ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il Procuratore della Repubblica, non capo, ma dirigente di uomini
Intervista di Giuseppe Amara ad Antonio Patrono
Più dialogo che gerarchia, condivisione delle informazioni e delle decisioni, cultura delle garanzie, comunanza nell’attività di udienza. La ricetta di Antonio Patrono, Procuratore alla Spezia, per una buona dirigenza requirente, nell’intervista di Giuseppe Amara.
1. Come interpreta, nel suo ruolo di Procuratore della Repubblica, il significato degli artt. 1 e 2 d.lgs. 106/06 che espressamente le attribuiscono la titolarità dell’azione penale, nel rapporto con i magistrati del suo ufficio chiamati all’esercizio delle funzioni giurisdizionali secondo l’autonomia costituzionalmente riconosciuta agli artt. 104-107 Cost.?
Ritengo che, nella difficoltà obiettiva di trovare in astratto una soluzione soddisfacente, le soluzioni adottate dal C.S.M. nella circolare sull’organizzazione delle procure, nelle varie versioni successivamente modificate, siano corrette ed opportune nella parte in cui, a tutela dell’autonomia del sostituto, stabiliscono per il procuratore l’obbligo di interlocuzione e, in caso di dissenso permanente, l’obbligo di motivazione in caso di eventuale revoca dell’assegnazione. Nella mia esperienza di dirigente non mi sono mai trovato in una situazione simile, poiché l’interlocuzione con i sostituti ha sempre portato a decisioni condivise. Qualora il dissenso dovesse permanere, penso che revocherei l’assegnazione soltanto se ravvisassi un palese errore di diritto o, in fatto, una evidente situazione di ingiustizia, mentre in caso di semplice opinabile divergenza di opinioni credo sia giusto che prevalga quella del sostituto che ha la responsabilità della conduzione delle indagini e del sostegno dell’accusa dinanzi al giudice.
2. Nei progetti organizzativi assumono sempre maggiore incidenza disposizioni che ampliano il controllo del Procuratore sull’operato dei magistrati (ad es. visti ulteriori a quelli ex lege, richieste di informazioni sull’adozione di specifiche attività di indagine e sulle scelte definitorie). Quale significato attribuisce a tali previsioni? È una prerogativa a tutela dell’autonomia del singolo magistrato o un limite alle sue prerogative?
Non parlerei di limite alle prerogative del sostituto in relazione a previsioni che richiedono soltanto una interlocuzione con il procuratore, che anzi, a mio avviso, è opportuno che ci sia perché può consentire, mediante il reciproco scambio di idee, di comprendere meglio la situazione e adottare le migliori strategie. Credo che sia frutto di un pregiudizio negativo e sbagliato ritenere che ogni intervento del dirigente, addirittura in termini di mera informazione e consultazione, sia finalizzato e propedeutico ad ingiuste prevaricazioni. Ovviamente tutto poi dipende dalle persone, secondo me il buon dirigente è quello che riesce a conquistare la fiducia dei sostituti facendo loro comprendere che la sua presenza e il suo interessamento è soltanto rivolto ad aiutarli a lavorare meglio, prevenendo errori e favorendo le scelte migliori, e non certo a prevaricarli e a comprimere la loro sfera di autonomia. La soddisfazione maggiore, per un procuratore, si ha quando i sostituti si rivolgono a lui spontaneamente per uno scambio di idee sul loro lavoro, perché ciò dimostra la fiducia e la stima che è riuscito a guadagnarsi.
3. Iscrizione delle notizie di reato e criteri di assegnazione. Come interpreta la previsione dell’art. 1, co. 6, d.lgs. 106/06 con riferimento alle assegnazioni in specifiche materie (ad es. reati commessi da appartenenti alle forze dell’ordine) ovvero alle ipotesi di auto-assegnazione al Procuratore dei procedimenti? Ancora, qual è la sua posizione rispetto alla prima iscrizione delle notizie di reato: precede le assegnazioni o è demandata ai sostituti assegnatari?
La norma prevede gruppi di lavoro per specifiche materie per le quali è preferibile avere una particolare preparazione tecnica o esperienza professionale. In realtà i gruppi di materie di questo genere sono non più di quattro o cinque, sostanzialmente uguali per tutte le procure a meno di situazioni particolari, e infatti si ripetono più o meno in tutti i progetti organizzativi. Non mi sembra sia questo il caso, ad esempio, dei reati commessi da appartenenti alle forze dell’ordine, che invece possono costituire casi di particolare delicatezza se involgano situazioni aventi ad oggetto rapporti tra istituzioni che normalmente collaborano tra loro. Questo potrebbe essere un motivo, invece, di autoassegnazione o, meglio ancora, di coassegnazione del procedimento al procuratore, insieme con altre situazioni che abbiano sempre come comune denominatore la possibilità che l’ufficio sia esposto a pressioni ed attenzioni di vario genere, da quelle giornalistiche ad altre comunque particolarmente insidiose, che è preferibile siano fronteggiate direttamente dal responsabile dell’ufficio. L’autoassegnazione, in sostanza, a mio giudizio è particolarmente opportuna in tutti i casi in cui, per usare un’espressione gergale, l’ufficio deve “metterci la faccia”. Per quanto riguarda invece l’iscrizione delle notizie di reato, ritengo che il compito di farla, individuando in tutti i suoi dettagli (aggravanti ecc..) la corretta qualificazione giuridica, sia meglio affidarlo al sostituto che svolgerà le indagini, dopo un primo vaglio da parte di chi assegna il procedimento (il procuratore, l’aggiunto o un delegato) finalizzato, oltre che a prendere conoscenza di ciò che arriva in ufficio, anche a stabilire se la notizia di reato rientri in una delle materia specialistiche o meno e a determinare quindi chi sia il magistrato di turno a cui assegnarla.
4. Le esperienze dei vari distretti rilasciano situazioni di scopertura fra i magistrati e nell’organico del personale amministrativo, con evidenti riflessi sull’esercizio dell’attività giurisdizionale. Nel suo ruolo di dirigente, quali criteri applica nell’allocazione delle risorse disponibili, ed in particolare si tende ad un potenziamento dell’assistenza diretta al lavoro dei magistrati, ovvero si privilegiano i servizi all’utenza?
D’accordo con il dirigente amministrativo è necessario trovare l’equilibrio migliore fra le diverse esigenze. I servizi all’utenza di una procura, diversi da ciò che riguarda l’attività giudiziaria, sono per la verità abbastanza pochi, principalmente il rilascio dei certificati dal casellario giudiziale e la legalizzazione delle firme quando previsto, e devono essere ovviamente svolti con tempestività. Il resto dei servizi di segreteria riguarda più o meno direttamente l’attività giudiziaria e la loro tempistica è normalmente disciplinata dalla legge. Ogni ufficio, in base alle dimensioni e al personale disponibile, organizza le attività di segreteria nel modo più opportuno, a seconda dei casi con segreterie centralizzate o individuali. In linea di massima per l’assistenza ai magistrati sono preferibili le segreterie individuali, che sono maggiormente responsabilizzate e consentono l’immediata riferibilità delle incombenze a una ben precisa persona, mentre le segreterie centralizzate sono preferibili per attività che consentano lo svolgimento in termine di maggiore ripetitività. Quel che è certo è che la carenza di personale amministrativo è il primo e più grave problema che affligge le procure, come credo anche gli altri uffici giudiziari.
5. Venendo a temi di stretta attualità, la Consulta ha ammesso il quesito referendario sulla separazione delle carriere che, sulla base della distinzione tra funzioni giudicanti e requirenti, impone la scelta iniziale, limitando la possibilità di cambio di funzione. Cosa ne pensa e quali secondo lei possono esserne i riflessi sul ruolo giurisdizionale del magistrato del pubblico ministero all'interno del nostro sistema costituzionale?
Certamente gravi. Non è una frase fatta quella della “cultura della giurisdizione”, che è fondamentale che sia comune a giudici e pubblici ministeri, che sono gli unici protagonisti del processo accomunati dalla stessa finalità, ovverosia la ricerca e l’affermazione della verità. Verità nel mondo della giustizia penale vuol dire due cose, ovverosia affermare la responsabilità dei colpevoli ed evitare che sia affermata quella degli innocenti. Per questa ragione io accomuno al concetto di “cultura della giurisdizione” quello di “cultura delle garanzie”, due facce della stessa medaglia che coesistono nel ruolo e nella mentalità dei giudici e dei pubblici ministeri. Io diffiderei moltissimo di un pubblico ministero che non ragioni come un giudice, nel senso che non faccia sempre e solo richieste che, se fosse giudice, non sarebbe convinto di dovere accogliere. Tutto ciò che allontana il pubblico ministero dal giudice, anche sul piano ordinamentale, lo allontana dalla cultura della giurisdizione e dalla cultura delle garanzie, inscindibili tra loro nell’ottica della ricerca della verità e quindi della giustizia, ed è assolutamente negativo.
6. Rapporti con l'informazione. Cosa ne pensa del nuovo quadro normativo (art. 5 d.lgs. 106/06 come modificato da d.lgs. 188/21 e d.l. A.C. 2681 sull’ampliamento delle ipotesi di illeciti disciplinari) e come ritiene che debba essere esercitata la discrezionalità del Procuratore nel comunicare all'esterno, con particolare riferimento alla nozione di rilevanza pubblica?
Le previsioni introdotte con la modifica dell’art. 5 del d.lgs. n. 106/06 erano in realtà già applicate nei loro contenuti sostanziali nei contatti con la stampa perché rispondono ai normali criteri di buon senso e di ragionevolezza. E’ infatti ovvio che le notizie che vanno sulla stampa sono solo quelle di pubblico interesse e che gli indagati e gli imputati sono cosa ben diversa dai condannati, e penso che nessun magistrato si sia mai sognato di dichiarare qualcosa di diverso. Purtroppo, come spesso accade, la distorsione verificatasi in pochi casi, per colpa di chissà chi, ha indotto il legislatore a dettare regole stringenti che, dovendo però valere sempre e per tutti, hanno l’effetto di appesantire il lavoro e di imporre incombenze che sarebbero normalmente inutili. Per quanto riguarda la possibile introduzione di un nuovo illecito disciplinare determinato dalla violazione delle prescrizioni del nuovo testo dell’art. 5 sui rapporti con la stampa, anche in questo caso non se ne sente la necessità poiché già esistono illeciti disciplinari in cui tali comportamenti potrebbero rientrare, in particolare l’art. 2 lett. d) e g) del d. lgs. n. 109/06. In ogni caso non penso che una violazione disciplinare, la cui descrizione deve essere chiara e rispondente ai criteri di formulazione che la rendano compatibile con il principio di tassatività della fattispecie, possa limitarsi ad un richiamo a concetti così generici come quelli contenuti nell’art. 5, quali la necessità per la prosecuzione delle indagini o le specifiche ragioni di interesse pubblico, che è difficile definire in via generale e al di fuori di una valutazione caso per caso se non esprimendo concetti generici e, quindi, poco significativi.
7. Lei, oltre ad essere oggi Procuratore, è stato anche componente del Consiglio Superiore della Magistratura nella consiliatura 2006-2010. Tralasciando i profili squisitamente ordinamentali e connotati da maggiore complessità tecnica, sulla scorta di detta esperienza, quali sono, secondo Lei, le caratteristiche che un Procuratore della Repubblica deve avere per poter svolgere adeguatamente un così gravoso compito?
Ne deve avere parecchie. Certamente deve avere le capacità organizzative necessarie per distribuire correttamente il lavoro fra tutti e individuare le modalità migliori per svolgerlo, con riguardo specialmente a tutte le incombenze ordinarie e ripetitive. Oggi si punta molto sulle capacità organizzative dei dirigenti, come è giusto che sia, anche se bisogna osservare che l’attività giudiziaria, compresa quella dei pubblici ministeri, è disciplinata comunque in larghissima misura dalle norme di procedura e dalle circolari del C.S.M., queste ultime sempre più dettagliate circa i moduli organizzativi da adottare e che lasciano quindi sempre meno spazio alla “fantasia” del dirigente. Anche per l’uso dell’informatica, ormai fondamentale, gli uffici si attengono agli applicativi e alle procedure ministeriali, e al dirigente spetta soprattutto il compito di verificarne il buon uso da parte degli appositi addetti. A mio giudizio, in ogni caso, la dote più auspicabile in un procuratore è quella di essere un buon “dirigente di uomini”, e per far questo occorre innanzitutto dimostrare ai colleghi, oltre ovviamente al rispetto per ognuno di loro, la più ampia disponibilità ad assisterli e aiutarli, che è il modo migliore per ottenere da tutti il massimo impegno. La stima di cui deve godere all’interno dell’ufficio è fondamentale per un procuratore, al fine di farsi apprezzare principalmente come collega. Io, ad esempio, arrivato nell’ufficio che ero chiamato a dirigere ho fatto in modo di curare personalmente indagini e andare in udienza, specie in coassegnazione con qualche collega, per dimostrare ai sostituti, che non mi conoscevano, che sapevo fare il loro stesso lavoro e potevo quindi essere un valido interlocutore per consigli e scambio di idee. Altra cosa estremamente importante è mantenere una assoluta equidistanza fra tutti, non dare mai l’impressione di avere “figli e figliastri” nell’ufficio. I colleghi sono abitualmente generosi e non si tirano mai indietro, ma ciò che non tollerano è che qualcuno sia favorito rispetto agli altri. Lo stesso atteggiamento è necessario mantenere nei confronti del personale amministrativo, e ciò è forse anche più difficile per la minore conoscenza personale che si ha in questo caso sia delle persone che della loro attività. Fondamentale, per questo, è creare sintonia con il dirigente amministrativo, il cui ruolo deve essere “intelligentemente” valorizzato al fine di ottenerne la migliore collaborazione. Se si è capaci di fare tutto ciò si è, a mio giudizio, un buon procuratore, e la cartina di tornasole è quella di verificare il livello di armonia che contraddistingue l’ufficio. Se, nonostante le difficoltà e le carenze di ogni genere in cui operiamo, in ufficio si vive un’atmosfera serena e collaborativa, allora vuol dire che chi l’ha diretto ha svolto un buon lavoro.
A trent’anni dalle stragi: ricordi e riflessioni dell’avvocatura agrigentina*
di Vincenza Gaziano
A trent’anni dalle stragi di Capaci e via D’Amelio, si celebra la giornata delle legalità ad Agrigento ove il contrasto tra le meraviglie paesaggistiche, naturali, artistiche e le ferite inferte dai delitti mafiosi si mostra in modo dirompente. Agrigento e la Valle dei Templi, Palma di Montechiaro la città del Gattopardo, Favara e la maestosità della Chiesa Madre, Racalmuto che diede i natali a Leonardo Sciascia, le città del litorale, Porto Empedocle con le sue lunghe spiagge dorate, Realmonte e la Scala dei Turchi, Montallegro e la riserva naturale di Torre Salsa fino a giungere a Capo Bianco ad Eraclea Minoa, territorio di straordinaria bellezza di grande interesse artistico e culturale, culla di maestri della letteratura, dilaniato per oltre un ventennio da una cruenta guerra di mafia.
Oggi, in un dialogo tra Letteratura Arte e Giustizia si ripercorrono alcune tappe degli anni delle stragi nell’agrigentino, che hanno segnato passaggi importanti anche della giurisdizione, il primo Maxi processo alla cupola agrigentina c.d. “Santa Barbara” era il 1986, il processo relativo alla prima strage di Porto Empedocle 1988-89.
In vigenza del codice Rocco, la istruttoria sommaria di entrambi i processi venne curata tra gli altri da Rosario Livatino, che sarà trucidato di lì a poco nel settembre del 1990, oggi proclamato beato, il suo esempio, la sua testimonianza rivelano il senso più autentico del principio di legalità.
Non urlato, non proclamato, non sbandierato ma perseguito ogni giorno ordinariamente e concretamente nella propria attività, incarnazione dello straordinario nell’ordinario.
1992 anno delle stragi di Capaci e via D’Amelio, la provincia agrigentina nel segno dell’antagonismo tra “cosa nostra” e “stidda” sarà imperversata da una feroce guerra e da un susseguirsi di omicidi.
Il 1992 sarà ricordato tra l’altro perché si celebra dinanzi la Corte di Assise il processo 01/92, nel quale per la prima volta in aula alla presenza di tutti gli imputati si procederà all’audizione di un collaboratore di giustizia appartenente alla stidda.
Sebbene in astratto e per ovvie ragioni, il clima in aula poteva divenire incandescente, la serietà, l’indipendenza, l’onestà intellettuale e professionale di avvocati e magistrati consentirono a fronte di una poderosa istruttoria di giungere in tempi ragionevoli alla sentenza.
La collaborazione tra l’avvocatura e la magistratura, originata dalla comune cultura della giurisdizione, che aveva caratterizzato quell’Assise si rivelò determinate anche nel processo c.d “Akragras”, la cui sentenza è tra le pietre miliari della giurisprudenza in tema di associazione mafiosa e di fatti omicidiari ad essa legati nella provincia agrigentina, quest’ultimo processo nasce peraltro dalle rivelazione del primo collaboratore di Cosa Nostra.
In quegli anni così difficili e aspri, l’avvocatura agrigentina ha dato prova di avere consapevolezza del ruolo dell’avvocato, e del contributo, in ossequio del principio di legalità, nell’accertamento della verità processuale.
La figura dell’avvocato vive a torto, nell’immaginario collettivo, una sostanziale ambiguità, derivante dal fatto che il difensore è posto al centro di valori e interessi che possono, talvolta anche apertamente, confliggere e che lo costringono continuamente a fare delle scelte.
Da un lato, infatti, l’avvocato coopera alla realizzazione della giustizia, concorrendo con la propria attività difensiva a determinare la decisione del giudice, il quale pur tendendo a ricostruire la verità processuale, aspira sempre ad avvicinarsi il più possibile alla verità sostanziale; dall’altro, svolge la propria funzione per la tutela e nell’interesse del cliente, il quale non vuole una sentenza giusta ma una sentenza favorevole.
Nell’ordinamento forense attuale, si parla in proposito di “doppia fedeltà”, verso la parte assistita e verso l’ordinamento.
Nel 1970, la Corte Costituzionale nella pronuncia nella quale ammetteva finalmente l’avvocato ad assistere all’interrogatorio dell’imputato diede atto che tale esclusione era dovuta alla “piena sfiducia nell’opera del difensore”, al timore cioè che l’avvocato potesse influenzare le dichiarazioni dell’imputato, intralciando la ricerca della verità.
Tale timore, però, si poneva “in netto contrasto con il precetto costituzionale, che presuppone chiaramente che il diritto di difesa, lungi dal contrastare, si armonizza perfettamente con i fini di giustizia ai quali il processo è rivolto”.
L’affermazione dei valori costituzionali ha reso più evidente il “dramma” del difensore che deve contemperare i contrastanti interessi in gioco nel processo, agendo nell’interesse del cliente, da un lato, e contribuendo alla realizzazione della giustizia, dall’altro.
Si tratta di due modelli inconciliabili?
Si sintetizzano nel dovere di indipendenza, tanto rispetto al giudice, quanto rispetto al cliente, si armonizzano nel dovere di indipendenza da ogni potere.
A trent’anni dalle stragi di Capaci e via D’Amelio la cultura della giurisdizione che accomuna avvocatura e magistratura eleva il principio di legalità a faro dell’attività di ciascuno e non a prerogativa di alcuni, affinché la straordinaria bellezza di Agrigento, squarciata per lungo tempo, possa essere il volano del cambiamento.
*Intervento svolto alla Giornata della legalità organizzata ad Agrigento lo scorso 8 luglio dalla Giunta Esecutiva dell'ANM di Palermo e dalla Scuola di formazione decentrata della magistratura presso la Corte d'Appello di Palermo in collaborazione con il Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Agrigento.
Il processo ad Edipo. La sentenza di assoluzione
di Pietro Curzio
Il processo simulato a Edipo re andato in scienza a Siracusa, (Agòn) a margine della rappresentazione teatrale della tragedia di Sofocle, suscita interesse notevole, per l’autore della sentenza, Piero Curzio, Primo Presidente della Corte di Cassazione e, a monte, per l’idea stessa di far passare da un’aula di giustizia, sia pure virtualmente composta dagli attori reali del processo – imputato (G.Sartori), difesa (M.Masi), testimoni (G. Piazza, M.Crippa) consulente tecnico (M. Ammaniti), accusa (G.Salvi) giudici (Pres.P.Curzio, Giudici L.Faraci, P. Borrometi, M. Valensise, G. Piccione) - una vicenda umana complessa, nella quale si intrecciano il diritto alla (ed il dovere di) verità, l’esperienza di un regnante per molti aspetti virtuoso dell’antica Grecia, il suo rapporto straziante con le relazioni familiari e con il popolo, le cui sorti il protagonista imputato prende su di sé come solo chi è al comando e sente il peso e la responsabilità del comandare e dunque di conoscere la verità (E. Stolfi, La giustizia in scena, 2021, Bologna, 190).
Un processo che si conclude con l’assoluzione dell’imputato, accusato primariamente di reati orrendi – il parricidio e la relazione incestuosa con la madre- materialmente commessi ma al tempo stessi non voluti (M.Cartabia, Edipo Re, in M. Cartabia, L. Violante, Giustizia e mito, 2018, Bologna 61) e/o solo in parte voluti (Stolfi, 340) ma per errore di conoscenza (Cartabia, 63) che dimostra plasticamente come il processo, come oggi lo intendiamo, non è l’unico luogo ove ricercare ed accertare la verità.
Di ciò è lo stesso presidente-estensore della sentenza a dare testimonianza vibrante quando riconosce la limitatezza del suo dictum, nel quale si apprezza il decidere con espressioni nelle quali ogni parola è carica di un giudizio e per questo non richiede ampia esposizione, è essa stessa sentenza, chiara, precisa, puntuale, autorevole.
Sono questi, forse gli aspetti più sacri della decisione, anche quando è lo stesso dispositivo nel pronunziare l’assoluzione a ricordare, con la stessa forza, che “non i giudici, ma le donne e gli uomini di ogni tempo continueranno ad esprimere su di lui giudizi ben al di là dei confini di un processo penale”.
In quest’affermazione c’è un mondo carico di suggestioni, nelle quali la verità è plurale, complessa, difficile da individuare pur se da ricercare in modo sfrenato (Stolfi, 196) al punto da confermare quanto attorno ad essa occorrano energie enormi per “inventarla”.
La vicenda umana, politica e sociale di Edipo- al contempo legislatore, inquisitore e inquisito, imputato e giudice (Cartabia, 41) è figlia della complessità che accompagna le cose dell’uomo. Complessità che conduce l’imputato seppure assolto a comminarsi autonomamente la pena- l’accecamento- e ad esegurla( (Stolfi, 266).
Il processo penale non basta ad esaurire la vicenda umana e storica di Edipo re.
La giustizia amministrata nei tribunali, per quanto evoluta, non può saziare i bisogni a cui intende rispondere…(Cartabia,47).
La sentenza Curzio su Edipo, re di Tebe, è dunque testimonianza autorevole di quanto la ricerca della giustizia assuma toni e rime plurali.
Una sentenza ragionevole e giusta ma che ha in sé il senso del limite nel suo operare.
Una sentenza scritta da un giudice che per la sua saggezza salomonica ciascuno avrebbe il diritto di pretendere, oggi e per sempre, quando dovesse invocare o attendere giustizia.
R.Conti
Sentenza
Imputato: Edipo, figlio di Laio, re dei tebani
La pubblica accusa contesta ad Edipo quattro reati.
Per i primi due (lett. A e B del capo d’imputazione: parricidio e incesto) i fatti sono pienamente accertati. Egli ha ucciso il padre Laio e ha sposato la madre Giocasta.
È tuttavia parimenti certo che ha agito senza essere consapevole che Laio fosse suo padre e Giocasta sua madre. Quest’assenza di consapevolezza emerge dai fatti narrati da Sofocle ed è così radicale che Edipo indaga a fondo alla ricerca del colpevole. La tragedia ha la struttura di un giallo. Edipo è l’inquirente e cerca gli indizi con una determinazione senza la quale non si sarebbe giunti alla comprensione dei fatti.
Il perito prof. Ammaniti ha scritto e detto parole molto chiare sul punto. La inconsapevolezza può dirsi accertata.
Il diritto penale è basato su di una regola generale, un principio di civiltà, che il nostro codice così espone: “Nessuno può essere punito per una azione od omissione prevista dalla legge come reato se non l’ha commessa con coscienza e volontà”.
Non si commette il reato di incesto se non si è consapevoli che la persona con la quale si ha un rapporto sessuale è un ascendente o un discendente o una sorella o un fratello. Edipo certamente non sapeva che Giocasta fosse sua madre. Parimenti, non vi è parricidio se non si è consapevoli di uccidere il padre ed Edipo, quando uccise Laio, non poteva neanche immaginare che quell’uomo fosse suo padre.
Si potrebbe sostenere che pur non essendo un parricidio, quello commesso da Edipo è un omicidio, anzi un pluriomicidio. Ma la ricostruzione dei fatti, quale emerge dal racconto di Sofocle, è tale per cui, se è vero che Edipo uccide Laio e tutti gli uomini della sua scorta meno uno che riesce a fuggire, è altrettanto vero che non è stato lui a provocare, ma ha subito una violenza da parte di uomini armati ed in larga superiorità numerica. Ed infatti, il PM non ha contestato il pluriomicidio.
Il diritto attico dell’epoca, come spiega in un suo studio la prof.sa Cantarella, escludeva la punibilità del viandante che uccide perché assalito per strada in un’epoca i cui i viaggi erano perigliosi ed esponevano a forti rischi di subire violenze. In termini moderni si configura una situazione di legittima difesa, che comporta l’esclusione della punibilità quando chi ha commesso il fatto vi è stato costretto dalla necessità di difendere vita ed incolumità personale.
Il terzo reato contestato è di epidemia. Il nostro codice, come molti altri, punisce colui che “cagiona” un’epidemia mediante la diffusione di germi patogeni. Se il comportamento che cagiona l’epidemia è doloso, cioè con coscienza e volontà di determinare l’evento, la pena è massima, se è colposo la pena è minore ma comunque consistente. Mentre nell’ipotesi dolosa si vuole l’epidemia, nell’ipotesi colposa il comportamento che porta all’epidemia non mira a tale risultato ma lo determina per imprudenza, negligenza, imperizia o violazione di una specifica disciplina.
La tesi dell’accusa è che, uccidendo il padre ed avendo rapporti incestuosi con la madre, Edipo avrebbe scatenato l’ira degli dei, che avrebbero per tale motivo punito la città con la pestilenza. Ma, come si è visto, ad Edipo non può essere ascritta una negligenza, una imprudenza o oltra forma di colpa perché quando compiva quegli atti non solo non sapeva, ma non poteva sapere di essere figlio di Laio e di Giocasta.
Inoltre, quegli atti dovevano essere in grado di “cagionare” l’epidemia, tra di essi e l’epidemia vi doveva essere un nesso di causalità. Un uomo moderno non può individuare la causa di un evento con una spiegazione basata sull’ira degli dei. È necessaria una prova scientifica. Edipo non può essere considerato responsabile perché non vi è prova adeguata che il suo comportamento abbia determinato la pestilenza.
Quanto, infine, al quarto capo d’imputazione, deve escludersi che egli abbia posto in essere una minaccia grave nei confronti di Tiresia al fine di costringerlo a rivelare il nome di chi uccise Laio.
In realtà, nel dialogo tra Edipo e Tiresia, non vi è minaccia, tanto meno grave. Edipo supplica in ginocchio Tiresia, poi di fronte al suo atteggiamento ambiguo e reticente, lo definisce infame degli infami, poi ipotizza che sia d’accordo con Creonte, ma in nessun passaggio lo minaccia di un danno ingiusto e anche quando si spinge ad affermare che lui e Creonte la pagheranno cara, precisa “se non avessi l’aspetto di un vecchio l’avresti già imparato a tue spese”, escludendo in tal modo la minaccia di fargli del male. Del resto, il coro commenta l’alterco tra i due: “a noi sembra che abbiate parlato entrambi in preda all’ira”. Anche il reato di minaccia quindi non sussiste.
In conclusione, come ha scritto il perito prof. Ammaniti, “Edipo non è punibile avendo agito in uno stato di totale incoscienza vittima di un passato che lo ha profondamente segnato”.
La sua inconsapevolezza non solo è giustificata da una storia per lui inimmaginabile oltre che traumatica, ma viene superata grazie al suo impegno spasmodico nel cercare la verità. Senza quella sua ricerca la verità non sarebbe emersa ed egli sarebbe rimasto re ed eroe.
E quando alla verità infine giunge, Edipo assume su di sé la responsabilità di quelle tristi vicende, senza nascondersi dietro la volontà degli dei. Si autoinfligge le pene dell’esilio e dell’accecamento. Si priva degli occhi quando finalmente vede.
Nella sua parabola sono state lette tante cose. Il collegio giudicante non deve andare oltre il suo compito che è solo quello di verificare se sono stati commessi reati. E reati non sono stati commessi.
PQM
la Corte assolve Edipo dalle imputazioni a lui ascritte.
Non i giudici, ma le donne e gli uomini di ogni tempo continueranno ad esprimere su di lui giudizi ben al di là dei confini di un processo penale.
Sarà difficile negare che Edipo è colui che ha cercato, con ostinazione e senza infingimenti, di conoscere se stesso.
Ed è inorridito, perché, come Sofocle fa dire al Coro dell’Antigone, “molte le cose tremende, ma di tutte la più tremenda è l’uomo”.
Siracusa, 24 giugno 2022
Il Presidente estensore
Pietro Curzio
La decisione della Corte costituzionale sul cognome del figlio e il diritto di famiglia mobile. Riflessioni sulla funzione della Corte costituzionale nel sistema di effettività dei diritti[1]
di Mirzia Bianca
Sommario: 1. Premesse - 2. Una questione di merito - 3. Una questione di metodo - 4. Riflessioni conclusive anche de jure condendo.
1. Premesse
La decisione della Corte Costituzionale del 31 maggio 2022, n. 131, a ragione è stata definita una sentenza 'storica'[2]. Con questa decisione la Corte Costituzionale ha finalmente portato a termine un lungo percorso costellato da vari interventi della Corte costituzionale[3], interventi della dottrina[4] e plurimi tentativi del legislatore[5], tra cui un progetto del legislatore della Riforma della filiazione che fu fermato per ragioni finanziarie[6], per eliminare la diseguaglianza derivante dalla attribuzione del cognome al figlio, diseguaglianza disegnata da un complesso di norme, alcune di diritto effettivo, altre derivanti dalla norma scritta, tutte volte alla costruzione di un cittadella inoppugnabile che nel corso del tempo ha sempre assicurato l'attribuzione al figlio del cognome paterno. E' curioso rilevare che questa regola palesemente discriminatoria ha trovato applicazione nei confronti di tutti i figli (nati nel matrimonio, adottivi, nati fuori del matrimonio), con una patologica applicazione del principio di unicità dello stato di figlio. Per ragioni di sintesi, in luogo di dar conto dei vari passaggi procedurali che emergono facilmente dalla lettura della decisione[7], è utile palesare al lettore quale è il principio di diritto che la Corte applica ai figli nati fuori del matrimonio, ma che estende ai figli adottivi e ai figli nati all'interno del matrimonio. Il principio è che debba attribuirsi al figlio sia il cognome della madre sia il cognome del padre, nell'ordine stabilito dalla coppia. In caso di disaccordo sull'ordine è previsto l'intervento del giudice. Al fine di attribuire il cognome di un solo ramo genitoriale (materno o paterno) è invece necessario l'accordo della coppia. La soluzione della obbligatorietà del doppio cognome supera l'impianto patriarcale, mentre l'ordine della collocazione dei cognomi è lasciato all'accordo. In luogo dell'accordo, forse sarebbe stato preferibile un criterio oggettivo come l'ordine alfabetico, come previsto in qualche progetto di legge, anziché lasciare ai genitori una scelta che potrebbe portare a qualche soluzione conflittuale, con il rischio di un intervento discrezionale del giudice. In ogni modo tale principio di diritto è di immediata applicazione ai nuovi nati e ai procedimenti pendenti per l'attribuzione del cognome ed è stato oggetto di una recente circolare del Ministero dell'interno[8]. La decisione è non solo storica ma direi rivoluzionaria perché muta all'improvviso il paradigma culturale, di costume, nonché normativo che ci ha accompagnato per secoli e che ha determinato anche le scelte sull'attribuzione del cognome dei nostri figli. E' vero che la decisione si pone nel solco di un percorso evolutivo segnato da varie decisioni della Corte Costituzionale e della giurisprudenza che gradualmente hanno smantellato la regola patriarcale e da vari tentativi del legislatore conditi dalla riflessione della dottrina, ma oggi l'interprete ha la sensazione della definitività e quindi dell'inizio di una nuova era. Delle tante riflessioni che questa decisione evoca, vorrei concentrarmi nelle pagine che seguono su due ordini di riflessioni: una riflessione di contenuto e una riflessione di metodo. I due ordini di riflessione sono collegati in quanto la riflessione sul merito nasce ed è anche l'effetto di una scelta di metodo, che contribuisce a definire sempre di più i caratteri del diritto di famiglia e l'evoluzione del sistema, anche grazie al fecondo intervento della Corte Costituzionale. Dedicherò poi alcune riflessioni conclusive all'intervento del legislatore e a quello che sarà il dopo di questa decisione.
2. Una questione di merito
Con riferimento alla riflessione di merito, può dirsi che questa decisione porta contestualmente alla distruzione dell'ultima cittadella dell'autorità privata familiare[9] e patriarcale[10] e alla costruzione di una nuova concezione della famiglia, in cui l'unità è il frutto dell'uguaglianza e in cui l'identità del figlio si costruisce sull'eguaglianza dei genitori. L'attribuzione del cognome paterno e quindi il patronimico è stata nella famiglia fondata sul matrimonio una regola talmente radicata nel costume e nelle consuetudini familiari da essere norma di diritto effettivo[11], implicitamente ricavabile da un complesso di disposizioni. Nel codice civile del 1865, mentre la regola dell'attribuzione alla moglie del cognome del marito è contenuta nella norma (art. 131) che afferma che “il marito è il capo della famiglia: la moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome, ed è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli creda opportuno di fissare la sua residenza”, l'attribuzione del cognome paterno del figlio non è mai esplicitata, ma è desumibile quale regola implicita da altre norme come quella sul possesso di stato (art. 172) tra i cui fatti volti a provarlo è incluso “che l'individuo abbia sempre portato il cognome del padre che egli pretende di avere”. La posizione autoritaria del marito nei confronti della moglie si desume anche nel rapporto genitori-figli nella definizione della potestà allora solo maritale. Sempre nel codice del 1865 la regola del patronimico trova invece espressione con riferimento ai figli allora chiamati naturali nella regola (art. 185) che “prevede che il figlio naturale assume il nome di famiglia del genitore che lo ha riconosciuto, o quello del padre, se è stato riconosciuto da entrambi i genitori”. Nel codice civile del 1942, si riproduce il medesimo schema normativo, per cui la regola del patronimico trova piena espressione riguardo ai figli nati fuori dal matrimonio con una regola che riproduce sostanzialmente il contenuto di quella del codice del 1865. Con riferimento ai figli nati nel matrimonio, la prevalenza del cognome paterno continua ad essere regola implicita desumibile da un complesso di disposizioni. L'unica novità nei rapporti di coppia si ha con la riforma del 1975 che, in considerazione della avvenuta parificazione della posizione della moglie a quella del marito, introduce il nuovo art. 143-bis del codice civile che prevede che “la moglie aggiunge al proprio cognome quello del marito e lo conserva durante lo stato vedovile, fino a che passi a nuove nozze”. Questa norma, pur nel limitato effetto di prevedere la facoltà di aggiunta al proprio del cognome maritale, evidenzia una sicura emancipazione della donna all'interno della famiglia. Con riferimento al cognome dei figli, invece, nonostante si sia registrata nel corso di ottanta anni dalla emanazione del codice civile una progressiva parificazione delle figure genitoriali e un abbandono di quella che un tempo era denominata patria potestà, con una progressiva rilevanza dei diritti fondamentali del figlio, compreso quello all'identità, la regola del patronimico è rimasta sempre in vigore, nonostante vari tentativi della giurisprudenza e del legislatore di modificarla. Come si è gia accennato, con riferimento alla Riforma della filiazione il progetto di introdurre una nuova regola che prevedesse l'attribuzione del cognome di entrambi i genitori fu fermata dall'allora Ministro dell'economia preoccupato di dover impiegare eccessive risorse finanziarie per la modifica dei codici fiscali. Questo curioso scollamento tra avanzamento del sistema con l'attuazione del principio costituzionale di uguaglianza e del principio di non discriminazione contenuto nelle Carte internazionali[12] e il mantenimento della prospettiva patriarcale nella trasmissione del cognome, evidenzia come sia riduttivo e banale limitare la portata del dibattito ad un problema di genere e di uguaglianza tra i componenti della coppia, dato che la progressiva parità tra la donna e il marito non ha portato nel tempo a rimuovere questa regola. Occorre quindi chiedersi se dietro la regola del patronimico ci sia qualcosa di più. Come qualcuno ha detto[13], forse il mantenimento di questa regola è servito a compensare l'incertezza della paternità, rispetto alla regola per cui mater semper certa est. Quello che è certo è che la rimozione di questa regola assume una portata dirompente non solo in termini giuridici, ma anche in termini culturali. Le origini del patronimico nella Bibbia ebraica e nell'antica Grecia e l'onomastica hanno costruito un sistema di cognomi che è stato costruito anche in base al patronimico e che spesso era lo strumento per assicurare la discendenza da uno stesso casato. Dal nome del Pelide Achille (figlio di Peleo) dell'antica Grecia, l'esperienza di altre popolazioni come la tradizione irlandese e scozzese si caratterizza per l'anteposizione del suffisso gaelico O' o del suffisso Mac per indicare la discendenza da una stessa famiglia. Anche molti cognomi italiani sono stati costruiti proprio sulla base del patronimico, come Di Giovanni, Di Matteo, etc. Inoltre in Italia, fino al XVII secolo, molte persone aggiungevano al proprio cognome quello del nonno o dell'ascendente. Questa secolare tradizione patronimica riservata unilateralmente alla discendenza paterna, salve poche eccezioni in Nord Europa che si caratterizzano per una tradizione matronimica, ha tracciato una prassi culturale in cui il cognome era uno strumento di trasmissione del casato, della discendenza e quindi era uno strumento asservito prevalentemente agli interessi patrimoniali della Grande Famiglia. L'attuale abbandono di questa tradizione culturale porta ad una riconquista della discendenza che non è più intesa, come in passato, in senso patrimoniale, ma declinata in senso non patrimoniale, come espressione della identità della persona e della sua appartenenza alla comunità familiare[14]. Nella decisione che si commenta, dopo un passaggio molto significativo sul valore del nome e del cognome quali strumenti di espressione e della costruzione anche futura della identità, mi hanno colpito alcune parole della motivazione che proprio nella regola patriarcale vedono l'obliterazione della figura femminile e della sua discendenza: “La selezione, fra i dati preesistenti all’attribuzione del cognome, della sola linea parentale paterna, oscura unilateralmente il rapporto genitoriale con la madre. A fronte del riconoscimento contemporaneo del figlio, il segno dell’unione fra i due genitori si traduce nell’invisibilità della donna”. In questo significativo passaggio della motivazione della decisione si coglie la sua portata rivoluzionaria, che non è riducibile semplicisticamente ad una questione di non discriminazione, ma ci proietta in una nuova stagione in cui la nuova dimensione non patrimonialistica della discendenza significa appartenenza ad una comunità di idee, di valori, di sentimenti, che non è giusto riservare ad un solo ramo genitoriale, perché sono beni comuni del figlio e con esso devono essere condivisi.
3. Una questione di metodo
Come ho già accennato nelle premesse, l'importanza di questa decisione non si coglie solo con riferimento al merito, ma anche al metodo. Il percorso delle decisioni della Corte Costituzionale sul problema dell'attribuzione del cognome paterno evidenzia l'importante funzione della Corte Costituzionale quale organo istituzionale deputato anche al controllo e all'adeguamento della norma giuridica ai cambiamenti della società e del costume, secondo l'applicazione del principio di effettività e della massima ex facto oritur ius[15]. Questa specifica funzione della Corte Costituzionale contribuisce insieme alla dottrina e al legislatore a costruire il diritto di famiglia come un diritto mobile, in quanto la fissità della regola giuridica viene compensata dalle diverse interpretazioni che vengono date nel corso del tempo, in ragione della mobilità della società e del costume[16]. Se si legge il testo delle varie decisioni della Corte costituzionale in materia di attribuzione del cognome del figlio, si nota come, in ragione della diversa regola del costume, le stesse argomentazioni sono state utilizzate in senso difforme.[17] In particolare, con riferimento al principio di unità della famiglia, nel 1988 (decisione n. 176, redattore Luigi Mengoni) si afferma che “la mancata previsione della facoltà per la madre di trasmettere il proprio cognome ai figli legittimi e per questi di assumere anche il cognome materno, non contrasta ne' con l'art. 29 Cost., in quanto viene utilizzata una regola radicata nel costume sociale, come criterio di tutela dell'unita' della famiglia fondata sul matrimonio ne' con l'art. 3 Cost., in riferimento ai figli adottivi, poiche' la preclusione vale anche per questi ultimi, secondo la corretta interpretazione dell'art.27, L. n. 184/1983”. In un'altra decisione della Corte Costituzionale, sempre del 1988 (n. 586, redattore Saja) si legge che “nell'interesse alla conservazione dell'unita` familiare (art. 29 Cost.), il cognome dei figli legittimi deve essere prestabilito fin dal momento dell'atto costitutivo della famiglia, in guisa che a questi sia esteso ope legis e non gia` scelto dai genitori in sede di formazione dell'atto di nascita (come il prenome)”. In una successiva decisione del 2016 (n. 286, redattore Amato), si avverte un decisivo cambiamento di rotta e si legge che “la diversità di trattamento dei coniugi nell'attribuzione del cognome ai figli, in quanto espressione di una superata concezione patriarcale della famiglia e dei rapporti fra coniugi, non è compatibile né con il principio di uguaglianza, né con il principio di eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, poiché la perdurante mortificazione del diritto della madre a che il figlio acquisti anche il suo cognome - lungi dal garantire - contraddice, ora come allora, quella finalità di salvaguardia dell'unità familiare (art. 29, secondo comma, Cost.), individuata quale ratio giustificatrice, in generale, di eventuali deroghe alla parità dei coniugi”. Le medesime argomentazioni sono contenute nelle più recenti decisioni della Corte costituzionale (n. 18 del 2021, Redattore Amato) compresa questa che qui si commenta in cui si si afferma che “l’unità si rafforza nella misura in cui i reciproci rapporti fra i coniugi sono governati dalla solidarietà e dalla parità”.
La lettura dei passaggi delle varie decisioni della Corte Costituzionale evidenzia come, a norme giuridiche pressochè invariate, la Corte abbia dato nel tempo diverse interpretazioni, contribuendo a rendere mobile il diritto di famiglia e ad asservirlo alle mutate esigenze della società e del costume.
4. Riflessioni conclusive anche de jure condendo
Volendo trarre alcune conclusioni, può dirsi che anche con questa decisione la Corte Costituzionale ha svolto una funzione suppletiva del legislatore e promozionale della legalità costituzionale. In particolare si apprezza il dinamismo della Corte Costituzionale che non aspetta passivamente l'intervento del legislatore ma, prendendo atto del naufragio delle numerose proposte di riforma legislativa “non può esimersi dal rendere effettiva la legalità costituzionale”[18]. Si apprezza inoltre la funzione di indirizzo del legislatore, in quanto la Corte si fa carico di indicare al legislatore le note più delicate di una futura regolamentazione, che sono il rischio di un effetto moltiplicatore in ragione della successione verticale tra le generazioni e l'esigenza di apprestare regole che consentano di realizzare un risultato uniforme per tutti i figli. La regolamentazione non sarà opera facile in quanto occorrerà trovare un giusto equilibrio tra la conservazione del principio di parità e l'esigenza di assicurare un sistema efficiente che possa dare piena attuazione al principio identitario senza portare a diseconomie di spesa e a complessità eccessive. Adesso la palla spetta al legislatore e l'auspicio è che l'intervento sia tempestivo e improntato al medesimo equilibrio e alla medesima ragionevolezza che hanno ispirato la Corte Costituzionale in questa bella decisione.
[1] Dedico anche questo mio scritto a mio Padre, che non aveva dimenticato questa importante questione ma aveva cercato di inserirla nella Riforma della filiazione, tentativo che non trovò la luce per questioni finanziarie.
[2] V. M. A. IANNICELLI, La scelta del cognome da attribuire al figlio deve poter essere condiviso dai genitori, in Familia, 30 aprile 2022.
[3] Sui vari interventi della Corte costituzionale, v. M. A. IANNICELLI, Al figlio deve essere attribuito il cognome di entrambi i genitori (salvo diverso loro accordo): la Corte costituzionale anticipa il legislatore, in Familia, 2022, 375 e ss.
[4] V. tra gli altri i numerosi contributi di S. TROIANO (in CM. BIANCA (a cura di), La riforma della filiazione, Padova, 2015; 296 e ss.; in M. BIANCA (a cura di ), The best interest of the child, Roma, 2021, 1412; in U. SALANITRO ( a cura di), Il sistema del diritto di famiglia dopo la stagione delle riforme, Pisa, 2019, 263 e ss.; nota a C. cost. n. 18 del 2021, in Ngcc., 2021, 598 e ss; in Tratt. Zatti, Padova, 2018, 125 e ss. ); G. BALLARANI, in Dir. Fam e pers. 2018, 741 e ss. Vari scritti dedicati a questo tema sono contenuti in Actualidad Jurídica Iberoamericana, nº 16 bis, junio 2022, Estudioso de derecho privado en homenjae al Profesor Cesare Massimo Bianca, Coordinadores: Mirzia Bianca y José Ramón de Verda y Beamonte e in particolare gli scritti di M. A. IANNICELLI, B. AGOSTINELLI, M. CAVALLARO e V. BARBA.
[5] Per una accurata analisi dei vari progetti di legge che sono stati presentati in Parlamento, rinvio a M. A. IANNICELLI, Al figlio deve essere attribuito il cognome di entrambi i genitori (salvo diverso loro accordo): la Corte costituzionale anticipa il legislatore, cit.
[6] L'dea di provvedere ad una regolamentazione del cognome del figlio fu una scelta che si palesò gia nella Commissione Bindi ma che tuttavia fu fermata dall'allora Ministro dell'Economia per la paura di un eccessivo dispendio di spese.
[7] Per questi rinvio alla bella nota di commento di M. A. IANNICELLI, op ult cit.
[8] V. al riguardo la Circolare n. 63 del 1° Giugno 2022.
[9] Sulle autorità private, v. C.M. BIANCA, Le autorità private, Napoli, 1977 pubblicato in Realtà sociale ed effettività della norma giuridica. Scritti giuridici, vol. I, t. 1, cit., 47 e ss.
[10] Sulla famiglia patriarcale nel periodo dei codici preunitari, v. le parole di P. UNGARI, Storia del diritto di famiglia in Italia (1796-1975), Bologna, 2002: “....la fissità della famiglia, la continuità attraverso il tempo del suo patrimonio e il conseguente privilegio dei maschi sulle femmine erano altrettanti strumenti di quello sforzo di pietrificazione della società italiana e di irrigidimento programmatico delle sue frontiere di classe che corrispondevano a una tendenza profonda della Restaurazione nostrana, difesa di un mondo agricolo e signorile, di un'antica borghesia patriarcale, di artigianati corporativi cittadini, contro i fermenti dissolventi della nuova etica 'industriale' e liberale”.
[11] Così viene definita da C.M. BIANCA, Diritto civile 2.1., 6° ed., Milano, 2017, 373.
[12] Sull'attribuzione del cognome paterno l'Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell'uomo per violazione del principio di non discriminazione, v. Corte EDU con sent. 7 gennaio 2014, Cusan Fazzo c. Italia (ric. n. 77/07)
[13] V. E. BELLISARIO, Nomen omen. La fine della regola del patronimico, in Giustiziacivile.com, 4 maggio 2022.
[14] Per una prospettiva privatistica della discendenza, v. M. A. IANNICELLI, op ult cit.
[15] V. al riguardo C.M. BIANCA, Ex facto oritur ius, in Riv. dir. civ., 1995, I, 787 ora in Realtà sociale ed effettività della norma giuridica. Scritti giuridici, vol. I, t. 1, cit., 189 e ss. Il tema era stato da Lui trattato già precedentemente nel saggio: Il principio di effettività come fondamento della norma di diritto positivo: un problema di metodo della dottrina privatistica, in Estudios de derecho civil en honor del prof. Castàn Tobenas, vol. II, Pamplona, 61 e ss. e ora in Realtà sociale ed effettività della norma giuridica. Scritti giuridici, vol. I, t. 1, cit., 35 e ss.
[16] Sia consentito il rinvio alla mia relazione tenutasi al Convegno del CSM tenutosi a Roma nei giorni 20 e 21 giugno 2022 dal titolo Nell'ottantesimo del codice civile. Giurisprudenza e dottrina a confronto. In particolare la mia relazione è stata dedicata al libro I del codice civile, nella parte riguardante i rapporti familiari.
[17] Questo approccio metedologico della Corte è evidenziato da N. LIPARI, Elogio della giustizia, Bologna, 2021, con riferimento all'abrogata disposizione sull'adulterio della moglie.
[18] Così testualmente in motivazione.
Brevi note sulla sentenza n. 131 del 2022 della Corte Costituzionale
di Gabriella Luccioli
1. La sentenza n. 131 del 2022 della Corte Costituzionale costituisce l’ultima tappa di una lunga interlocuzione tra la giurisdizione ordinaria, da tempo consapevole della incostituzionalità del sistema vigente di attribuzione automatica del patronimico, la Corte delle leggi, per molti anni arroccata in posizioni di inammissibilità delle pertinenti questioni proposte, e le Corti sovranazionali (v., tra le altre, la sentenza della Corte EDU 7 gennaio 2014 nel caso Cusan e Fazzo c. Italia, la quale affermò che la scelta dello Stato italiano di attribuire ai figli il cognome paterno si basava unicamente su una discriminazione fondata sul sesso dei genitori e che l’ impossibilità di derogare alla regola del patronimico configurava un trattamento discriminatorio contrario al rispetto della vita familiare, in violazione dell’art.14 in combinato disposto con l’ art. 8 della Convenzione; nonché la sentenza della Corte EU 2 ottobre 2003 nel caso Garcia Avello c. Belgio, che proiettò la questione del cognome nell’ambito del diritto comunitario affermando che il rifiuto dello Stato di residenza di aggiungere al cognome paterno di due figli nati da padre spagnolo e madre belga anche quello materno integrava una discriminazione in base alla nazionalità, vietata dagli artt. 12 e 17 del Trattato UE).
Frattanto il legislatore nazionale persisteva nel suo assordante silenzio.
La pronunzia in esame trova la sua premessa logica nell’ordinanza dell’11 febbraio 2021, n. 18 con la quale la Corte Costituzionale, esaminando la questione di legittimità dell’art. 262, primo comma, c.c., nella parte in cui non consentiva ai genitori, di comune accordo, di trasmettere al figlio, al momento della nascita, il solo cognome materno, proposta dal Tribunale di Bolzano, ritenne necessario sollevare dinanzi a sé la diversa e più ampia questione concernente la costituzionalità della disciplina generale di automatica attribuzione del solo cognome paterno, in quanto pregiudiziale a quella sollevata dal giudice rimettente. Per tale via la Consulta, superando gli stretti confini della questione prospettata in quel giudizio - in cui si era chiesta da parte del pubblico ministero la rettificazione dell’atto di nascita di una bambina i cui genitori, non uniti in matrimonio, avevano concordemente scelto l’attribuzione del solo cognome materno - decise di non decidere su tale questione e di impostare il problema secondo la richiamata prospettiva volta ad investire la previsione normativa di automatica attribuzione del cognome paterno, sul rilievo che la soluzione della questione specificamente sollevata non avrebbe scalfito la regola che imponeva l’acquisizione del solo cognome paterno in tutte le ipotesi di mancanza dell’accordo.
Nel discostarsi dalla soluzione riduttiva adottata con la sentenza n. 286 del 2016 - con la quale, come è noto, essa aveva dichiarato, con riferimento agli artt. 2, 3 e 29 Cost., l’incostituzionalità della norma “nella parte in cui non consente ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, anche il cognome materno”, ed in via consequenziale della corrispondente disciplina relativa ai figli nati da genitori non coniugati e ai figli adottivi - ritenendola non più sufficiente, la Corte scelse di aprirsi ad un sindacato diretto a verificare la legittimità del principio generale che ella stessa, nelle vesti di giudice a quo, ritenne legato ad una concezione fortemente maschilista e patriarcale della famiglia e del rapporto tra i coniugi e con la prole, non rispettoso di un’effettiva parità di genere e non idoneo ad apprestare una coerente protezione all’ identità personale dei figli.
La Corte delle leggi al riguardo ravvisò un rapporto di presupposizione e di continenza tra la questione specifica sollevata dal rimettente e quella di costituzionalità della disposizione che impone l’acquisizione del solo patronimico, anziché dei cognomi di entrambi i genitori, e ricordò che il modo in cui occasionalmente sono poste le questioni incidentali di legittimità costituzionale non può impedire al giudice delle leggi l’esame pieno del sistema nel quale le norme denunciate sono inserite. Quindi nella sua veste di giudice autorimettente rilevò la non manifesta infondatezza della questione pregiudiziale per violazione degli artt. 2, 3 e 117 , comma primo, Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della CEDU, attesi i profili di incoerenza di una norma che dispone l’ automatica attribuzione del patronimico all’ interno di un ordinamento ispirato ai principi di dignità e di eguaglianza sostanziale e l’ evidente lesione del principio di parità tra i genitori, posto che uno di essi non ha bisogno di alcun accordo per far prevalere il proprio cognome.
La Consulta ritenne non più procrastinabile un proprio ampio e incisivo intervento, a fronte dei ritardi del Parlamento, atteso che nel bilanciamento tra l’esigenza di garantire la legalità costituzionale e l’opportunità di lasciare spazio alla discrezionalità del legislatore doveva attribuirsi rilievo prevalente al primo di detti interessi, non potendo concepirsi la tutela di diritti fondamentali e inviolabili sospensivamente condizionata sine die all’intervento del legislatore: tale bilanciamento si poneva in piena continuità con quello svolto nella sentenza n. 242 del 2019 in materia di suicidio assistito.
E se pure in questa occasione la Corte Costituzionale non fece precedere la propria decisione dal rinvio dell’udienza per offrire al legislatore la possibilità di esercitare le proprie prerogative, il risultato fu sostanzialmente analogo, in quanto con l’autorimessione essa non chiuse il giudizio, ma avvertì il Parlamento che in mancanza di un suo tempestivo intervento avrebbe affrontato nel merito la questione da se stessa sollevata.
2. Con la recente sentenza n. 131 del 2022 la Corte Costituzionale ha segnato un passaggio fondamentale nel cammino delle donne verso la parità, in quanto ha rimosso una delle più gravi violazioni di detto principio ancora ravvisabili nel nostro ordinamento. L’aver posto al centro della decisione il principio di eguaglianza giuridica e morale tra uomo e donna e tra coniugi e l’aver riconosciuto rilievo paritario ad entrambe le figure genitoriali nel processo di costruzione dell’identità personale del figlio, quale aspetto essenziale della sua dignità, rende evidente la totale coerenza della decisione con i principi costituzionali ed il suo pieno rispetto dei diritti fondamentali della persona.
La pronuncia in esame si fa apprezzare per l’ampio respiro della sua impostazione e per la nettezza delle posizioni assunte nel ravvisare la disciplina del cognome come punto di confluenza tra il diritto alla pienezza identitaria del figlio e il principio di eguaglianza dei genitori e nell’affermare che sono proprio le modalità con le quali il cognome testimonia l’identità familiare del figlio a dover rispecchiare e rispettare l’eguaglianza e la pari dignità dei genitori, mentre la selezione della sola linea parentale paterna oscura unilateralmente il rapporto genitoriale con la madre, sino a rendere invisibile la sua figura.
Sostenere con un linguaggio così fermo ed esplicito che l’automatismo del patronimico reca il sigillo di una diseguaglianza tra i genitori, che si riverbera e si imprime sull’identità del figlio, ed evidenziare che tale automatismo non trova alcuna giustificazione né nell’ art. 3 Cost. né nel coordinamento tra principio di eguaglianza e finalità di salvaguardia dell’unità familiare di cui all’ art. 29, secondo comma, Cost. vuol dire avallare acquisizioni da tempo maturate nella coscienza collettiva e nella elaborazione del pensiero delle donne.
Affermare che a fronte dell’evoluzione dell’ordinamento non è più tollerabile il lascito di una visione discriminatoria che attraverso il cognome si riflette sull’identità della persona vuol dire distaccarsi in modo radicale da quelle pronunce del passato che si erano arroccate su una superficiale posizione di inammissibilità della questione. Diversa è la prospettiva politica, diversa l’aderenza ai principi costituzionali, diversa la cultura, diversa la sensibilità, diverso il linguaggio del Collegio. E a tale diversità di impostazione ha di certo contribuito il venir meno dell’antico e abusato limite delle rime obbligate.
Nell’affrontare la questione pregiudiziale di legittimità costituzionale dell’art. 262, primo comma, c.c. sollevata nell’ordinanza di autorimessione la Consulta ha correttamente rilevato che a fronte di una disciplina che garantisce il patronimico la madre è posta in una situazione di asimmetria e debolezza, tale da inficiare la possibilità di un valido accordo, in quanto senza eguaglianza mancano le condizioni logiche e assiologiche dell’accordo: ne deriva che il vizio di legittimità costituzionale riscontrato inficia ab imis anche l’ elemento costitutivo dell’intervento additivo invocato dal Tribunale di Bolzano.
Ne deriva altresì che la disposizione censurata deve essere immediatamente sostituita - a fronte del persistente silenzio del legislatore - con una regola attributiva del cognome di entrambi i genitori, salvo loro diverso accordo, tenuto conto che è proprio il doppio cognome che trasferisce sull’identità giuridica e sociale del figlio il rapporto con i due genitori e al tempo stesso costituisce il riconoscimento più immediato e diretto del paritario rilievo di entrambe le figure genitoriali.
3. Ferma la piena condivisione della parte demolitoria della decisione e delle ragioni che la sorreggono, alcune perplessità devono essere evidenziate in relazione alla seconda parte della motivazione, diretta a prospettare linee ricostruttive del sistema.
Non può invero essere sottaciuto che dalla sentenza in esame deriveranno, prima dell’ineludibile intervento del legislatore, seri problemi applicativi, determinati dal molto che essa dice e dal molto che non dice, in un intreccio complicato di pieni e di vuoti difficile da dipanare, problemi resi ancor più impellenti dall’immediata operatività delle regole in essa espresse, dal giorno successivo alla pubblicazione.
Va al riguardo osservato che nell’impostazione della sentenza il “fare salvo” l’accordo delle parti per l’attribuzione di uno solo dei cognomi, una volta reso legittimo detto accordo dal riequilibrio delle posizioni di partenza per effetto della ripristinata legalità costituzionale, vuol dire non già disciplinare un’ipotesi residuale rispetto alla regola generale del doppio cognome, come da taluno si sostiene, ma introdurre nel sistema un elemento volontaristico che fa attribuire a detto eventuale accordo un valore assorbente rispetto all’alternativa del doppio cognome: se è vero infatti che l’esistenza di un accordo, non surrogabile in via giudiziale, è imprescindibile per poter attribuire un solo cognome, è altrettanto vero, per converso, che l’ attribuzione del doppio cognome postula l’insussistenza di un accordo siffatto. Non è qui in discussione la controversa questione dell’ammissibilità o inammissibilità della prova negativa circa l’esistenza di un fatto (nella specie l’intesa tra le parti), ma si pone il problema della configurabilità di un meccanismo, di un luogo e di uno spazio temporale che consentano all’ ufficiale dello stato civile di accertare se un accordo, di per sé impeditivo dell’attribuzione del doppio cognome, sia intervenuto tra i genitori.
È pertanto evidente la necessità e l’urgenza di delineare uno strumento che consenta di riscontrare con immediatezza l’esistenza di un’intesa siffatta, ostativa al conferimento di entrambi i cognomi.
Il problema appare facilmente risolubile nel caso di figli nati fuori del matrimonio, atteso che la previsione del riconoscimento contemporaneo di entrambi i genitori che sta a base della disciplina di cui alla seconda parte del primo comma dell’art. 262 c.c. implica che entrambi abbiano in quella sede la possibilità di esprimere congiuntamente l’opzione per l’una o per l’altra soluzione, ed anche, ove optino per il doppio cognome, di manifestare l’accordo sull’ordine di preferenza. In questo senso appare invero orientata la Corte Costituzionale, lì dove dispone che l’accordo deve avvenire al momento del riconoscimento.
Anche l’ipotesi di adozione, sia che si tratti di adozione di figli maggiorenni che di figli minori, non sembra prospettare particolari difficoltà sul piano applicativo, atteso che la sentenza in esame si dà carico di precisare che l’accordo deve essere raggiunto nel procedimento di adozione. Sarà chiaramente compito del legislatore precisare il momento e le modalità della relativa esternazione nell’ambito di detto procedimento.
La soluzione si profila meno semplice ove si tratti di figli nati nel matrimonio, atteso che nel caso di filiazione matrimoniale l’ attribuzione dello stato di figlio non ha carattere volontario o giudiziale, ma è di tipo normativo, in quanto l’esistenza di un vincolo formale che lega in modo stabile la coppia, quale è il rapporto di coniugio, da cui deriva tra l’altro l’obbligo reciproco di fedeltà, consente di prevedere modalità di accertamento pressoché automatiche, conseguenti all’ adempimento di alcuni obblighi anagrafici: va al riguardo considerato che ai sensi dell’art. 236 c.c. l’atto di nascita iscritto nei registri dello stato civile costituisce il titolo dello stato di figlio e che detto atto si forma, ai sensi degli artt. 29 e 30 del d.p.r. n. 396 del 2000, sulla base della dichiarazione di nascita resa da uno dei genitori o da un loro procuratore speciale o, in mancanza, dal medico o dall’ostetrica o da altra persona che ha assistito al parto; inoltre l’ufficiale dello stato civile registra nell’atto di nascita come genitori i due componenti della coppia coniugata risultanti dalla dichiarazione, tenuto conto, quanto alla madre, del principio che identifica la madre in colei che ha partorito e, quanto al padre, della presunzione legale di paternità di cui all’ art. 231 c.c.
In questo quadro di riferimento la sentenza della Corte Costituzionale non offre alcuna indicazione sulle modalità di manifestazione dell’accordo di attribuzione di un solo cognome, limitandosi a precisare che esso deve intervenire alla nascita. Resta pertanto completamente da definire il percorso che dovrà essere compiuto per provare e riscontrare l’eventuale esistenza di un accordo siffatto, così come resta irrisolto il quesito se l’esercizio di un diritto fondamentale della persona, che costituisce anche espressione della responsabilità genitoriale, quale è quello relativo alla scelta del cognome per il figlio, possa trovare espressione nella semplice sottoscrizione di un modulo predisposto, da esibire (ma che può anche dolosamente o colposamente non essere esibito) dal soggetto dichiarante al momento della dichiarazione di nascita, o non esiga specifiche formalità idonee a garantire la conoscenza e l’autenticità del documento. Spetta al legislatore valutare se la soluzione di tali problemi non richieda anche un intervento modificativo dell’ordinamento dello stato civile.
Non meno complessa è la questione dell’ordine dei due cognomi da attribuire in mancanza di accordo per un solo cognome. La Corte Costituzionale ha escluso la praticabilità di soluzioni ispirate a criteri oggettivi e predeterminati, come l’ordine alfabetico, ed ha demandato la relativa scelta alla volontà delle parti, come unica soluzione ritenuta idonea a riflettere il principio di parità, prospettando altresì la necessità di un intervento del giudice in forme semplificate per dirimere l’eventuale disaccordo e richiamando al riguardo gli att. 316, secondo e terzo comma, 337 ter, terzo comma, 337 quater, terzo comma, 337 octies c.c. Ciò vuol dire che per l’ attribuzione del doppio cognome non è sufficiente la mancanza di un accordo in favore di un solo cognome, ma è anche necessario in positivo un accordo sull’ordine da conferire ai due cognomi. In sua mancanza, la richiamata necessità che sia il giudice a decidere comporta che nelle more del procedimento il minore resti privo di cognome.
Anche in relazione a tale ipotesi si delinea pertanto l’esigenza di configurare - in relazione ai figli nati nel matrimonio - un sistema, un luogo e uno spazio temporale che si inseriscano nel procedimento sopra delineato e consentano di verificare l’esistenza di una concorde volontà delle parti sull’ordine dei cognomi, così da rendere possibile l’immediata attribuzione di essi.
La Corte infine sollecita un intervento del legislatore, definito impellente, sia al fine di evitare meccanismi moltiplicatori del cognome, nel succedersi delle generazioni, che risulterebbero lesivi della funzione identitaria che gli è propria, sia a tutela dell’interesse del figlio a non vedersi attribuire un cognome diverso rispetto a quello dei fratelli e delle sorelle, eventualmente prevedendo che le scelte compiute per il primo figlio siano vincolanti anche per i successivi. A tale riguardo potrebbe essere opportuno dettare una disciplina specifica per l’ipotesi in cui esista già un primo figlio il quale in forza della normativa pregressa abbia ricevuto il cognome paterno.
Un intervento su tali profili è ovviamente auspicabile, ed anzi indifferibile, ma non è certo sufficiente. Le osservazioni innanzi svolte evidenziano infatti la necessità che il legislatore delinei una disciplina armonica della materia che non solo colmi le non poche lacune emergenti dalla coraggiosa sentenza della Corte Costituzionale ed elimini le disfunzioni che essa è destinata a produrre (in particolare prevedendo sistemi più agili e più rapidi per dirimere il disaccordo sull’ordine dei cognomi), ma ridefinisca in modo organico il sistema ispirandosi al principio di parità tra i genitori ed al rispetto del diritto del figlio alla propria completa identità, che sono a fondamento della decisione della Consulta.
Importanti spunti potranno essere offerti dagli ordinamenti di molti Stati europei ed extraeuropei che con meccanismi diversi da tempo garantiscono una effettiva parità dei genitori nella scelta del cognome da assegnare ai figli, nonché dalle sollecitazioni delle diverse convenzioni internazionali volte a garantire la parità di genere, oltre che dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo e di quella del Lussemburgo e dalle Raccomandazioni del Consiglio d’ Europa.
Come appare evidente, qui non è in discussione la volontà politica di affrontare un tema delicato e complesso, ma è in gioco la capacità del Parlamento di assumere le proprie responsabilità.
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