Sulla rilevanza dei piani regolatori dei porti (nota a Cons. Stato, Sez. VI, 28 dicembre 2020 n. 8356)
di Marco Ragusa
1. La fattispecie
La pronuncia qui annotata ha annullato il provvedimento del Provveditorato Interregionale per le Opere Pubbliche per la Campania, il Molise, la Puglia e la Basilicata con il quale era stata respinta una domanda di accertamento di conformità urbanistica presentata nel novembre del 2015, ai sensi dell’art. 2 del d.p.R. 18 aprile 1994, n. 383, dall’Autorità portuale di Brindisi, avente a oggetto alcuni interventi di infrastrutturazione (già realizzati), strumentali a esigenze di security e ricadenti nell’area in cui è situata la stazione marittima del porto pugliese.
In estrema sintesi, la controversia oggetto del giudizio può essere così descritta.
Al tempo di presentazione dell’istanza, l’Autorità portuale di Brindisi – alla stregua delle altre Autorità portuali istituite dall’art. 6, c. 1, della legge 28 gennaio 1994, n. 84 («legge Porti») – era l’ente titolare, fra l’altro, delle funzioni relative all’infrastrutturazione del porto: funzioni che essa svolgeva in lineare continuità con quelle (di progettazione, programmazione ed esecuzione di opere e impianti) già proprie del Consorzio del porto di Brindisi, di cui la legge Porti aveva disposto la soppressione (artt. 2, c. 1, lett. i, e 20) [1].
Ai sensi dell’art. 5, c. 1, l. n. 84 del 1994 (nel testo vigente all’avvio del procedimento di accertamento di conformità), nei porti di categoria II[2], «l’ambito e l’assetto complessivo del porto, ivi comprese le aree destinate alla produzione industriale, all’attività cantieristica e alle infrastrutture stradali e ferroviarie, sono rispettivamente delimitati e disegnati dal piano regolatore portuale [«PRP»] che individua altresì le caratteristiche e la destinazione funzionale delle aree interessate».
L’Autorità portuale di Brindisi, soppressa nel 2016[3], non si è mai dotata, nel corso della propria (non brevissima) esistenza, di tale strumento pianificatorio: a fare da cornice dell’ambito dello scalo è rimasto così un piano regolatore portuale adottato dal Consorzio del porto nel 1975.
Gli interventi realizzati dall’Autorità portuale sull’area della stazione marittima non erano contemplati da tale piano e, anche sulla scorta di questo rilievo, il Provveditorato ne aveva accertato la non conformità urbanistica. Tale difformità aveva peraltro condotto all’indizione di una conferenza di servizi, ai sensi dell’art. 3 del citato d.p.R. n. 383/1994, la quale non era però riuscita a rimediare al rilevato contrasto tra le opere realizzate dall’Autorità portuale e il quadro pianificatorio di riferimento. Da qui il rigetto dell’istanza, oggetto dell’impugnativa dell’Autorità del Sistema portuale («AdSP») del Mare Adriatico meridionale (succeduta alla originaria istante a far data dal 2016).
Punto centrale della decisione in commento, sul quale si concentrano le brevi osservazioni che seguono, è la (parziale) adesione del Consiglio di Stato alla tesi sostenuta già in primo grado dall’AdSP e integralmente disattesa, invece, dal TAR[4]: tesi secondo cui la conformità urbanistica degli interventi de quibus non avrebbe potuto essere valutata (come aveva fatto l’organo ministeriale) sul metro di un piano regolatore portuale adottato in epoca anteriore all’entrata in vigore della legge 28 gennaio 1994, n. 84 e all’introduzione del modello di pianificazione portuale disegnato dal suo art. 5.
La pronuncia suscita, sotto tale profilo, almeno un dubbio relativo alla correttezza della soluzione offerta alla specifica res litigiosa e alcune riflessioni concernenti la prospettiva implicitamente adottata nell’inquadramento del più ampio (e da tempo dibattuto) tema del rapporto tra pianificazione portuale e pianificazione urbanistica.
2. Il fondamento della decisione: quale l’errore del TAR Lecce, secondo il Consiglio di Stato?
Per questa breve analisi, occorre prendere le mosse dai profili di sintonia riscontrabili tra il decisum di primo grado e quello di appello: entrambe le sentenze, infatti, rifiutano la tesi più radicale sostenuta dall’Autorità ricorrente, secondo la quale in nessun caso la pianificazione portuale potrebbe affiancarsi alla (o tenere luogo della) pianificazione comunale, fungendo da paradigma nella valutazione di conformità urbanistica per gli interventi di modificazione del territorio del porto «da eseguirsi da amministrazioni statali o comunque insistenti su aree del demanio statale» e per le «opere pubbliche di interesse statale, da realizzarsi dagli enti istituzionalmente competenti» (art. 2 d.p.R. n. 383 del 1994).
Per il Tar Puglia, come per il Consiglio di Stato, è infatti indubbio che la funzione pianificatoria affidata, con l’entrata in vigore della l. n. 84 del 1994, al PRP disciplinato dall’art. 5 sia una funzione urbanistica in senso stretto: per tale ragione la legge prevede che il piano non possa contrastare con gli «strumenti urbanistici vigenti»[5] e, per la sua adozione, impone il raggiungimento di una previa intesa tra l’Autorità portuale e i comuni nel cui territorio ricade lo scalo marittimo[6].
Se, dunque, la non conformità urbanistica fosse stata accertata con riferimento a un piano regolatore portuale adottato successivamente all’entrata in vigore della legge n. 84 del 1994, anche il Consiglio di Stato avrebbe ritenuto legittimo l’operato del Provveditorato, confermando la decisione di primo grado. Il punto di divergenza tra l’approccio del Tar e quello dei Giudici di appello è, insomma, integralmente relativo alla circostanza che la pianificazione del porto di Brindisi non fosse regolata da un PRP ‘di nuova generazione’, ma da un piano portuale adottato prima dell’entrata in vigore della legge Porti.
Secondo la sentenza di primo grado, tale circostanza non muta i termini della questione.
Ai sensi dell’art. 27, c. 3, della legge n. 84/1994, infatti, i piani regolatori portuali eventualmente adottati in epoca anteriore mantengono efficacia fino al proprio aggiornamento, da effettuarsi ai sensi dell’art. 5: di modo che le prescrizioni dei ‘vecchi’ piani costituiscono a pieno titolo uno dei parametri impiegabili nel giudizio di conformità di cui all’art. 2 d.p.R. n. 383 del 1994, essendo a esse riferibile, in virtù del citato art. 27 l. n. 84/1994, la stessa valenza urbanistica propria di quelle contenute in un ‘nuovo’ PRP.
Il Consiglio di Stato afferma, al contrario, che «i Piani Regolatori Portuali approvati antecedentemente alla legge n. 84 del 1994, non hanno effetti di conformazione del territorio» e, pertanto, anche «il Piano regolatore portuale di Brindisi, risalente al 1975, non poteva essere considerato come parametro giuridico ai fini della valutazione di conformità urbanistica degli interventi in contestazione»[7].
La previsione dell’art. 27, c. 3, cit. non consentirebbe, in altri termini, di riferire ai ‘vecchi’ piani una funzione urbanistica a essi originariamente estranea: i piani delle dismesse organizzazioni portuali, a differenza del nuovo PRP, «costituivano soltanto strumenti di programmazione delle infrastrutture strumentali allo svolgimento delle attività del porto, erano cioè piani di “opere”»[8]: la realizzazione di interventi non contemplati da tali piani o in contrasto con essi non porrebbe, insomma, una questione di «conformità urbanistica».
La motivazione della decisione, mediante una sintetica ricostruzione storica della legislazione italiana relativa ai rapporti tra pianificazione urbanistica e pianificazione portuale, illustra le ragioni di questa conclusione, evidenziando come l’art. 5 della legge Porti abbia introdotto per la prima volta uno strumento di raccordo tra la potestà pianificatoria degli enti locali (già a far data dal 1967 estesa all’intero territorio comunale, ivi incluso il demanio marittimo[9]) e le funzioni degli enti portuali relative all’infrastrutturazione dello scalo.
Il citato art. 5, infatti, da un lato ha imposto univocamente agli interventi di trasformazione del territorio portuale il rispetto di un quadro pianificatorio urbanistico, introducendo, in tal modo, un vincolo non espressamente contemplato dalla legislazione previgente; d’altro canto, la definizione di questo quadro non è stata tout court rimessa alla generale potestà comunale di governo del territorio, ma a uno strumento specificamente riferito (e limitato) all’ambito portuale, la cui emanazione è di competenza dell’ente che gestisce lo scalo.
È da tale premessa, appunto, che la sentenza in commento trae le proprie conclusioni: fino a che uno scalo di categoria II non venga assoggettato a un PRP approvato ex art. 5 l. n. 84 del 1994, eventuali prescrizioni dettate da un piano portuale ancora efficace in virtù dell’art. 27 cit. non possono assumere rilievo urbanistico ed essere impiegate al fine dell’accertamento di conformità di cui all’art. 2 d.p.R. n. 383 del 1994.
3. I punti critici delle premesse e delle conclusioni della decisione
Tra i dubbi suscitati dalla pronuncia in commento, il primo concerne la ricostruzione storica effettuata dal Consiglio di Stato.
Se è vero, infatti, come sottolineato in motivazione, che la legislazione anteriore al 1994 non aveva disciplinato in modo compiuto l’istituto della pianificazione portuale e che le uniche previsioni normative relative ai piani portuali (al plurale) erano essenzialmente finalizzate alla realizzazione delle opere in essi inserite, è anche vero che in molti casi, sotto il profilo strutturale, l’oggetto di tali piani non differiva molto dal modello disegnato dall’art. 5 della legge Porti; così come è vero che la loro adozione (talora avvenuta con legge, talaltra mediante decreti ministeriali, sulla base dei provvedimenti istitutivi degli enti portuali) aveva visto spesso il previo coinvolgimento dei comuni interessati e, a volte, perfino l’assunzione, da parte degli stessi enti locali, della veste di promotori dell’iniziativa pianificatoria[10].
L’impossibilità di riferire ai vecchi piani portuali la valenza urbanistica propria del nuovo PRP, pertanto, non sembra possa essere ancorata all’intrinseca inadeguatezza di tali strumenti a svolgere una siffatta funzione, ma esclusivamente alla interpretazione della portata precettiva dell’art. 27, c. 3, della legge Porti, che di quei piani dispone l’ultravigenza.
Così stando le cose, per verificare se la posizione espressa dal Consiglio di Stato sia condivisibile (o almeno più condivisibile di quella accolta dal Giudice di primo grado) sembra necessario interrogarsi su quale sia la ratio del citato art. 27 c. 3 e dunque, più a monte, su quale sia la ratio dell’art. 5 della legge, rispetto alla cui applicazione la norma assume la natura e la funzione di disposizione transitoria.
Introducendo una forma di pianificazione speciale per tutti i porti di categoria II, l’art. 5 ha mirato a raggiungere due principali obiettivi.
Il primo è la razionalizzazione dell’attività di infrastrutturazione di ciascuno scalo marittimo, che il legislatore ha inteso sottrarre a iniziative episodiche e non supportate da una chiara e armonica prospettiva di sviluppo del porto: è sul piano portuale, non solo sul progetto di singole opere, che il Consiglio superiore dei lavori pubblici è chiamato a esprimere il proprio parere ai sensi dell’art. 5, c. 3 (ora c. 2 quater, lett. b) l. n. 84/1994. Ed è del piano, non solo (e, anzi, non tanto) del singolo intervento infrastrutturale che può ben valutarsi la coerenza con gli obiettivi della pianificazione generale dei trasporti: aspetto imprescindibile per ogni lettura che intendesse prendere (anche soltanto un po’) sul serio il vincolo teleologico posto all’interprete dall’art. 1 della legge Porti[11].
Il secondo obiettivo è, di primo acchito, più direttamente attinente all’oggetto della controversia risolta dalla pronuncia qui annotata. Si tratta, appunto, di creare le condizioni di co-esistenza tra la pianificazione del territorio portuale e quella dell’ambiente urbano che gravita intorno a esso: un obiettivo che può essere perseguito, in astratto, tracciando una netta linea di confine tra la potestà pianificatoria comunale e quella dell’ente portuale, oppure stabilendo una gerarchia tra strumenti pianificatori, o ancora istituendo forme di raccordo tra le potestà pianificatorie facenti capo agli enti coinvolti, affidando la pianificazione portuale alla co-decisione dell’ente locale e dell’Autorità portuale. Quest’ultima è, appunto, la scelta ambiziosa adottata dalla legge n. 84 del 1994: l’art. 5, da un lato, nega al PRP l’idoneità derogatoria tendenzialmente propria di ogni strumento pianificatorio di settore rispetto agli strumenti urbanistici, dall’altro impone che per l’adozione del piano debba essere raggiunta un’intesa tra l’Autorità portuale e i comuni interessati[12].
In entrambe le prospettive teleologiche, il piano portuale rappresenta uno strumento di sintesi tra interessi differenti e potenzialmente confliggenti. Il primo obiettivo, infatti, inerisce alla dialettica tra l’interesse all’incremento dei traffici di un singolo scalo, perseguito da ciascuna Autorità portuale, e l’interesse generale a un’armonica ed efficiente pianificazione dell’intero sistema portuale – e, più in generale, trasportistico – nazionale. Il secondo obiettivo si inquadra, invece, nel conflitto tra gli interessi della città e gli interessi dello scalo marittimo: un conflitto che lo sviluppo di un porto moderno, tendenzialmente, determina in misura molto maggiore rispetto al recente passato[13].
Così ricostruita la ratio dell’art. 5 della legge Porti, è facile comprendere quale sia quella dell’art. 27, c. 3.
La norma, nel disporre l’ultravigenza dei piani portuali anteriormente adottati, ha fatto sì salva la possibilità di realizzare le opere in essi contemplate, ove ancora non eseguite, ma ha anche inteso limitare a tali opere le trasformazioni apportabili al territorio portuale nelle more dell’aggiornamento dei vecchi piani (o dell’adozione ex novo di un PRP). E ciò, a dire il vero, indicherebbe come non percorribile la stessa via intrapresa, nella fattispecie oggetto di giudizio, dal Provveditorato per le Opere pubbliche, una volta accertata la non conformità urbanistica delle opere realizzate dall’Autorità portuale di Brindisi ex art. 2 d.p.R. n. 383/1994. In difetto dell’adozione di un nuovo PRP, infatti, non pare che una conferenza di servizi indetta ai sensi del successivo art. 3 potesse rimediare a tale difformità (a meno che, al suo interno, non si fosse provveduto all’aggiornamento del piano portuale del 1975, ex art. 27, c. 3, l. n. 84/1994, nel rispetto delle modalità procedimentali dettate dall’art. 5 e senza possibilità di superare l’eventuale dissenso dell’amministrazione comunale ai sensi dell’art. 3, c. 4, del d.p.R. n. 383/1994[14]).
L’impossibilità di tenere in considerazione un vecchio piano portuale nella valutazione di conformità urbanistica ex art. 2 d.p.R. n. 383/1994 appare così una tesi decisamente distonica rispetto al quadro normativo vigente: per non essere soggetta ai vincoli nascenti dal nuovo modello di pianificazione portuale, infatti, sarebbe sufficiente all’Autorità portuale non dotarsi affatto di un nuovo PRP. A meno che, accogliendo questa tesi, il Consiglio di Stato non abbia inteso ritenere legittima la realizzazione delle sole opere che, sebbene non contemplate da un piano portuale di nuova generazione, siano comunque previste dagli strumenti di pianificazione urbanistica comunale.
Sotto questo aspetto, la motivazione della sentenza è tutt’altro che chiara. Non si comprende bene, infatti, quale dei motivi oggetto del ricorso di primo grado (e riproposti in appello) il Consiglio di Stato abbia inteso accogliere: a rendere illegittimi i provvedimenti impugnati è un mero vizio di motivazione (il riferimento operato dall’amministrazione al vecchio piano portuale) ovvero è il contenuto dispositivo degli stessi? Accogliere l’una o l’altra interpretazione determina, all’evidenza, il riconoscimento alla decisione di un ben diverso effetto conformativo sul procedimento ex art. 2 d.p.R. n. 383 del 1994 che il Provveditorato dovrà rinnovare.
Dalla lettura della sentenza di primo grado, si evince che la conformità delle opere alla pianificazione comunale generale e agli strumenti attuativi non fosse affatto pacifica tra le parti in causa: il Tar, tuttavia, aveva omesso di approfondire tale questione, poiché, una volta accertata la non conformità già alla luce del vecchio piano regolatore portuale, aveva ritenuto di potere respingere, sulla base di tale principale rilievo, il ricorso dell’AdSP.
E anche la sentenza di appello, che al contrario di quella riformata nega al vecchio piano portuale ogni valenza urbanistica, non si sofferma affatto sulla questione della difformità delle opere realizzate dall’Autorità portuale rispetto al quadro pianificatorio descritto dalla pianificazione del Comune di Brindisi (anch’essa rilevata nel corso del procedimento di accertamento condotto dal Provveditorato): se, come afferma la pronuncia del Tar, gli interventi dell’Autorità portuale consistono, oltre che nella recinzione della stazione marittima, anche in edifici ai varchi, in impiantistica di supporto al sistema di security, in una strada a quattro corsie, in un ponte e una tettoia in cemento armato, non dovrà il Provveditorato accertarne, comunque, la non conformità, sulla base del vigente piano regolatore generale e degli strumenti di attuazione, che di tali opere non fanno menzione?
La risposta affermativa – che sembrerebbe imposta anche dalla ricostruzione delle rationes degli artt. 5 e 27 della legge Porti a cui poc’anzi si è accennato – potrebbe essere messa in discussione valorizzando il passo della sentenza in commento nel quale, al fine di escludere la rilevanza giuridica del piano portuale del 1975, il Consiglio di Stato si preoccupa di precisare che non risulta che le prescrizioni di tale strumento siano state “recepite” dal piano regolatore generale[15]. La pronuncia, insomma, potrebbe essere letta nel senso di ritenere sufficiente, al fine di accertare la conformità urbanistica degli interventi, il fatto che questi ultimi non contrastino con la pianificazione comunale (che non siano, cioè, incompatibili con specifiche previsioni del PRG o degli strumenti attuativi).
Così interpretata, tuttavia, la decisione del Consiglio di Stato sarebbe senz’altro non condivisibile: essa determinerebbe la arbitraria sostituzione del paradigma di cui all’art. 2 d.p.R. n. 383/1994 (la conformità urbanistica) con il più labile limite che l’art. 5 della legge Porti fissa non per la realizzazione di singoli interventi infrastrutturali, ma per il Piano regolatore portuale in cui gli stessi dovrebbero essere contemplati (il non contrasto). Si determinerebbe, in tal modo, una tanto netta quanto abnorme pretermissione dell’interesse urbanistico alle esigenze di infrastrutturazione dello scalo marittimo.
4. Il valore della decisione alla luce della disciplina vigente in materia di rapporti tra pianificazione portuale e pianificazione urbanistica
La questione affrontata da Cons. Stato n. 8356/2020 ha una rilevanza ben più ampia del contesto locale brindisino, teatro della controversia. La conclusione per essa raggiunta dal Consiglio di Stato – che per l’ampiezza del principio di diritto espresso sembra estensibile a ipotesi in cui le opere da localizzare ‘fuori piano’ siano più imponenti rispetto agli adeguamenti della security di una stazione marittima – potrebbe costituire, peraltro, un precedente impiegabile nella soluzione di controversie soggette al nuovo testo dell’art. 5 della legge Porti.
Sotto il primo aspetto, è noto che la difficoltà di dare alla luce un PRP ha contraddistinto, a far data dal 1994, l’esperienza della gran parte delle Autorità portuali istituite dall’art. 6 della legge Porti. Lo scoglio principale su cui si sono infranti i tentativi di adottare un nuovo piano portuale (o di aggiornare un piano preesistente) è rappresentato proprio da quell’intesa con i comuni interessati che il previgente comma 3 dell’art. 5 rendeva indefettibile e che, nella pratica, si è spesso rivelata pressoché impossibile da raggiungere. Altrettanto noto è che la legge Porti, nell’impianto anteriore al 2016, non contemplava meccanismi di superamento del dissenso dell’ente locale: l’intesa prevista dall’art. 5, c. 3, rappresentava, infatti, un modulo consensuale «endoprovvedimentale»[16], sostanzialmente assimilabile a un accordo contrattuale e pertanto contraddistinto dall’incoercibilità del consenso delle parti trattanti.
Se l’inedito indirizzo espresso dalla sentenza in commento avesse preso piede già qualche anno fa, probabilmente, le amministrazioni portuali italiane avrebbero avuto una ben maggiore forza negoziale; e maggiori possibilità di raggiungere un esito concreto avrebbero così avuto i procedimenti di adozione dei PRP (al costo, naturalmente, di una forzatura della lettera di legge e dell’equilibrio tra gli interessi della città e gli interessi del porto a essa sotteso).
A far data dal 2016, il legislatore ha posto mano al procedimento de quo, anche al fine della sua semplificazione.
Il d.lgs. n. 169 del 2016 – il quale, come anticipato, ha sostituito le Autorità portuali istituite nel 1994 con le Autorità di sistema portuale, ciascuna delle quali provvede oggi alla gestione di una pluralità di scali marittimi – ha modificato anche l’art. 5 della legge Porti, al fine di adeguare la pianificazione portuale alla rilevante modifica organizzativa introdotta. La norma è stata peraltro oggetto, da quella data, di ulteriori integrazioni e riformulazioni.
Il vigente art. 5, c. 1, della legge n. 84 del 1994 prevede l’adozione di un Piano regolatore di sistema portuale (PRSP), «strumento di pianificazione del sistema dei porti ricompresi nelle circoscrizioni territoriali delle Autorità di sistema portuale», il quale si compone di un Documento di pianificazione strategica di sistema (DPSS) e di tanti piani regolatori portuali (PRP) quanti sono i porti rientranti nella circoscrizione dell’AdSP.
Quel che può essere qui rilevante evidenziare è che, tra le funzioni rimesse alla nuova pianificazione di sistema, rientra la delimitazione tra le aree destinate a funzioni strettamente portuali e retro-portuali, i collegamenti infrastrutturali di ultimo miglio con i singoli porti del sistema, gli attraversamenti del centro urbano e infine le «aree di interazione porto-città»[17](art. 5, c. 1 bis, lett. b).
La pianificazione (ma non la delimitazione) di queste ultime aree è affidata, in sede di adozione del PRSP, ai comuni interessati, previo parere della competente AdSP; «con riferimento esclusivo» alla pianificazione delle stesse aree «di interazione» è ora richiesto alle Autorità di sistema, in sede di adozione di ciascun PRP, di raggiungere un’intesa con i comuni interessati (art. 5, c. 1 ter); in caso di dissenso, trova applicazione il procedimento di opposizione di cui all'art. 14 quinquies l. n. 241 del 1990.
I fautori dell’esigenza di liberare la forza di sviluppo dei porti italiani dall’ostacolo rappresentato dalle resistenze localistiche possono quindi confidare che, per il futuro, l’evenienza di uno stallo decisionale in sede pianificatoria sarà più remota, risultando compressi, rispetto al passato, non solo l’oggetto (le aree di interazione città-porto), ma la stessa intensità del ruolo partecipativo del comune: da «endoprovvedimentale», l’intesa è infatti divenuta «endoprocedimentale».
Tuttavia, il ridimensionamento di quello che abbiamo definito il secondo obiettivo perseguito dal testo originario dell’art. 5 cit. (la ricerca di integrazione tra pianificazione urbanistica e portuale), si accompagna, nella norma novellata, a una ben più marcata esigenza di perseguimento del primo obiettivo, vale a dire l’armonico inserimento dell’infrastrutturazione programmata a livello di ciascun porto (e di ciascun sistema portuale) all’interno della pianificazione nazionale dei trasporti.
Il nuovo Piano generale dei trasporti e della logistica (PGTL), fulcro della disciplina dettata dal nuovo Codice dei contratti pubblici in materia di infrastrutture e insediamenti prioritari[18], è infatti assunto dall’art. 5 della l. n. 84 del 1994 come strumento di indirizzo e limite del PRSP (art. 5, c. 1 bis) e, conseguentemente, di ogni PRP.
Tuttavia, il nuovo PGTL (a distanza di più di quattro anni dalla sua istituzione) non è ancora stato approvato e questa circostanza infonde nell’osservatore il fondato timore che l’adozione degli atti di pianificazione portuali di ‘ultimissima generazione’ possa subire ulteriori ritardi: se il timore si rivelasse fondato, l’indirizzo coniato dalla sentenza in commento potrebbe acquisire una rilevanza pratica di indubbio peso anche nel contesto del rinnovato quadro normativo.
[1] Il Consorzio del porto e dell’area di sviluppo industriale di Brindisi, costituito con d.p.R. 20 dicembre 1949, n. 1607, e regolato da uno statuto approvato con d.p.R. 28 giugno 1960, n. 805, rientrava, in particolare, tra le organizzazioni portuali nate o sviluppatesi su impulso della legislazione speciale per il Mezzogiorno: a questi enti era affidata la gestione di porti posti a servizio di aree e nuclei di sviluppo industriale, a cui era destinata una consistente parte dei finanziamenti erogati nell’ambito dell’intervento straordinario della Cassa (art. 9 della legge 29 settembre 1962, n. 1462): cfr. M. Casanova, Gli enti portuali, Milano, 1971, 115 s.; G. Sirianni, L’ordinamento portuale, Milano, 1981, 123 ss.; da ultimo M. Ragusa, Porto e poteri pubblici. Una ipotesi sul valore attuale del demanio portuale, Napoli, 2017, 62 s.
[2] Ai sensi dell’art. 4, c. 1, l. n. 84 del 1994, appartengono alla categoria II tutti i porti e le aree portuali diversi da quelli finalizzati alla difesa militare e alla sicurezza dello Stato, qualunque ne sia la rilevanza economica (classi I, II e III) e la concreta vocazione funzionale (art. 4, c. 3).
[3] Il Decreto legislativo 4 agosto 2016, n. 169 (Riorganizzazione, razionalizzazione e semplificazione della disciplina concernente le Autorità portuali di cui alla legge 28 gennaio 1994, n. 84), attuativo della delega di cui articolo 8, comma 1, lettera f), della legge 7 agosto 2015, n. 124, ha infatti sostituito le Autorità portuali istituite dall’originario art. 6 della legge n. 84 del 1994 con le Autorità di sistema portuale, enti di gestione portuale la cui circoscrizione comprende, oltre al porto-sede dell’Autorità, altri scali marittimi che, insieme, costituiscono appunto il «sistema portuale». Ai sensi dell’art. 6 e del nuovo allegato A della l. n. 84 del 1994, in particolare, il porto di Brindisi è stato inserito, insieme a quelli di Manfredonia, Barletta e Monopoli, nel sistema portuale del Mare Adriatico meridionale, il cui porto centrale è quello di Bari, sede dell’Autorità del sistema.
[4] Tar Puglia, Lecce, I, 15 luglio 2019, n. 1225
[5] Così il comma 2 dell’art. 5, legge Porti nel testo applicabile ratione temporis; lo steso divieto di contrasto è oggi disposto dall’art. 5, c. 2 sexies.
[6] La funzione dell’intesa originariamente imposta dall’art. 5, c. 3, l. n. 84 del 1994 è radicalmente mutata a seguito delle modifiche apportate alla legge a far data dal 2016: v. infra, § 4.
[7] Così la sentenza, al par. 1.2.
[8] Ibid.
[9] La legge 6 agosto 1967, n. 765 («legge ponte») ha modificato la legge urbanistica (17 agosto 1942, n. 1150) , inserendo all’art. 31, c. II, la previsione secondo cui, per le «opere da eseguire su terreni demaniali, compreso il demanio marittimo, ad eccezione delle opere destinate alla difesa nazionale, compete all'Amministrazione dei lavori pubblici, d'intesa con le Amministrazioni interessate e sentito il comune, accertare che le opere stesse non siano in contrasto con le prescrizioni del piano regolatore generale o del regolamento edilizio vigente nel territorio comunale in cui esse ricadono». Sull’evoluzione dei rapporti tra pianificazione urbanistica e demanio marittimo cfr. A. D’Amico Cervetti, Demanio marittimo e assetto del territorio, Milano, 1983; M. Casanova, Demanio marittimo e poteri locali, Milano, 1986; Id., Il demanio marittimo, in A. Antonini (a cura di), Trattato breve di diritto marittimo, I, Milano, 2007, 209 ss.; M.L. Corbino, Il demanio marittimo. Nuovi profili funzionali, Milano, 1990; per ulteriori indicazioni bibliografiche v. M. Ragusa, op. cit., 120 ss. e 386 ss. e Id., La costa, la città e il porto. Il coordinamento tra pianificazione urbanistica e portuale nei porti di interesse nazionale e internazionale, in M.R. Spasiano (a cura di), Il sistema portuale italiano tra funzione pubblica, liberalizzazione ed esigenze di sviluppo, Napoli, 2013 393 ss.. Da ultimo F. Francario,
Il demanio costiero. Pianificazione e discrezionalità, in www.sipotra.it
[10] G. Pericu, Porto (Navigazione marittima), in Enciclopedia del diritto, 1985, 430 ss.; sulle singole esperienze dei principali porti italiani, comunque fra loro molto differenti, v. i contributi citati alle precedenti note 1 e 9.
[11] Ai sensi del suo art. 1, la l. n. 84 del 1994 «disciplina l'ordinamento e le attività portuali per adeguarli agli obiettivi del piano generale dei trasporti, dettando contestualmente princìpi direttivi in ordine all'aggiornamento e alla definizione degli strumenti attuativi del piano stesso». In argomento v. M. Ragusa, Porto e poteri pubblici, cit., segn. 135 ss. e 172 ss.
[12] Cfr. G. Acquarone, Il piano regolatore delle autorità portuali, Milano, 2009, 285 ss.; M. Ragusa, La costa, la città e il porto, cit.
[13] H. Ghiara (ed.), The New Economic Port Landscape. Economic Performance and Social Progress, Milano, 2012; M. Ragusa, op. ult. cit., 403 ss.
[14] Ai sensi dell’art. 3, c. 4, d.p.R. n. 383/1994 applicabile ratione temporis «L’approvazione dei progetti, nei casi in cui la decisione sia adottata dalla conferenza di servizi, sostituisce ad ogni effetto gli atti di intesa, i pareri, le concessioni, anche edilizie, le autorizzazioni, le approvazioni, i nullaosta, previsti da leggi statali e regionali. Se una o più amministrazioni hanno espresso il proprio dissenso nell'ambito della conferenza di servizi, l’amministrazione statale procedente, d’intesa con la regione interessata, valutate le specifiche risultanze della conferenza di servizi e tenuto conto delle posizioni prevalenti espresse in detta sede, assume comunque la determinazione di conclusione del procedimento di localizzazione dell’opera. Nel caso in cui la determinazione di conclusione del procedimento di localizzazione dell'opera non si realizzi a causa del dissenso espresso da un’amministrazione dello Stato preposta alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute e della pubblica incolumità ovvero dalla regione interessata, si applicano le disposizioni di cui all’articolo 81, quarto comma, del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616».
[15] Così la sentenza in chiusura del par. 1.3.
[16] La distinzione tra il paradigma dell’intesa «endoprocedimentale» (che rileva come mera «variante organizzativa», poiché il consenso dell’amministrazione assolve essenzialmente al ruolo, appunto, di un apporto procedimentale) e quello dell’intesa «endoprovvedimentale» (che non è raggiunta all’esito di un vero procedimento amministrativo, ma di una fase preparatoria in cui gli interessi si confrontano «mediante l’esercizio di un’autonomia che sembra essere, in larga misura, di tipo negoziale») è quella proposta da R. Ferrara, Gli accordi di programma. Potere, poteri pubblici e modelli dell’amministrazione concertata, 1993, segn. 55 ss., 62 ss. e 145 ss.
[17] Nel senso di una limitazione al sotto-ambito di interazione città-porto le competenze della pianificazione urbanistica, cfr. già G. Acquarone, Il piano regolatore cit., 273 ss.; la distinzione tra l’ambito del porto operativo e quello di interazione città-porto è stata in passato accolta dal Consiglio superiore dei lavori pubblici: cfr. la Circolare del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti n. 17778 del 15 ottobre 2004, «Linee guida per la redazione dei piani regolatori portuali».
[18] D.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, art. 200 ss.. In argomento M. Ragusa, Porto e poteri pubblici, cit. 189 ss.