ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Individuazione dell’interesse legittimo e accertamento della legittimazione ad agire nel processo amministrativo, dopo il “caso Randstad”
di Marco Magri
Sommario: 1. Homo sine pecunia est imago mortis: l’esclusione di chi non può conseguire il “bene della vita” nella giurisprudenza del Consiglio di Stato - 2. Mera obbiettività dell’accertamento compiuto dal giudice amministrativo per estromettere il ricorrente “assimilato” al quivis de populo - 3. La teoria dell’Adunanza Plenaria sulla legittimazione ad agire come “titolo, o possibilità giuridica dell’azione” (e i suoi limiti) - 4. Argomenti in favore dell’annullamento da parte della Corte di Cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., delle sentenze d’inammissibilità del Consiglio di Stato basate esclusivamente sulla “teoria della norma di protezione” (Schutznormtheorie).
1. Homo sine pecunia est imago mortis: l’esclusione di chi non può conseguire il “bene della vita” nella giurisprudenza del Consiglio di Stato.
La vivace discussione intorno alla sentenza della Corte di giustizia UE, 21 dicembre 2021, C-427/20 (Randstad Italia S.p.A. c. Azienda USL Valle d’Aosta e altri) ha toccato a più riprese il tema della legittimazione al ricorso[[1]] e, con ciò, l’importante profilo teorico dell’interesse legittimo che, secondo parte della dottrina, concerne la sua “individuazione”[[2]].
I riferimenti a questa fondamentale problematica sono emersi, com’era inevitabile, tra altre questioni poste dal caso Randstad, che ora non è il caso di riportare in dettaglio: a partire dalle prospettive sui rapporti e sui possibili conflitti tra le diverse giurisdizioni [[3]], ad altre più legate alla specificità della disciplina comunitaria della questione sollevata dalla Cassazione [[4]].
È innegabile peraltro che l’intera area di confine tra l’interesse legittimo e l’interesse non qualificato (semplice, di fatto, diffuso, popolare, di pura amministrazione, amministrativamente protetto, ecc.) si appresti a registrare una scossa piuttosto violenta, già per il fatto stesso che le Sezioni Unite, chiusa la parentesi della Corte di Giustizia, siano chiamate a statuire sull’accesso alla giustizia amministrativa di quel tipo d’interesse materiale cosiddetto “strumentale”, poiché non aspira al conseguimento del “bene della vita” (nel caso di specie, l’aggiudicazione del contratto), ma tende a un’utilità accidentale, costituita dalla probabilità di conseguirlo ad esito del nuovo esercizio del potere amministrativo (sempre nella vicenda Randstad, la ripetizione della gara).
Il problema dell’interesse strumentale, sia pure trasferito e in parte nascosto nella questione della pregiudizialità dell’ordine di esame tra il ricorso principale e il ricorso incidentale escludente[[5]], era in realtà già da tempo all’attenzione delle Sezioni Unite. Ma nella vicenda Randstad la maggior semplicità dell’oggetto del processo porta tutto direttamente in discussione; è possibile pertanto guardare al caso “dal basso”, cioè dal punto di vista del cittadino utente[[6]].
Non sfugge, certo, che il “cittadino” del cui interesse legittimo si trattava nel caso Randstad non fosse esattamente il prototipo nazionale, giacché la lesione lamentata riguardava una situazione soggettiva conferita e finanche regolata dall’ordinamento comunitario.
Ma, a parte che proprio sotto la spinta del diritto comunitario hanno iniziato a sgretolarsi schemi, come quello della non risarcibilità del danno da lesione d’interessi legittimi, ampiamente sedimentati nel nostro modo di rappresentare gli interessi e le modalità della loro protezione, l’abitudine del Consiglio di Stato di voltare le spalle in limine litisall’interesse strumentale non è un trattamento riservato agli operatori economici esclusi dalle gare europee. L’inammissibilità per carenza di qualificazione è un tipo di pronuncia che il giudice amministrativo usa quasi quotidianamente, in guisa del tutto indifferente alla materia entro la quale ricade la controversia, con una sempre più accentuata tendenza alla sentenza dottrinale o all’intervento nomofilattico.
Per stare solo al breve arco di tempo degli ultimi due mesi, due pronunce dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ne hanno fatto applicazione ai fini della soluzione di questioni di legittimazione: la sentenza n. 22 del 2021, che ha concluso per l’insufficienza della semplice vicinitas a radicare nel ricorrente un interesse legittimo, tale da consentirgli l’impugnativa dei titoli edilizi del terzo (così in sostanza arrivando a prospettare, per un’azione di annullamento, condizioni simili a quelle di un’azione negatoria servitutis, art. 949 c.c.); e la sentenza n. 3 del 2022, che ha sancito l’inammissibilità, per difetto di legittimazione, del ricorso proposto da alcuni ex amministratori contro l’interdittiva antimafia comminata alla società di cui erano rappresentanti – tra l’altro, per sospetti di infiltrazioni della criminalità organizzata riferiti proprio alla loro persona – presupponendo che nel nostro ordinamento non possano «esservi posizioni di interesse legittimo nei confronti della pubblica amministrazione nell’esercizio del potere amministrativo conferitole dall’ordinamento, che non siano quelle (e solo quelle) che sorgono per effetto dello stesso statuto normativo del potere, nell’ambito del rapporto giuridico di diritto pubblico, (pre)configurato normativamente»[7].
Pronunce che hanno confermato quanto sia forte, oggi, la tendenza del Consiglio di Stato a difendersi dal quivis de populo o, meglio, dal ricorrente assimilabile al quivis de populo (giacché un ricorrente che si “affermi popolare” è una storia più raccontata che empiricamente constatabile).
Se poi si spazia oltre la Plenaria, gli ultimi tempi hanno visto l’emergere di altri casi significativi. La sesta sezione ha ritenuto, ad esempio, che una promissaria acquirente di un immobile sia priva di legittimazione a impugnare il titolo edilizio (condono) rilasciato al promissario venditore, malgrado nel caso di specie la ricorrente avesse allegato, non contraddetta dall’amministrazione, che l’annullamento le avrebbe consentito di dimostrare, in un giudizio civile nel frattempo incardinato contro il promissario venditore, che l’immobile oggetto del contratto preliminare di compravendita era interamente abusivo, donde il diritto ad ottenere il doppio della caparra versata[8]. «Si tratta di questioni indubbiamente conoscibili dal giudice civile», aveva affermato il giudice di primo grado, «ma che in questa sede rilevano per affermare la sussistenza di un interesse a contestare i provvedimenti impugnati, al fine di far valere in quella sede il loro annullamento»[[9]]. Al che il Consiglio di Stato ha ribattuto, richiamando la propria giurisprudenza, che, non avendo la promissaria acquirente «mai acquistato il possesso o la detenzione o, ancora, la materiale disponibilità del bene, non si è radicata in capo ad essa alcuna posizione giuridica diversa dall’interesse di mero fatto».
Ancora, allungando lo sguardo fino alla giurisprudenza di primo grado, sembra degna di attenzione una recente sentenza del TAR Lazio, nella quale è stato confermato che il datore di lavoro, già regolarmente autorizzato (dallo sportello unico per l’immigrazione) all’assunzione del lavoratore straniero (art. 24 D.lgs. n. 286 del 1998), non è legittimato a impugnare il diniego di visto d’ingresso adottato dal Consolato nei confronti del lavoratore[[10]]. I due procedimenti, pur essendo, anche ad avviso del giudice amministrativo, «collegati (nel senso che il secondo presuppone l’avvenuta definizione del primo in senso positivo), restano tuttavia strutturalmente e funzionalmente autonomi». Caratteristiche che «si riflettono sul piano processuale nel senso di escludere la legittimazione del potenziale datore di lavoro (il cui interesse all’assunzione di un lavoratore straniero è preso in considerazione nell’iter autorizzatorio presupposto) a impugnare il diniego di visto adottato nei confronti dello straniero, che con la presentazione della relativa domanda ha palesato il suo interesse a entrare nel territorio nazionale». Ciò non vuol dire, precisa il TAR, «che non sussista un concorrente interesse del potenziale datore all’ingresso in Italia di un suo, altrettanto potenziale, dipendente, ma si tratta di un interesse di mero fatto, non azionabile né in sede procedimentale (come risulta dalla disciplina di riferimento) né in sede giurisdizionale»[[11]].
Ecco un caso davvero emblematico, giacché i passaggi sono chiarissimi: l’annullabilità del visto d’ingresso è un’antigiuridicità che non lede l’interesse del futuro datore di lavoro perché le norme sul visto d’ingresso (art. 5 D.lgs. n. 286 del 1998), a differenza di quelle sull’autorizzazione alla costituzione del rapporto di lavoro (art. 24 D.lgs. cit.) non sono scritte “per il datore di lavoro” (quindi non possono “proteggerlo”), ma “per il lavoratore”, unico legittimato a impugnare il diniego (per di più, da Islamabad, dove gli effetti ostativi del diniego lo avevano bloccato).
Così è accaduto anche per la Randstad: esclusa dall’aggiudicazione, dunque «divenuta», per il Consiglio di Stato, portatrice «di un interesse di mero fatto, analogo a quello di qualunque operatore economico del settore, non partecipante alla gara».
A ben vedere, il peccato d’origine dell’interesse “strumentale”, secondo il Consiglio di Stato, non è di non essere differenziato e neanche d’essere privo di collegamenti a norme giuridiche (in ciascuno dei casi testé menzionati lo si potrebbe facilmente dimostrare), ma d’essere qualificato solo soggettivamente, da una libera decisione del ricorrente su ciò che gli “spetta”, non collimante con la massima soddisfazione obbiettiva che il processo amministrativo di annullamento consentirebbe di ricavare ai formali destinatari del provvedimento impugnato[[12]].
Questo difetto di titolarità, dato dalla non pienezza del diritto sul bene della vita, nella gran parte dei casi viene avvalorato da un ragionamento controfattuale sulla non esclusività o, meglio, della mancanza di personalità dell’interesse ad agire. Sono altri infatti, per il giudice, i soggetti destinatari del provvedimento, che ne patiscono gli effetti lesivi e il cui ricorso sarebbe ammissibile, se fosse esperito: quasi a voler dedurre, da questa disomogeneità di condizioni, la trattabilità del caso alla stregua di un’ipotesi di sostituzione processuale fuori dai casi previsti dalla legge.
Lo scrutinio di ammissibilità dell’interesse strumentale finisce così per radicarsi in una logica di confronto che in qualche misura ricorda il criterio – anch’esso impostato sul binomio identità-diversità delle situazioni sostanziali affermate in giudizio rispetto al medesimo provvedimento amministrativo (e sulla esistenza o mancanza di conflitti d’interesse) – adottato dalla giurisprudenza per decidere sull’ammissibilità del cd. “ricorso collettivo”. Con la differenza che qui la presa d’atto di un conflitto d’interessi va tutta a protezione del legittimato teorico: quello individuato dal provvedimento, anche quando quest’ultimo non è – o con ogni probabilità, non sarà mai – parte del processo (quasi sempre, proprio a causa degli effetti del provvedimento illegittimo).
Si spiega così, tra le altre cose[[13]], la ragione per cui il giudice amministrativo, quando invece non vede nel destinatario del provvedimento un tertium comparationis, si dimostra più propenso a riconoscere la legittimazione del ricorrente. Se ne può avere la riprova pensando agli interessi “diffusi” rappresentati in giudizio da soggetti privati esponenziali (fuori ovviamente dai casi di sostituzione processuale), la cui “collettivizzazione” a mezzo di entificazione presuppone la mancanza di differenziazione e lascia pertanto quegl’interessi tutti egualmente adespoti[[14]]; oppure si pensi a quel tipo di interesse individuale che, pur mancando di collegamento giuridico al bene della vita, resta confinato nella sfera del ricorrente e conserva una rigorosa consistenza soggettiva, persino “assoluta”: alludo all’interesse (kantianamente inteso come) morale[[15]], al quale la giurisprudenza, discrezionalmente, ma tradizionalmente si presta a impartire tutela[[16]].
Ora, tornando alla questione dalla quale poc’anzi s’era partiti, anche il caso Randstad, pur avendo ad oggetto un diritto conferito dall’ordinamento comunitario, non nasce da un problema d’interpretazione del diritto (e del diritto comunitario in specie). La direttiva 89/665/CEE chiarisce quando l’operatore è «definitivamente escluso» (art. 2-bis) e, a termini di direttiva, la Randstad non lo era, avendo impugnato nei termini la propria esclusione dalla gara.
Il motivo della pronuncia di rito negativa deriva dall’applicazione di uno schema di giudizio ben più risalente e rigorosamente domestico, per cui l’interesse di fatto non ha altra spiegazione che il tendere a un bene impoverito rispetto alla categoricità voluta dalla norma. Quando l’interesse legittimo non ha più sotto di sé il diritto soggettivo assoluto, rimane agli occhi del Consiglio di Stato un simulacro, contornato dalla prospettiva di utilità minori o diverse, per le quali la giurisdizione amministrativa non si dichiara più disponibile. Homo sine pecunia est imago mortis[[17]]: se per il ricorrente sfuma l’intera posta in palio, il “bene della vita”, tanto vale «ch’ei si rassegni»[[18]].
2. Mera obbiettività dell’accertamento compiuto dal giudice amministrativo per estromettere il ricorrente “assimilato” al quivis de populo.
La scelta di alludere al “fatto”, per denominare l’interesse al quale il diritto (come ordinamento giuridico) rende inaccessibile la giustizia amministrativa, non è peraltro privo di causa.
L’invenzione dell’interesse di fatto, “assimilabile” a quello del quivis de populo, si spiega con un bisogno di dare, dell’interesse legittimo, una descrizione dotata di tutto il rigore logico necessario a dimostrare che il giudice amministrativo ha la stessa forma mentis del giudice ordinario, e si è oramai lasciato dietro le spalle il modello dell’organo “specializzato”, funzionale alla mera natura pubblica “dell’amministrazione” e non alla giustizia “nell’amministrazione”.
Il giudice amministrativo si trova così a ritessere continuamente la trama del collocamento dell’interesse legittimo tra le altre situazioni giuridiche soggettive, entro una piattaforma concettuale idonea a garantire imparzialità e basi sicure al ragionamento giuridico.
Dobbiamo allora parlare d’un approccio “metodologico”, fondato su uno strumentario privilegiato da molti studiosi del diritto amministrativo, non solo dalla giurisprudenza.
Ci si riferisce a quel giacimento di concetti giuridici che il diritto amministrativo, forse più di altre discipline, crede di poter trovare sulla via della “dogmatica” – una strada, in verità, ampiamente problematizzabile – comunemente definita “teoria generale del diritto”.
Quando il nostro giudice amministrativo ricorre a formule quali la «titolarità», il «rapporto giuridico di diritto pubblico», la «concezione soggettiva della tutela», per declassare il ricorrente a quivis de populo, vuol tributare la sua subordinazione a un “diritto comune dei rapporti giuridici” che, in ultima analisi, è principio legittimante del giudice stesso. Il rifiuto di erogare giustizia al quivis de populo, motivato sulla base del fatto che costui non avrebbe un interesse “qualificato”, significa infatti, per il giudice amministrativo, risalire a una radice comune, la teoria generale delle situazioni soggettive, adattabile sia all’interesse legittimo che al diritto soggettivo, per avvicinare concettualmente le due figure e dar prova di essere “giudice naturale degli interessi legittimi”, così come il giudice ordinario è “giudice naturale dei diritti soggettivi”[[19]].
Se volessimo poi interrogarci sulla consistenza dell’operazione, dovremmo ricercare le sue radici, chiaramente, non nella giurisprudenza, bensì nella dottrina. «Quand’è che – nel vasto mondo degli interessi che sono prevalentemente interessi di fatto – si è in presenza di un interesse legittimo?»[[20]]. La risposta secondo la quale un interesse è legittimo soltanto se “qualificato” dalla norma, trasferisce il problema sul significato di quest’ultima espressione, la qualificazione.
Secondo M. Nigro, qualificazione normativa si avrebbe «quando (e solo quando) l’ordinamento giuridico conferisce una qualche particolare rilevanza giuridica ad un interesse materiale, quando l’ordinamento giuridico lo prende in considerazione», includendolo «nella norma organizzativa insieme con l’interesse pubblico alla cui soddisfazione è rivolto il potere».
Di conseguenza, «l’individuazione dell’interesse legittimo dev’essere compiuta esclusivamente alla luce della norma regolatrice del potere e delle altre norme che ad essa si collegano», cosicché la qualificazione di “legittimi” compete soltanto agl’interessi materiali che «che il potere amministrativo doveva tenere presenti nel momento del suo esercizio»[21].
In questo modo la tecnica d’individuazione dell’interesse legittimo si coordina, da un lato, con la definizione dell’interesse legittimo in termini di “interesse al bene” e ricalca quindi le coordinate teoriche del diritto soggettivo; su di un altro versante, tuttavia, produce un macroscopico effetto deviante proprio rispetto alla problematica della individuazione del diritto soggettivo: il Consiglio di Stato, nel momento stesso in cui presuppone che gli interessi legittimi meritevoli di tutela siano solo quelli presi in considerazione dalle norme, sta inavvertitamente richiamando la vecchia teoria della “tipicità” dell’illecito civile, il cui carattere precipuo era non distinguere tra la culpa e l’iniuria,assommando quest’ultima «nell’elemento soggettivo e cioè nel fatto colposo, nell’idea che, essendo la colpa la violazione di una norma predisposta a tutela dei diritti dei singoli, solo in presenza di un comportamento colposo poteva darsi la lesione di un diritto e quindi un danno ingiusto»[[22]].
Affermare che gli interessi legittimi tutelabili dalla giurisdizione amministrativa sono solo quelli «che il potere amministrativo doveva tenere presenti nel momento del suo esercizio», perché qualificati dalla «norma regolatrice del potere», mentre gli altri sono interessi di fatto, assimilabili alle generiche aspettative del quivis de populo, è come dire che l’azione di annullamento nel processo amministrativo è ammissibile solo se il ricorrente non si limita ad affermare che il provvedimento impugnato ha leso un suo diritto, ma ha l’onere di chiedere un annullamento colposo, che restringe l’illegittimità entro una precisa sfera d’imputazione. E’ come dire che la lesione dell’interesse legittimo non ha un autonomo elemento d’ingiustizia o di antigiuridicità obbiettiva, riferibile alla lesione in quanto tale (anziché alla sola condotta dell’amministrazione). Ed è come dire che il giudice amministrativo, nella verifica della posizione qualificata necessaria ai fini del ricorso, non ha la stessa capacità (in senso buono) creativa del giudice civile. Ciò che prende consistenza è complessivamente una visione dell’interesse tutelabile, radicalmente antitetica a quella della Cassazione, per cui «Quali siano gli interessi meritevoli di tutela non è possibile stabilirlo a priori»[[23]].
L’atteggiamento divergente del giudice amministrativo rispetto al giudice civile, in punto di legittimazione attiva, non sta quindi solamente sul piano processuale. In dottrina si è puntualmente dato atto che «la legittimazione a ricorrere viene interpretata dalla giurisprudenza amministrativa non come affermazione della titolarità della posizione qualificata necessaria ai fini del ricorso (…), ma come effettiva titolarità di tale posizione»[[24]]. Le differenze con il processo civile si trovano però anche più a fondo, nel modo in cui il giudice amministrativo si rappresenta il concetto di norma, di interesse, di protezione dell’interesse da parte dell’ordinamento giuridico.
3. La teoria dell’Adunanza Plenaria sulla legittimazione ad agire come “titolo, o possibilità giuridica dell’azione” (e i suoi limiti).
La “titolarità” dell’interesse, come situazione acquisita a mezzo di una volontà normativa “qualificante”, è considerata in giurisprudenza tra le condizioni dell’azione di annullamento. Il Consiglio di Stato lo afferma, nelle decisioni sulle controversie in materia di aggiudicazione di contratti pubblici, almeno dall’Adunanza plenaria n. 4 del 2011. Ancor più esplicitamente l’Adunanza Plenaria si è espressa nella sentenza n. 9 del 2014: dove si legge che «l’azione di annullamento davanti al giudice amministrativo è soggetta – sulla falsariga del processo civile – a tre condizioni fondamentali che, valutate in astratto con riferimento alla causa petendi della domanda e non secundum eventum litis, devono sussistere al momento della proposizione della domanda e permanere fino al momento della decisione; tali condizioni sono: I) il c.d. titolo o possibilità giuridica dell’azione – cioè la situazione giuridica soggettiva qualificata in astratto da una norma, ovvero, come altri dice, la legittimazione a ricorrere discendente dalla speciale posizione qualificata del soggetto che lo distingue dal quisque de populo rispetto all’esercizio del potere amministrativo –; II) l’interesse ad agire ex art. 100 c.p.c. (o interesse al ricorso, nel linguaggio corrente del processo amministrativo); III) la legitimatio ad causam (o legittimazione attiva/passiva, discendente dall’affermazione di colui che agisce/resiste in giudizio di essere titolare del rapporto controverso dal lato attivo o passivo)»[[25]].
Rispetto alle caratteristiche di questa mappa concettuale, i problemi non nascono dalle enunciazioni di cui ai punti II (interesse ad agre) e III (legitimatio ad causam). L’azione di annullamento, come tutte le azioni proponibili davanti al giudice amministrativo, non è un’azione popolare. Non lo è, almeno, in quel senso convenzionale del termine popolare, che sottende il potere di agire in giudizio da parte di chiunque; e questo il Consiglio di Stato lo ha sempre tenuto ben fermo. Si ricorderà la celebre sentenza del 1970 in cui furono considerati applicabili i principi sulle condizioni generali dell’azione di annullamento persino di fronte a una disposizione di legge ordinaria che, in materia edilizia, espressamente prevedeva che “chiunque” potesse proporre il ricorso[26]. Oggi peraltro le cose sono ancora più chiare, e basterebbe forse il rinvio esterno di cui all’art. 39 c.p.a., per far ritenere applicabili, nel processo amministrativo, le disposizioni del Codice di procedura civile sull’interesse a ricorrere (art. 100) e sul divieto di far valere in nome proprio un diritto altrui, salvi i casi di sostituzione processuale espressamente previsti dalla legge (art. 81)[[27]].
Tutto ciò, dicevo, non è discutibile; e una grave stortura si produrrebbe, se la porta della giurisdizione amministrativa restasse davvero “aperta a tutti”.
Resta ciononostante da chiarire la fondatezza della “terza condizione” (la prima delle tre enunciate dall’Adunanza plenaria). Nessun dubbio sul fatto che l’interesse legittimo nei confronti della pubblica amministrazione debba essere affermato come interesse fondato su norme giuridiche e che di conseguenza trovi spazio anche nel processo amministrativo, sulla falsariga di ciò che accade nel processo civile, una terza condizione chiamata possibilità giuridica.
Non è la stessa cosa, tuttavia, pretendere che l’interesse legittimo affermato dal ricorrente nei confronti della pubblica amministrazione sia qualificato in astratto da una norma, se si soggiunge, come fa il Consiglio di Stato, l’occorrenza di una speciale posizione qualificata del soggetto che lo distingue dal quisque de populo «rispetto all’esercizio del potere amministrativo».
In tal modo si evoca infatti un criterio diverso, imperniato sul potere della legge e della pubblica amministrazione di determinare direttamente gli interessi coinvolti, e di lasciare il ricorrente inappagato se esce dall’orbita della protezione accordatagli dall’ordinamento; se non “obbedisce”, appunto, alla “teoria della norma di protezione” (Schutznormtheorie).
Tornando, con una rapida mossa d’obiettivo, al caso Randstad, si noterà che il problema della legittimazione venga risolto, dal Consiglio di Stato, con la postulazione di una precedenza tra l’esame dei vizi sollevati dall’operatore economico contro la propria esclusione dalla gara e l’esame dei vizi sollevati invece, dal medesimo soggetto, contro l’aggiudicazione.
Il fondamento di questa pregiudizialità dell’ordine delle censure è presto spiegato: le norme che governano l’ammissione alla gara possono assicurare alla Randstad, attraverso il processo, il “bene della vita”; le norme che disciplinano l’aggiudicazione invece no, essendo state “pensate” per soggetti già ammessi alla valutazione comparativa delle offerte.
Ora si dovrebbe aprire un lungo discorso sull’affidabilità di questa impostazione e – si diceva – dell’ordine concettuale “dogmatico”, che ne è il presupposto.
Ci si può tuttavia limitare qui ad alcune osservazioni, riducibili a tre obiezioni. La prima riguarda la capacità altamente suggestiva, ma scarsamente persuasiva, della Schutznormtherorie, che come tutte le teorie necessita di una giustificazione; tanto più difficile, nel nostro caso, quanto più si pone l’accento sul suo essere fortemente e tradizionalmente relativizzata ai canoni dell’ordinamento tedesco, in particolare all’interpretazione del § 42, comma 2 VwGO[[28]].
Nessun principio del diritto pubblico italiano, né sostanziale, né processuale, autorizza a ritenere che le norme di diritto amministrativo, regolando l’esercizio di un pubblico potere, implicitamente stabiliscano chi sono i loro destinatari, tanto da far ritenere questi ultimi investiti, ad esclusione di altri, del potere di far valere in giudizio la loro violazione[[29]].
Egualmente, non è un assioma, ma solo una tesi, l’idea che la garanzia del diritto di agire dinanzi alla giurisdizione amministrativa abbia, quale logica conseguenza, che al dovere dell’amministrazione di eseguire le legge facciano sempre puntuale riscontro situazioni soggettive di vantaggio del cittadino, non esistendo, si sostiene, doveri propriamente “irrelati”[[30]].
In questa visione geometrica e rigorosamente correlativa dei rapporti giuridici con la pubblica amministrazione, è agevole rilevare i termini di una riproposizione, entro il binomio interesse legittimo-interesse di fatto, della vecchia teoria secondo la quale uno dei caratteri distintivi delle norme giuridiche rispetto a quelle sociali sarebbe dato dalla “bilateralità”, come «simmetrica corrispondenza tra l’obbligo di un soggetto e il diritto (in senso soggettivo, come situazione derivante dal diritto oggettivo) di un altro, sempre e necessariamente risultante dalla norma giuridica».
«Facile, pertanto, e fondato il rilievo, tante volte avanzato a critica di questa tesi, che essa non fa se non ipostatizzare in termini che pretenderebbero avere assoluto valore logico un particolare fenomeno di un particolare e limitato settore dell’esperienza giuridica, qual è appunto il «rapporto giuridico» nel diritto privato, se non addirittura lo schema del rapporto obbligatorio civilistico (esempio paradigmatico: quello tra creditore e debitore)»[[31]].
Come minimo, dunque, l’impostazione del problema della legittimazione in termini di relazioni tra la norma, l’ordinamento, il potere, l’effetto, la protezione degl’interessi, imporrebbe una paziente opera di confronto con un universo teorico assai più ampio e complicato.
Il normativismo d’ispirazione Kelseniana, ad esempio, avrebbe forse non poco dire sulla teoria della qualificazione normativa degli interessi, tutta basata sulla “volontà” del legislatore come criterio di “rilevanza” e quindi schiacciata sul dogma della completezza dell’ordinamento giuridico, che un postulato tipico della teoria “istituzionale” del diritto[[32]].
Comunque sia, e facendo subito ammenda di schematizzazioni in questa sede inevitabilmente inappropriate, l’impressione è che nessuna teoria generale nella sua assolutezza possa valere quale fonte di verità indiscutibili. Assumerne le risultanze a motivo di individuazione dell’interesse legittimo, e, ancor più, quali referenti essenziali dell’accertamento della legittimazione a ricorrere, è una scelta che espone la giurisdizione amministrativa a forti tensioni.
Non si tratta, s’intende, di questione nuova. La riprova la si può avere rileggendo alcune pagine di V.E. Orlando[33], nelle quali, soffermandosi sulla relazione che «deve correre tra la illegalità del provvedimento e la lesione dell’interesse», Orlando considera «affatto ingiustificata» l’impressone che «il far valere, in via di ricorso, una illegalità di un atto amministrativo spetti solo a colui, in difesa del cui interesse era scritta la disposizione di legge che sia assume essere stata violata», perché «l’interesse che rende ammissibile un ricorso in via di giustizia amministrativa verrebbe così ad essere ristretto soltanto a quello riconosciuto e difeso dalla legge in un subbietto determinato; donde la conseguenza che solo questo subietto avrebbe la facoltà di ricorrere». Nell’argomento «tutto speciale del contenzioso amministrativo», conclude Orlando, pur non nascondendosi le gravissime questioni che sorgono quando si tratta di determinare l’indole giuridica della Sezione IV del Consiglio di Stato, «il dire che chi propone ricorso debba averci interesse e che quest’interesse debba essere personale, con esclusione di forme analoghe alle azioni popolari, non implica affatto (…) che fra la lesione dell’interesse e la violazione della legge debba esservi una tale intima correlazione».
Può essere interessante notare altresì la precisazione soggiunta da Orlando, ovverosia che «L’ipotesi di un nesso fra l’interesse che reclama difesa e la norma obiettiva che tale difesa accordi, è necessariamente implicita nell’esercizio di una giurisdizione vera e propria, appunto perché vi si decide di diritti subbiettivi, dove quel nesso è immancabile».
Tanto basta per escludere che possano essere trasportati nell’ambito della giustizia amministrativa «quei principii che ordinano il modo in cui sono riconosciuti e dichiarati i diritti subbiettivi».
«Giurisdizione vera e propria», quella del Consiglio di Stato, lo è poi diventata. Non, però, giurisdizione nella quale «si decide di decide di diritti subiettivi».
Ci si potrebbe allora chiedere, per un verso, se la presunta evoluzione in senso soggettivo della giurisdizione amministrativa giustifichi l’atteggiamento complessivo del Consiglio di Stato, favorevole all’applicazione della teoria della norma di protezione.
Ma, con eguale fondamento e pari “copertura” – anche costituzionale – ci si potrebbe domandare se la mancanza di quel «nesso, tra interesse che reclama difesa e la norma obiettiva che tale difesa accordi», non possa essere visto come uno dei principali elementi caratterizzanti l’autonomia del ricorso giurisdizionale amministrativo rispetto all’azione dinanzi al giudice ordinario.
In fondo, si tratterebbe solo di portare alle logiche conseguenze la ragione che lo stesso Orlando deduceva, ben più ampia della questione sulla natura della Sezione IV del Consiglio di Stato: «mentre è inconcepibile che il medesimodiritto possa competere a più persone, non ripugna affatto che una medesima violazione di legge possa ledere molteplici interessi».
Sulla medesima falsariga, in occasione degli ottant’anni del discorso di S. Spaventa sulla giustizia nell’amministrazione, la denuncia di A.M. Sandulli[34], in difesa degli interessi «sforniti di protezione giuridica», non «presi in speciale considerazione dalle norme», che i meccanismi di accesso al sistema italiano di giustizia amministrativa rendono vittime di una «evidente incongruenza»: «mentre esistono garanzie giurisdizionali idonee ad assicurare l’osservanza del procedimento di nomina di un netturbino o di un becchino del più modesto comune montano, non ne esiste alcuna per assicurare che non venga superata la durata della gestione commissariale». E di seguito – in una sorta di preconizzazione, alla lontana, del caso Randstad – una serie di considerazioni sulla tutela dell’interesse meramente partecipativo rispetto ai concorsi pubblici, elusi dall’amministrazione col meccanismo dalla chiamata diretta, là dove «pur essendo le illegalità di carattere macroscopico, manca (…) la lesione di interessi soggettivi particolarmente qualificati (tali non essendo quelli degli aspiranti a partecipare a un concorso non bandito)». Di qui la correlazione, tratteggiata da Sandulli, tra il potenziamento dell’azione popolare e la «più piena realizzazione dello Stato di diritto».
Allargando poi la prospettiva, non pare difficile rintracciare la medesima istanza garantista, più o meno espressamente enunciata, nello spirito di chi, tra la dottrina, ha esattamente osservato la difficoltà di distinguere, in concreto, la legittimazione dall’interesse al ricorso[[35]].
Di sicuro, questi pochi richiami, volutamente privi di un ordine preciso, dovrebbero essere portati a una ben più articolata analisi, che dimostrerebbe quanto profondamente e costantemente la cultura italiana del diritto pubblico abbia avvertito l’ingiustizia di una troppo razionalizzata riduzione dell’interesse non qualificato a interesse non protetto e “di mero fatto”[[36]].
Quanto detto sin qui sembra però sufficiente alla critica che, in primo luogo, si voleva sollevare: la teoria della norma di protezione non è un coerente sviluppo dell’ordinamento interno, tanto meno dell’ordinamento comunitario; è un esperimento che toglie di peso dalla dottrina tedesca l’interpretazione della norma sul il diritto di ricorrere all’autorità giudiziaria, da parte di chi sia «offeso nei suoi diritti da parte dell’autorità pubblica» (art. 19 comma 4 GG), per farne una chiave di lettura del sistema italiano di tutela degli interessi legittimi (artt. 103 Cost.)[[37]].
Contro la teoria della titolarità come condizione di ammissibilità del ricorso, gioca poi una seconda obiezione d’ordine logico, cui conviene far cenno sommariamente.
È un’obiezione della quale si dà carico lo stesso M. Nigro, la cui dottrina è stata, in questo contributo, oramai più volte richiamata, in funzione per così dire di manifesto della tesi della qualificazione normativa dell’interesse. Se è vero, «in linea di principio», che questa tesi sia «la sola che si accordi» con la nozione d’interesse legittimo come interesse al bene della vita – precisa l’Autore – «non ci si può nascondere la grave difficoltà di riconoscere i casi in cui esiste una qualificazione normativa», giacché, prosegue, citando dottrina tedesca (H. Rupp), «soltanto raramente dalla sola lettura di una legge amministrativa è possibile desumere se la disciplina in essa instaurata abbia per scopo anche la protezione di interessi individuali e quali in concreto siano tali interessi».
In una legislazione amministrativa ancora largamente dominata dalla «concezione obiettiva del principio di legalità», «solo di rado (…) la legge amministrativa regola i conflitti di interesse tra gli amministrati in modo tale che dalla stessa norma o gruppo di norme attributive del potere si posa immediatamente desumere l’esistenza di interessi di specifica rilevanza. (…) Più spesso la legge tace e allora occorre utilizzare elementi indiretti (…), ampliare il campo d’osservazione ricorrendo ad altre norme connesse e utilizzando i princìpi ai quali si ispirano i ‘blocchi normativi’ così formati» – ed è d’attualità, che a questo punto Nigro citi una sentenza del Consiglio di Stato del 1970 in materia di identificazione degli interessi ad opporsi a una licenza edilizia – «ma in tal caso sussiste il problema del modo come vanno formati i blocchi normativi (dove ci si deve fermare nell’opera di ‘aggregare’ alla norma attributiva del potere altre norme?)».
Il problema della «collocazione dell’interesse nel raggio d’azione della norma» resta così irrisolto, aperto a soluzioni empiriche – si può procedere per elementi sintomatici, a volte determinati dallo stesso vantaggio o svantaggio di fatto: «i dubbi spuntano ad ogni momento» – quindi in ultima analisi affidato al ruolo della giurisprudenza, per l’inevitabile arbitrarietà delle soluzioni. Al punto da far dubitare Nigro che soltanto il valore dei diritti propriamente intesi sia veramente «predeterminato dal sistema giuridico in vigore», mentre, all’opposto, l’individuazione dell’interesse sia il risultato di un «giudizio di valore operato dal giudice in ogni caso particolare».
A temperare questa irresolutezza, all’epoca in cui scriveva Nigro, c’era una giurisprudenza amministrativa «di manica larga» (erano gli anni del dibattito sugli interessi diffusi e del caso Italia Nostra); esattamente l’elemento che, via via, è venuto a mancare.
Nei decenni che ci separano da quel tempo e da quel dibattito, inoltre, la legge amministrativa non si è affatto allontanata dalla concezione obiettiva del principio di legalità, quanto meno nel senso di essersi richiamata a un modello organizzativo, per più aspetti ricollegabile ai principi di cui all’art. 97 Cost., dell’amministrazione non mera esecutrice delle leggi.
In un simile contesto, la tesi per cui l’azione di annullamento, nel processo amministrativo, è condizionata alla titolarità dell’interesse qualificato, finisce quindi per sviluppare un modello di giurisdizione amministrativa frequentemente incline a esiti surreali, in cui la giustizia tocca soltanto l’amministrazione a cui nessuno pensa più, quella che può essere «valutata e controllata come se conservasse i caratteri della esecutività»[[38]], protetta dal “cittadino” per mano di un giudice che rifiuta la sua giurisdizione e, così facendo, finisce per porre sotto tutela, piuttosto degli interessi legittimi e del principio di legalità, l’autoritarietà dell’atto illegittimo.
E’ il momento di soggiungere una terza obiezione, che in realtà costituisce il naturale sviluppo della seconda, ma che sembra essere, almeno concettualmente, distinguibile.
Si può tranquillamente fingere che la legge, nel dettare le norme di organizzazione del potere amministrativo, “intenda” proteggere alcuni interessi e non altri.
Si può prendere atto, ad esempio – per stare al caso Randstad – della circostanza che le norme sulla composizione o sul funzionamento della commissione giudicatrice di un appalto pubblico siano emanate in vista della legittimità dell’aggiudicazione, dunque, in questo senso, siano scritte nell’interesse degli offerenti che all’aggiudicazione possono aspirare; non di quelli che, essendo stati o dovendo essere esclusi dalla gara, sono legittimamente fuori gioco.
Ancor più ampiamente, si può dire che, per il giudice amministrativo, sia normale non trovare “identificato”, nelle norme giuridiche evocate dal ricorrente a propria difesa, l’interesse legittimo. Vi si rintraccerà un intento protettivo di interessi astrattamente compartecipi della funzione amministrativa, secondo la norma che il ricorrente assume violata e che, semplificando all’estremo, chiameremo la norma A. Ora il giudice, interpretando la domanda contenuta nel ricorso, potrà dedurre che la norma A non “vuole” tutelare gl’interessi che il ricorrente allega come propri. Si vedrà, se questi sono astrattamente tutelati da norme B, C, D, ecc. Ma non si può negare, intanto, che il ricorrente affermi un bisogno di tutela connesso alla violazione della norma A.
In questo caso – dato per implicito che il ricorrente agisca in nome proprio, affermandosi titolare di un interesse legittimo – potrebbe verificarsi in primo luogo una carenza dell’interesse ad agire (mancanza di utilità pratica o di vantaggio conseguibile da di un’ipotetica sentenza di accoglimento). Se così fosse, palesemente non avrebbe ragione di porsi un problema di individuazione dell’interesse legittimo e di applicazione della teoria della “qualificazione” normativa.
Quando invece l’interesse ad agire sussiste – vale a dire che, dall’osservanza della norma A, un qualche vantaggio il ricorrente lo trae – e tuttavia il giudice amministrativo va oltre, argomentando di una carenza di “mera titolarità” dell’interesse legittimo, in base al fatto che la norma A non lo ha “preso in considerazione”, il giudice amministrativo sta ragionando soprattutto su altre norme (B, C, D, ecc. che invece lo prendono in considerazione), per escludere che queste si possano collocare nel medesimo sistema di cui fa parte la norma A. Non importa sondare quale operazione si compia in questo modo. Di certo non l’interpretazione, in senso proprio, della norma A.
Nel domandarsi quali interessi la norma invocata dal ricorrente abbia voluto tutelare e quali abbia voluto escludere, il giudice amministrativo sta compiendo, beninteso, un’attività di interpretazione, ma non delle norme poste a fondamento del ricorso. Le disposizioni che nel ricorso si affermano violate sono l’oggetto, piuttosto che il parametro, della decisione; decisiva è una regola superiore, diversa da tutte quelle che “qualificano” gli interessi in gioco.
Ci si dovrebbe ora chiedere quale sia questa regola; ma la domanda sarebbe retorica, perché la regola, sul piano normativo positivo, in senso stretto non esiste, è un semplice principio logico, cioè di pura e semplice irrilevanza dell’interesse non protetto[[39]].
Dobbiamo allora concludere che il giudice amministrativo, quando valuta il titolo o possibilità giuridica dell’azione, alla stregua dei principi ribaditi dell’Adunanza plenaria n. 9 del 2014, decide, aprioristicamente, di far dipendere l’ammissibilità del ricorso da un assioma quale è la “volontà” del legislatore, che «serve non tanto per scegliere (in positivo) il significato di una disposizione, quanto piuttosto per scartare (in negativo) altri significati possibili»[[40]].
Sarebbe d’obbligo, se ve ne fosse il modo, proseguire nella critica che si leva contro questo modo di applicare il diritto. Giacché «le autorità normative (…) non hanno una “intenzione” nello stesso senso in cui può averla un individuo»; e l’intenzione delle autorità normative, «se mai esiste una cosa del genere – non è suscettibile di conoscenza empirica: può solo essere oggetto di congetture. Pertanto, l’ascrizione di una intenzione ad una autorità normativa può facilmente essere contestata, e persino squalificata in quanto tale (quale che sia, cioè, l’intenzione ascritta)».
Ci si dovrebbe domandare allora perché il giudice attribuisca un ruolo così trascendentale dell’interpretazione “teleologica”, ritenuta capace di svelare il fine, l’intenzione non semantica, ma pratica, della norma: non “cosa voleva dire”, ma “cosa doveva realizzare”: quali interessi voleva “prendere in considerazione” insieme al dovere dell’amministrazione di eseguire la legge.
Che le norme sull’aggiudicazione dei contratti pubblici abbiano il fine di tutelare gli offerenti ammessi e non quelli esclusi (benché non «definitivamente»); che le norme sull’interdittiva antimafia abbiano il fine di tutelare la società e non gli amministratori responsabili; che le norme sulle distanze tra le costruzioni abbiano il fine di tutelare le proprietà danneggiate, non i diritti di chi è semplicemente vicino: a tutto questo sarebbe agevole replicare che «l’osservanza o l’applicazione di una norma produce normalmente una pluralità di effetti pratici, e ciascuno degli effetti che una norma può produrre può essere considerato come fine della norma in questione»[[41]]. La possibilità di conseguire un risultato utile dall’annullamento, assieme all’affermazione di un interesse fondato su norme, concreto e attuale, non realizza forse già il “fine” della norma?
Ma la verità è che vanum disputare de potestate[42]: il giudice amministrativo, nel disconoscere dignità d’interesse legittimo all’interesse fondato sulla norma A – e nel disconoscerla perché l’interesse non gli appare qualificato dalla norma A – non sta propriamente affermando il contrario di quanto ora osservato. Sta solo dicendo, e ribadendo, che il processo amministrativo è a disposizione delle sole figure soggettive classificate dalle leggi di organizzazione, e che l’interesse legittimo è individuabile solo quale riflesso dell’imperatività o della supremazia speciale della norma.
Il dubbio che, con questo, il giudice amministrativo si stia pronunciando sull’inesistenza della propria potestas iudicandi, non è semplice da rimuovere. Non depone certo in contrario, anzi, il fatto che la giurisprudenza amministrativa, quando constata la carenza di legittimazione, motivi frequentemente la pronuncia di rito (negativa) con argomenti che si rifanno alla natura soggettiva della giurisdizione amministrativa[[43]], la quale non è istituita per garantire l’interesse generale alla legittimità del pubblico potere, bensì per «tutelare la situazione soggettiva del ricorrente»[[44]].
4. Per l’annullamento, ai sensi dell’art. 111 Cost., delle sentenze d’inammissibilità del Consiglio di Stato basate sulla “teoria della norma di protezione”.
Torniamo, per terminare, al nodo del problema. Sta davvero accertando il difetto di una condizione dell’azione, il giudice amministrativo, quando, nonostante il ricorrente affermi di agire per un interesse proprio (art. 81 c.p.c.) e bisognevole di tutela (art. 100 c.p.c.), dichiara il ricorso inammissibile per carenza di “legittimazione”, sulla base di un autonomo accertamento di natura teorico-generale sulla “protezione” di quell’interesse da parte dell’ordinamento?
Certo si può sostenere – e lo si è argomentato, non senza ragione – che la risoluzione della questione della “legittimazione” del ricorrente debba rimanere interna al perimetro del giudice amministrativo e non possa dar luogo a una questione di giurisdizione[[45]].
Nondimeno, su quella “terza condizione” andrebbe svolto un accurato approfondimento. Che essa sia stata assunta dal Consiglio di Stato per finalità di tipo deflativo, o per dare risalto all’idea della giustizia amministrativa “risorsa scarsa”[[46]], è piuttosto evidente, per il fatto stesso che la ricerca del giudice amministrativo sulla ratio legis nelle norme poste a fondamento del ricorso, quando porta all’esito squalificante, si tramuta immediatamente in una pronuncia di rito attestante la sussistenza di una ragione ostativa ad una pronuncia sul merito (art. 35 c.p.a.).
Altrettanto percepibili sono tuttavia le conseguenze: la sproporzionata concentrazione delle energie processuali del giudice amministrativo nella soluzione di questioni di rito; l’uso della figura dell’interesse legittimo in chiave assolutoria per l’amministrazione, giacché per ogni ricorrente che non trova accesso al giudizio di merito, v’è un provvedimento illegittimo che rimane non giustiziato, cosicché a soffrirne è anche il principio di legalità dei poteri amministrativi.
Peggio ancora si dovrebbe dire di quelle “zone franche” ove maggiore dovrebbe essere il controllo giurisdizionale: mi riferisco di nuovo ai casi, e sono molti, in cui la legge non delinea per l’amministrazione uno statuto organizzativo definito, quindi non consente l’emergere di rapporti giuridici e situazioni soggettive di “titolarità” che risultino precisamente correlate al potere.
Non è quindi del tutto ingiustificato ritenere che il giudice amministrativo, quando rivendica una potestà di escursione teorico-generale finalizzata a capire se si è in presenza di un interesse legittimo o di un interesse di fatto, e quando declassa l’interesse (affermato dal ricorrente come legittimo) a interesse del quivis de populo, per mancanza di titolarità, non stia accertando la carenza d’una condizione dell’azione, ma rifiutando la propria giurisdizione[[47]].
Aggiungerei, per inciso, che la disponibilità delle Sezioni Unite a decidere questioni di legittimità dell’interesse come questioni di giurisdizione non è – a parte l’eventum litis – un sovvertimento di schemi consolidati, né corrisponde a una parentesi storica della giurisprudenza della Cassazione. Fatta la debita parte all’importanza della problematica attorno all’interesse diffuso, si ricorderanno, proprio nella stagione del caso Italia Nostra, gli indirizzi (là, favorevoli agli attori) delle Sezioni Unite sulla proponibilità della domanda volta alla tutela del diritto all’ambiente salubre e di altri diritti fondamentali della persona nei confronti della pubblica amministrazione (in un confronto serrato tra il diritto soggettivo e interessi sociali, appunto, non qualificati)[48].
Che si trattasse di “diritto soggettivo” e non di “interesse legittimo”, non cambia il dato fondamentale, cioè la competenza delle Sezioni Unite a riportare nell’alveo delle questioni di giurisdizione profili che attengono alla protezione dell’interesse da parte dell’ordinamento; e forse neppure si può escludere che, sotto le ordinarie questioni di riparto, si siano, più spesso di quanto si possa immaginare, dissimulate questioni di “qualificazione”.
Ciò che, piuttosto, si può prendere a riferimento, è il consolidato indirizzo delle Sezioni Unite per cui, nel sindacato sui imiti esterni della giurisdizione amministrativa, le condizioni dell’azione «sono cosa diversa dalla giurisdizione»; «anche la declaratoria d’inammissibilità della domanda postula l’affermazione implicita del potere giurisdizionale dell’organo che l’ha emessa (…) sicché non costituisce diniego di giurisdizione l’esclusione (…) della legittimazione ad agire»[[49]]. La contestazione della mancata decisione nel merito del ricorso per difetto di legittimazione o interesse ad agire resta insomma nell’ambito degli errores in iudicando, per la Cassazione.
Ma allora è bene chiarire: in iudicando, riferito alle condizioni dell’azione, è l’errore che cade sul profilo del richiedere tutela in nome proprio (legitimatio ad causam) o dell’interesse a ricorrere come conseguimento di un’utilità o di un vantaggio. Forse si può concedere che l’accertamento sul divieto di sostituzione processuale e sul bisogno di tutela dell’interesse debbano sottostare a un giudizio più rigoroso, ritagliato sulle esigenze del processo amministrativo (pressappoco come – anche se può sembrare un paragone azzardato – nel giudizio sulla validità delle leggi si configura il giudizio di rilevanza della questione di costituzionalità sollevata dal giudice a quo, inclusa l’interpretazione che ha permesso alla Corte di aprirsi la strada nelle cosiddette “zone grigie” del sistema).
Comunque sia, la “terza condizione dell’azione”, come la concepisce il Consiglio di Stato, non sembra poter trovare cittadinanza nel sistema italiano di giustizia amministrativa.
Non si sta auspicando qui, beninteso, un meccanico aumento delle sentenze di merito, né una maggiore propensione – fine a sé stessa – a superare i filtri di ammissibilità, come se fosse sempre dovere del giurista predicare in favore di un “allargamento” del canale di accesso alla giustizia da parte del cittadino. Il punto deve restare fermo all’esistenza e all’applicazione delle regole sulle condizioni dell’azione nel processo amministrativo di annullamento.
Ma se intanto le Sezioni Unite incominciassero, a partire dal caso Randstad, a stabilire che, nel giudizio amministrativo, la ricerca del «titolo, o possibilità giuridica dell’azione» non va fatta discriminando tra chi è qualificato e chi è quivis de populo, ma accogliendo un concetto di ingiustizia della lesione ancorato al principio di atipicità degli interessi protetti dall’ordinamento, non vedremmo, a me pare, una “vittoria” della Cassazione[[50]]. Sarebbe un beneficio per il dualismo del sistema italiano di giustizia amministrativa, per l’interesse legittimo, e per lo Stato di diritto: il probabile punto d’inizio di una giurisprudenza del Consiglio di Stato che avrebbe, oltre ai tanti meriti già acquisiti, il pregio di risultare più coerente ai princìpi del nostro ordinamento processuale.
Può darsi poi che l’auspicato abbandono della teoria della titolarità e della qualificazione normativa dell’interesse legittimo richieda un proporzionale incremento di elasticità del giudizio amministrativo, tale da far emergere a posteriori un’esigenza “deflativa”. Qui il discorso dovrebbe risolversi in una disamina ancora diversa, che non può essere utilmente effettuata; ma neppure forse è giusto che lo sia. Sommessamente, verrebbe da osservare, la connessione (pur indubitabile) tra i congegni di deflazione del contenzioso amministrativo e le condizioni dell’azione di annullamento non va supportata oltremisura: a tal fine occorrono strumenti legislativi[[51]], non surrogabili da un’impropria “dogmatizzazione” dei requisiti di ammissibilità del ricorso giurisdizionale.
[1] Argomento che ha riscosso nell’ultimo decennio notevole attenzione, con tesi di differente impostazione (limitandosi ad alcune monografie, C. Cudia, Gli interessi plurisoggettivi tra diritto e processo amministrativo, Rimini, 2012; B. Giliberti, Contributo alla riflessione sulla legittimazione ad agire nel processo amministrativo, Padova, 2020; M. Magri, L’interesse legittimo oltre la teoria generale, Rimini, 2017; S. Mirate, La legittimazione a ricorrere nel processo amministrativo, Milano, 2018; G. Mannucci, La tutela dei terzi nel diritto amministrativo, Rimini, 2016, I. Piazza, L’imparzialità amministrativa come diritto, Rimini, 2021; P.L. Portaluri, La cambiale di Forsthoff, Napoli, 2021).
[2] M. Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna, 1983, 139.
[3] R. Bin, È scoppiata la terza 'guerra tra le Corti'? A proposito del controllo esercitato dalla Corte di Cassazione sui limiti della giurisdizione, in federalismi.it, 18 novembre 2020; A. Carratta, Limiti esterni di giurisdizione e principio di effettività, in Id. (a cura di), Limiti esterni di giurisdizione e diritto europeo, Roma, 2021, 47 ss.; F. Francario, Il pasticciaccio parte terza. Prime considerazioni su Corte di Giustizia UE, 21 dicembre 2021 C-497/20, Randstad Italia spa, in federalismi.it, 9 febbraio 2022; M. Mazzamuto, Il dopo Randstad: se la Cassazione insiste, può sollevarsi un conflitto?, in questa Rivista, 16 marzo 2022; M.A. Sandulli, Guida alla lettura dell’ordinanza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 19598 del 2020, in questa Rivista, 30 novembre 2020; A. Travi, La Cassazione sottopone alla Corte di giustizia il modello italiano di giustizia amministrativa, in Foronews (Foro It.), 12 ottobre 2020;
[4] G. Tropea, l Golem europeo e i «motivi inerenti alla giurisdizione» (Nota a Cass., Sez. un., ord. 18 settembre 2020, n. 19598), in questa Rivista, 7 ottobre 2020; B. Nascimbene, P. IVA, ll rinvio della Corte di Cassazione alla Corte di giustizia: violazioni gravi e manifeste del diritto dell’Unione europea?, in questa Rivista, 24 novembre 2020
[5] G. Tropea, Il ricorso incidentale escludente: illusioni ottiche, in Dir. proc. amm., 2019, 1083 ss.; R. Villata, Ricorso incidentale escludente ed ordine di esame delle questioni. Un dibattito ancora vivo, in Dir. proc. amm., 2012, 1, 363; Id., La (almeno per ora) fine di una lunga marcia (e i possibili effetti in tema di ricorso incidentale escludente nonché di interesse legittimo quale figura centrale del processo amministrativo), in Riv. dir. proc., 2018, 347
[6] F. Francario, Il pasticciaccio parte terza, cit., 8.
[7] R. Rolli e M. Maggiolini, Interdittiva antimafia e legittimazione all’impugnazione. La necessaria partecipazione dei soggetti direttamente coinvolti (nota a Consiglio di Stato Ad. Plen. N. 3/2022), in questa Rivista, 6 aprile 2022.
[8] Cons. St., sez. VI, 14 marzo 2022, n. 1768
[9] TAR Campania, Napoli, sez. VI, 4 giugno 2021, n. 3721.
[10] TAR Lazio, sez. IV, 25 marzo 2022, n. 3381; TAR Lazio, sez. III-ter, 13 settembre 2016, n. 9697.
[11] TAR Lazio, n. 9697 del 2016, cit.
[12] E. Boscolo, Gli interessi legittimi strumentali e la selettività della legittimazione, in Giur. it., 2016, 1216.
[13] Oltre all’insistenza del Consiglio di Stato sulla pregiudizialità dell’esame del ricorso incidentale escludente: quando quel conflitto con il destinatario del provvedimento impugnato non è più virtuale, ma reale.
[14] Cons. St. Ad. plen., 20 gennaio 2020, n. 6.
[15] Considerato cioè, dalla giurisprudenza amministrativa, come concretizzazione episodica di una legge morale che di norma non incontra il riconoscimento da parte del diritto. Le aperture del giudice amministrativo all’interesse morale ricordano da vicino il permesso di «querela» (quella che Kant chiama la «libertà di penna»), alla quale fa tuttavia da contrappunto la mancanza di una facoltà di disobbedire agli atti arbitrari dell’autorità. Si veda in proposito l’acuta osservazione di C. Mezzanotte, Il giudizio sulle leggi. Le ideologie del costituente, Milano, 1979, 2^ ed. Napoli, 2014, 60, secondo il quale, proprio da questa posizione di Kant, si desumerebbe che «già nelle grandi enunciazioni liberali siano presenti in embrione i fondamentali ingredienti di un sistema di giustizia amministrativa a giudice speciale: libetà individuale dei singoli, legalità dell’atto amministrativo, autoritarietà dell’atto illegittimo».
[16] M. Mazzamuto, op. cit., richiamando la tesi di E. Laferrière, Traité de la juridiction administrative et des recours contentieux, II, Paris, Berger-Levrault, 1888, 406. Anche senza negare lo spirito equitativo del Consiglio di Stato, e ferma naturalmente l’esattezza del rilievo di Mazzamuto, sembra doversi riconoscere che l’interesse “strumentale” pone, per ciò che qui si sta cercando di sottolineare, problemi più complessi dell’interesse morale. Quanto si sta per dire invece porta nella direzione opposta alla prospettiva di Mazzamuto, per cui «Uno degli aspetti più preziosi della tradizione graziosa e pretoria della giustizia amministrativa è l’ampiezza degli interessi ammessi alla tutela, rispetto all’elenco più ristretto di interessi giuridicamente rilevanti della tradizione privatistica».
[17] «Un’efficace iperbole per ricordare che, rispetto all’ambiente, per vantare un diritto soggettivo non basta esser persona fisica (…) ma occorre il particolare legame tra l’individuo e l’ambiente che si fonda sulla proprietà», così una nota (anonima, parrebbe) a Cass. civ., sez. I, 29 marzo 1996, n. 2959, in Foro. It., 1996, I, 2422.
[18] F. Francario, Quel pasticciaccio brutto di piazza Cavour, piazza del Quirinale e piazza Capodiferro (la questione di giurisdizione), in questa Rivista, 11 novembre 2020.
[19] F. Francario, op. cit.
[20] M. Nigro, Giustizia amministrativa, cit., 139.
[21] M. Nigro, op. cit., 141
[22] G. Visintini, Atipicità dei fatti illeciti e danno ingiusto, in G. Conte, A. Fusaro, A. Somma, V. Zeno Zencovich (a cura di), Dialoghi con Guido Alpa,un volume offerto in occasione del suo LXXI compleanno, Roma, 2018, 589 ss.
[23] Cass. civ., SS.UU., 22 luglio 1999, n. 591. Sia consentito presumere noto e, limitandoci a questa citazione, omettere una più articolata serie di richiami, che pure sarebbe doverosa, al tema dell’atipicità dell’illecito civile.
[24] A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2021, 200.
[25] F. Saitta, La legittimazione a ricorrere: titolarità o affermazione?, in Dir. pubbl., 2019, 511, ss.
[26] Cons. St., sez. V, 9 giugno 1970, n. 523, in Foro. it., 1970, III, 201 ss. e commento di E. Guicciardi, La sentenza del chiunque, in Giur. it., 1970, III, 193; cfr. più di recente, in argomento, F. Saitta, L’impugnazione del permesso di costruire nell’evoluzione giurisprudenziale: da azione popolare a mero (ed imprecisato) ampliamento della legittimazione a ricorrere, in LexItalia.it, n. 7-8.
[27] Casi, tra l’altro, nient’affatto marginali; V. Cerulli Irelli, Legittimazione “soggettiva” e legittimazione “oggettiva” ad agire nel processo amministrativo, Dir. proc. amm., 2014, 341 ss.
[28] S. Cognetti, Legge amministrazione giudice: Potere amministrativo fra storia e attualità, Torino, 2014, 76; in argomento anche A. Bartolini, Il risarcimento del danno tra giudice comunitario e giudice amministrativo. La nuova tutela del cd. interesse legittimo, Torino, 2005, 225.
[29] Altra questione è che legge abbia il potere di operare questa limitazione, prevedendola espressamente; ipotesi peraltro piuttosto rara (si veda ad esempio l’art. 8 comma 4 legge n. 241 del 1990).
[30] L. Ferrara, Giudizio di ottemperanza e processo di esecuzione, Milano, 2003.
[31] V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, Padova, Cedam, 1970, I, p. 27-29. Vero (ma non rilevante rispetto a quanto si vuole ora far notare) è che la confutazione crisafulliana della tesi della “bilateralità” ammette, in conclusione, che essa esprima «a suo modo, una giusta intuizione del fenomeno giuridico. (…) Ma dire questo equivale a dire, e a confermare, che il diritto è prodotto e condizione della vita associata, dalla più elementare alla più complessa e articolata; che l’esperienza giuridica è, essenzialmente, relazionale, intersoggettiva e dunque sociale».
[32] Per un’articolata speculazione concettuale, sviluppata da un punto di vista sostanzialmente riconducibile a questa impostazione, P.L. Portaluri, La cambiale di Forsthoff, cit.
[33] V.E. Orlando, La giustizia amministrativa, in Id. (a cura di), Primo trattato completo di diritto amministrativo, Milano, 1914, 722-723.
[34] A.M. Sandulli, Per una più piena realizzazione dello Stato di diritto, in Stato sociale, 1960, I, 3 ss., anche in Scritti giuridici, V, Napoli, 1990, 277 ss.
[35] F. Volpe, Norme di azione e norme di relazione, Padova, 2004, 246; R. Villata, Legittimazione processuale – Diritto processuale amministrativo, in Enc. giur., Roma, 1990, vol. XXIV, 5; R. Ferrara, Interesse e legittimazione al ricorso (ricorso giurisdizionale amministrativo), in Digesto disc. pubbl., Torino, 1993, vol. VIII, 468 ss.
[36] La quale, sotto altro aspetto, è forse il risultato di una ipertrofia, se non di una vera e propria eterogenesi dei fini, della concezione soggettiva del processo amministrativo, se non altro in quella sua variabile estremizzata che culmina nel progetto di «liquidare ogni residua istanza oggettivistica dallo studio del processo amministrativo» (A. Piras, Interesse legittimo e giudizio amministrativo, Milano, 1962, 130).
[37] Che poi l’art. 103 Cost. consenta di riassumere nella figura dell’interesse legittimo una polarizzazione assimilabile a quella che contraddistingue la difesa di diritti assoluti nei confronti dell’autorità, è pure discutibile (L. Perfetti, I diritti sociali. Sui diritti fondamentali come esercizio della sovranità popolare, in Dir. pubbl., 2013, p. 61 ss.).
[38] G. Berti, L’interesse diffuso nel diritto amministrativo, in Strumenti per la tutela degli interessi diffusi della collettività, Atti del Convegno nazionale di Bologna, 5 dicembre 1981, Rimini, 1982, 18.
[39] Questi ultimi quattro capoversi (lo si segnala esclusivamente per obblighi di correttezza editoriale) sono tratti da M. Magri, L’interesse legittimo oltre la teoria generale, cit., 62-64.
[40] R. Guastini, Interpretare, costruire argomentare, in osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2015, 11 ss.
[41] R. Guastini, op. cit., 12.
[42] Usiamo liberamente l’espressione di E. Cannada Bartoli, Vanum disputare de potestate: riflessioni sul diritto amministrativo, recentemente citato da F. Francario, Interesse legittimo e giurisdizione amministrativa: la trappola della tutela risarcitoria, in questa Rivista, 24 maggio 2021, anche in Questione Giustizia, n. 1/2021.
[43] In tema, F. Francario, M.A. Sandulli (a cura di), Profili oggettivi e soggettivi della giurisdizione amministrativa. In ricordo di Leopoldo Mazzarolli, Napoli, 2017.
[44] Cons. St., Ad. plen. n. 3 del 2022, cit.
[45] M. Mazzamuto, Il dopo Randstad, cit.
[46] Per un caso emblematico della consapevolezza di questo criterio, v. l’ordinanza di rimessione all’Adunanza Plenaria da parte di Cons. St., sez. IV, ord. 9 febbraio 2022, 945; cfr. Cons. St., Ad. Plen., 24 aprile 2015, n. 5.
[47] A. Travi, I motivi di giurisdizione nell’ordinanza delle Sezioni unite n. 19598/2020, fra ruolo della Cassazione ed esigenze di riforma costituzionale dell’assetto delle giurisdizioni, in A. Carratta (a cura di), Limiti esterni di giurisdizione e diritto europeo, cit., 171.
[48] Cass. civ., SS.UU., 9 marzo 1979, n. 1463, in Foro it., 1979, I, 939, con commenti di C.E. Gallo (ivi, in nota) e G. Berti, In una causa con l’Enel, la Cassazione mette in penombra lo Stato di diritto, ivi, 2909 ss.
[49] Cass. civ. SS.UU., 29 dicembre 2007, n. 31226.
[50] A sua volta, alle prese con questioni vere o presunte di scarsità della “risorsa giustizia” (P. Nappi, Riflessioni sul «rispetto della non illimitata risorsa giustizia» come principio processuale, in Il giusto processo civile, 2021, 659 ss.).
[51] M.A. Sandulli, Le nuove misure di deflazione del contenzioso amministrativo: prevenzione dell’abuso di processo o diniego di giustizia?, in federalismi.it, 24 ottobre 2012.
Processo mediatico e difesa della persona*
di Marco Dell’Utri
L’antropologia culturale invita a considerare la dimensione rituale o sacrale del processo, in cui la violenza del conflitto è sublimata nel linguaggio. Fuori dal contesto spazio-temporale del processo, la violenza del conflitto deflagra, ‘scatenata’, pur conservando la propria intima natura politico-culturale, e diviene, attraverso la progressiva democratizzazione dei nostri sistemi, uno dei capitoli più rilevanti della c.d. ‘società dello spettacolo’.
Il richiamo alla riflessione di Walter Benjamin, sull’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, offre quindi lo spunto per un ripensamento, lungo quelle coordinate, delle forme attraverso le quali la violenza del conflitto processuale diviene, filtrata dalle logiche del capitale, un potente strumento di repressione sociale. Un’operazione a cui è dato rispondere, individualmente, attraverso la rimeditazione, in chiave politica, della protezione dei dati personali e, collettivamente, mediante l’impegno alla trasmissione della cultura come assunzione cosciente di un debito generazionale.
Sommario - 1. Processo, ritualità, violenza. – 2. Processo e riflessione storico-culturale. – 3. Processo, democrazia e società dello spettacolo. – 4. Il processo nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. – 5. Processo, consumo e repressione sociale. – 6. Processo mediatico e trattamento dei dati personali. – 7. Sulla trasmissione della cultura.
1. Processo, ritualità, violenza
La comprensione dei modi attraverso i quali la comunicazione di massa agisce sul processo richiede lo svolgimento di una riflessione di carattere preliminare, destinata a mettere in luce i termini di una struttura processuale essenziale.
Non aiuta, in questo senso, una certa (diffusa) inclinazione ‘produttivistica’ nella considerazione dei temi del processo.
L’accostamento del processo all’idea della ‘produzione’ induce a guardarvi come a un’attività servente o strumentale alla realizzazione di fini ad essa estranei; un impegno vòlto, attraverso la tecnica giudiziaria, al compimento del prodotto, e dunque del giudizio (la decisione, la sentenza), di regola chiamato a tradurre, in termini matematici, uno dei principali indici di misurazione della produttività del giudice.
Un’antica tradizione di origine aristotelica[1] – la cui più recente riscoperta ha costituito un tratto essenziale di gran parte del pensiero etico-politico del Secondo Novecento[2] – invita a distinguere, della vita pratica dell’uomo, l’attività produttiva (la poiesis, governata dalla techne) dalla prassi (la praxis), avente se stessa quale propria finalità: l’attività per cui l’uomo pone la propria stessa azione come oggetto di un percorso di graduale educazione e perfezionamento, attraverso il governo (non già della ‘tecnica’, bensì) della ‘saggezza’ (phronesis).
Produzione e prassi (poiesis e praxis) valgono a distinguersi dunque in ciò, che il sapere teorico generale di cui l’uomo dispone è destinato, nella produzione che si avvale della tecnica (techne), a trasferirsi sulle cose allo scopo di trasformarle in conformità ad esso; per cui il prodotto, come fine di per sé estraneo all’attività produttiva, diviene lo specchio (o, meglio uno specchio) concretizzato del sapere teorico.
Nel caso della prassi, governata dai canoni della saggezza (phronesis), il sapere teorico generale è viceversa chiamato a combinarsi o a ‘contaminarsi’ con la realtà, con le circostanze e le vicende del mondo, affinché sappia modificarle, ma insieme anche lasciarsene modificare, sì da dar luogo a una nuova forma di sapere capace, con saggezza, di coniugare, e tenere insieme, il generale e il particolare.
Seguendo il filo di queste linee argomentative, alla descrizione dell’attività processuale sembra dunque convenire la qualificazione nei termini di una prassi, ossia di una specifica attività pratica, governata dalla saggezza, che ha fine in sé stessa.
Ogni atto del processo è il giudizio stesso (in taluni contesti, ‘processo’ e ‘giudizio’ sono usati come sinonimi): in realtà, il processo è il giudizio che si va facendo in un tempo e in un luogo determinati, in una dimensione spazio-temporale specificamente qualificata.
È determinante la comprensione della circostanza per cui lo spazio e il tempo giocano un ruolo costitutivo essenziale per la formazione e la realizzazione del processo: fuori da un certo spazio e da un certo tempo non si dà alcun processo, né alcun giudizio.
Il riferimento allo spazio e al tempo del processo non è qui (tanto) inteso nel senso in cui l’essenzialità del luogo compare nella norma costituzionale sulla ‘naturalità’ del giudice (art. 25 Cost.), o nelle norme sulla competenza o nell’istituto della rimessione o del c.d. legittimo sospetto (art. 45 c.p.p.).
Il richiamo alla dimensione spazio-temporale del processo è piuttosto operato, ai fini del discorso che si conduce, in relazione alla singolare concretezza dell’udienza, intesa come spazio strutturato nelle forme di un particolare arredamento e destinato ad essere vissuto in uno specifico tempo, che è il tempo della presenza di soggetti che convengono ed agiscono in una forma regolata.[3]
L’accentuata valenza simbolica della fenomenologia giudiziaria ci avverte che il processo regolato dalla legge è un evento che accade, propriamente, nel luogo e nel tempo di un ‘rito’: la dimensione ‘rituale’ dell’attività giudiziaria (di ‘rito civile’ o di ‘rito penale’ discorrono, di regola, gli studiosi del processo) rivela (secondo quanto insegna da sempre l’antropologia culturale) le forme di quell’essenziale (e irrinunciabile) meccanismo di trasformazione, in simbolo, della violenza del conflitto: in breve, il processo opera la sublimazione e l’addomesticamento della violenza in linguaggio.
In un recente libro sulle ‘storie e le immagini del processo’ (scritto, nel quadro dell’esperienza di studi del c.d. Law and Literature Movement, da uno studioso del processo civile italiano) si legge come costituisca «un dato acquisito all’antropologia culturale e giuridica, la propensione di ogni collettività organizzata a risolvere le liti tra i consociati, e a gestire le reazioni ai comportamenti antisociali, trasferendo le une e le altre in una dimensione metaforica e in un mondo artificiale strutturato, sotto ogni aspetto rilevante, come un dopo una gara. E si potrebbe dire che proprio questa, nelle cosiddette società primitive, è l’origine del processo: il quale consiste fondamentalmente nell’utilizzare una struttura ludica agonistica (che, come tale, sarebbe fine a sé stessa) in funzione della composizione di controversie e affari reali, cioè per attuare finalità socialmente ed economicamente rilevanti».[4]
Questo addomesticamento del conflitto e della violenza in linguaggio trova un suo corrispettivo, nel processo, nella cura delle parole e dei ragionamenti, nella meticolosa e tradizionale abitudine del ceto dei giuristi di lavorare sulla parola, sul senso logico delle proposizioni e delle argomentazioni e, infine, sul rigore che lega il senso di queste argomentazioni al conforto delle evidenze obiettive, delle prove, che si formano nello stesso processo.
La formalizzazione in rito della violenza del conflitto rende l’accadimento del processo un evento ‘grave’, a cui si addice la ‘gravità’ del tono dei partecipanti; è un evento che vive della strutturale ‘pesantezza’ della materialità dei gesti ripetuti e delle parole performative, ossia delle parole che non sono primariamente destinate a comunicare un significato, bensì direttamente a cambiare le cose, a fare, foucaultianamente, ‘cose con parole’.
La strutturale gravità, la pesantezza, spesso l’incomprensibilità, per i laici, del processo, nella ritualità delle sue forme, ci presenta i tratti di una rappresentazione che, fuori dai suoi momenti di maggiore pregnanza emotiva (l’assunzione di una particolare testimonianza; l’atto della lettura del dispositivo) diviene financo noioso.
2. Processo e riflessione storico-culturale
Ma il processo è anche il simbolo di una società che riflette sui suoi valori.
Il riferimento corre in primo luogo, come può intuirsi, alla narrazione evangelica del giudizio di Pilato e del Crucifige popolare.[5] E, prima ancora, all’esperienza di Socrate, primo drammatico atto di un confronto, quello tra le esigenze realistiche della politica e i più larghi orizzonti della cultura, tragicamente consumato lungo il ‘dialogo’ del processo ateniese.[6]
All’esperienza del ‘giudizio’ e del ‘processo’ fu quindi successivamente legata la difesa di quella cultura che la Chiesa aveva lungamente elaborato, conservato e diffuso nei secoli interminabili della clausura monastica e della successiva organizzazione universitaria.
La storia dell’intolleranza e la lunga stagione delle guerre di religione, che tanta parte avrebbero avuto nel disegno dei confini europei, non solo politici, toccano e attraversano la vicenda giudiziaria dell’Inquisizione, consegnando all’orizzonte della ricognizione storica la testimonianza di significative esperienze giudiziarie, di cui gli esempi di ‘intellettuali’ come Tommaso Campanella o Giordano Bruno costituiscono una fedele attestazione.
Nel medesimo arco di tempo, ma nel contesto di un’esperienza storica e culturale del tutto diversa, si collocano le vicende della condanna subita da Tommaso Moro[7], cui occorre risalire per la ricostruzione dei momenti determinanti del processo di consolidamento dell’autonomia politica britannica e della tradizione ecclesiastica anglicana.
Di un altro celebre ‘processo’ - violentemente condotto ed amaramente concluso con il rinnegamento e l’umiliante abiura galileiana – occorre dire, là dove l’esempio di un contesto giudiziario impaziente, ed insofferente al dialogo scevro da pregiudizi, assurge a simbolo del contrasto irriducibile e dell’insanabile conflitto tra il dogmatismo religioso e le orgogliose pretese del pensiero scientifico nascente.
È ancora la sommarietà del processo e, simbolicamente, i suoi terribili strumenti di esecuzione, ad occupare la scena sanguinosa della stagione del ‘Terrore’ e dell’intransigenza giacobina, nel quadro di quella trasfigurazione radicale che fu la rivoluzione borghese, sul piano della riorganizzazione politica, del risveglio delle coscienze popolari, della prima stagione europea della costituzionalizzazione dei ‘diritti naturali’, che solo pochi anni prima aveva conosciuto, sul suolo nordamericano, il proprio battesimo storico.
La rapida ricognizione (evidentemente incompleta, e certamente suscettibile di arricchimenti non meno significativi), intessuta di momenti così cruciali della storia del pensiero e della cultura occidentale, nel loro incontro con il luogo del processo ed, alla fin fine, con il loro ‘giudice’ (dove questi - lungi dall’identificarsi con l’individualità della sua persona - appare più spesso intuito come l’espressione soggettiva della cultura del proprio tempo), invita a riflettere sul dato, storicamente ricorrente, costituito dall’esigenza, talora dalla tentazione irresistibile, del potere, di ricorrere all’organizzazione del ‘giudizio’, ed alla elaborazione dialettica del confronto, là dove le urgenze della storia impongono la necessità di una possibile conferma dell’esistente (talora trepidamente cercata, più spesso violentemente imposta), ovvero la disponibilità all’umile ricezione ed al successivo consolidamento di un ‘nuovo’ pensiero.
In ogni caso, il ricorso al processo appare storicamente alimentato (a fronte dell’incessante violazione dell’ordine costituito) da una continua tensione, connaturata al sistema politico, di ‘ricapitolazione’ del ‘senso’ dei propri valori (normativamente espressi); degli stessi disponendo, di volta in volta, la conferma, la revisione, l’aggiornamento, l’annuncio della caduta, sulla via di una possibile, ma sempre precaria ed incerta, ‘stabilizzazione’.[8]
Dunque, ogni società organizza il suo processo come luogo che è, accanto ed oltre al giudizio sui fatti, anche una forma di laboratorio culturale ed etico-politico.
La valenza politica del processo richiede che del processo socialmente si parli e che del processo si dia notizia; che lo si ponga a oggetto di discussione e su cui sia opportuno si formino opinioni.
A testimonianza di questa osservazione varrà richiamare il contributo fornito dalla storia della cultura, là dove ci insegna come la figura moderna dell’intellettuale sia nata e si sia affermata, in corrispondenza al cosiddetto affaire Dreyfus, ai margini di un processo giudiziario.[9]
Il significato e il valore di quella vicenda chiedono d’essere ricercati nella rottura (che il J’accuse di Zola ebbe plasticamente e clamorosamente a rappresentare) degli argini politico-istituzionali, entro i cui confini una lunga tradizione politica e culturale aveva rinchiuso la ricerca ‘dialettica’ di quella ‘stabilizzazione culturale’ che il processo aveva, talora, simbolicamente rappresentato, e le clausure dell’accademia garantito, nel segno di una riconoscibile vocazione elitaria della cultura.
Nell’ambito di quell’esperienza occasionata dal processo, la ‘pubblicizzazione’ e la diffusione popolare del dialogo sui temi di più rilevante impegno etico politico e sociale, ad opera dei più noti scrittori e ‘intellettuali’ del tempo, valsero a segnalare l’esigenza - ormai non più eludibile - di una più larga ‘partecipazione’ collettiva ai processi di formazione e di consolidamento dell’ancora incompiuta e balbettante democrazia francese, nel passaggio tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del secolo appena trascorso.
Tradotta nei termini di un discorso storicamente e culturalmente più impegnativo, la notazione assume un suo preciso valore ove si connettano il piano del coinvolgimento politico dell’intellettuale e del pubblico esercizio critico sui temi connessi all’attualità, a quello dell’allargamento degli spazi di partecipazione politica delle masse; là dove il dibattito suscitato dall’homme de lettre nell’ambito più vasto dell’‘opinione pubblica’, sottraendo l’esclusività della funzione di ‘laboratorio morale’ della comunità alle clausure dell’accademia, si offre quale occasione di approfondimento della partecipazione democratica collettiva.
In questo senso, l’orientamento repressivo rivelato dalle esperienze processuali più sopra ricordate, fino al tornante della Rivoluzione francese, tende ad attenuarsi e a stemperarsi nella progressiva realizzazione delle garanzie di libertà e di rispetto della persona implicate dall’organizzazione delle moderne entità statuali. In queste, la stessa esigenza (più o meno avvertita nel tempo e nello spazio) della preservazione dell’autonomia e dell’indipendenza del potere giudiziario da quello politico pone le premesse di una progressiva trasformazione dell’attività giudiziaria, là dove il processo ‘democratico’ tende a divenire, da ‘luogo’ della repressione formalizzata, lo ‘spazio’ delle ‘ragioni degli altri’ nell’interpretazione dei valori comuni.
Uno spazio che acquista il suo senso financo nell’ascolto, solo apparentemente paradossale, che si fa dolente comprensione dell’inaccettabile inclinazione al Male degli uomini condotti al crocevia di Norimberga.
3. Processo, democrazia e società dello spettacolo
Rinunciare all’apertura pubblica dei processi, al valore democratico della partecipazione popolare ai temi processuali, significherebbe ormai, nel contesto della cultura contemporanea, rinnegare i presupposti di un percorso di civiltà politica e culturale.
È sufficiente, a voler esemplificare il significato di simili asserzioni, l’osservazione delle più recenti vicende politiche internazionali e, in particolare, le notizie sul divieto diffuso in Turchia (non solo di riprendere attraverso telecamere o macchine fotografiche, bensì) di disegnare durante i processi: un fatto destinato a fornire una spiegazione molto eloquente sull’essenzialità, in chiave democratica, della comunicazione delle stesse immagini del processo.[10]
Il modo attraverso il quale il processo viene comunicato pubblicamente è, nel nostro tempo, quello che (occorre dire, strutturalmente, e quindi inevitabilmente) ha finto col provocare l’inevitabile e progressiva (ma in larga misura, già compiuta) ‘desacralizzazione’ degli atti della giustizia.
Si tratta di un’operazione che può ritenersi il portato proprio della società dello spettacolo, di quella società che lo stesso Guy Debord aveva definito, negli anni Sessanta, come la società in cui i rapporti tra gli individui sono mediati da immagini.[11]
Il processo di desacralizzazione degli atti della giustizia (che, in ultima analisi, si traduce nella sottrazione del processo alla sua materia sacrale, ossia al suo specifico luogo fisico e al tempo storico della ‘presenza’ infungibile dei suoi attori), avviene dunque attraverso la mediazione dell’immagine del processo.
Si tratta, tuttavia, di un’immagine che, per poter essere veicolata socialmente, per poter catturare l’attenzione e dunque l’interesse dei suoi destinatari, richiede di essere filtrata, manipolata, spogliata di tutti i suoi vestimenti rituali che la rendono grave, pesante, noiosa e incomprensibile, per sottoporla a un processo di semplificazione, di adattamento al consumo, e dunque a quel confezionamento che è esattamente il prodotto circolante nell’industria mass-mediatica.
Naturalmente, si tratta di prodotti di varia natura e di diversa destinazione, poiché l’adattamento del processo alle esigenze della comunicazione di massa cambia a seconda dello scopo della comunicazione: dall’informazione in sé (un telegiornale o un rotocalco di approfondimento civile o politico), alla rappresentazione del processo come forma di spettacolo.
Si tratta di operazioni che, in termini strettamente industriali, vanno da una minore ‘raffinazione’ (secondo lo stile, ad esempio, di un programma come Un giorno in pretura, in cui le fasi del processo vengono riprese e riproposte in modo diretto, sia pure attraverso un lavoro di taglio e di rimontaggio guidato dalle spiegazioni della conduttrice), ad altre forme assai più elaborate, in chiave produttiva, in cui, per lo più a fini di intrattenimento (o di infotainment, secondo il neologismo che designa il progetto di mescolare, in un unico contenitore, informazione e intrattenimento), si tenta di ‘ripetere’ o di ‘rifare’ il processo attraverso il ricorso ad altre forme ed altri strumenti.
In ogni caso, si tratta di trasformare il processo in ‘qualcosa’ di sostanzialmente diverso dal processo, poiché quel ‘qualcosa’, strappando il processo al suo tempo e al suo spazio, ne ha disincarnato l’essenza.
È agevole comprendere questo aspetto di disincarnazione del processo dalla sua ‘essenza sacrale’ attraverso l’evocazione di quelle situazioni in cui, ad esempio, un testimone o la vittima di un determinato reato (si pensi a una violenza sessuale, o anche alla richiesta di rievocazione di momenti particolarmente dolorosi per chi è chiamato a narrarli) viene chiamato dal giudice ad ‘entrare nei particolari’, a precisare la descrizione di momenti o situazioni peculiari, talora vincendo o superando le comprensibili resistenze, i pudori e a volte la stessa sorpresa del proprio interlocutore, impreparato a entrare, pubblicamente, in un discorso per definizione ‘osceno’.
L’oscenità di cui si parla è qui intesa nel senso di ciò che, per consuetudine, dovrebbe rimanere lontano dallo sguardo, e la cui esibizione rimanda con immediatezza a una sensazione di violenza, naturalmente connessa alla sua immagine. Qualcosa che per sussistere necessita dell’oscurità e del silenzio come del suo ambiente naturale; che, se esibita impudicamente, non può che veder compromessa e corrotta la propria natura. Vi sono sguardi che bruciano ciò che vedono e rispetto ai quali il pudore ha il senso di una difesa essenziale.[12]
Quei precisi e delicati momenti del processo (di per sé destinati a contribuire alla ricostruzione dei fatti, solo in questa misura giustificando il potere del giudice o dei difensori di entrare in una sfera altrimenti inaccessibile) diviene, in quel ‘qualcosa’ che è l’immagine spettacolare del processo, pettegolezzo, irriverenza, simulacro di un’autorizzazione all’invasione della vita e dei sentimenti altrui, al solo scopo di un compiacimento fine a se stesso (ossia di un puro consumo a fini di evasione). Diventa violenza nuda.
Questa specifica disincarnazione del processo dalla sua essenza di frammento spazio-temporale (ossia di un fenomeno che ha un senso solo nel luogo e nello spazio che lo ospita e nella ‘presenza’ formalizzata dei suoi attori) determina, come fatto più grave (sotto il profilo del rispetto della persona), la spoliazione di tutti i protagonisti del processo della loro ‘veste’ processuale, e dunque del loro valore di protagonisti di un rituale di esorcizzazione della violenza che, non più sublimata nel linguaggio e nelle forme della sua rappresentazione simbolica, si ‘scatena’ in tutta la sua cruda naturalità e chiede di parteciparvi.
Il grumo di violenza ritualizzata in cui consiste il processo assume, fuori dalle sue forme regolate, la fisionomia della violenza ‘scatenata’, del conflitto senza limiti. Si tratta della rappresentazione per immagini della pura aggressività in cui la richiesta di partecipazione è, propriamente, quella che invita a ‘schierarsi’ secondo la variabile configurazione delle tonalità emotive che (inevitabilmente) prevalgono sul distacco del pensiero logico-critico.
Il disvelamento della violenza del processo al di fuori dei suoi confini rituali porta con sé la conseguenza per cui ogni sofferenza e ogni debolezza personale (nessuna esclusa, dalla sofferenza della vittima colpita nella sua intimità, a quella dell'imputato spogliato di ogni sua riservatezza, a quelle degli stessi professionisti, i difensori o il giudice, inevitabilmente soggetti a errori, a cadute o insufficienze) si trova adesso gettata, nuda e indifesa, in un ruolo di protagonista di un fenomeno (l'immagine circolante del processo) naturalmente violento, totalmente governato dagli obiettivi e dagli interessi dei suoi produttori, ossia degli ‘editori’ dello ‘spettacolo-giustizia’.[13]
Converrà ammonire come i fenomeni descritti non vadano necessariamente ascritti all’espressione di una scelta di tipo banalmente speculativo, trattandosi di epifenomeni strutturali tipici dei modelli di società, come la nostra, che organizza le forme della produzione secondo una struttura di tipo capitalistico, e che si avvale di elevati livelli di sofisticazione tecnologica nelle modalità della comunicazione in un contesto politico di tipo democratico.
La natura strutturale e, dunque, il carattere inevitabile del fenomeno legato alla produzione delle immagini del processo destituisce di qualunque significato ogni eventuale scopo politico destinato a combatterlo o ad eliminarlo; una simile opzione, infatti, equivarrebbe a negare, e in qualche misura a tradire, il senso stesso delle radici di quella stessa cultura civile e democratica, lungamente costruita e faticosamente realizzata nel tempo.
Assume piuttosto valore, da questa prospettiva, l’analisi del senso di tale sviluppo storico e l’indicazione delle tracce che valgano a prefigurare una possibile combinazione tra la necessità sociale del processo e l’inclinazione strutturale alla pervasività propria della comunicazione di massa.
4. Il processo nell’epoca della sua riproducibilità tecnica
Nel corso della seconda metà degli anni Trenta, Walter Benjamin scrisse il saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica[14], ponendosi l’obiettivo di analizzare – nei termini di un’argomentazione largamente dominata da premesse teoriche d’indole marxiana – il destino dell’opera d’arte, e dell’esperienza della sua fruizione, nel tempo governato dall’operatività di strumenti tecnologici idonei ad assicurare la riproducibilità di quell’opera in forme materiali concretamente capaci di raggiungere un numero illimitato di fruitori.
Là dove, in precedenza, l’esperienza contemplativa legata all’ascolto di un concerto, o alla visione di un quadro, di una statua, di una rappresentazione teatrale, esigeva la contemporanea presenza dell’opera, dei suoi esecutori e del fruitore in un medesimo contesto spazio-temporale (la sala del concerto, il museo espositivo, il teatro), adesso il disco, la fotografia o il film, valgono a ricostruire in modo totalmente sovvertito le modalità del contatto del singolo fruitore con l’opera (o, meglio, con la sua riproduzione) in una forma totalmente dislocata nello spazio e nel tempo, in un luogo privato e in un momento arbitrariamente prescelto, dove l’esperienza contemplativa, totalmente allontanata dalla materialità o dalla concreta ‘presenza’ dell’originale dell’opera, assume connotati che s’intuiscono radicalmente sovvertiti.
Anche “nel caso della riproduzione più perfetta, manca un elemento: l’hic et nunc dell’opera d’arte - la sua esistenza unica è irripetibile nel luogo in cui si trova”.[15]
Le modificazioni delle circostanze indotte dalla riproduzione tecnica dell’opera “possono anche lasciare intatta la consistenza intrinseca dell’opera d’arte - ma in ogni modo determinano la svalutazione del suo hic et nunc” e, dunque, “la sua autenticità. L’autenticità di una cosa è la quintessenza di tutto ciò che, fin dall’origine di essa, può venir tramandato, dalla sua durata materiale al suo carattere di testimonianza storica. Poiché quest’ultima è fondata sulla prima, nella riproduzione, in cui la prima è sottratta all’uomo, vacilla anche la seconda, il carattere di testimonianza storica della cosa. Certo, soltanto questa; ma ciò che così prende a vacillare è precisamente l’autorità della cosa, il suo peso tradizionale. Questi tratti distintivi possono essere riassunti nella nozione di aura; e si può dire: ciò che viene meno nell’epoca della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte è la sua aura”.[16]
La tecnica della riproduzione “sottrae il riprodotto all’ambito della tradizione. Moltiplicando la riproduzione, al posto del suo esserci unico essa pone il suo esserci in massa. E permettendo alla riproduzione di venire incontro a colui che ne fruisce nella sua particolare situazione, attualizza il riprodotto. Ma il significato sociale, anche nella sua forma più positiva, e anzi proprio in questa, non è pensabile senza quella distruttiva, catartica: la liquidazione del valore tradizionale dell’eredità culturale”.[17]
All’interrogativo su cosa sia l’aura in realtà, Benjamin risponde: “una singolare creazione spazio-temporale: apparizione unica di una lontananza, per quanto questa possa essere vicina. Seguire, in un pomeriggio d’estate, una catena di monti all’orizzonte oppure un ramo che getta la sua ombra su colui che si riposa - ciò significa respirare l’aura di quelle montagne, di quel ramo. Sulla base di questa descrizione è facile comprendere il condizionamento sociale dell’attuale decadenza dell’aura. Essa si fonda su due circostanze, entrambe connesse con la crescente importanza delle masse e la crescente intensità dei loro movimenti. E cioè: rendere le cose, spazialmente e umanamente, ‘più vicine’ è per le masse attuali un’esigenza vivissima, quanto la tendenza al superamento dell’unicità di qualunque dato mediante la ricezione della sua riproduzione. Ogni giorno si fa valere in modo sempre più della sua riproduzione”.[18]
L’aspetto positivo dell’universalizzazione dell’esperienza dell’arte attraverso la sua riproduzione tecnica è rappresentato, per Benjamin, dalla politicizzazione della sua essenza che sancisce la fine della sua autorità sacrale e metafisica: “per la prima volta nella storia del mondo la riproducibilità tecnica dell’opera d’arte emancipa quest’ultima dalla sua esistenza parassitaria nell’ambito del rituale. In misura sempre maggiore l’opera d’arte riprodotta diventa la riproduzione di un’opera d’arte predisposta alla riproducibilità. Di una pellicola fotografica, per esempio, è possibile tutta una serie di copie; chiedersi quale sia la copia autentica non ha senso. Ma nell'istante in cui nella produzione dell’arte viene meno il criterio dell’autenticità, si trasforma anche l’intera funzione dell’arte. Al posto della sua fondazione nel rituale s’instaura la fondazione su un’altra prassi: vale a dire il suo fondarsi sulla politica”.[19]
5. Processo, consumo e repressione sociale
Il lettore avrà agevolmente compreso lo stretto nesso di corrispondenza analogica che si è inteso istituire, attraverso la riflessione di Walter Benjamin, tra l’esperienza ‘auratica’ dell’opera d’arte e la partecipazione al processo giudiziario nella forma della ‘presenza’, e dunque secondo la sua dimensione propriamente sacrale o rituale.
Converrà seguire sin nelle sue più profonde implicazioni il significato della sostanziale sovrapponibilità dei processi storico-culturali che hanno progressivamente trasformato, attraverso la moltiplicazione e la diffusione delle relative immagini, l’aspetto sacrale e autoritario – e dunque l’aura – dell’opera d’arte (e del processo giudiziario) in un rapporto di massa.
La dissacrazione e la destituzione dell’autorità auratica hanno senso, sul piano storico-culturale, unicamente là dove la riproduzione e la diffusione dell’immagine a beneficio delle masse riesca nell’intento di realizzare il proprio scopo specificamente politico; ciò che si traduce nell’estensione della partecipazione democratica, tanto nei confronti dell’esperienza estetica, quanto della riflessione collettiva sul processo giudiziario come momento di rielaborazione storico-culturale.
Ma in una società in cui i rapporti tra i singoli appaiono largamente informati, o compromessi, dagli interessi del profitto, la strumentalizzazione a fini commerciali dell’immagine dell’opera (o del processo) finirà con lo sterilizzarne la dimensione propriamente politica, frustrandone definitivamente gli scopi, con la realizzazione del vantaggio (commerciale) di pochi e la negazione dell’accesso della massa al senso proprio dell’opera come forma comunicativa, o del processo come laboratorio etico-politico.
Con specifico riferimento all’esperienza cinematografica, Benjamin osserva come il controllo della dimensione politica di quella forma comunicativa potrà aver luogo unicamente “quando il cinema si sarà liberato dalle catene del suo sfruttamento capitalistico. Infatti, attraverso il capitale cinematografico le opportunità rivoluzionarie di questo controllo vengono trasformate in controrivoluzionarie. Il culto del divo da esso promosso, non solo conserva quella magia della personalità che già da tempo è ridotta alla magia fasulla propria del suo carattere di merce, ma il suo complemento, il culto del pubblico, contemporaneamente promuove quella corruzione dello stato d’animo della massa che il fascismo cerca di mettere al posto della coscienza di classe. […] In questa situazione, l’industria cinematografica ha tutto l’interesse a imbrigliare, mediante rappresentazioni illusionistiche e mediante ambigue speculazioni, la partecipazione delle masse. […] L’industria cinematografica ha tutto l’interesse a pungolare la partecipazione delle masse attraverso ambigue speculazioni. A tale scopo ha messo in movimento un imponente apparato pubblicistico: ha messo al suo servizio la carriera e la vita amorosa dei divi, ha organizzato plebisciti, ha indetto concorsi di bellezza. Tutto questo al fine di falsare, per via corruttiva, l’originario e giustificato interesse delle masse per il cinema, un interesse per la conoscenza di sé e pertanto anche per la conoscenza della propria classe. […] Un bisogno innegabile di nuove condizioni sociali viene segretamente sfruttato nell’interesse di una minoranza possidente”.[20]
Commercializzare la circolazione dell’immagine del processo assume dunque il significato della frustrazione dei suoi contenuti politici, per enfatizzarne la dimensione meramente emotiva, attirando le masse su ciò che ne deprime le capacità di crescita morale e culturale, e rafforzandone gli aspetti di strutturale debolezza istintiva.
Si tratta di un’operazione che si risolve in una grave forma di repressione collettiva (storicamente qualificabile in chiave tradizionalista o reazionaria): la trasformazione di un’esperienza politica in una forma di evasione e, dunque, a sua volta, la canalizzazione di energie politiche di natura critica in soluzioni di continuità comunicativa destinate a dissolvere le spinte del desiderio collettivo in singoli gesti di puro consumo.
6. Processo mediatico e trattamento dei dati personali
Le riflessioni sin qui rapidamente raccolte sembrano suggerire la necessità di orientare la difesa del processo attraverso la preliminare demistificazione di ogni forma di riproduzione mediatica che, lungi dal proporre costruttivamente una sincera discussione collettiva sul significato del conflitto che si muove all’interno del processo, si risolve tutt’al contrario, in una sterile riproduzione, fine a se stessa, della violenza di quel conflitto nella sua cruda immediatezza, spogliata di ogni forma di sublimazione simbolica.
Da questa prospettiva, si tratterebbe preliminarmente di consolidare, quando non di promuovere, le forme (più o meno) istituzionalizzate di pedagogia deontologica e culturale dei protagonisti del processo, ivi compresi i professionisti della comunicazione mediatica, affinché sappiano comprendere, in ciò di cui il processo si sostanzia, il distinto significato della dimensione politica del conflitto, rispetto a tutto ciò che è meramente privato o incidentale; gli aspetti o i contenuti critico-dialettici del processo (sotto il profilo del significato e del valore delle regole in cui la comunità intende ancora riconoscersi o non riesce più a identificarsi), rispetto alla dimensione della vita meramente personale che, al di fuori dello stretto circuito dell’indagine o del processo, non può e non deve destare o alimentare alcuna diversa forma di curiosità.
Seguendo la prospettiva della difesa della persona, il limite che occorre saper rinvenire, tra le prerogative della comunicazione di massa riferita al processo, sembra dunque identificarsi nel principio per cui deve ritenersi sottratto, alla legittimazione della partecipazione collettiva (di massa) al processo, ogni aspetto della vicenda processuale che, superando i confini di quel campo critico-dialettico rilevante sotto il profilo etico-politico, si insinua negli spazi squisitamente privati e personali dei protagonisti del processo; spazi che, se eccezionalmente si giustificano in ragione delle esigenze ricostruttive del giudizio, fuori da quello finirebbero col costringere i suoi protagonisti ad agire su un territorio che ad essi non può, né deve, appartenere.
Converrà sottolineare come non si tratti qui di proporre una selezione a priori degli argomenti destinati a entrare nel campo della legittima discussione pubblica del processo (un discorso difficile o delicato da condurre in relazione alla pienezza della libertà di manifestazione del pensiero, nella sua dimensione di cronaca o di critica dei fatti della vita sociale), quanto piuttosto di procedere a uno studio accurato della disciplina che attiene al governo e alla protezione dei dati personali che, acquisiti dal (e nel) processo, vengono variamente trattati dai diversi agenti della comunicazione mediatica.
L’attitudine propria del sistema della protezione dei dati personali (secondo lo stile della disciplina che la codificazione italiana ha recepito dall’originaria normativa europea e ancora di recente rivisitata in una chiave di armonizzazione continentale[21]) è quella del continuo e necessario ‘bilanciamento concreto’ tra prerogative o interessi in conflitto; da questo punto di vista, la dimensione della ‘politicità’ delle informazioni contenute nei dati destinati alla circolazione riferita al processo può costituire un criterio decisivo nella risoluzione delle questioni che, di fronte alla contestazione degli interessati, di volta in volta sono condotti all’attenzione del giudice.
7. Sulla trasmissione della cultura
Un’analisi più puntuale o approfondita di temi che appaiono rivestiti di una simile delicatezza e profondità di implicazioni rimane, naturalmente, del tutto estranea ai limiti del discorso che si conduce.
Potrà ragionevolmente destare talune perplessità l’idea di consegnare le forme della tutela della persona, in relazione alla circolazione pubblica delle informazioni sul processo, all’iniziativa dei singoli interessati, consapevoli dei sacrifici e della carica di violenza cui la rappresentazione pubblica inevitabilmente li espone.
L’osservazione della realtà quotidiana offre, sempre più spesso, l’esempio di sconsiderate disponibilità di parti, testimoni, familiari di questi, o dei loro difensori, alla partecipazione (talora retribuita) a forme banalmente spettacolarizzate di vicende giudiziarie.
Si tratta di esperienze che assumono, per lo più – quando non inserite in sofisticati disegni di strategia difensiva – il significato di un’occasione di facile guadagno o, in termini più desolanti, di una sorta di garanzia di esistenza certificata dall’esposizione incontrollata alla generalità.
Di fronte a fenomeni di questa natura, lungi dal congetturare impensabili forme di ‘indisponibilità’ della persona, della propria esperienza esistenziale o delle forme della sua rappresentazione (una soluzione da ritenere di per sé inaccettabile già sul piano della riflessione costituzionale), non resta che affidarsi all’impegno nell’educazione civile, al lavoro condotto nell’umile quotidianità delle nostre scuole, alla cura sollecita del futuro dei nostri giovani.
Si è tentati di domandarsi, in tempi di crisi dell’associazionismo giudiziario, se la trasmissione della cultura non sia, in fondo, oltre ogni legittima preoccupazione per il destino degli organismi che ne esprimono il governo sul piano istituzionale, il senso ultimo dell’impegno civile di quelle donne e di quegli uomini che, alle fortune della ‘città’, hanno inteso dedicare la propria cura; e all’arte dell’incontro – a cui il senso del diritto infine rimanda – un tempo non breve della propria vita.
* Il testo riprende e completa la relazione svolta nel corso del convegno Processo mediatico e presunzione di innocenza, tenutosi a Roma, presso l’Istituto Dante Alighieri, il 1° aprile del 2022, e dell’occasione colloquiale conserva, in larga misura, i toni e lo stile.
[1] Si tratta dei contenuti del libro VI dell’Etica Nicomachea.
[2] A mero titolo di esempio, possono qui richiamarsi H. Arendt, Vita Activa, Milano, Bompiani, 1964 (The Human Condition, 1958); J. Habermas, Teoria e prassi nella società tecnologica, Bari, Laterza, 1969 e Id., Prassi politica e teoria critica della società, Bologna, Il Mulino, 1973. Più di recente, è possibile esaminare, in rapporto ai temi dell’etica aristotelica, gli approcci dell’opera etico-politica di Martha Nussbaum.
[3] Gli artt. 110, 111 e 112 del R.D. 14 dicembre 1865, n. 2641 (Regolamento generale giudiziario per l'esecuzione del Codice di procedura civile, di quello di procedura penale, e della Legge sull'ordinamento giudiziario) disciplinano in termini rigorosi e dettagliatissimi il modo in cui il giudice e il pubblico ministero devono essere abbigliati (110); la posizione delle tavole del pubblico ministero e del cancelliere (111); la postura del pubblico ministero e del presidente nell’atto di rassegnare le proprie conclusioni o di pronunciare la sentenza (111); la postura dei difensori nell’atto di parlare dopo aver ricevuto la parola del presidente (112).
[4] B. Cavallone, La borsa di Miss Flite. Storie e immagini del processo, Adelphi, Milano, 2016, p. 224
[5] Alla lettura di quella vicenda, in una chiave e in una prospettiva di ordine marcatamente giuridico-politico, è dedicato il libro di G. Zagrebelsky, Il Crucifige e la democrazia, Torino, Einaudi, 1995.
[6] Evento che anima le pagine ineguagliabili del giovane Platone nell’Apologia di Socrate.
[7] Su cui v. E. Reynolds, Il processo di Tommaso Moro, Roma, Salerno Editrice, 1985 (traduz. italiana di The Trial of St. Thomas More, London, Burns and Oates, 1964).
[8] Scrive S. Satta (Il mistero del processo, Milano, Adelphi, 1994, pp. 24 s.): “Processo e giudizio sono atti senza scopo, i soli atti della vita che non hanno uno scopo. Paradosso? No, non è un paradosso; è un mistero, il mistero del processo, il mistero della vita. Se noi contempliamo il corso della nostra esistenza – il breve corso della nostra vita individuale, il lungo corso della vita dell’umanità – esso ci appare come un susseguirsi, un intrecciarsi, un accavallarsi di azioni, belle o brutte, buone o cattive, sante o diaboliche: la vita stessa anzi non è altro che l’immenso fiume dell’azione umana, che sembra procedere e svolgersi senza una sosta. Ed ecco, a un dato punto, questo fiume di arresta; anzi ad ogni istante, ad ogni momento del suo corso si arresta, deve arrestarsi se non vuole diventare un torrente folle che tutto travolga e sommerga: l’azione si ripiega su sé stessa, e docilmente, rassegnatamente si sottopone al giudizio. Perché questa battuta di arresto è proprio il giudizio: un atto dunque contrario all’economia della vita, che è tutta movimento, tutta volontà e tutta azione, un atto antiumano, inumano, un atto veramente – se lo si considera, bene inteso, nella sua essenza – che non ha scopo. Di quest’atto senza scopo gli uomini hanno intuito la natura divina, e gli hanno dato in balìa tutta la loro esistenza. Di più: tutta la loro esistenza hanno costruito su quest’unico atto. Secondo il nostro credo, quando la vita sarà finita, quando l’azione sarà conclusa, verrà Uno, non per punire, non per premiare, ma per giudicare: qui venturus est iudicare vivos et mortuos”.
[9] La storia francese già forniva, all’epoca dell’affaire Dreyfus, la testimonianza di un altro noto processo, celebrato nel corso del XVIII secolo (precisamente nel 1762), in cui ebbero ad incontrarsi (e a ‘scontrarsi’) le ragioni dell’intolleranza (religiosa) collettiva con il richiamo alla ragione (e all’imperatività morale) dell’uomo di cultura. Il riferimento è fermato qui sul ruolo assunto da Voltaire nel ‘processo Calas’ e al rifiuto opposto dal filosofo francese alla condanna inferta al commerciante tolosano in ragione dei consistenti pregiudizi religiosi che ne avevano favorito la pronuncia. Rispetto a quest’ultima vicenda, tuttavia, il valore di ‘novità’ offerto dalle occorrenze connesse al processo Dreyfus devono essere ricercate proprio nel significato ‘politico’ e ‘sociale’ che ebbero a rivestire le forme (pubbliche) dell’intervento dell’uomo di cultura nella vicenda giudiziaria.
[10] Nel sito Internet della radiotelevisione svizzera (RSI) in una pagina (https://www.rsi.ch/news/oltre-la-news/Niente-più-disegni-in-aula-12734766.html) si scrive: “I disegnatori di processi. La loro matita traccia profili, coglie attimi e cristallizza gli eventi. Seduti tra il pubblico, l’inseparabile taccuino in grembo, mostrano quello che altrimenti l’opinione pubblica non potrebbe vedere. In molti Paesi, fotografie e riprese video sono vietate nei tribunali. Tra questi c’è la Turchia, dove negli ultimi anni – specie dopo il fallito golpe del 2016 – si sono svolti numerosi processi a oppositori del presidente Recep Tayyip Erdoğan. Politici, giornalisti e intellettuali spesso finiti alla sbarra con accuse a vario titolo di aver complottato contro il governo: eventi che i turchi hanno potuto vedere attraverso gli occhi e le mani di un gruppo di illustratori, che in modo spontaneo hanno voluto contribuire così a tenere il pubblico informato. L’attività di questi disegnatori è iniziata con i processi per le proteste del 2013 di Gezi Park a Istanbul. Da lì in avanti, le illustrazioni delle arringhe degli avvocati e delle testimonianze degli imputati hanno cominciato a essere diffuse in modo sempre più ampio, anche sfruttando il volano dei social network. Visto il massiccio impiego della carcerazione preventiva, ritenuto spesso esagerato dagli osservatori internazionali, è solo attraverso il loro tocco che i volti di molti imputati celebri sono tornati a diffondersi dopo le udienze. Del resto, raccontano questi artisti, gli stessi giudici li hanno a lungo guardati con simpatia, o almeno tolleranza: forse perché una matita spaventa meno di un obiettivo, ed evoca una dimensione di innocenza. Così è stato per lo più fino al novembre scorso, quando a Necmi Yalçin hanno vietato di continuare a disegnare in aula gli imputati nel processo al quotidiano laico Cumhuriyet, il più antico della Turchia, lanciando una nuova sfida alla libertà d’espressione.
[11] “Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini” (G. Debord, La società dello spettacolo, Baldini&Castoldi, Milano, 2017, p. 64).
[12] L’oscenità non sta indubbiamente nella cosa. Essa vive piuttosto nello sguardo che la investe. Il che non significa però che a produrla siano delle specifiche perverse intenzioni. In tal caso, infatti, nulla sarebbe spiegato. La ragione per cui si definisce ‘osceno’ un determinato modo dello sguardo resterebbe ancora misteriosa. Forse l’osceno sta invece nel principio stesso della visibilità. Forse si danno situazioni che, se sottoposte al regime dello sguardo, se trasformate in spettacolo, indipendentemente da chi di fatto sta guardando, sono bruciate da quella stessa visibilità. L’osceno, insomma, si produce quando qualcosa, che ha nell’invisibile il suo habitat naturale, è consumato, fino a ad essere distrutto, dallo sguardo che lo investe. La società dello spettacolo generalizzato, dove tutto, essendo merce, deve luccicare ed essere appetibile, è allora oscena non per contingenza, ma per essenza (V., in questi termini, R. Ronchi, Liberopensiero. Lessico filosofico della contemporaneità, Roma, Fandangolibri, 2006, passim).
[13] Destò una qualche sensazione, alcuni anni or sono, la vicenda che ebbe a riguardare un giudice, autore di un provvedimento destinato a incidere negativamente sugli interessi di un gruppo imprenditoriale di rilevante peso sul piano della comunicazione mediatica. A seguito di quel provvedimento, talune testate del gruppo dedicarono alcuni servizi al giudice, mettendone programmaticamente in ridicolo la figura, deridendone i modi e la stessa ‘stravaganza’ dell’abbigliamento (di cui si sottolineò la singolarità dei calzini color turchese…).
[14] W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, in W. Benjamin, Opere complete, vol. VI Scritti. 1934-1937, Torino, Einaudi, 2004, pp. 271 ss.
[15] W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, cit., p. 273.
[16] W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, cit., p. 274.
[17] Op. ult cit., p. 274. “Il modo originario di articolazione dell’opera d’arte dentro il contesto della tradizione trovava la sua espressione nel culto. Le opere d’arte più antiche sono sorte, com’è noto, al servizio di un rituale, dapprima magico, poi religioso. […] Il valore unico dell'opera d’arte «autentica» trova la sua fondazione sempre nel rituale. […] Rituale secolarizzato, anche nelle forme più profane del culto della bellezza” (pp. 275-276).
[18] Op. ult cit., p. 275-276.
[19] Op. ult cit., p. 277-278.
[20] W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, cit., p. 290-292.
[21] D.Lgs. n. 196/2003 (c.d. codice della privacy) su cui ha inciso, da ultimo, il Regolamento UE n. 2016/679 recepito attraverso il D. Lgs. n. 101/2018.
Dirigenza giudiziaria: la parola al CSM. Parte II. Intervista di Riccardo Ionta e Federica Salvatore a Sebastiano Ardita, Michele Ciambellini e Fulvio Gigliotti
Il carico di lavoro consiliare, le carenze delle fonti informative, i pericoli di valutazioni basate su curricula pletorici e di carriere dirigenziali parallele, le motivazioni imperfette delle decisioni: le opinioni dei componenti del Consiglio Superiore non sempre collimano, talvolta divergono. E l’intervento del giudice amministrativo sempre più spesso incombe.
Anche in questa consiliatura il CSM ha provveduto a un numero elevatissimo di nomine e conferme. Quanto incide questo numero sulla valutazione della qualità effettiva dei candidati, sui progetti organizzativi presentati dagli aspiranti direttivi? È compatibile, anche in prospettiva, con l’idea di un’estensione delle audizioni?
Ardita Volevo dirvi che vi sono grato, e un po’ sorpreso, per essere stato selezionato per questa chiacchierata, essendo nuovo e non particolarmente versato nella materia, inserito nella V commissione da ottobre scorso e quasi d’ufficio. Sono sostanzialmente un incompetente, costretto a confrontarsi con veri esperti, faccio quello che posso e quindi mi scuserete se anche nelle risposte divagherò e sarò poco tecnico.
In effetti – anche se non conoscevo a memoria il Testo Unico (la maiuscola va usata come nei testi sacri…) - appena sono arrivato mi sono accorto subito che il numero di pratiche da trattare era certamente rilevante e molti pareri mi sembravano simili e non davano molta possibilità di differenziare le valutazioni. Allora, ho pensato che le audizioni potevano essere un’opportunità per farsi un’idea reale dei candidati e per dialogare sulle esperienze e su possibili proposte. Spesso le ho richieste e la commissione quest’anno vi ha fatto ricorso più volte. Dopo l’audizione, almeno in due casi su tre, ho cambiato la mia idea di voto. Quindi posso dirvi che, almeno per quanto mi riguarda, questo strumento si è rivelato utile. Allunga un po’ i tempi ma consente di evitare possibili errori.
Diciamo che quando due profili ti sembrano davvero equivalenti e non sapresti proprio chi scegliere - cosa che può accadere di frequente - fare due chiacchiere con un collega che ti guarda negli occhi, ti sembra competente e ben disposto verso gli altri e non pronuncia ogni sette parole il pronome personale “io”, potrebbe fare la differenza. Ma mi rendo conto che non può valere per tutti. Alcuni esperti del Testo Unico sono convinti che da un’analisi dettagliata dei titoli sia quasi impossibile trovare due profili equivalenti…quindi la chiacchierata finirebbe per non contare nulla o quasi….
Ciambellini In questa consiliatura, ad oggi, le delibere di nomina per posti direttivi e semidirettivi si avvicinano alla cifra di 400. Si tratta di un numero elevato, ma di gran lunga inferiore a quello del precedente quadriennio. Non vi è dubbio che la sola lettura dei profili dei candidati comporti per ciascun componente della commissione un grande dispendio di energie. In linea generale, ritengo che il numero delle pratiche trattate, certo non esiguo, non abbia inciso negativamente sull’approfondimento dei profili dei candidati. Le audizioni, facoltative, sono state disposte solo per alcuni casi, in genere in considerazione della maggiore complessità dell’ufficio direttivo da conferire. Sono uno strumento utile, ma che comporta un notevole dispendio di tempo, con conseguente rallentamento dei lavori relativi ad altre pratiche. L’idea di estenderlo a tutte le procedure – pur rispondendo al lodevole intento di favorire la conoscenza diretta del candidato da parte della Commissione - mi sembra difficilmente percorribile. E, comunque, qualora si volesse attribuire alle audizioni una vera centralità, andrebbero definiti con precisione i criteri di svolgimento delle stesse e di valutazione degli esiti, per evitare di aprire la strada ad una incontrollabile discrezionalità della delibera. In questa consiliatura non credo vi sia stata alcuna delibera che abbia considerato prevalente un candidato in ragione della maggiore brillantezza dell’audizione. In alcuni casi, però, esse sono state utilizzate per instaurare il contraddittorio con il candidato in relazione a potenziali criticità, conformemente alla procedura di garanzia prevista da specifica disposizione della Circolare.
Gigliotti Anche nella presente consiliatura il numero delle nomine e (soprattutto) delle conferme è stato consistente, sebbene minore di quello che si è potuto registrare in altre precedenti (e specialmente - seppure per ragioni tecniche differenti - nelle ultime due).
La mia esperienza in Quinta Commissione - della quale (dopo avervi trascorso già il primo anno di consiliatura) faccio attualmente parte - mi permette di dire che, nonostante l'elevato numero delle pratiche trattate, la valutazione della posizione dei singoli candidati (e dei progetti organizzativi dagli stessi presentati) è sempre stata assai accurata, ancorché legata, soprattutto, alle risultanze documentali (quali specialmente provenienti dai Consigli giudiziari).
Sotto quest'ultimo profilo - avuto soprattutto riguardo ai consiglieri "laici" (i quali non possono contare, il più delle volte, sulla conoscenza o percezione diretta degli elementi in valutazione) - l'audizione dei candidati può rivelarsi utile strumento di approfondimento, ma la sua generalizzazione come regola vincolante di procedura introduce, probabilmente, un appesantimento eccessivo e non necessario (per cui sarebbe scelta migliore quella di mantenere una discrezionalità della Commissione, secondo le circostanze, in ordine alla decisione se procedervi o meno).
Si lamenta da sempre la carenza delle fonti di conoscenza sui profili dei candidati. Ma, anche quando siano individuate, ciò che ne emerge viene verificato o è almeno verificabile da parte del Consiglio?
Ardita Le fonti della conoscenza dovrebbero essere ampliate nel modo più formale possibile, per evitare che – come a volte accade – la conoscenza dei candidati, con profili tutti positivi, sia mediata dalle informazioni che giungono dal territorio. Il giudizio per potere affermare che “si tratta di un collega molto bravo e disponibilissimo”, oppure che “si, è bravo ma… ha un brutto carattere”, oppure ancora “ha frequentazioni poco raccomandabili”, deve risultare da qualcosa di concreto e di scritto; altrimenti il giudizio passa attraverso l’opinione dei colleghi del luogo. E dunque, per giungere fino al Csm viene filtrato dai cd “corpi intermedi” che hanno accesso ai componenti dell’organo di autogoverno e si assumono il compito di fornire una valutazione sganciata da qualunque formalità e, quindi, incontrollabile. E siccome i corpi intermedi sono le correnti, non c’è bisogno di andare oltre per spiegare quanto sia inopportuna una conoscenza dei profili che si forma in questo modo.
Ciambellini In larga parte direi di sì. Questo ovviamente richiede tempo ed attenzione sia da parte del relatore che dei componenti tutti della commissione. Bisogna avere anche la capacità di “incrociare i dati” emersi in altre procedure consiliari, specialmente quelle istruite dalla Settima e dalla Prima Commissione, oltre che le conferme di competenza della stessa Quinta. Solitamente tali potenziali criticità - assieme alle eventuali vicende disciplinari - sono indicate nei profili, il che consente di verificare anche l’attendibilità di quanto riportato nelle autorelazioni, che pure costituiscono un’importante fonte di conoscenza.
Gigliotti La normativa secondaria vigente (cioè il c.d. testo unico sulla Dirigenza giudiziaria, ossia la specifica Circolare del CSM in materia), all'art. 36, indica una serie assai eterogenea di fonti di conoscenza accessibili dal Consiglio, anche di propria iniziativa (in particolare, su impulso della competente Commissione); peraltro, alcune verifiche (eventuali pendenze disciplinari, situazioni di incompatibilità, altre procedure di Prima Commissione) sono sempre effettuate d'ufficio.
Nondimeno, un profilo di criticità - almeno a mio giudizio - risiede senz'altro nella tendenza dei pareri formulati dagli organi locali ad un appiattimento verso l'alto delle valutazioni espresse (valutazioni non sempre facilmente verificabili, dal Consiglio, nella loro esatta corrispondenza (o meno) alla situazione realmente esistente); e quando la segnalazione di situazioni di criticità riveste carattere sostanzialmente eccezionale, mentre abbondano le valutazioni encomiastiche, qualche riserva sulla totale attendibilità dei dati disponibili risulta giustificata: da questo punto di vista, una maggiore responsabilizzazione delle strutture decentrate risulterebbe, a mio giudizio, assai opportuna.
Nella “meritevolezza” su cui il CSM cerca di basare le nomine quali capacità sono riconosciute? E c’è spazio per le capacità relazionali? Non si rischia piuttosto di premiare ambizioni basate su curricula costruiti ad hoc in un percorso professionale?
Ardita La “meritevolezza” è un concetto sfuggente che rischia di aprire la strada a clamorose ingiustizie. Perché è una parola che spesso ammanta la certezza di chi ritiene di avere scelto “il migliore”. E invece, per come la vedo, a volte scegliere è proprio difficile proprio a causa dei curricula costruiti ad hoc e delle cd “medagliette”, che dovrebbero essere “indicatori” dell’attitudine a ricoprire ruoli. Sono d’accordo con voi sul rischio che la “capacità di relazione” possa essere un altro veicolo per incrementare la “meritevolezza virtuale” che inquina i giudizi. Anche in un modo che può apparire innocuo: più mantieni relazioni, più le cose buone che fai riescono ad arrivare fino alle orecchie dei consiglieri… a discapito di chi non mantiene “relazioni”. Quindi tornando alla risposta precedente sulle audizioni, una bella chiacchierata alla pari potrebbe riequilibrare il tutto.
Detto questo, per venire al cuore della domanda: che qualcuno sgomiti per avere un incarico è un dato di fatto. Ma sbaglieremmo a considerarlo un fenomeno dei nostri tempi. Già nella metà dell’ottocento “una gran messe di lettere di raccomandazione affollava i tavoli degli uffici del Gabinetto del Ministro per sollecitare promozioni e trasferimenti di giudici” tanto che il Ministro dovette correre ai ripari con una direttiva esplicita. In tempi in cui si ragiona di “autopromozione” non ci sarebbe molto da scherzarci su, ma possiamo dire che solo la storia può confortarci e aiutarci a risolvere annosi problemi.
Ciambellini Le capacità relazionali per il dirigente di un ufficio dovrebbero essere una sorta di precondizione per assumere l’incarico. Di esse solitamente si dà atto nei profili, facendo riferimento a precedenti esperienze direttive o semidirettive, ove presenti. Non si può nascondere tuttavia che, in alcuni casi, ad un profilo di apparente eccellenza in relazione a tale parametro si contrappone la “fama” di una certa “problematicità caratteriale” dell’interessato. Tuttavia, in assenza di specifici episodi che diventino oggetto di rapporti/segnalazione o che sfocino in altre pratiche (ad es. di incompatibilità istruite dalla prima commissione), diviene assai difficile trasfondere le perplessità della commissione in specifici rilievi che possano essere esplicitati nella proposta di delibera. Questo è un grave limite rispetto al quale la piena attendibilità dei pareri attitudinali specifici deve sicuramente fare dei passi avanti.
Gigliotti I profili di meritevolezza rilevanti per le nomine - quali specificamente individuati dalla normativa secondaria, che contempla (specialmente, ma non solo, tra gli "indicatori generali") anche la valutazione di specifiche "capacità relazionali" - sviluppano indicazioni dettate dalla legge e, sotto questo profilo, la loro analitica formulazione può anche apparire giustificata. Io credo, peraltro, che il c.d. testo unico sulla Dirigenza giudiziaria (in ragione delle modalità tecniche della sua redazione) abbia però individuato un elenco di indicatori (generali e specifici) al contempo - e non sembri ciò contraddittorio - assai analitico ma anche fortemente "elastico" (nella possibilità di apprezzamento, specifico e globale dei diversi indicatori); con la conseguenza di innescare un duplice effetto paradossale: per un verso, quello di sollecitare, nei singoli aspiranti, una sorta di corsa alla conquista delle "medaglie" spendibili; ma, per altro verso, anche una certa imponderabilità della effettiva incidenza dei singoli indicatori nella specifica valutazione, con evidente detrimento, dal primo e dal secondo punto di vista, per l'efficienza del sistema Giustizia.
Quanto ritiene grande il rischio che, nella mole degli indicatori previsti dal t.u. sulla dirigenza, si crei una categoria di magistrati direttivi per carriera, estromettendo coloro, vale a dire la maggioranza, che per una parte della propria vita professionale non hanno modo di acquisire titoli che vadano al di là dell’attività giurisdizionale?
Ardita Esistono già due carriere, una per chi è dentro la categoria dei semidirettivi (ancor di più per i direttivi), l’altra per chi ne sta (ancora fuori). Per i semidirettivi, il cui ruolo è spesso ibrido e non prevede vere “responsabilità” organizzative, ma forme di collaborazione alla dirigenza, la soluzione potrebbe essere semplice. Dopo un giudizio attento e non burocratico di idoneità - fatta la cernita degli idonei - le funzioni semidirettive potrebbero ruotare tra coloro che sono disponibili a ricoprirle. Come avviene per le presidenze delle commisioni del csm (dove non c’è neppure la cernita degli idonei, ma la vita va avanti lo stesso…). Che ve ne pare?
Per i direttivi la questione è più complessa, perché il nuovo ordinamento ci ha privati di quella orizzontalità nei rapporti tra colleghi che era stata conquistata negli anni come un bene prezioso. E questo ha trasformato profondamente tutto. Anziché perseguire la “idoneità direttiva”, che corrisponde ad un modello di comando, il Csm dovrebbe agire all’inverso e mandare avanti chi crede ancora nella orizzontalità. Ma sarebbe comunque una battaglia persa, perché il sistema della “gerarchia” vige nelle nuove regole interne e inasprisce i rapporti negli uffici. Basta vedere il numero e la gravità dei contrasti di questi ultimi anni che prima del 2006 neppure erano immaginabili.
Per avere un quadro di insieme ancora una volta chiediamo aiuto alla storia. Dall’ottocento e fino agli anni ‘60 il potere dentro la categoria era gestito dall’alta magistratura, identificata nella Cassazione, che doveva assicurare l’indipendenza esterna della bassa magistratura al pesante prezzo della assenza di indipendenza interna. L’autogoverno previsto nella Costituzione era stato il rimedio per riportare le decisioni interne dentro criteri di uniformità e di confronto democratico. Oggi il cattivo uso dell’autogoverno, unito alla gerarchia del nuovo ordinamento, alle correnti divenute partiti, alle cordate che sono trasversali alle correnti e alla distinzione dei magistrati tra appartenenti alla casta dei direttivi e non, ci ripropone un modello analogo. L’alta magistratura di oggi parla alla politica e ai grandi giornali, influenza le riforme e utilizza gli stessi argomenti che erano serviti a liberare la “bassa magistratura”, per continuare a mantenerla sotto la propria gerarchia fino a quando non si arriverà ad un punto di rottura. Occorre tenere conto che i poteri deviati e criminali temono molto di più - o forse solo - la “bassa magistratura” e la sua autonomia. Pochi riescono a capire che stiamo vivendo un ricorso storico e che - se non corriamo ai ripari – questa tendenza ci porterà a perdere anche l’indipendenza esterna. Mentre la via d’uscita è solo una: tornare all’orizzontalità. Spazzare via l’alta magistratura che si è impossessata dell’autogoverno, delle carriere e di tutto il potere interno e andare avanti nel solco della costituzione. Le soluzioni ci sarebbero ma non piacciono a chi comanda nel nostro mondo….
Ciambellni Sul punto occorre trovare un ragionevole equilibrio. Esiste un interesse oggettivo degli uffici ad essere diretti da persone di comprovata esperienza. Sarebbe quindi illogico considerare neutre le precedenti esperienze direttive, se ben svolte. Al tempo stesso il rischio della creazione di un circuito chiuso di dirigenti certamente esiste. Sotto tale profilo sono fortemente preoccupato dalle ricorrenti ipotesi di interventi legislativi per l’innalzamento dell’età pensionabile, interventi che non farebbero che acuire il fenomeno (senza incidere invece sul notevole numero dei prepensionamenti fra coloro che non ricoprono incarichi direttivi). Guardando a quanto avvenuto nel corso di questa consiliatura, rilevo che, nella grande maggioranza dei casi, sono stati prescelti candidati che erano comunque nella “fascia” di anzianità maggiore. Spesso, inoltre, essi avevano precedenti esperienze direttive o semidirettive, con relativa conferma da parte del Consiglio. Si tratta evidentemente di criteri che rispondono, oltre che alle disposizioni della circolare, anche ad una esigenza di prevedibilità della scelta, più volte reclamata da molti colleghi.
Gigliotti Come ho già detto, la moltiplicazione degli indicatori potenzialmente rilevanti - al di là della loro concreta idoneità, almeno in taluni casi, ad individuare elementi realmente predittivi di una effettiva attitudine direttiva - induce una corsa sfrenata alla conquista dei "titoli" rilevanti, la quale esaspera propositi di carrierismo, sacrificando, per certi aspetti, la centralità del lavoro giudiziario in senso stretto. In questa prospettiva, la previsione di alcuni correttivi (intesi, ad es., a ridurre il numero degli incarichi semidirettivi, o a valorizzare l'esperienza giurisdizionale in senso stretto, ma anche a favorire una certa soluzione di continuità nell'espletamento delle funzioni direttive) appare probabilmente opportuna. Segnalo, peraltro, che proprio su questi temi la Quinta Commissione sta attualmente lavorando, avendo messo mano ad alcuni interventi di riforma del t.u. sulla Dirigenza giudiziaria che vanno anche, almeno parzialmente, in simili direzioni.
La percentuale di conferme positive di direttivi e semidirettivi è elevata, tendente alla totalità. Manca una reale “misurazione” della performance, che valuti gli obiettivi realizzati e la qualità dei provvedimenti o le ragioni sono altre?
Ardita La non conferma di un numero rilevante di direttivi sarebbe l’ammissione pubblica che il modello prima descritto non ha funzionato. Quando si verificano situazioni gravi e conosciute, come la commissione di reati o di infrazioni disciplinari, si procede alla non conferma. In tutti gli altri casi è molto raro che il Consiglio smentisca se stesso e le proprie scelte. È tutto collegato….
Ciambellini Premetto che la parola “performance” evoca criteri di valutazione aziendalistica che poco si attagliano, a mio avviso, all’attività giudiziaria, anche organizzativa. Obiettivamente si deve registrare una certa difficoltà ad evidenziare le criticità emerse nel corso del quadriennio oggetto di valutazione per la conferma. Questo in parte deriva da oggettive carenze dei Consigli Giudiziari in tal senso. In essi a volte si riscontra una certa indulgenza in ordine a criticità notorie e, altre volte, singolari “accanimenti” che alla luce di una più attenta a approfondita analisi del Consiglio si rivelano di minore rilevanza. Tuttavia, in caso di profili problematici accertati dallo stesso Consiglio in specifiche pratiche (si pensi, ad esempio, a quelle di Prima e di Settima Commissione), essi sono sempre stati oggetto di valutazione, portando quando necessario alla non conferma. È certo, però, che su questo fronte ci sia ancora molta strada da fare.
Gigliotti Le ragioni sono sicuramente complesse, e di diversa natura.
Gli strumenti di misurazione dell'attività svolta, certamente, potrebbero essere perfezionati, anche attraverso l'acquisizione di elementi di valutazione ulteriori rispetto a quelli attualmente considerati. Soprattutto, però, credo che occorrerebbe un mutamento radicale nella modalità di approccio al tema: la conferma è percepita, oggi, come un esito pressoché scontato, impedito soltanto da esiti manifestamente disastrosi o vicende particolarmente allarmanti; e assai raramente i pareri dei Consigli giudiziari segnalano, o valorizzano, criticità pur esistenti. Probabilmente, invece, bisognerebbe superare la logica del semplice "non demerito", orientando il giudizio di conferma verso standards di "rendimento" ben più elevati, capaci di circoscrivere alle sole situazioni effettivamente virtuose un esito positivo della valutazione.
Gli annullamenti delle nomine da parte del giudice amministrativo sembrano rappresentare un indice delle disfunzioni nell’esercizio della discrezionalità da parte del CSM. Emerge una difficoltà di tenuta delle motivazioni rispetto alle scelte consiliari. Da cosa dipende: il numero delle nomine, la quantità e l’estensione dei parametri attitudinali, altri fattori?
Ardita Apprezzo molto il tentativo di autorisposta alla domanda e la prendo come una simpatica presa in giro… Vi ringrazio ancora, è stato divertente chiacchierare con voi.
Ciambellini Un dato è certo: il numero delle delibere impugnate è sicuramente altissimo. Ma, a fronte di tale circostanza di fatto, si deve rilevare che il numero di annullamenti “definitivi” (ossia derivanti da sentenze del Consiglio di Stato, che spesso sovvertono gli annullamenti disposti dal TAR) è, rispetto al numero complessivo di nomine esitate dal Consiglio, assai basso (poco più di una ventina sino ad oggi). Questo è un dato che smentisce la vulgata comune secondo cui le nomine effettuate dal Consiglio avrebbero scarsa tenuta al vaglio del giudice amministrativo. Non può però negarsi il fatto che alcuni annullamenti relativi a nomine per posti di particolare interesse (si pensi fra tutti alla nomina del Procuratore di Roma e a quelle relative ai posti di Primo Presidente e di Presidente Aggiunto della Suprema Corte) abbiano comprensibilmente creato un generale sconcerto. Personalmente ho sempre votato per una riedizione del potere che si uniformasse al decisum della sentenza, così come da tutti promesso in campagna elettorale.
Va osservato che la gran parte (oltre il 75 %) delle nomine per posti direttivi e semidirettivi del primo triennio consiliare è avvenuta all’unanimità (o comunque senza che venissero formulate in commissione proposte alternative). La percentuale è sensibilmente calata nel corso di quest’ultimo anno, soprattutto per i posti di maggiore rilievo. Anche nei casi di annullamento, quindi, si era trattato, spesso, di valutazioni condivise dalla quasi totalità dei consiglieri. Sicuramente la tecnica di redazione delle delibere, in particolare in ordine alla esposizione completa dei profili dei concorrenti ed alla loro valutazione comparativa, è divenuta, proprio alla luce dei principi dettati in alcune sentenze di annullamento dalla giurisprudenza amministrativa, più accurata.
Questo significa tempi più lunghi per la stesura delle motivazioni e, in generale, per lo smaltimento delle pratiche. Oggi il tempo medio di definizione di un concorso per un posto direttivo o semidirettivo si aggira sugli otto/dieci mesi dalla data della vacanza. Un tempo certamente inaccettabile che genera lunghi vuoti di dirigenza che non giovano al buon andamento organizzativo degli uffici. Anche in questa materia, quindi, occorre una revisione della circolare in chiave di semplificazione delle procedure. E tenere insieme accuratezza, motivazioni adeguate e velocità non è semplice.
Gigliotti In realtà, pur a fronte di un numero certamente elevato di ricorsi, gli annullamenti pronunciati non rappresentano una percentuale veramente significativa rispetto al numero complessivo delle nomine. Naturalmente, però, poiché a fare notizia sono soprattutto gli annullamenti delle delibere (specialmente quando esse abbiano ad oggetto nomine di particolare rilievo), piuttosto che il rigetto dei ricorsi presentati, l'impressione che se ne può ricavare è che sussistano "disfunzioni nell'esercizio della discrezionalità consiliare" e "difficoltà nella tenuta delle motivazioni delle scelte" compiute.
Detto questo, tuttavia, non si può negare che (almeno) in alcuni casi la motivazione delle scelte compiute ha prestato il fianco a censure giustificate dal punto di vista tecnico-giuridico.
Nondimeno, se - a fronte di numeri assai consistenti delle pratiche trattate - ciò è in certa misura finanche "fisiologico", è anche vero, tuttavia, che non mancano casi (e sono, anzi, in tendenziale aumento) nei quali l'annullamento delle delibere sembrerebbe determinato più da una sorta di "sovrapposizione" della (diversa) valutazione compiuta dal Giudice amministrativo (rispetto) a quella operata dal Consiglio che a veri e propri vizi del provvedimento. Ad un simile esito, probabilmente, ha contribuito anche - come già accennavo - l'eccessiva moltiplicazione ed (al contempo) "elasticità" dei parametri valutabili, con conseguente riduzione dei margini di esercizio della discrezionalità amministrativa.
Tutto ciò ha pure generato, in qualche caso, situazioni di ritenuta "frizione" tra determinazioni consiliari e pronunciamenti della giustizia amministrativa; situazioni che non hanno certo giovato alla serenità dell'azione consiliare. Da questo punto di vista, probabilmente, qualche correttivo sarebbe auspicabile, non solo intervenendo sulla regolamentazione dei parametri ai quali ancorare la valutazione consiliare, ma anche sull'assetto del controllo giurisdizionale dei provvedimenti consiliari (in questa logica, ad es., una prospettiva che andrebbe attentamente valutata, e della quale si sta ora, opportunamente, riprendendo a discutere con una certa insistenza, è quella della istituzione di un'Alta Corte, di rilevanza costituzionale, chiamata a pronunciare (anche) sul controllo giurisdizionale di alcuni provvedimenti consiliari: qui entriamo, però, nel merito di valutazioni di politica del diritto necessariamente riservate ad altre sedi).
Misure urgenti e delega in materia di esecuzione forzata (legge 206 del 2021) - Parte I
di Alberto Tedoldi
Sommario: 1. Antefatti e fiducia con “doppia conforme” sull’ennesima legge di riforma del processo civile - 2. La nuova competenza per l’espropriazione di crediti della P.A. in capo ai tribunali dove ha sede l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato, nel cui distretto il creditore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede (comma 29, che modifica l’art. 26 bis, comma 1, c.p.c. a far tempo dal 22 giugno 2022) - 3. Onere del creditore pignorante di notificare e depositare avviso al debitore esecutato e al terzo pignorato di avvenuta iscrizione a ruolo, a pena di inefficacia del pignoramento presso terzi (comma 32, che aggiunge i commi 5 e 6 all’art. 543 c.p.c. a far tempo dal 22 giugno 2022) - 4. Abolizione della formula esecutiva (comma 12, lett. a) - 5. Sospensione del termine di efficacia del precetto in caso di indagini telematiche ex art. 492 bis c.p.c. (comma 12, lett. b) - 6. Deposito della documentazione o del certificato notarile attestante le risultanze delle visure catastali e dei registri immobiliari entro il medesimo termine fissato per il deposito dell’istanza di vendita (comma 12, lett. c, dell’art. 1 l. delega 206/2021) - 7. Anticipazione della nomina del custode dell’immobile pignorato in luogo del debitore, immediatamente dopo il deposito della certificazione notarile e contemporaneamente alla nomina dell’esperto stimatore, nonché cooperazione tra custode e stimatore sul controllo circa la completezza della documentazione ipotecaria e catastale (comma 12, lettere d, e, g).
1. Antefatti e fiducia con “doppia conforme” sull’ennesima legge di riforma del processo civile
Questo scritto riprende e aggiorna alla legge 206/2021 un precedente contributo, intitolato «Gli emendamenti in materia di esecuzione forzata al d.d.l. delega AS 1662/XVIII» e pubblicato sempre su questa Rivista il 23 giugno 2021. A tale contributo dovremmo fare integrale rinvio per indispensabile brevità, che sarebbe “gran pregio”, come canta Rodolfo nel primo quadro de La Bohème di Giacomo Puccini (su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica), duettando con il pittore Marcello mentre, per scaldar la soffitta, vanno in fumo e in rapida cenere le pagine del suo dramma dedicato all’incendio di Roma, gettate nel «vecchio caminetto ingannatore», cui somiglia l’amore, “che sciupa troppo... ...e in fretta! ...dove l’uomo è fascina... ...e la donna è l’alare... ...l’una brucia in un soffio... ...e l’altro sta a guardare». Anche gli scritti giuridici, consegnati che siano alle pagine o a impalpabili bit, vanno in celere macero: come scriveva già nell’Ottocento Bethmann-Hollweg, basta uno iota del legislatore per fare carta straccia di intere biblioteche.
Qui però le modifiche dettate dalla l. 206/2021 rispetto all’ultima versione del d.d.l. licenziato dal Senato non sono poi molte: sicché pare più comodo e semplice, per chi scrive e per il paziente lettore, riunire qui un primo commento unitario alle novelle in materia di esecuzione forzata, riprendendo gran parte di quanto scritto in allora.
Si ricorderà, dunque, che nel maggio 2021 erano stati pubblicati corposi emendamenti governativi al d.d.l. delega AS 1662/XVIII, presentato al Senato il 9 gennaio 2020. A fine maggio 2021 eran divenute pubbliche le proposte formulate dalla Commissione ministeriale presieduta da Francesco Paolo Luiso e a giugno gli emendamenti governativi vennero presentati al Senato: il quale, nel mese di settembre 2021, ha approvato con il voto di fiducia il testo uscito dai lavori della Commissione Giustizia, a sua volta largamente emendato. Fiducia chiesta e concessa “a rime obbligate” anche dalla Camera dei deputati, secondo ormai consolidata metodologia legiferante, dirigistica e governativa: tutto è necessario e urgente e vi è sempre qualche emergenza cui far fronte, senza alternative possibili né plausibili, giusta il motto thatcheriano «There Is No Alternative» (TINA in acronimo) [1].
Ha visto così luce la legge 26 novembre 2021, n. 206[2], pubblicata in G.U. n. 292 del 9 dicembre 2021 ed entrata in vigore, decorsi i canonici quindici giorni di vacatio legis, la vigilia di Natale del 2021, intitolata «Delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata»[3]. Proprio a cagione della fiducia, posta dal Governo e ottenuta dalle due Camere con “doppia conforme”, la legge è composta da un solo articolo, suddiviso in numerosi commi, lettere (anche doppie), numeri e sotto-numeri, che rendono arduo orientarsi entro vasta congerie di novelle, da attuare per lo più con decreti delegati, mentre alcune opereranno già dal 22 giugno 2022, appena dopo il solstizio d’estate, a far tempo dal centottantesimo giorno dall’entrata in vigore della l. 206, come recita il comma 37 dell’articolo unico.
Sono già all’opera gruppi di lavoro nominati dal Governo per approntare celermente gli schemi di decreti delegati, il cui termine scadrà con la vigilia del Natale 2022 – salvo che per le deleghe più ampie e impegnative, come quelle per il Tribunale delle persone, dei minorenni e delle famiglie e per il Testo Unico degli Strumenti Complementari alla giurisdizione, TUSC in acronimo – onde rispettare i tempi di erogazione dei fondi europei del Recovery Plan post-pandemico, tradottosi nell’ormai celebre e quasi proverbiale PNRR, Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, in attesa del prossimo Recovery Plan post-bellico, di emergenza in emergenza, in endemico stato di eccezione.
Le modifiche al processo esecutivo sono contenute nel comma 12 quanto alla delega, mentre si trovan disperse nei commi 29 e 32 quelle destinate a entrare in vigore il 22 giugno 2022, in quanto «misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti… in materia di esecuzione forzata”, come si legge nell’ultima parte del non breve titolo della l. 206/2021.
Invertendo la disposizione topografica e seguendo l’ordine diacronico della vigenza, prendiamo le mosse da quest’ultime. Trattandosi di articolo unico, indicheremo soltanto commi, lettere e numeri.
2. La nuova competenza per l’espropriazione di crediti della P.A. in capo ai tribunali dove ha sede l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato, nel cui distretto il creditore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede (comma 29, che modifica l’art. 26 bis, comma 1, c.p.c. a far tempo dal 22 giugno 2022)
Il comma 29 riscrive l’art. 26 bis, comma 1, c.p.c. sul «Foro relativo all’espropriazione forzata di crediti» nel seguente modo: «Quando il debitore è una delle pubbliche amministrazioni indicate dall’art. 413, quinto comma, per l’espropriazione forzata di crediti è competente, salvo quanto disposto dalle leggi speciali, il giudice del luogo dove ha sede l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato, nel cui distretto il creditore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede».
Nella Relazione illustrativa agli emendamenti governativi a suo tempo presentati si spiegano le ragioni dell’intervento, imposte dai nuovi criteri di finanza pubblica che, soprattutto in vista degli ingenti fondi europei del Recovery Plan, accentrano in Roma il servizio di tesoreria e così, sperabilmente, il controllo della spesa pubblica, che aggrava viepiù il nostro debito pubblico e il rapporto debito/PIL, il quale veleggia oltre la soglia del 160%, come ben sappiamo e ci viene ripetuto ogni dì, tanto da dover rivolgere a Domineddio evangelica supplica: «Rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori».
«Con un primo intervento viene modificata la competenza per territorio nei procedimenti di espropriazione forzata di crediti nei confronti della P.A.», si legge nella Relazione. «In particolare, per effetto del prossimo accentramento della funzione di tesoreria statale, il mantenimento del criterio di cui al vigente articolo 26-bis del codice di procedura civile comporterebbe la concentrazione di tutte le procedure esecutive di cui sopra presso il Tribunale di Roma, con conseguente insostenibilità del relativo carico. La modifica introdotta, conciliando il nuovo criterio del foro del creditore con il principio del foro erariale, radica la competenza nel foro dove ha sede l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato, nel cui distretto il creditore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede, consentendo così una ragionevole distribuzione delle controversie tra diversi tribunali distrettuali».
La modifica della competenza – per la quale varrà ovviamente la regola della perpetuatio competentiae di cui all’art. 5 c.p.c., nel senso che il nuovo criterio si applicherà soltanto alle procedure esecutive promosse successivamente all’entrata in vigore della nuova disposizione – non è di lieve momento, atteso che:
- sostituisce al foro del terzo debitor debitoris il foro del creditore verso la P.A.;
- concentra le procedure sul tribunale del capoluogo del distretto di corte d’appello in cui risiede o ha domicilio o, in caso di persona giuridica, ha sede il creditore: talché, per esemplificare, quando il creditore verso la P.A. risieda o abbia domicilio o (se persona giuridica o altro ente) sede a Viterbo, competente per l’espropriazione del credito sarà il Tribunale di Roma; quando il creditore verso la P.A. risieda o abbia domicilio o sede a Como, competente per l’espropriazione del credito sarà il Tribunale di Milano.
Frutto di iterativo lapsus calami appare il richiamo alla «dimora» del creditore, in alternativa alla residenza o al domicilio: per le persone fisiche il criterio della dimora è solo sussidiario, essendo invocabile solo quando residenza o domicilio siano ignoti (cfr. l’art. 18 c.p.c.); ritenere che il creditore possa procedere in executivis in qualunque luogo abbia una dimora, magari una seconda casa di vacanza, significa consegnare il criterio di competenza al più assoluto arbitrio e ripetere le gravi incertezze che abbiamo conosciuto in questo periodo di limitazioni pandemiche, avuto riguardo ai trasferimenti da e verso le seconde case.
All’emendamento è sottesa la peculiare disciplina dell’espropriazione di crediti a carico della P.A. che, per dovere di completezza, par d’uopo compendiare di seguito, traendola da altro lavoro[4].
Stante la demanialità e, dunque, l’impignorabilità di gran parte dei beni della P.A., il pignoramento delle somme della stessa P.A. è il modo più efficace e, dove possibile, rapido per conseguire il pagamento dei crediti vantati verso la stessa, in forza di titoli esecutivi che vanno notificati centoventi giorni prima di poter intimare il precetto, secondo quanto prevede l’art. 14, comma 1, d.l. n. 669 del 1996 e successive modificazioni, a pena di nullità del precetto e di inammissibilità dell’azione esecutiva, rilevabile anche d’ufficio dal giudice dell’esecuzione. Scaduto tale spatium deliberandi et adimplendi, concesso alla P.A. per dare corso all’adempimento secondo le procedure burocratiche interne, il creditore potrà intimare il precetto e, decorso il termine dilatorio di dieci giorni, chiedere il pignoramento oppure potrà proporre dinanzi al TAR il giudizio per l’ottemperanza ai sensi degli artt. 112 ss. cod. proc. amm., mediante nomina di un commissario ad acta, che compia in luogo della P.A. gli atti amministrativi necessari ad adempiere.
La l. n. 720 del 1984 ha istituito il sistema di tesoreria unica, imponendo a enti e organismi pubblici in genere l’obbligo di mantenere le proprie disponibilità liquide o le eccedenze di cassa esclusivamente in contabilità speciali o conti correnti infruttiferi presso le sezioni di tesoreria provinciale dello Stato. A istituti di credito convenzionati sono affidate le funzioni di tesorieri o cassieri degli enti e degli organismi pubblici soggetti al sistema della tesoreria unica. Gli istituti di credito convenzionati effettuano, nella qualità di organi di esecuzione degli enti e degli organismi suddetti, le operazioni di incasso e di pagamento a valere sulle contabilità speciali aperte presso le sezioni di tesoreria provinciale dello Stato.
La disciplina sulla tesoreria unica si basa sul principio che il denaro pubblico deve uscire esclusivamente dalla tesoreria dello Stato solo al momento della effettiva spesa da parte degli enti destinatari: questo sistema accentua il ruolo della Banca d’Italia, quale affidataria del servizio unico di tesoreria e gestore dell’intero sistema dei flussi finanziari connessi con gli incassi e i pagamenti di pertinenza del bilancio dello Stato e degli altri enti ricompresi nel settore pubblico.
Ai sensi dell’art. 14, comma 1 bis, d.l. n. 669 del 1996, decorso il termine dilatorio di centoventi giorni dal perfezionarsi della notificazione del titolo esecutivo, l’atto di precetto e il successivo pignoramento vanno notificati, a pena di nullità rilevabile anche d’ufficio dal giudice dell’esecuzione, presso la struttura territoriale dell’ente pubblico debitore, nella cui circoscrizione risiedono o hanno sede i soggetti privati interessati.
Ai sensi dell’art. 1 bis dell’anzidetta l. n. 720 del 1984 sul sistema di tesoreria unica, i pignoramenti a carico di enti e organismi pubblici delle somme affluite nelle contabilità speciali intestate agli stessi si eseguono esclusivamente secondo le forme del pignoramento presso terzi, con atto di pignoramento ex art. 543 c.p.c. notificato all’azienda o istituto cassiere o tesoriere dell’ente od organismo contro il quale si procede, nonché al medesimo ente od organismo debitore. Il cassiere o tesoriere assume la veste del terzo pignorato, ai fini della dichiarazione di cui all’art. 547 c.p.c. e di ogni altro obbligo e responsabilità ex art. 546 c.p.c., essendo tenuto a vincolare l’ammontare per cui si procede nelle contabilità speciali con annotazione nelle proprie scritture contabili.
In base al Regolamento per l’amministrazione del patrimonio e per la contabilità generale dello Stato, r.d. n. 827 del 1924 (artt. 498 e 502), le amministrazioni, enti, uffici o funzionari ai quali siano notificati pignoramenti relativi a somme dovute dalla P.A., sospendono l’ordine di pagamento delle somme ai quali i suddetti atti si riferiscono, dandone notizia alla Corte dei conti e all’amministrazione centrale. Quando gli atti contengano citazione a comparire davanti all’autorità giudiziaria, ne è subito avvertita l’Avvocatura dello Stato per i provvedimenti di sua competenza, comunicando gli elementi necessari perché possa essere resa la dichiarazione delle somme dovute, secondo le norme del codice di rito. Se gli atti non siano nulli o inefficaci per disposizione esplicita di legge o per vizio di forma, l’amministrazione centrale, sentita l’Avvocatura dello Stato, dispone che il pagamento venga effettuato. In caso contrario, non si dà corso al pagamento, fino a che non sia notificata sentenza dell’autorità giudiziaria passata in giudicato sulla validità degli atti o sull’assegnazione delle somme, salvo che il creditore pignorante non rinunzi formalmente al pignoramento notificato.
La normativa sulla tesoreria unica prevede dunque, quale unica forma di pignoramento del denaro della P.A., quella del pignoramento presso il tesoriere. In ragione di ciò, non sono ammessi pignoramenti presso le sezioni di tesoreria dello Stato e presso le sezioni decentrate del bancoposta anziché presso l’azienda o l’istituto cassiere o tesoriere dell’ente debitore, a pena di nullità rilevabile anche d’ufficio. Gli atti di pignoramento eventualmente notificati non determinano obbligo di accantonamento da parte delle sezioni di tesoreria dello Stato e presso le sezioni decentrate del bancoposta e non sospendono l’accreditamento di somme nelle contabilità intestate agli enti ed organismi pubblici.
Il tesoriere convenzionato con la P.A. non agisce in forza di un mandato o per effetto di delegazione di pagamento, bensì quale adiectus solutionis causa necessario, non potendo i pagamenti in denaro della P.A. aver luogo, se non, appunto, mediante il tesoriere, in forza della normativa applicabile al rapporto di concessione del servizio di tesoreria e per la natura pubblicistica del servizio svolto per conto della P.A. Il servizio convenzionato di tesoreria è, dunque, strumento necessario per il pagamento dei debiti dell’ente pubblico e veicolo per la corresponsione della liquidità necessaria a estinguere i debiti di questo.
Nel testo oggi vigente dell’art. 26 bis, comma 1, c.p.c., la competenza funzionale è attribuita, in deroga al comma 2 del medesimo art. 26 bis c.p.c., all’ufficio giudiziario del luogo dove il terzo debitor debitoris ha la residenza, il domicilio, la dimora (in via puramente sussidiaria) o la sede, cioè segnatamente all’ufficio giudiziario del luogo dove si trova l’articolazione territoriale dell’azienda o istituto cassiere o tesoriere dell’ente od organismo pubblico debitore, che provvede in concreto all’espletamento del servizio di tesoreria, secondo le convenzioni fra P.A. e il cassiere o tesoriere incaricato, cioè segnatamente all’ufficio giudiziario del luogo in cui opera la filiale, la succursale o l’agenzia che ha in carico il rapporto che forma oggetto della dichiarazione da parte del terzo tesoriere convenzionato.
Tuttavia, sempre ai sensi del suddetto art. 14, comma 1 bis, d.l. n. 669 del 1996 e in deroga all’art. 26 bis, comma 1, c.p.c., per l’espropriazione di crediti a carico di enti o istituti esercenti forme di previdenza e assistenza obbligatorie e organizzati su base territoriale (come l’INPS e l’INAIL), la competenza funzionale appartiene non già al tribunale del luogo in cui ha residenza, domicilio, dimora o sede il terzo debitor debitoris, bensì al tribunale del circondario in cui è stato emesso il provvedimento giurisdizionale in forza del quale la procedura esecutiva è promossa, a pena di improcedibilità rilevabile (recte di declinatoria di competenza rilevabile e pronunciabile) anche d’ufficio.
Il pignoramento presso terzi a carico della P.A. perde ipso iure efficacia, quando dal suo compimento è trascorso un anno senza che sia stata disposta l’assegnazione. L’ordinanza che dispone l’assegnazione dei crediti ai sensi dell’articolo 553 c.p.c. perde ipso iure efficacia, se il creditore procedente, entro il termine di un anno dalla data in cui è stata emessa, non provvede ad agire per l’esazione delle somme assegnate. Norme queste dettate dall’art. 14, comma 1 bis, d.l. n. 669 del 1996 allo scopo di evitare che il vincolo pignoratizio si protragga per un tempo eccessivamente lungo nella contabilità dell’ente pubblico.
Accentrando in Roma il sistema di tesoreria unica, il criterio del debitor debitoris nell’oggi vigente art. 26 bis, comma 1, c.p.c. finirebbe per concentrare tutte le procedure presso terzi a carico della P.A. negli uffici giudiziari della capitale. Di qui l’idea – stante il controllo demandato all’Avvocatura dello Stato sulle procedure di espropriazione di crediti a carico della P.A. ai sensi della su descritta disciplina – di affidare la competenza al foro dove essa ha sede, cioè presso i tribunali del capoluogo del distretto di corte d’appello in cui risiede o ha domicilio o ha sede il creditore, anziché il terzo debitor debitoris, cioè il cassiere o tesoriere esercente il servizio per la P.A. in sede decentrata. E di qui anche il nuovo art. 26 bis, comma 1, c.p.c., che concentra le procedure esecutive a carico della P.A. sul «giudice del luogo dove ha sede l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato, nel cui distretto il creditore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede», cioè presso il tribunale della sede distrettuale, anziché fare riferimento al foro del terzo pignorato.
3. Onere del creditore pignorante di notificare e depositare avviso al debitore esecutato e al terzo pignorato di avvenuta iscrizione a ruolo, a pena di inefficacia del pignoramento presso terzi (comma 32, che aggiunge i commi 5 e 6 all’art. 543 c.p.c. a far tempo dal 22 giugno 2022)
Il comma 32 così recita: «All’articolo 543 del codice di procedura civile dopo il quarto comma sono aggiunti i seguenti:
«Il creditore, entro la data dell’udienza di citazione indicata nell’atto di pignoramento, notifica al debitore e al terzo l’avviso di avvenuta iscrizione a ruolo con indicazione del numero di ruolo della procedura e deposita l’avviso notificato nel fascicolo dell’esecuzione. La mancata notifica dell’avviso di cui al precedente comma o il suo mancato deposito nel fascicolo della esecuzione determina l’inefficacia del pignoramento.
Qualora il pignoramento sia eseguito nei confronti di più terzi, l’inefficacia si produce solo nei confronti dei terzi rispetto ai quali non è notificato o depositato l’avviso. In ogni caso, ove la notifica dell’avviso di cui al presente comma non è effettuata, gli obblighi del debitore e del terzo cessano alla data dell’udienza indicata nell’atto di pignoramento”».
La Relazione illustrativa agli emendamenti governativi a suo tempo presentati al Senato osservava quanto segue: «La previsione mira a completare il disposto dell’articolo 164-ter disp. att. del codice di procedura civile che, al primo comma, stabilisce che il creditore – entro cinque giorni dal termine prescritto per il deposito della nota di iscrizione a ruolo della procedura (nell’espropriazione presso terzi, 30 giorni ex articolo 543 del codice di procedura civile) – provveda a dichiarare al debitore e all’eventuale terzo, “mediante atto notificato”, la sopravvenuta inefficacia del pignoramento derivante dal tardivo o mancato deposito. La disposizione vigente mira a consentire una rapida liberazione dei beni (soprattutto, dei crediti pignorati presso debitores debitorum pubblici, come INPS) già sottoposti a pignoramento, evitando il ricorso al giudice dell’esecuzione per sbloccare somme o cespiti non più vincolati alla soddisfazione del creditore in ragione dell’automatica cessazione degli obblighi di custodia in capo al terzo. Tuttavia, la disposizione non prevede alcuna sanzione (salvo, presumibilmente, una responsabilità aquiliana del creditore nei confronti dell’esecutato) e la mancata informazione al terzo non consente a quest’ultimo di avvedersi della già verificatasi liberazione dei beni. Occorre conseguentemente prevedere che anche dell’avvenuta iscrizione a ruolo – e, dunque, della permanenza del vincolo di pignoramento – sia reso edotto il terzo pignorato, stabilendo altresì che l’inottemperanza all’obbligo di avviso del terzo comporti il venir meno degli obblighi ex articolo 546 del codice di procedura civile in capo a quest’ultimo a far data dall’udienza indicata nell’atto di pignoramento».
I nuovi commi 4 e 5 aggiunti all’art. 543 c.p.c. pongono a carico del creditore pignorante ulteriori adempimenti formali, dopo che era già stato onerato a depositare telematicamente copie attestate conformi del titolo esecutivo, del precetto e del pignoramento, iscrivendo a ruolo la procedura esecutiva presso terzi, entro un termine perentorio di trenta giorni dalla restituzione del pignoramento da parte dell’ufficiale giudiziario, innovando rispetto al sistema precedente, che prevedeva tout court la trasmissione del pignoramento direttamente dall’ufficiale giudiziario alla cancelleria, per la formazione del fascicolo d’ufficio, inserendo poi titolo esecutivo e precetto al momento della costituzione del creditore.
Il comma 4 dell’art. 543, che le legge 206/2021 integra con ulteriori due commi a far tempo dal 22 giugno 2022, era stato introdotto con d.l. 132/2014 e così recita: «Eseguita l’ultima notificazione, l’ufficiale giudiziario consegna senza ritardo al creditore l’originale dell’atto di pignoramento, con il titolo esecutivo ed il precetto. Il creditore deve depositare telematicamente nella cancelleria dell’ufficio giudiziario competente per l’esecuzione la nota di iscrizione a ruolo, con copie conformi dell’atto di pignoramento, del titolo esecutivo e del precetto, entro il termine perentorio di trenta giorni dalla restituzione effettuata dall’ufficiale giudiziario. La conformità di tali copie è attestata dall’avvocato del creditore. Il cancelliere al momento del deposito forma il fascicolo telematico dell’esecuzione. Il pignoramento perde efficacia ipso iure, quando la nota di iscrizione a ruolo e le copie degli atti sono depositate oltre il termine di trenta giorni dalla consegna al creditore»[5].
L’outsourcing privatistico del servizio giustizia – che procede e s’incrementa pari passu con «le magnifiche sorti e progressive» della digitalizzazione e del PCT (v. ora le novelle di cui al comma 17 della l. delega 206/2021)[6] – or si preoccupa di porre il creditore a servizio del debitore esecutato e del terzo pignorato, onerandolo a notificare loro, entro la data dell’udienza indicata in citazione nell’atto di pignoramento, l’avviso di avvenuta iscrizione a ruolo con indicazione del numero di ruolo della procedura, per poi depositarlo nel fascicolo dell’esecuzione: il tutto a pena di inefficacia ipso iure del pignoramento, onde scongiurare il rischio (peraltro ben tollerabile dal sistema) che il creditore che non abbia iscritto a ruolo la procedura nel termine di trenta giorni dalla restituzione del pignoramento (usualmente perché non sono pervenute medio tempore dichiarazioni dei terzi o queste sono negative e il creditore non saprebbe come altrimenti accertare l’esistenza di debiti del terzo verso l’esecutato), ometta di darne avviso al debitore e ai terzi pignorati, affinché questi possano togliere il vincolo apposto, a norma dell’art. 164 ter disp. att. c.p.c., introdotto anch’esso con il d.l. 132/2014, rubricato (con evidente metonimia) «Inefficacia del pignoramento per mancato deposito della nota di iscrizione a ruolo» e che così recita nel suo primo comma: «Quando il pignoramento è divenuto inefficace per mancato deposito della nota di iscrizione a ruolo nel termine stabilito, il creditore entro cinque giorni dalla scadenza del termine ne fa dichiarazione al debitore e all’eventuale terzo, mediante atto notificato. In ogni caso ogni obbligo del debitore e del terzo cessa quando la nota di iscrizione a ruolo non è stata depositata nei termini di legge».
Par di trovarsi nel ‘mondo alla rovescia’ di cui favellava Hegel: l’esecuzione forzata dovrebbe servire a realizzare i crediti e dovrebbe porre la tutela dei creditori al centro dei proprî scopi, facendosi strumento perché essi ottengano «tutto quello e proprio quello cui hanno diritto» in base al titolo esecutivo. Continuare ad affliggerli con adempimenti pro debitoribus et tertiis, onerandoli di notificazioni che potrebbero essere assai difficoltose, significa solo generare artificiosi ostacoli al concreto esercizio dell’azione esecutiva e far sorgere ulteriori questioni che, non dubitiamo, giungeranno a bussare alle vetuste aule della Suprema Corte di cassazione.
Si confida che almeno per l’avviso da notificare al debitore basti il deposito telematico in cancelleria, quando questi abbia omesso di dichiarare la residenza o di eleggere domicilio nel circondario del giudice adito, giusta l’invito contenuto nell’atto di pignoramento, ai sensi dell’art. 492, comma 2, c.p.c. Quanto al terzo, si dovrà reiterare la notificazione negli stessi modi seguiti per l’atto di pignoramento.
Peraltro, «esta selva selvaggia e aspra e forte» di adempimenti formalistici a carico del creditore pare assai poco compatibile con la celerità che dovrebbe esser propria dell’espropriazione presso terzi, la quale prevede un termine a comparire di soli dieci giorni tra il perfezionarsi della notificazione dell’atto di pignoramento e l’udienza fissata per la comparizione del debitore (v. lo stesso art. 543 c.p.c., che al comma 2 richiama il termine dilatorio del pignoramento, di cui all’art. 501 c.p.c.).
Bisanzio e il bizantinismo non cessano di esercitare il loro millenario influsso sul diritto italiano nel secolo XXI, in postmoderne fogge burocratico-digitali.
4. Abolizione della formula esecutiva (comma 12, lett. a)
La lett. a) del comma 12 demanda al Governo di «prevedere che, per valere come titolo per l’esecuzione forzata, le sentenze e gli altri provvedimenti dell’autorità giudiziaria e gli atti ricevuti da notaio o da altro pubblico ufficiale debbano essere formati in copia attestata conforme all’originale, abrogando le disposizioni del codice di procedura civile e di altre leggi che si riferiscono alla formula esecutiva e alla spedizione in forma esecutiva».
Nella Relazione illustrativa agli emendamenti governativi presentati a suo tempo si legge quanto segue: «Di grande rilievo è certamente la disposizione di cui alla lettera a) con la quale si prevede che, per valere come titolo per l’esecuzione forzata, le sentenze e gli altri provvedimenti dell’autorità giudiziaria e gli atti ricevuti da notaio o da altro pubblico ufficiale debbano essere formati in copia attestata conforme all’originale, abrogando le disposizioni del codice di procedura civile e di altre leggi che si riferiscono alla formula esecutiva e alla spedizione in forma esecutiva. Già da molto tempo la dottrina ha sottolineato che la formula esecutiva è un requisito formale la cui utilità è scarsamente comprensibile. E anche nella giurisprudenza di legittimità l’articolo 475 del codice di procedura civile è sempre stato interpretato in modo tale da escludere che la formula esecutiva costituisca elemento indefettibile per un titolo esecutivo, la cui identificazione avviene in base ad un approccio sostanziale fondato sulla sussistenza dei requisiti ex articolo 474 del codice di procedura civile (già Cass. 2830/1963, confermata nei decenni successivi, affermava che l’irregolarità della formula o la sua omissione devono essere denunciati con l’opposizione ex articolo 617 del codice di procedura civile). Da ultimo, la Corte di legittimità ha statuito, ulteriormente indebolendo la rilevanza della formula esecutiva, che “L’omessa spedizione in forma esecutiva della copia del titolo esecutivo rilasciata al creditore e da questi notificata al debitore determina una irregolarità formale del titolo medesimo, che deve essere denunciata nelle forme e nei termini di cui all’art. 617, comma 1, c.p.c., senza che la proposizione dell’opposizione determini l’automatica sanatoria del vizio per raggiungimento dello scopo, ai sensi dell’art. 156, comma 3, c.p.c.; tuttavia, in base ai principi di economia processuale, di ragionevole durata del processo e dell’interesse ad agire, il debitore opponente non può limitarsi, a pena di inammissibilità dell’opposizione, a dedurre l’irregolarità formale in sé considerata, senza indicare quale concreto pregiudizio ai diritti tutelati dal regolare svolgimento del processo esecutivo essa abbia cagionato” (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 3967 del 12/02/2019). La disciplina legislativa sopravvenuta – riguardo all’iscrizione a ruolo dei processi di espropriazione mediante il deposito di una copia (formata dallo stesso difensore del creditore) del titolo rilasciato in forma esecutiva – rende vieppiù superflua la normativa codicistica che, nell’intento di evitare la formazione di vari duplicati del titolo e di arginare eventuali abusi (i quali possono essere azionati con altri strumenti; v., ad esempio, Cass. 7409/2021), dispone stringenti obblighi formali per il pubblico ufficiale deputato all’apposizione della formula. L’eliminazione della formula esecutiva (rectius, la possibilità di agire in executivis sulla scorta di una copia attestata conforme all’originale del titolo esecutivo) consente di eliminare adempimenti inutili per il personale amministrativo degli uffici giudiziari, per i notai (o per i conservatori degli archivi notarili) e anche per i legali (evitando l’incombente di dover richiedere l’apposizione della formula esecutiva e il rilascio della copia esecutiva, ben potendo gli stessi estrarre copia dei provvedimenti giudiziali dal PCT anche attestandone la conformità ai rispettivi originali)».
Identiche espressioni si trovano nella Relazione della Commissione Luiso (punto 4.1, pagg. 100 s.), salvo aggiungere richiami dottrinali a Satta, Carnacini, Redenti e Vellani.
Già altrove e nel contributo ricordato in premessa[7], ci siamo soffermati sulle origini della formula esecutiva con l’affermarsi dello Stato assoluto di Luigi XIV e le «lettres obligatoires, faites et passées sous Scel Royal», il sigillo reale apposto dal notaro o dal cancelliere per incarico del sovrano, quale espressione del potere esecutivo che a lui soltanto poteva appartenere, esercizio di iurisdictio pars summi imperii. Soltanto l’apposizione del sigillo reale conferiva all’atto giudiziale o notarile l’efficacia esecutiva, legittimando il creditore a rivolgersi agli organi amministrativi dello Stato per l’esecuzione forzata del diritto consacrato nel titolo: «Qualunque sentenza sarà in tutta l’estensione del nostro regno in virtù d’un pareatis del gran suggello, senza che faccia d’uopo domandare il permesso alle nostre corti nella cui giurisdizione vorrassi far eseguire… Sarà nonpertanto permesso alle parti e agli esecutori dei giudicati, fuori l’ambito delle corti ove saranno stati resi, di prendere un pareatis nella cancelleria del parlamento ove dovranno eseguirsi, cui i guardasugelli saran tenuti a sugellare a pena d’interdizione, senza entrare in cognizione di causa» (così il Tit. XXVII, art. 6, dell’Ordonnance regia del 1667).
La formula esecutiva, da apporre ai titoli giudiziali e agli atti pubblici ex art. 475 c.p.c., è residuo dell’ancien régime, con quel nos maiestatis («Comandiamo a tutti gli ufficiali giudiziari che ne siano richiesti e a chiunque spetti…»), verso il quale ironizzava Salvatore Satta, facendone seguire puntute critiche sulla sua pratica inutilità[8].
Abrogare la formula – già oltremodo svalutata dalla giurisprudenza, che non fa discendere dalla sua mancanza nullità alcuna, se l’opponente agli atti esecutivi non indichi specificamente quale concreto pregiudizio ai diritti tutelati dal regolare svolgimento del processo esecutivo abbia patito, giusta il principio «pas de nullité sans grief»[9] – significa semplicemente rinunciare a un relitto storico: la forza esecutiva viene soltanto dalla legge, non dalla formula.
Eventuali abusi del creditore e del suo difensore, che eccedano nell’esercizio di plurime o sproporzionate azioni esecutive, ben potranno essere repressi, immediatamente dopo la notifica del precetto, con la sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo, ai sensi dell’art. 615, comma 1, c.p.c.; una volta intraprese le azioni esecutive, mediante lo strumento della sospensione dell’esecuzione (art. 624 c.p.c.) e quello della riduzione del pignoramento (art. 496 c.p.c.).
Potranno esservi abusi e inconvenienti relativamente ad alcune regole che presuppongono la formula esecutiva (si pensi all’art. 663 c.p.c. sulla convalida di sfratto, onde, in mancanza di opposizione, «il giudice convalida la licenza o lo sfratto e dispone con ordinanza in calce alla citazione l’apposizione su di essa della formula esecutiva») e a talune prassi invalse ab immemorabili tempore: ma, si sa, «adducere inconveniens non est solvere argumentum».
5. Sospensione del termine di efficacia del precetto in caso di indagini telematiche ex art. 492 bis c.p.c. (comma 12, lett. b)
La lett. b) del comma 12 demanda al Governo di «prevedere che se il creditore presenta l’istanza di cui all’articolo 492-bis del codice di procedura civile, il termine di cui all’articolo 481, primo comma, del codice di procedura civile, rimanga sospeso e riprenda a decorrere dalla conclusione delle operazioni previste dal comma 2, dell’articolo 492-bis», sì da evitare «il paradosso di una perdita di efficacia del precetto indipendente dalla condotta inerte del creditore», come si legge nella Relazione illustrativa dell’emendamento.
Non v’è granché da osservare sulla sospensione del termine di efficacia del precetto di cui all’art. 481 c.p.c. – novanta giorni, non soggetti a sospensione feriale, trattandosi di atto stragiudiziale prodromico all’esecuzione forzata – in conseguenza della presentazione dell’istanza al presidente della sezione esecuzioni del tribunale, affinché autorizzi la ricerca con modalità telematiche dei beni da pignorare. La prassi si è già orientata nel senso di autorizzare tali indagini prima che il precetto sia stato notificato, sia per sfruttare un minimo di ‘effetto sorpresa’, senza mettere il debitore sull’avviso dell’imminente inizio dell’azione esecutiva, sia soprattutto perché le strutture tecnologiche, necessarie a consentire l’accesso diretto da parte dell’ufficiale giudiziario alle banche dati, non sono ancor funzionanti (dal 2014, anno di introduzione dell’art. 492 bis c.p.c.): talché è il creditore medesimo a doversi adoprare per accedervi, previamente munito dell’autorizzazione presidenziale, a mente dell’art. 155 quinquies disp. att. c.p.c., il quale conferma l’aforisma per cui «nulla è più definitivo del provvisorio» o, alla francese, «il n’y a que le provisoire qui dure». Tutto ciò dovrebbe pur far riflettere su quali siano i problemi concreti degli uffici giudiziari e, più ancora, i bisogni effettivi di chi quotidianamente con essi abbia la (s)ventura di avere a che fare.
6. Deposito della documentazione o del certificato notarile attestante le risultanze delle visure catastali e dei registri immobiliari entro il medesimo termine fissato per il deposito dell’istanza di vendita (comma 12, lett. c, dell’art. 1 l. delega 206/2021)
La lett. c) del comma 12 demanda al Governo di «prevedere che il termine prescritto dal secondo comma dell’articolo 567 del codice di procedura civile per il deposito dell’estratto del catasto e dei certificati delle iscrizioni e trascrizioni ovvero del certificato notarile sostitutivo coincida con quello previsto dal combinato disposto degli articoli 497 e 501 del medesimo codice per il deposito dell’istanza di vendita, prevedendo che il predetto termine possa essere prorogato di ulteriori 45 giorni, nei casi previsti dal terzo comma dell’articolo 567».
Nella Relazione illustrativa degli emendamenti governativi a suo tempo presentati si legge quanto segue: «Al fine di contenere la durata del processo di esecuzione immobiliare si propone di eliminare il termine – attualmente di 60 giorni, con decorrenza dall’istanza di vendita – per il deposito della documentazione ipotecaria e catastale ex articolo 567, secondo comma, del codice di procedura civile, disponendo che anche tale documentazione debba essere depositata entro 45 giorni dal pignoramento. La modifica proposta non rende più gravosa l’attività dei creditori, i quali sono consapevoli dell’esigenza di produrre la documentazione volta a fornire al giudice dell’esecuzione la prova della titolarità del bene staggito in capo all’esecutato (Cass. 11638/2014; Cass. 15597/2019) sin dall’inizio del processo; inoltre, l’ampio ricorso, nella prassi giudiziaria, alla certificazione notarile sostitutiva (spesso formata con consultazione telematica dei pubblici registri) non giustifica più un lungo lasso temporale per reperire le certificazioni rilasciate dai pubblici uffici, ferma restando, peraltro, la possibilità di prorogare il termine – per un identico periodo di 45 giorni – negli stessi casi già previsti dall’articolo 567, terzo comma, del codice di procedura civile».
La novella pare di scarso momento: non è abbreviando i termini ai creditori (adempimenti sempre più onerosi e stringenti preclusioni vengon fatti sempre ricadere sugli utenti, mai sugli uffici, nell’incessante perpetuum mobile delle riforme processuali) o risparmiando sessanta giorni (ammesso che il creditore li utilizzi tutti) che si otterranno chissà quali accelerazioni delle procedure e risparmi di tempo. Di ciò si trae probatio probata dall’inutile e dannosa dimidiazione di vari termini cui si ricorse nel 2009 (tra cui quello lungo ad impugnandum ex art. 327 c.p.c., portato da un anno a sei mesi, con non lievi problemi di coordinamento con altre disposizioni che presupponevano la durata annuale del termine, come l’art. 328, ult. co., c.p.c.) e dall’ancor più inutile e giugulatoria riduzione della sospensione feriale dei termini cui si assistette nel 2014.
7. Anticipazione della nomina del custode dell’immobile pignorato in luogo del debitore, immediatamente dopo il deposito della certificazione notarile e contemporaneamente alla nomina dell’esperto stimatore, nonché cooperazione tra custode e stimatore sul controllo circa la completezza della documentazione ipotecaria e catastale (comma 12, lettere d, e, g)
Ben nota è la centralità del custode nelle best practices invalse anche prima delle varie riforme delle espropriazioni immobiliari, intervenute a far tempo dal 2005-2006. È personaggio in continua «ricerca d’autore»: un privato, ausiliario occasionale di giustizia (art. 65 c.p.c.), che ha visto ampliare a dismisura i compiti assegnatigli, sino a far le veci dell’ufficiale giudiziario nel dare esecuzione all’ordine di liberazione dell’immobile pignorato, senza neppure essere tenuto a osservare le forme dell’esecuzione in forma specifica per rilascio di immobile (artt. 605 ss. c.p.c.), come subito vedremo a proposito dell’ennesima novella che si prospetta per l’art. 560 c.p.c.
Il progressivo e crescente utilizzo di ausiliari privati nelle procedure esecutive non contraddice la riserva statuale dei poteri di esecuzione forzata, sebbene codesta forma di ‘esternalizzazione’ e di larvata privatizzazione si sia spinta forse un po’ troppo al di là delle colonne d’Ercole che segnano, a garanzia di tutti i concives, la suddetta riserva statuale, là dove, ad esempio, sistematicamente si delegano le vendite forzate a liberi professionisti o si affida la liberazione degli immobili staggiti al custode giudiziario, cui il giudice dell’esecuzione conferisce il potere di valersi direttamente della forza pubblica senza necessità di rivolgersi all’ufficiale giudiziario, che è l’organo istituzionalmente preposto all’uso legittimo della forza in sede esecutiva. Per non parlare della crescita esponenziale e della moltiplicazione delle spese inerenti alle procedure esecutive in tal modo ‘privatizzate’ attraverso l’apporto degli ausiliari: spese che, trovando collocazione ed essendo soddisfatte prima di qualsiasi altro credito azionato in executivis, riducono le somme distribuibili ai creditori e finiscono per danneggiare loro e il debitore medesimo, al quale ben difficilmente potrà essere attribuito il residuo della liquidazione dei suoi beni e sul quale, anzi, graverà la differenza dei crediti che non abbiano trovato integrale soddisfazione sul ricavato, non giovandosi di alcuna esdebitazione in grazia dell’espropriazione patita, se non quando acceda alle procedure concorsuali regolate dalla legge fallimentare e, in futuro, dal codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, approvato con d.lgs. n. 14 del 2019, ma ancora in attesa di entrare in vigore.
I variegati compiti affidati al custode, minuziosamente elencati nel d.m. 80/2009 in materia di compensi liquidabili, fanno di lui il «factotum della città», «pronto a far tutto, la notte e il giorno – Sempre d’intorno in giro sta», e così controllore, riscossore, agente immobiliare, accompagnatore nelle visite ai beni immobili subastati, esecutore degli ordini del giudice, ufficiale giudiziario, e chi più ne ha più ne metta.
Sempre in quest’ottica privatistica la lett. e) del comma 12 demanda al Governo di «prevedere che il giudice dell’esecuzione provveda alla sostituzione del debitore nella custodia nominando il custode giudiziario entro quindici giorni dal deposito della documentazione di cui al secondo comma dell’articolo 567 del codice di procedura civile, contemporaneamente alla nomina dell’esperto di cui all’articolo 569 del medesimo codice, salvo che la custodia non abbia alcuna utilità ai fini della conservazione o amministrazione del bene ovvero per la vendita».
Nella Relazione illustrativa degli emendamenti governativi a suo tempo presentati si legge quanto segue: «La sostituzione del debitore nella custodia assegnatagli ex lege (articolo 559, primo comma, del codice di procedura civile) può essere disposta A) su istanza del creditore pignorante o di un creditore intervenuto, B) quando l’immobile non sia occupato dal debitore, C) in caso di inosservanza degli obblighi incombenti sul custode. La stessa deve, invece, essere disposta – se custode dei beni pignorati è (ancora) il debitore e salvo che per la particolare natura degli stessi la sostituzione non abbia alcuna utilità – al più tardi nel momento in cui il giudice pronuncia l’ordinanza con cui è autorizzata la vendita o sono delegate le relative operazioni. La prassi della nomina anticipata del custode (coeva alla designazione dell’esperto stimatore) è largamente diffusa negli uffici giudiziari ed è stata annoverata tra le “Buone prassi” (individuate dal C.S.M. con propria delibera del 2017), perché essa consente di acquisire informazioni da soggetto qualificato già nella fase anteriore alla messa in vendita del cespite, nonché di assicurare alla procedura i frutti (naturali e civili) che sono oggetto di pignoramento ex articolo 2912 del codice civile. Solo in via residuale, quando nessuna delle funzioni custodiali appaia utile per la procedura, si deve invece prevedere che il giudice possa soprassedere alla designazione di un custode professionale».
Completa il quadro la lett. d) del comma 12, introdotta dalla Commissione Giustizia del Senato, che demanda al Governo di «prevedere che il custode di cui all’articolo 559 del codice di procedura civile collabori con l’esperto nominato ai sensi dell’articolo 569 del codice di procedura civile al controllo della completezza della documentazione di cui all’articolo 567, secondo comma, del codice di procedura civile».
Il principio non fa che positivizzare una prassi già invalsa nelle attività dei vari ausiliari privati, ai quali è oramai delegata per intero la gestione dell’espropriazione immobiliare, sotto la vigilanza del giudice dell’esecuzione.
Del pari superfluo è prevedere expressis verbis che «la relazione di stima e gli avvisi di vendita siano redatti secondo schemi standardizzati», come fa la lett. g) del comma 12: la prassi lo fa già da molti anni motu proprio, specie dopo l’avvento delle vendite telematiche; quanto alla relazione di stima, alla standardizzazione provvede l’art. 173 bis disp. att. c.p.c., con il consueto “furore analitico” del conditor postmoderno.
[1] Sia consentito rinviare a Tedoldi, «Come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori». Il Pater noster secondo Francesco Carnelutti e la responsabilità del debitore, Bologna, 2021; Id., Il giusto processo (in)civile in tempo di pandemia, Pisa, 2021.
[2] Esattamente trentun anni dopo la l. 26 novembre 1990, n. 353 «Provvedimenti urgenti (ça va sans dire…, ndr) per il processo civile», che segnò l’inizio dell’interminabile stagione di riforme processuali che perdura tutt’oggi, la meno peggiore delle quali fu l’abolizione del rito societario, introdotto nel 2003 (d.lgs. 5/2003), abrogato nel 2009 dopo più di un lustro di estenuante esasperazione degli operatori (l. 69/2009), eppure ancor riesumato, per molti aspetti, dalla l. delega 206/2021 (art. 1, comma 5) per la fase introduttiva del rito ordinario di cognizione.
[3] Primi commenti in Miccolis, L’esecuzione forzata nella riforma che ci attende, in Questione giustizia, 3/2021, 112 ss.; Vigorito, Gli interventi sul processo esecutivo previsti dal ddl delega AS 1662/XVIII collegato al «Piano nazionale di ripresa e resilienza», in Questione giustizia, 3/2021, 122 ss.
[4] Tedoldi, Esecuzione forzata, Pisa, 2020, 211 ss.
[5] Sulla norma sia consentito rinviare a Tedoldi, Esecuzione forzata, cit., 195 ss.
[6] Nonché, si vis, Tedoldi, Il processo civile telematico tra logos e techne, in Riv. dir. proc., 2021, 843 ss.
[7] Cfr. Tedoldi, Esecuzione forzata, cit., 26 ss.; Id., Gli emendamenti, cit.
[8] Satta, Commentario al c.p.c., III, Milano, 1965, 93: «L’origine di questa formula la rende del tutto estranea ai moderni ordinamenti, né si riesce a capire la sua singolare vitalità. Basti pensare al ridicolo di un cancelliere che comanda, sia pure in nome della legge, e col nos maiestatis, ai giudici dell’esecuzione e al pubblico ministero»
[9] Cass. 12 febbraio 2019, n. 3967, in Rass. esec. forz., 2019, 385, con note di S. Rusciano, F. Auletta, M. Farina, B. Capponi, A più voci sui principi di diritto pronunciati d'ufficio in tema di spedizione in forma esecutiva e interesse all'opposizione.
La dimensione estetico-identitaria del paesaggio e i suoi confini (Cons. St., IV, 28.1.2022 n. 624)
di Maria Grazia Della Scala
Sommario: 1. La vicenda: il recupero dei sottotetti – 2. L’accezione olistica di paesaggio – 3. La soluzione del Consiglio di Stato: autonomia e differenziazione – 4. Paesaggio e ambiente – 5. Paesaggio e governo del territorio: i confini della tutela paesaggistica e la discrezionalità urbanistica – 6. Conclusioni.
1. La vicenda: il recupero dei sottotetti.
La vicenda in esame prende le mosse da un’istanza di permesso di costruire per la realizzazione di tre appartamenti e l’ampliamento di un’unità abitativa nel sottotetto di un edificio, in applicazione delle norme di cui agli articoli 63 e 64 della legge per il governo del territorio della Regione Lombardia n.12/2005.
Il progetto riguardava un complesso immobiliare unitario, di proprietà indivisa, composto da due distinti corpi di fabbrica posti in successione tra loro e ciascuno dotato di proprio cortile; introduceva modifiche unicamente alle falde prospicienti un cortile delle quali sviluppava una lieve pendenza, visibile solo dall’interno della corte interna, quindi unicamente da chi era abilitato a farvi ingresso.
L’immobile non era gravato da alcun vincolo paesaggistico; l’intervento tuttavia era sottoposto a esame dell’impatto paesistico ai sensi dell’articolo 64 co. 8 della citata L. R. n.12/05, secondo il quale “I progetti di recupero ai fini abitativi dei sottotetti, che incidono sull’aspetto esteriore dei luoghi e degli edifici e da realizzarsi in ambiti non sottoposti a vincolo paesaggistico, sono soggetti all'esame dell'impatto paesistico previsto dal piano territoriale paesistico regionale”.
Tale apprezzamento si articola, a norma del predetto piano, approvato nel 2010, in una pluralità di valutazioni (artt. 35 ss.). Il progettista deve considerare preliminarmente la sensibilità paesistica del sito e il grado di incidenza del progetto, determinata dalle caratteristiche del sito stesso nonché dai rapporti che esso intrattiene con il contesto paesaggistico con il quale interagisce, secondo quanto stabilito nelle linee guida regionali di cui alla delibera di giunta dell’8 novembre 2002. L’“incidenza paesistica” di un progetto è poi considerata guardando all’entità e alla natura del condizionamento che il medesimo esercita sull’assetto paesaggistico del contesto, in ragione delle dimensioni geometriche di ingombro planimetrico e di altezza, del linguaggio architettonico con cui si esprime, della natura delle attività che è destinato a ospitare. L’“impatto paesistico”, infine, esprime l’entità dei prevedibili effetti sul paesaggio conseguenti alla realizzazione dell’intervento progettato e viene valutato “in base alla combinazione della sensibilità del sito e della incidenza del progetto”, sempre secondo quanto stabilito nelle linee guida di cui alla d.g.r. n. VII/11045 del 2002. Le predette linee guida affermano, tra l’altro, che “ogni intervento che opera una trasformazione del territorio è potenzialmente un intervento di trasformazione del paesaggio; l’aspetto di un intervento e il conseguente esito paesistico sono sostanzialmente valutabili solo a seguito della completa definizione progettuale dello stesso relazionata al contesto”.
La medesima l.r. n.12/05 prevede poi che ove le competenze in materia di autorizzazione paesaggistica e irrogazione delle sanzioni siano delegate agli enti locali, i medesimi debbano istituire un’apposita commissione con il compito, tra l’altro, di rendere pareri obbligatori nei procedimenti volti all’apprezzamento dell’impatto paesaggistico degli interventi.
In esito al parere reso dalla Commissione per il paesaggio istituita dal Comune di Milano, il permesso di costruire veniva negato. La Commissione, in particolare, considerava dirimente l’alterazione che il suddetto intervento avrebbe determinato sull’“equilibrio di contesto”, dipendente dal fatto che la realizzazione del sottotetto abitabile sembrava creare una “evidente disomogeneità” rispetto al resto della copertura del tetto dell’intero fabbricato, formato dal complesso immobiliare in questione e da altro adiacente, contrassegnato da diverso numero civico e di proprietà di altri soggetti. Il parere era coerente con il Manifesto degli indirizzi e delle linee guida elaborato dalla Commissione medesima nel 2016, il quale, in adesione a una nozione estesa di paesaggio, enuncia che “la copertura va sempre considerata anche come una sorta di facciata orizzontale che in molti casi è effettivamente percepibile dall’alto come tale”, assumendo altresì che gli interventi relativi a una parte solo di copertura producano “il rischio di alterare l’equilibrio compositivo dei caratteri architettonici dell’edificio”.
A fronte di un’istanza di riesame formulata dagli interessati e di nuovo parere negativo della Commissione del Paesaggio, il Comune ribadiva le proprie posizioni.
Gli interessati presentavano ricorso al TAR Lombardia avverso il provvedimento di diniego motivato in relazione alle valutazioni compiute dalla Commissione del paesaggio, ritenendo, tra l’altro, che quest’ultima avrebbe espresso un apprezzamento paesistico “al di fuori del contesto di riferimento” e quindi ultra limes. Travisando il concetto di “modifica estetica degli edifici” e assumendo come termine di confronto della conformazione morfologica il manufatto adiacente, avrebbe poi subordinato l’intervento a una condizione impossibile, ovvero “la preventiva acquisizione dell’assenso dei proprietari dei sottotetti dell’edificio confinante a provvedere contestualmente alla medesima modifica proposta”, con illegittima compressione dello ius aedificandi.
Il giudice di prime cure, con ordinanza cautelare n. 342/2018, chiedeva all’amministrazione un approfondimento istruttorio volto a verificare la pretesa alterazione dell’“equilibrio di contesto” attraverso “una valutazione di tipo complesso”. In ottemperanza, il Comune, previa acquisizione di un nuovo parere da parte della Commissione del Paesaggio, confermava il proprio diniego. I ricorrenti impugnavano tale ulteriore provvedimento unitamente al parere negativo della Commissione con ricorso per motivi aggiunti.
Su una nuova domanda di permesso di costruire avente ad oggetto un diverso progetto, la Commissione si esprimeva ancora negativamente, con parere a sua volta impugnato dagli interessati.
2. L’accezione olistica di paesaggio.
Risolti i profili processuali della vicenda, tra i quali l’ovvia inammissibilità dell’impugnazione di un atto consultivo e l’improcedibilità dell’originario ricorso - essendo il primo diniego superato dal successivo provvedimento negativo emanato su ordine di riesame -, sono d’interesse le questioni di merito affrontate dal giudice.
Questi, con sentenza n. 932/2019, dichiara l’infondatezza della censura di illegittimità delle valutazioni compiute dalla Commissione del paesaggio, non considerate affette da “non corretta applicazione dei parametri di tutela del paesaggio” ed espresse ultra limes. Risulterebbero invece conformi a quella nozione ampia di paesaggio espressa dalla Convenzione europea del paesaggio del 2000 da noi ratificata con l. n. 14/2006[1], che ne recepisce la portata polisemica, riempiva di “sostrati naturalistici” e di “elementi prettamente culturali”, inclusiva di aree urbane, campagne, territori degradati; zone considerate eccezionali come quelle della vita quotidiana. Conferma ne sarebbe lo stesso Preambolo della Convenzione in cui si afferma che il paesaggio svolge importanti funzioni di interesse generale, sul piano culturale, ecologico, ambientale, sociale ed economico, riconoscendone altresì la funzione identitaria a livello locale come nel più ampio contesto europeo.
Dunque, il giudice di primo grado accoglie un’accezione comprensiva e dilatata di paesaggio, inquadrandolo come nozione “che supera le sovrapposizioni spesso presenti nella legislazione interna tra ambiente, paesaggio e beni culturali” e che reclama un’autonomia, riconoscendo al contempo la necessità di una “visione integrale e olistica del concetto in esame”; ritiene, dunque, naturale che in tale nozione estesa rilevino sia gli spazi privati, quindi la percezione dell’inclinazione delle falde dal cortile interno, che la prospettiva dall’alto.
Avverso tale pronuncia gli interessati propongono appello, in sintesi censurandola per aver fatto propria una erronea e strabordante nozione giuridica di paesaggio, pur inteso dall’appellante come “insieme estetico godibile dalla collettività” ai sensi della Convenzione europea del paesaggio del 2000, del Codice dei beni culturali e del paesaggio, d.lgs. n.42/2004 (artt. 131 e 136), della legge regionale n. 12 del 2005 e del regolamento edilizio del Comune di Milano (art. 5. co.1).
3. La soluzione del Consiglio di Stato: autonomia e differenziazione.
La sentenza in esame del Consiglio di Stato è degna di nota per il tentativo che opera di restituire, in base al diritto positivo, gli elementi distintivi tra materie confinanti e di definire il paesaggio ai fini della corretta applicazione delle discipline di tutela.
Ne accoglie anch’essa una nozione ampia, esito di quella spinta evolutiva che l’elaborazione teorica ha infine determinato nel diritto positivo[2]. Anzitutto, considera a tal fine proprio le norme della Convenzione europea del paesaggio e del Codice dei beni culturali e del paesaggio, in cui il medesimo è appunto definito come “il territorio espressivo di identità il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni”.
La particolare estensione con cui la nozione è intesa si ravvisa in particolare nella previsione secondo cui il campo di intervento delle politiche pubbliche deve riferirsi alla “totalità della dimensione paesaggistica del territorio degli Stati”[3], non potendosi considerare unicamente – si afferma – gli elementi culturali o artificiali ovvero solo quelli naturali ma appunto “l’insieme di tali elementi e le relazioni esistenti tra loro”. Come nella Convenzione europea, si sottolinea ancora, il Codice impone la considerazione di ogni paesaggio come elemento dell’ambiente e del contesto di vita delle popolazioni, sia nelle aree urbane che rurali, sia in quelle eccezionali che in quelle da riqualificare[4].
Nondimeno, il Supremo Consesso rifiuta l’idea, fatta propria dal giudice di prime cure, che si tratti di una nozione totalizzante, percependo la necessità giuridica di perimetrarlo, pena il rischio – si avverte - dell’affermarsi di una “macro-categoria” di “governo del territorio”, ovvero di una “nozione onnicomprensiva di ambiente”.
4. Paesaggio e ambiente.
La decisione s’inquadra, dunque, nel risalente e solo in parte sopito dibattito sull’estata portata della nozione giuridica di paesaggio la quale, esito delle alterne vicende che ne segnano il percorso storico, manifesta ancora la necessità, se non l’urgenza di assumere una conformazione precisa rispetto a concetti riferiti a un oggetto analogo e, almeno in gran parte, sovrapponibile: il territorio[5].
Il primo luogo, emerge il profilo del rapporto tra tutela paesaggistica e tutela ambientale, apparentemente meno rilevante ai fini della decisione in esame, ma implicato dalla stessa necessaria decifrazione del paesaggio, dunque richiamato dalla IV sezione.
Paesaggio e ambiente rappresentano, infatti, entrambi valori egemoni che pur emersi nell’orizzonte giuridico in tempi diversi e in differente contesto culturale[6], si sono trovati a lungo intrecciati, apparendo invece, nei tempi recenti, in originale relazione dialettica. La tutela dell’ambiente, germinata nella giurisprudenza ordinaria da una rilettura dell’art.32 Cost. in combinazione con l’art.2[7], è stata anzitutto dalla Corte costituzionale più volte riconnessa alla tutela del paesaggio, al fine di riconoscerne unitarietà, predominanza e spessore di valore costituzionale[8].
Quest’ultimo a sua volta, dimenticato nella riformulazione dell’art.117 Cost. ad opera della l.c. n.3/2001, è stato confermato dal giudice delle leggi come bene primario, la cui tutela esige una disciplina di tutela uniforme a livello nazionale, in ragione della sua considerazione come forma del territorio e profilo esteriore, visivo dell’ambiente[9]. Con ciò si è legittimato un centralismo statalista[10] anche sul piano amministrativo[11], quindi un intervento dello Stato nell’apposizione dei vincoli puntuali, nella stessa attività di pianificazione[12], nei procedimenti autorizzatori e nel sistema dei controlli[13]. In mancanza di che, si ritiene, la tutela paesaggistica verrebbe degradata “da valore unitario prevalente e a concertazione rigorosamente necessaria, in mera esigenza urbanistica”[14].
Come attenti studi evidenziano ormai da diversi anni, è stato soprattutto l’affermarsi, nell’ambito della tutela ambientale, degli obiettivi della transizione ecologica attraverso la produzione di energie rinnovabili ad aver condotto a situazioni di tensione[15], secondo un percorso capace di risolversi in un panambientalismo idoneo a erodere la stessa autonomia concettuale e giuridica del paesaggio, riducendolo a mera componente dell’ambiente[16], sintetizzabile al suo interno con gli altri suoi elementi. Tale esito, avvertito come potenzialmente più prossimo in ragione della riforma dell’art.9 della Costituzione[17], non pare impensierire una parte degli studiosi, piuttosto inclini al riconoscimento della priorità delle questioni ambientali e che auspicano, in una visione astratta rispetto alla già intensa regolazione del territorio, una generale pianificazione ambientale capace di condizionare ogni successiva decisione relativa al suo governo[18].
Vi si oppongono posizioni che paventano, viceversa, la negazione dell’intima eterogeneità di due nozioni che, entrambe frutto di elaborazioni interdisciplinari, risponderebbero a finalità diverse, evocando conoscenze intrinsecamente differenti, e caratterizzate da un contenuto giuridico in linea di principio non assimilabile né confrontabile. L’obiettivo da perseguire sarebbe dunque quello del mantenimento ed esaltazione della difformità che si assume imposta dalla stessa storica formazione dei concetti, oltre che dai loro contenuti fattuali. Si valorizza la dimensione estetico-culturale del paesaggio che deriva dall’originaria disciplina elaborata sulla falsariga di quella delle cose d’arte[19], implicando il suo riconoscimento valutazioni da compiersi alla stregua delle più incerte scienze umane; diversamente, la tutela dell’ambiente, dalla genesi più recente e rispondente a nuove e diverse istanze, attinge – si osserva - essenzialmente ad entità misurabili con ricorso all’ambito delle scienze esatte[20].
La IV Sezione prende posizione in ordine alle questioni aperte e agli scenari prefigurabili così sintetizzati, ponendosi con decisione nel solco dell’indirizzo favorevole all’autonomia e alla discriminazione.
In conformità con il secondo orientamento sopra richiamato e con alcune precedenti decisioni del giudice amministrativo[21], evocando proprio la dimensione identitaria, il formante culturale del paesaggio[22], osserva come il medesimo si differenzi dall’ambiente appunto perché misurabile attraverso “la percezione (per lo più qualitativa) e l’interpretazione da un punto di vista soggettivo”; laddove il secondo rileva - si sottolinea - attraverso la percezione operata “prevalentemente mediante l’apprezzamento delle quantità fisico-chimiche e dei loro effetti biologici sull’ecosistema da un punto di vista oggettivo”, così scongiurando l’assorbimento dell’uno nell’altro.
La pronuncia, sotto tale profilo appare altresì coerente con quella giurisprudenza consolidata che in capo alle amministrazioni preposte alla tutela del paesaggio riconosce una discrezionalità ampia, “in quanto correlata a valori primari di rango costituzionale ed internazionale”[23]; discrezionalità non esauribile nell’apprezzamento di dati empirici ma che si traduce in esercizio, anche, di discrezionalità amministrativa: di apprezzamento dell’interesse pubblico primario intrinseco ai beni da tutelare[24].
5. Paesaggio e governo del territorio: i confini della tutela paesaggistica e la discrezionalità urbanistica.
Quale più diretto oggetto della pronuncia, emerge il tema del rapporto tra paesaggio e governo del territorio; tema reso problematico, per un verso, dall’accrescersi delle vocazioni dell’urbanistica e dei suoi strumenti[25], per altro verso, dall’evolversi della tutela dei beni paesaggistici[26] in tutela del paesaggio e dall’assunzione da parte del piano paesaggistico di una natura territoriale e tendenzialmente generale[27].
L’urbanistica, sviluppatasi come governo del territorio, arricchitasi nel tempo di plurime finalità economiche, sociali, ecologico-ambientali[28], è stata invero capace di includere ogni forma di protezione di interessi gravanti sul territorio, fino a presentarsi come “funzione forte” secondo indirizzi sintetizzati nella formula della “panurbanistica”[29]; mentre in altri momenti, specie a fronte del moltiplicarsi delle c.d. tutela parallele attraverso specifici piani, è venuta piuttosto atteggiandosi come funzione recessiva[30], tuttavia capace di rinvigorirsi con l’attenuazione della specialità della pianificazione di settore[31].
Un’inclinazione ordinante in questa complessa dinamica è rappresentata dall’idea, in certa misura abbracciata dal legislatore[32], di ricostruire il sistema della pianificazione territoriale come sistema integrato e interscalare nel quale al livello di area vasta verrebbe lasciata la determinazione di linee guida, oltre che di “vincoli specifici con relative prescrizioni d’uso”, mentre alla pianificazione comunale sarebbe naturalmente affidata l’integrazione, in scala appunto locale, delle predette direttive [33]. Secondo questa ricostruzione, se indispensabile è il ruolo dei piani di area vasta — a partire dal piano paesaggistico — al livello comunale della pianificazione resterebbe anzitutto il rilevante compito di “interpretazione-caratterizzazione e di governo del paesaggio locale, in continuità-complementarietà con le coordinate tracciate dal piano paesaggistico”[34].
Senza smentire simile prospettiva, e anzi richiamando l’integralità del paesaggio, il Consiglio di Stato, conferma non solo l’ormai pacifica irriducibilità della tutela paesaggistica a governo del territorio[35]; avverte come la sua estesa nozione non giustifichi la negazione all’urbanistica di spazi propri e, per quanto ridotti, esclusivi, corrispondenti a elementi non comuni al territorio da tutelare a fini paesaggistici[36].
Gli stessi riferimenti normativi evocati nella controversia in esame militerebbero in tale senso: l’art. 64.8 della l.r. n. 12/05 che sottopone a giudizio di impatto paesistico i soli interventi di recupero dei sottotetti incidenti “sull’aspetto esteriore dei luoghi e degli edifici da realizzare”, la stessa d.r.g. 8.11.2002 VII/11045 recante linee guida per l’esame paesistico dei progetti, che indica, ai fini della predetta valutazione, la considerazione delle “condizioni di visibilità, più meno ampia, o meglio di co-visibilità tra il luogo considerato e l’interno”, dovendosi “privilegiare i punti di osservazione che insistono su spazi pubblici e che consentono di apprezzare l’inserimento del nuovo manufatto o complesso nel contesto”. L’art. 1 delle NTA del PPR si osserva poi, si richiama integralmente alla definizione di cui alla Convenzione europea, mentre l’art.37, ancora una volta impone la valutazione dell’incidenza paesistica di un progetto in base all’entità e alla natura del condizionamento che il progetto esercita sull’assetto del paesaggio di contesto”, con riguardo alle “caratteristiche dell’impatto prodotto dall’opera prevista”; l’art.5.4. del Regolamento edilizio del comune di Milano prevede che “l’Amministrazione Comunale, secondo le competenze dalle norme vigenti, esegue, avvalendosi della Commissione comunale per il Paesaggio, un esame dei progetti “relativamente alla qualità estetica e all’inserimento nel paesaggio” (corsivi nostri). La disciplina positiva, dunque, valorizzerebbe “il contesto” in relazione a quel criterio guida per la definizione di paesaggio che proprio la Carta europea pone: la “percezione da parte delle popolazioni” (art.1 lett.a).
Il necessario contenimento della portata espansiva della nozione di paesaggio si ancora poi, osserva la IV Sezione, al “necessario bilanciamento tra libera esplicazione del diritto di proprietà, di cui è espressione lo jus aedificandi, e il (preteso) interesse pubblico alla salvaguardia di un valore paesaggistico, che, - ove pure in ipotesi sussistente sul piano estetico - finisce per essere recessivo ove afferente a un bene non fruibile dalla generalità indifferenziata dei consociati”.
Tali sarebbero appunto le falde percepibili solo dal cortile interno e unicamente da chi abbia titolo per accedervi, non potendosi accogliere la tesi che tale limitato numero di soggetti sia riconducibile a quelle nozioni di popolazione e di cittadinanza capaci di esprimere elementi identitari.
6. Conclusioni.
La prospettiva fatta propria dalla IV Sezione merita, ad avviso di scrive, piena condivisione.
Il paesaggio vive una delicata stagione di transizione. E’ anzitutto in cerca di nuova armonia rispetto agli imperativi della protezione ambientale, sempre più chiamata a declinarsi come transizione ecologica che esige nuovi interventi sul territorio, sulla sua morfologia. Il paesaggio, sebbene non riducibile a componente dell’ambiente, fronteggia così finalità di interesse generale anch’esse egemoni e sempre più urgenti, rispondenti non solo a scopi ecologici ma altresì a pressanti questioni di politica energetica[37]. Rispetto ad essi richiede tuttavia un apprezzamento nei termini giuridici di un confronto tra pari, secondo rigorosi criteri di proporzionalità e ragionevolezza.
D’altra parte, il paesaggio è ancora in via di definitiva sistematizzazione rispetto al governo del territorio. La sua tutela, non dimentica delle proprie origini di conservazione delle bellezze naturali, è certamente, specie a seguito della novella del 2008 al codice Urbani, proiettata verso la difesa ma anche promozione e rispristino di luoghi caratterizzati dall’impronta culturale e identitaria della popolazione. Se questa componente è la cifra caratterizzante il paesaggio come oggetto della disciplina giuridica, a partire dalla Carta fondamentale riletta alla luce della Convezione europea del paesaggio, è da considerare come la medesima si riferisca alla collettività nazionale. Lo stesso Codice lo assume come oggetto di tutela relativamente “a quegli aspetti e caratteri che costituiscono rappresentazione materiale e visibile dell’identità nazionale in quanto espressione di valori culturali”[38], legandosi a quella unicità di scenari in cui riposa la radice dell’eccentricità della disciplina italiana nel contesto internazionale[39].
È vero che il valore estetico - culturale e il senso di appartenenza si declina in ragione delle specificità locali, ma è quel valore non negoziabile in cui il paesaggio si risolve[40] a giustificare la tutela dei paesaggi, e che, comunque si trovi localmente specificato e apprezzato, trova protezione attraverso il riconoscimento della sua primazia, l’uniforme disciplina dello Stato, l’“impronta unitaria” della pianificazione, pur articolata su scala regionale[41].
Ciò non toglie che finalità di conservazione e promozione, superando il livello minimo di tutela rispondente all’interesse unitario, possano ulteriormente emergere in ambito regionale e locale, essendo capaci di trovare in quelle sedi, nell’esercizio delle competenze dei diversi livelli di governo, anche favorevoli bilanciamenti rispetto a istanze sociali ed economiche, tuttavia qui confondendosi nelle complessive scelte di governo del territorio[42].
La prospettiva dei diversi livelli degli interessi che permeano il sistema spiega bene perché, malgrado la “territorializzazione” dei piani paesaggistici e la tendenziale integralità della tutela accordata oggi al bene-paesaggio, il medesimo non si configuri come nozione olistica, essendovi sul territorio qualcosa che ancora vi si estranea: è ciò che non incide su quell’istanza comune, non s’infrange contro un interesse generale connaturato e immanente al territorio, di rilievo nazionale.
Accanto alle insidie del passato panurbanismo, ai paventati rischi del panambientalismo, si palesa la necessità di non cedere alla facile lusinga del panpaesaggismo[43].
La limitazione conformativa proprietà privata, ascrivibile alla sua funzione sociale, si integra in relazione a quei soli condizionamenti[44] che corrispondono ai predetti valori unitari[45], laddove dell’urbanistica occorre recuperare il carattere di ineludibile complementarità rispetto alla tutela paesaggistica nel ruolo di composizione di quella pluralità di interessi che connota tradizionalmente l’autonomia, normativa e amministrativa, degli enti territoriali[46].
[1] Sulla Convenzione europea del Paesaggio, cfr. A. A. Herrero De La Fuente, La convenzione europea sul paesaggio, in Rivista giuridica dell’ambiente, 2001, 6, 893 ss., G. F. Cartei, Codice dei beni culturali e del paesaggio e Convenzione europea: un raffronto, in Aedon, 2008, 3, D. M. Traina, Il ventennale della convenzione europea sul paesaggio: un primo bilancio del suo stato di attuazione in Federalismi.it, 2020, 30, 190 ss. V. inoltre i diversi contributi in G. F. Cartei, Convenzione europea del paesaggio e governo del territorio, Bologna 2007.
[2] Si pensa anzitutto, ovviamente, all’approccio sistematico-integrativo di A. Predieri, La tutela del paesaggio nella Costituzione, in Riv. giur. edil., 1967, 270 ss., in cui l’Autore riconosceva che “la tutela del paesaggio…non è solo la conservazione delle bellezze naturali…., ma la più ampia tutela (non limitata alla conservazione) della forma del territorio creata dalla comunità umana che vi è insediata, come continua interazione della natura e dell’uomo, come forma dell’ambiente, e quindi volta alla tutela dello stesso ambiente naturale modificato dall’uomo, dato che in Italia, quasi dappertutto, al di fuori delle ristrettissime aree alpine o marine, non può parlarsi di un ambiente naturale senza presenza umana”; Id., Paesaggio (ad vocem), in Enc. Dir., XXXI, 1981, 503 ss., G. Ghetti, Prospettive della tutela del Paesaggio negli ordinamenti regionali, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1972, 1527, F. Merusi, Commento all’art.9 Cost., in G. Branca (a cura di), Commentario alla Costituzione, Bologna, 1975, 434 ss., F. Levi, La tutela del paesaggio, Torino, 1979, 1 ss. Per una puntuale ricostruzione dell’evoluzione della disciplina di tutela del paesaggio e della portata del piano paesaggistico: A. Angiuli, Piani territoriali tra valore paesaggistico, interessi rivali e partecipazione, in Scritti in memoria di Roberto Marrama, Napoli, 2012, vol. I, 1289 ss., G. Severini, La tutela costituzionale del paesaggio (art.9 Cost.), in S. Battini, L. Casini, G. Vesperini, C. Vitale (a cura di), Codice di edilizia e di urbanistica. I codici commentati, Torino, 2013, 33, P. Carpentieri, Paesaggio, in Treccani, diritto-online, 2018, G. Severini, L’evoluzione storica del concetto giuridico di paesaggio, in G. Morbidelli, M. Morisi, Il “paesaggio” di Alberto Predieri, Firenze, 2019, 59 ss., D. M. Traina, Il paesaggio nell’evoluzione del diritto urbanistico, Ibidem, 141 ss.
[3] Convenzione europea del Paesaggio, Relazione esplicativa, II, Obiettivi e struttura della Convenzione, punto.6.
[4] Cfr. G. Morbidelli, Il contributo fondamentale di Alberto Predieri all’evoluzione e alla decifrazione della nozione giuridica di paesaggio, in G. Morbidelli, M. Morisi, Il “paesaggio” di Alberto Predieri, cit., 13 ss., che sottolinea come la tesi “integrale” si sia ormai radicalmente affermata, essendo di solo interesse storico le posizioni più restrittive che riconoscevano, in un orizzonte giuridico comunque diverso dall’attuale, la tutela paesaggistica limitata alle bellezze naturali.
[5] P. Stella Richter, I principi del diritto urbanistico, Milano, 2018, 19 ss.; Corte cost. n. 239/1985.
[6] P. Carpentieri, Paesaggio, ambiente e transizione ecologica, in Giustiziainsieme, maggio, 2021.
[7] Cass., Sez. Un., n. 5172/1979, Cass., III, n. 5530/1997, Cass., Sez. Un., n. 1187/1997, Cass., Sez. Un., n. 27187/2007, ma v. anche, tra le altre, Corte cost. n. 140/2007. Sulla necessità di un’autonoma e unitaria nozione di ambiente in relazione al diritto soggettivo all’ambiente salubre: A. Postiglione, Ambiente: suo significato giuridico, in Riv. trim. dir. pubbl., 1985, 33 ss., 1985, 33 ss.
[8] Cfr. Corte cost. n. 239/1982, che sottolinea come a una riduzione dell’ambiente – allora non contemplato dalla Carta fondamentale - all’urbanistica si opponesse il secondo comma dell'art. 9 Costituzione “secondo cui la tutela del paesaggio è compito della Repubblica e quindi in prima linea dello Stato, disposizione correttamente intesa ed applicata dal ricordato d.P.R. n. 616 del 1977, il quale all'art. 82 ha delegato (in base all'art. 118, secondo comma, Cost.) e non trasferito alle regioni (come, invece, ha fatto per le materie previste dall'art. 117 della Costituzione stessa) le funzioni amministrative in materia”. V. già Corte cost. n. 39/1986, n. 1151/1986, n. 641/1987. Per la progressiva estensione della nozione di paesaggio, dalle bellezze naturali, al valore culturale “ad ogni elemento naturale e umano attinente alla forma esteriore del territorio”, cfr. F. Costantino, Ambiente (dir. cost.), in Treccani, Diritto-online, 2014. Sulla derivazione della nozione di ambiente da quella di paesaggio: S. Labriola, Dal paesaggio all’ambiente: un caso di interpretazione evolutiva della norma costituzionale. Il concorso della Corte e il problema delle garanzie, in Diritto e società, 1987, 113 ss.
[9] S. Civitarese Matteucci, Ambiente e paesaggio nel nuovo Titolo V della Costituzione, in Aedon, 2022, 1. Per una ricostruzione recente dei profili evolutivi dell’ambiente: F. de Leonardis, L’ambiente, in Giorn. dir. amm., 2020, 6, 787 ss., E. Mostacci, L’ambiente e il suo diritto nell’ordito costituzionale, in Trattato di diritto dell’ambiente, t. 1, Milano, 2014, 271 ss., P. Colasante, La ricerca di una nozione giuridica di ambiente e la complessa individuazione del legislatore competente, in Federalismi, giugno, 2020. Per la pregressa nozione generica di “ambiente”, in quanto riferito a svariati ed interessi ed elementi che integrano la cornice giuridica dell’uomo: M. S. Giannini, “Ambiente”: saggio sui suoi aspetti giuridici, in Riv. trim. dir. pubbl., 1973, 1 ss., Id., La potestà delle regioni in materia di governo del territorio, in Atti dei convegni Lincei, Tavola rotonda su Insediamenti territoriali e rapporti fra uomo e ambiente: criteri e metodologie, Roma, 1976, 207 ss.
[10] Corte cost. n. 367/2007, cit.: “il concetto di paesaggio indica, innanzitutto, la morfologia del territorio, riguarda cioè l’ambiente nel suo aspetto visivo. Ed è per questo che l’art. 9 della Costituzione ha sancito il principio fondamentale della "tutela del paesaggio” senza alcun’altra specificazione. In sostanza, è lo stesso aspetto del territorio, per i contenuti ambientali e culturali che contiene, che è di per sé un valore costituzionale. Cfr. anche Corte cost. n. 183/2006, n.101/2010, n. 210/2014. Essendo il paesaggio considerato un valore primario ed assoluto, la tutela apprestata dallo Stato è considerata limite alla disciplina che le Regioni e le Province autonome possono dettare nelle materie di loro competenza: Corte cost. nn. 367 e 378/ 2007, nn. 80 e 437/2008, n. 272/2009. Spetta allo Stato, si afferma, assicurare una tutela «adeguata e non riducibile» dell'ambiente valevole anche nei confronti delle Regioni a statuto speciale e delle Province autonome: Corte cost. n. 232/2008 e n. 61/2009. V., ancora Corte cost. n. 344/2010, sull’impatto paesaggistico degli impianti eolici.
[11] A. Angiuli, Op. cit., 1312-1313 e riferimenti alla nota 66, G. F. Cartei, Autonomia locale e pianificazione del Paesaggio, in Riv. trim. dir. pubbl., 2013, 3, 703 ss., che osservano come tale impostazione centralista debba trovarsi temperata dal coinvolgimento delle autonomie territoriali nel procedimento di pianificazione paesaggistica, secondo le enunciazioni della Convenzione europea del paesaggio ma anche di alcune norme del Codice dei beni culturali e del paesaggio.
[12] A proposito della necessaria impronta unitaria della pianificazione paesaggistica: Corte cost. n. 211/2013, n. 197/2014, n. 64/2015, n. 210/2016, n. 66 e 68/2018, n.178/2018, n. 86/2019, Corte Cost. n. 66/2018 e più di recente: C. cost. n. 240/2020 sul piano paesaggistico della regione Lazio e Corte cost. n.141/2021.
[13] Ex multis: Corte cost. n. 151/1986, n. 302/1988; Corte cost. N. 43/1991. Cfr. di recente: C. cost. n.160/2021, secondo cui l’art.146 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, laddove impone l’intervento del soprintendente nel procedimento di autorizzazione paesaggistica è qualificabile come norma fondamentale di riforma economico-sociale, ai fini delle competenze legislative delle regioni ad autonomia speciale.
[14] Corte cost. n. 197/2014, n. 64/2015, n. 66/2018, n. 240/2020, cit.
[15] P. Carpentieri, Paesaggio contro ambiente, in Urbanistica e Appalti, 2005, 8, 931 ss.; Id., Eolico e paesaggio, in Riv. giur. ed., 2008, 1, 322 ss.
[16] G. Severini, P. Carpentieri, Sull’inutile, anzi dannosa modifica dell’art.9 della Costituzione, in Giustiziainsieme, settembre 2021.
[17] G. Severini, P. Carpentieri, Ibidem. Per l’irrilevanza della riforma dell’art.9 ai fini di una gerarchia tra ambiente e paesaggio: F. De Leonardis, La riforma “bilancio” dell’art.9 Cost. e la riforma “programma” dell’art.41 Cost. nella legge costituzionale n.1/2022: suggestioni a prima lettura, cit.
[18] F. Karrer, Le priorità ambientali attuali, in Apertacontrada, aprile 2011.
[19] G. F., Cartei, G.F., Il paesaggio, in S. Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, Diritto amministrativo speciale, Milano, 2003, II, 2110, Peraltro il valore identitario tutt’ora accomuna tutela dei beni culturali e tutela del paesaggio nel d.lgs. n. 42/2004. Cfr. R. Cavallo Perin, Il bene culturale, in Dir. amm., 2016, 4, 495 ss.
[20] G. Severini, L’evoluzione storica del concetto giuridico di paesaggio, in G. Morbidelli, M. Morisi (a cura di), Il “paesaggio” di Alberto Predieri, Firenze, 2019, pp. 59 ss., 105-106 e P. Carpentieri, Op. ult. cit., per il quale il paesaggio riguarda appunto la comprensione identitaria del contesto più che la tutela delle matrici ambientali.
[21] Cfr. Cons. St., VI, n. 3893/2012, in cui, pur sottolineando come tutela del paesaggio e tutela dei beni culturali siano tutelati attraverso strumentazioni tra loro parallele e differenziate, osserva come beni culturali e beni paesaggistici sintetizzino i rispettivi tipi amministrativi di tutela, compongano unitariamente - per comune fondamento storico, concettuale e giuridico - il genere del patrimonio culturale ed abbiano principi comuni perché collegati dall'analoga matrice culturale, dal valore identitario (artt. 1 e 2 del Codice) e dal riferimento contestuale nel medesimo principio fondamentale dell'art. 9 della Costituzione. Cfr. anche TAR Lazio, Roma, II, n. 3577/2014, secondo cui: << in primo luogo, infatti, la stessa nozione di paesaggio indicata dall'art. 131 del codice e le definizioni dell'art. 136 conducono a ritenere che, in particolare a seguito delle modifiche normative operate dall'art. 2 del d.lgs. n. 63 del 26 marzo 2008, la individuazione dei beni paesaggistici non sia caratterizzata dalla attenzione alla rilevanza estetica dei beni limitata alla visione panoramica e all’aspetto visivo, ma soprattutto tenda alla conservazione delle caratteristiche di un bene per i profili espressivi di “identità”. Tale nozione rinvia ad un insieme di valori ed elementi di carattere storico, economico, sociale, antropologico.
[22] G. Morbidelli, Il contributo fondamentale di Alberto Predieri all’evoluzione e alla decifrazione della nozione giuridica di paesaggio, cit., 30. Cfr. anche F. Merusi, Commento all’art.9 Cost., cit., M. Immordino, Paesaggio (tutela del), in Dig. Disc. Pubbl., 1999, X, 573.
[23] Cons. St., VI, n. 3213/2012; Id., IV, n. 4246/2010; Id., V, n. 3770/2009.
[24] V. la giurisprudenza citata alla nota precedente e altresì: Cons. St., VI n. 7004/2011; Id., VI, n. 118/2013; Id., VI, n. 533/ 2013. Per la negazione di una ponderazione di interessi ai fini dell’imposizione dei vincoli paesaggistici, da ultimo: Cons. St., IV, n. 0271/2022.
[25] Per cui v. D. M. Traina, Il paesaggio nell’evoluzione del diritto urbanistico, cit. V. ad es., per le finalità sociali perseguibili dalla pianificazione urbanistica: Cons. St., IV, n.2710/2012, in Urb. e app., 2013, 1, 59 ss., con nota di P. Urbani. Il tale pronuncia si riteneva legittima la scelta del comune di circoscrivere le possibilità edificatorie per evitare gentrificazione e terziarizzazione del territorio di Cortina e in favore delle possibilità di acquisto della prima casa per i residenti. Sulla piena discrezionalità del Comune di modificare le destinazioni d’uso dei terreni, eliminandone la capacità edificatoria per scelte eventualmente ecologico-ambientali: Cons. St., IV, n. 119/2012 sul PRG di Roma in relazione al comprensorio di Tor Pagnotta. Per la conforme giurisprudenza: v., ad es., Cons. St., IV, n. 4667/2009, Id., IV, 4847/2009, Id., IV, n. 2545/2010, Id., IV, 7554/2010, Id., IV, n. 1222/2011. Tale regola è come noto derogabile solo a fronte di specifici affidamenti qualificati: cfr. Cons. St., IV, n. 352/ 2011. In precedenza: Id., IV, n. 133/2011; Id., IV, n. 8682/2010; Id., IV, n. 7492/2010; Id., IV, 2630/2009; Id., IV, n. 1476/2008. Cfr. anche Corte cost. n. 209/2017 sulla infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 14, co. 16, lettera f), del d.l. 31 maggio 2010 n. 78 che ha dato base legislativa al contributo straordinario previsto dal Piano urbanistico di Roma “a fronte di rilevanti valorizzazioni immobiliari generate dallo strumento urbanistico generale, in via diretta o indiretta, rispetto alla disciplina previgente per la realizzazione di finalità pubbliche o di interesse generale, ivi comprese quelle di riqualificazione urbana, di tutela ambientale, edilizia e sociale”.
[26] Per cui v. A. M. Sandulli, La tutela del Paesaggio nella Costituzione, in Riv. giur. edil., 1967, II, 70 ss. e ora in Id., Scritti giuridici, Vol. II Diritto Costituzionale, Napoli, 1990, 279 ss.
[27] A. Angiuli, Piani territoriali tra valore paesaggistico, interessi rivali e partecipazione, cit. Sull’attuale coesistenza, nella disciplina del codice dei beni culturali e del paesaggio, d.lgs. n.42/2004, della tutela dei beni paesaggistici e del paesaggio complessivamente inteso e dei profili distintivi tra le due nozioni, cfr. di recente Corte cost. n. 240/2020, cit., TAR Lazio, Roma, II quater, n.1080/2021, e la nota critica di G. Iacovone, Paesaggio e ricerca scientifica, in questa Rivista, marzo 2021.
[28] Cfr., tra le prime pronunce del giudice delle leggi: Corte cost. n. 239/1985 che osservava: “Già secondo la l. 17 agosto 1942 n. 1150 la nozione di urbanistica comprendeva non solo l'assetto e l'incremento edilizio dei centri abitati ma anche "lo sviluppo urbanistico in genere nel territorio dello Stato" (art. 1). Il successivo sviluppo della legislazione in subiecta materia (cfr., ad esempio, la l. 6 agosto 1967 n. 765 nonché la l. 19 novembre 1968 n. 1187) è tutto orientato verso tale ampia concezione, nel senso, cioè, che l’istituto comprende l'intero territorio senza limitazioni di sorta. Il che ha trovato ampia e precisa conferma nel d.P.R. 24 luglio 1977 n. 616 (emanato, in attuazione della delega di cui all'art. 1 l. 22 luglio 1975 n. 382, per l'attuazione dell'ordinamento regionale), il quale all'art. 80 ridefinisce l'urbanistica come "la disciplina dell'uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali riguardanti le operazioni di salvaguardia e trasformazione del suolo nonché la protezione dell'ambiente".
[29] E. Sticchi Damiani, Disciplina del territorio e tutele differenziate: verso un'urbanistica “integrale”, in AA.VV., L'uso delle aree urbane e la qualità dell'abitato, a cura di E. Ferrari, Giuffrè, Milano, 2000, p. 146.
[30] P. Stella Richter, I principi del diritto urbanistico, cit., 19 ss. Osserva come l’estensione delle pianificazioni settoriali e l’affievolimento del loro carattere di specialità abbia finito con l’inficiare il nucleo essenziale della potestà pianificatoria dell’ente locale: A. Angiuli, Piani territoriali tra valore paesaggistico, interessi rivali e partecipazione, cit., 1204 ss., la quale ricorda come anche per la Corte costituzionale, il fatto che il piano paesaggistico possa assumere valenza territoriale e, di converso, che il PRG possa porre finalità di tutela paesaggistica ulteriore non consente di far ritenere la disciplina paesaggistica primaria subordinata all’urbanistica o addirittura inclusa in essa. Cfr. già Corte cost. n. 359/1985. Sottolinea il rafforzamento di questa tendenza all’indomani della riforma dell’art.117 Cost. ex l.c. n.3/2001: D.M. Traina, Il paesaggio nell’evoluzione del diritto urbanistico, cit., 165.
[31] A. Angiuli, Piani territoriali tra valore paesaggistico, interessi rivali e partecipazione, cit.
[32] Con la legge 8 agosto 1985, n. 431 (c.d. “legge Galasso”), che ha previsto che le regioni potessero dotarsi, anziché di piani paesistici, di piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesistici ed ambientali, con scelte confermate dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, d.lgs. 42 del 22 gennaio 2004, che ha demandato alle Regioni la redazione e l’approvazione dei piani paesaggistici estesi al loro intero territorio, ovvero di piani urbanistico territoriali con specifica considerazione dei valori paesaggistici. Cfr. P. Chirulli, Urbanistica e interessi differenziati: dalle tutele parallele alla pianificazione integrata, in Dir. amm., 2015, 1, 50.
[33] P. Chirulli, Op. cit., 50, E. Boscolo, Il piano regolatore comunale (art. 7, L. 17.8.1942, n. 1150), in S. Battini, L. Casini, G. Vesperini, C. Vitale (a cura di), Codice di edilizia e di urbanistica. I codici commentati, Torino, 2013, 246, P. Marzaro, L’amministrazione del paesaggio. Profili critici ricostruttivi di un sistema complesso, Torino, 2011, 39 ss.
[34] P. Chirulli, Urbanistica e interessi differenziati: dalle tutele parallele alla pianificazione integrata, cit. Per importanti riflessioni nel pensiero urbanistico, cfr. L. Ricci, Diffusione insediativa, territorio e paesaggio, Roma, 2005, in particolare 179 ss.
[35] Cfr. TAR Lazio, Roma, II, n. 3577/2014, cit., che ricorda come “La giurisprudenza è, infatti, costante nel ritenere che la tutela del paesaggio non sia riducibile a quella dell'urbanistica, né, più in particolare, possa essere considerato vizio della funzione preposta alla tutela del paesaggio il mancato accertamento dell'esistenza, nel territorio oggetto dell'intervento paesaggistico, di eventuali prescrizioni urbanistiche. Le prescrizioni urbanistiche, infatti, rispondono ad esigenze diverse, e non si inquadrano nella considerazione globale del territorio, che è alla base della tutela dei beni paesaggistici, tenuto anche conto che il paesaggio è considerato un valore assolutamente primario nell'ordinamento, secondo quanto affermato anche dalla Corte Costituzionale. Cfr. Cons. St., IV n. 4246/2010; Id., V, n. 3770/2009; per la giurisprudenza costituzionale richiamata: Corte cost. n. 239/1982, n. 94/1985, n. 94/1985. V. anche Corte cost. n. 151/1986 che, riferita alla dichiarazione ex lege dell’interesse paesaggistico di intere categorie di beni, ad opera della legge Galasso, osservava come la nuova disciplina, proprio per l'estensione e la correlativa intensità dell'intervento protettivo - imposizione del vincolo paesistico (e quindi preclusione di sostanziali alterazioni della forma del territorio) in ordine a vaste porzioni e a numerosi elementi del territorio stesso individuati secondo tipologie paesistiche ubicazionali o morfologiche rispondenti a criteri largamente diffusi e consolidati nel lungo tempo – introduce – si osservava - una tutela del paesaggio improntata a integralità e globalità, vale a dire implicante una riconsiderazione assidua dell'intero territorio nazionale alla luce e in attuazione del valore estetico-culturale. Una tutela così concepita era considerata aderente al precetto dell'art. 9 Cost., il quale, secondo una scelta operata al più alto livello dell’ordinamento, assume il detto valore come primario, cioé come >span class="apple-converted-space"> di essere subordinato a qualsiasi altro. Si precisava: “Essa non esclude né assorbe la configurazione dell'urbanistica quale funzione ordinatrice, ai fini della reciproca compatibilità, degli usi e delle trasformazioni del suolo nella dimensione spaziale considerata e nei tempi ordinatori previsti”. Così anche Corte cost. n.367/2007, cit.
[36] In tal senso, v. già TAR Lazio, II quater, n.1080/2021, cit.
[37] Cfr. R. Miccù (a cura di), Lineamenti di diritto europeo dell’energia. Nuovi paradigmi di regolazione e governo multilivello, Torino, 2019, e v. il pacchetto Green Deal Europeo che comprende la Proposta di direttiva per la promozione dell'energia da fonti rinnovabili con modifica della direttiva 2018/2001, del regolamento 2018/1999, della direttiva n. 98/70/CE e di abrogazione della direttiva (UE) 2015/652 del Consiglio, su https://eur-lex.europa.eu.
[38] Art.131 d.lgs. n.42/2004.
[39] A. M. Sandulli, La tutela del Paesaggio nella Costituzione, cit. Per un’ampia analisi: G. C. Feroni, Il paesaggio nel costituzionalismo contemporaneo, in G. Morbidelli, M. Morisi, Il “paesaggio” di Alberto Predieri, cit., 109 ss.
[40] D. M. Traina, Il paesaggio nell’evoluzione del diritto urbanistico, cit., 158. Per l’esclusione che il paesaggio possa cedere a mere esigenze urbanistiche, ancora di recente: Cons. St., VI, n. 2225/2000 e Cons. St., IV, n.2371/2022.
[41] Lo spiega bene Corte cost. n. 240/2020, relativa al procedimento di approvazione del Piano territoriale paesaggistico del Lazio. Vi si riconosce come la necessità di assicurare il pieno coinvolgimento degli organi statali derivi proprio dalla “commistione di competenze diverse di cui sono titolari lo Stato e le regioni e dall’esistenza di un interesse unitario alla tutela del paesaggio”. “L’affermato obbligo di ricorrere a procedure di leale collaborazione deriva, quindi, dalla circostanza che si è in presenza di un complesso quadro di competenze amministrative (oltre che legislative) statali e regionali, le quali devono essere esercitate armonicamente”. Cfr. anche, tra le molte, Corte cost. n. 86/2019, nn. 66, 68 e 178/2018.
[42] Per una puntuale analisi e ricostruzione sistematica di discipline speciali che condizionano il diritto dominicale: F. Francario, Il regime giuridico di cave e torbiere, Milano, 1997; per la dimensione nazionale degli interessi generali perseguiti attraverso discipline speciali che limitano le scelte urbanistiche cfr. già: V. Cerulli Irelli, Pianificazione urbanistica e interessi differenziati, in Riv. trim. dir. pubbl., 1985, 386 ss. Per la considerazione dell’interesse nazionale come limite intrinseco alla competenza legislativa delle regioni, con considerazioni che non sembrano superate ma sottese al nuovo quadro costituzionale: Alb. Romano, Note sui caratteri della legislazione nello "Stato delle autonomie", in Le Regioni, 1981, 660 ss. Sulla rilevanza della dimensione degli interessi al fine dell’allocazione delle funzioni tra i diversi livelli di governo: Alb. Romano, Verso il recupero di competenze generali dell’amministrazione centrale, in Gazzetta ambiente, 2005, 5; e ancora Id., Osservazioni conclusive al Convegno “Normazione e funzione amministrativa nell’odierno quadro costituzionale”, in Annuario AIPDA, 2002, Torino, 3-4 ottobre 2002, vol. III, 2003, 589-601 che osserva come dovrebbero essere piuttosto le competenze periferiche a dover essere eventualmente dedotte dalla “graduale consapevolezza, o almeno debolezza di ragioni centralizzatrici: quale che sia la lettera delle nuove disposizioni, che comunque deve essere corretta alla stregua di criteri storico-sistematici”, così anticipando la gravosa opera di ricostruzione del sistema avviata dalla Corte costituzionale all’indomani della riforma del titolo V.
[43] D. M. Traina, Il paesaggio nell’evoluzione del diritto urbanistico, cit., 165. Per una lettura critica della stessa Convenzione europea del Paesaggio che avrebbe assunto una visione “socio - antropologica”, capace di ridurre tutto a paesaggio, obliterandone la componente estetica o riducendola a “estetica generalizzata”: P. Carpentieri, Paesaggio, ambiente e transizione ecologica, in Giustiziainsieme, maggio, 2021.
[44] A partire dalle note pronunce: Corte cost. n. 56/1968, n. 417/1995, n. 262/1997. Nella recente giurisprudenza amministrativa, v., ad es.: Cons. St., IV, n.4244/2010, Id., V, n. 3770/2009, Id., IV, n. 02371/2022.
[45] Per l’identificazione di tale interesse come fondamento già dei primi piani paesaggistici: A. Angiuli, Piani territoriali tra valore paesaggistico, interessi rivali e partecipazione, cit., 1293.
[46] M. C. Romano, Autonomia comunale e situazioni giuridiche soggettive. I regolamenti conformativi, Napoli, 2012, 496 ss.
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