Corte EDU, Parfitt v. UK: diritto alla vita e alla morte del malato minore e conflitti fra genitori, sanitari e curatore. Le acque agitate del giudice comune europeo
di Gabriella Cappello
La Corte EDU torna sul tema del fine vita e lo fa in un caso che mette in risalto le difficoltà del bilanciamento di opposti diritti inviolabili, ponendo al centro, ancora una volta, la tutela della dignità della persona umana quale criterio assolutamente incomprimibile.
Sommario: 1. La sentenza Parfitt v. UK: il caso - 2. Il concetto di dignità della persona umana come super valore o valore dei valori – 3. Il fine vita e la legge n. 219 del 2017; gli artt. 2 e 3 della legge n. 219/2017; le forme di tutela per i casi di minori e incapaci – 4. Le proposte di riforma e la figura del curatore speciale – 5. Le acque agitate del giudice comune europeo.
1. La sentenza Parfitt v. UK: il caso.
La quarta sezione della Corte EDU, con sentenza del 20 aprile 2021, (Parfitt c. Regno Unito, n. 18533/21), ha dichiarato inammissibile il ricorso della madre di una bambina, cui era stata diagnosticata una rara infermità, definita Encefalopatia Acuta Necrotizzante (ANE), che lamentava, tra l’altro, la violazione degli artt. 2 e 8 della Convezione da parte del Regno Unito, con riferimento alla decisione dei giudici inglesi di autorizzare la interruzione del mantenimento artificiale in vita della minore, chiesta dal National Health Service Trust (NHS), responsabile dell’ospedale che l’aveva in cura, a causa delle sue condizioni di salute ingravescenti e irreversibili.
La Corte di Strasburgo è ritornata sul tema della tutela della salute e della vita privata e familiare e dei margini di discrezionalità riconosciuti agli Stati nell’individuazione delle soluzioni migliori per la cura e la tutela degli interessi e della salute dei pazienti.
La minore, nel caso in esame, è stata rappresentata da un tutore nominato dal Tribunale che, con l’assistenza di avvocati incaricati per suo conto, ha aderito alla domanda del Trust. La madre della bambina, invece, si è opposta, chiedendo la prosecuzione del trattamento terapeutico in ambiente domestico.
Nei vari gradi di giudizio, la ricorrente e il Trust si sono avvalsi del patrocinio di avvocati esperti e il parere di ben dodici specialisti di fama è stato acquisito al processo. L’opinione dei medici curanti è stata unanime nel considerare la proposta della madre contraria all’interesse della figlia (ritenendo costoro che vi fossero limitate possibilità di sopravvivenza per la bambina ove fosse stata dimessa, in quanto la sua condizione richiedeva trattamenti specifici disponibili solo in ospedale). Alcuni specialisti indipendenti, tuttavia, hanno riconosciuto la praticabilità di una gestione in ambiente esterno, pur affermando che la transizione richiederebbe almeno sei mesi per approntare i macchinari necessari e praticare una tracheotomia e una gastrostomia per ventilare e alimentare la paziente che, in ogni caso, richiederebbe una assistenza giornaliera continua. Tutti gli esperti, comunque, hanno dichiarato che le aspettative di vita in ambiente domestico sarebbero più basse rispetto alla permanenza in terapia intensiva ospedaliera.
Il giudice di prima istanza ha valutato le tre opzioni in campo (supporto ventilatorio meccanico in terapia intensiva; avviamento di una procedura finalizzata a trasferire la paziente in ambiente domestico con un macchinario di ventilazione portatile, come sollecitato dalla madre; interruzione del trattamento di mantenimento in vita con supporto ventilatorio, come sollecitato dal National Health Service Trust) e ritenuto conclusivamente che la interruzione della ventilazione meccanica, con limitazioni anche ai trattamenti successivi, fosse la scelta migliore nell’interesse della minore, siccome l’unica in grado di assicurarle la possibilità di morire. Il permanere dello stato vegetativo, infatti, secondo la valutazione dei giudici inglesi, non apporterebbe alcun beneficio medico alla sua condizione, laddove il suo trasferimento in ambiente domestico, con scarse possibilità di riuscita, arrecherebbe un danno alle sue già precarie condizioni, senza che la paziente possa trarre alcun beneficio da quell’ambiente e men che meno godere di una vita di relazione con gli altri. Il Tribunale ha, dunque, rigettato l’argomento difensivo della madre, basato sullo stato di incoscienza della bambina, affermando che la valutazione deve essere condotta dal punto di vista del minore, senza considerare il benessere di terzi.
La decisione è stata confermata dai giudici d’appello, i quali, dal canto loro, hanno affermato che, in base alle circostanze del caso concreto, gli eventuali benefici di un trattamento domiciliare verrebbero vanificati da altri fattori dannosi per l’interesse della minore. La Corte Suprema ha dichiarato inammissibile il ricorso.
I giudici di Strasburgo hanno dichiarato manifestamente infondato il ricorso della madre, soffermandosi essenzialmente sulla dedotta violazione dell’art. 2 della Convenzione, con riferimento alla protezione del diritto alla vita della minore, e dell’art. 8, con riferimento al fatto che la decisione sul fine vita è stata presa dallo Stato e non dalla madre.
Quanto al primo aspetto, la Corte EDU ha scrutinato il caso concreto prendendo le mosse dai precedenti Lambert e altri c. Francia [GC], n. 46043/14, § 124, 2015 e Gard e altri c. Regno Unito (dec.), n. 39793/17, § 80, 27 giugno 2017, nel primo dei quali la questione dell’interruzione del mantenimento in vita era stata esaminata dal punto di vista degli obblighi positivi dello Stato (tenuti distinti nelle diverse ipotesi di interruzione terapeutica e di volontaria soppressione della vita). Ha, dunque, verificato se (1), nel diritto e nella prassi inglesi, esistesse un quadro normativo compatibile con i requisiti di cui all'articolo 2 cit.; (2) fosse stata operata una valutazione dei desideri precedentemente espressi dal paziente o dalle persone più prossime e anche della opinione di personale medico; (3) fosse stata garantita la possibilità di rivolgersi all’autorità giudiziaria in caso di incertezze circa la decisione migliore nell’interesse del paziente.
In merito al fine vita, peraltro, la Corte ha ricordato di avere già riconosciuto agli Stati un margine di discrezionalità, sia quanto alla possibilità di interrompere il mantenimento artificiale in vita, che avuto riguardo alla individuazione degli strumenti funzionali a garantire un bilanciamento tra la tutela della vita dei pazienti e la garanzia del rispetto della loro vita privata e familiare, margine di apprezzamento non illimitato, tuttavia, poiché la Corte si riserva di verificare di volta in volta se lo Stato abbia rispettato gli obblighi di cui all’art. 2 citato.
In merito al primo dei tre parametri suindicati, ha affermato la piena compatibilità tra la legislazione interna del Regno Unito a tutela del diritto alla vita e l’art. 2 della Convenzione [richiamando, oltre a Gard e altri c. Regno Unito cit., § 81, anche Glass v. the United Kingdom, no. 61827/00, (dec.), 18 marzo 2003].
Ha ritenuto pienamente soddisfatto anche il secondo criterio, essendo stati attentamente vagliati, non solo le opinioni e i desideri espressi dalla madre della bambina, ma anche le dichiarazioni dei medici e acquisita l’opinione di numerosi, qualificati esperti sulla trattabilità della paziente in ambiente domestico. Anzi, la Corte ha posto in risalto l’attenzione riservata dai giudici dell’appello alle prospettazioni della madre ricorrente e il fatto che gli interessi della minore fossero stati rappresentati in maniera autonoma da un tutore nominato dal Tribunale, con il patrocinio di avvocati esperti che hanno aderito alla domanda del Trust.
Quanto al terzo parametro, la Corte ha dato atto della natura procedimentalizzata della decisione, essendosi il Trust rivolto all’autorità giudiziaria per ottenere l’autorizzazione e gli ordini necessari a procedere alla interruzione del trattamento.
Riconosciuta la interferenza della decisione dei giudici nazionali con il diritto fondamentale presidiato dall’art. 8 della Convenzione, la Corte EDU ha però sottolineato la necessità di valutarlo alla stregua del contrapposto interesse a salvaguardare i diritti e le libertà della minore e confermato la legittimità dell’intervento dei tribunali in caso di divergenza di opinioni tra i genitori e i medici circa le scelte terapeutiche più opportune per i pazienti minori. I giudici nazionali, nella specie, non hanno adottato decisioni arbitrarie; in entrambi i gradi di giudizio il loro vaglio è stato meticoloso e approfondito; tutte le parti sono state autonomamente rappresentate; sono stati acquisiti pareri specialistici altamente qualificati; le motivazioni delle decisioni sono state chiare e complete.
L’applicazione, da parte del giudice nazionale, del criterio del migliore interesse del bambino rientra nell’ambito della discrezionalità concessa agli Stati, strumentale alla ricerca di un punto di equilibrio tra la tutela della vita del paziente e quella della vita privata e dell’autonomia personale (sul punto richiamando Vavřička e altri c. Repubblica ceca [GC], nn. 47621/13, 3867/14, 73094/14, 19298/15, 19306/15 e 43883/15, § 288, 8 Aprile 2021, in cui si è, per l’appunto, sancito l’obbligo degli Stati di porre l’interesse dei bambini al centro delle decisioni aventi a oggetto la loro salute e il loro sviluppo).
2. Il concetto di dignità della persona umana come super valore o valore dei valori
La vicenda riassunta chiama direttamente in causa il concetto di dignità della persona umana, definito “valore dei valori” o “diritto dei diritti”, da cui discendono tutti i diritti fondamentali, la cui centralità e intangibilità trovano pieno riconoscimento sia nelle Costituzioni del ventesimo secolo, che nelle Carte sovranazionali e conferma che non esistono diritti fondamentali incomprimibili, ma un unico super diritto che non può subire restrizioni, per l’appunto la dignità dell’uomo.
La Corte EDU, perfettamente consapevole della centralità del tema, ancora una volta si pronuncia in materia di bio diritto con un intervento che accende i riflettori sulla intricata tela dei rapporti tra i contrapposti interessi in gioco, nella specie quello di una madre che chiede il prolungamento del trattamento di mantenimento in vita della figlia minore, perché sia affermata la centralità del diritto alla vita familiare; e quello di garantire a una minore, in stato vegetativo irreversibile, la possibilità di morire con dignità.
La peculiarità del caso, con ogni evidenza, risiede proprio nel fatto che non viene in rilievo una volontà del soggetto interessato e che il conflitto tra gli interessi in gioco oppone l’ospedale che l’ha in cura e un esercente la potestà genitoriale sul soggetto.
Lo scrutinio dei giudici sovranazionali rappresenta, quindi, una ulteriore occasione per verificare come il bilanciamento possa essere condotto nel tentativo di individuare la soluzione che assicuri una effettiva tutela della dignità dell’uomo, riaffermandone in concreto la incondizionata intangibilità, ma sollecita più di una riflessione con riferimento al livello di copertura normativa di simili situazioni.
Il punto della decisione nel quale si coglie appieno la portata dello sforzo valutativo preceduto dall’aperto confronto degli opposti interessi in gioco è quello in cui la Corte EDU, una volta rilevato che lo stato vegetativo della bambina non consentiva di prendere in considerazione i benefici derivanti da un trasferimento in ambiente domestico, ha ritenuto che la soluzione dei giudici inglesi sia stata adottata nell’interesse della minore, la quale non avrebbe tratto beneficio dal prolungamento delle terapie invasive e ha giudicato recessivo il diritto della madre alla protezione dell’interesse alla integrità della vita familiare e a decidere per la propria figlia.
È evidente la linea di continuità seguita dalla Corte sovranazionale.
Anche nella vicenda Lambert e a. c. Francia (che aveva riguardato il caso di un soggetto tetraplegico in stato vegetativo, in cui si erano trovati a confronto la decisione dei medici curanti di interrompere la nutrizione artificiale secondo la normativa nazionale, c.d. legge “Leonetti” del 2005, e la volontà contraria dei genitori), la Corte Edu non ha ravvisato la violazione dei parametri convenzionali chiamati in causa, proprio perché la legislazione transalpina aveva procedimentalizzato quel tipo di decisione, garantendo la verifica giudiziale dell’operato svolto in ambiente medico anche con l’ausilio di specialisti. Lo stesso è avvenuto in Gard e altri c. Regno Unito del 2017 e in Afiri e Biddarri c. Francia del 2018: chiamata ancora una volta a verificare la compatibilità convenzionale della scelta dei sanitari di interrompere le cure nei confronti di due minori in condizioni irreversibili, malgrado il contrario avviso dei genitori, la Corte ha escluso la violazione dei parametri di riferimento, perché le legislazioni britannica e francese avevano fatto corretto uso del margine di apprezzamento riconosciuto agli Stati in ordine alle modalità di interruzione di trattamenti sanitari non salvifici, mettendo a punto un modello procedimentale che aveva garantito l’effettiva partecipazione di tutti i soggetti coinvolti, il vaglio – anche mediato da pareri specialistici – delle varie, contrapposte opinioni e un effettivo controllo giudiziale sulla decisione di interrompere il trattamento. Il che pone tali interventi statuali fuori dal cono della violazione dell’obbligo procedurale positivo di protezione della vita del paziente.
3. Il fine vita e la legge n. 219 del 2017; gli artt. 2 e 3 della legge n. 219/2017; le forme di tutela per i casi di minori e incapaci
La decisione in commento offre, poi, lo spunto per riflettere sul tema, lungamente dibattuto nel nostro Paese e ancora attuale, del fine vita che ha trovato un positivo riconoscimento nella legge n. 219 del 2017, in vigore dal 31 gennaio 2018, recante “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”.
L’art. 2 della legge citata sembra introdotta al fine di emarginare condotte di c.d. accanimento terapeutico, rispondendo all’esigenza da più parti evidenziata della possibilità del rifiuto (informato) di cure sproporzionate da parte del paziente, raggiungendo anche l’obiettivo di scongiurare eventuali accuse a carico del medico (quali i reati di omicidio del consenziente o di aiuto al suicidio), senza tuttavia introdurre un sistema di legalizzazione dell’eutanasia. In particolare, è il comma 2 della norma a prevedere che, nei casi di <>, il medico si astenga da una irragionevole somministrazione di cure e trattamenti inutili o sproporzionati, potendo ricorrere alla sedazione palliativa nel caso di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari.
Tale disposizione sembra disporre a carico del sanitario un vero obbligo di astensione/interruzione delle cure che egli ritenga inutili. Obbligo che sembra superare anche la diversa volontà del paziente o dei suoi familiari.
L’interrogativo, nel silenzio della legge, è dunque quello di stabilire se la disciplina contenuta nelle disposizioni in commento possa, in taluni casi, ledere gli interessi del paziente, soprattutto alla luce della considerazione che la scelta del sanitario è, in tali casi, assunta senza alcuna procedimentalizzazione, non essendo neppure previsto che egli, in presenza di una diversa volontà del malato o dei suoi familiari, svolga attività di consultazione con i congiunti del paziente o con esperti circa l’opportunità e doverosità della scelta che intende praticare. Nei termini così riassunti, non è azzardato affermare che la disciplina positiva si pone in antitesi con la protezione dei beni in gioco e con la giurisprudenza della Corte Edu, secondo il protocollo da ultimo richiamato in Parfitt v. UK (con specifico riferimento al parametro n. 3, che garantisce la possibilità di rivolgersi all’autorità giudiziaria in caso di incertezze circa la decisione migliore nell’interesse del paziente).
Allo stato, qualche indicazione per una corretta interpretazione della normativa in commento, può forse trarsi dalla norma cardine sul controllo giudiziario in materia, contenuta nell’art. 3 della legge n. 219/2017, quella cioè che regola il caso del rifiuto delle cure proposte dal medico, espresso dal rappresentante legale del soggetto in cura, di cui all’art. 3, c. 5, legge n. 219/2017 [richiamato anche dall’art. 4, c. 5 stessa legge, con specifico riferimento all’esistenza di disposizioni anticipate di trattamento (DAT), in caso di contrasto tra il soggetto fiduciario e il medico].
Secondo il modello procedurale ricavabile da tale combinato disposto, figura centrale del controllo giudiziale è il giudice tutelare. Pertanto, nel silenzio della legge, non è azzardato ipotizzare che a tale figura possa essere demandato il controllo giudiziario su decisioni inerenti al fine vita, del tipo di quelle scrutinate dalla Corte EDU nella sentenza in commento e che a costui spetterà, in definitiva, all’esito di una istruttoria il più possibile approfondita, acquisire le opinioni dei soggetti coinvolti (personale medico e parenti innanzitutto), con l’intervento di esperti qualificati, per poter addivenire a una composizione degli interessi in gioco coerente con il quadro normativo di riferimento e con i principi di matrice costituzionale e sovra nazionale sopra delineati, garantendo così un maggior grado di tutela alla dignità del paziente, secondo il protocollo procedurale che la Corte EDU ha ribadito in Parfitt v. U.K.
4. Le proposte di riforma e la figura del curatore speciale
Spetterà, dunque, al giudice comune sciogliere delicati dubbi, integrando le eventuali lacune legislative mediante l’applicazione dei principi di matrice convenzionale o, in caso di irresolubilità di essi, mediante l’incidente di incostituzionalità del testo scritto.
Alcune indicazioni utili, peraltro, si rinvengono nella sentenza n. 144 del 2019, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate, per erroneità del presupposto interpretativo, le questioni di legittimità costituzionale – sollevate dal Giudice tutelare del Tribunale di Pavia in riferimento agli artt. 2, 3, 13 e 32, Cost. – dell’art. 3, c. 4 e 5, della legge n. 219/2017, nella parte in cui stabilisce che l'amministratore di sostegno, la cui nomina preveda l'assistenza necessaria o la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, in assenza delle disposizioni anticipate di trattamento, possa rifiutare, senza l'autorizzazione del giudice tutelare, le cure necessarie al mantenimento in vita dell'amministrato. In quella sede, il giudice delle leggi ha ritenuto che l'esegesi della norma, tenuto conto dei principi che conformano l'amministrazione di sostegno, porta a escludere che il conferimento della rappresentanza esclusiva in ambito sanitario rechi con sé, anche e necessariamente, il potere di rifiutare i trattamenti sanitari necessari al mantenimento in vita. Le norme censurate si limitano a disciplinare il caso in cui l'amministratore di sostegno abbia ricevuto anche tale potere: spetta al giudice tutelare, tuttavia, attribuirglielo in occasione della nomina – laddove in concreto già ne ricorra l'esigenza, perché le condizioni di salute del beneficiario sono tali da rendere necessaria una decisione sul prestare o non il consenso a trattamenti sanitari di sostegno vitale – o successivamente, allorché il decorso della patologia del beneficiario specificamente lo richieda. Secondo la giurisprudenza costituzionale, l'ambito dei poteri dell'amministratore di sostegno è puntualmente correlato alle caratteristiche del caso concreto, secondo quanto previsto dal giudice tutelare nel provvedimento di nomina.
Pur nella diversità del caso sottostante, sembra di cogliere nella pronuncia richiamata un chiaro riferimento al ruolo centrale del giudice tutelare nel risolvere conflitti rappresentati dalle divergenti posizioni dei soggetti cui è deputata la cura del paziente incapace di esprimere una propria volontà e la tutela della vita, anche nella sua proiezione familiare.
Qualche ulteriore, utile indicazione, ai fini della procedimentalizzazione delle scelte sul fine vita riguardante minori, sembra ricavarsi anche dai lavori della Commissione Luiso, contenente proposte di interventi in materia di processo civile. Il diritto vivente, infatti, ha già da tempo previsto la figura del curatore speciale del minore nei giudizi de potestate (ricavandola dal combinato disposto di cui agli art. 336, c. 1 e 4, cod. civ. e 78, c. 2, cod. proc. civ., cfr., ex multis, cass. sez. 1, n. 1471 del 25/1/2021, Rv. 660382-01; n. 5256 del 6/3/2018, Rv. 647744-01) e la Commissione propone la modifica dell’art. 336 cod. civ. e dell’art. 78 cod. proc. civ. nel senso di valorizzarla al di fuori dei procedimenti de potestate, facendone una figura di carattere generale, cui il giudice può ricorrere in tutti i casi di potenziale conflitto di interessi tra il minore e i soggetti esercenti la potestà genitoriale e alla quale attribuire la rappresentanza processuale e specifici poteri di rappresentanza sostanziale del minore.
5.Le acque agitate del giudice comune europeo.
La straziante vicenda umana che fa da sfondo al caso esaminato pone in risalto il tema del difficile compito del giudice comune, chiamato a “dipanare” l’intricata tela dei rapporti tra i diritti fondamentali coinvolti, e quello della centralità del ruolo dell’interprete tra testo scritto e esperienza. Ruolo che oggi è divenuto ancor più complesso per più ordini di ragioni: la dilatazione della locuzione “testo scritto”, innanzitutto, vero e proprio crogiolo di norme prodotte a livello nazionale e sovranazionale, talvolta sovrapposte in maniera non coerente; la complessità delle materie oggetto di interventi legislativi a lungo attesi, soprattutto in settori come il bio diritto, nei quali la conflittualità tra i vari interessi in gioco è massima e spesso causa stessa dei ritardi; la sensibilità dei temi trattati; infine, le ricadute sociali delle scelte operate dal legislatore.
In questo oceano agitato nuota il giudice comune europeo che Antonio Ruggeri descrive da anni magistralmente come un giurista chiamato a ricavare, dal coacervo delle norme rinvenibili nel sistema multilivello che presidia i diritti fondamentali, tutti astrattamente intangibili, la regola iuris che attui la miglior tutela del super valore della dignità della persona umana, questo concretamente insopprimibile. In un tale contesto, spetta al legislatore non solo il compito di produrre norme che, pur garantendo ineludibili spazi di discrezionalità, siano chiare e coerenti, ma anche quello di assicurare al giudice lo strumentario necessario per portare a termine il suo, diverso compito. E, in questa prospettiva, non pare ultroneo richiamare la opportunità di recepire e implementare gli strumenti che il diritto unitario e convenzionale appronta per realizzare la tutela dei diritti fondamentali, anche attraverso l’interazione proficua tra le Corti nazionali e sovranazionali.
Il riferimento è alla occasione perduta, ci si augura solo temporaneamente, di introdurre, attraverso la ratifica del protocollo 16 annesso alla CEDU, la facoltà per le Alte Corti delle Parti contraenti di richiedere, nel corso del procedimento interno, un parere consultivo non vincolante alla Corte Europea dei diritti dell’uomo su questioni di principio riguardanti la interpretazione o l’applicazione dei diritti e delle libertà previsti nella Convenzione stessa o nei suoi Protocolli. Proprio il bio diritto, a ben guardare, offre numerosi spunti per mettere in pratica quella osmosi di informazioni utile per la individuazione della regola che realizzi la miglior tutela del diritto fondamentale in gioco, trattandosi di un ambito nel quale la giurisprudenza ha già dimostrato, con le note vicende Cappato, Welby e Englaro, la capacità di svolgere un ruolo fondamentale nell’elaborazione di soluzioni, in parte recepite dallo stesso legislatore, nello sforzo costante di realizzare la tutela di quel valore insopprimibile.