ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
CEDU e cultura giuridica italiana. Il primo libro virtuale di Giustizia insieme*
*in copertina G.Iofrida, L'Europa dei diritti
Giustizia Insieme, a partire dal novembre del 2019, ha inteso promuovere un progetto volto a favorire una cultura quanto più possibile condivisa fra gli operatori del diritto attorno al ceppo dei valori umani di una società divenuta estremamente complessa per fattori di varia natura, con un occhio particolarmente attento alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
In questa prospettiva, restringendo il campo di osservazione al binomio “giustizia-diritti” si è così pensato di dedicare un ciclo di approfondimenti sui temi che ruotano attorno alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Una scelta, questa, che affondava e affonda in ragioni di vario ordine.
Per un verso, si va diffondendo sempre di più l’idea che l’immagine del giurista cresciuto a “pane e Costituzione” oggi abbia subito una lenta metamorfosi per nulla rivolta a sminuire il ruolo centrale della Costituzione quanto ai diritti, ma semmai a mostrare quanto sia proprio la Costituzione e la lettura che di essa viene fornita ad aprire la porta ai diritti di matrice convenzionale. Sono note a molti, del resto, le reazioni - spesso di segno opposto - prodotte da numerose sentenze della Corte di Strasburgo che hanno contribuito a ridisegnare materie e diritti in modo incisivo, facendo spesso da “apripista” ad interventi non meno incisivi della Corte costituzionale. Insomma, il notevole impatto della CEDU nei sistemi nazionali non è ormai solo un fenomeno studiato dalla dottrina specialistica, ma costituisce un tema con il quale i giuristi devono “fare i conti”.
Il progetto “CEDU e cultura giuridica italiana” ha inteso dunque indagare sul modo con il quale viene avvertita l’incidenza della CEDU nel mondo dei giuristi nostrani, sulla necessità o meno di modificare l’ordinario strumentario del giurista e su quanto la Convenzione sia, in prospettiva, in grado di ulteriormente cambiare l'orizzonte, l’assetto e la consistenza dei diritti dell’individuo. Tutto questo scandagliando non i singoli casi, ma muovendo dall'osservazione delle ricadute prodotte dalla CEDU in diversi settori dell'ordinamento giuridico, in modo che alla fine di questo “viaggio” sia possibile avere un quadro sufficientemente completo della situazione.
La Rivista, quanto alle modalità di approfondimento, anche in questa occasione ha inteso sfruttare la ormai sperimentata formula delle “interviste a più voci”, che consente al lettore l’esame di punti di vista provenienti da professionalità operanti in diverse realtà territoriali e culturali.
Il numero imponente di giuristi - accademici e storici del diritto, avvocati, giuristi e giudici della Corte edu - che ha aderito a questa iniziativa, alimentata dalle interviste ospitate con cadenza periodica sulle pagine della Rivista, in gran parte pubblicate durante l’emergenza pandemica, in uno alla qualità dei contributi, a volte rimasti ignoti al grande pubblico proprio a causa delle criticità di vario genere che hanno freneticamente accompagnato l’anno 2020, suggeriscono alla redazione di dare unità a quelle pubblicazioni attraverso la creazione di un vero e proprio libro virtuale, il primo libro virtuale di Giustizia insieme che, attraverso il rinvio ai link delle singole interviste di seguito riportati, possa offrire al lettore, partendo da questo editoriale, un agevole collegamento agli approfondimenti ritenuti di interesse. Con una precisazione, iniziale e doverosa, volta a chiarire che l'ordine dei contributi prescelto si è basato unicamente sulle date di pubblicazione dei contributi che si sono susseguiti sulla Rivista.
Questa nuova iniziativa viene oggi virtualmente inaugurata e presentata dal giudice italiano presso la Corte europea dei diritti dell’uomo, Raffaele Sabato nella sua Prefazione.
L’itinerario tracciato sul tema CEDU e cultura giuridica italiana si apre, dunque, dando voce all’Avvocatura, chiedendo in particolare ad esponenti del ceto forense di valutare non soltanto l’impatto potenziale della normativa convenzionale sulla materia di propria competenza, ma anche di “misurare” il grado di conoscenza della Cedu nel sistema giudiziario italiano complessivamente considerato.
Nella prima intervista - CEDU e cultura giuridica italiana. 1) La parola agli Avvocati penalisti sul ruolo della CEDU – si sono confrontati Federico Cappelletti, Stefano Giordano e Marina Silvia Mori, avvocati penalisti rispettivamente del foro di Venezia, Palermo e Milano, ragionando sulle questioni più scottanti in ambito penale, cercando di dare conto di come gli avvocati vedono applicata la CEDU nelle aule giudiziarie dai giudici, di quanta competenza e professionalità i giudici mostrino, ai loro occhi, nel destreggiarsi con essa e con i rapporti fra tale fonte, la Costituzione e le altre Carte dei diritti.
Nella seconda intervista - CEDU e cultura giuridica italiana. 2) La parola agli Avvocati civilisti sul ruolo della CEDU – animata dagli avvocati David Cerri, Maria Giovanna Ruo e Paola Regina, che svolgono la professione forense prevalentemente a Pisa, Roma e Milano, si è indagato sul rilievo che la CEDU ha nei rapporti civilistici, alla conoscenza che ne hanno gli operatori ed alle prospettive che essa offre rispetto alla tutela dei diritti.
La terza intervista - CEDU e cultura giuridica italiana. 3) Carta costituzionale e CEDU. Tutto risolto? – ha inteso scandagliare il ruolo della CEDU nelle corti nazionali di merito, di legittimità e della Corte costituzionale, nella prospettiva di compiere un’opera di “sistemazione di posto” della Convenzione edu all’interno del sistema normativo interno del suo rango e della dimensione che essa assume rispetto alla Costituzione. Da qui la necessità di “sentire”, ascoltare e riflettere sulle riflessioni dei tecnici che per funzione, studiano la Costituzione. Adele Anzon, ordinaria di diritto costituzionale presso l’Università di Roma2, Luisa Cassetti, ordinaria di diritto costituzionale presso l’Università di Perugia e Andrea Guazzarotti, associato di diritto costituzionale presso l’Università di Ferrara.
La quarta intervista - CEDU e cultura giuridica. 4) La Corte edu vista dai suoi giudici - ha affrontato l’argomento CEDU visto dalla prospettiva di chi vi ha lavorato, mettendo insieme le riflessioni di due personalità di spicco del mondo giudiziario italiano accomunate dall’avere trascorso un lasso di tempo significativo presso un’Istituzione giudiziaria – la Corte europea dei diritti dell’uomo, con sede a Strasburgo – diversa e “altra” rispetto a quella nazionale.
Le domande rivolte a Vladimiro Zagrebelsky e Guido Raimondi hanno cercato di orientare le risposte sul cosa significa essere giudice nazionale in un’istituzione giudiziaria sovranazionale, quale apporto viene offerto e richiesto dai giudici che compongono la Corte edu, quanto essi si distaccano dall’ordinamento di provenienza e quanto diverso sia il modo di “essere giudici” e di “fare giustizia” di quella Corte rispetto alle Corti nazionali. Senza ovviamente tralasciare i temi più caldi, rappresentati dal ruolo della Corte edu nell’affermazione e protezione dei diritti umani e delle sfide che si porranno nel prossimo futuro.
Senza nemmeno tralasciare le sfide, attuali ed imminenti, poste al lavoro della Corte edu, nonché del giudice nazionale in relazione al Protocollo n. 16 annesso alla CEDU.
La quinta intervista - CEDU e cultura giuridica italiana. 5) La Convenzione europea dei diritti dell’Uomo e i civilisti - riapre le porte dell’Accademia, ospitando le riflessioni di due tra i più autorevoli studiosi del diritto civile: Nicolò Lipari, professore emerito di diritto civile presso l’Università di Roma e Emanuela Navarretta, ordinaria di diritto privato presso l’Università di Pisa, oggi giudice costituzionale. Rispondendo alle domande sull’incidenza della normativa Cedu nell’ambito dei rapporti interprivati e sul ragionamento giuridico che l’interprete deve condurre nell’applicare la legge nelle controversie di natura civile, gli interlocutori hanno evidenziato il ruolo di primo piano svolto dalla Cedu anche in questo settore, spesso sottovaluto e poco conosciuto.
Con la sesta intervista - CEDU e cultura giuridica italiana. 6) La CEDU e l’Accademia europeista-internazionalista - la parola è passata agli studiosi del diritto europeo ed internazionale, ed in particolare a Marina Castellaneta, ordinaria di diritto internazionale presso l’Università di Bari, Angela Di Stasi, ordinaria di diritto dell’Unione europea presso l’Università di Salerno ed Antonello Tancredi, ordinario di diritto dell’Unione europea presso l’Università di Palermo.
Anche in questo caso le domande sottoposte hanno riguardato il futuro dei rapporti tra giudice nazionale e la Corte di Strasburgo, il raffronto fra il grado di autonomia e indipendenza della giurisdizione italiana e quello proprio dei giudici della Corte Edu e ancora le sfide che attendono da una parte la Corte edu, con riguardo soprattutto allo strumento dei ricorsi diretti, e dall’altra il giudice nazionale, in previsione dell’entrata in vigore del Protocollo n. 16.
Nel riservare la successiva intervista - CEDU e cultura giuridica italiana. 7) La CEDU e i processualcivilisti - a tre importanti rappresentanti della dottrina processual-civilistica italiana: Paolo Biavati, Giorgio Costantino ed Elena D’Alessandro, cattedratici a Bologna, Roma e Torino, la stella polare è stata individuata nella riforma dell’art.111 Cost. in tema di giusto processo, conferma plastica di quanto la Convenzione europea dei diritti dell’uomo avrebbe potuto incidere sul sistema processuale interno all’indomani della novella introdotta in Costituzione sulle ali dell’art.6 CEDU. La viva voce dei tre studiosi del processo civile è dunque sembrata necessaria per fare il punto sul già fatto e sulle prospettive che la piena attuazione della CEDU e della giurisprudenza della Corte europea possono rappresentare per studiosi e, soprattutto, operatori pratici del diritto.
Qual è l’influenza della Convenzione europea dei diritti dell’uomo sul diritto e sul processo tributario? Questo è stato l’interrogativo di fondo che ha animato l’ottava intervista - CEDU e cultura giuridica italiana. 8) CEDU e diritto tributario – attraverso le domande poste ad Alberto Marcheselli, Valeria Mastroiacovo e Giuseppe Melis, ordinari di diritto tributario rispettivamente a Genova Foggia e Roma(Luiss). Si è scelta, in particolare, la prospettiva tesa a favorire il raccordo fra scienza giuridica e giurisprudenza in un campo delicato ed esposto, oggi più che mai, a venti di varia natura e direzione, nei quali tornano a misurarsi l’interessi nazionali di fondamentale portata con non meno meritevoli esigenze di protezione dei diritti del contribuente.
La nona intervista - CEDU e cultura giuridica italiana. 9) La CEDU e il diritto amministrativo – ha guardato ai rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione, interpellando gli studiosi del diritto amministrativo. Le domande hanno spaziato in questo caso dai nodi problematici in tema di processo amministrativo e Cedu che la Corte europea è chiamata a sciogliere nel prossimo futuro, all’ipotizzabilità di dubbi di conformità alla CEDU del sistema ridisegnato dalla sentenza della Corte costituzionale n.6/2018 in tema di eccesso di potere giurisdizionale, fino in ultimo all’assetto normativo previsto in materia di provvedimenti ablatori a seguito degli interventi della Consulta (sentt.n.348 e 349 del 2007, 71/2015) e del legislatore ordinario (art.42 bis T.U. espr.) rispetto ai parametri convenzionali.
Ad animare il dibattito sono stati Roberto Caranta, ordinario di diritto amministrativo presso l’Università di Torino, Francesco Goisis, ordinario di diritto amministrativo presso l’Università Statale di Milano e Giuseppe Tropea, ordinario di diritto amministrativo presso l’Università di Reggio Calabria.
La decima intervista - CEDU e cultura giuridica italiana. 10) Cedu e processualpenalisti – ha proseguito il dialogo sulla Cedu con l’Accademia, coinvolgendo questa volta i processual-penalisti. Alle domande sulle sfide che attendono la Corte Edu in particolar modo in ordine ai temi relativi alle garanzie dell’imputato nel processo penale – quale il divieto di bis in idem –, ai rapporti fra le garanzie offerte dalla Carta UE dei diritti fondamentali e quelle derivanti dalla CEDU e ai principi guida sul piano dell’esecuzione delle sentenze della Corte edu in materia penale hanno risposto due autorevoli accademici, Roberto E. Kostoris, ordinario di procedura penale presso l’Università di Padova e Stefano Ruggeri, ordinario di giustizia penale italiana, europea e comparata presso l’Università di Messina.
L’undicesima intervista - CEDU e cultura giuridica italiana. 11) CEDU e Diritto del Lavoro – ha stimolato le riflessioni dei giuslavoristi ed in particolare di Edoardo Ales, ordinario di diritto del lavoro presso l’Università di Napoli Parthenope e Stefano Giubboni, ordinario di diritto del lavoro presso l’Università di Perugia.
Le domande formulate hanno interessato il livello di impatto della giurisprudenza convenzionale sul diritto del lavoro, sulla scorta della giurisprudenza nazionale e sovranazionale degli ultimi anni; le problematiche derivanti dalla tutela concorrente offerta nella materia lavorista dalla Carta dei diritti fondamentali, dalla Carta sociale europea e dalla Corte EDU; infine, le possibili modalità di composizione, all’interno del singolo processo, della diversità delle tutele apprestate ai diritti sociali a livello costituzionale e convenzionale.
La dodicesima intervista - CEDU e cultura giuridica italiana. 12) Carta dei diritti fondamentali UE e CEDU - si è focalizzata principalmente sul tema dei rapporti tra la Convenzione europea e la Carta UE dei diritti fondamentali, grazie al prezioso contributo di Enzo Cannizzaro, ordinario di diritto internazionale e dell’Unione Europea presso l’Università di Roma La Sapienza.
Le domande hanno riguardato nell’ordine: il metodo da adottare nell’individuazione dei diritti immediatamente precettivi e viceversa dei principi all’interno della Carta UE al fine della diversa efficacia degli stessi nei rapporti verticali ed orizzontali; l’incidenza, in termini di diversità di tutela fra i diritti contemplati nella Carta UE e nella CEDU, dell’orientamento della Corte Costituzionale inaugurato con la sentenza n. 269/2017; il ruolo dei giudici comuni nazionali rispetto all’interpretazione dei diritti garantiti dalla Carta dei diritti in armonia con le tradizioni costituzionali, secondo quanto indicato dalla Corte Costituzionale; e infine la sufficienza o meno dei sistemi di raccordo fra Carta UE e CEDU introdotti all’interno della Carta.
Il ciclo di interviste si è chiuso con il coinvolgimento di tre insigni penalisti di diversa “estrazione”: Francesco Viganò, giudice costituzionale, già ordinario di diritto penale presso l’Università Statale di Milano e in seguito presso l’Università Bocconi, Raffaello Magi, consigliere presso la Corte Suprema di Cassazione e Vittorio Manes, avvocato e ordinario di diritto penale presso l’Università Alma Mater di Bologna.
In quest’ultima occasione di confronto - Cedu e cultura giuridica italiana. 13) Conversando con i penalisti su CEDU e dintorni - le domande si sono concentrate sul tema dei rapporti tra diritto penale, Cedu e Carta dei diritti fondamentali; sul peso assunto dal giudice nazionale e, di converso, dall’avvocato nell’attuazione dei diritti fondamentali nella materia penale sulla spinta delle Carte dei diritti fondamentali e infine sul ruolo giocato dalla Carta UE dei diritti fondamentali nella materia penale rispetto alla Costituzione e alla Cedu.
L’impressione complessiva che emerge scorrendo le tredici interviste è quella di un forte entusiasmo e voglia di dialogare dei protagonisti con la giurisdizione, a riprova della considerazione elevata che, malgrado tutto, il mondo della giustizia gode nei settori pulsanti della società, con i quali la magistratura non può non cooperare attivamente in posizione equiordinata.
Una considerazione che dovrà però essere ripagata con altrettanta passione ed entusiasmo dalla magistratura per mantenere alto il livello di confronto e di reciproca crescita, all'insegna di quel principio di "leale cooperazione" che è la cifra unificante di questo libro.
La speranza, che giustamente il giudice Sabato ha espresso e che facciamo nostra è, dunque, che l'impegno profuso dai giuristi coinvolti in questo progetto sia foriero di ulteriori frutti fecondi ed effettivi, animati dallo stesso spirito lindo e capaci di coinvolgere, nelle dimensioni plurali proprie di ciascun ordine e funzione, fasce sempre più ampie di operatori del diritto e non solo le c.d. élite degli esperti del settore, essendo ben altra e ben più importante la posta in gioco.
Una posta che vuole andare a braccetto con la cultura per sconfiggere l'incultura e che guarda ai diritti delle persone senza volerli deificare ma, semmai, conoscere ed applicare considerando anche la prospettiva di solidarietà e "doverosità" che essi contemplano e che li rende espressivi dei valori universali appartenenti alla società del nostro tempo, oggi più che mai messa a dura prova da una guerra che sembra assumere sempre di più il volto di un conflitto globale nel quale i valori devono essere il faro che si intravede alla fine del tunnel, ininterrottamente acceso, continuamente alimentato, salvaguardato fino alla fine.
Un grande grazie a chi ha reso possibile questo cammino, ancora lungo per tutti.
Ricordo di Franco Bile
di Giovanni Amoroso
Franco Bile è un pezzo di storia della Corte costituzionale.
Il 29 ottobre 1999 è stato eletto giudice costituzionale dai magistrati della Corte di Cassazione e della Procura Generale e ha prestato giuramento l'8 novembre 1999. L'11 luglio 2006 è stato eletto Presidente della Corte costituzionale e ha terminato il suo mandato l'8 novembre 2008.
Ha redatto, come giudice, 243 provvedimenti, tra sentenze e ordinanze; come Presidente ne ha sottoscritti 983.
Già solo questi dati dicono quanto abbia significato per la Corte costituzionale l’opera di Franco Bile, di cui posso dirmi testimone diretto avendo avuto il privilegio di collaborare come suo assistente di studio.
È stato maestro di diritto e di sapienza giuridica con la modestia e la mitezza che riflettevano il suo animo gentile.
Provenendo dalla Corte di cassazione, dove per molti anni aveva esercitato le funzioni di legittimità fino ad essere Primo Presidente Aggiunto, Franco Bile aveva una competenza ed esperienza giuridica a tutto campo, che si ritrova poi nell’ampiezza delle materie trattate come giudice costituzionale.
Le sue sentenze hanno spaziato nei settori più vari.
Si affollano i ricordi delle tante questioni. Il filo della memoria si snoda negli anni in una sequenza di immagini e pensieri, che emergono da un passato ancora recente.
Vale ora fare anche soltanto menzione di alcune tra le principali sentenze non già come rassegna, ma come tessere luminose di un’immagine complessiva per ricomporre il ricordo di ciò che è stato Franco Bile nella Corte costituzionale.
La materia che gli era più congeniale, anche per la sua pregressa esperienza alle Sezioni Unite civili della Corte di cassazione, era quella della giurisdizione civile e amministrativa e del loro riparto. Si trovò ben presto ad affrontare un tema che poi diventerà un Leitmotiv negli anni successivi e che muterà profondamente l’assetto della giurisdizione rispetto al disegno del Costituente. Con una delle sue prime pronunce (sentenza n. 292 del 2000) è stata dichiarata l’illegittimità dell’istituzione di una giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di pubblici servizi non limitata ai diritti patrimoniali conseguenziali e l’attribuzione della cognizione delle controversie concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi nelle concessioni di pubblici servizi.
Il diritto alla tutela giurisdizionale è ricorrente in altre pronunce. La concezione bifasica della notificazione in materia civile ha assicurato una garanzia, ormai acquisita, alla parte che procede alla notificazione. Con una pronuncia interpretativa è stata riconosciuta l’estensione di questa regola per cui le garanzie di conoscibilità dell'atto da parte del destinatario della notificazione debbono coordinarsi con l'interesse del notificante a non vedersi addebitato l'esito intempestivo del procedimento notificatorio per la parte sottratta alla sua disponibilità. Quindi la notifica si perfeziona, per il notificante, con il compimento delle sole formalità che non sfuggono alla sua disponibilità e non già alla data dell’attestazione che di esse fa l'ufficiale giudiziario nella relazione di notificazione (sentenza n. 28 del 2004).
La tutela giurisdizionale non può essere condizionata dall’adempimento dell’obbligo fiscale che corre su un binario distinto. La sentenza n. 522 del 2002 ha dichiarato l’illegittimità della norma secondo cui i cancellieri non potevano rilasciare originali, copie ed estratti degli atti soggetti a registrazione in termine fisso da loro formati o autenticati se non dopo che gli stessi fossero stati registrati. Pertanto è sempre dovuto il rilascio dell'originale o della copia della sentenza o di altro provvedimento giurisdizionale, che debba essere utilizzato per procedere all'esecuzione forzata.
Il canone del “giudice terzo e imparziale”, introdotto in termini espressi dal novellato art. 111 della Costituzione, è al fondo delle pronunce di incostituzionalità che hanno avuto ad oggetto le regole di competenza nelle cause in cui sono parti anche magistrati (sentenze n. 444 del 2002 e n. 147 del 2004).
Plurime sono poi le sentenze in materia di tutela del lavoro pubblico e privato.
È stata dichiarata costituzionalmente illegittima la norma, ingiustamente penalizzante per il pubblico impiego, che escludeva il diritto agli interessi e alla rivalutazione monetaria per i crediti retributivi conseguenti agli inquadramenti definitivi operati per il personale del comparto ministeri (sentenza n. 136 del 2001).
È stata ribadita la regola del concorso per l’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni nel dichiarare l’illegittimità di una legge regionale che riservava la copertura del cento per cento dei posti messi a concorso al personale interno (sentenza n. 373 del 2002). Anche il passaggio dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni ad una fascia funzionale superiore, comportando l'accesso ad un nuovo posto di lavoro corrispondente a funzioni più elevate, è soggetto alla regola del pubblico concorso, che non è rispettata dalla riserva di tutti i posti disponibili di una data qualifica ai dipendenti già in servizio.
Parimenti illegittima è stata ritenuta altra legge regionale che conteneva un meccanismo di spoil system quanto alla dirigenza sanitaria e amministrativa delle aziende ospedaliere (sentenza n. 233 del 2006). L'azzeramento automatico dell'intera dirigenza in carica pregiudica il buon andamento della pubblica amministrazione.
La tutela del lavoro ispira altre pronunce in tema di contratto per prestazioni di lavoro temporaneo (sentenza n. 58 del 2006), in materia di infortuni e malattie professionali (sentenza n. 171 del 2002) e con riguardo allo sciopero nei servizi pubblici essenziali (sentenza n. 223 del 2001).
Un’importante pronuncia ha riguardato il matrimonio concordatario, dichiarato nullo dalla giurisdizione ecclesiastica, e l'applicabilità del regime patrimoniale dettato dall'ordinamento italiano per il matrimonio putativo e non di quello previsto per i casi di scioglimento del matrimonio civile e di cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio concordatario (sentenza n. 329 del 2001). Le due fattispecie della nullità del matrimonio e del divorzio presentano elementi di diversità non meramente formali, ma sostanziali.
Con riferimento alle agevolazioni fiscali per l'acquisto della prima casa la sentenza n. 416 del 2000 ha dichiarato l’illegittimità della norma che escludeva il rimborso delle somme dovute al contribuente in ragione dell’efficacia retroattiva del beneficio. La logica del fait accompli non vale a giustificare un trattamento deteriore e discriminatorio per il contribuente che abbia tenuto il comportamento fiscale più corretto, provvedendo al pagamento dell'imposta nel maggiore importo accertato senza tener conto dell'agevolazione fiscale, poi riconosciuta.
Non mancano pronunce in materia penale, come quella che ha dichiarato l’illegittimità della norma che - nel prevedere, in ogni caso di inammissibilità del ricorso per cassazione, la condanna al pagamento di una somma in favore della cassa delle ammende, a carico della parte privata che abbia proposto il ricorso – non escludeva l’ipotesi in cui quest’ultima non versasse in colpa nella determinazione della causa d'inammissibilità (sentenza n. 186 del 2000). La censura della rigidità dei meccanismi processuali che limitano il diritto di difesa è una costante della giurisprudenza costituzionale.
Numerose sono anche le pronunce in materia di diritto regionale, che costituisce tuttora ampia parte del contenzioso costituzionale.
La tutela dell’ambiente e dell’ecosistema è al fondo di pronunce dichiarative dell’illegittimità di leggi regionali in materia di rifiuti speciali (sentenza n. 505 del 2002) e di stoccaggio di materiali nucleari (sentenza n. 247 del 2001).
Si è riconosciuta la competenza del legislatore regionale nel dettare disposizioni in materia di spese condominiali in caso di assegnazione in locazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica (sentenza n. 352 del 2001). È questa una rara pronuncia in cui la Corte ha riconosciuto uno spazio al legislatore regionale anche per aspetti che concernono l’ordinamento civile, di competenza esclusiva statale.
Tra le pronunce che hanno avuto ad oggetto conflitti tra poteri dello Stato possono ricordarsi quelle che hanno riguardato l’immunità parlamentare per le opinioni espresse (sentenza n. 247 del 2004) e l’assoggettabilità a perquisizione di un locale nella disponibilità di un parlamentare e l’inviolabilità del suo domicilio (sentenza n. 58 del 2004). Con quest’ultima pronuncia, che ha presentato la singolarità di aver riguardato un conflitto sollevato dalla Camera dei deputati nei confronti di una Procura della Repubblica per fatti avvenuti oltre sei anni prima, la Corte ha sì affermato l’inesistenza di un termine di decadenza per proporre il conflitto, ma ha anche effettuato la valutazione del perdurante interesse al ricorso nonostante il lungo tempo trascorso.
Nel ricordare infine la Presidenza di Franco Bile negli anni 2006-2008 non può non farsi menzione delle fondamentali sentenze n. 348 e n. 349 del 2007 che hanno modificato profondamente il giudizio costituzionale e l’ordinamento giuridico quanto alla conformità della normativa nazionale al diritto europeo e ai trattati internazionali. Esse hanno costituito e rappresentano tuttora un costante riferimento nella giurisprudenza successiva.
Franco Bile ha dato moltissimo alle istituzioni.
La sua scomparsa ci lascia la tristezza del rimpianto, ma il conforto di un esempio di integrità assoluta, di rigore morale, di costante impegno civile.
Uomo del mio tempo
di Salvatore Quasimodo
Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,
con le ali maligne, le meridiane di morte,
t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche,
alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero
gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno
quando il fratello disse all’altro fratello:
«Andiamo ai campi». E quell’eco fredda, tenace,
è giunta fino a te, dentro la tua giornata.
Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
Salite dalla terra, dimenticate i padri:
le loro tombe affondano nella cenere,
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.
La separazione della carriera dei magistrati: la proposta di riforma e il referendum
di Paola Filippi, direttrice scientifica della rivista
Sommario: 1. Il passaggio dalla funzione requirente alla funzione giudicante e viceversa: numeri e propensione. - 2. Il pubblico ministero, questo sconosciuto. - 2.1. Le funzioni civili - 2.2. Le funzioni di appello - 2.3. Le funzioni di legittimità. - 3. La riforma in discussione al Senato: opzione di funzione entro termine perentorio. - 4. La premessa del quesito referendario sulla separazione delle funzioni. - 4.1. Il quesito referendario - 5. Conclusioni.
1. Il passaggio dalla funzione requirente alla funzione giudicante e viceversa: numeri e propensione.
Il numero dei passaggi dei magistrati dalle funzioni requirenti a quelle giudicanti - e viceversa-, fotografa il perimetro del transito che tanto anima i separazionisti, e offre la reale dimensione del tema che, nei prossimi giorni, impegnerà il Senato della Repubblica, in sede di approvazione dell’art. 12 del D.D.L. S. 2595 – disegno di legge delega per la riforma dell’ordinamento giudiziario –, e i cittadini italiani nella consultazione referendaria del prossimo giugno.
Negli ultimi sedici anni (ovvero dalla riforma Castelli-Mastella al 2021) è stato pari a 19,5 il numero medio annuo dei passaggi dalle funzioni giudicanti alle funzioni requirenti. In totale i passaggi dalla giudicante alla requirente sono stati 312, di cui 61 verso la Procura generale della Corte di cassazione.
Nello stesso periodo è stato invece pari a 28,5 il numero medio dei passaggi dalle funzioni requirenti alle funzioni giudicanti. In totale i passaggi dalla requirente alla giudicante sono stati 456, di cui 25 verso la Corte di cassazione.
Tali dati vanno considerati alla luce del numero medio (dal 2006 al 2021) dei magistrati in servizio: 8620.
In sostanza, il numero di passaggi dalla funzione giudicante alla funzione requirente ha coinvolto solo lo 2 magistrati su mille, quello inverso solo 3 su mille.
Dal 2006 - anno dell’entrata in vigore dell’art. 13 d.lgs. n. 160/2006 che ha ridotto a quattro il numero massimo di passaggi - al 2021, il numero dei passaggi effettuati dal medesimo magistrato è stato di regola uno solo, salvo trentanove magistrati che hanno effettuato due passaggi, solo un magistrato ne ha effettuati quattro (peraltro in funzioni di legittimità civili).*
I numeri ridimensionano drasticamente il fenomeno del cambio di funzioni.
Alla luce dei limiti introdotti dall’art. 13 d.lgs. n. 160/2006 non vi è rischio che i magistrati che cambiano funzione rimangano nello stesso distretto o nella stessa regione. La disciplina attualmente vigente assicura infatti la terzietà sia nell’essere che nell’apparire, prevedendo anche limiti ultronei rispetto allo scopo.
Con riferimento alla propensione dei magistrati al cambio di funzioni è utile ricordare l’iter introduttivo e abrogativo della disposizione di cui al comma 2 dell’art. 13 d.lgs. n. 160/2006.
Detta diposizione precludeva ai magistrati di prima nomina l’assegnazione alla funzione requirente, il legislatore in quell’occasione valorizzò lo svolgimento della funzione giudicante ai fini della formazione professionale della magistratura requirente. La disposizione richiamata fu abrogata dall’articolo 1 della legge n. 187/2011[1].
La norma è stata abrogata non per un ripensamento in ordine all’utile propedeuticità della funzione giudicante ma per ragioni di ordine squisitamente pratico: l’impossibilità di coprire con tramutamenti ordinari i posti degli Uffici di Procura di primo grado rimasti vacanti. Fu il rischio della paralisi delle Procure della Repubblica che determinò infatti l’abrogazione della norma.
L’introduzione del comma secondo dell’art. 13 d.lgs. n. 160/2006 o meglio la sua abrogazione, ha consentito di acquisire un dato di conoscenza di fondamentale importanza ovvero che i magistrati non sono propensi al cambio di funzioni.
La scelta della funzione dipende, più di quanto non si tenga conto, da motivi geografici ovvero dalla vicinanza della sede di prima destinazione a quella di provenienza.
In magistratura, per il principio di cui all’art. 104 della Costituzione, non si nasce pubblici ministeri o giudici ma lo si diventa al momento dell’assegnazione della sede di prima destinazione, scelta che dipende dalla sede familiare e dalla posizione in graduatoria.
Tale scelta, come emerge dai dati statistici, segna poi il futuro del magistrato.
Molti magistrati provengono dall’avvocatura e la carriera degli operatori di giustizia, avvocati e magistrati, ha un’infinità di passaggi comuni.
La questione della separazione, a ragionare secondo logica e senza preconcetti è un problema mal posto, il frutto forse di un mantra che origina dal Gip di mani pulite – che peraltro mai nella sua carriera svolse le funzioni di pubblico ministero – un mantra vecchio di trent’anni di cui i giovani attori della giustizia, avvocati, giudici e pubblici ministeri del primo grado hanno perso memoria quanto all’origine.
Prima di mani pulite, vigente il codice Rocco, l’argomento della separazione non era in voga.
Diverso il rito, senz’altro minori le garanzie, ma nessuno, anche oggi, oserebbe dubitare della professionalità e terzietà dei giudici Falcone e Borsellino che, per la funzione esercitata, quella di giudice istruttore, sommavano, la funzione requirente a quella giudicante, facevano le indagini e rinviavano a giudizio.
2. Il pubblico ministero, questo sconosciuto.
“Il pubblico ministero è organo pubblico che agisce a tutela di interessi collettivi” [2], questa la definizione offerta dalla Corte costituzionale in coerenza con l’etimologia del nome, dal latino minister, aiutante.
Il pubblico ministero ha un ruolo propulsivo essenziale, nella fase delle indagini preliminari, egli agisce in base al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, secondo la previsione di cui all’articolo 112 della Costituzione.
Il richiamato principio costituzionale al quale è sottoposta la sua azione, lo dovrebbe esimere dalle accuse di essere un persecutore – come lo descrivono invece i promotori del referendum –.
L’obbligatorietà dell’azione penale, della quale deve farsi carico il pubblico ministero, altro non è che la manifestazione del principio di uguaglianza che, nel processo, si declina, nella parità di trattamento davanti alla legge.
Tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge è la frase scritta nelle aule dei Tribunali e si tratta di un monito che vale per tutta la magistratura in ragione dell’appartenenza a un unico ordine.
L’obbligatorietà non è espressione dell’essenzialità della persecuzione come enfatizzo e attualizzato dalla direttiva di cui al all’art. 1 n. 9 lett. a) della legge n. 134 del 2021 che delega il governo a modificare la regola di giudizio per la presentazione della richiesta di archiviazione, prevedendo che il pubblico ministero chieda l'archiviazione quando gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non consentono una ragionevole previsione di condanna.
La delega conferma che il pubblico ministero, anche nella fase delle indagini preliminari, ha compiti che sono espressione dello ius dicere.
La direttiva rimette al pubblico ministero un giudizio prognostico più pregnante di quello richiesto al giudice per le indagini preliminari a legislazione vigente. Trattasi di disposizioni in linea con l’art. 358 cod. proc. pen. che rimette al pubblico ministero il compito di svolgere gli accertamenti su fatti e circostanze a favore dell’indagato.
La formazione del pubblico ministero, eventualmente anche attraverso il previo esercizio delle funzioni giurisdizionali, meglio predispone all’applicazione dell’art. 358 cod. proc. pen. e all’applicazione delle previsioni di riforma di cui all’art. 1, comma 9 lett. a) legge 137/2021. Un pubblico ministero, già giudice, meglio potrebbe contribuite al PNRR sotto il profilo dell’esercizio mirato dell’azione penale nell’obiettivo del contenimento delle risorse e della riduzione dei tempi della giustizia penale. Anche sotto tale profilo, come si dirà, la previsione di cui all’art. 12 del disegno di legge delega della riforma dell’ordinamento giudiziario appare incoerente con la situazione contingente e con gli obiettivi che dovrebbe prefiggersi la riforma della giustizia.
La separazione fondata sul principio della parità delle armi tra accusa e difesa guarda solo al pubblico ministero delle indagini e del dibattimento, e bypassa ogni considerazione in ordine alle diverse funzioni che il nostro ordinamento affida al pubblico ministero.
La parità delle armi è infatti manifestazione essenziale del processo accusatorio, relativa a un segmento significativo ma, al tempo stesso, parziale delle funzioni del pubblico ministero – quelle che svolgono 1800 magistrati in primo grado - ovvero quelle che riguardano il processo penale di primo grado, frazione minuta nell’ambito della ben più ampia e articolata declinazione di una funzione complessa preposta alla tutela della collettività e del vivere civile.
Chi rimane alla soglia del processo penale e guarda solo al dibattimento, per avere in aula un accusatore paritario al difensore, perché reso scevro dalla condivisioni con il giudice della comune appartenenza, rinuncia alla terzietà del magistrato requirente che si snoda nei gradi successivi di giudizio e - evaporata nelle fasi del processo la pulsione sottesa all’affermazione della tesi accusatoria - assurge nella fase del sindacato della legittimità a paladino dell’osservanza della legge, delle garanzie processuali e dei diritti.
Il pubblico ministero, al pari del giudice, esercita una funzione pubblica e partecipa alla giurisdizione. Per Costituzione si distingue dal giudice solo per la funzione che esercita, requirente in opposizione a quella giudicante, gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme di ordinamento giudiziario e ciò a differenza del giudice che è sottoposto solo alla legge.
È dunque “tecnicamente parziale” e “valoristicamente povera”[3] la definizione di pubblico ministero quale semplice portatore di un interesse punitivo.
Nei diversi gradi del processo penale il ruolo del pubblico ministero si caratterizza poi, al pari di quello del giudice, dal graduale distaccarsi dal fatto.
La funzione del pubblico ministero si trasforma nel corso del processo, da funzione essenzialmente accusatoria a funzione di garanzia del rispetto della legge, fino a trasformarsi, in sede di legittimità, in funzione nomofilattica, in tutto identica a quella del giudice di legittimità, funzione che si caratterizza per essere finalizzata al controllo dell’esatta osservanza e uniforme interpretazione della legge, scevra da pulsioni rappresentative di tesi proiettate verso esiti punitivi. Nel dibattito in tema di separazione è bene non dimenticare che il pubblico ministero in sede di legittimità ha il potere di ricorrere ex art. 363 c.p.c. nell’interesse della legge e che nel processo penale è organo propulsore, per il ruolo di garanzia che gli è assegnato, di approdi giurisprudenziali anche in favore dell’imputato.
2.1. Le funzioni civili.
Il pubblico ministero svolge un ruolo essenziale, fondamentalmente giurisdizionale, quale organo propulsore di provvedimenti del giudice civile in settori del vivere sociale che non possono essere lasciati alla mera disponibilità dei privati.
Si pensi alle funzioni che è chiamato a svolgere in materia di fine vita, di famiglia, di incapaci, di separazione e divorzio o nel settore economico della crisi e dell’insolvenza, funzioni che mettono in luce come, non solo nel settore penale, ma anche nel settore civile, è assegnatario dell’alto compito della tutela dei diritti fondamentali, della tutela della collettività e dell’osservanza della legge[4].
2.2. Le funzioni di appello.
Con riguardo all’esercizio del potere di impugnazione,[5] vale l’affermazione, secondo cui "il potere di impugnazione" del pubblico ministero, non è una proiezione del principio di obbligatorietà dell'esercizio dell'azione penale, di cui all'art. 112 della Costituzione. Tanto evidenzia l’errore di prospettiva che focalizza un ruolo accusatorio del pubblico ministero anche nei successivi gradi di giudizio.
L’affermazione secondo cui il potere di impugnazione non è proiezione dell’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale è avvalorata dalla Corte costituzionale, a partire dalla sentenza n. 280 del 1995 sino alla sentenza n. 26 del 2007[6].
Il principio che si rinviene nella giurisprudenza della Corte costituzionale è che il potere di impugnazione del pubblico ministero ha come copertura costituzionale il principio del giusto processo nella declinazione della parità delle parti e non già quello dell’obbligatorietà dell’azione penale.
Se la scelta in ordine alla proposizione del ricorso per Cassazione non dipende dall’obbligatorietà dell’azione penale perché di mezzo c’è una decisione giurisdizionale – che ha in qualche modo disatteso l’assunto accusatorio, con riguardo all’accertamento del fatto o alla qualificazione giuridica – è evidente come il pubblico ministero che svolge funzioni di appello non esercita una funzione accusatoria in quanto è tenuto a ancorare la sua discrezionalità alla tenuta della sentenza, sotto il profilo della corretta applicazione della legge sostanziale e della legge processuale nonché della motivazione posta a sostegno della valutazione probatoria e delle determinazioni raggiunte, ciò costituisce conferma di quello che si è anticipato ovvero che si scolora nelle fasi di giudizio il ruolo del pubblico ministero come accusatore.
2.3. Le funzioni di legittimità.
I sostituti procuratori generali presso la Corte di cassazione svolgono sia funzioni civili che funzioni penali e, nell’uno come nell’altro caso, esercitano funzioni dirette alla corretta applicazione della legge, espressione dell’esercizio di funzioni nomofilattiche non dissimili da quelle svolte dalla Corte di cassazione. Il suo sindacato e le sue determinazioni sono rivolte esclusivamente a ciò che concerne la fondatezza o l’infondatezza del ricorso con esclusivo riferimento alle censure di legittimità proposte contro la sentenza, tanto che pensare al procuratore generale come pubblico accusatore fa sorridere.
3. La riforma in discussione al Senato: opzione di funzione entro termine perentorio.
L’art. 12 del D.D.L. S2595 Bonafede Cartabia, in discussione nei prossimi giorni al Senato propone la modifica dell’art. 13 d.lgs. n. 160/06, nella parte relativa al numero di passaggi.
L’emendamento in discussione prevede che il passaggio dalla funzione requirente alla giudicante, e viceversa, possa essere richiesto dall'interessato, per non più di una volta nell'arco dell'intera carriera, entro il termine di sei anni dal maturare, per la prima volta, della legittimazione al tramutamento previsto dall’articolo 194 del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12, ovvero a conti fatti entro dieci anni dell’entrata in servizio.
In pratica, entro i sei anni dalla prima legittimazione al trasferimento, il magistrato sceglie se rimanere per sempre nella funzioni scelta da MOT o se cambiare la funzione, poi basta. Non è un passaggio ma un’opzione da esercitare entro un termine perentorio.
La previsione del secondo possibile cambio è uno specchietto per le allodole perché solo il giudice civile – che mai abbia svolto funzioni penali – potrà andare a fare il pubblico ministero e il pubblico ministero potrà andare a fare solo il giudice civile “in un ufficio giudiziario diviso in sezioni, ove vi siano posti vacanti in una sezione che tratti esclusivamente affari civili o del lavoro”.
La previsione, quanto al secondo passaggio, non prende in considerazione la distinzione tra gradi di merito e legittimità né si considerano le funzioni civili di legittimità.
Insomma la disciplina del secondo passaggio manca di logica giustificatrice. In realtà sembra che con la proposta si sia voluto mascherare il carattere di opzione della scelta da fare entro i sei anni dalla prima legittimazione, unico “assestamento” possibile dopo la scelta della prima sede.
Quali sono le ragioni della proposta di modifica dell’art. 13 d.lgs. n. 160/2006 stante la l’indiscussa applicazione dei limiti – anche ultronei – e l’esiguo numero dei cambi di funzioni?
Quale l’utilità sotto il profilo del giusto processo o della ragionevole durata?
Come potrebbe migliorare il servizio giustizia con tale riforma?
L’impossibile risposta a queste domande e gli effetti della proposta di modifica illuminano sulla ratio legis: la previsione in discussione altro non è che uno step verso la separazione della magistratura requirente e dalla giudicante. Se l’emendamento sarà approvato si otterrà, con legge ordinaria, un risultato per cui sarebbe invece necessaria una riforma costituzionale: la magistratura requirente sarà separata dalla magistratura giudicante.
Ma per Costituzione, come proclama l’art. 104, “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni potere”, ordine a cui appartengono indifferenziatamente i giudici e i pubblici ministeri e ciò costituisce la legittimazione costituzionale al passaggio dei magistrati da una funzione all’altra, nel rispetto dei limiti di incompatibilità e terzietà.
4. La premessa del quesito referendario sulla separazione delle funzioni.
Su https://www.referendumgiustiziagiusta.it/ (Referendum Giustizia Giusta - Comitato promotore) nella premessa al quesito referendario sulla separazione delle carriere si legge “Ci sono magistrati che lavorano anni per costruire castelli accusatori in qualità di PM e poi, d’un tratto, diventano giudici. Con un sì chiediamo la separazione delle carriere per garantire a tutti un giudice che sia veramente “terzo” e trasparenza nei ruoli. Il magistrato dovrà scegliere all’inizio della carriera la funzione giudicante o requirente, per poi mantenere quel ruolo durante tutta la vita professionale. Basta con le “porte girevoli”, basta con i conflitti di interesse che spesso hanno dato luogo a vere e proprie persecuzioni contro cittadini innocenti”.
Il prologo al quesito pone a fondamento della separazione l’assunto descrittivo di condotte delittuose (conflitto di interessi -persecuzione di innocenti), in relazione alle quali l’impedimento del passaggio da una funzione all’altra sarebbe ininfluente mentre, se fosse vero, ben altri dovrebbero essere i rimedi.
Quanto alla terzietà e trasparenza dei ruoli, sempre al fine di articolare un discorso aderente alla realtà della distinzione dei ruoli e delle funzioni, i promotori omettono di distinguere tra funzioni civili e funzioni penali nonché tra funzioni di merito e di legittimità. In ogni caso, bisognerebbe avvertire i cittadini che con la separazione delle funzioni nulla cambierà alla luce della percentuale dei pubblici ministeri che vanno a fare i giudici .
Per proseguire nella lettura del prologo al quesito referendario, quanto alla ragione della separazione compendiata nella necessità di impedire la “persecuzione di innocenti”, poiché la condotta descritta integra un reato – quello dell’abuso d’ufficio – a prescindere dal collegamento, azzardato, tra passaggio di funzioni e ipotesi di reato trattasi, all’evidenza, come si è detto, di obiettivo – la prevenzione del crimine – contro il quale l’impedimento del passaggio è privo di efficacia deterrente.
4.1. Il quesito referendario.
Il quesito referendario sulla separazione delle carriere propone l’abrogazione di un numero, non esiguo, di disposizioni per cui viene da domandarsi se chi parteciperà al referendum sarà effettivamente in grado di orientarsi nel labirinto delle disposizioni da abrogare. Per semplificare, volendo venire in aiuto dell’impavido votante si può sintetizzare che solo il comma 6 dell’art. 192 del regio decreto del 1941 è utile ai fini dell’abrogazione del passaggio. Si tratta di norma di epoca fascista che ancorché riguardasse un pubblico ministero sottoposto al Ministro della Giustizia (allora pure di Grazia) consentiva il passaggio quando in presenza di parere favorevole, originariamente del consiglio giudiziario, poi dopo l’entrata in vigore della Costituzione e dell’entrata in funzione dell’Organo centrale di governo autonomo della magistratura, del parere favorevole del Consiglio superiore.
Le altre disposizioni oggetto del quesito riguardano in realtà i limiti spazio-temporali ai passaggi di funzioni. Tra queste vi è e la norma di cui all’art. 13 d.lgs. n. 160/2006 – attinto dalla proposta di riforma in discussione – che disciplina il passaggio agli uffici di altra regione, che lo consente decorsi cinque anni e che lo limita a quattro passaggi.
Comunque, a parte le premesse espositive del quesito referendario sopra riportate, una cosa è certa. Il “sì” non cambierà nulla per un motivo semplicissimo: l’ esiguo numero dei pubblici ministeri che vanno a fare i giudici, numero ininfluente nella realtà fattuale.
Nel 2021 la percentuale dei passaggi di pubblici ministeri è stata dello 0,6 per cento, percentuale che rende evidente che il referendum non cambierà nulla, ma soprattutto non cambierà la funzione requirente che continuerà ad essere esercitata secondo il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale e delle disposizioni del codice di rito.
5. Conclusioni.
L’esigua percentuale dei passaggi da una funzione all’altra non giustifica la rinnovata accesa attenzione del legislatore in tema di separazione delle funzioni.
Al tempo stesso l’esigua percentuale dei passaggi da una funzione all’altra, insieme alla scarsa propensione al cambio di funzioni, apparentemente nemmeno giustifica l’accorata manifestazione di dissenso della magistratura.
L’incidenza minima del passaggio di funzioni e la mancanza di argomenti concreti idonei a spiegare perché l’attuale articolo 13 d.lgs. n. 160/2006 non funziona svelano, in realtà, la ragione sottesa alla proposta contenuta nella legge delega.
La vera ragione, quella di principio, che si richiama quando non ci sono argomenti ostensibili, è che, scardinando l’appartenenza della magistratura requirente dall’unico ordine autonomo e indipendente, come voluto dalla Costituzione e consacrato all’art. 104, lo statuto della magistratura requirente potrebbe essere ridisegnato come meno autonomo e meno indipendente di quello del giudice, con possibili condizionamenti da parte del potere esecutivo.
Questa l’unica possibile ragione di una previsione normativa altrimenti inutile, questo il vero rischio.
Ciò allora spiega l’accorata manifestazione di dissenso della magistratura, come abbiamo visto non propensa al cambiamento di funzioni.
La magistratura non dissente dalla riforma per la conservazione di privilegi di casta. Di questo dovrebbero prendere atto i cittadini chiamati a partecipare al quesito referendario.
Le ragioni dell’accorato dissenso sono determinate dalla profonda consapevolezza che il migliore dei mondi possibili, per citare Voltaire, è quello in cui la magistratura requirente è autonoma e indipendente esattamente come la magistratura giudicante e che l’art. 104 della Costituzione, non dovrebbe essere surrettiziamente modificato.
Se si vuole modificare l’art. 104 della Costituzione ciò deve avvenire attraverso i presidi previsti per la modifica dei principi costituzionali ovvero con lo strumento della revisione costituzionale, previa accurata considerazione e adeguato bilanciamento da parte di maggioranza qualificata di tutte implicazioni derivanti dal privare la magistratura requirente dell’identica autonomia e indipendenza che la Costituzione ha riservato alla magistratura giudicante.
*I dati statistici sono stati forniti dall'Ufficio statistico del Consiglio superiore della magistratura a ciò autorizzato e che si ringrazia.
[1] Originariamente, infatti, l’art. 13 d.lgs. n. 160/2006 precludeva ai magistrati di prima nomina, anteriormente al conseguimento della prima valutazione di professionalità, la possibilità di essere destinati a svolgere talune funzioni: le funzioni requirenti, giudicanti monocratiche penali, di giudice per le indagini preliminari o di giudice per l’udienza preliminare. Il Ministro della giustizia Alfano, nell’audizione presso la Commissione giustizia della Camera del 9 dicembre 2009, evidenziava come tale scelta avesse di fatto posto fine alla prassi secondo la quale nelle sedi vacanti per difetto di aspiranti venivano mandati, come pubblico ministero o giudice per le indagini preliminari, i giovani vincitori di concorso. Tale preclusione ha nei fatti aggravato la c.d. scopertura delle sedi disagiate. Per fare fronte alle esigenze di copertura di tali sedi - che si concentrano specialmente nel Sud d’Italia, in regioni ad alta densità di criminalità organizzata – il Governo è allora intervenuto con il decreto legge n. 193/2009 (convertito dalla legge n. 26/2010). Il decreto-legge, pur mantenendo la sopra richiamata preclusione, consentiva una deroga in presenza di specifiche condizioni oggettive di scopertura delle sedi e con riferimento ai magistrati nominati con un decreto ministeriale del 2009. A questi ultimi, al termine del tirocinio,con provvedimento motivato il Consiglio superiore della magistratura, ove alla data di assegnazione delle sedi ai magistrati nominati con il decreto ministeriale sussista una scopertura superiore al 30 per cento dei posti, può attribuire le funzioni requirenti al termine del tirocinio, anche antecedentemente al conseguimento della prima valutazione di professionalità, in deroga a quanto è previsto dalla normativa vigente. (https://leg16.camera.it/561?appro=661 Temi per l’attività parlamentare - Funzioni attribuibili ai magistrati di prima nomina).
[2] Corte cost., sent. n. 26 del 6 febbraio 2007.
[3] «Il pubblico ministero nel sistema disegnato dalla nostra costituzione, in quanto interprete dei valori della collettività e, al pari del giudice, della dignità umana e il suo ruolo non è tecnicamente accusatorio ma sostanzialmente difensivo di una comunità democratica e pluralistica» De Leo Francesco, Dalla prescrizione alle impugnazioni. Tempi dell'azione, tempi del processo e ideologie sul pubblico ministero, in Cass. Pen., fasc.7-8, 2007, pag. 31.
[4] Il pubblico ministero «agisce esclusivamente nell'intento di garantire l'osservanza della legge», tanto che - tra l'altro - deve svolgere anche gli «accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini» (art. 358 cod. proc. pen.) e può proporre gravame «quali che siano state le conclusioni del rappresentante del pubblico ministero» (art. 570, comma 1, cod. proc. pen.) (Sez. U, n. 6203 del 11/5/1993, Amato, Rv. 193743, Foro Italiano, anno 1993, fasc. 10 p. 556).
[5] Sono ormai superati gli orientamenti secondo cui dall’obbligatorietà dell’azione penale discende l’obbligatorietà dell’impugnazione e - in tal senso, è stato affermato che “il principio di obbligatorietà dell’azione penale ha come necessario corollario la predisposizione in favore del pubblico ministero degli strumenti per porre rimedio alla decisione errata che ha posto un ostacolo irragionevole all’esercizio dell’azione penale” - un orientamento intermedio, secondo cui l’obbligo è temperato da una discrezionalità necessitata dall’intervento di una decisione del giudice e dalla conseguente necessità del vaglio da parte del requirente quanto ai motivi della decisione, « Non può disconoscersi, tuttavia, come una affermazione siffatta presupponga in capo al pubblico ministero - nel momento in cui debba determinarsi, in concreto, all'esercizio o al non esercizio del potere di appello contro una sentenza di proscioglimento - uno spazio di discrezionalità "politica" difficilmente compatibile con il principio costituzionale che gli impone l'obbligo di "esercitare" (non, dunque, soltanto di "iniziare", stando alla distinzione lessicale desumibile dall'art. 74, comma 1, ord. giud.) l'azione penale, senza alcuna distinzione tra i diversi gradi del procedimento. Anche perché, se così fosse, ciò significherebbe riconoscere al pubblico ministero un potere di disponibilità - circa la sorte di una iniziativa d'accusa in ipotesi non condivisa dal giudice di primo grado - che, essendo riferibile anche a criteri di mera convenienza, risulterebbe di per sé inconciliabile rispetto all'esigenza di attuazione del principio di legalità su cui si fonda proprio l'art. 112 Cost. Al contrario, appare come conseguenza "naturale" ed imprescindibile di quest'ultimo principio che il pubblico ministero, di fronte ad una sentenza che abbia a suo avviso ingiustamente disatteso la "pretesa punitiva" (e sempreché non siano sopravvenute situazioni tali da escludere obiettivamente la permanenza del corrispondente pubblico interesse), debba proporre appello, non essendogli consentiti altri margini di valutazione discrezionale in ordine all'eventuale non esercizio del relativo potere». Vittorio Grevi in Appello del pubblico ministero e obbligatorietà dell'azione penale, Cass. pen., fasc.4, 2007, pag. 1414.
[6] Intervento della Corte costituzionale, quello di cui alla sentenza n. 26/2007, seguito alle modifiche introdotte all'art. 593, comma 2, c.p.p. per effetto dell'art. 1 l. 20 febbraio 2006, n. 46, che aveva sostanzialmente eliminato (salva l'ipotesi eccezionale di sopravvenienza di una nuova prova "decisiva") il potere d'appello del pubblico ministero contro le sentenze di proscioglimento l'art. 1 l. 20 febbraio 2006, n. 46. E’ stato dichiarato incostituzionale l’art. 593 c.p.p. nella parte in cui “esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento, fatta eccezione per le ipotesi previste dall'art. 603, comma 2, c.p.p., se la nuova prova è decisiva”, in ragione della violazione del principio del giusto processo del quale è espressione il principio della parità delle armi. Il principio affermato dalla Corte cost. è che “Il principio di parità delle parti nel processo penale non significa necessaria omologazione di poteri e facoltà, anche con riferimento alla disciplina delle impugnazioni. Infatti, il potere del pubblico ministero di impugnare nel merito la sentenza di primo grado presenta margini di "cedevolezza" più ampi del simmetrico potere dell'imputato, in quanto, mentre il primo trova copertura costituzionale solo entro i limiti della parità delle parti, non potendo essere configurato come proiezione necessaria della obbligatorietà dell'esercizio dell'azione penale, il secondo si correla al valore espresso dal diritto di difesa. Le eventuali limitazioni del potere di impugnazione della pubblica accusa devono comunque rappresentare soluzioni normative sorrette da una ragionevole giustificazione, nei termini di adeguatezza e proporzionalità. - Sul fatto che la garanzia del doppio grado di giurisdizione , non fruisce, di per sé, di riconoscimento costituzionale, v., citate, ex plurimis , sentenza n. 280/1995 e ordinanza n. 316/2002. - Sulla impossibilità di configurare il potere di impugnazione del pubblico ministero quale proiezione necessaria della obbligatorietà dell'esercizio dell'azione penale, v., citate, sentenza n. 280/1995 e ordinanze n. 165/2003, n. 347/2002, n. 421/2001, n. 426/1998. - Sulla correlazione tra potere di impugnazione dell'imputato e diritto di difesa, v., citata, sentenza n. 98/1994. - Sulla compatibilità con il principio di parità delle parti della norma che esclude l'appello del pubblico ministero avverso le sentenze di condanna emesse in sede di giudizio abbreviato v., citate, sentenza n. 363/1991, ordinanze n. 46/2004, n. 165/2003, n. 347/2002, n. 421/2001, n. 305/1992, e n. 373/1991.)
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