ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
È opportuno attribuire nuovi compiti alla Corte di Cassazione?
di Bruno Capponi
Sulle pagine “telematiche” di questa Rivista si è già parlato delle proposte di modifica del procedimento civile di legittimità, attualmente all’esame del Senato dopo la “bollinatura” degli emendamenti governativi, confluiti nel fascicolo unico della Commissione Giustizia (17 giugno 2021). L’emendamento sul c.d. rinvio pregiudiziale è quello che già conoscevamo, ma forse è il caso di riprodurlo per comodità di lettura:
Art. 6-bis, lett. g): introdurre la possibilità per il giudice di merito, quando deve decidere una questione di diritto sulla quale ha preventivamente provocato il contraddittorio tra le parti, di sottoporre direttamente la questione alla Corte di cassazione per la risoluzione del quesito posto, prevedendo che:
1) l’esercizio del potere di rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione sia subordinato alla sussistenza dei seguenti presupposti:
a) la questione sia esclusivamente di diritto, nuova, non ancora affrontata dalla Corte di cassazione e di particolare importanza;
b) presenti gravi difficoltà interpretative;
c) sia suscettibile di porsi in numerose controversie;
2) ricevuta l’ordinanza con la quale il giudice sottopone la questione, il primo presidente, entro novanta giorni, possa dichiarare inammissibile la richiesta qualora risultino insussistenti i presupposti di cui alla lettera precedente;
3) nel caso in cui non provveda a dichiarare la inammissibilità, il primo presidente assegni la questione alle sezioni unite o alla sezione semplice tabellarmente competente;
4) la Corte di cassazione decida enunciando il principio di diritto in esito ad un procedimento da svolgersi mediante pubblica udienza, con la requisitoria scritta del pubblico ministero e con facoltà per le parti di depositare brevi memorie entro un termine assegnato dalla Corte stessa;
5) il rinvio pregiudiziale in cassazione sospenda il giudizio di merito ove è sorta la questione oggetto di rinvio;
6) il provvedimento con il quale la Cassazione decide sulla questione sia vincolante nel procedimento nell’ambito del quale è stata rimessa la questione e conservi tale effetto, ove il processo si estingua, anche nel nuovo processo che sia instaurato con la riproposizione della medesima domanda nei confronti delle medesime parti.
La Relazione illustrativa, redatta dall’Ufficio legislativo del Ministero della Giustizia evidentemente ispirato dalla proposta della Commissione Luiso, parla dell’articolato come di una novità assoluta per il nostro ordinamento: si legge che «l’istituto che si propone, denominato “rinvio pregiudiziale in cassazione” e ispirato a felici esperienze straniere (e segnatamente della saisine pour avis propria dell’ordinamento francese), consente al giudice, in presenza di una questione di diritto nuova, che evidenzi una seria difficoltà interpretativa e che appaia probabile che si verrà a riproporre in numerose controversie, di chiedere alla Corte di legittimità l’enunciazione di un principio di diritto».
Viene aggiunto che «in tal caso, non si tratta di un mezzo di impugnazione e, dunque, non sussiste un “obbligo” per la Corte di rendere il principio di diritto richiesto»; anche per questa ragione «è previsto un “filtro” affidato al Primo Presidente della Corte di cassazione, il quale potrà, qualora appaiano insussistenti i presupposti di (diritto) indicati, dichiarare inammissibile la richiesta e restituire gli atti al giudice remittente. Ciò consentirà, soprattutto nel primo periodo successivo all’introduzione nell’ordinamento dell’istituto in esame, di evitare che la Corte di cassazione sia gravata da un carico eccessivo e da remissioni non giustificate dalla novità e dalla complessità delle questioni da parte dei giudici di merito».
La Corte immagina, evidentemente, di poter essere investita da richieste pregiudiziali in tale misura, da doversi garantire la presenza di un dispositivo di selezione delle questioni per difetto dei presupposti che, a quanto è dato capire, debbono tutti concorrere congiuntamente. Taluni di questi presupposti emergono ex actis, ma altri presuppongono un’attività valutativa-predittiva del rimettente e, quindi, della Corte, estesa a elementi estranei al processo in cui il dubbio interpretativo è sorto (che la questione “pregiudiziale” possa porsi in un numero imprecisato ma rilevante di controversie, è evidentemente un dato che il giudice rimettente non può dedurre dagli atti di causa, e d’altra parte è valutazione che la Corte potrebbe non condividere).
Conclude la Relazione: «è evidente l’obiettivo dell’istituto del rinvio pregiudiziale in cassazione: permettere che la Cassazione affermi celermente, prevenendo un probabile contenzioso su una normativa nuova o sulla quale non si è ancora pronunziata la giurisprudenza di legittimità, una regola ermeneutica chiara, capace di fornire indirizzi per il futuro ai tribunali di merito. La finalità deflattiva è evidentemente apprezzabile, in particolare in presenza di un quadro giuridico nel quale numerosi istituti, nella materia civile, sono sottoposti a stress e richiedono rinnovate riflessioni o aggiustamenti. D’altra parte, l’istituto è anche coerente con il ruolo di jus dicere proprio del giudice di legittimità. In questo modo, infatti, la Corte di legittimità assolve compiutamente al proprio compito di sommo organo regolatore, proteso all’armonico sviluppo del diritto nell’ordinamento».
È curioso che nell’illustrare la proposta si parli di novità assoluta e si faccia riferimento soltanto all’esperienza d’oltralpe; forse sarebbe stato utile – sottolineando le differenze – far capo a istituti che nel nostro ordinamento si conoscono e si praticano, quali l’accertamento pregiudiziale di cui all’art. 420-bis c.p.c., la questione incidentale di costituzionalità, il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia. Strumenti tra loro molto diversi, va riconosciuto, e che tuttavia potrebbero giocare un utile ruolo nella individuazione dei confini e dei limiti del nuovo istituto (si pensi soltanto ai requisiti di rilevanza e non manifesta infondatezza della q.l.c., e ai controlli che su di essi opera la Consulta: anche la Cassazione, investita del rinvio pregiudiziale, potrebbe rimettere gli atti al giudice a quo per un nuovo esame?).
È anche curioso che, facendo riferimento all’esperienza francese, si paventi un uso scriteriato e gravatorio dell’istituto da parte dei giudici di merito (forse attirati dalla connessa sospensione del giudizio?). Basta infatti una visita veloce al sito della Cour de cassation (https://www.courdecassation.fr/jurisprudence_2/avis_15/presentation_saisine_avis_8018/saisine_avis_quelques_mots..._36051.html) per prendere atto che l’istituto viene utilizzato, tra settore penale e settore civile, in non più di una decina di casi all’anno. Gli avis sono tutti consultabili per esteso sul sito della Corte, ma la loro lettura potrebbe seriamente perplimere il giurista italico: si tratta di pareri esposti in poche scarne proposizioni, che spesso dichiarano la richiesta irrecevable per difetto delle condizioni (les questions posées ne conditionnent pas la solution du litige), e in ogni caso si limitano a trattare chirurgicamente la questione di diritto sollevata dopo cenni più che sintetici sull’oggetto del giudizio in cui la questione “pregiudiziale” è sorta. A stampa, gli avis non prendono mai più di tre cartelle.
Premesso quindi che sarebbe buona regola, prima di importare istituti processuali, allargare lo sguardo nel tentativo di percepire il quadro d’insieme in cui l’istituto è destinato a operare, sta di fatto che la tecnica redazionale utilizzata in Francia dai conseillers de cassation è esattamente opposta a quella vigente in Italia. È sufficiente guardare a recenti decisioni della nostra Corte ispirate dall’art. 363 c.p.c. (nelle due applicazioni della richiesta del P.G. e della pronuncia d’ufficio su ricorso dichiarato inammissibile) per comprendere che l’applicazione dell’istituto francese presuppone una vera e propria riconversione culturale dei nostri consiglieri. Un esempio su tutti: la Cass., sez. III, 17 ottobre 2019, n. 26285, dopo aver pronunciato due principi di diritto nell’interesse della legge su ricorso dichiarato inammissibile perché tardivamente proposto (§ 7), essendosi spinta a svolgere «un’ulteriore riflessione» (oramai del tutto fuori quadro rispetto all’oggetto del giudizio), ha poi pronunciato altri sei principi di diritto (dipendenti dai due già pronunciati d’ufficio) che, di fatto, hanno riscritto o integrato norme del c.p.c. (§ 10). La sentenza-trattato palesa un legame molto labile col caso che avrebbe dovuto essere deciso, svelando l’intenzione della Corte di imporre (non interpretazioni bensì) regole cui dovrebbero uniformarsi i giudici di merito del tutto prescindendo dall’esame e dalle caratteristiche del caso (è forse utile rammentare che, nell’ipotesi normale, la Corte pronuncia il principio di diritto quando decide il ricorso – art. 384, comma 1, c.p.c. – cioè quando opera come giudice, sia pure di legittimità).
Ci si può chiedere: perché, in presenza di condizioni culturali tanto diverse, si guarda con tanto interesse all’esperienza francese?
La risposta, a me sembra, debba essere nel senso che la saisine pur avis è istituto che esalta la funzione nomofilattica e il c.d. jus constitutionis; è cioè istituto che risponde all’attuale preoccupazione (in vari modi espressa) della Corte di porsi, ben più che in passato, non quale giudice che risolve conflitti (sia pure in sede di legittimità) bensì quale autorità che dialoga direttamente con la legge, cioè che affina, integra o impone regole. La saisine è istituto ideale per questo scopo, perché la questione di diritto viene drasticamente isolata dal caso per essere proposta alla Corte nella sua purezza ed essenzialità: ma è evidente che un simile presupposto presuppone una Corte in grado di fornire una risposta precisa, tendenzialmente definitiva e soprattutto sintetica. Una risposta chiara, sulla quale non dovrebbero potersi affacciare plurime interpretazioni, interpolazioni, ripensamenti. Sono i nostri Collegi in grado di somministrare risposte simili? I dubbi sorgono leggendo, ad esempio, le due sentenze delle Sezioni Unite n. 4485/2018 e n. 4247/2020, in tema di procedimenti di liquidazione dei compensi professionali spettanti agli avvocati. E già non è fisiologico che sulla stessa questione le Sezioni Unite siano chiamate a pronunciarsi più di una volta a distanza di meno di due anni.
Per altro verso, è sorprendente dover prendere atto che la Corte, da sempre sotto l’assedio dei ricorsi (ora si tende a guardare con sospetto anche l’esperienza del ricorso straordinario, che per lungo tempo è stata un vero fiore all’occhiello), non cessa di acquisire nuove competenze, che è quanto dire l’impatto di nuovi ricorsi.
Prendiamo qualche esempio dalla storia recente. Della bozza Brancaccio-Sgroi (1988) ciò che recepì il legislatore del 1990, modificando l’art. 384 c.p.c., fu la possibilità per la Corte, attinta col n. 3) dell’art. 360 c.p.c., di decidere nel merito quando non fossero necessari ulteriori accertamenti di fatto; nel 2006, questa tecnica di decisione è stata generalizzata. La Corte non ne ha fatto un uso esagerato (sbagliato sì, quando ha deciso nel merito domande o questioni e poi comunque rimesso al giudice di rinvio), ma forse non si è attentamente valutato che la possibilità stessa della decisione di merito trascinava con sé gli strumenti di controllo conseguenti (artt. 391 bis e ter c.p.c.), con l’inevitabile connesso aggravamento di carico per la Corte.
Altra competenza che la Corte ha nel tempo acquisito (ritenendo i più che il legislatore, a fronte dell’art. 111, comma 7, Cost., non abbia la possibilità di intervenire a monte sulla selezione dei ricorsi) è stata quella di scremare il proprio contenzioso: ma l’esperienza (art. 366 bis c.p.c., ora abrogato) dei quesiti di diritto (2006) è stata fallimentare, e subito abbandonata (2009; direi, anzi, una pagina buia nell’esperienza della nostra Corte, sulla quale non si è abbastanza riflettuto); non migliore quella relativa all’art. 360 bis c.p.c., perché in tre lustri di applicazione delle nuove regole la Corte non è stata in grado di fornire chiare indicazioni su come interpretare il merito travestito da inammissibilità (o viceversa). Intendiamoci, la colpa qui non è tutta dell’interprete: ma non dimentichiamo che, come avviene oggi per il “rinvio pregiudiziale”, le novità normative sono sempre fortemente ispirate dall’interno della Corte. Sta di fatto che, mettendo di lato le norme, le selezioni si continuano a fare con i veri cavalli di battaglia di origine pretoria: l’autosufficienza del ricorso e la specificità dei motivi. Nel che è il più evidentemente fallimento della via “legale”, mentre anche qui emerge l’insopprimibile bisogno, che la Corte ha, di fabbricarsi da sola norme ad hoc.
Altra competenza di recente “rilanciata” è stata quella dell’art. 363 c.p.c.; ma, anche in questo caso, la Corte ha dimostrato di non saper fare un uso discreto, selettivo e soprattutto utile dello strumento, forse per via di quella umana componente che un grande magistrato, Renato Rordorf, proprio su questa Rivista ha definito «narcisismo» dell’estensore: aggiungendo molto opportunamente che «le cosiddette sentenze-trattato, pur se ispirate da intenti lodevoli, nella maggior parte dei casi non rendono un buon servizio alla giurisprudenza, che ha una funzione diversa dalla dottrina».
Torniamo dunque al “rinvio pregiudiziale”: può essere utile?
Lasciamo da parte l’esperienza francese, che opera in condizioni assai diverse dalle nostre. Se proprio volessimo fare qualcosa di utile, dovremmo interrogarci – pur prendendo atto delle sensibili diversità – sull’applicazione dell’art. 420 bis c.p.c., che in fondo è nato per rispondere alla medesima esigenza di “interrogazione anticipata” della Corte su questioni di rilevanza non meramente individuale. Non mi sembra che l’esperienza applicativa di questa norma sia stata notevole.
Calata nel nostro sistema, la domanda circa l’utilità dell’istituto pone il tema delicato del rapporto tra le giurisdizioni di merito e quella di legittimità, e del vincolo che ai “principi di diritto” va riconosciuto all’infuori del caso che ha dato origine al rinvio. Pone anche il problema dei possibili vincoli all’interno della Corte, perché nel nostro sistema il “rinvio pregiudiziale” non potrebbe che essere rimesso alle sezioni unite (mentre la proposta prevede l’impegno anche delle sezioni semplici). Vogliamo forse aprire il doloroso repertorio dei contrasti (anche su questioni processuali: per tutte, i limiti dell’impugnazione incidentale tardiva) tra sezioni, all’interno della stessa sezione e addirittura tra sezione semplice e sezioni unite?
Ho l’impressione che, davanti alla questione di diritto nuova, ben difficilmente il giudice di merito – superiorem non recognoscens – potrebbe decidere di interrogare la Corte (il compito di jus dicere, che la Relazione ministeriale sembra attribuire in esclusiva alla Corte, non può certo essere negato ai giudici di merito!). L’uso dello strumento presupporrebbe quantomeno l’esistenza di diversi orientamenti dei giudici di merito e dunque (quantomeno) un dubbio del rimettente, derivante proprio dalla pluralità degli orientamenti; il che confligge con l’immediatezza dell’intervento della Corte, che sarebbe verosimilmente chiamata a dirimere contrasti già manifestati (come è successo, ad es., per la Sezioni Unite 23 luglio 2019, n. 19889, a proposito della reclamabilità del provvedimento ex art. 615, comma 1, c.p.c.), non già a prevenirli. Sempre ammesso che i destinatari accettino di buon grado soluzioni interpretative che calano dall’alto.
Andrebbero poi chiariti i rapporti tra il nuovo istituto e l’art. 363 c.p.c., quanto al profilo dell’iniziativa del P.G.; allo stato, mi sembrerebbe da escludere il potere della parte pubblica di interrogare la Corte in rinvio pregiudiziale.
Per altro verso, non credo vada incoraggiata l’attuale tendenza della Corte ad allontanarsi dall’esame dei casi, per porsi di fronte alle regole come un Titano del diritto sempre più protetto, ma anche sempre più chiuso, nella sua Torre: la Cassazione è un giudice, sui casi è chiamata a giudicare e sarebbe un vero guaio se ponesse in secondo piano questa sua attitudine istituzionale.
Laicità innominata. La giurisprudenza sui rapporti tra nullità e divorzio
di Nicola Colaianni
Sommario: 1. La separazione tra le giurisdizioni ecclesiastica e civile sul matrimonio - 2. La separazione tra atto e rapporto matrimoniale - 3. La separazione come laicità.
1. La separazione tra le giurisdizioni ecclesiastica e civile sul matrimonio
Le ripercussioni della giurisdizione ecclesiastica in materia di nullità matrimoniali sulla giurisdizione civile si vanno sempre più attutendo e ormai sono prossime ai minimi termini. Erano state massime, e devastanti, per oltre cinquant’anni dal concordato del 1929 quando secondo l’interpretazione datane dalla giurisprudenza, così sintetizzata con la solita brillantezza da Jemolo, “ciò che fa la Chiesa è ben fatto; i vincoli ch’essa riconosce valgono per lo Stato, quelli ch’essa dichiara venuti meno, vengono meno per lo Stato”[1] . Ma erano entrate in crisi irreversibile con la legge n. 898/1970 istitutiva del divorzio, che all’art. 2 prevede la cessazione degli effetti civili del matrimonio canonico trascritto. Alla Chiesa sembrò, e lo denunciò anche per le vie diplomatiche[2], un vulnus all’art. 34 del Concordato, con cui secondo la sua interpretazione lo Stato avrebbe inteso recepire nel proprio ordinamento il matrimonio canonico, comprensivo di tutte le sue componenti essenziali, fra cui l'indissolubilità. Ma a questa tesi della riconduzione ad unità del regime matrimoniale, il canonico recepito tal quale dallo Stato, la Corte costituzionale oppose quella della “separazione dei due ordinamenti”, da cui “deriva che nell'ordinamento statale il vincolo matrimoniale, con le sue caratteristiche di dissolubilità od indissolubilità, nasce dalla legge civile ed é da questa regolato”[3]. Ne consegue il diritto di ottenere, ricorrendo le condizioni previste nella legge, la cessazione ex nunc degli effetti civili del matrimonio concordatario con apposita “azione per farlo valere”[4] , avente petitum e causa petendi diversi rispetto a quella canonistica.
L’affermata separazione dei due ordinamenti, tuttavia, pur sancendo l’autonomia della nuova disciplina civilistica, lasciava sul piano dommatico una primazia all’ordinamento canonico, in quanto unico legittimato, grazie alla riserva di giurisdizione attribuitagli, a pronunciarsi in punto di validità o nullità dell’atto di matrimonio: che, operando ex tunc, è questione assorbente quella dell’efficacia civile di competenza dell’ordinamento statale. Questa primazia del giudizio canonico neppure risentì particolarmente della rivisitazione dell’efficacia civile della iurisdictio nullitatum operata dalla Corte costituzionale nel 1982, che impose alla delibazione i limiti del rispetto del diritto di difesa, sia pure nel nucleo ristretto, nel processo canonico e dell’inefficacia di statuizioni contrarie all’ordine pubblico interno[5]. Infatti, la Cassazione a sezioni unite limitò l’impedimento alla delibazione alle sole differenze tra le cause di nullità previste dai due ordinamenti che superino “quel livello di maggiore disponibilità tipico dei rapporti tra Stato e Chiesa cattolica”[6].
Un cambio di registro avverrà solo con la fondamentale sentenza con cui – dopo aver glissato sulla questione in varie pronunce confermative dell’orientamento assunto prima della revisione concordataria - la Cassazione diede atto che l’art. 8 dell’accordo di revisione non riproduceva più il comma dell’art. 34 del concordato lateranense relativo alla riserva di giurisdizione a favore dei tribunali ecclesiastici: e, poiché “le disposizioni del Concordato stesso non riprodotte nel presente testo sono abrogate” (art. 13, n. 1, l. 121/1985), la riserva di giurisdizione era da ritenersi caducata con il conseguente concorso di giurisdizioni addirittura sulla nullità dell’atto di matrimonio canonico[7]. Nonostante uno strumentale obiter dictum inserito dalla Corte costituzionale in una sentenza d’inammissibilità della questione di costituzionalità[8], sulla caduta della riserva e sul conseguente concorso di giurisdizioni la Cassazione ha tenuto la barra dritta nelle successive decisioni[9] costituenti ormai –come noteranno le sentenze “gemelle” del 2014[10] - "diritto vivente".
Il concorso di giurisdizioni è di grande rilievo sul piano sistematico in quanto rovescia l’assetto dei rapporti precedente la legge sul divorzio e attribuisce allo Stato l’intera giurisdizione sul matrimonio, inteso come atto e come rapporto. Il che presuppone l’autonomia della giurisdizione statale e quindi fa venir meno la primazia della giurisdizione canonica. La primazia diventa fattuale e dipende dal criterio estrinseco della prevenzione cronologica: più forte è la giurisdizione adita per prima. Ciò vale innanzitutto nel caso che si tratti di giudizi con identico petitum di nullità, che era il caso risolto dalle Sezioni unite ma verosimilmente di infrequente ricorrenza, stante il breve termine di un anno previsto dagli artt. 120 cpv., 121 co. 3 e 123 cpv. c.c. per proporre l’azione di nullità. Ma soprattutto il concorso di giurisdizioni rafforza, se conclusosi prima, il giudizio di cessazione degli effetti civili, ovvero di divorzio, del matrimonio canonico trascritto, rendendolo meno permeabile agli effetti della giurisdizione canonica sulle nullità. Invero, il procedimento di divorzio ha, come s’è detto, petitum e causa petendi diversi rispetto al procedimento di nullità del matrimonio-atto, riguardando infatti il matrimonio-rapporto e cioè l'impossibilità di mantenere o ricostituire la comunione spirituale e materiale tra i coniugi. Di conseguenza, il giudicato civile sulla cessazione degli effetti civili del matrimonio e sulle connesse questioni economiche non è ostativo alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio, ma questa – capace ordinariamente di far cessare la materia del contendere che abbia come presupposto l’esistenza e la validità del vincolo matrimoniale, ormai invece venuto meno[11] - non potrà travolgere le statuizioni economiche passate in giudicato in virtù degli effetti sostanziali stabiliti dall'art. 2909 c.c.[12].
L’inidoneità della delibazione ad impedire che la causa prosegua dovrebbe valere anche nel caso in cui si sia formato il giudicato sulla cessazione degli effetti civili ma la causa stia proseguendo sulle statuizioni economiche: il giudizio civile dovrebbe continuare nonostante il riconoscimento civile della nullità del matrimonio canonico trascritto, intervenuto però dopo la sentenza di divorzio. Questa conclusione è sembrata, tuttavia, revocabile in dubbio riproponendosi anche in questo caso la cessazione della materia del contendere in quanto il giudizio sull’assegno divorzile presuppone la validità dell'atto matrimoniale, nella specie riconosciuta inesistente.
Questa la divergenza di interpretazione manifestatasi all’interno della prima sezione[13] e risolta dalle Sezioni unite nel primo senso[14] con ragionamento assolutamente persuasivo. Risponde, invero, solo apparentemente ai canoni della logica formale che la cessazione degli effetti civili del matrimonio canonico ne presupponga la validità, di tal che la successiva pronuncia di nullità – inidonea, beninteso, ad incidere sul giudizio divorzile passato in giudicato - provochi la cessazione della materia del contendere almeno nel caso in cui esso sia ancora pendente pur se sotto un profilo particolare come la spettanza e la determinazione dell’assegno. Ma tale logica relativizza e minimizza il presupposto dell’autonomia dei due giudizi, che consiste nella ricordata separazione dei due ordinamenti per cui essi hanno natura ed effetti differenti. Precisamente, il giudizio divorzile implica (non la validità dell’atto, certamente presupposta ma estranea al giudizio, bensì) la “constatazione dell’intervenuta dissoluzione della comunione spirituale e materiale dei coniugi e dell’impossibilità di ricostituirla, nonché della necessità di un riequilibrio tra le condizioni economico-patrimoniali dei coniugi, da realizzarsi attraverso il riconoscimento di un contributo a favore di uno di essi”. È questo presupposto, una volta accertato e passato in giudicato, che giustifica la continuazione del procedimento per la spettanza e la quantificazione dell’assegno divorzile ancorchè medio tempore sia intervenuta l’efficacia civile della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio canonico a suo tempo trascritto. Infatti, l’accertamento dell’impossibilità di mantenimento o ricostituzione della comunione spirituale e materiale dei coniugi è oggetto diverso, separato da quello della validità del matrimonio–atto e perciò, se definitivo, resta insensibile al riconoscimento della nullità di quell’atto, che quindi non preclude la continuazione del giudizio per la determinazione dell’assegno.
Viene così esplicata un’ulteriore limitazione degli effetti della delibazione, che non è in contrasto con gli impegni concordatari. Questi, infatti, erano stati già ridotti dalla Cassazione a quelli rivenienti in senso stretto dall’art. 8 dell’accordo di revisione, che rimette ogni statuizione sul venir meno degli effetti civili “esplicitamente alla giurisdizione e implicitamente alla normativa dello Stato italiano”[15]. Il giudizio sulla determinazione dell’assegno attiene al venir meno di questi effetti e, invero, trova titolo proprio nell’accertamento di quell’impossibilità, ormai incontestabile. Rievocare il diverso presupposto della nullità dell’atto significherebbe riproporre la tesi dell’unità della giurisdizione, in capo al diritto canonico, e negare la separazione dei due ordinamenti.
2. La separazione tra atto e rapporto matrimoniale
Il principio di diritto posto dalle Sezioni unite costituisce in fondo un semplice corollario del già riconosciuto principio di autonomia dei due giudizi canonico e civile, rispettivamente di nullità e di divorzio. Ma, al di là della sua incidenza pratica, limitata ai non molti casi simili a quelli esaminati nelle sentenze citate, esso, limitando ulteriormente la portata della delibazione della sentenza ecclesiastica, segna al momento la massima presa di distanza o di indifferenza dell’ordinamento dall’atto del matrimonio, da cui nasce il rapporto coniugale, per far posto alla sua preoccupazione per le conseguenze della fine della “comunione spirituale e materiale tra i coniugi”, quale che sia l’atto matrimoniale, civile o religioso (rispettivamente art. 1 e 2 l. 898/1970), dal quale essa tragga origine.
Può sembrare paradossale che questa definizione del matrimonio sia stata introdotta dal legislatore civile nella legge sul divorzio. In precedenza, infatti, non esisteva una definizione del matrimonio non solo nel codice civile ma nella stessa Costituzione, che pure lo evoca come fondamento della famiglia e, a sua volta, ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi. D'altro canto, una definizione di simile pregnanza era stata accolta dalla stessa Chiesa solo cinque anni prima, quando il Concilio scrisse della “intima communitas vitae et amoris coniugalis”, che “conducit totamque vitam eorum pervadit” [16], ma, espressa com’era in una costituzione pastorale sia pure del livello più alto, non ha riscosso grande fortuna sul piano giuridico. Invero, nel nuovo codice di diritto canonico, riformato nel 1983, se ne avverte un’eco nel sintagma “matrimoniale foedus”, che al can. 1055 §1 c.i.c. sostituisce nella definizione quello “matrimonialis contractus” del vecchio codice: dunque, un patto, un’alleanza, non un qualsiasi contratto. Ma con esso i coniugi costituiscono una comunità di tutta la vita (totius vitae consortium”) e non anche, come nella riportata definizione conciliare, di amore. Un’amputazione voluta della nuova definizione in favore dell’antico “matrimonialis contractus”, che ricompare infatti già al § 2 dello stesso canone, seguito nei canoni successivi dalle tradizionali conseguenze in termini di validità e di nullità, solo rivisitate dalla giurisprudenza.
Per vero, nella recente riforma del processo matrimoniale canonico realizzata dall’attuale pontefice si coglie un’apertura al (fallimento del) rapporto nel rilievo dato ad alcuni cosiddetti “casi di nullità notoria” già introdotti dalla giurisprudenza, come la “brevità della convivenza” o la “ostinata permanenza in una relazione extraconiugale al tempo delle nozze o in tempo immediatamente successivo”, che, pur evidentemente non attenendo all’atto, sono assunti come presumptions of fact o indici sintomatici di vizi di nullità dello stesso[17] . Ma l’apertura non è tale, ovviamente, da condurre a superare il difetto di tutela del coniuge più debole in caso di nullità dell’atto, limitandosi il can. 1691 c.i.c. a stabilire che nella sentenza di nullità sia contenuto un ammonimento alle parti sulle obbligazioni morali di sostentamento reciproco e verso i loro figli e anche su quelle civili, cui eventualmente siano tenute (nel nostro ordinamento, l’assegno per un periodo non superiore a tre anni, previsto dall’art. 129 c.c.). Dal punto di vista della Chiesa, cioè, il sostentamento è un’obbligazione naturale, di adempimento spontaneo, senza alcuna coazione da parte del creditore naturale o di terzi (tra i quali si annovera proprio l’autorità ecclesiastica, che magari nel frattempo avrà assistito con un suo ministro alla celebrazione delle nuove nozze dell’obbligato naturale) [18].
Tutt’altra la posizione dello Stato, per cui nel caso si tratta, conformemente alla Costituzione, di un “dovere inderogabile di solidarietà” e anzi il contributo da versare all’ex coniuge economicamente pù debole per effetto dell’art. 5, co. 6, della legge 898/1970, secondo la più recente giurisprudenza, ha funzione non meramente assistenziale ma anche perequativo-compensativa rispetto alla vita coniugale svolta ed alle aspettative eventualmente sacrificate e non più compensate, come in costanza di matrimonio, dal disgregarsi della comunione morale e spirituale[19].
Al momento della stipulazione dell’accordo di revisione del concordato nel 1984 era, comunque, evidente questa posizione statale, causa ed effetto della separazione dei due ordinamenti sul matrimonio, avvenuta per effetto di una legge, che anche per il suo spiccato orientamento costituzionale, è idonea a contribuire alla formazione dell’ordine pubblico dello Stato in materia. Non sorprende, quindi, che nel procedimento di delibazione assumesse particolare importanza, per il contrasto con l’ordinamento italiano, la esclusiva rilevanza attribuita dall’ordinamento canonico all’atto del matrimonio, in quanto sacramento costitutivo del vincolo matrimoniale, con totale disinteresse per l’effettività del rapporto coniugale che ne seguiva, di modo che la prima sezione della Cassazione cominciò a sostenere coerentemente l’ostatività della prolungata convivenza [20] alla delibazione delle sentenze di nullità. Ma a rimettere le cose a posto, pur in mancanza di un contrasto sincronico, intervennero di nuovo le sezioni unite stabilendo che "la convivenza tra coniugi successiva alla celebrazione del matrimonio non è espressiva delle norme fondamentali che disciplinano l'istituto" data la “inesistenza nelle norme costituzionali di un principio chiaramente evincibile circa la prevalenza del matrimonio-rapporto sul matrimonio-atto, anche se viziato”, sicchè “la stabilità del vincolo comunque realizzatasi e quindi anche attraverso la convivenza dopo la celebrazione” non rappresenta “la dimensione normativa dell’effettività dell’unione che impedisce di dare rilievo al difetto genetico dell’atto costitutivo”[21].
Non solo, anzi, secondo la Cassazione non era ricavabile espressamente un principio di ordine pubblico del genere ma addirittura un atteggiamento dell’ordinamento civile benevolentior verso le sentenze ecclesiastiche al confronto di quelle straniere era positivamente deducibile dall’obbligo concordatario del giudice della delibazione di tener conto della “specificità dell’ordinamento canonico” e, quindi, della rilevanza esclusiva da esso attribuita al matrimonio-atto rispetto al rapporto. Che questo fosse il significato da attribuire al richiamo della specificità era piuttosto dubbio ed in effetti, come fu precisato qualche anno dopo da Cass. 1824/1993, cit., la clausola grazie alla sua elasticità “ha il solo scopo di attenuare la equiparazione, ai fini della delibazione, della sentenza ecclesiastica alla sentenza straniera”. Ma non rispondeva al criterio di ragionevolezza dell’interpretazione, salvo che in una interpretazione confermativa dello status quo ante[22], spingere l’attenuazione fino al punto di continuare ad accogliere nell’ordinamento civile in tutta la sua portata una peculiarità dell’ordinamento canonico tale da integrarne quel proprium irriducibile, nel suo nucleo forte, alla dimensione del diritto statale e, quindi, da risultare incompatibile con l’area di tutela dell’affidamento e, in generale, con l’ordine pubblico: è questo il caso, in cui tocca alle parti “pagare” la specificità dell’ordinamento canonico, rimanendo private dell’efficacia civile della sentenza ecclesiastica di nullità.
Cionondimeno, il principio dell’irrilevanza della effettiva convivenza rispetto al difetto genetico dell’atto matrimonio frenò la presa d’atto dell’avvenuta separazione dei due ordinamenti per oltre un quarto di secolo fino alle citate “sentenze gemelle” del 2014, che diedero rilievo come motivo ostativo alla convivenza prolungatasi oltre (non l’anno, ma) il triennio[23]. A dissodare il terreno erano intervenute qualche anno prima le stesse sezioni unite quando avevano esteso l’ostatività alle incompatibilità assolute, in nessun modo conformabili ai “valori o principi essenziali della coscienza sociale, desunti dalle fonti normative costituzionali e dalle norme inderogabili, anche ordinarie, nella materia matrimoniale”: quali appunto le “pronunce di annullamento canonico intervenute dopo molti anni di convivenza o coabitazione dei coniugi, dato il rilievo del matrimonio rapporto, “riconosciuto in precedenza ma assunto ora a valore cogente, per lo stretto nesso tra esso e il matrimonio atto, sancito nella Costituzione (art. 29)” [24].
Alla Costituzione (non solo l’art. 29 ma anche gli artt. 2, 3, 30 e 31) le citate sentenze del 2014 aggiungeranno le Carte europee dei diritti (art. 8, par. 1, e 12 CEDU, art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea), come interpretate dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, l'art. 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948, espressamente richiamata nel Patto internazionale sui diritti civili e politici, adottato a New York il 16 dicembre 1966, il codice civile. E, anche dall’esame della convergente giurisprudenza formatasi su tali disposizioni, stabiliranno che la convivenza dei coniugi o "come coniugi" — cioè, la consuetudine di vita comune, il ”vivere insieme” stabilmente e con continuità nel corso del tempo o per un tempo significativo tale da costituire ”legami familiari” — integra in questa “complessità fattuale” un aspetto essenziale e costitutivo del ”matrimonio-rapporto”, caratterizzandosi al pari di questo, secondo il paradigma dell'art. 2 Cost., come il "contenitore", per così dire, di una pluralità di “diritti inviolabili”, di ”doveri inderogabili”, di ”responsabilità” anche genitoriali in presenza di figli, di "aspettative legittime" e di "legittimi affidamenti" degli stessi coniugi e dei figli, sia come singoli sia nelle reciproche relazioni familiari”.
3. La separazione come laicità
La laicità è il filo rosso che ha reso possibile separare l’uno dall’altro i due ordinamenti aggrovigliati sul matrimonio. La separazione viene riconosciuta così non solo sotto l’aspetto processuale ma anche su quello sostanziale della tutela attribuita in ciascuno di essi al rapporto di convivenza al fine di impedire che si possa porre nel nulla, con relativa rapidità un rapporto durato anche decenni, con la nascita, il mantenimento, l’istruzione e l’educazione dei figli (art. 30 cost.) e l’instaurazione di rapporti familiari anche con i parenti dei genitori, che almeno sotto l’aspetto successorio verrebbero travolti dalla dichiarazione di nullità. Si tratta di rapporti che l'ordinamento non può non garantire a tutti, senza distinzione di religione: e nell’escluderne chi, avendo a suo tempo scelto il matrimonio canonico trascritto, si trovi a subire anche la trascrizione della sentenza di nullità di quell’atto con la conseguenza di vederli travolti formalmente fin dall’origine si potrebbero cogliere elementi di una discriminazione per motivi di religione, vietata dall’art. 3 Cost.[25].
È il principio di laicità, a monte, che determina una separazione sempre più marcata tra matrimonio-atto e matrimonio-rapporto, per cui non c’è più necessariamente connessione e per lo Stato, in definitiva, ciò che più rileva, ed è meritevole di tutela, è l’instaurazione o il venir meno della convivenza. Un’espressione flessibile, questa, capace di designare ogni forma di effettiva comunione spirituale e materiale, indipendentemente non solo da un atto, civile o religioso trascritto, da cui sia originata, ma dalla stessa esistenza di un atto matrimoniale come si può dedurre dall’osservazione ai “legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale” di cui all’art. 1, co. 36, l. 20 maggio 2016, n. 769 (che ricalca l’art. 143 c.c. estendendolo così alla disciplina delle convivenze, come la legge è intitolata a sottolinearne la grande varietà).
Il pendolo della tutela statuale si è andato così gradualmente spostando dalla varietà degli atti giuridici pubblicamente certificati alla medesimezza del fatto risultante dalla relazione concretamente instaurata tra due soggetti, da ciò che è formale a ciò che è sostanziale, dalla condotta obbligatoria per le parti a quella discrezionale da esse tenuta. Questo risultato unificante è stato ottenuto, come s’è visto, attraverso la separazione: anzi, “l’arte della separazione”, com’è stato definito[26] questo tratto del liberalismo politico di cui il jeffersoniano “muro” che separa la Chiesa dallo Stato è la narrazione retorica più celebre ma che in realtà ha una storia più complessa, risalente all’antica distinzione evangelica tra “quel che è di Cesare e quel che è di Dio” ed espressa da quella moderna tra peccato e reato[27]. Nello stato costituzionale di diritto questo dualismo è alla base del principio supremo di laicità, che infatti si declina come “distinzione degli ordini distinti” in modo da tematizzarne la finitezza ed evitarne sconfinamenti e strumentalizzazioni reciproche[28].
Questo intimo nesso, quasi una sinonimia, tra separazione e laicità consente di gettare uno sguardo più comprensivo sulla effettiva ricezione del principio di laicità, che altrimenti potrebbe sembrare minimale e dare l’impressione che la viva vox Constitutionis sia poco percepita. La giurisprudenza di legittimità sta cominciando a fare più frequentemente applicazioni espresse del principio di laicità: solo nell’ultimo anno si possono ricordare le due importanti sentenze sul diritto alla propaganda ateistica per non incorrere nel divieto di discriminazioni e sul diritto all'autodeterminazione in materia di rifiuto (del testimone di Geova) del trattamento sanitario e libertà di professione della fede[29]. E in precedenza anche al principio di laicità la Cassazione fece ricorso nel sollevare la questione di costituzionalità sull’obbligo governativo di avviare trattative d’intesa, salva la discrezionalità di stipularle, con le confessioni religiose diverse dalla cattolica[30].
Ma la ricezione del principio di laicità nella giurisprudenza va valutata anche con riguardo ai casi in cui, pur la laicità non essendo espressamente nominata, viene applicato il principio di separazione degli ordini, di cui la laicità è fonte e culmine. Della separazione la giurisprudenza della Cassazione ha fatto uso ovviamente nelle controversie in cui assumeva rilievo principale l’interpretazione dell’art. 7 Cost. rispetto ai patti lateranensi - come per esempio quella sui limiti del divieto di “non ingerenza” dello Stato sui rapporti degli “enti centrali” della Chiesa cattolica - ma anche in “materie miste” tra etiche e diritto, caratterizzate da “eccessi di culture”[31] specie confessionali, come quella del diritto alla cura e dalla cura[32]. Ma la separazione ha trovato, come s’è visto, terreno fecondo anche nella delicata materia della delibazione delle sentenze ecclesiastiche, e quindi della distinzione tra atto e rapporto matrimoniale, consentendo al giudice di districarsi tra le intersecazioni di discipline canoniche e statali: dalle sentenze del 2014 (preparate da quella sulle incompatibilità assolute e relative del 2008) a questa del 2021. La presa d’atto della coesistenza tra la pronuncia di cessazione degli effetti civili e quella di nullità del matrimonio, con la possibilità di un contrasto di giudicati (quanto meno, in quest’ultimo caso, sotto il profilo pratico della potenziale sovrapposizione tra gli effetti economici del divorzio e della pronuncia di nullità), muove dalla raggiunta consapevolezza di una separazione dei due ordinamenti, con cui si è superata, sia pur lentamente, una giurisprudenza a lungo impastata di concezioni mutuate dal matrimonio-atto proprie del diritto canonico.
Si tratta di una laicità innominata, cioè di una interpretazione costituzionalmente (nel caso, per la precisione, laicamente) orientata di norme di collegamento, che ha consentito di tener conto della realtà della vita comune condotta dagli ex coniugi prima del disgregarsi della loro comunione materiale e spirituale e almeno delle conseguenze economiche di tale disgregazione per ciascuno di essi. E proprio il principio, non solo direttivo ma anche regolativo, di laicità consente che quest’attenzione alle conseguenze dell’efficacia civile della dichiarazione di nullità non si traduca in un “utilitarismo dell’atto” giurisdizionale[33], incompatibile con un sistema di giustizia legale.
Certo, ci si può, e anzi sul piano della politica del diritto ci si dovrebbe, chiedere se la tutela della vita familiare rivolta esclusivamente alla convivenza non renda ormai priva di valore, un orpello retorico da cerimoniale, l’impegno matrimoniale – nella celebrazione canonica così solenne e basata su una Parola al massimo grado eteronoma – a sostenersi nella “buona o cattiva sorte” [34]; e se, quindi, nell’ormai acquisito relativismo delle forme non si dia più spazio per norme stimolanti la scelta dell’atto formale del matrimonio, una sua resilienza costituzionale di fronte al declino di fatto. Domande non facili, meritevoli di una risposta meditata e non disinvolta, che difficilmente può dare un agire politico privo di una causa finale e improntato, come l’attuale, piuttosto al presentismo quando non proprio all’emergenzialismo. L’attuale stato legislativo e giurisprudenziale mostra, tuttavia, che la tendenza alla privatizzazione del matrimonio ha portato, comunque, a tutelare non un individualismo incurante dei doveri di solidarietà ma, all’opposto e in applicazione proprio dell’art. 2 Cost., la relazione con l’altro, cioè il rapporto anziché l’atto, anche quando il rapporto nasca dall’atto.
[1] A.C. Jemolo, Chiesa e Stato negli ultimi cento anni, Einaudi, Torino, 1971, p. 513.
[2] Cfr. Dieci documenti diplomatici sulla interpretazione dell’art. 34 del Concordato tra l’Italia e la Santa Sede, in Rivista di Studi Politici Internazionali, Vol. 37, 1970, III, pp. 461 ss.
[3] Corte cost. 8 luglio 1971, n. 169.
[4] Corte cost. 11 dicembre 1973, n. 176.
[5] Corte cost. 2 febbraio1982, n. 18.
[6] Cass. sez. un. 1 ottobre 1982, n. 5026.
[7] Cass. sez. un. 13 febbraio 1993, n. 1824.
[8] Corte cost. 29 novembre 1993, n. 421.
[9] Conf. ad es. Cass. sez. un. 6 luglio 2011, n. 14839.
[10] Cass. 17 luglio 2014, n. 16379 e 16380.
[11] Cass. 7 ottobre 2019, n. 24933, e altre precedenti ivi citt.
[12] Cass. 18 settembre 2013, 21331, ed altre precedenti ivi citt.
[13] Rispettivamente Cass. 23 gennaio 2019, n. 1882, e Cass. 25 febbraio 2020, n. 5078.
[14] Cass. sez. un. 31 marzo 2021, n. 9004: "In tema di divorzio, il riconoscimento dell'efficacia della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio religioso, intervenuto dopo il passaggio in giudicato della pronuncia di cessazione degli effetti civili ma prima che sia divenuta definitiva la decisione in ordine alle relative conseguenze economiche, non comporta la cessazione della materia del contendere nel giudizio civile avente ad oggetto lo scioglimento del vincolo coniugale, il quale può dunque proseguire ai fini dell'accertamento della spettanza e della liquidazione dell'assegno divorzile". Prime note alla sentenza di J. Pasquali Cerioli, Le Sezioni unite e l''indifferenza' del giudizio sull'assegno divorzile al riconoscimento delle nullità canoniche: la tutela del "coniuge debole" nell'ordine matrimoniale dello Stato, in Statoechiese.it, 2021, n. 7; A. Cesarini, Libertà e responsabilità nella convivenza coniugale: la stabilità dell’assegno divorzile a seguito di ‘delibazione’ della nullità canonica, ibid., n. 11.
[15] Cass. 23 marzo 2001, n. 4202.
[16] Concilio Vaticano II, cost. Gaudium et spes, 1965, n. 48 s. Un’apertura sul piano pastorale, priva di conseguenze su quello giuridico, alla positività del rapporto coniugale si rinviene ora in papa Francesco (J.M. Bergoglio), esortazione Amoris laetitia, 2016, n. 293, secondo cui anche “una semplice convivenza, quando l’unione raggiunge una notevole stabilità attraverso un vincolo pubblico, è connotata da affetto profondo, da responsabilità nei confronti della prole, da capacità di superare le prove, può essere vista come un’occasione da accompagnare nello sviluppo verso il sacramento del matrimonio”.
[17] Di “sconfinamento della nullità verso lo scioglimento” aveva scritto P. Moneta, Nullità e scioglimento del matrimonio, in Id., Communitas vitae et amoris. Scritti di diritto matrimoniale canonico, Pisa University Press, Pisa, 2013, p. 412. Sulla dubbia delibabilità della sentenza contenente simili statuizioni e/o emanata all’esito del processus brevior, introdotto dal motu proprio di papa Francesco Mitis iudex dominus Jesus del 15 agosto 2015, si può vedere il mio Il giusto processo di delibazione delle sentenze ecclesiastiche, in Rivista di diritto privato, 2016, n. 1, p. 131 ss., ora anche in N. Colaianni, La lotta per la laicità. Stato e Chiesa nell’età dei diritti, Cacucci, Bari, 2017, pp. 275 ss. Per un’ampia critica del motu proprio, anche in direzione dell’efficacia civile delle sentenze, v. invece G. Boni, L’efficacia civile in Italia delle sentenze canoniche di nullità matrimoniale dopo il Motu Proprio Mitis iudex (parte seconda) , in Statoechiese.it, 2017, pp. 61 ss.
[18] Questo esito normativo è scaturito – come magistralmente osservò G. Dossetti, La famiglia, in Rivista internazionale di scienze sociali, 1943, ripubblicato in Id., “Grandezza e miseria” del diritto della Chiesa, a cura di F. Margiotta Broglio, Il Mulino, Bologna, 1996, pp. 197 e 202. – da un “isolamento sistematico dei problemi relativi al matrimonio, studiato (… ancor più dopo il XIII secolo, in conseguenza dell’esplicito inquadramento nel numero settenario dei sacramenti) sempre avulso dal restante complesso dei problemi familiari: quindi mancata costruzione di una dottrina, non solo sostanzialmente ma anche formalmente unitaria, della società coniugale e parentale, (…) mancanza di una determinazione in tutto precisa ed esauriente dei rapporti di solidarietà e dei doveri vicendevoli tra persona società coniugale e parentale e società superiori”.
[19] Cass. sez. un. 11 luglio 2018, n. 18287, e Cass., I, 28 febbraio 2020, richiamate da Cass. 9004/2021, cit.
[20] Cass, 18 giugno 1987, nn. 5354 e 5358; 3 luglio 1987, n. 5823.
[21] Cass. sez. un. 20 luglio 1988, n. 4700.
[22] V. per tutti in questo senso G. Dalla Torre, “Specificità dell’ordinamento canonico” e delibazione delle sentenze matrimoniali ecclesiastiche, in Statoechiese.it, 2013, e in senso contrario G. Casuscelli, Delibazione e ordine pubblico: le violazioni dell’Accordo “che apporta modificazioni al Concordato lateranense”, ibid., 2014.
[23] Questo, insieme alla privatizzazione dell’ordine pubblico a motivo della rilevabilità della convivenza solo su eccezione dell’opponente alla delibazione, il punto criticabile delle sentenze: si può vedere al riguardo il mio Convivenza 'come coniugi' e ordine pubblico: incontro ravvicinato ma non troppo, in Giurisprudenza italiana, 2014, n. 10, pp. 2119 ss., ora anche in Colaianni, La lotta per la laicità, cit., pp. 260 ss. Per la critica, invece, della restrizione dei margini della delibazione “da regola a eccezione, in evidente contrasto con gli impegni concordatari a suo tempo assunti dallo Stato italiano” v., anche per altre citazioni di letteratura, P. Cavana, L’evoluzione del concetto di ordine pubblico nel giudizio di delibazione, in Statoechiese.it, 2020, n.10, p. 44.
[24] Cass. 18 luglio 2008, n. 19809, che ha “negato il riconoscimento della efficacia della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio nel caso, nel quale la rilevanza della ignoranza di uno dei nubendi sull’infedeltà dell’altro prima del matrimonio è certa in attuazione delle istanze etiche che sottostanno al matrimonio religioso e alla specificità del diritto canonico, ma non è assolutamente compatibile con l’ordine pubblico italiano”. F. Alicino, L’altra “faccia” della specificità del matrimonio canonico (A proposito di Cassazione, Sez. Un., 18 luglio 2008, n. 19809), in Statoechiese.it, 2009, vi rileva “il maggior risalto attribuito agli elementi che separano lo Stato – laico – italiano da un contesto ordinamentale esterno e, comprensibilmente ossia legittimamente, pervaso da una visione sacramentale del diritto”.
[25] Cfr. V. Carbone, Ombre e luci della giurisprudenza sui rapporti tra giurisdizione ecclesiastica e quella italiana in ordine alla rilevanza del matrimonio-rapporto, in Corriere giuridico, 2012, p. 1044.
[26] M. Walzer, Il liberalismo e l’arte della separazione, in Id., Pensare politicamente. Saggi teorici, Laterza, Roma-Bari, 2009, p. 38.
[27] P. Prodi, Una storia della giustizia. Dal pluralismo dei fori al moderno dualismo tra coscienza e diritto, Il Mulino, Bologna, 2000, specialmente pp. 480 ss.
[28] La distinzione degli ordini distinti, interpretati nella dimensione della , significa, infatti, che «la religione e gli obblighi morali che ne derivano non possono essere imposti come mezzo al fine dello Stato” e comporta “il divieto di ricorrere a obbligazioni di ordine religioso per rafforzare l’efficacia dei propri precetti” (Corte cost. 334/96, cit.). Comporta reciprocamente il divieto per le confessioni religiose di ricorrere ad obbligazioni di ordine civile per rafforzare l’efficacia di precetti essenzialmente religiosi.
[29] Rispettivamente Cass. 17 aprile 2020, n. 7893, e Cass. 23 dicembre 2020, n. 29469.
[30] Cass. 28 giugno 2013, n. 16305. La questione fu rigettata dalla Corte costituzionale con sentenza 10 marzo 2016, n. 52, molto discussa (v. almeno i contributi raccolti nel volume Bilateralità pattizia e diritto comune dei culti. A proposito della sentenza n. 52/2016, a cura di M. Parisi, Editoriale scientifica, Napoli, 2017).
[31] Espressione di M. Aime, Eccessi di culture, Einaudi, Torino, 2004.
[32] Rispettivamente Cass. 18 settembre 2017, n. 21541, e Cass. 16 ottobre 2007, n. 21748.
[33] Per riprendere l’espressione di L. Mengoni, L’argomentazione orientata alle conseguenze, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1994, pp. 1 ss.
[34] Pur con occhio disincantato sul futuro, M. Tamponi, Del convivere. La società postfamiliare, La nave di Teseo, Milano, 2019, p. 256, vede, tuttavia, oltre al declino “anche rinnovata emersione della forza e della necessità dell’istituzione”.
La Relazione Lattanzi: il nuovo sistema sanzionatorio e “la questione cautelare”
di Giorgio Spangher
1. Interessato dalla significativa riforma attuata con la l. n. 47 del 2015, il tema delle misure cautelari è rimasto sinora fuori dal perimetro della riforma del processo penale, delineato dal d.d.l. A.C. n. 2435 e conseguentemente dall’iniziativa emendativa della Relazione Lattanzi, in attesa dell’iniziativa del Ministro.
Pur tuttavia, qualche riflessione dovrebbe essere svolta, in relazione alle possibili ricadute sul tema per effetto delle intersezioni con i rinnovati profili della disciplina sanzionatoria proposta dalla Commissione.
Com’è noto, la finalità della riforma, tesa ad assecondare i diktat europei, è costituita dalla necessità di accorciare i tempi del processo, nella misura del 25%.
L’obiettivo è perseguito, oltre ai tradizionali strumenti, costituiti dalla risorse umane e da quelle strutturali, dal ricorso alla strumentazione tecnologica e informatica, dalla riduzione dei tempi morti e delle stasi processuali, in larga parte attraverso una maggiore integrazione dei gradi e delle fasi, anche per effetto dell’alleggerimento del carico giudiziario.
Quest’ultimo obiettivo è perseguito, nella progressione processuale, attraverso meccanismi che ne consentono la “scrematura”, così da alleggerire di volta in volta il carico che si riverbera sulla fase successiva.
Così, in rapida sintesi, prima dell’esercizio dell’azione penale, sono previste il pagamento di una somma di danaro fissata dall’ente accertatore in caso di violazione delle previsioni contravvenzionali, con archiviazione in caso di assolvimento di quanto richiesto; l’archiviazione meritata; l’accentuata ipotesi di procedibilità a querela.
Vanno successivamente considerate le possibili decisioni di non punibilità per la particolare tenuità del fatto, le condotte riparatorie, la sospensione del processo e messa alla prova. Si tratta di strumenti deflattivi, in parte anche “sanzionatori” chiamati a precludere, in parte, i successivi sviluppi del processo. Ne sono ridefiniti contenuti e presupposti tesi ad un loro più solido contributo alla “missione” riformatrice. Piccoli chinese walls sono costituiti anche dalle nuove regole di giudizio chiamate ad arginare l’esercizio dell’azione (archiviazione) e l’emissione del decreto di citazione (passaggio a dibattimento).
In caso di soggetto irreperibile si emette una sentenza di improcedibilità, inoppugnabile, in attesa di reperire l’imputato.
Alla riferita finalità, nella visione già da essi prevista, ma incentivata nelle prospettazioni premiali, vanno naturalmente iscritti il procedimento per decreto, l’applicazione della pena a richiesta e il giudizio abbreviato.
Il panorama processuale si completa con la possibilità di definire il processo con il concordato in appello sui motivi e sulla pena.
L’eventuale accelerazione processuale (direttissimo e immediato), tuttavia, non esclude ipotesi regressive e deflattive nei termini già visti (patteggiamento, abbreviato, messa alla prova).
Sia in alcuni di questi percorsi che sono definiti con decisioni di “condanna”, dapprima provvisorie, perché impugnabili, poi definitive, sia nel rito ordinario, nelle diverse pronunce di merito, di primo grado, d’appello, definite irrevocabilmente ai sensi dell’art. 648 c.p.p., trova operatività il nuovo regime sanzionatorio delineato dalla proposta Lattanzi.
2. Dopo questo breve inquadramento è possibile ritornare all’interrogativo iniziale.
In quale misura il rinnovato quadro sanzionatorio, al di là di quanto già emerge , può incidere sull’applicazione (e poi sull’esecuzione, ovviamente) delle misure cautelari, soprattutto di quella inframuraria che come si è visto la riforma tende a ridimensionare.
È espressamente previsto – ai sensi del comma 2 dell’art. 275 c.p.p. – che ogni misura deve essere proporzionata all’entità del fatto e alla sanzione che si ritiene possa essere irrogata.
Come anticipato, la proposta della Commissione ipotizza che nel caso in cui il soggetto sia condannato ad una pena detentiva non superiore a quattro anni il giudice possa sostituirla con la detenzione domiciliare, con l’affidamento in prova al servizio sociale e con la semilibertà e che nel caso in cui l’imputato sia condannato ad una pena detentiva entro il limite di tre anni, il giudice (anche d’ufficio) possa sostituirla con il lavoro di pubblica utilità.
Quest’ultima previsione, invero, sembrerebbe essere in linea con quanto previsto dal comma 2 bis dell’art. 275 c.p.p. ove si stabilisce che, salvo quanto previsto dal comma 3 (dello stesso art.) e ferma restando l’applicazione dell’art. 276, comma 1 ter e 280, comma 3, non può applicarsi la custodia cautelare in carcere se (fatte salve ipotesi espressamente eccettuate) il giudice ritiene che all’esito del giudizio, la pena detentiva irrogata non sarà superiore a tre anni.
In altri termini, nella prognosi di una pena di tre anni, suscettibile di essere convertita come detto la misura degli arresti domiciliari (sussistendo esigenze cautelari) potrebbe ritenersi adeguata.
Resterebbe da colmare normativamente la questione relativa alla prognosi di una pena di quattro anni che, come indicato, potrebbe essere convertita potendosi configurare la misura degli arresti domiciliari con braccialetto ovvero con prescrizioni rigide.
In ogni caso, un raccordo andrebbe prospettato al riguardo, ad esempio, ritenendo necessarie esigenze cautelari di eccezionale rilevanza.
Qualche interrogativo sembra prospettarsi con riferimento al possibile accesso di riti speciali.
È noto come costituisca orientamento consolidato che la possibilità ovvero anche l’intendimento manifestato di richiedere i riti premiali non sia ritenuto elemento adeguato - né sotto il profilo della pena, né sotto il profilo dell’accertata responsabilità - ad incidere sull’applicazione delle misure cautelari. Tuttavia, considerato quanto contenuto nella proposta, la definizione del patteggiamento nei limiti dei cinque anni o la condanna nel rito abbreviato negli stessi limiti di pena potrebbe incidere sulla protrazione della misura (ove non fosse già venuta meno).
Invero, se con riferimento al rito abbreviato l’abbattimento è fissato nella misura di un terzo, ovvero fino ad un terzo, nel rito condizionato (fatta salva la ulteriore riduzione di un sesto in sede esecutiva in caso di decisione non appellata), la decisione patteggiata è definita dopo l’abbattimento della metà e si prevede che nel caso di pena detentiva irrogata non superiore a quattro anni, il giudice possa applicare, a titolo di sanzione sostitutiva, la detenzione domiciliare, l’affidamento in prova ai servizi sociali e la semilibertà (fatta salva l’ipotesi in cui sia preclusa la sospensione dell’esecuzione della pena ex art. 656 c.p.p.).
In altri termini, si tratta di reati significativi, anche più di quanto potrebbe conseguire al rito contratto.
Un discorso a parte sembrerebbe prospettabile con riferimento alla operatività della sospensione e messa alla prova, in considerazione che pur nella elevata soglia di ammissione (fino a dieci anni), seppur specificamente individuata per puntuali fattispecie incriminatrici, alcune ipotesi criminose potrebbero essere suscettibili di superare la soglia per l’applicazione della custodia in carcere secondo le indicazioni dell’art. 280 c.p.p.
Il problema della giustizia non si risolve modificando le regole del processo
di Giovanni Verde(*)
Sommario: 1.Premessa: il problema della giustizia non si risolve modificando le regole del processo - 2. I vincoli che la Costituzione pone al legislatore ordinario - 3. L’organizzazione non efficiente - 4. L’aggiramento dei limiti e divieti costituzionali - 5. Verso forme di giustizia deformalizzate (a proposito del d.d.l. in discussione) - 6. Qualche (non lieta) conclusione.
1. Premessa: il problema della giustizia non si risolve modificando le regole del processo
Ho svolto il mio insegnamento del diritto processuale civile nella convinzione che mi competesse di sistemare le norme di legge, di assemblarle in ragionevoli combinati disposti (come amava dire uno dei miei maestri, Virgilio Andrioli), di indicare i problemi e le soluzioni applicative possibili, di condire il tutto, seguendo l’insegnamento dell’altro mio maestro, Corrado Vocino, con un sano relativismo, alimentando negli allievi la civiltà del dubbio anche nei confronti delle idee che professavo. Da qualche tempo sono assalito dal timore di essere stato un cattivo maestro.
Ho, infatti, sotto gli occhi una casa che brucia: quella della giustizia. E non posso non pensare che una parte di responsabilità spetti a chi, come me, si è per tanti anni baloccato nell’illusione che, costruendo modellini processuali, si potesse migliorare il nostro sistema. Una fatica inutile e, forse, addirittura controproducente. Da più di venti anni Governo e Parlamento ci inondano di provvedimenti “a costo zero” per rendere migliore e più efficiente il sistema. Il solo fatto che ancora oggi l’uno e l’altro debbano ricorrere ad un ulteriore (ma non ultimo) provvedimento di riforma è la prova di assoluta evidenza che quanto è stato fatto in precedenza non è servito a niente.
È questa la ragione per la quale, consapevole che il persistere nell’errore è diabolico, da qualche tempo ho preso a considerare questi conati riformatori non sotto l’aspetto tecnico, ma cercando di individuare quale sia la filosofia che ne è alla base. E credo di aver capito che alla base vi è qualcosa di simile a una irrimediabile schizofrenia.
La dissociazione porta, infatti, Governo e Parlamento a ritenere che la via per rendere efficiente il sistema di giustizia civile sia quello di sottoporlo ad un’operazione di maltusiana riduzione, incentivando gli accordi fuori dal processo e rendendo quest’ultimo un percorso costosissimo e irto di ostacoli, là dove Governo e Parlamento alzano di mani di fronte alla inevitabile dilatazione del processo penale favorita dall’obbligatorietà dell’azione, così come previsto in Costituzione.
Farei offesa al relativismo al quale mi sono ispirato per tutta una vita se ponessi la distinzione, che potrebbe essere ridotta alla contrapposizione tra privato e pubblico, in termini assoluti. Per chi la pensa come me il problema sta nel trovare il giusto punto di equilibrio. Ma per farlo è necessario abbandonare qualsiasi ipocrisia e mettere sul tappeto i problemi che, nel nostro settore, nascono anche e, forse, soprattutto dalla rigidità dei precetti costituzionali.
Il legislatore ordinario, infatti: 1) non può istituire giudici speciali; 2) non può limitare l’esercizio del diritto d’azione dinanzi agli organi di giustizia; 3) deve garantire la possibilità di ricorrere alla Corte di cassazione contro i provvedimenti decisori e quelli sulla libertà personale; 4) deve rispettare il principio che l’azione penale è obbligatoria; 5) nel predisporre le norme sull’ordinamento giudiziario non può dettare un’organizzazione di tipo aziendale, fondata sulle competenze e sulla gerarchia; 6) deve accettare l’assimilazione dei pubblici ministeri ai giudici.
A mio avviso se non si comincia a fare una discussione franca e scevra da ipocrisie di circostanza su questi limiti e vincoli non saremo in grado di affrontare seriamente i problemi della nostra giustizia o, peggio ancora, poiché all’UE non interessa la qualità della giustizia, ma soltanto l’efficienza traducibile in termini economici, ci dovremo abituare a una giustizia sempre meno soddisfacente, cui sta di fronte la rassegnazione, che è come fuoco che cova sotto la cenere. L’ultimo libro che ho scritto (Giustizia, politica, democrazia, Rubbettino, 2021) costituisce il lascito di un penitente, che mette da parte le questioni di tecnica processuale, avendo capito che il cuore dei problemi è altrove.
2. I vincoli che la Costituzione pone al legislatore ordinario
La discussione franca comporta di chiarire quali sono le conseguenze dei vincoli e dei limiti posti dalla Costituzione.
a) Il legislatore non può isolare settori di controversie da affidare, per ragioni di materia, a giudici speciali e da risolvere con procedure semplificate. È un prezzo che paghiamo, essendo costretti a concentrare l’amministrazione della giustizia sui giudici statali ordinari. È un prezzo ragionevole? La nostra Costituzione ha posto il divieto di giudici speciali, sotto la cui mannaia sono caduti gli arbitrati obbligatori e che, alle origini, portò perfino a dubitare della possibilità di ammettere nel nostro ordinamento l’arbitrato “ad hoc”. Il divieto fu posto nel Quarantotto perché i Costituenti avevano fresco il ricordo che il Fascismo aveva fatto ricorso a Tribunali speciali per applicare leggi nefande e, quindi, si volle evitare che esperienze del genere avessero a ripetersi. A distanza di settant’anni possiamo porci due domande. La prima: il ricorso a giudici speciali può essere strumentale nei regimi autoritari; non dovrebbe esserlo nei regimi di sana democrazia, nei quali dovrebbe essere sufficiente la garanzia del giudice naturale e, di conseguenza, il solo divieto di giudici straordinari, ossia costituiti “ad hoc”. La seconda: se si volesse per prudenza mantenere il divieto, sarebbe sufficiente conservarlo per la sola giustizia penale o per la giustizia in senso lato civile riguardante situazioni giuridiche indisponibili. Oggi, non essendo ciò possibile, siamo costretti ad affidarci alla mediazione o alla negoziazione assistita, ossia a una sorta di “fai da te”.
b) Il legislatore non può limitare il diritto dei cittadini di portare in giudizio le loro pretese. Anche questo fu un divieto che i Costituenti introdussero, avendo il ricordo delle leggi razziali che avevano posto limiti agli ebrei al loro diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti. Il divieto ha una sua validità assoluta e, quindi, non è da mettere in discussione. L’art. 24 Cost., tuttavia, collega il diritto d’azione alla tutela “dei propri diritti e interessi legittimi”. Come si stabilisce che il cittadino ha un diritto o un interesse legittimo per il quale chiede tutela dinanzi al giudice? Nel nostro, ma non soltanto nel nostro sistema non esiste un catalogo degli uni o degli altri. È verosimile che i Costituenti abbiano operato nella convinzione che alla base del diritto soggettivo o dell’interesse legittimo vi è un substrato naturale, ossia un interesse, un bisogno, una pretesa, ai quali l’ordinamento ha dato previo riconoscimento. Questa conclusione trova conforto nella posizione assolutamente contraria dei Costituenti nei confronti del diritto libero e in una loro implicita adesione ad un sistema basato sul primato della legge, tale che ai giudici spetti soltanto di dichiarare situazioni cui la legge ha già riconosciuta protezione, mai di creare, essi, la protezione; di parlare il linguaggio dell’accertamento, fondato sulla sussunzione del fatto alla norma (come si legge nell’art. 2909 c.c.) e soltanto eccezionalmente di esprimersi con provvedimenti costitutivi, con i quali il giudice ha poteri creativi (come si legge nell’art. 2908 c.c.). Nell’evoluzione di questi Settant’anni le cose sono andate in ben diversa direzione. La giurisprudenza, applicando direttamente le norme della Costituzione, che sono norme che esprimono valori e che non sono legate alla fattispecie, e dovendo anche adeguarsi alle pronunce del giudice europeo, sempre più spesso non applica la legge, ma crea il diritto omogeneo ai valori che sono a base della Carta fondamentale (quali l’eguaglianza sostanziale, la solidarietà, lo sviluppo della personalità ecc.) e della Carta dei diritti dell’uomo. Tutto ciò era ed è inevitabile, ma non può non avere come effetto una dilatazione del contenzioso, perché non c’è modo di porre un freno preventivo alla possibilità di portare dinanzi al giudice l’interesse, il bisogno o la pretesa che il singolo ritiene non soddisfatti o non sufficientemente tutelati. Il legislatore ordinario, pertanto, escogita espedienti di contenimento, che inevitabilmente incidono sul processo, che diventa un luogo in cui le garanzie si vanno lentamente prosciugando. E poiché il meglio è nemico del bene, la consapevolezza di questa evoluzione dovrebbe indurci a chiederci se il monopolio della giurisdizione affidata ai soli giudici statali costituisca un presupposto indeclinabile.
c) A proposito di garanzie, scontiamo anche la previsione della ineludibile garanzia del ricorso per cassazione avverso i provvedimenti decisori. Anche questa è una previsione che ha condotto ad una dilatazione dei ricorsi dinanzi la Corte di cassazione, che ha un carico di contenzioso che è superiore a quello dei giudici cd. supremi degli altri Paesi. Anche in questo caso, essendo impossibile introdurre efficaci filtri preventivi, si incide sulle garanzie del processo. La Corte di cassazione, anche se a giorni alterni, non è giudice che assicura giustizia, ma è giudice che detta le regole e che, spesso, le crea. Si è parlato di un vertice ambiguo. Siamo piuttosto di fronte ad un ibrido sul quale sarebbe necessario fare chiarezza.
d) Il giudice dei valori aspira inevitabilmente e quasi inconsapevolmente a porsi come giudice dell’etica dei comportamenti. A questo giudice la nostra Costituzione ha affidato il compito di controllare il corretto esercizio dell’azione penale che si vuole obbligatoria. Anche questa è la ragione della dilatazione del contenzioso penale, i cui costi in termini di amministrazione della giustizia sono altissimi. La dilatazione è inevitabile perché i pubblici ministeri, che sono responsabili per l’esercizio dell’azione penale e che hanno alle loro dirette dipendenze la polizia giudiziaria (così essendo stato inteso l’art. 109 Cost.), sempre più spesso non conducono indagini su reati, ma dirigono inchieste alla scoperta di reati, essendo divenuti responsabili non solo per la repressione dei reati, ma anche per la loro prevenzione; e ciò con un’attività che non può essere doverosa e obbligata, in quanto alla base vi sono inevitabili scelte discrezionali. Ne consegue un numero di casi assai alto in cui il processo penale si traduce, per l’una o per l’altra ragione, in un nulla di fatto e vivendo nell’incubo per il quale tutto va tradotto in termini di economia, si impone oggi una riflessione sul rapporto tra prezzo e risultati. Quale che sia la conclusione, un dato è certo: se si potessero dirottare sulla giustizia civile risorse almeno pari a quelle assorbite oggi dalla giustizia penale, di sicuro i problemi della prima sarebbero assai meno rilevanti.
3. L’organizzazione non efficiente
Ai limiti e vincoli imposti dalla Costituzione al legislatore ordinario nella formulazione delle norme processuali si aggiungono limiti e vincoli riguardanti l’organizzazione dei servizi. Un qualsiasi aziendalista sa che l’efficienza organizzativa poggia sull’individuazione di soggetti capaci di escogitare modelli efficienti e di guidarli, essendo dotato dei necessari poteri direttivi; e sulla possibilità di selezionare soggetti cui affidare i compiti sulla base della loro idoneità specifica; di incentivare un sano antagonismo premiando i più meritevoli; di evitare forme organizzative eccessivamente rigide, lasciando ampi margini alla adattabilità in relazione alle esigenze concrete. L’organizzazione aziendale presuppone, perciò, che colui che è preposto a funzioni dirigenziali abbia poteri cui corrispondono situazioni di soggezione dei sottoposti e che l’esercizio di tali poteri abbia come contraltare una doverosa responsabilità. È il modello burocratico quale ci è stato tramandato soprattutto a partire da Weber.
Questo modello non è praticabile per la giustizia. Il superamento della prova concorsuale, che è la chiave di accesso alla funzione di magistrato, funge da livellatore delle persone. Il magistrato, secondo la Costituzione, è soggetto soltanto alla legge ed è autonomo e indipendente non solo nel rapporto con gli altri poteri dello Stato, ma anche all’interno del corpo dei magistrati. Ciò rende impossibile un’organizzazione fondata sul potere direttivo dei capi degli uffici. A questi ultimi viene affidata una funzione di mero coordinamento (cui si affiancano mansioni strettamente amministrative per le quali hanno poca o scarsa competenza) che nei fatti si svolge con forme di coinvolgimento complesse, spesso estenuanti, e che deve fare esclusivo affidamento sul senso di responsabilità dei collaboratori (non sempre presente e non sempre eguale), in quanto il potere direttivo è rigidamente regolamentato ed è sindacabile, così che ogni direttiva può scontrarsi con posizioni giustiziabili del destinatario. Il diritto tabellare costituisce l’approdo finale ed inevitabile del sistema quale si è cristallizzato negli anni.
Potremmo discutere sulle intenzioni dei Costituenti e chiederci se essi, quando garantirono l’indipendenza e l’autonomia dei magistrati, pensarono a una garanzia riguardante il potere giudiziario nel suo complesso e verso l’esterno ovvero se vollero che questa garanzia avesse come destinatario anche il singolo magistrato e all’interno della stessa magistratura. Sarebbe, tuttavia, una discussione sterile, perché ormai questa seconda chiave di lettura è diventata diritto vivente.
Nel darne e nel prenderne atto, però, dovremmo anche comprendere che gli scandali che di recente hanno investito la magistratura poco hanno a che vedere con l’efficienza e la qualità della giustizia. Le quali, nella situazione data, poco o nulla cambiano se a capo di un ufficio o di una sezione del medesimo vi sia un magistrato piuttosto che un altro. I magistrati – essi ce lo ricordano di continuo (salvo dimenticarlo quando partecipano a una qualsiasi selezione) – sono tra loro fungibili e si differenziano non per l’idoneità maggiore o minore all’esercizio di talune determinate funzioni, ma soltanto per il fatto di esercitarle concretamente (secondo la lettura accolta dell’art. 107, co. 3° Cost.).
Eppure oggi il problema delle nomine è al centro delle discussioni sulla giustizia. La ragione è semplice: la pietra dello scandalo è data dalle Procure, così che il problema delle nomine è soprattutto il problema delle nomine nelle Procure. La spiegazione è semplice almeno quanto è evidente: le Procure hanno il potere di indagine, il quale non può non essere discrezionale e oggi, per l’ausilio dei moderni mezzi di captazione delle nostre vite private, è assai invasivo. Il suo esercizio mette a rischio l’equilibrio del nostro sistema e incide in qualche modo sulla nostra democrazia. Nelle Procure e presso i loro collaboratori vi sono infiniti serbatoi di notizie riguardanti le nostre vite private e del tutto irrilevanti per il processo penale. C’è l’immanente pericolo che il vaso di Pandora sia in qualche modo scoperchiato, creando effetti che mettono in pericolo le istituzioni.
Credo che il recente intervento del Presidente della Repubblica sia stato in qualche misura provocato dalle attuali vicende. Egli ha ammonito: “Guai se la magistratura perde credibilità”. La Sua preoccupazione è la magistratura, non il processo. Ma parlare di magistratura significa parlare di ordinamento giudiziario, un capitolo del quale concerne le nomine. A questo riguardo, è per me doveroso squarciare il velo dell’ipocrisia di regime che ci affligge: in un sistema che per definizione è basato sulla fungibilità delle persone (perché per i cittadini che chiedono giustizia vale la regola che l’un giudice vale l’altro, così che non è possibile pretendere che abbia attitudini specifiche), le scelte non possono che avvenire sulla base di criteri soggettivi, cui si dà, con enfatiche circolari del CSM, una parvenza di oggettività (che si trasforma in discutibile criterio di giudizio del giudice amministrativo, cui il magistrato pretermesso ricorre non perché sia più bravo o più idoneo, ma perché sono stati violati i criteri che lo stesso CSM si è dato). Si parla di scandalo delle lottizzazioni su basi correntizie e volutamente si mette la sordina alle cause dell’attuale situazione, che vanno ravvisate nella mancanza di oggettivi e attendibili criteri, così che l’unica alternativa resta l’anzianità o il sorteggio. E se ne parla soltanto perché nelle Procure è oramai concentrato un potere enorme, che il potere politico vorrebbe in qualche modo controllare quando è esercitato ai suoi danni (ma non quando colpisce l’avversario).
Sarebbe necessario un ripensamento sull’ordinamento giudiziario, curando di distinguere ciò che è funzionale per garantire l’indipendenza del giudice e le “garanzie” del pubblico ministero e ciò che si è tradotto in privilegio. Ho, tuttavia, il timore che fino a quando si ritiene che ciò è di competenza esclusiva dei magistrati (che, con l’avallo del CSM, predispongono i provvedimenti legislativi tramite il Ministero, di cui occupano le posizioni di vertice) un ripensamento in questa direzione non sia possibile. Qualcosa, tuttavia, si potrebbe pretendere e fare per rispettare l’art. 107, ult. co. Cost., che vuole che lo “status” del p.m. non sia identico a quello del giudice. Non credo che ci sia la volontà e la forza necessaria per farlo.
Finiamo, così, con lo scaricare il peso delle riforme sul processo.
4 . L’aggiramento dei limiti e divieti costituzionali
La difficoltà in cui si imbatte il legislatore ordinario – che, oggi, deve rispondere all’Europa, che, per darci danaro, pretende anche il nostro impegno concreto a risolvere anche i problemi del sistema di giustizia – sono evidenti, anche perché siamo costretti ad operare con la clausola dell’invarianza finanziaria (ossia con riforme a costo zero), come è anche per il disegno di legge di recente riproposto e di cui ci occuperemo in seguito.
La tattica cui fa ricorso il nostro legislatore è quella dell’aggiramento dei precetti costituzionali. Se il primo comma dell’art. 106 Cost. prescrive che le nomine dei magistrati abbiano luogo per concorso, si dilata la portata precettiva del secondo comma, che apre la strada alla possibilità di nominare giudici onorari per tutte le funzioni attribuite ai giudici singoli, da un lato riducendo la collegialità ad una minima area residuale (il che era ben lontano da ciò che i Costituenti avevano sotto i loro occhi e, nel passato, mi indusse a pensare che sottostante alla norma vi fosse un nucleo non minimo di riserva di collegialità) e, dall’altro lato, incrementando il numero dei giudici onorari in misura tale da tradire il precetto costituzionale, che di sicuro aveva in mente una possibilità di ridotta utilizzazione di un giudice scelto senza le garanzie del pubblico concorso (presupposto indispensabile perché si abbia un giudice “ordinario”).
Non basta. Oggi si pensa a forme surrettizie di implementazione. Il disegno di legge AS 1662 comunicato alla Presidenza del Senato il 9 gennaio 2020 e di recente emendato dal nuovo Governo contiene un art. 12 bis di nuova formulazione che fa molto affidamento sul cd. ufficio per il processo, al quale sono attribuiti compiti di supporto, che si estendono alla predisposizione di bozze di provvedimenti e alla cooperazione per incrementare la capacità produttiva dell’ufficio, per abbattere l’arretrato e per prevenirne la formazione. Senza opporre un aprioristico fine di non ricevere a tali innovazioni, non si può non sottolineare il divario tra la preoccupazione dei Costituenti di garantire un’adeguata e oggettiva selezione dei magistrati tramite il concorso pubblico e i sistemi di reclutamento, alquanto opachi, del personale di questo ufficio (per non parlare delle mansioni che possono facilmente tracimare).
Con la stessa tattica dell’aggiramento, si garantisce il diritto di azione da esercitare nel processo ordinario, ma se ne rende sempre più costoso e ricco di insidie l’esercizio, là dove si spinge la parte a cercare la lite fuori dal processo: a) incentivando con benefici fiscali (art. 1, comma 1, lett. a) la mediazione, la cui obbligatorietà viene ulteriormente estesa (dall’art. 1, comma 1, lett. c); e b) dilatando la negoziazione assistita, nel cui ambito i difensori possono compiere anche un’attività istruttoria stragiudiziale, perfino (e, a mio avviso, pericolosamente) utilizzabile nel processo in caso di insuccesso della negoziazione (art. 1, comma 3). Si pongono le premesse per discutere nel processo degli abusi nell’attività di acquisizione delle prove con l’inevitabile responsabilità disciplinare (ma non solo) del difensore, come previsto dall’art. 1, comma 5.
5 .Verso forme di giustizia deformalizzate (a proposito del d.d.l. in discussione)
Siamo, insomma, costretti a credere che i problemi della giustizia civile si possano risolvere riducendo la durata dei processi a tempi ragionevoli e che ciò si possa fare attraverso le norme processuali. È sbagliato, in quanto è evidente che la lunghezza dei nostri processi è determinata soprattutto dai tempi morti, che non dipendono dalle norme processuali. Stiamo pagando l’errore, perché da circa un ventennio facciamo riforme che hanno inciso sulle garanzie, senza conseguire alcun beneficio. Ed è paradossale che ciò sia avvenuto soprattutto dopo che è stata approvata la riforma dell’art. 111 Cost. secondo cui “la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge”.
Fermo che un processo per definizione deve essere “giusto”, altrimenti non è processo, la formula inserita nell’art. 111 Cost. ha dato luogo a diverse letture: è giusto il processo che si svolge nel rispetto delle regole fissate dal legislatore; è giusto il processo che perviene alla decisione giusta. La prima lettura mi sembra tautologica e mi sembra ancorata ad epoche storiche in cui si potevano celebrare processi non regolati per legge; la seconda è per me pericolosa, nella misura in cui rende finalistica l’azione del giudice, che dovrebbe essere neutrale e asettica. Ne preferisco una terza: è giusto il processo che si svolge nel rispetto di regole giuste.
Se si condivide questa interpretazione e se è possibile scrutinare se le regole processuali sono “giuste”, è necessaria una premessa. Le regole processuali hanno per oggetto le forme e i tempi degli atti e individuano gli oneri, le facoltà e i poteri dei soggetti processuali. Esse non riguardano soltanto le parti e i soggetti che a vario titolo partecipano al processo e, quindi, devono essere funzionali per non scadere in pernicioso formalismo (secondo l’ammonimento di Satta), ma toccano anche il giudice, in quanto stabiliscono i limiti all’esercizio del suo potere, dovendo fungere da insopprimibile garanzia (come più di mezzo secolo fa evidenziò Calamandrei). Per esemplificare, l’art. 324 c.p.c. non è norma indirizzata esclusivamente alle parti, le quali, non impugnando il provvedimento nei tempi fissati ne determinano il passaggio in giudicato, ma è norma che riguarda anche il giudice, il quale non può intervenire sulla vicenda una volta che sia decorso il termine e la parte non abbia impugnato il provvedimento.
Quando si abbia presente questa caratteristica delle norme processuali, appare evidente che si dovrebbero evitare norme di contenuto didascalico. Di conseguenza, prescrivere non forme degli atti, ma modi (per cui i fatti devono essere esposti in “modo chiaro e specifico”: così si legge nell’art. 3, comma 1, lett. b) in relazione all’atto introduttivo in primo grado; nel comma e-ter) per la comparsa di risposta; nell’art. 6, comma 1, lett. a) per l’atto d’appello e, in maniera non dissimile, nell’art. 6-bis, comma 1, lett. a) per il ricorso in cassazione) non solo è inutile, ma è controproducente. Si incentivano discussioni inutili sulla “conformazione” dell’atto di parte, complicando il processo e appesantendolo di inutili questioni (oggi ne abbiamo esempi quotidiani in relazione alla redazione dell’atto di appello o per effetto della giurisprudenza della S.C. che ha elaborato un principio di completezza del ricorso, che ha come conseguenza un suo inevitabile appesantimento là dove se ne vorrebbe imporre addirittura la dimensione). Sono discussioni che mi fanno rimpiangere i tempi in cui era sufficiente rifarsi all’aureo art. 156 c.p.c., che era l’irrinunciabile bussola per il giudice che voleva governare bene il processo. Con queste riforme i confini che delimitano il potere del giudice diventano mobili, giacché gli si affida il compito di stabilire ciò che nell’atto confezionato dalla parte non è espresso in forma sufficientemente chiara, puntuale e completa con una valutazione che non può non essere soggettiva.
Si dovrebbero anche evitare disposizioni irragionevolmente impositive. L’art. 3, comma 1, lett c) del disegno in esame vuole che nell’atto di citazione sia contenuta l’indicazione specifica dei mezzi di prova “a pena di decadenza” e analoga imposizione è stabilita per la comparsa di risposta dalla lett. e-quater), anche se non si può escludere il diritto di “entrambe le parti ad articolare i necessari e conseguenti mezzi istruttori” per effetto delle domande, eccezioni e difese successive (lett. e-quinquies). Non ho mai amato un processo materiato di preclusioni e di decadenze, che lo allontanano dal suo obiettivo, che dovrebbe essere quello della decisione più giusta possibile. Non ho mai amato l’esasperazione del principio di autoresponsabilità a senso unico, che incrementa il divario tra parte e giudice, al quale le norme che impongono forme e, soprattutto, termini (ce ne sono a iosa anche nel disegno di legge oggi ripresentato) sono sostanzialmente e necessariamente prive di sanzioni nell’ambito del processo (infatti, poiché non è possibile la sanzione della nullità degli atti o del procedimento, che aggiungerebbe al danno della parte incolpevole una beffa, la violazione potrebbe soltanto costituire base per valutazioni sulla professionalità del giudice o per sue responsabilità disciplinari). In disparte tali considerazioni, che riguardano mie opzioni personali, è da chiedersi se le ricordate disposizioni siano funzionali a una giustizia più rapida ed efficiente. C’è da dubitarne, perché da un lato si introduce qualcosa di simile al principio di eventualità, contro cui a cavallo degli anni Trenta e Quaranta scrisse pagine ancora attuali Antonio Segni, costringendo i difensori ad immaginare il tutto e il di più e appesantendo inutilmente gli atti processuali; e, dall’altro lato, si apre la strada su ciò che la parte doveva antivedere (e non ha visto, così aprendo la strada a dispute tra cliente e difensore su chi ne abbia responsabilità) e ciò che è conseguenza delle posizioni dell’avversario, così rendendo inutilmente complicato il processo.
Si dovrebbe, infine, stabilire se obiettivo del processo è la corretta soluzione della controversia (come leggiamo nelle sentenze dei nostri supremi giudici) o una rapida ed efficace composizione della lite (anche se le parti sono costretti a subirla).
Per tutte le ragioni che ho esposto il legislatore è di fronte a una scelta obbligata. Oramai il processo è diventato in prevalenza uno strumento di composizione delle liti, che le parti sono obbligate ad accettare più per necessità che per intima convinzione. Questo è il senso di molte disposizioni del disegno di legge che sto esaminando.
Esemplifico. L’art. 3, comma 1, lett. c-bis) prevede che la contumacia ritualmente verificata determini “la non contestazione dei fatti a fondamento della domanda, ove la stessa verta in materia di diritti indisponibili”. In questo modo sulla parte convenuta è posto un onere di costituzione, se vuole evitare la “ficta confessio”, che si verifica per il solo fatto della mancata costituzione a seguito di regolare notificazione dell’atto introduttivo e senza alcun riguardo alle ragioni che possano avere eventualmente impedito una tempestiva costituzione.
Il procedimento semplificato di cognizione, che è inserito nel II libro del c.p.c., diventa il rito normale ed è un procedimento la cui semplificazione riguarda soprattutto l’attività istruttoria. Non si cerca più la verità, essendo sufficiente la probabilità come, del resto, ha anticipato la Corte di cassazione sia pure enunciando come criterio residuale quello del “più probabile che non”.
Nel corso del giudizio di primo grado e per le controversie relative a diritti disponibili il giudice può, infine, pronunciare ordinanza provvisoria di accoglimento “quando i fatti costitutivi sono provati e le difese del convenuto appaiono manifestamente infondate” o ordinanza di rigetto nel caso contrario o nel caso di assoluta incertezza sull’oggetto della domanda o di mancata esposizione dei fatti su cui essa dovrebbe essere fondata; ordinanza reclamabile e che non acquista efficacia di giudicato. La disposizione, che immagina un giudice che “alla prima letta” abbia attentamente studiato gli atti introduttivi, è in linea con la tendenza alla sommarizzazione. Qualcosa del genere già esiste, così che, quanto al procedimento, sarebbe stato sufficiente mutuare le disposizioni sulla sentenza breve introdotte nel codice del processo amministrativo. Si eviterebbero la contradizione di una definizione nel merito della controversia con un provvedimento non suscettibile di giudicato e l’inutile complicazione che può seguire all’accoglimento del reclamo.
Sono questioni tecniche che, tuttavia, non mi appassionano. Ne ho estratto alcune (ma ce ne sono altre) per evidenziare che il nostro legislatore è costretto a tradire il precetto costituzionale, perché il processo che sta costruendo è sempre meno giusto sotto tutti gli aspetti.
6. Qualche (non lieta) conclusione
Vi è, infine, un’altra idea largamente condivisa: che vi sia da combattere una litigiosità eccessiva, alimentata da un’avvocatura troppo numerosa. Condivido parzialmente la diagnosi, ma non i rimedi. Non si può contrastare l’abuso del processo con provvedimenti che per punire la mancanza di meritevolezza della parte non perseguono la giusta definizione della lite. Bisogna sapere distinguere l’esito della vicenda processuale dalla giusta sanzione per il comportamento immeritevole. E ciò andrebbe fatto non solo per il processo civile, ma anche per il processo penale, in tutti i casi in cui l’azione penale viene esercitata senza il necessario equilibrio e senza l’egualmente necessaria prudenza. Sono convinto, infatti, che le soluzioni praticate per i giudici in ordine alla responsabilità civile e disciplinare non possono essere automaticamente e completamente estese ai pubblici ministeri.
Soprattutto di ciò ho scritto nel mio ultimo libro, preoccupato, come sono, per un’evoluzione che ha ricadute sull’economia del Paese e sui nostri comportamenti collettivi e individuali, alimentando una sterile burocrazia, cui è impossibile porre rimedio, deprimendo il coraggio dell’osare e incentivando la fuga dalla responsabilità; in una parola, condannandoci alla mediocrità. Ma soprattutto essa incide pesantemente sui nostri diritti di libertà, che la Costituzione vorrebbe inviolabili. Il problema dell’efficienza, ridotto a un problema di tempi processuali ragionevoli, è soltanto un aspetto della questione-giustizia nel nostro Paese. Non ho scritto per l’accademia e non a caso ho scelto un editore generalista. Volevo e speravo che i temi posti sul tappeto non fossero oggetto di discussione nel chiuso recinto delle aule universitarie, ma in qualche modo coinvolgessero quanti hanno a cuore non solo la giustizia, ma anche la democrazia. Pensavo soprattutto ai giovani, perché il problema riguarda soprattutto il loro futuro. Ho, tuttavia, l’impressione che per il combinarsi delle convenienze di tutti (politici, magistrati, avvocati, mezzi di informazione e persino cittadini, che se ne preoccupano soltanto quando si imbattono in processi a loro carico) non ci sia la necessaria volontà di aprire un serio dibattito.
Se mi perdonate una piccola presunzione, ho tentato di accendere una fiammella, che è assai tenue. Sta soprattutto a voi giovani di fare in modo che non si spenga.
(*) Magistrato per 12 anni, poi avvocato e professore universitario di diritto processuale civile, ha insegnato nelle Università di Camerino, Salerno, Napoli-Federico II, Roma-Sapienza e LUISS, che lo ha insignito del titolo di Emerito. È stato dal 1998 vice-presidente del CSM. È tra i massimi esperti del processo civile. L’ultimo libro pubblicato è Giustizia, politica, democrazia, Rubbettino, 2021.
Paradossi normativi, contrasti ermeneutici, componimenti nomofilattici.
Brevi note sulla sentenza della Sezioni Unite penali 4 giugno 2021 n. 22065
di Irene Ambrosi
Sommario: 1. Premessa - 2. La fattispecie - 3. Il quadro normativo - 4. Il contrasto - 5. L’antefatto: l’orientamento della III Sezione civile - 6. La composizione del contrasto sul problema dell’individuazione del giudice del rinvio - 7. La compatibilità della soluzione prescelta rispetto al diritto vivente sovranazionale e costituzionale - 8. Notazioni conclusive.
1. Premessa
È tornata all’esame delle Sezioni unite penali l’enigmatica norma contenuta nell’art. 622 c.p.p., con cui è stato codificato uno spazio di transizione processuale tra giudizio penale e quello civile che, da autorevolissima dottrina è stato ritenuto frutto di un “lapsus normativo” [1] in quanto all’interno della disposizione convivono due ipotesi eterogenee: l’annullamento dei capi civili (ad esempio, perché i danni risultano male liquidati) e l’accoglimento del ricorso dalla parte civile contro il proscioglimento dell’imputato.
L’art. 622 c.p.p. anche in questo secondo caso stabilisce infatti che, «quando occorre», la Corte di cassazione rinvii alla sede civile d'appello.
La stessa dottrina, con il consueto caustico rigore, nota al riguardo “Ovvio se avesse annullato qualche provvedimento sui danni: ma qui l'organo a quo non ha giudicato al riguardo, né poteva; l'art. 538 esclude giudizi simili rispetto al prosciolto; e l'art. 578 li ammette, in appello o cassazione, solo quando, esistendo condanna ai danni, sia sopravvenuta l'estinzione del reato; né, su appello o ricorso dalla parte civile, l'art. 576 contempla decisioni su an e quantum debeatur. Sappiamo cos'avvenga: assolto l'imputato con una formula a effetti extra penali (art. 652), l'impugnante mira a eliderli; e siccome dipendono dal proscioglimento, tale è la res in iudicium deducta” [2]. Sarebbe, pertanto, “norma non applicabile: i codificatori vi hanno trasposto una massima avulsa dal sistema; e siccome le ruote della procedura girano da sole, dal "pastiche" nascono dei paradossi.” [3].
Nella fattispecie in esame, la norma va applicata e, per accenno, va rammentato che i noti paradossi sono frutto del recepimento, da parte del legislatore del 1988, dell’ampliamento dell’ambito applicativo dell’ art. 541 c.p.p. abrogato, a seguito dell’introduzione della possibilità di ricorso per cassazione della parte civile avverso le sentenze di proscioglimento ai sensi dell’art. 576 c.p.p., sull’abbrivio, nel sistema previgente, delle decisioni n. 1 del 1970 e n. 29 del 1972 della Corte costituzionale. Gli stessi paradossi costituiscono il fondo della questione affrontata dalla sentenza della Corte di cassazione, resa a Sezioni Unite penali, n. 22065, depositata il 4 giugno 2021, imp. Cremonini.
2. La fattispecie
In prime cure, l’imputato era stato assolto dal Tribunale ai sensi dell'art. 530, comma 2, c.p.p. perché il fatto non sussiste, in relazione al reato di cui all'art. 590 commi 2 e 3 c.p. (lesioni personali colpose dovute alla caduta di un operaio da un’impalcatura).
La Corte di appello aveva accolto l'appello della parte civile e ritenuto sussistente, senza lo svolgimento di alcuna attività istruttoria, la responsabilità del datore di lavoro sulla base di una diversa valutazione delle acquisizioni istruttorie (in particolare, valorizzando la deposizione della persona offesa, assunta nel giudizio penale, ritenuta attendibile perché riscontrata da una testimonianza e dagli accertamenti medico-legali) ai sensi dell'art. 2087 c.c. e del d. lgs. 81 del 2008 in tema di sicurezza sul lavoro.
Ha proposto ricorso per cassazione il datore di lavoro il quale ha lamentato la violazione di legge e il vizio di motivazione per l’omessa rinnovazione, nel giudizio d’appello, della prova dichiarativa decisiva ai fini del ribaltamento, ai soli effetti civili, del giudizio di responsabilità operato dal giudice di prime cure, mediante la quale la Corte di appello è pervenuta alla valutazione della colpevolezza dell'imputato, sia pure ai soli effetti civili, senza aver, doverosamente, rinnovato l'istruttoria dibattimentale.
3. Il quadro normativo
Come già accennato, l’art. 622 c.p.p. detta la regola in tema di “annullamento della sentenza ai soli effetti civili” e prevede che «fermi gli effetti penali della sentenza, la Corte di cassazione, se ne annulla solamente le disposizioni o i capi che riguardano l'azione civile ovvero se accoglie il ricorso della parte civile contro la sentenza di proscioglimento dell'imputato, rinvia quando occorre al giudice civile competente per valore in grado di appello, anche se l'annullamento ha per oggetto una sentenza inappellabile».
Il fondamento della norma è comunemente individuato in quello di evitare ulteriori interventi del giudice penale ove non vi sia più nulla da accertare agli effetti penali.
“Fermi gli effetti penali”, il rinvio al giudice civile competente in grado di appello è prescritto “quando occorre” e può avvenire nelle seguenti ipotesi:
- a seguito di ricorso dell’imputato sia per i capi penali sia per quelli civili (art. 574 c.p.p.);
- se il giudice abbia dichiarato estinto il reato per amnistia o per prescrizione (art. 578 c.p.p.);
- a seguito di ricorso della parte civile contro il proscioglimento dell’imputato (art. 576 c.p.p.).
La norma è ritenuta una eccezione alla regola sia rispetto all’art. 538 c.p.p. secondo cui il giudice penale decide sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno soltanto nel caso in cui pronunci sentenza di condanna sia rispetto all’art. 573 c.p.p., secondo cui l’impugnazione per i soli interessi civili è proposta, trattata e decisa con le forme ordinarie del processo penale.
Nella fattispecie in esame, la Corte di appello, in accoglimento dell’impugnazione della parte civile ex art. 576 c.p.p., ha riformato la sentenza di primo grado ai soli effetti della responsabilità civile, condannando l’imputato al risarcimento dei danni da liquidarsi dinanzi al giudice civile.
Rileva peraltro, nel caso in esame, il dettato dell’art. 603, comma 3 bis c.p.p. (introdotto dall’art. 1, comma 58, della legge 22 giugno 2017, n. 103), che individua una specifica ipotesi eccezionale di ammissione delle prove, limitandone l’obbligo al caso in cui l’impugnazione sia stata proposta dal pubblico ministero.
4. Il contrasto
L’ordinanza di rimessione della IV Sezione penale n. 30858 del 20 ottobre 2020 ha ritenuto l’esistenza di un contrasto nella giurisprudenza della Corte in ordine all’individuazione del giudice civile o penale del rinvio e ha rimesso il ricorso al Primo Presidente per l’assegnazione all’esame delle Sezioni unite affinché si pronuncino sulla seguente questione:
«Se, in caso di annullamento ai soli effetti civili da parte della Corte di cassazione, per la mancata rinnovazione in appello di una prova dichiarativa ritenuta decisiva, della sentenza che, in accoglimento dell’appello della parte civile avverso la sentenza di assoluzione di primo grado, abbia condannato l’imputato al risarcimento del danno, il rinvio per il nuovo giudizio vada disposto dinanzi al giudice civile competente per valore in grado di appello o al giudice penale».
Segnala l’ordinanza interlocutoria che l’obbligo di rinnovazione istruttoria discende letteralmente dalla disposizione di cui all'art. 603, comma 3-bis, c.p.p. (introdotto dall'art. 1, comma 58, legge 23/06/2017, n. 103) che sembra renderlo applicabile al solo caso in cui l'appello sia proposto dal pubblico ministero, obbligo che va ritenuto applicabile anche al caso in cui il rovesciamento della decisione sia stato sollecitato nella prospettiva degli interessi civili, a seguito dell'impugnazione della parte civile (come affermato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 27620 del 28 aprile 2016, Dasgupta, Rv. 267489)[4].
Due gli orientamenti giurisprudenziali delle Sezioni penali della cassazione che si fronteggiano in tema di individuazione del giudice del rinvio.
Da una parte, quello maggioritario, che ritiene necessario il rinvio al giudice civile e si fonda su un arresto delle Sezioni Unite penali che hanno stabilito come - nel caso in cui il giudice di appello dichiari non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato (o per intervenuta amnistia) su ricorso dell’imputato ex art. 578 c.p.p., senza motivare in ordine alla responsabilità dell'imputato ai fini delle statuizioni civili, l'eventuale accoglimento del ricorso per cassazione proposto dall'imputato, impone l'annullamento della sentenza con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, a norma dell'art. 622 c.p.p. (Sez. U, Sentenza n. 40109 del 18 luglio 2013, Pres. Santacroce Est. Conti, Imp. Sciortino). La ratio della norma si ravvisa nel “principio di economia che vieta il permanere del giudizio in sede penale in mancanza di un interesse penalistico alla vicenda” [5].
Questa rilevante decisione ritiene non percorribile la via dell'annullamento con rinvio al giudice penale (d'appello, che se avesse correttamente osservato la disposizione di cui all'art. 578 c.p.p., attraverso il pieno accertamento dei fatti ai fini della responsabilità civile, poteva pervenire ad escludere oltre alla responsabilità civile, anche quella penale, e anche ai sensi del comma 2 dell'art. 530 c.p.p., in applicazione dei principi espressi dalle Sezioni Unite 28 maggio 2009, n. 35490, Pres. Gemelli, Est: Romis, imp. Tettamanti,), né nell'ipotesi (oggetto del ricorso portato all'attenzione delle stesse Sezioni Unite “Sciortino”) di un ricorso dell'imputato che investa solo il capo relativo alla responsabilità civile “restando preclusa, in virtù del principio devolutivo, ogni incidenza sul capo penale, su cui è stata espressa una decisione irrevocabile”, né nell'ipotesi in cui l'imputato con il suo ricorso ritenga di investire formalmente anche il capo penale, dovendosi in tal caso ritenere inammissibile quest’ultimo ricorso in virtù del principio, in particolare affermato dalle citate Sezioni Unite “Tettamanti”, secondo cui “in presenza dell'accertamento di una causa di estinzione del reato non sono deducibili in sede di legittimità vizi di motivazione che investano il merito della responsabilità penale”, pena lo stravolgimento delle finalità e dei meccanismi decisori della giustizia penale, “in dipendenza da interessi civili ancora sub iudice che devono essere invece isolati e portati all'esame del giudice naturalmente competente ad esaminarli”. “In definitiva, in caso di accoglimento del ricorso per cassazione ai soli effetti civili, ai sensi dell'art. 622 c.p.p., l'annullamento della sentenza va disposto con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, perché la ratio della suddetta previsione è quella di evitare ulteriori interventi del giudice penale ove non vi sia più nulla da accertare agli effetti penali”. Tale orientamento maggioritario delle sezioni penali è rimasto immutato sino al 2019.
Dall’altra parte, l’orientamento minoritario che, attraverso un'interpretazione restrittiva dell'art. 622 c.p.p., ritiene necessario il rinvio al giudice penale anche nel caso di annullamento dei capi civili ove non vi sia stato un accertamento sull’an della responsabilità penale dell’imputato ovvero l'annullamento senza rinvio, in luogo dell'annullamento con rinvio al giudice civile previsto dalla disposizione citata.
Tale drastica soluzione si giustificherebbe sulla base del diritto costituzionalmente presidiato dell'accusato a ottenere una decisione che, anche in caso di assoluzione irrevocabile, esamini tutti gli aspetti della vicenda anche ai fini dell'accoglimento o del rigetto della domanda civile, secondo i canoni interpretativi e le regole processuali propri del diritto penale, prime fra tutte le regole, di rango costituzionale, del giusto processo, nelle sue diverse declinazioni[6]. L’interpretazione sarebbe compiuta con la valorizzazione dell’inciso “fermi gli effetti penali” e nell’attribuire alla dizione “quando occorre” un’ampia accezione volta ad escludere cioè i casi in cui non vi sia stato il definitivo accertamento sull’an della responsabilità.
In tal modo, dall’ambito dell’art. 622 c.p.p. resterebbero esclusi: l’annullamento delle sole statuizioni civili contenute in una sentenza di proscioglimento pronunciata dal giudice di appello ex art. 578 c.p.p.; l’annullamento della condanna al risarcimento pronunciata dal giudice di appello in accoglimento dell’impugnazione della parte civile proposta avverso la sentenza di proscioglimento di primo grado ai sensi dell’art. 576 c.p.p. e, infine, l’annullamento delle disposizioni civili contenute in una sentenza di condanna annullata senza rinvio anche agli effetti penali per sopravvenuta prescrizione del reato.
5. L’antefatto: l’orientamento della III Sezione civile
Il contrasto in esame presuppone la conoscenza di un recente disallineamento determinatosi tra gli orientamenti delle sezioni civili e penali della Corte di cassazione in ordine alle regole processuali e probatorie da applicare in caso di rinvio innanzi al giudice civile competente per valore in grado d'appello ex art. 622 c.p.p..
Alcune decisioni delle sezioni penali, nel rinviare al giudice civile agli effetti civili, avevano ritenuto quest’ultimo vincolato alle regole proprie del giudizio penale; emblematico il caso in cui, rinviando al giudice civile, la pronunce della Corte di cassazione penale dettavano il principio di valutazione della sussistenza o meno del nesso causale cui questi si sarebbe dovuto conformare cioè la regola penalistica dell’ “oltre il ragionevole dubbio” enunciata dalle Sezioni unite penali [7] e accadeva, invece, che il giudice civile, disattendendo il principio, giudicasse secondo la regola civilistica del “più probabile che non”, enunciata dalle Sezioni unite civili [8].
La III Sezione civile della Corte di cassazione con la sentenza n. 25918 del 15 ottobre 2019, Pres. Travaglino Est. Tatangelo, ha in proposito chiarito che il fondamento della scelta compiuta dal legislatore ex art. 622 c.p.p. nel rimettere le parti dinanzi al giudice civile, ben può essere ravvisato nella presa di coscienza del dissolvimento delle ragioni che avevano originariamente giustificato il sacrificio dell’azione civile alle ragioni dell’accertamento penale, a seguito della costituzione di parte civile. In tal modo, la scelta legislativa ha privilegiato il ritorno dell'azione civile alla sede sua propria.
Scelta che, del resto, aveva già trovato concorde consonanza nella interpretazione datane in passato dalle Sezioni Unite penali e civili; sul versante penale, con la citata sentenza “Sciortino” come veduto e, su quello civile, con una precedente pronuncia (a Sezioni Unite civili n. 1768 del 26 gennaio 2011, Pres. Vittoria, Est. Spirito) con la quale era stata già affrontata la questione dei limiti del sindacato del giudizio civile in tema di giudicato penale, affermando che la disposizione di cui all'art. 652 c.p.p. (così come quelle degli artt. 651, 653 e 654 del codice di rito penale) costituisce un'eccezione al principio dell'autonomia e della separazione dei giudizi penale e civile e come tale, soggetta ad un'interpretazione restrittiva e non applicabile in via analogica oltre i casi espressamente previsti. In tale ottica, la sola sentenza penale irrevocabile di assoluzione (per essere rimasto accertato che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto è stato compiuto nell'adempimento di un dovere o nell'esercizio di una facoltà legittima), pronunciata in seguito a dibattimento, ha efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni ed il risarcimento del danno, mentre alle sentenze di non doversi procedere perché il reato è estinto per prescrizione o per amnistia non va riconosciuta alcuna efficacia extra penale, benché, per giungere a tale conclusione, il giudice abbia accertato e valutato il fatto (nella specie, il giudice penale, accertati i fatti materiali posti a base delle imputazioni e concesse le attenuanti generiche, per effetto dell'applicazione di queste ha dichiarato estinto il reato per prescrizione); in quest'ultimo caso, il giudice civile, pur tenendo conto degli elementi di prova acquisiti in sede penale, ha il dovere di rivalutare, interamente ed autonomamente, il fatto in contestazione (nella specie, il giudice civile, aveva proceduto ad un riparto delle responsabilità diverso da quello stabilito dal giudice penale).
Ripercorso l’iter decisorio delle due pronunce rese a Sezioni unite in materia, la III sezione civile del 2019 ha affermato che l’esegesi dell’espressione “rinvio” contenuta nell'art. 622 c.p.p., sebbene evochi i principi propri del giudizio di rinvio, non può tuttavia in alcun modo configurare una fase di “prosecuzione” del processo penale (ogni interesse penalistico dovendosi ritenere ormai definitivamente dissolto).
Il giudizio si presenta autonomo (benché sui generis), “sia in senso strutturale che funzionale”, essendosi realizzata la definitiva scissione tra le materie sottoposte a giudizio, mediante la “restituzione” dell'azione civile all'organo giudiziario cui essa appartiene naturalmente[9]. Ha ritenuto, inoltre, che detta restituzione si configura come una definitiva ed integrale translatio iudicii dinanzi al giudice civile, con la conseguenza che rimane del tutto estranea all'assetto del giudizio di rinvio la possibilità di applicazione di criteri e regole probatorie, processuali e sostanziali, tipiche della fase penale esauritasi a seguito della pronuncia della cassazione, atteso che la funzione di tale pronuncia, al di là della restituzione dell'azione civile all'organo giudiziario a cui essa naturaliter appartiene, è limitata a quella di operare un trasferimento della competenza funzionale dal giudice penale a quello civile, essendo propriamente rimessa in discussione la res in iudicium deducta, nella specie costituita da una situazione soggettiva ed oggettiva del tutto autonoma (il fatto illecito) rispetto a quella posta a fondamento della doverosa comminatoria della sanzione penale (il reato), attesa la limitata condivisione, tra l'interesse civilistico e quello penalistico, del solo punto in comune del “fatto” (e non della sua qualificazione), quale presupposto del diritto al risarcimento, da un lato, e del dovere di punire, dall'altro[10].
6. La composizione del contrasto sul problema dell’individuazione del giudice del rinvio
La sentenza Cremonini, dopo accurata interpretazione delle norme processuali coinvolte, in continuità con l’orientamento precedente (Sez. U. 27620 del 28 aprile 2016, Imp. Dasgupta, Pres. Canzio, Est. Conti e Sez. U. 28 gennaio 2019 n. 14426, Pres. Carcano, Est. Rago, Imp. Pavan) ha accolto il primo motivo di ricorso e annullato la decisione impugnata in quanto il giudice di appello, investito dall’impugnazione proposta dalla parte civile ai soli effetti civili avverso la pronuncia assolutoria di primo grado, aveva omesso di rinnovare d’ufficio l’istruttoria dibattimentale, adottando la decisione di riforma sulla base di un apprezzamento diverso sull’attendibilità di prove dichiarative ritenute decisive.
Sulla individuazione del giudice cui rinviare a seguito dell’annullamento ai soli effetti civili della sentenza di condanna pronunciata in appello, le Sezioni unite hanno optato per la necessità dell’annullamento con rinvio al giudice civile sulla base di una serie di considerazioni di carattere ordinamentale, storico e sistematico.
Sul versante ordinamentale, hanno posto in rilievo come l’attuale assetto processuale ispirato al sistema accusatorio che, rispetto al precedente sistema (inquisitorio, improntato al principio della unitarietà della funzione giurisdizionale e quindi della priorità e del primato della giurisdizione penale e della sua pregiudizialità rispetto agli altri processi) è caratterizzato dal principio della parità e originarietà dei diversi ordini giurisdizionali e della sostanziale autonomia e separazione dei giudizi. Separatezza che emerge, soprattutto e con chiarezza, dal dettato dell’art. 652 comma 1 c.p.p. che esclude l’efficacia di giudicato della sentenza penale di assoluzione nel giudizio civile o amministrativo di danno, ove il danneggiato dal reato abbia esercitato l’azione in sede civile a norma dell’art. 75, comma 2, c.p.p. In tale assetto, alla regola generale dell’accessorietà dell’azione civile nel processo penale dettata dall’art. 538 c.p.p., secondo cui il giudice penale pronuncia sulla domanda avente ad oggetto le restituzioni e il risarcimento del danno, solo se pronuncia condanna dell’imputato, corrispondono due eccezioni contenute negli artt. 576 e 578 c.p.p..
Sul versante storico, hanno ricostruito l’esegesi del processo che ha portato all’attuale formulazione dell’art. 622 c.p.p., disposizione di carattere eccezionale in cui ricadono le ipotesi, anch’esse eccezionali di cui agli artt. 576 e 578 c.p.p..
Sul piano sistematico, hanno precisato che la fattispecie in esame rientra nell’ipotesi di cui alla prima parte della stessa disposizione ove la condanna al risarcimento del danno è pronunciata dal giudice di appello in accoglimento della sola impugnazione della parte civile proposta avverso la sentenza di proscioglimento di primo grado ai sensi dell’art. 576 c.p.p. per vizio di motivazione derivante dall’omessa rinnovazione della prova dichiarativa ritenuta decisiva ed in proposito, hanno richiamato le decisioni della Corte costituzionale che, dagli anni 90’ sino ad oggi, si sono espresse sotto diversi profili, per la compatibilità di tale assetto processuale in relazione ai principi costituzionali dettati dagli artt. 3 e 111 Cost..
Viene richiamata ampiamente pure la pronuncia delle Sezioni Unite penali del 2013 “Sciortino”, che, come veduto, aveva respinto l’orientamento che riteneva necessario che la corte di cassazione annullasse la sentenza con rinvio allo stesso giudice penale che aveva emesso il provvedimento impugnato e non a quello civile competente per valore in grado di appello ex art. 622 c.p.p.. La scelta normativa di rinvio al giudice civile in grado di appello era stata ritenuta soluzione equilibrata sia per il danneggiato che, in sede di rinvio, poteva sollecitare davanti al giudice civile anche il riconoscimento del danno non patrimoniale, negli ampi termini definiti dalla giurisprudenza civile, sia per l’imputato/danneggiante in quanto il perseguimento dell'interesse a un pieno accertamento della sua innocenza, anche ai fini della responsabilità civile, poteva ben essere assicurato dall'opzione di rinuncia alla prescrizione (art. 157, comma 7, c.p.) o all'amnistia (ex Corte cost., sent. n. 175 del 1971). La stessa pronuncia “Sciortino” aveva osservato che l'ampia dizione dell'art. 622 c.p.p. non ammette distinzioni di sorta in relazione alla natura del vizio che inficia le statuizioni civili assunte dal giudice penale che potranno riguardare sia vizi di motivazione in relazione ai capi o ai punti oggetto del ricorso sia violazioni di legge, comprese quelle afferenti a norme di natura procedurale, relative al rapporto processuale scaturente dall'azione civile nel processo penale.
Alla luce del richiamo alla sentenza “Sciortino”, la decisione in esame ha ribadito che l’ambito applicativo dell’art. 622 c.p.p. è quello di una norma di eccezione che legittima il coinvolgimento del giudice civile tutte le volte che siano venute meno le condizioni per radicare la decisione in capo al giudice penale, tenuto conto che l’incipit della stessa disposizione, nel dettare la locuzione “fermi gli effetti penali della sentenza”, significa che tutto ciò che riguarda il versante penale non può più essere posto in discussione, né la persistenza dell’interesse penalistico può essere giustificata ex art. 573 c.p.p. in quanto la cognizione delle questioni civilistiche passa, “quando occorre”, al giudice civile, competente per valore in grado di appello.
Pertanto la sentenza in esame ha ritenuto che la definitività e l'intangibilità della decisione adottata in ordine alla responsabilità penale dell'imputato, determinate dalla pronuncia con cui la Corte di cassazione annulla le sole disposizioni o i soli capi che riguardano l'azione civile (promossa in seno al processo penale), ovvero accoglie il ricorso della parte civile avverso il proscioglimento dell'imputato, provoca il “definitivo dissolvimento” delle ragioni che avevano originariamente giustificato, a seguito della costituzione della parte civile nel procedimento penale, le deroghe alle modalità di istruzione e di giudizio dell'azione civile, imponendone i condizionamenti del processo penale, funzionali alle esigenze di speditezza del procedimento.
Con l'esaurimento della fase penale, essendo ormai intervenuto un giudicato agli effetti penali ed essendo venuta meno la ragione stessa dell'attrazione dell'illecito civile nell'ambito della competenza del giudice penale, risulta – secondo la pronuncia in esame – coerente con l'attuale assetto normativo interdisciplinare che la domanda risarcitoria venga esaminata secondo le regole dell'illecito aquiliano, dirette alla individuazione del soggetto responsabile ai fini civili su cui far gravare le conseguenze risarcitorie del danno verificatosi nella sfera della vittima; l'annullamento e il conseguente rinvio al giudice civile competente comporta, in caso di riassunzione, l'assunzione della veste di attore-danneggiato della parte civile e di convenuto-danneggiante da parte di colui che nel processo penale rivestiva il ruolo di imputato.
La Corte ritiene non condivisibile il sospetto instillato dall'orientamento minoritario sull'effetto pregiudizievole derivante agli interessi della parte civile dal dover espletare dinanzi al giudice civile il proprio onere probatorio come se l'istruttoria già compiuta nella fase penale fosse stata azzerata; per sfatare tale sospetto, richiama la giurisprudenza civile di legittimità, la quale riconosce, senz’altro, al giudice civile adito per il risarcimento del danno, l'onere del riesame dei fatti emersi nel procedimento penale, pure conclusosi con sentenza assolutoria (cfr. Sezioni Unite civili, n. 1768 del 2011, cit.).
In merito alla natura del giudizio di rinvio disposto ai sensi dell’art. 622 c.p.p., la Corte compie un ampio richiamo all’orientamento di legittimità affermatosi nella giurisprudenza della III sezione civile a partire dalla citata sentenza n. 15859 del 2019 e mostra di condividerne una serie di affermazioni.
Prima fra tutte la conferma della ritenuta autonomia del giudizio civile di rinvio sia in senso strutturale che funzionale, una volta determinatasi la scissione a seguito della valutazione compiuta dal giudice nel giudizio penale; scissione, in ragione dalla quale, la Corte ritiene la non ipotizzabilità del potere della cassazione penale ex art. 622 c.p.p. di enunciare il principio di diritto al quale il giudice di rinvio deve uniformarsi, concludendo in proposito “verificatosi un giudicato agli effetti penali, appare ragionevole che all’illecito civile tornino ad applicarsi le regole sue proprie, funzionali all’individuazione del soggetto su cui, secondo il sistema del diritto civile, far gravare il costo di un danno e non la sanzione penale”.
Dall’affermata natura autonoma del giudizio civile, conseguente all’annullamento in sede penale agli effetti civili ex art. 622 c.p.p. rispetto a quello penale, discendono due ulteriori rilevanti effetti che le Sezioni unite affermano di condividere unitamente alla richiamata giurisprudenza di legittimità civile. Per un verso, la possibilità che le parti possano allegare fatti costitutivi del diritto al risarcimento del danno, diversi da quelli posti a fondamento di quelli in ordine ai quali si è svolto il giudizio penale, consentendo l’emendatio della domanda ai fini della prospettazione di elementi costitutivi dell’illecito penale; da ciò, a parere delle Sezioni unite penali, conseguirebbe un’attenuazione degli effetti negativi della perdita di un grado di giudizio quale conseguenza della scelta della controparte di ottenere l’annullamento. Per l’altro verso, la diversa configurazione delle regole processuali applicabili sia in tema di nesso causale sia di prove, in ragione della diversa funzione della responsabilità civile e della responsabilità penale e dei diversi fattori in gioco nei due sistemi di responsabilità.
Precisamente, sul piano del nesso di causa, viene chiarito che la regola di giudizio “al di là di ogni ragionevole dubbio” e della garanzia costituzionale della presunzione di non colpevolezza di cui all'art. 27, comma secondo, Cost., cogente in ambito penalistico, ogniqualvolta il processo ritorni alla sede sua propria ai sensi dell’art. 622 c.p.p., non è applicabile ai giudizi risarcitori civili, i quali - in tema di accertamento del nesso causale tra condotta illecita e danno – sono governati dalla diversa regola probatoria del “più probabile che non” e ciò, tanto più ove venga richiesta in appello l'affermazione della responsabilità del presunto danneggiante (ad esempio, in caso di responsabilità da circolazione stradale, responsabilità medica, etc.).
Anche sul piano del diritto di difesa delle parti, saranno applicabili le regole processuali che governano l’istruzione probatoria nel processo civile ovvero il principio di disponibilità della prova e quello del libero convincimento del giudice che ne giustificano il prudente apprezzamento anche mediante prove cd. atipiche, idonee a concorrere all’accertamento dei fatti di causa.
Il mutamento delle regole probatorie a seguito dell’annullamento ex art. 622 c.p.p., pertanto, contrariamente a quanto sostenuto dall’orientamento minoritario, “non pone problemi sotto il profilo delle esigenze difensive delle parti, danneggiato e danneggiante, che sino ad allora hanno scelto e commisurato la loro attività difensive a regole probatorie diverse”.
In conclusione, secondo le Sezioni unite penali la norma permette la restituzione della cognizione dell’azione civile al giudice naturale, confermando che il fatto integra illecito civile, così preservando le peculiarità che distinguono la responsabilità civile rispetto a quella penale.
7. La compatibilità della soluzione prescelta rispetto al diritto vivente sovranazionale e costituzionale
Con ampia e puntuale motivazione viene indagata e affermata la compatibilità di tale assetto ermeneutico concernente l’art. 622 c.p.p. rispetto alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo; in proposito viene ribadito, come già affermato dalla Corte (Sezioni Unite 29 giugno 2016 n. 46688, Imp. Schirru, Rv. 267888) che “neanche la giurisprudenza elaborata dalla Corte EDU lascia ipotizzare scenari che chiamino in causa la violazione dell'art. 117 Cost. quale parametro interposto, dovendosi considerare che, sebbene l'art. 6, § 1, della Convenzione sia stato interpretato reiteratamente come fonte di "un diritto di carattere civile" della vittima del reato a vedersi riconosciuta la possibilità di intervenire nel processo penale per difendere i propri interessi tramite la costituzione di parte civile (v. fra le molte, Corte EDU, 20 marzo 2009, Gorou c. Grecia), tuttavia, con riferimento al caso della mancata valutazione della domanda della parte civile per essersi il processo penale chiuso con provvedimento diverso dalla condanna dell'imputato, la Corte EDU non ha individuato alcuna violazione del diritto di accesso ad un tribunale: violazione che, invece, viene ritenuta ravvisabile solo quando la vittima del reato non disponga di rimedi alternativi concreti ed efficaci per far valere le sue pretese (Corte EDU, Sez. 3, 25 giugno 2013, Associazione delle persone vittime del sistema S.C. Ronnpetrol S.A. e S.C. Geonnin S.A. e altri contro Romania)”.
In relazione al caso in esame, pertanto, si sottolinea che del tutto in linea con il diritto vivente sovranazionale, l’ordinamento interno prevede la possibilità di rivolgersi al giudice civile.
Inoltre, questo meccanismo di restituzione appare rispettoso sia dei principi che governano il giusto processo che di quelli inerenti allo statuto dell’imputato-convenuto danneggiante. Sotto quest’ultimo aspetto, viene ribadito che la regola del contraddittorio permea il giudizio civile al pari di quello penale sicché nel rispetto del principio del contraddittorio avverrà il confronto tra la tesi del danneggiante e quella, avversa, del danneggiato. Sotto il profilo del giusto processo, oltre a rimarcare che, anch’esso è principio immanente sia all’ambito processuale civile sia a quello penale, la decisione in esame richiama quanto espresso dalla Corte costituzionale a proposito della compatibilità del vigente assetto con il principio di ragionevole durata del processo, in quanto “la preclusione della decisione sulle questioni civili, nel caso di proscioglimento dell'imputato per qualsiasi causa - compreso il vizio totale di mente - se pure procrastina la pronuncia definitiva sulla domanda risarcitoria del danneggiato, costringendolo ad instaurare un autonomo giudizio civile, trova però giustificazione nel carattere accessorio e subordinato dell'azione civile proposta nell'ambito del processo penale rispetto alle finalità di quest'ultimo, e segnatamente nel preminente interesse pubblico (e dello stesso imputato) alla sollecita definizione del processo penale che non si concluda con un accertamento di responsabilità, riportando nella sede naturale le istanze di natura civile fatte valere nei suoi confronti. Ciò, in linea, una volta ancora, con il favore per la separazione dei giudizi cui è ispirato il vigente sistema processuale”[11].
Conclude pertanto la decisione in commento di non condividere l’orientamento minoritario che, evocando il principio del giusto processo, ha teorizzato che il rinvio ex art. 622 c.p.p. dovesse essere necessariamente disposto al giudice penale, in quanto tenuto alla rinnovazione della prova, perché tale tesi si risolve in “una forzatura ermeneutica nell’individuazione del giudice, non supportata nel sistema processuale vigente”.
8. Notazioni conclusive
In definitiva, e con una battuta, può dirsi che il mistero che circonda l’art. 622 c.p.p. si infittisce; con tale disposizione infatti è consentito, per un verso, impugnare un capo di sentenza che non c’è, allorquando venga in appello, su richiesta della parte civile, annullata la decisione di proscioglimento dell’imputato ai soli effetti della responsabilità civile e, per l’altro, è permesso impugnare per cassazione la sentenza che, in accoglimento dell’appello della parte civile avverso la decisione assolutoria di prime cure, abbia condannato l’imputato al risarcimento del danno ai soli effetti civili, senza la rinnovazione di un’attività processuale, caso verificatosi nella specie, con la conseguenza che la prova che non c’è, perché non rinnovata secondo le regole probatorie penali, viene rimessa con rinvio all’apprezzamento del giudice civile secondo le sue proprie regole.
Al riguardo, è stato già posto in luce criticamente su questa Rivista (A. Nappi, Paradossi giurisprudenziali) come la soluzione prescelta di imporre alla Corte di cassazione l’annullamento della decisione d’appello per la violazione di una norma che non dovrà essere osservata nel giudizio di rinvio, pone una regola di dubbia utilità in quanto non vi sarebbe “alcuna logica nel censurare la violazione di una norma che non si pretende poi di vedere osservata”. La critica in realtà viene mossa al precedente (Cass., Sez. un., 28 aprile 2016, Dasgupta), condiviso dalla pronuncia Cremonini, secondo cui è necessario che “il giudice di appello che riformi, ai soli fini civili, la sentenza assolutoria di primo grado sulla base di un diverso apprezzamento dell'attendibilità di una prova dichiarativa ritenuta decisiva, è obbligato a rinnovare l'istruzione dibattimentale, anche d'ufficio”. Orientamento la cui generalizzazione a tutti i tipi di impugnazione desta perplessità, nonostante l’art. 603, comma 3 bis, c.p.p. imponga la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale soltanto nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa. In proposito, dirimente è l’assunto secondo cui la rinnovazione istruttoria deve essere considerata obbligatoria nel caso in cui l’accertamento delle responsabilità civile e penale dell’imputato sia contestuale e apprezzata dinanzi al giudice penale, non, invece, nel caso in cui sia stata chiusa definitivamente la vicenda penale e resti da accertare solo la responsabilità civile (A. Nappi, Paradossi giurisprudenziali).
Del tutto condivisibili appaiono, viceversa, le indicazioni nomofilattiche date dalla decisione in commento circa la natura autonoma del giudizio di rinvio ex art. 622 c.p.p., quale giudizio restitutorio e non prosecutorio rispetto a quello penale.
Da tali indicazioni discendono rilevanti conseguenze. Innanzitutto, l’aver affermato con chiarezza, componendo il contrasto tra sezioni civili e penali in proposito, l’inesistenza di un potere della Corte di cassazione penale, in sede di annullamento della sentenza penale ai soli effetti civili, di vincolare il giudice civile del rinvio ad un principio di diritto. In secondo luogo, quella di ritenere, all'esito della trasmigrazione del procedimento dalla sede penale a quella civile, cogenti le regole processuali proprie di quest’ultimo giudizio sia in tema di istruzione probatoria sia in ordine al criterio causale applicabile, tenuto conto della diversità dell'ambito entro cui l'attività difensiva viene a svolgersi, nel diverso prospettare le relative questioni (e al giudice del rinvio di deciderle) sotto il profilo non del reato, ma dell'illecito civile ex art. 2043 c.c.. Indicazioni che, come sopra accennato, possono dirsi del tutto in linea con le affermazioni rese al riguardo dall’orientamento più recente della III Sezione civile della Corte.
Echeggia sul fondo di tali rilevanti affermazioni il mai sopito dibattito inerente ai rapporti che possono insorgere tra la responsabilità civile da reato e quella da illecito civile. Moltissime le posizioni dottrinali e giurisprudenziali espresse in materia che, in questa sede, possono essere soltanto accennate.
Sul piano sostanziale, la struttura dell’illecito penale appare speculare a quella dell’illecito civile e si compone degli stessi elementi costitutivi di quella: ovvero la condotta, l’evento di danno e il nesso di causalità tra la prima ed il secondo, ma appena se ne analizzino le singole componenti sul piano probatorio processuale si scoprono differenze rilevanti; si pensi all’elemento soggettivo della condotta, ove nell’illecito civile, a differenza della responsabilità da reato, vengono previste ipotesi di responsabilità oggettiva o per fatto altrui e alle nozioni di dolo e colpa, non collimanti con quelle previste per il fatto reato. Differisce altresì la nozione di fatto che nella responsabilità penale viene tipicamente e tassativamente ricondotta all’interno di una fattispecie normativa, mentre in quella civile corrisponde ad una fattispecie atipica ovvero a qualunque fatto colposo o doloso idoneo a cagionare un danno ingiusto; ne discende una ulteriore differenza in quanto nella responsabilità penale il fatto è ex lege antigiuridico, nella responsabilità civile, invece, il requisito dell’ingiustizia è riferito al danno e non al fatto. Ulteriore terreno di disomogeneità è quello del nesso causale[12], in merito al quale le soluzioni proposte dalla giurisprudenza evidenziano che la questione non è ancora compiutamente risolta e sconta - quali fattori di criticità - la disomogeneità tra gli orientamenti adottati in ambito sia penalistico sia civilistico e la complessità di materie assai delicate, come l'infortunistica o la responsabilità professionale, le cui peculiarità specifiche hanno posto in discussione la tenuta di una ricostruzione sistematica unitaria.
Le rilevanti indicazioni date dalla sentenza in commento sul meccanismo di rinvio al giudice civile in caso di annullamento ex art. 622 c.p.p., appaiono del tutto consapevoli di tali criticità e costituiscono una tessera fondamentale ai fini della ricomposizione del mosaico. La compiuta ricostruzione di tale strumento di passaggio dal giudizio penale a quello civile appare del tutto conforme ai principi di ragionevolezza, di effettività della tutela e di bilanciamento di interessi, più volte affermati dal giudice delle leggi e dalle corti sovranazionali; difatti, apparirebbe del tutto irragionevole che il giudizio civile fosse vincolato alle regole processuali penali, una volta che questo abbia definitivamente esaurito la sua funzione [13].
In questa accezione le Sezioni unite hanno risposto agli interrogativi già posti su questa Rivista (C. Citterio, Rivive il principio di accessorietà dell’azione civile nel processo penale?) e hanno escluso la possibilità di protrarre l’esercizio dell’azione civile nel processo penale, pur dopo la conclusione dell’esercizio dell’azione penale, affermando con chiarezza che in tale evenienza si riespandono, intatti, i caratteri che governano l’azione civile e cioè, l’autonomia e la separatezza.
Per completezza e per dare conto delle incessanti incertezze ermeneutiche che in materia si preannunciano, de iure condendo, va segnalato l’intervento della recentissima Commissione ministeriale istituita dall’attuale ministro della giustizia, Cartabia, presieduta da Lattanzi, che ha proposto diversi emendamenti al disegno di legge A.C. 2435 recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale (presentato a firma del precedente ministro, Bonafede) che, tra l’altro e per quanto qui di interesse, propongono di incidere sull’art. 627, comma 2, c.p.p. nel prevedere quale criterio di delega che, in caso di annullamento della sentenza di proscioglimento, sia obbligatoria la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale volta ad assumere prove decisive, nonché sull’art. 622 c.p.p. nel prevedere che, in caso di annullamento della sentenza ai soli effetti civili, la Corte di cassazione annulli con rinvio al giudice civile con l’obbligo da parte di quest’ultimo di valutare le prove raccolte nel processo penale.
Di sicuro rilievo, infine, per le sue implicazioni sul tema in argomento, è la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di appello di Lecce (ordinanza del 6 novembre 2020, www.Gazzettaufficiale.it) in relazione all’art. 578 c.p.p. che, valorizzando le considerazioni sul carattere accessorio e subordinato dell’azione civile quando incardinata nel processo penale - come ritenuto anche di recente dalla Corte costituzionale (sentenza n.176 del 2019) - ha osservato che la sostanziale equiparazione della sentenza di appello (che dichiarando il reato per prescrizione confermi le statuizioni civili) ad una decisione di “condanna”, operata dall’orientamento della giurisprudenza di legittimità in tema di revisione (Cass. pen. sez. un. 25 ottobre 2018, n. 6141 depositata il 7 febbraio 2019, Pres. Carcano, Est. Beltrami, Imp. Milanesi[14]), obbligherebbe il giudice di appello «civile» ad una rivalutazione piena della responsabilità «penale» in ordine allo stesso fatto-reato contestato - peraltro, sulla base del medesimo materiale probatorio avuto a disposizione dal giudice di prime cure - sia pure ai fini di confermare o meno le statuizioni civili disposte dal primo giudice; ciò determinerebbe un sistema non compatibile col fondamentale principio del rispetto della presunzione di innocenza di cui all'art. 6, comma 2, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, così come declinato dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, da intendersi come parametro interposto ai sensi dell'art. 117 Cost.
L’enigmatica disposizione continua dunque a rappresentare oggetto di studio, di modifiche e di confronto all’interno dell’ordinamento nazionale e proietta i suoi riflessi nell’intero sistema, ponendo nuovamente un quesito di conformità costituzionale che costituirà banco di prova, di sicuro interesse, per l’evoluzione del formante interpretativo.
[1] Cordero, Procedura Penale, Milano, 2006, 1183.
[2] Cordero, op.cit., 1183 ove viene spiegato “Ad esempio, N è stato assolto «perché il fatto non sussiste »: P, parte civile, ricorre asserendo difetti nella motivazione; la Corte li verifica; e nell'ipotesi positiva giudica fuori dai soliti modelli, con un dispositivo molto atipico, togliendo al proscioglimento irrevocabile l'effetto extrapenale. Il rinvio implica un annullamento: e qui manca l'annullabile; i capi penali sono intangibili; non esistono decisioni sul danno. Né annullamento né rinvio, dunque: o meglio, quest'ultimo avviene, davanti al giudice penale, quando fosse stata negata una «prova decisiva» (sul tema penalistico) allora chiesta dall'impugnante (art. 606 lett. d); l'unico che possa acquisirla è l'organo individuato dall' art. 623. Infine, la parte civile rinviata in appello, come prevede l'art. 622, perderebbe un grado, se non fossero mai state emesse decisioni sui danni, perché ogni volta l'imputato risultava prosciolto”.
[3] Cordero, op.cit, 1183.
[4] Ove veniva posto in luce che anche in caso di ribaltamento della pronuncia di assoluzione veniva in gioco “la garanzia del giusto processo a favore dell'imputato coinvolto in un procedimento penale, dove i meccanismi e le regole sulla formazione della prova non subiscono distinzioni a seconda degli interessi in gioco, pur se di natura esclusivamente civilistica; tanto che anche in un contesto di impugnazione ai soli effetti civili deve ritenersi attribuito al giudice il potere-dovere di integrazione probatoria di ufficio ex art. 603, comma 3, cod. proc. pen.” (così, in motivazione, Dasgupta).
[5] In proposito, la sentenza “Sciortino” afferma che non può condurre a diversa conclusione neppure "la considerazione che la disciplina che rinvia al giudice civile ogni questione superstite sulla responsabilità civile nascente dal reato, rende inevitabile l'applicazione delle regole e delle forme della procedura civile, che potrebbero ritenersi meno favorevoli agli interessi del danneggiato dal reato rispetto a quelle del processo penale, dominato dall'azione pubblica di cui può ben beneficiare indirettamente il danneggiato dal reato. Si tratta però di evenienza che il danneggiato può ben prospettarsi al momento dell'esercizio dell'azione civile nel processo penale, di cui conosce preventivamente procedure e possibili esiti, comprese le eventualità che, in presenza di cause di estinzione del reato o di improcedibilità dell'azione penale, venga a mancare un accertamento della responsabilità penale dell'imputato e che in caso di translatio judici l'azione per il risarcimento del danno debba essere riassunta davanti al giudice civile competente per valore in grado di appello. Resta naturalmente fermo che, in presenza di un danno da reato, il danneggiato, in sede di rinvio, può sollecitare davanti al giudice civile anche il riconoscimento del danno non patrimoniale, negli ampi termini definiti dalla giurisprudenza civile”
[6] Il tema si ritrova in Lavarini, Azione civile nel processo penale e principi costituzionali, Torino, 2009, 155, ove l’A. interrogatasi sull'esigenza di riflettere, de iure condendo, sull'opportunità di lasciare alla competenza del giudice penale anche il giudizio di rinvio ai soli effetti civili, in linea con la strada suggerita dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 29 del 1972: osserva che questa soluzione avrebbe l'indubbio pregio di ricondurre a coerenza il sistema, al pari di quella, affatto speculare, e pure adombrata in dottrina e nei lavori preparatori del codice di rito penale, di escludere tout court la parte civile dal processo penale.
[7] Corte cass Sez. un., 1° luglio 2002, n. 30328, Pres. Marvulli Est. Canzio, Imp. Franzese, Rv. 222138 - 01
[8] Corte cass. Sez. un., 11 gennaio 2008, n. 576, Pres. Carbone, Est. Segreto, Rv. 600899 - 01.
[9] Il tema si ritrova in Lavarini, Azione civile nel processo penale e principi costituzionali, Torino, 2009, 155, ove l’A. interrogatasi sull'esigenza di riflettere, de iure condendo, sull'opportunità di lasciare alla competenza del giudice penale anche il giudizio di rinvio ai soli effetti civili, in linea con la strada suggerita dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 29 del 1972: osserva che questa soluzione avrebbe l'indubbio pregio di ricondurre a coerenza il sistema, al pari di quella, affatto speculare, e pure adombrata in dottrina e nei lavori preparatori del codice di rito penale, di escludere tout court la parte civile dal processo penale.
[10] Quanto alle regole probatorie applicabili in tema di nesso causale, la stessa decisione ha affermato che “Pertanto, riassunto il processo nella sede civile, il giudice di rinvio non è affatto vincolato, nella ricostruzione del fatto, a quanto accertato dal giudice penale: se, tecnicamente, il giudizio di rinvio è regolato dagli artt. 392 - 394 cod. proc. civ., è del tutto evidente che non è per questo in alcun modo ipotizzabile un vincolo come quello che consegue all'enunciazione di un principio di diritto ai sensi dell'art. 384, secondo comma, cod. proc. civ. da parte di questa Corte: con conseguente dovere del giudice civile, nella (libera) ricostruzione dei fatti e nella loro (libera) valutazione, di applicare del criterio civilistico del "più probabile che non" nella valutazione del nesso causale, in luogo di quello tipico del processo penale dell'alta probabilità logica, e con conseguente irrilevanza, sul piano processuale, dell'eventuale, contraria indicazione contenuta nella sentenza penale di rinvio ex art. 622 cod. proc. pen.”.
[11] Corte cost. sent. n. 12 del 2016.
[12] La letteratura giuridica in argomento è sterminata; per una ricostruzione sistematica completa delle teorie sul nesso di causalità, cfr. Bianca, Diritto civile, 2012, 142 e ss.
[13] Nella richiamata pronuncia Sez. III n. 15589 del 2019, si e affermato che i principi richiamati, sembrano trovare ulteriore conferma nella stessa disposizione dell'art. 187, capoverso, c.p. la quale, statuendo per i condannati per uno stesso reato l'obbligo in solido al risarcimento del danno, non esclude, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, ipotesi diverse di responsabilità solidale: si pensi ai soggetti che non siano colpiti da alcuna condanna o siano colpiti da condanna per reati diversi o siano taluni colpiti da condanna e altri no. Cfr. in proposito, inoltre, Cass., Sez. 3 15 luglio 2005, n. 15030, Est. Segreto, Rv. 584094 - 01; Cass., Sez. 3 12 marzo 2010, n. 6041, Est. Travaglino, Rv. 612075 - 01; Cass. Sez. 3, n.1070 del 17 gennaio 2019, Est. Scoditti, Rv. 652444 - 01.
[14] Pronuncia ove si è affermato che è ammissibile sia agli effetti penali che civili, la revisione richiesta ai sensi dell'art. 630, comma 1, lett. c), c.p.p., della sentenza del giudice di appello che, prosciogliendo l'imputato per l'estinzione del reato dovuta a prescrizione o amnistia, e decidendo sull'impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi concernenti gli interessi civili, abbia confermato la condanna al risarcimento dei danni nei confronti della parte civile.
Per installare questa Web App sul tuo iPhone/iPad premi l'icona.
E poi Aggiungi alla schermata principale.