ma tale linguaggio non va cercato in valori costituzionali di natura sostanziale (che non possono non divergere come abbiamo visto) bensì in meccanismi procedurali (che possono unire). È infatti proprio la procedura, al di là della retorica dei diritti fondamentali, la parola chiave della nuova stagione del costituzionalismo digitale. Si fa in particolare riferimento agli obblighi di trasparenza algoritmica per le piattaforme digitali e al data due process che comporterebbe il rafforzamento delle tutele degli utenti nel loro rapporto con le piattaforme. Se il costituzionalismo analogico è quello dei diritti sostanziali, quello digitale si fonda invece sulla dimensione procedurale.
Tutto ciò si concretizza in un due indicazioni. La prima è che la libertà (e il diritto) delle piattaforme a rimuovere quanto considerano non consono ai propri standard contrattuali deve accompagnarsi alla conseguente loro accettazione di una maggiore responsabilizzazione, prima di tutto sul piano delle procedure, di chi non si limita più a ospitare contenuti, ma assume decisioni para-editoriali sulla loro permanenza in rete.
La seconda indicazione è relativa all’ormai non più procrastinabile intervento del decisore politico. La stagione del liberismo tecnologico, in cui vi è stata una delega in bianco alle piattaforme che, di fatto, si sono fatte arbitri (svolgendo un ruolo, anche scomodo, di digital utilities) del bilanciamento tra diritti fondamentali, ha prodotto le storture che sono plasticamente rappresentate dalle vicende di questi giorni. Dopo il ground zero, deve aprirsi una stagione nuova, se non di umanesimo, quanto meno di un capitalismo digitale “mite” in cui i poteri pubblici siano in grado di portare avanti una visione non privatistica e tanto meno non proprietaria dello spazio digitale. Uno spazio che – lo si voglia o no – è ormai il luogo privilegiato di quel (non esattamente libero) mercato delle idee.
Maria Rosaria Ferrarese, nella sua introduzione a “La giustizia digitale” di Antoine Garapon e Jean Lassègue si interroga sulla possibilità di conciliare il costituzionalismo e la cultura dei diritti con la giustizia digitale. Lei pensa che il recupero di certezza e prevedibilità che sembra cavalcare l’era digitale possa incidere sul tema del costituzionaismo facendo pendere il pendolo della bilancia in favore di chi si ostina a guardare con sospetto il principialismo?
Proprio alla luce di quanto si diceva prima a me pare che la “giustizia digitale” , per riprendere il titolo del bel volume che avete citato, abbia ancora più bisogno di una cultura dei diritti e di un costituzionalismo attento alle nuove trasformazioni del potere. Vi è il passo di una intervista di Garapon che mi piace riprendere qui perché fa emergere chiaramente meglio di qualsiasi perifrasi perché non ci sia altra via che trovare quella conciliazione di cui parlavi nella tua domanda. “La tecnologia non potrà mai sostituirsi alla giustizia, perché carattere ontologico di quest’ultima è quello di dialogare con le passioni umane. Queste ultime prendono la forma, innanzitutto, di una aspettativa molto forte di giustizia, che poi altro non è che ciò gli americani chiamano to have one’s day in court, ossia la possibilità di essere ascoltati, unita alla sensazione che “giustizia è stata fatta”. Questo sentimento scaturisce da un evento sociale e la tecnologia digitale non può identificarsi in alcun modo con un fenomeno sociale: non vi è, al suo interno, uno spazio condiviso, non vi è alcun faccia a faccia, non c’è nessuna materialità. La tecnologia digitale potrebbe pertanto essere vissuta come una violenza eccedente: essa sarà cioè ben accolta dalla parte vittoriosa nel processo, che si è vista soddisfatta nelle sue aspettative, mentre sarà percepita come un atto ulteriore di violenza dal soccombente, perché elimina la presenza di un soggetto terzo ed estraneo al rapporto, che funge da intermediario nella risoluzione della controversia”.
La paura della e dalla intelligenza artificiale. L’innovazione tecnologica ha sempre atterrito il mondo dei giuristi, spesso legato ad una concezione vagamente bohémien del proprio mestiere. Le ultime frontiere in materie e quelle che verranno quale effetto produrranno sul diritto scritto e sul diritto giurisprudenziale, secondo Lei.
Secondo me è molto importante che l’operatore del diritto, sia esso giudice, avvocato o accademico, non si accosti all’intelligenza artificiale in modo né utopistico, né distopico. Vale a dire è fondamentale che il nuovo spazio digitale non sia percepito come un “altrove”, sconnesso dallo spazio fisico, in cui via sia o un’esaltazione o una demonizzazione del fattore tecnologico, ed in particolare di quello algoritmico. La tecnologia, anche l’ecosistema costituito dalla intelligenza artificiale, rimane uno strumento che va guidato e non subito.
Anche la Commissione europea per l’efficienza della Giustizia raccomanda l’impiego dell’Intelligenza Artificiale nella Giustizia, come grande opportunità applicativa per l’efficacia del sistema giudiziario; e si preoccupa di fissare i principi di fondo (rispetto dei diritti fondamentali; non discriminazione; qualità e sicurezza; trasparenza, imparzialità ed equità; controllo finale dell’utente). Come valuta questa presa di posizione, alla luce della Sua esperienza attuale presso l’Agenzia europea per i diritti fondamentali?
Mi sembra una presa di posizione più che condivisibile. L’opportunità applicativa è significativa e sarebbe un peccato non cogliere il potenziale di innovazione che essa ha in seno. Allo stesso tempo, è però fondamentale, a mio avviso, avere ferma una bussola che eviti il disorientamento algoritmico. Una bussola che ha due basi portanti, che sono fatte proprie da un recente Rapporto (dicembre 2020) dell’Agenzia europea per i diritti fondamentali di cui ho il privilegio di essere parte. La prima è la consapevolezza, come d’altronde ribadita dalla giurisprudenza rilevante del Consiglio di Stato, che si tratta spesso di modelli predittivi tutt’altro che neutri, e spesso caratterizzati da forti pre-orientamenti assiologici che possono condizionare pesantemente l’esito della valutazione. È quindi fondamentale che permanga, quale elemento fondamentale della valutazione stessa, l’insostituibile operazione di bilanciamento operata dal giudice. In secondo luogo, e qui mi riferisco a quanto richiamato in precedenza circa la dimensione procedurale quale humus costituzionale privilegiato della dimensione digitale, è attraverso gli obblighi di trasparenza, di accesso, di traducibilità ed esplicabilità dell’algoritmo che si può combattere l’opacità dello stesso. Opacità che rimane il tallone di Achille più esposto della società digitale dei numeri, specie sotto una prospettiva che abbia come parametro conformativo le regole che presiedono lo stato di diritto. D’altronde, già 40 anni fa, nel 1980, quel visionario di Norberto Bobbio, ammoniva, toccando anche i profili dell’informatica, come compito del diritto, e più in generale della società, fosse quello di riuscire a far fare al potere, sia esso di matrice pubblica o privata, ciò che esso non farebbe mai autonomamente. Vale a dire essere il più possibile trasparente. “Il regno del potere visibile”
TULLIO ASCARELLI E IL RACCONTO DI UN MAESTRO
Recensione a Mario Stella Richter jr, Racconti ascarelliani, Editoriale Scientifica, Napoli, 2020, pp. 1 - 99.
di Cristiano Cupelli
Sommario: 1. La sfida e la scoperta. - 2. L'interrelazione tra biografia e bibliografia. - 3. La chiamata a Roma e l'incessante ricerca di nuovi sentieri scientifici. - 4. Gli studi sull'interpretazione e gli spunti ancora attuali (anche per il penalista).
1. La sfida e la scoperta
Per un penalista non è facile – e può rischiare di apparire eccessivamente ambizioso – cimentarsi nella recensione di un volume dedicato alla biografia e all'opera di un gigante (richiamando il titolo della Collana che ospita lo scritto) del diritto commerciale e dell'intera scienza giuridica. Ancor più, se a raccontare il gigante, Tullio Ascarelli, è un altro insigne studioso del diritto commerciale, Mario Stella Richter, ordinario nel Dipartimento di Giurisprudenza dell'Università di Roma "Tor Vergata", che a tale opera – che va ben al di là della ricostruzione bio-bibliografica – ha dedicato negli ultimi anni sforzi appassionati, confluiti in plurimi contributi, apparsi dapprima e singolarmente in prestigiose riviste giuridiche o opere collettanee[1] e culminati infine, in forma rimeditata e sistematizzata, in un lavoro monografico al contempo denso, godibile e coinvolgente che ne rappresenta la summa e l'evoluzione[2].
Ecco che, quindi, l'ardire della sfida assunta dal recensore apre la porta, attraverso la lettura, alla scoperta di un percorso biografico e scientifico del tutto peculiare – intenso e avvincente –, nel quale il tratto umano e il percorso scientifico si fondono nel delineare la fisionomia – prendendo in prestito le parole di Bobbio in un celebre ritratto di Tullio Ascarelli – "di uomo curioso, irrequieto, sempre pronto a nuove esplorazioni, verso nuovi orizzonti di sapere"[3]. Questa 'scoperta', invero, conforta chi scrive, offrendogli un'autorevole conferma di quanto ha maturato studiando assieme opere e biografie di studiosi più vicini al mondo penalistico: la convinzione cioè che esista un rapporto osmotico tra biografia e bibliografia dei grandi Maestri, da dovere necessariamente approfondire – con adeguati strumenti critici, come fa con grande eleganza Mario Stella Richter – per poterne cogliere sino in fondo scelte di metodo, contenuto, ambiti di ricerca e soluzioni prospettate; per comprendere, in sostanza, il percorso intellettuale del giurista anche e soprattutto alla luce del suo vissuto[4]. Tullio Ascarelli, nella limpida descrizione dei Racconti, offre in questa prospettiva elementi ulteriormente corroboranti, incarnando – al netto degli indiscussi e indiscutibili riconoscimenti scientifici che gli sono stati tributati, sui quali non occorre di certo indugiare – la figura di uno studioso inquieto in un'epoca di transizione, di un intellettuale non assopitosi nei sofismi di una dogmatica percepita come inadeguata, cui va riconosciuto anzitutto il coraggio e il merito di avere saputo assecondare la propria irrequietezza intellettuale, aprendosi alla contaminazione della realtà che lo circondava, alla costante ricerca, nel corso degli anni e senza timore di sperimentare, di nuovi stimoli culturali e giuridici.
2. L'interrelazione tra biografia e bibliografia nei Racconti
I tratti di questa interrelazione forte tra biografia e bibliografia possono cogliersi anche in molti passaggi dei Racconti. Si pensi, anzitutto, alla precocità e alla velocità che hanno rappresentato la cifra dell'intera esistenza di Tullio Ascarelli, dal termine degli studi (scolastici e universitari) sino al percorso accademico (che lo ha visto salire giovanissimo in cattedra). Precoce anche il drammatico momento della scomparsa, a soli 56 anni, e frenetico il suo percorso, accademico e scientifico: sul piano accademico, ha insegnato, infatti, diritto commerciale, industriale, marittimo e anche istituzioni di diritto civile e ha ricoperto incarichi in molte Università italiane, prima di approdare, finalmente, a Roma; sul piano scientifico, ha affrontato e anticipato, come è ben noto, temi cruciali del diritto commerciale, ma ha anche arato campi di sapere ‘altri’, traducendo l'inclinazione alla trasversalità degli interessi in un approccio che oggi potremmo definire multidisciplinare, emblematicamente testimoniato dagli studi di teoria generale del diritto. Beffardamente, quest'ansia di anticipare i tempi gli venne anche in qualche modo rimproverata nel giudizio del concorso per professore di ruolo a Ferrara nel 1926, allorquando furono avanzate timide obiezioni fondate proprio sull'esuberanza di taluni scritti minori (p. 45). Tutto ciò restituisce l'immagine – nitidamente colta dall'Autore – di un'esistenza "perennemente di corsa", vissuta "non risparmiandosi mai, bruciando ogni tappa, superando a velocità vertiginosa le posizioni che lui stesso aveva fissato" (p. 89).
Rievocando il contesto politico degli anni Trenta, poi, pur senza entrare nel terreno scivoloso del dibattito sulla mancata (o non abbastanza vigorosa) presa di distanza dal fascismo, viene messo in luce quanto il clima dell'epoca abbia influito sulla scelta – che nel volume è descritta con raffinata sensibilità (pp. 47 - 52) – di separare la passione del politico dal percorso dello studioso, portando Ascarelli a tuffarsi "disperatamente", per dirla ancora con Bobbio, sulla via "degli studi politicamente sterilizzati e della libera professione"[5]; del resto, ci ricorda Mario Stella Richter al cospetto di semplicistiche stigmatizzazioni, "tra il non essere martiri ed eroi e l'essere fascistissimi e ammiratori frenetici di tale regime ne corre di strada: ed è in questo lungo intervallo che deve collocarsi Tullio Ascarelli, che del fascismo fu comunque vittima, senza farne del vittimismo" (p. 52).
Ancora, nel ricordo degli anni trascorsi in Francia e soprattutto in Brasile (pp. 61 - 65), traspare l'anelito a svincolarsi dalla imperante territorialità del diritto (iniziano in questa fase gli approfondimenti di diritto comparato), così come nel periodo immediatamente successivo al ritorno in Italia si palesa un nuovo temperamento di studioso (spec. pp. 78 - 79), che conduce Ascarelli a insistere su temi sempre più impegnativi di teoria generale del diritto, accompagnato da un atteggiamento – che Bobbio non ha esitato a definire addirittura "baldanzoso"[6] – di vero e proprio demolitore di idee tralatizie e, si può aggiungere, di luoghi comuni, per lo più passivamente e acriticamente tramandati.
3. La chiamata a Roma e l'incessante ricerca di nuovi sentieri scientifici
Un capitolo a parte merita l'episodio della chiamata alla Sapienza, descritta in maniera minuziosa nelle travagliate sfumature di politica accademica (pp. 67 - 79); per chi si appassiona a siffatte dinamiche, la vicenda appare davvero istruttiva, svelando i sintomi del costante tentativo di penetrazione della politica (nel senso meno nobile) all’interno dell'Università. Nel caso di specie, tuttavia, si può ben dire che l'Accademia abbia saputo offrire, pur tra non poche oscillazioni, un'importante 'prova di resistenza', dimostrando una proficua capacità compositiva di istanze all'apparenza antitetiche; una capacità che, a dire il vero, appare oggi, nel contesto universitario, piuttosto sfumata nel perdurare di diatribe, sempre più politiche e meno accademiche.
In questa fase, Ascarelli, non appagato da una carriera giunta all'apice, anziché adagiarsi moltiplica gli sforzi: i progetti di ricerca, le nuove pubblicazioni, gli inviti a conferenze e le iniziative editoriali (pp. 78 - 79). Inizia la Direzione dell'Enciclopedia del diritto e fonda la Collana Testi per la Storia del pensiero politico, nel cui primo volume è inserita un'ampia Introduzione a lavori di Hobbes e Leibniz; si tratta del suo ultimo scritto, nel quale si spinge ad accomunare – nonostante le differenze – i due autori nella comune concezione dell'interpretazione giuridica come opera non innovativa ma dichiarativa, offrendo in questo denso contributo ulteriori riferimenti e precisazioni sulla sua teoria dell'interpretazione (in un ideale percorso scientifico aperto e chiuso proprio sul terreno impervio dell'interpretazione).
4. Gli studi sull'interpretazione e gli spunti ancora attuali (anche per il penalista)
Quest'ultimo riferimento consente, prima di concludere, di tornare sulla precocità di Ascarelli, qui intesa quale capacità di anticipare questioni nodali, che occuperanno il dibattito (anche penalistico) negli anni immediatamente successivi.
Il riferimento è al rapporto in perenne tensione tra legge e giudice, tra lex scripta e iurisdictio, con particolare riguardo ai limiti dell'interpretazione giurisprudenziale e ai margini di un suo apporto 'creativo' e non meramente ‘ricognitivo’ di significati. Si tratta di temi che – come si è visto – chiamano in causa, in un'ideale circolarità, l'inizio e la fine della riflessione scientifica di Tullio Ascarelli (la natura e la funzione dell’ermeneutica giuridica) e che conservano intatta la loro problematica attualità, incentrata oggi, soprattutto, nella complicata convivenza 'quadrangolare' tra legislatore, giudice di legittimità, Corte costituzionale e Corti sovranazionali (esplosa in maniera fragorosa, ad esempio, nel noto caso Taricco) e nei tentativi di enucleare una forma di 'integrazione sostenibile' anche in ambito penale tra legalità formale e diritto giurisprudenziale. E chissà che, in un contesto particolarmente critico come quello odierno, non possa essere proprio un'adeguata valorizzazione dell'intuizione ascarelliana di un'attività interpretativa che adempie la sua funzione mantenendo la continuità del sistema, muovendosi fra i due poli della creatività e della continuità e recuperando l'indirizzo funzionalistico nello studio dei gradi problemi giuridici contemporanei, a consentire di individuare – anche nella prospettiva penalistica – una plausibile via d'uscita dalla rigida contrapposizione ideologica cui stiamo assistendo.
Anche per questo spunto, meritevole di ben più significativi approfondimenti, il debito di gratitudine nei confronti di Mario Stella Richter è enorme; la lettura del suo Volume non solo ci guida alla scoperta (o alla riscoperta) della vita e dell'opera di Tullio Ascarelli, ma ci indica e ci spinge ad approfondire nuovi possibili sentieri tematici alla ricerca di soluzioni già tracciate dai Maestri a problemi solo apparentemente nuovi.
[1] Tra i quali segnalo: Tullio Ascarelli studente, in Riv. soc., 2009, 1237 ss. (e in Revista de Direito Mercantil, 2011, vol. 159/160, 9 ss.); Filippo Vassalli preside e la chiamata di Tullio Ascarelli alla Facoltà giuridica romana, in Riv. dir. comm. 2010, I, 693 ss.; Tullio Ascarelli, in Il contributo italiano alla storia del pensiero, in Enciclopedia italiana – Appendice ottava – Il diritto, a cura di P. Cappellini, P. Costa, M. Fioravanti, B. Sordi, Roma, ,2012, p. 707 ss.; Tullio Ascarelli avvocato, in Riv. soc., 2013, 190 ss. (e in Studi in onore di Paolo Stella Richter, vol. II, Napoli, 2013, 929 ss.); voce Ascarelli, Tullio del Dizionario biografico dei giuristi italiani, a cura di I. Birocchi, E. Cortese, A. Mattone e M.N. Miletti, vol. I, Bologna, 2013, 108 ss.; Tullio Ascarelli e i beni immateriali, in “Afferrare... l’inafferrabile”. I giuristi e il diritto della nuova economia industriale fra Otto e Novecento, a cura di A. Sciumè e E. Fusar Poli, Milano, 2013, 53 ss. (e in Impresa e mercato. Studi dedicati a Mario Libertini, tomo II, Milano, 2015, 1259 ss.); voce Tullio Ascarelli del Dizionario del liberalismo italiano, vol. II, Soveria Mannelli, 2015, 87 ss.; Gli Ascarelli prima di Tullio, in Liber amicorum Pietro Rescigno, vol. II, Napoli, 2018, 1913 ss., e, in castigliano con il titolo Los ancestros de Tullio Ascarelli, in Revista de Derecho Mercantil, n. 308, 2018, 417 ss.; Tullio Ascarelli: as obras e os dias, in Direito empresarial contemporâneo. Tullio Ascarelli no século XXI, a cura di D. Borges dos Santos Gomes de Araujo, São Paulo, 2018, 12 ss.; Il giovane Ascarelli, in ‘Non più satellite’. Itinerari giuscommercialistici tra Otto e Novecento, a cura di I. Birocchi, Pisa, 2019, 259 ss.; Cinque storie ascarelliane, in Giur. comm., 2020, I, 243 ss.
[2] Sul Volume, S. Cassese, La difficile, intensa vita del giurista Ascarelli, in Il Sole 24 ore, 30 agosto 2020; J. M. Embid Irujo, Le traiettorie di Tullio Ascarelli, in Riv. dir. comm., 2020, II, 553 ss.; M. Grondona, Mario Stella Richter jr, Racconti ascarelliani, in Banca, borsa tit. cred., 2020, I, 957 ss.; L. Lacché, Scheda di lettura dei Racconti ascarelliani, in Giornale di storia costituzionale, 2020, 315 ss.; P. Marchetti, Racconti ascarelliani, in Riv. soc., 2020, 865 ss.; nonché la recensione di F. Migliorino, in corso di pubblicazione su Quaderni fiorentini, 2021.
[3] N. Bobbio, Ritratti critici di contemporanei. Tullio Ascarelli, parte II, in Belfagor, XIX, 1964, n. 4, 565.
[4] Sviluppa questo aspetto, da ultimo, O. Roselli, Alla ricerca della dimensione giuridica (ed umana) attraverso la narrazione biografica ed autobiografica dei giuristi (a proposito di un libro di Alessandra Valastro), in Osservatorio AIC, 3 novembre 2020, 4 ss.
[5] N. Bobbio, L'itinerario di Tullio Ascarelli, in Studi in memoria di Tullio Ascarelli, vol. I, Milano, 1969, CIX.
[6] N. Bobbio, Ritratti critici di contemporanei. Tullio Ascarelli, parte I, in Belfagor, XIX, 1964, n. 4, 414.
La proposta di regolamento sui «servizi digitali» dell’Unione europea: profili procedimentali (brevi note)
di Filippo D’Angelo
sommario: 1. L’ambito applicativo. - 2. La coamministrazione delle funzioni di vigilanza. - 3. La «cooperazione transfrontaliera tra coordinatori dei servizi digitali». 4. La «vigilanza rafforzata sulle piattaforme online di dimensioni molto grandi». - 5. Una riflessione conclusiva.
1. L’ambito applicativo.
Il 15 dicembre 2020 l’Unione europea ha pubblicato la proposta (n. 2020/0361) di regolamento sul «mercato unico dei servizi digitali». Dopo una lunga attesa il documento è intervenuto a colmare un vuoto legislativo non più procrastinabile e ha dettato «norme armonizzate sulla prestazione di servizi intermediari nel mercato interno»[1]. Questi i suoi obiettivi: «stabilire un ambiente online sicuro, prevedibile e affidabile»[2]; contrastare la diffusione di «contenuti illegali» in rete[3]; garantire la neutralità delle piattaforme telematiche[4]; tutelare i diritti fondamentali degli utenti[5].
La nuova normativa si applicherà a tutti i «servizi intermediari prestati a destinatari il cui luogo di stabilimento o di residenza si trova nell’Unione» (il riparto delle funzioni di vigilanza segue dunque un criterio territoriale)[6]; e riguarderà nello specifico i servizi di semplice trasporto (“mere conduit”), di memorizzazione temporanea (“caching”) e di memorizzazione su richiesta dell’utente (“hosting”)[7]. In quest’ultima categoria rientrano le «piattaforme online», come i social network o i mercati digitali[8], che possono assumere «dimensioni molto grandi» se «prestano i loro servizi a un numero medio mensile di destinatari attivi del servizio nell’Unione pari o superiore a 45 milioni», ossia al 10% della popolazione totale dell’Unione[9].
2. La coamministrazione delle funzioni di vigilanza.
L’esecuzione del nuovo regolamento è stata affidata a un «sistema comune» di autorità amministrative formato dalla Commissione, dai coordinatori nazionali dei servizi digitali e dal comitato che li riunisce[10]; in base al preciso disposto regolamentare essi «cooperano tra loro» secondo collaudati meccanismi di coamministrazione delle funzioni di vigilanza[11]. La proposta di regolamento ha assegnato alla Commissione e alle autorità nazionali rilevanti poteri istruttori (possono richiedere informazioni ai prestatori di servizi digitali; possono ispezionare i loro locali aziendali; possono sequestrare documenti; possono verbalizzare qualunque dichiarazione) e altrettanto incisivi poteri decisionali (possono ordinare la cessazione di comportamenti illeciti; possono imporre misure correttive e accettare impegni vincolanti; possono adottare misure cautelari; possono irrogare sanzioni pecuniarie e penalità di mora) da esercitare nel rispetto del principio del contraddittorio coi destinatari[12].
La vigilanza settoriale spetta in prima battuta alle autorità nazionali (secondo il menzionato criterio del luogo di stabilimento dell’impresa vigilata), anche se sono previsti specifici meccanismi di composizione con la Commissione. Le autorità pubbliche dell’Unione e degli Stati membri sono infatti collegate attraverso raccordi di natura procedimentale ed è qui che si può apprezzare più nitidamente l’intensità della loro collaborazione.
3. La «cooperazione transfrontaliera tra coordinatori dei servizi digitali».
Tanto accade, ad esempio, nella procedura di «cooperazione transfrontaliera tra coordinatori dei servizi digitali» che si svolge nel seguente modo.
Il procedimento è avviato da qualunque coordinatore nazionale dei servizi digitali che può chiedere al coordinatore competente per territorio di «valutare la questione e di adottare le misure di indagine e di esecuzione necessarie» qualora vi sia il sospetto che un prestatore di servizi intermediari abbia violato le norme del regolamento[13]. La richiesta è motivata in punto di fatto e diritto, ed è corredata delle prove necessarie[14]. Ricevuta l’istanza il coordinatore interpellato avvia l’indagine ed entro due mesi comunica la propria valutazione del caso e indica le eventuali misure adottate[15].
Laddove l’autorità proponente «non abbia ricevuto una risposta» alla propria richiesta nel termine previsto, oppure «non concordi con la valutazione del coordinatore dei servizi digitali» interpellato[16], può̀ deferire la questione alla Commissione che la esamina entro tre mesi. Se giunge a conclusioni diverse da quelle dell’autorità nazionale che ha condotto l’indagine la Commissione le può chiedere di «valutare ulteriormente la questione e di adottare le misure di indagine o di esecuzione necessarie» nei successivi due mesi[17].
Tuttavia il procedimento non termina qui: se l’indagine riguarda una «piattaforma online di grandi dimensioni» e il coordinatore dei servizi digitali competente non ha svolto il supplemento istruttorio richiesto dalla Commissione[18], quest’ultima può richiamare a sé il procedimento di vigilanza e da quel momento il «coordinatore dei servizi digitali del luogo di stabilimento interessato non è più̀ autorizzato ad adottare alcuna misura di indagine o di esecuzione in relazione alla pertinente condotta della piattaforma online di dimensioni molto grandi interessata»[19]. Egli può solo coadiuvare la Commissione, fornendole il fascicolo d’indagine con tutte le informazioni necessarie affinché questa possa adottare la decisione più appropriata nei confronti della piattaforma telematica vigilata[20].
4. La «vigilanza rafforzata sulle piattaforme online di dimensioni molto grandi».
Un procedimento in parte analogo si osserva per la «vigilanza rafforzata sulla piattaforme online di dimensioni molto grandi». In base alle disposizioni del nuovo regolamento quest’ultime sono soggette ad alcuni specifici oneri comportamentali come ad esempio: adottare misure cicliche di attenuazione dei rischi sistemici (ossia la manipolazione dei dati e la loro illegale divulgazione); sottoporsi ogni anno ad audit indipendenti; detenere un registro dei dati pubblicitari diffusi al pubblico; istituire un ufficio di contatto con le autorità di settore[21]. In caso di loro sospetta violazione la Commissione, il comitato dei coordinatori o almeno tre coordinatori nazionali dei servizi digitali possono interpellare il coordinatore competente per territorio e chiedergli di avviare un’indagine[22].
Aperto il procedimento l’autorità agente prende subito contatto con la piattaforma telematica vigilata e le può chiedere di elaborare prima un «piano di azione in cui precisi come intende far cessare o porre rimedio alla violazione»[23]; e poi di sottoporsi a un «audit indipendente supplementare che consenta di valutare l’efficacia di tali misure nel far cessare o porre rimedio alla violazione»[24]. Esauriti tali passaggi istruttori il coordinatore dei servizi digitali comunica alla Commissione, al comitato e alla piattaforma online se ritiene o meno che le misure intraprese abbiano rimediato alla violazione riscontrata; dopodiché egli «non è più̀ autorizzato ad adottare alcuna misura di indagine o di esecuzione»[25].
Il motivo è presto spiegato: qualora persista una violazione regolamentare spetta solo alla Commissione il potere di intervenire, al posto dell’autorità nazionale, nei confronti della piattaforma digitale con una decisione puntuale[26]. Si ripete allora lo stesso schema già visto nel precedente procedimento: la Commissione avvia un’indagine in autonomia (ma col supporto dell’autorità nazionale) e al termine adotta il provvedimento di vigilanza più adatto a reprimere la violazione.
5. Una riflessione conclusiva.
È sicuramente prematuro avanzare già da ora previsioni sull’impatto che avrà il nuovo regolamento sui servizi digitali dell’Unione all’indomani della sua entrata in vigore; un dato però appare di estremo valore e si deduce dalla struttura dei due procedimenti appena analizzati che forniscono interessanti spunti di riflessione.
Andando infatti oltre il profilo puramente esteriore rappresentato dalla contitolarità della funzione tipica dei casi di coamministrazione, emerge che in entrambi i procedimenti il legislatore dell’Unione ha posizionato una relazione organizzativa che esprime il momento culminante della collaborazione tra le autorità dell’Unione e degli Stati membri. I due procedimenti si caratterizzano, a ben vedere, per il potere della Commissione di sostituirsi al coordinatore nazionale dei servizi digitali nei casi tipicizzati dal regolamento; e in questo senso hanno (anche) valenza organizzativa.
La regolamentazione settoriale sui servizi digitali sembra dunque comprovare, ove ce ne fosse ancora bisogno, l’elevato potenziale scientifico che si annida nei «sistemi comuni» dell’Unione; e conferma l’utilità di studiare la disciplina del procedimento amministrativo non solo sul piano formale (la scansione in fasi) o sul piano sostanziale (l’esercizio del potere pubblico), ma anche nei suoi immanenti aspetti organizzativi: cioè dalla (poco esplorata) prospettiva delle relazioni organizzative procedimentali tra apparati pubblici.
[1] Art. 1, par. 1; come chiarisce il cons. n. 4 il regolamento introduce una «serie mirata di norme obbligatorie uniformi, efficaci e proporzionate a livello dell'Unione al fine di tutelare e migliorare il funzionamento del mercato interno. Il presente regolamento stabilisce le condizioni per lo sviluppo e l'espansione di servizi digitali innovativi nel mercato interno».
[2] Art. 1, par. 2, lett. b.
[3] Cioè «qualsiasi informazione che, di per sé o in relazione ad un'attività̀, tra cui la vendita di prodotti o la prestazione di servizi, non è conforme alle disposizioni normative dell'Unione o di uno Stato membro» (art. 2, lett. g).
[4] Cons. n. 20.
[5] Che ai sensi del cons. n. 41 sono: la libertà d’informazione e di espressione; il diritto alla riservatezza e alla vita privata; la libertà d’impresa; la tutela della proprietà intellettuale.
[6] Art. 1, par. 3.
[7] Art. 2, lett. f) che include nel concetto di «servizio intermediario»: un «servizio di semplice trasporto (“mere conduit”), consistente nel trasmettere, su una rete di comunicazione, informazioni fornite da un destinatario del servizio, o nel fornire accesso a una rete di comunicazione; un servizio di memorizzazione temporanea (“caching”), consistente nel trasmettere, su una rete di comunicazione, informazioni fornite dal destinatario del servizio, che comporta la memorizzazione automatica, intermedia e temporanea di tali informazioni al solo scopo di rendere più̀ efficiente il successivo inoltro delle informazioni ad altri destinatari su loro richiesta; un servizio di “hosting”, consistente nel memorizzare informazioni fornite da un destinatario del servizio su richiesta di quest'ultimo».
[8] Cons. n. 13.
[9] Art. 25, par.1.
[10] Cons. n. 45.
[11] Art. 38, par. 2.
[12] Art. 41, par. 1 e par. 2 (per quanto concerne le autorità di vigilanza nazionali); artt. 54-63 (per quanto riguarda la Commissione).
[13] Art. 45, par. 1.
[14] Art. 45, par. 2.
[15] Art. 45, par 3 e par. 4.
[16] Art. 45, par. 5 e par. 6.
[17] Art. 45, par. 7.
[18] Il presupposto previsto dall’art. 51, par. 1, lett. a) è che la piattaforma di grandi dimensioni «abbia violato una qualsiasi delle disposizioni del presente regolamento senza che il coordinatore dei servizi digitali del luogo di stabilimento abbia adottato alcuna misura di indagine o esecuzione a seguito della richiesta della Commissione di cui all'articolo 45, paragrafo 7, dalla scadenza del termine stabilito in tale richiesta».
[19] Art. 51, par. 2.
[20] Art. 51, par. 3.
[21] Artt. 26-32.
[22] Art. 50, par. 1.
[23] Art. 50, par. 2.
[24] Art. 50, par. 3.
[25] Art. 50, par. 4.
[26] Art. 51, par. 1, lett. c).
Il punto su protezione dei dati personali, riservatezza e magistrati. Intervista di Paola Filippi a Giorgio Resta, professore ordinario di Diritto comparato presso l'Università di Roma Tre
1. Il d. lgs. n. 51 del 2018, emesso in esecuzione della direttiva UE 2016/680 sulla protezione dei dati personali, ha introdotto disposizioni in materia di tutela del trattamento dei dati personali di soggetti terzi acquisti in ambito penale.
Come si attua secondo la previsione normativa la tutela dei terzi? *
Il decreto ha introdotto, all’art. 14, 1° co., una norma assolutamente innovativa, che sancisce in capo a chiunque vi abbia interesse (dunque anche il terzo) il diritto di ottenere, con le forme particolarmente agili delle procedure di cui agli artt. 116 e 130 c.p.p., la rettifica, cancellazione o limitazione dei dati che lo riguardano, contenuti in atti giudiziari o indagini, anche in sede processuale. Si tratta di una tutela remediale importante, che valorizza anche in ambito giudiziario il diritto fondamentale alla protezione dei dati personali (art. 8 Carta dei diritti UE) e segnatamente all’autodeterminazione informativa. A tacer d’altro, tale disposizione, se riferita a dati eccedenti contenuti nelle trascrizioni delle intercettazioni, potrebbe dare un contributo ad importante se non proprio a risolvere, quanto meno a inquadrare correttamente sul piano teorico e valoriale molti dei problemi suscitati dal fenomeno del trial by media.
2. Il Palamara gate, oltre a scoperchiare il vaso di pandora sulla lottizzazione delle nomine e degli incarichi conferiti dal Consiglio superiore della Magistratura, in ragione dell’enorme quantità di conversazioni contenute nel cellulare di Luca Palamara ha posto in luce, come tema accessorio da alcuni sottovalutato, la questione del trattamento dei dati personali di persone terze rispetto al procedimento penale. In che termini i dati sensibili relativi a terze persone possono essere diffusi? Quali sono gli strumenti che i terzi possono attivare?
La domanda che mi pone è importante anche perché non è legata esclusivamente alle vicende di attualità. Ricordo, ad esempio, che una delle pronunzie più interessanti sull’art. 8 CEDU della Corte europea dei diritti dell’uomo è quella resa nel 2003 nella controversia Craxi c. Italia (II), quando la Repubblica italiana fu condannata per la violazione dell’obbligo positivo di protezione del diritto al rispetto della vita privata, in quanto alcuni giornali, per negligenza nella custodia degli atti processuali, pubblicarono stralci delle intercettazioni telefoniche depositate nel processo a carico di Bettino Craxi. Alcune delle conversazioni pubblicate attenevano a telefonate di natura strettamente privata e confidenziale tra la consorte di Craxi ed altri soggetti, tra i quali Veronica Lario, e non potevano come tali essere divulgate in quanto non pertinenti rispetto alle esigenze di controllo pubblico sul processo e non conformi con il parametro – diremmo oggi – di “essenzialità dell’informazione rispetto a fatti di interesse pubblico” (art. 137, 3° co., d.lgs. 196/2003). Questo tema interseca oggi due profili e due plessi normativi diversi: il d.lgs. 51 del 2018 per quanto concerne l’utilizzo, in sede processuale penale dei dati personali acquisiti al procedimento e la circolazione extraprocessuale dei dati stessi, che soggiace invece al più articolato Regolamento generale sulla protezione dei dati, con la normativa interna di adeguamento (d.lgs. 196/2003). In linea generale, la circolazione extraprocessuale dei dati personali deve essere legittimata da uno specifico presupposto di liceità, che “copra” tanto il soggetto che ostende il dato (ad esempio il pubblico ministero ex art. 116, 2° co., cpp) quanto colui che lo riceve e che risponderà, poi, del successivo utilizzo. In ogni caso, anche se legittimato nell’an, il successivo trattamento dei dati deve rispondere ai criteri generali di proporzionalità, finalità (funzionalità allo scopo), minimizzazione e, nel caso di giornalismo, come dianzi ricordato, essenzialità dell’informazione. Ove ravvisino violazioni di legge, i terzi possono in prima battuta esercitare i propri diritti ex art. 15 e ss. Reg. UE 2016/679 nei confronti del titolare del trattamento (dunque chi, avendo ricevuto i dati, autonomamente li utilizzi) e, in caso di infruttuoso esperimento di tali richieste, rivolgersi al Garante o all’autorità giudiziaria (la quale può accordare anche una tutela di tipo risarcitorio).
3. Qual è lo spazio di discrezionalità del detentore dei dati in relazione alla richiesta di distruzione? Ci sono situazioni che ne giustificano la diffusione contro la volontà del terzo?
La richiesta di cancellazione dei dati (art. 17 Reg. 2016/679) è uno dei diritti suscettibili di esercizio da parte dell’interessato che ritenga che non sussistano più (o, peggio, non siano mai stati ravvisabili) i presupposti di liceità che legittimino (o legittimino ancora) la conservazione dei dati, ad esempio perché si è conclusa l’attività rispetto alla quale quel determinato trattamento dei dati era funzionale. La conservazione ulteriore può dunque essere possibile, in questi casi, unicamente qualora un altro presupposto di liceità (evidentemente diverso dal consenso) legittimi o, come nel caso degli obblighi di legge, imponga la conservazione. Si tratta generalmente di presupposti di liceità a valenza pubblicistica, che dunque giustificano questa compressione del diritto alla protezione dei dati, purchè proporzionale, per fini di interesse generale.
4. Cosa si intende per dati personali e quali sono le conseguenze della loro divulgazione?
Il concetto di dato personale adoperato dalle fonti europee e dalla disciplina italiana di adeguamento è amplissimo – esso è stato oggetto peraltro di una apposita Opinion illustrativa del Gruppo dei garanti europei previsto dalla Direttiva 95/46/CE – e comprende non soltanto i dati direttamente identificativi, ma anche quelli dai quali possa, pur indirettamente, desumersi l’identità del soggetto (si pensi, ad esempio, all’indirizzo IP, che la Corte di giustizia UE, qualche anno fa, ha ritenuto possa integrare la fattispecie del dato personale). Le conseguenze di un’indebita divulgazione di dati personali (per tali intendendosi appunto anche quelli per i quali possa comunque giungersi ad identificare, pur in via mediata, l’interessato) possono integrare livelli di gravità assai variabile: si passa dalla marginale lesività della diffusione di dati neutri alle implicazioni drammatiche che può avere, ad esempio, l’indebita pubblicazione di dati sensibili come quelli sulla salute, l’orientamento sessuale, il profilo genetico. Gravi sono anche le ipotesi di divulgazione indebita (se in violazione del parametro dell’essenzialità dell’informazione) delle conversazioni captate in sede investigativa che, spesso estrapolate dal contesto, lungi dal soddisfare esigenze informative reali, rischiano di alimentare mero voyeurismo, confondendo - come già osservato dall’ex Presidente dell’Autorità garante Antonello Soro- ciò che è di pubblico interesse con ciò che è di interesse del pubblico.
5. Come si bilancia l’interesse all’informazione con l’interesse alla riservatezza?
Non esiste una “golden rule” e la risposta a questa domanda va riferita a una determinata società, a uno specifico ordinamento giuridico, e a un ben preciso momento storico. L’esperienza del diritto comparato ci illustra una grande varietà di risposte sia sul piano sincronico (il bilanciamento USA pende, come noto, quasi del tutto dal lato dell’informazione, finendo per sacrificare quello stesso interesse alla privacy che vide la luce proprio grazie alla pena del celebre giudice Brandeis e dell’avvocato Warren nel lontano 1890) sia su quello diacronico (ancora l’esempio USA è emblematico, visto che attesta un radicale cambiamento di impostazione nel secondo dopoguerra, a seguito dellla nomina da parte di Roosevelt di giudici come Hugo Black, teorici della tutela assoluta del 1° Emendamento). Dunque, se guardiamo al nostro ordinamento, oggi, nel contesto del sistema multilivello europeo, dobbiamo desumerne che quanto meno in astratto l’interesse all’informazione è garantito sino al punto in cui operi in maniera sinergica con il rispetto dei diritti altrui, e in particolare il diritto al rispetto della dignità umana, con le sue ramificazioni in termini di riservatezza, identità, reputazione. In particolare conviene osservare come le regole deontologiche dei giornalisti (la cui violazione può legittimare un divieto del trattamento da parte del Garante ex art. 139, 4° co. d.lgs. 196/2003 e integra oggi gli estremi di illeciti amministrativi di natura parapenale, come ha correttamente osservato la giurisprudenza interna) contengono dei criteri, eterointegrativi del sistema normativo di tutela dei dati personali, determinanti al fine di coniugare privacy e informazione (art. 137 e 139 d.lgs. 196/2003). I principi-cardine, ribadisco ricordando le auree pagine di Stefano Rodotà, sono quelli dell’essenzialità dell’informazione e della tutela della dignità della persona (in particolare se in condizione di vulnerabilità, ad esempio per malattia o sottoposizione ad atti coercitivi). Questo, ovviamente, in linea di stretto diritto, anche se non possiamo nasconderci che il diritto, disgiunto da una diffusa cultura degli operatori dell’informazione ben poco può (basti confrontare il modo in cui l’informazione relativa ai processi viene resa in un paese come la Germania, dove ad esempio si anonimizzano regolarmente i dati dei soggetti sottoposti a procedimento penale sino a che non sia definito il primo grado, quanto meno là dove questi non siano titolari di funzioni pubbliche o celebrità, e in Italia, dove tuttora vige un vero e proprio far West informativo).
6. Il Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati Giuseppe Santalucia ha ricevuto da alcuni magistrati del Comitato direttivo centrale della Anm richiesta diretta ad ottenere le interlocuzioni dei probiviri dell’ANM con l’autorità giudiziaria, contenenti dati personali di magistrati terzi non iscritti all’associazione.
Quale era lo spazio di discrezionalità in capo al Presidente dell’ANM in ordine alla consegna delle parti contenenti dati personali di magistrati non più associati all’ANM, in relazione ai quali era stata formulata richiesta di distruzione? Quali le eventuali conseguenze in caso di violazione del diritto alla riservatezza?
Quello della circolazione endoassociativa dei dati personali (degli associati e, soprattutto, dei terzi) è un tema delicatissimo, in quanto esige un bilanciamento tra la riservatezza individuale, libertà dell’associazione e libertà (degli associati) nell’associazione. Su di esso, in termini generali, meritano di essere tuttora attentamente meditate le pagine profonde, colte ed equilibrate di Pietro Rescigno. Complessità ulteriori sorgono qualora oggetto della circolazione endoassociativa siano dati acquisiti da procedimenti penali, di natura sensibile o giudiziaria e qualora il fine del trattamento sia l’esercizio dell’azione disciplinare, da parte degli organi competenti secondo le norme statutarie. In casi come quello in esame, le regole auree da seguire sono quelle della proporzionalità (da declinarsi in forme più stringenti in relazione ai dati sensibili), della funzionalità dell’ostensione all’esercizio dei compiti specificamente attribuiti dallo statuto a un determinato organo associativo e, in ogni caso, della minimizzazione, che comporta l’oscuramento di ogni dato personale ultroneo rispetto alle esigenze perseguite. Trasponendo questi principi al caso concreto che mi ha proposto, direi che si debba valutare: a) se la richiesta di ostensione fosse in sé legittima in quanto necessaria all’esercizio di specifiche competenze statutariamente attribuite al Comitato direttivo centrale e, se rispetto ai magistrati non più associati, potesse ancora ipotizzarsi la persistenza di poteri associativi (con una sorta di ultrattività che, tuttavia, mi parrebbe a prima vista quantomeno dubbia); b) il perimetro dell’ostensione e, dunque, quali dati ostendere e come, espungendo ogni dato ultroneo, tanto più se di natura sensibile o giudiziaria; c) calibrare l’esigenza addotta dai membri del Comitato direttivo centrale con la legittima aspettativa di riservatezza vantata dall’ex associato e rivendicata con l’apposita istanza di distruzione.
Non si tratta di valutazioni agevoli, ma assai importanti, non foss’altro perché un’eventuale indebita ostensione, da parte dell’associazione, di dati personali può integrare, a tacer d’altro, un illecito amministrativo “pesante”, per il quale sono previste sanzioni fino a 20 milioni di euro.
* in tema di protezione di dati personali La Direttiva sulla protezione dei dati personali in ambito giudiziario penale e di polizia, le intercettazioni e la tutela dei terzi di Federica Resta e Conservazione dei dati e diritto alla riservatezza. La Corte di giustizia interviene sulla data retention. I riflessi sulla disciplina internaConservazione dei dati e diritto alla riservatezza. La Corte di giustizia interviene sulla data retention. I riflessi sulla disciplina interna
L’uso è personale anche se la coltivazione è di gruppo (nota a Tribunale Brescia, 14.11.2020)
di Lorenzo Miazzi
Sommario: 1. I precedenti delle Sezioni Unite su detenzione per uso di gruppo e coltivazione per uso personale - 2. La coltivazione di gruppo: a) la forma domestica di produttività ridottissima – 2.b) le dimensioni minime della coltivazione - c) la destinazione all’uso personale
1. I precedenti delle Sezioni Unite su detenzione per uso di gruppo e coltivazione per uso personale
La sentenza del Tribunale di Brescia del 14 novembre 2020, depositata il 16 dicembre 2020, è fra le prime che applicano nel merito la recente pronuncia della Corte di Cassazione, n. 12348/20 - imputato Caruso[1] - depositata in data 16.04.2020.
Innovando la giurisprudenza relativa alla coltivazione di marijuana (che per oltre trent’anni aveva ritenuto ogni forma di coltivazione penalmente illecita, anche se univocamente destinata all’uso personale[2]), la sentenza “Caruso” ha affermato che il reato non sussiste se la coltivazione è di modeste quantità (indicando alcuni indici per qualificarla in tal modo) e il consumatore finale è il coltivatore[3]; se ne evince quindi che se invece la finalità è quella di cedere a terzi la marijuana ottenuta, la coltivazione rimane reato. La penale irrilevanza della modesta coltivazione per uso personale esclude altresì (a differenza della detenzione per uso personale) la rilevanza amministrativa ex art. 75 del d.P.R. n. 309 del 1990, dato che “tale disposizione non si riferisce in nessun caso alla coltivazione”[4] .
Va premesso che qualche anno prima, Sez. U, Sentenza n. 25401 del 31/01/2013, (dep. 10/06/2013) aveva ribadito che, nonostante i mutamenti legislativi, la detenzione di modeste quantità non costituisce reato, se destinata all’uso personale. La sentenza afferma che la detenzione rimane punita se finalizzata alla cessione; tuttavia è scriminata se l’acquisto avviene per conto di un gruppo che, prima dell’acquisto, programma di consumare direttamente (specificando gli indici del c.d. consumo di gruppo)[5].
La disciplina che deriva dai principi delle due sentenze delle SS.UU. è che la coltivazione di modeste dimensioni è penalmente irrilevante, se il consumatore finale è il solo coltivatore; è reato ai sensi dell’art. 73 T.U. n. 309/1990 invece se di grandi dimensioni o se la finalità è quella di cedere a terzi. La detenzione anche di modeste quantità è punita se finalizzata alla cessione; ma è depenalizzata se destinata all’uso personale, e ciò anche quando l’acquisto avviene per conto di un gruppo che, prima dell’acquisto, programma di consumare direttamente.
Rimane perciò aperta la questione relativa alla fattispecie della coltivazione di gruppo per uso personale: è irrilevante penalmente anche coltivare (in concorso) marijuana per farne uso di gruppo? O il fatto che il consumo non sia individuale da parte di un unico coltivatore fa permanere l’illiceità? La sentenza Caruso non affronta questo caso, né specifica come si determina la terzietà rispetto alla coltivazione. È questo invece l’oggetto rilevante della sentenza del Tribunale di Brescia[6].
Sintetizzando il fatto esaminato, le forze dell’ordine avevano rinvenuto una piantagione composta da n. 9 piante di cannabis indica, dell'altezza tra 1.20 e 2,10 mt, del peso complessivo di 919 grammi, con principio attivo in percentuale del 3,5% e in assoluto di 32,2 grammi di D9-THC. Gli operanti avevano effettuato, nell'immediatezza, una perquisizione personale degli imputati all'esito della quale avevano rinvenuto 3,9 grammi di sostanza stupefacente del tipo hashish, occultata nel marsupio di uno, e due pezzi di sostanza stupefacente del tipo hashish, rispettivamente del peso di grammi 0,9 e 3,7, nell’abitazione di un altro.
Non vi è dubbio che la detenzione dell’hashish rientrasse fra quelle ad uso personale, e infatti la sentenza assolve perché il fatto non costituisce reato. Interessa invece la decisione relativa alla coltivazione della marijuana, affrontata sul solco della sentenza Caruso indagando sulla offensività in concreto, per giungere ad assolvere gli imputati perché il fatto non sussiste.
2. La coltivazione di gruppo: a) la forma domestica di produttività ridottissima
Le SS.UU. “Caruso” esaminano l’orientamento sino ad allora prevalente per il quale la coltivazione, a differenza della detenzione, è comunque reato in quanto attività suscettibile di creare nuove e non predeterminabili disponibilità di stupefacenti; ma lo superano affermando che “tale affermazione non si attaglia alle coltivazioni domestiche di minime dimensioni, intraprese con l'intento di soddisfare esigenze di consumo personale, perché queste hanno, per definizione, una produttività ridottissima e, dunque, insuscettibile di aumentare in modo significativo la provvista di stupefacenti.”[7]. E forniscono, a titolo esemplificativo, alcuni indici: la minima dimensione della coltivazione, il suo svolgimento in forma domestica e non in forma industriale, la rudimentalità delle tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante.
Nella sentenza “Caruso” si precisa che la coltivazione scriminata deve essere una “coltivazione di minime dimensioni svolta in forma domestica… destinata in via esclusiva all’uso personale”. E’ compito del giudice di merito perciò accertare in fatto, utilizzando gli indici forniti, i due elementi costitutivi: le caratteristiche della coltivazione (così da poterla qualificare come “domestica”) e la destinazione esclusiva all’uso personale.
La sentenza annotata, per valutare la forma domestica, procede esattamente nel modo richiesto dalle Sezioni Unite, evidenziando in primo luogo come “l’attività di coltivazione sia avvenuta personalmente da parte degli imputati, su un terreno nella disponibilità personale di uno di loro, con tecniche approssimative (basti pensare che una parte delle sementi è stata piantata nel terreno ed una parte in una cisterna di plastica), con governo manuale e “rudimentale” eseguito tramite attrezzi certamente non “imprenditoriali” (due taniche d’acqua, una vanga ed un tridente di piccole dimensioni)”. Ciò consente perciò agevolmente al giudice di merito di qualificare la coltivazione come domestica, di produttività ridottissima.
2.b) le dimensioni minime della coltivazione
Quanto esposto evidenzia una residua diversità fra la detenzione di gruppo e la coltivazione di gruppo. Infatti la sentenza “Caruso”, come si visto, nella sua accezione letterale, non scrimina tutte le coltivazioni “destinate all’uso personale”, ma solo quelle “di minime dimensioni svolte in forma domestica”: quindi rimangono punibili le coltivazioni di dimensioni non minime, anche se a uso personale[8]. Diversamente, rispetto alla detenzione per uso personale, secondo la sentenza n. 25401/13 il quantitativo è solo un indice della destinazione.
Per quantificare le minime dimensioni, è possibile ragionare in analogia fra gli istituti della particolare tenuità e della destinazione a uso personale, ritenendo, alla luce della giurisprudenza che ha preso in esame il dato quantitativo, che un numero di piante che non superi la decina può essere considerato “scarso” anche ai fini della non tipicità della coltivazione (da parte di un singolo) secondo i principi della sentenza Caruso[9].
Rimane però un’ultima questione: se la coltivazione è di gruppo, nel determinare le “minime dimensioni”, il dato quantitativo va considerato nella sua unicità, o va diviso per il numero dei coltivatori?
La sentenza annotata propende per la seconda soluzione: “Lo scarso numero di piante, che la sentenza delle Sezioni Unite indica quale indice sintomatico della destinazione ad uso personale evoca subito il problema del numero delle piante stesse. La casistica sul numero delle piante considerate dalla giurisprudenza è assai vasta e variabile; tuttavia si può ragionevolmente concludere che, in materia di coltivazione, un numero di piante non superiore a dieci può essere considerato minimo, o scarso, per cui nel caso che qui occupa anche rapportato al numero pro capite esso si attesta a tre piante per imputato”.
2. c) la destinazione all’uso personale
Il secondo requisito appare di meno facile determinazione, dato che letteralmente la dizione della Suprema Corte nella sentenza “Caruso” sembra escludere qualsiasi cessione: la sostanza coltivata deve essere destinata in via esclusiva all’uso personale.
Occorre però riprendere il concetto di uso personale elaborato da SS.UU. n. 25401/13, nella quale si afferma, in relazione alla detenzione, che “in altre parole, poiché la disposizione non parla di uso individuale e non limita la caratteristica denotativa della condotta detentiva all’autore singolo, il sintagma “uso non esclusivamente personale” non è concettualmente incompatibile con il consumo di gruppo, anche nella forma specifica del mandato ad acquistare. La locuzione può pertanto essere legittimamente riferita all’uso collettivo che risulti esclusivamente personale, ossia anche alle ipotesi in cui la droga detenuta da una singola persona sia destinata ad un uso “esclusivamente personale in comune” da parte di tutti componenti del gruppo per conto e su mandato dei quali è stata acquistata.”
E’ quindi possibile interpretare la normativa applicabile al caso concreto alla luce di una combinata applicazione dei principi sanciti dalle due SS.UU., nel senso di accertare se, visto che la sentenza “Caruso” parla di “coltivazione … destinata in via esclusiva all’uso personale”, anche la coltivazione possa essere scriminata quando avviene nella forma specifica del mandato a coltivare per ottenere una sostanza destinata a un uso “esclusivamente personale in comune” da parte di tutti componenti del gruppo, per conto e su mandato dei quali è stata coltivata.
La sentenza di merito in commento pratica proprio questo metodo: “Peraltro, con specifico riferimento agli imputati, può anche parlarsi di “coltivazione di gruppo destinata all’uso personale”, ricorrendo nel caso concreto gli indici richiesti dalla giurisprudenza e dalla dottrina formatasi a seguito delle più volte citate SS.UU. Caruso, ossia che i coltivatori o una parte di essi siano fra gli assuntori del prodotto finito, con la volontà manifestata fin dall’inizio da parte degli stessi di procurarsi la sostanza per mezzo di uno dei compartecipi, contribuendo anche finanziariamente alle spese occorrenti per la coltivazione.”
La sentenza - e va sottolineato - tiene in conto anche un altro indice della destinazione all’uso personale, che può essere compreso fra quelli che la Suprema Corte richiama genericamente come “mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti”: cioè le condizioni sociali e famigliari degli imputati. Si tratta, si rileva, “di soggetti molto giovani, tutti incensurati, ben inseriti dal punto di vista sociale con impieghi lavorativi ovvero titolari di diplomi di studi superiori ed in taluni casi con studi universitari in corso”; per cui non è provato e non è probabile che traggano reddito da attività di spaccio.
In definitiva: se l’attività di coltivazione posta in essere dagli imputati è di minime dimensioni, è svolta in forma domestica con utilizzo di rudimentali tecniche, con scarso numero di piante e modesto quantitativo di prodotto ricavabile; se è attività destinata in via esclusiva all’uso personale dei coltivatori, data la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti; accertato questo, secondo le condividibili conclusioni della sentenza annotata, anche nel caso di pluralità di soggetti coinvolti nell’attività di coltivazione essi devono essere assolti perché il fatto non sussiste.
[1] Sentenza commentata su questa Rivista in: Coltivazione di marijuana e uso personale dopo le Sezioni Unite - prima parte e seconda parte- , di Lorenzo Miazzi, pubblicato il 23 e 24 aprile 2020.
[2] “La detenzione, l'acquisto e l'importazione di sostanze stupefacenti per uso personale rappresentano condotte collegate immediatamente e direttamente all'uso stesso, e ciò rende non irragionevole un atteggiamento meno rigoroso del legislatore …. Invece, nel caso della coltivazione manca questo nesso di immediatezza con l'uso personale e ciò giustifica un possibile atteggiamento di maggior rigore, rientrando nella discrezionalità del legislatore anche la scelta di non agevolare comportamenti propedeutici all'approvvigionamento di sostanze stupefacenti per uso personale”: Corte costituzionale, sentenza n. 360 del 1995. A questi principi si adeguò per lungo tempo la giurisprudenza prevalente della Cassazione, mentre una minoritaria continuò a cercare percorsi interpretativi diversi per escludere la rilevanza penale.
[3] Nella sentenza si afferma che "il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell'immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente; devono però ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all'ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell'ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all'uso personale del coltivatore".
[4] Punto 6: “Qualora, però, la coltivazione domestica a fini di autoconsumo produca effettivamente una sostanza stupefacente dotata di efficacia drogante, le sanzioni amministrative dell'art. 75 richiamato potranno essere applicate al soggetto agente considerato non come coltivatore, ma come detentore di sostanza destinata a uso personale.
[5] Sez. U, Sentenza n. 25401 del 31/01/2013 Ud. (dep. 10/06/2013 ) Rv. 255258
Anche all'esito delle modifiche apportate dalla legge 21 febbraio 2006, n. 49 all'art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, il c.d. consumo di gruppo di sostanze stupefacenti, sia nell'ipotesi di acquisto congiunto, che in quella di mandato all'acquisto collettivo ad uno dei consumatori, non è penalmente rilevante, ma integra l'illecito amministrativo sanzionato dall'art. 75 stesso d.P.R., a condizione che: a) l'acquirente sia uno degli assuntori; b) l'acquisto avvenga sin dall'inizio per conto degli altri componenti del gruppo; c) sia certa sin dall'inizio l'identità dei mandanti e la loro manifesta volontà di procurarsi la sostanza per mezzo di uno dei compartecipi, contribuendo anche finanziariamente all'acquisto.
[6] Sentenza commentata anche in Stefano Paloschi, Coltivazione "di gruppo" ed uso personale, sul sito: https://www.studiopaloschi.it/post/coltivazione-di-gruppo-ed-uso-personale
[7] Punto 4.2
[8] Punto 4.2: “A contrario, la circostanza che la coltivazione sia intrapresa con l'intenzione soggettiva di soddisfare esigenze di consumo personale deve essere ritenuta da sola insufficiente ad escluderne la rispondenza al tipo penalmente sanzionato, perché - come appena visto - la stessa deve concretamente manifestare un nesso di immediatezza oggettiva con l'uso personale.”
[9] Si rinvia a “Coltivazione di marijuana e uso personale dopo le Sezioni Unite” di Lorenzo Miazzi (parte seconda)” , in questa Rivista, paragrafo 10.
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