In questo nuovo lavoro di saggista, Umberto Apice ci invita a viaggiare nel vastissimo mondo della letteratura e del diritto. Il mondo, premette l’a., è quello di Leonardo Sciascia fotografato nella frase in esergo: la libertà, la dignità umana, il rispetto reciproco dipendono dal «problema della giustizia». La giustizia è al centro dell’esperienza umana, ma da sempre si pone in termini di “problema”. Mentre tutti noi vorremmo che la giustizia offrisse soluzioni, cioè risoluzioni dei conflitti che la confusione delle fonti, l’inadeguatezza dell’azione amministrativa, la diffusione dei comportamenti contrari alle regole non possono che moltiplicare. Se la giustizia è davvero un problema, e non da ora, possiamo forse dire che, tuttora, non abbiamo ben capito come possa essere risolto.
Il viaggio organizzato compie numerose fermate incontrando autori che vanno dai classici greci ai contemporanei, ognuno dei quali viene chiamato a dare il proprio piccolo o grande contributo in un dibattito che non finisce e non è destinato a finire, perché è legato alla nostra evoluzione. Che una fermata venga preferita ad altra è soltanto questione di gusto: personalmente, vedo il cuore della trattazione nel cap. 3, dedicato a L’arte del giudicare, e nel cap. 4, dedicato a Il processo tra senso e non-senso, ove i riferimenti vanno dall’Antico Testamento (Re Salomone) sino al processo forse a un tempo più famoso e misterioso: quello in cui Ponzio Pilato formulerà la domanda drammatica che dovrebbe essere scolpita in ogni aula di giustizia – quid est veritas?
È certamente la mia una predilezione anzi, forse, un vizio da processual-civilista perché il volume, che giustamente parla di diritto e di processi, e quindi non soltanto di processo e men che mai di solo processo civile, affronta a più riprese tematiche che, nel nostro linguaggio specialistico forse un po’ deformante, diremmo di natura sostanziale: il lavoro, la condizione femminile, il carcere, il diritto di punire e molto altro. Qui la giustizia non può che essere percepita come problema, anzi come problema, appunto, che non si risolverà mai una volta per tutte. Se il giudizio, il travaglio e la ritualità della decisione sono ciò che invariabilmente più attira il lettore, va riconosciuto nel processo, in ogni processo, un che di patologico perché, se i comportamenti di tutti fossero senza eccezioni conformi a diritto, dei processi non si avvertirebbe proprio il bisogno. E invece, nel nostro Paese i contenziosi crescono costantemente – si dice più che altrove – e non c’è ufficio giudiziario che non si senta preso d’assedio al punto che le parole d’ordine, non da ora, sono smaltimento e respingimento. La ribellione al diritto, dobbiamo pensare, è ormai un problema endemico più forte del rimedio; ed è certo singolare che uno dei più potenti volani di contenzioso sia generato non dai privati ma dalla pubblica amministrazione, la cui azione dovrebbe ispirarsi al principio di legalità.
Al termine del viaggio che Apice ci propone, scegliendo le fermate e cioè le opere da visitare ognuna delle quali ha il suo commento critico, il lettore avrà percepito con chiarezza quanto stretti siano i legami tra la letteratura – quella senza tempo così come quella legata alla cronaca – e il progresso della società, cioè su quello che Sciascia chiamava «il rispetto tra uomo e uomo». La letteratura, scrive Apice, ha una “funzione umanizzante”, una funzione etica, che si riferisce specialmente a chi per mestiere è chiamato ad amministrare la giustizia. E sembra quasi bizzarro che si parli di questa funzione umanizzante proprio nel momento in cui uno dei temi all’ordine del giorno è la possibilità che la giustizia sia prodotta dalle macchine, dagli algoritmi.
Il volume si snoda per itinerari così vari e complessi che risulta non sempre facile mantenere la giusta visione d’insieme; forse, una traccia può essere suggerita dalle parole della Introduzione – che di norma, e credo anche in questo caso, è l’ultima fatica dell’autore – laddove si dice che la letteratura è libertà di espressione e, invariabilmente, ricerca della verità. Quando occorre, e occorre spesso, è anche atto di denuncia contro le incoerenze e le deformazioni di una società in costante trasformazione. La parola della letteratura e quella del diritto hanno in comune, dice Apice, di essere «un mezzo per arrivare allo svelamento della verità».
Al giurista attuale, la concezione del processo (parliamo sempre di quello civile) come strumento di ricerca della verità, al centro del quale Apice pone il giudice «con le sue miserie, i suoi dubbi, la sua insoddisfazione», può apparire – si perdoni il gioco di parole – quasi un fatto letterario. Le esigenze di giustizia della società attuale non sono quelle anche soltanto di qualche lustro fa: è evidente che le strutture esistenti non possono reggerne l’impatto, servono ripensamenti dell’organizzazione, dall’ultimo giudice di pace sino alle Sezioni Unite della Cassazione.
Se la giustizia è un problema, al centro di questo problema, ripetiamo, è la pubblica amministrazione con le sue intollerabili inefficienze: il contenzioso tributario, il lavoro pubblico, i conflitti con le imprese ne sono testimonianza; spesso il cittadino, come il piccolo imprenditore, si trova disarmato dinanzi a un “mostro” che dal canto suo sembra poter tollerare qualsiasi ritardo e immobilismo, in una società dove tutto accade sempre più velocemente. In cui non esistono più riserve di ricchezza e il mancato rispetto di un impegno contrattuale può mettere in difficoltà anche un’impresa solida. Possiamo dire che l’amministrazione è la prima nemica dell’amministrazione della giustizia, con il che il discorso sembra aggrovigliarsi su sé stesso.
Negli ultimi anni, grazie alla diffusione dei modelli economici si vanno affermando concezioni efficientistiche della giustizia: e quasi perdendo di vista che il fenomeno della crescita dei contenziosi è prodotto dal parallelo fenomeno del mancato rispetto del diritto (civile tra privati, amministrativo nel rapporto tra amministrazione e cittadini), si vuole che i processi durino poco, che vengano smaltiti con sempre maggiore rapidità all’esito di accertamenti sempre più sommari, che vengano respinti, specie nelle fasi di gravame, ove non presentino caratteristiche di meritevolezza che le corti sono chiamate a scrutinare in base a presupposti non chiari e non prevedibili. Si tende a non interrogarsi né sulle cause generatrici dei contenziosi, né sulla qualità della risposta che gli uffici giudiziari danno alla c.d. “domanda di giustizia”.
Il giudizio di primo grado, ispirato a preclusioni assertive e probatorie e purtroppo non scevro da inutili formalismi, premia la celerità sulla ricerca della verità. Le impugnazioni (soprattutto appello e cassazione) conoscono sbarramenti di inammissibilità che spesso precludono l’esame del merito: che è quanto dire, ancora una volta, la ricerca della verità. Si ha l’impressione che la procedura si avviti su sé stessa, come se il giudizio fosse sul processo e non sul diritto. Kafka ha parlato del processo penale, ma nel processo civile attuale non si sentirebbe certo a disagio.
Affermare, oggi, che il processo civile ricerca o afferma la verità è fortemente dubbio, molto più dubbio che in passato. Stritolata dai meccanismi e dalle ideologie dell’economia, la giustizia è divenuta una variabile indipendente dalla verità, e in pochi sembrano preoccuparsene.
Se risulta attendibile il parallelo tra letteratura e giustizia, dobbiamo allora concludere che la giustizia, per come ora amministrata, sta perdendo il suo carattere etico, o, forse meglio, si sta trasformando in uno strumento che aspira all’efficienza ma che al tempo stesso può tranquillamente fare a meno della verità, per rispondere a tecnicismi e rituali inutilmente autoreferenziali.