Questo contributo è parte del percorso intrapreso da questa Rivista per ricordare Giacomo Matteotti a cento anni dal suo assassinio, avvenuto il 10 giugno 1924. Il IV convegno di Giustizia Insieme, "La magistratura e l'indipendenza", Roma 12 aprile 2024 è stato dedicato alla memoria di Giacomo Matteotti. Per gli altri contributi già pubblicati si veda Giacomo Matteotti: il suo e il nostro tempo di Licia Fierro, Discorso alla Camera del Deputati del 30 maggio 1924 di Giacomo Matteotti, "Il delitto Matteotti" e quel giudice che voleva essere indipendente (nel 1924) di Andrea Apollonio, Una risalente (ma non vecchia) vicenda processuale: il pestaggio fascista in danno dell’on. Giovanni Amendola del 26 dicembre 1923 di Costantino De Robbio, La magistratura al tempo di Giacomo Matteotti di Giuliano Scarselli, A margine del Processo Matteotti: la coerenza di un magistrato in tempo di regime di Costantino De Robbio, Giacomo Matteotti. Il giurista di Giovanni Canzio.
Note su Giacomo Matteotti ed il penale costituzionale: la legalità dalla crisi dello Stato liberale alla «dominazione fascista» di Floriana Colao
Sommario: 1. Introduzione. Parlare in nome del diritto penale. Il principio di legalità oltre le ‘Scuole’ - 2. Tra equità e legalità - 3. «Politica e diritto penale» - 4. Lo Stato e il fascismo - 5. «Grazia e giustizia trasformate in strumento di parte» - 6. Epilogo. Il ricordo dei penalisti.
1. Introduzione. Parlare in nome del diritto penale. Il principio di legalità oltre le ‘Scuole’
In Porte aperte Leonardo Sciascia ha offerto un’immagine illuminante di Giacomo Matteotti tra diritto e politica, ripresa da diversi studiosi, «Matteotti era stato considerato, fra gli oppositori del fascismo, il più implacabile, non perché parlava in nome del socialismo, che in quel momento era una porta aperta, da cui scioltamente si entrava e si usciva, ma perché parlava in nome del diritto, del diritto penale»[1].
Il Matteotti che parlava in nome del diritto penale parlava in nome della legalità, bussola per il Matteotti politico[2], un socialista riformista, oppositore democratico del fascismo, con un futuro nell’Italia liberata ‘diviso’ tra «mito» e «prolungato silenzio sulla sua vita e sui suoi scritti»[3].
A un anno dall’assassinio di Matteotti il deputato e costituzionalista Enrico Presutti scriveva che il Nostro «pagò con la vita non una battaglia per un ideale socialista e per un partito, ma per una rivendicazione della legalità e della giustizia»[4]. Per la condivisione ‘senza se e senza ma’ di questi principi Matteotti non pare incasellabile in una delle ‘Scuole’ penali, che si contendevano il campo scientifico ed accademico ancora nei primi due decenni del Novecento[5], neppure nella galassia del socialismo giuridico[6]. Non ‘politicizzava’ una ‘doppia legalità’, sostanziale e processuale[7], pensata come «pregiudiziale»[8] nella battaglia per la giustizia sociale; «in vista di un progresso reale della legislazione e della giurisprudenza»[9] esprimeva un ‘eclettismo’[10] nel segno del penale come tutela giuridica delle libertà, per Mario Sbriccoli cuore vitale della «penalistica civile»[11].
Come è noto, Matteotti si laureava nel 1907 a Bologna con una Tesi sulla recidiva, relatore Alessandro Stoppato, cattolico moderato, tra gli artefici del codice del 1913, dal 1920 deputato liberale e senatore. Il penalista polesano pare aver appreso dal maestro soprattutto il senso garantista del processo penale, vocato, citando Francesco Carrara, alla punizione del colpevole e al tempo stesso alla libertà e sicurezza dell’«innocente»[12]. Era un principio condiviso; il socialista Enrico Ferri – maestro della Scuola positiva, talora criticato da Matteotti per il determinismo, sotteso al paradigma della «difesa sociale»[13] – distingueva tra codice penale dei «birbanti» e codice di procedura degli «onesti sottoposti a processo»[14]. Incoraggiato da Stoppato il giovane polesano soggiornava anche all’estero per studiare i problemi teorici e i dati fattuali della giustizia criminale europea e transatlantica, pienamente acquisiti e meditati[15]; nel 1910 usciva La recidiva. Saggio di revisione critica con dati statistici. Matteotti non ‘dissolveva’ il diritto penale nelle scienze sociali, pur considerate nell’opera; metteva a tema, tra l’altro, i ‘carrariani’ «limiti legali», «ultimo baluardo della libertà individuale»[16]. In una significativa lettera alla moglie Velia la rivoluzione bolscevica interrogava il penalista socialista sul senso della «scienza da tavolino», dal momento che «due giorni di rivoluzione russa» avevano posto «nel nulla migliaia di volumi sulla legislazione anteriore»; ebbene, Matteotti scriveva che «il taglio di un’immensa foresta» non cancellava il ruolo garantista del «più minuto lavoro dell’intagliatore», delle «sottogliezze giuridiche»[17].
Piero Gobetti ha ricordato che «ai facili successi avvocateschi» ‘alla Ferri’ Matteotti aveva preferito «aridi studi di procedura penale», da «professori di diritto»[18]; in particolare gli scritti pubblicati tra il 1917 e il 1919 possono sembrare «aridi», in quanto connotati da un serrato argomentare tecnico-giuridico. Matteotti prendeva però le distanze dalla «glossa che nulla chiarisce», con riferimento al Trattato di Vincenzo Manzini[19]; lo specialismo dava forza all’idea della rilevanza costituzionale della giustizia penale. In una lettera pubblicata sulla Rivista di diritto e procedura penaleMatteotti scrivava al socialista Eugenio Florian, «illustre professore», anche per una considerazione polemica sui criteri metodologici della scienza penalistica, «ai giovani sembra interdetto di muovere grosse questioni se non si scrivono grossi volumi, infarciti di citazioni»[20]. Eppure i lavori dell’«avvocato in Rovigo» erano accolti anche dal liberale Luigi Lucchini, dal 1874 direttore della Rivista penale, assertore, nelle crisi della legalità di fine Ottocento e nel 1925, delle «leggi penali indissolubilmente legate alle vicende delle pubbliche libertà»[21].
Nell’immediato dopoguerra pareva prossima una riforma della giustizia penale, nel segno del rafforzamento della difesa sociale; nel 1919 il guardasigilli Ludovico Mortara incaricava Ferri di riformare il codice Zanardelli, tra le critiche di Lucchini della scelta di campo positivista[22]. Gli scritti di Matteotti non accennavano al Progetto ferriano di codice penale – anticipato da una Prolusione del 1919 – che stravolgeva le grandi fondazioni della codificazione, principio di stretta legalità in primis[23]. Nella recensione dei Principi di scienza del diritto penale di Giuseppe Sabatini Matteotti ancorava il diritto penale alla «nozione formale e essenzialmente giuridica del reato, quale è fissata dal legislatore in concreto», non alla «generica anormalità e pericolosità dell’individuo, come fu rimproverato ai primi positivisti»[24].
A differenza della Russia sovietica, e poi della Germania nazista, il regime fascista non avrebbe rinunciato alla legalità, che cambiava di segno nella profonda trasformazione costituzionale dello Stato. Matteotti ne coglieva l’esordio nell’«abuso dei decreti legge»[25]; per Alfredo Rocco la «nuova legalità fascista» poggiava proprio nella legge 100/1926sulla facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche[26]. Quanto al penale, nel 1939 Giuliano Vassalli – «penalista partigiano», poi padre dell’unico codice della Repubblica[27] – indicava nel principio di stretta legalità il cardine della codificazione, con i «giuristi tutti concordi» nel «riaffermare il valore del principio», pur nel «mutare dei punti di vista», dalla tutela delle «libertà individuali» a quella della «autorità dello Stato»[28]. Ebbene, prima della costruzione del regime Matteotti denunziava questa torsione autoritaria del nullum crimen sine lege, elemento costitutivo della «Dittatura fascista»[29], di cui coglieva un’inedita capacità di comunicazione di massa e di mobilitazione permanente del popolo. Nella Biblioteca della Camera il deputato socialista unitario leggeva quasi quotidianamente «libri di economia o diritto»[30], in vista dei suoi scritti e per l’attività parlamentare; la tensione la legalità – architrave degli scritti del biennio tra il 1917 e il 1919 – ispirava la documentatissima requisitoria di Matteotti contro la «dominazionefascista», non governo, dal momento che la violenza contro i nemici del fascismo appariva l’elemento costitutivo dell’«illegalismo fatto permanente»[31].
2. Tra equità e legalità
Negli scritti del periodo bellico e postbellico risaltava la consapevolezza di Matteotti delle grandi trasformazioni sociali, che andavano spostando il centro dell’ordine giuridico liberale dalla legalità all’equità, dalla legislazione alla giurisprudenza, dalla giurisdizione all’amministrazione[32]. In un ampio saggio, scritto da confinato militare nei pressi di Messina[33], il penalista sosteneva che la «sentenza penale» di un «non giudice», incaricato dal «potere esecutivo» di «giudicare e condannare senza averne il potere secondo lo stututo fondamentale del regno (art. 71)», non valeva «più di quella che potrebbe arbitrarsi di emanare un privato qualsiasi, un consiglio comunale, o il consiglio di stato; non esiste assolutamente»; asseriva «può essere impugnata, può passare in giudicato e avere giuridica rilevanza soltanto UNA SENTENZA EMANATA DA UN GIUDICE» (sic)[34]. Matteotti indicava nel Parlamento l’artefice della «legislazione», che, «anche nei tempi che sembrava affermata dalla volontà di uno solo», non appariva «mai un fatto arbitrario, ma attua esigenze, obbedisce a tendenze e utilità suggerite dai diversi strati sociali». Asseriva che il «desiderio di riforme, che diano più larga soddisfazione alla giustizia di contro alla formalità del giudicato», non doveva far perdere di vista il «sistema legislativo attuale», con il «dovere dell’interprete e dello studioso di applicarlo secondo la sua precisa e chiara volontà». Matteotti negava alla Cassazione la facoltà di ammettere nullità insanabili in nome dell’«equità»; sottolineava che la sentenza passava in giudicato «non appena trascorra il termine utile senza che sia presentato un gravame formalmente valido». Criticava certe interpretazioni della Suprema corte, che avevano annullato talune sentenze in nome del «supremo interesse della giustizia» o di «verità giuridiche che non possono essere coperte dal giudicato». Il «punto di vista dell’equità» pareva «una breccia che si apre in un sistema legislativo […] pericolosa breccia»; in una lucida lettura del passato e del presente dell’Italia Matteotti metteva a tema il senso della legalità, «in uno Stato e in un tempo come il nostro, dove è altrettanto facile l’abuso delle autorità, quanto la diffidenza del popolo verso di esse, è da preferirsi nelle leggi l’interpretazione più esatta e rigida e far posto all’esigenze dell’equità solo con le dovute riforme legislative»[35].
Quanto al «sistema meglio rispondente alle esigenze del senso popolare di giustizia, del momento storico attuale», Matteotti scriveva che «si potrà proporre de lege ferenda […] ma intanto si applichi quello che la legge vuole»[36].
Nel dilemma tra equità e legalità il penalista polesano pareva ‘anticipare’ l’ideario di Piero Calamandrei, che, di fronte al «complicato labirinto di giurisdizioni speciali», metteva a tema il «significato costituzionale delle giurisdizioni di equità», nella tensione a che l’istituzione di organi specializzati evitasse l’arbitrio del giudice ed il diritto libero, ascritto alla «Russia comunista»[37]. Nel 1920 Calamandrei pubblicava i due volumi de La Cassazione civile, organo supremo di garanzia di certezza del diritto ed unità e uniformità della giurisprudenza[38]; Matteotti lasciava un manoscritto, Cassazione. Studio di diritto processuale penale[39]. Alcuni scritti ne rimandavano il senso, nel legare la Corte suprema all’esigenza di legalità, anche contro le forme conciliative ed istanze equitative di quella stagione. Sulla Rivista di diritto e procedura penale Matteotti scriveva dunque a Florian a proposito della «nuova giurisdizione dell’intendenza di finanza, creata dai diversi decreti lgt.sui consumi»; riprendeva gli argomenti del maestro sull’«organo spurio», iscritto nella «giustizia penale dei pieni poteri». Il giurista polesano poneva l’alternativa tra accettare la giurisdizione dell’Intendente di finanza tra le «speciali penali» o «disconoscerne il carattere penale»; auspicava «esca dal diritto penale tutta la materia che non gli appartiene», affinchè «i giudici penali», «liberati dall’ingombro», potessero «procedere e attuare un diritto penale [che] prepari gli sviluppo della scienza futura». Per il momento commentava nei termini dello «scandalo giuridico» lo spostamento dal magistrato ordinario all’«improvvisato giudice», deputato a «giudicare reati e delinquenti»[40]. Florian riconosceva all’«egregio nostro amico e collaboratore» il merito di «liberare l’ala del suo pensiero a più vasto orizzonte»; apprezzava la critica dell’«enorme estensione dell’applicazione della pena», ridotta a «comune denominatore di fatti intimamente e giuridicamente diversi»[41].
In un saggio sui ricorsi in Cassazione Matteotti considerava il «massimo istituto» come «organo sommo di controllo», in grado di «garantire la legalità del procedimento» e a «toglier di mezzo le violazioni o erronee applicazioni della legge penale». Il giurista polesano sosteneva che la garanzia della Cassazione penale, elemento costitutivo della ‘normale’ legalità, diveniva indispensabile «in tempo di guerra o accelerato conflitto sociale», quando erano istituiti tribunali speciali in occasione di «moti rivoluzionari e lotte civili». In particolare Matteotti sottolineava che le sentenze dei tribunali militari e del Tribunale supremo di guerra e marina erano impugnabili senza limiti di tempo, in nome della «resistenza agli arbitri e abusi della forza», con un «ultimo giudizio, ma di puro diritto per ridurre al minimo le possibilità di un arbitrio». Quanto ai ricorsi in Cassazione, il penalista polesano misurava la distanza dai tempi del «diritto di grazia», «quando le libertà e le garanzie erano malsicure»; Matteotti sosteneva che, nello Stato di diritto, i ricorsi erano ammessi in caso di «violazione dei diritti del singolo e della collettività», di fronte ad un’«unica corte per l’unità del diritto»[42].
Nell’ampio Il concetto di sentenza penale e le dichiarazioni di incompetenza in particolare Matteotti scriveva «non ex regula ius, sed ex iure regula»[43]; osservava che «ogni epoca, ogni momento storico», avevano un proprio «complesso variabile di necessità», di cui il «legislatore» era chiamato a «tenere conto». Nella critica dell’art. 98 del codice di procedura penale del 1913 ancorava però eventuali riforme della codificazione al rispetto dei «concetti essenziali», che «richiedono saldezza e unità», liberi, con toni ‘carrariani’, da «ogni criterio politico dove prevalga la contingenza e il compromesso, per pretendere una maggiore purezza formale»[44]. Di fronte alle istanze per una giustizia sostanziale, che si affacciavano in quella stagione, il penalista polesano intendeva affidare la «legislazione» alla ‘razionalità’ dello Stato di diritto, anche se sosteneva che non vi era una «idea immutabile di sentenza», una «unica e assoluta verità». «Preparare il diritto positivo di domani», anche con la critica della «definizione legislativa» di sentenza, era intesa come un’operazione ‘legale’, che l’operatore della giustizia era tenuto a svolgere «senza offesa alla legge»[45].
Da una prospettiva che legava il diritto penale sostanziale e la giurisdizione Il pubblico ministero è parte – citato da Vassalli nel 1942[46] – affrontava una «controversia antica e mai sanata»[47]. Matteotti muoveva rilievi al codice di procedura penale del 1913, che aveva costruito un organo di giustizia «imparziale», portatore – con le parole di Manzini – di un «interesse giuridico superiore». La critica della manziniana entità unitaria di giudice e pubblico ministero come personificazione dello Stato muoveva dalla distinzione di funzioni tra magistrati, ancorata ad un processo leale e garantito da accusa e difesa ‘ad armi pari’. Il pubblico ministero come «parte», garanzia di legalità processuale, era dunque incaricato «non della condanna a ogni costo anche dell’innocente, ma alla persecuzione di chi realmente l’offese», con la sottolineatura della «limitazione della libertà personale di quei soli individui che, delinquendo, dimostrarono la loro inattitudine alla normale vita sociale». Matteotti intendeva sottrarre il pubblico ministero al ruolo di «figlio della politica»[48], stigmatizzato da Carrara e dalla penalistica liberale, collocandolo entro il principio della «divisione dei poteri, su che si fondano i moderni regimi costituzionali», con le «garanzie d’indipendenza di cui sono circondati gli organi di giustizia»[49].
In Classificazione degli incidenti di esecuzione Matteotti sosteneva la tesi dell’intangibilità del giudicato e di una pena da adattare alla «individualità» del condannato; prevedeva che, «nel prossimo avvenire», pene ed altre misure sarebbero state considerate provvedimenti esecutivi, con un caveat garantista, «ma qualificati come ‘pene’». Evocava una «futura magistratura specializzata», «non più quella di oggi», una «importantissima magistratura amministrativa fornita di speciali cognizioni», «salvo il controllo eventuale di legalità da parte della giurisdizione». Nel chiedere più tutele giuridisdizionali per questa fase del processo penale – istanza accolta dalla codificazione del 1930 in tema di misure di sicurezza – Matteotti preferiva il «giudice» al Ministero dell’Interno, «quando oggi si dice che un provvedimento è affidato all’amministrazione significa subito abbandonarsi alla discrezione più indiscreta, a criteri che nulla hanno in comune con i fini e l’essenza della pena».
Concludeva pertanto che, nel frattempo, era opportuno affidare le decisioni in tema di esecuzione penale al giudice, «provvisoria tavola di salvezza, alla quale […] conviene attaccarci»[50].
In una lettera a Matteotti Arturo Rocco – ‘pontefice’ dell’indirizzo tecnico-giuridico, nazionalista, futuro artefice del codice penale del 1930[51] – espriemeva grande apprezzamento per il saggio, per «portare luce non indifferente su un tema – quello dell’esecuzione – che è senza dubbio tra i più oscuri e difficili del diritto procedurale penale»[52]. In un intervento del 24 marzo 1922 alla Camera Matteotti tornava sull’argomento; osservava che l’esecuzione della pena era nelle attribuzioni del Ministero dell’Interno, e che si faceva strada l’idea di affidarla a quello della Giustizia. Il deputato spiegava che, in Italia, il primo era «strumento politico che il presidente del Consiglio appetisce per sè, e vuol tenere per sè, come strumento di potere, unicamente»; aggiungeva che, da Depretis a Giolitti, quel «Ministero meramente politico» non aveva assolto, a differenza di altri paesi, a «fini di assistenza sociale», quale appunto l’esecuzione della pena. Matteotti denunziava inoltre la vanitas di presentare al governo le sue proposte di riforma in tema di carceri, colonie penitenziarie agricole, «minorenni corrigendi», col paragone del gettarle «in un acqua senza fondo»[53]. Il decreto Oviglio del 31 Dicembre 1922 n. 1718 e l’attuativo del 28 giugno 1923 n 1890 spostavano la competenza in tema di esecuzione penale dal Ministero dell’Interno a quello della Giustizia[54].
3. «Politica e diritto penale»
Il bilancio di Matteotti sul «fascismo della prima ora»[55] e sulla «dominazione fascista» intendeva smontare l’autorappresentazione di successo del «governo», in grado di «ristabilire l’autorità dello Stato e la legge, che si diceva diminuita dal bolscevismo prima e dalle bande armate del fascismo poi, soverchianti la debolezza del regime democratico»[56], «il governo fascista giustifica la conquista armata del potere politico, l’uso della violenza e il rischio di una guerra civile, con la necessità di ripristinare l’autorità della legge e dello Stato, e di restaurare l’economia e la finanza salvandole dall’estrema ruina»[57].
L’argomento aveva avuto un suo «fascino», anche tra i giuristi[58], che, di fronte alle violenze politiche e sociali del primo dopoguerra, dismettevano il tradizionale habitus tecnico nel denunziare quella che pareva, oltre la questione penale, una crisi dello Stato. Alfredo De Marsico misurava la distanza tra «nuovo della vita» e «vuoto della legislazione»[59], inadeguata alle «nuove forme di delitto collettivo»[60]; per Gennaro Escobedo il codice Zanardelli era un «abito che non sta più al ragazzo che cresce», l’«evoluzione della criminalità sociale e politica»[61]. Il Rdl 22.4.1920 incriminava reati politici e sociali, cui seguivano decreti di amnistia e indulto per ovviare al carico giudiziario[62]; di fronte ai «lavoratori ribelli» la Cassazione anteponeva la difesa dell’ordine alla libertà in nome della difesa dei «principi dello Stato di diritto»[63]. Nella consapevolezza del nesso tra «politica e diritto penale» Eduardo Massari descriveva i «movimenti collettivi»; osservava che gli scioperi nei servizi privati e pubblici, i boicottaggi, le invasioni di terre, l’autodifesa di leghe contadine, con sequestri ed improvvisati tribunali di classe per crumiri e dirigenti di aziende, rimanevano impuniti per l’inerzia dei «pubblici poteri»[64]. Destavano particolare allarme gli scioperi dei dipendenti pubblici, per Arturo Rocco «guerra» di un gruppo di lavoratori contro la Nazione, meritevole di una più decisa «repressione penale»[65]. Nella Prolusione del 1920, all’indomani dell’occupazione delle fabbriche, Alfredo Rocco stigmatizzava «lotte tra partiti e fazioni ormai apertamente armate»; osservava un’«opinione pubblica» stanca della «guerra incomposta dei particolari interessi contro tutti gli altri cittadini», auspicando il passaggio dalla «autodifesa di classe alla giustizia di Stato»[66]. Nella penalistica l’azione delle «guardie rosse» armate, a difesa degli stabilimenti occupati, acuiva l’allarme per il ‘sovversivismo’, indistinto contenitore politico, con la paura di «rivoluzioni sociali come quella francese e russa con spargimenti di sangue»[67]. Nella tensione a «restaurare la sovranità dello Stato» l’autorevole Trattato di Manzini scriveva «l’attività di sovversivi, anarchici, socialisti, etc […] estranei alla compagine nazionale, abbandonandosi a delitti di ogni specie, determinò l’attività dei cosiddetti fascisti, la quale, provvida dapprima, eccedette poi con spedizioni punitive »[68].
Dal canto suo Matteotti ricorderà che «proprio sotto la dirigenza di capi e di organizzazioni fasciste, si è avuto in Italia il primo esperimento di occupazione delle fabbriche»[69]; nel febbraio del 1924 coglierà che, nella campagna elettorale, l’occupazione delle fabbriche «è tornata per l’ennesima volta a servire di argomento polemico contro i… bolscevichi»[70].
Il Rdl 4.1.1921 incriminava l’occupazione arbitraria di immobili, cui seguivano provvedimenti di amnistia ed indulto; Lucchini criticava il pendolarismo del governo tra aumento delle pene e rinunzia all’esercizio dello ius puniendi[71]. Giolitti e Nitti peroravano per il ritorno alla legalità; Alfredo Rocco – nel 1921 eletto deputato a Roma nella lista dei blocchi nazionali – sosteneva che la scelta di «far entrare le masse popolari nella vita nazionale» aveva avuto successo di fronte ai «movimenti» del Risorgimento, «extralegali» ma «nazionali», altro dal «partito socialista, che non è un partito nazionale», ma «anarchia, digregazione dello Stato»[72]; indicava l’impossibilità di una «transazione tra il bene e il male, la verità e l’errore, la Nazione e antinazione»[73]. L’avvocato e giornalista dannunziano Pietro Marsich – difensore con successo dei fascisti in tribunale – dichiarava che la «vera difesa dello Stato» andava esercitata «fuori dalla legge, una volta che la legge è cosa vana»[74]. Lucchini distingueva tra socialismo, delitto comune, e violenza squadrista, intesa a ristabilire l’ordine; metteva in guardia dai socialisti di ogni tipo, fino a scrivere «fascisti, delitti a parte, continuate nella provvida opera vostra, e non fate distinzioni fra socialisti […] forse quelli che s’ammantano con la pelle dell’agnello rifomista sono i più pericolosi»[75].
Al Congresso nazionale socialista di Milano Matteotti denunziava l’inerzia della magistratura di fronte alla quotidiana violazione della legalità da parte delle squadre fascista, e criticava Lucchini, procuratore generale in Cassazione e direttore di una Rivista molto letta nel mondo giudiziario, che nel 1922 definiva il «socialismo una forma di delinquenza che i magistrati devono reprimere»[76]. All’indomani della marcia su Roma Lucchini scriveva che la formazione del Ministero Mussolini, rispettosa della legalità formale, aveva chiuso la «sanguinosa guerra civile […] con la Restaurazione nazionale e autorità dello Stato»[77]. Ferri costituiva il gruppo parlamentare dei socialisti nazionali, disposti ad interloquire con il «governo Mussolini», «comprensibile reazione agli eccessi del dopoguerra»[78].
4. Lo Stato e il fascismo
Di fronte a questo ‘coro’, in solitudine, alla fine del 1923 Matteotti dimostrava invece che «la legge» era stata svuotata di senso, ridotta a «finzione», e che lo Stato di diritto aveva lasciato il posto a quello fascista, «mai come in questo periodo la legge è divenuta una finzione, che non offre più nessuna garanzia per nessuno […]. Nessun cittadino sente sopra di sé la vigilanza di uno Stato; ognuno sente solo la minaccia di un partito che è padrone dello Stato, cosicché chi è membro del partito crede se stesso lo Stato; chi è avverso al fascismo, è costretto a confondere lo Stato nella sua avversione contro il partito dominante».
Il deputato socialista indicava la violenza come elemento costitutivo del governo Mussolini e la continuità tra «la parole dei capi» e la drammatiche «cronache dei fatti»; smontava la narrazione sulla pretesa restaurata «autorità della legge e dello Stato», con «numeri, fatti e documenti», denunziando il collasso della legalità, «mai tanto, come nell’anno fascista l’arbitrio si sostituito alla legge, lo Stato asservito alla fazione, e divisa la nazione in due ordini, dominatori e sudditi […] diminuiti i compensi e le più piccole risorse della classe lavoratrice e dei ceti intermedi, che hanno perduto insieme ogni libertà e ogni dignità di cittadini».
Matteotti osservava inoltre che il governo aveva annunciato «la sostituzione di una rappresentanza del lavoro ai vecchi organi costituzionali», proposta che andava di pari passo con la «distruzione di fatto, ad una ad una, di tutte le migliori conquiste della legislazione operaia»[79]
La «Situazione economica e finanziaria» apriva la Parte Prima di Un anno e mezzo di dominazione fascista, con la puntuale critica del «miracolismo fascista», che, «mentre predica l’indipendenza dell’economia dallo Stato, si illude poi di influire immediatamente sulla economia con la volontà politica»[80]. Quanto al mutamento costituzionale in corso, Matteotti si impegnava nella difesa di un cardine della legalità statutaria, seppur eroso da tempo; condannava la concessione dei pieni poteri al governo in materia finanziaria e l’«abuso dei decreti legge». Ricordava che il presidente del Senato, Tittoni, il 3 aprile 1922 aveva chiesto di limitare la decretazione d’urgenza ai «casi eccezionalissimi», col definire il ricorso al decreto legge «frutto dell’improvvisazione e impreparazione […] via tortuosa alla quale ricorrono quelle classi […] le quali aspirano a ottenere vantaggi a danno di altre classi o della collettività sociale […] che per la via maestra della legge non ruiscirebbero a ottenere».
Dati alla mano, Matteotti dimostrava che dal 1915 al 1921, («periodo eccezionale guerra e dopoguerra»), la media annuale era stata di 419 decreti legge, 103 nei sei mesi del governo Facta, 517 «nell’anno fascista, senza contare i quasi 800 decreti emanati per la legge dei pieni poteri», taluni respinti dalla Corte di Conti o registrati con riserva. Elencava i provvedimenti, che, oltretutto, comportavano un importo di spesa ai danni di tutti i cittadini, nonostante l’«impegno sacro» della circolare ministeriale 14 maggio 1923 a non «eccedere le somme stanziate nei bilanci». Dimostrava che i «fatti fascisti sono perfettamente l’opposto del programma»[81].
Tra i provvedimenti in tema di «giustizia» Matteotti commentava la soppressione delle cinque Corti di Cassazione regionali e l’unificazione in Roma – peraltro auspicata da anni da Mortara e da Calamandrei – rilevando il «licenziamento» del «primo presidente e proponente Ludovico Mortara»[82], «caso inaudito del collocamento a riposo», accostato al «licenziamento» del docente di diritto costituzionale a Palermo e Messina, deputato, Ettore Lombardo Pellegrino[83]. Matteotti considerava poi che l’opportuna razionalizzazione delle circoscrizioni giudiziarie – attuata con la soppressione delle preture, tribunali, corti d’appello non attive – era stata corretta dall’«energico governo fascista, che torna a ricreare 250 sedi di distaccate di Pretura per tacitare le proteste e agitazioni dei fasci locali !». Definiva «generica e deplorevole» la «delegazione» al Governo da parte del Parlamento per «la riforma di alcuni codici»; Matteotti era consapevole delle spinte per un necessario aggiornamento della codificazione, ma sottolineava che «nessuno» aveva capito «le idee e i criteri del governo, oltre quelli già risultanti dallo studio delle antiche Commissioni; e non possono essere preveduti i risultati»[84].
Il paragrafo «Costituzione, Propaganda, ecc» coglieva la modernità del partito fascista, radicato nel territorio in modo militare, attento alla comunicazione di massa, grazie all’istituzione, presso diversi ministeri, di «uffici per reclamizzare ogni più piccolo atto del governo fascista», ed artefice, «all’estero», di una serrata «campagna di propaganda» per il fascismo, ben oltre il «puro interesse nazionale». Matteotti denunziava poi il senso del «mutamento costituzionale», proposto dal segretario del partito, Michele Bianchi, per cui il re avrebbe incaricato della formazione del governo «l’uomo più rispondente alla volontà del paese»; questi, una volta ottenuto il voto di fiducia della Camera, non avrebbe avuto bisogno di invocarne un altro «durante la legislatura». Il deputato socialista riportava quanto affermato da un sottosegretario, a proposito di non precisati «i dirigenti del fascismo», «intorno al Re per persuaderlo al mutamento costituzionale e che sperano di riuscire»[85].
Matteotti ripercorreva «la soppressione delle civiche libertà, la confusione della legge con l’arbitrio, dello Stato col partito»; «lo Stato asservito al partito» risaltava in particolare nella sostituzione degli organi statutari con la milizia, in violazione dell’art. 24, «L’Italia è il solo paese civile dove una milizia di partito tenuta in armi è pagata a spese dello Stati contro un’altra parte di cittadini».
Il deputato socialista unitario ricordava che il comandante De Bono aveva inviato telegrammi dichiarandosi «pronto a uccidere per il fascismo», e chiedeva «[chi, cittadini italiani ?]». Aggiungeva che il «Il Gran Consiglio Fascista si è sostituito al Consiglio dei ministri, disponendo delle cose della Nazione», e che la «Direzione del Partito Fascista chiama continuamente a rapporto i prefetti dello Stato italiano». Denunziava che «moltissimi impiegati dello Stato, professori, magistrati, operai sono stati esonerati o licenziati unicamnete perché non graditi al partito fascista». Accusava il fascismo di ridefinire la stessa cittadinanza, nel collasso dell’uguaglianza dei soggetti, «esser fascisti è insomma una seconda e più importante cittadinanza italiana, senza la quale non si godono i diritti civili e la libertà del voto, del domicilio, della circolazione, della riunione, del lavoro, della parola e dello stesso pensiero»[86].
Nel lungo e sinistro elenco delle «parole dei capi»[87] Matteotti coglieva in quelle di Mussolini la cifra del regime, «dittatura» – «se la Camera farà dei passi falsi sarà soppressa»[88] – e tensione per lo «Stato integralmente fascista […] la sostituzione della classe dirigente fascista, o ligia al fascismo, alla classe dirigente di ieri»[89]. Il segretario del partito socialista unitario difendeva le prerogative del Parlamento, la «funzione legislativa e di controllo», argine «all’arbitrio di un uomo o di un Partito, che solo dispone di forza armata al proprio servizio»[90]. In vista di un fronte unitario contro il fascismo indicava alle opposizioni, senza successo, l’obbiettivo comune della «riconquista delle libertà statutarie»[91]; ‘provocava’ la maggioranza, richiamandola all’«osservanza dell’autorità dello Stato e della legge … che è l’intima essenza, la ragione morale della nazione»[92].
5. «Grazia e giustizia trasformate in strumento di parte».
Al Matteotti penalista appariva evidente il senso politico del «decreto di amnistia e condono del 22 dicembre 1922 n. 1641», che riservava la clemenza penale per i delitti commessi per le ‘consuete’ «cause economico sociali» e per un «fine nazionale»[93]. L’incriminazione del «fatto commesso o istigato, pregiudizievole al fine nazionale», eredità della guerra, era stato messo a tema da Florian, che raccomandava cautela nell’applicazione di norme che avevano senso nella giustizia penale dei pieni poteri[94]. Si era poi radicato l’indirizzo dottrinale e giurisprudenziale sui fascisti, rappresentanti la nazione, e sui «sovversivi», l’antinazione, ‘incunabolo’ del rinunciare alla pena e al processo per i delitti commessi per un fine nazionale. Su La Scuola positiva Marsich indicava il senso ‘costituzionale’ del non punire i delitti commessi per un «fine nazionale», «il diritto accoglie la clemenza non perché soltanto clemenza, ma perché nella medesima riscontra una utilità pubblica […] l’interesse dello Stato a non punire prevale sull’interesse dello Stato a punire»[95].
I penalisti positivisti salutavano il riconoscimento del momento soggettivo nel reato, cardine della ‘Scuola’, senza considerare il profilo discriminatorio del fine nazionale; Arturo Santoro riprendeva gli argomenti di Sergio Panunzio sulla «violenza che si fa diritto», realizzando «il bene della nazione»[96]. Nei Principii di diritto criminale del 1928 Ferri sosterrà che, in virtù del decreto 1641/1922, il fine del delinquente era entrato nella legislazione in modo determinante, non più accessorio[97]. In alcuni appunti del 1924, inediti all’epoca, Calamandrei scriveva che il giudice, «senza perdere la sua obiettiva serenità», poteva valutare se, ai sensi della «legislazione penale», un reato fosse comune o politico, ma «non in quanto compiuto da un partito od un altro»; aggiungeva che se legislatore «cominciava a entrare in valutazioni che distinguono tra partito e partito (per es. reato per fini nazionali», il «giudice» era «chiamato in pericolose partecipazioni alla lotta politica»[98].
Alla «sovrana indulgenza» dedicava uno studio monografico di oltre cento cinquanta pagine l’avvocato e docente fiorentino Giulio Paoli, come Matteotti allievo di Stoppato; vicino a Calamandrei, Paoli – ricordato per per coniugare l’indirizzo tecnico con i «principi conclamati della Scuola classica» – firmerà il manifesto Croce e sarà trasferito per contrasti col regime dalla cattedra di Firenze a quella di Pavia[99]. Il volume del 1923 negava dunque alla «facoltà di clemenza» il carattere di «legale attuazione di una ingiustizia», mettendo a tema un «complemento di giustizia», una «riserva di elasticità del sistema puntivo». Paoli indicava poi «un elemento giuridico di importanza somma», il «fine nazionale», «per la prima volta nella legislazione italiana in cui, con la più rude chiarezza e con la piu netta precisione, si considera un obbiettivo ideologico per togliere illiceità al fatto commesso […] internazionalismo, socialismo, comunismo non possono sperare beneficio da una carta legislativa emanata nelle attuali condizioni storico-politiche. Sostenere il contrario sarebbe ridicolo prima che assurdo»[100].
Paoli distingueva però tra Stato e partito; argomentava che il «fine nazionale» doveva essere interpretato «nel senso delle istituzioni, ma non in senso fascista». Ammetteva, per esempio, il beneficio per chi si fosse opposto alla marcia su Roma per difendere il «governo allora al potere», pensando, («anche erroneamente)», che esso avrebbe «giovato alle sorti della nazione» più del fascismo, e per i reati commessi in occasione delle «risse tra fascisti e nazionalisti»; negava la clemenza per il reato commesso per un fine «repubblicano»[101]. Osservava comunque che l’esimente del «fine nazionale» contraddiceva il «principio statutario dell’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge», e quello «penalistico fondamentale, per cui si possono punire i fatti non le intenzioni»[102]. Paoli affidava però al giurista la «funzione tecnica», condizione di «indipendenza assoluta»; sosteneva che l’uomo di legge era tenuto a indicare che il legislatore «deviò» dai principi del penale, lasciando a lui il rispondere «per via politica, dinanzi alla coscienza del paese o dei suoi rappresentanti». Paoli dichiarava al lettore che non avrebbe trovato nel volume, «organizzato secondo un ordine logico», l’«osanna o il «crucefige»[103].
Matteotti era un penalista tecnico ma ‘criticante’; denunziava anche la prassi giurisprudenziale, dalla «inaudita larghezza», nel sottolineare il collasso dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla rinunzia alla pena, «si amnistiarono completamente e per tutti i reati, nessuno escluso, neppure quelli importanti la pena dell’ergastolo (per es. l’omicidio premeditato) per coloro che avevano delinquito per fine nazionale (?!) […] anche se il nesso di causalità era indiretto, anche se non era esclusivo, ammettendosi il concorso, purchè non prevalente, di motivi personali» […] per la prima volta nella concessione del beneficio si ebbero – a parità di condizioni obiettive per quel che attiene al delitto commesso – cittadini amnistiati del tutto (i fascisti) e cittadini a cui non si è concesso alcun beneficio, oppure il solo beneficio del condono di un anno (i non fascisti)».
Matteotti osservava che l’amnistia era ammessa «anche per i recidivi e per i pregiudicati», dal momento che «molti degli elementi criminali del fascismo avevano precedenti penali», e che l’esclusione per due condanne per i reati più gravi contro la persona o la proprietà non impediva l’applicazione del beneficio, purchè i reati fossero stati commessi «per fine nazionale (art. 7 !) ». Come i penalisti positivisti Matteotti metteva a tema l’importanza della «suprema considerazione delle condizioni soggettive e di ambiente, che degradavano la quantità criminosa del commesso reato»; ossevava però che quel giusto principio si era risolto nel negare il beneficio ai «cosiddetti sovversivi». Coglieva lo stravolgimento del principio statutario, la «grazia e giustizia trasformate in strumento di parte», l’«amnistia ha finito per assolvere tutti i delitti fascisti, anche i più crudeli, e orribili e repugnanti […] applicata perfino agli imputati dell’omicidio del deputato Di Vagno, perfino a responsabili di furto e ricettazione (quando il ladro, fascista, potè dare a intendere di aver rubato per finanziare … la marcia su Roma!».
Matteotti denunziava inoltre il «trattamento di estrema severità per gli… altri», i «sovversivi», smentendo l’argomento del «presidente del Consiglio», inteso a dimostrare che «il cosiddetto governo tirannico apriva le porte delle galere». Dati alla mano, Matteotti mostrava che, per «gli altri», «non ne fu aperta nessuna», e che il «completo oblio» aveva beneficiato solo i reati puniti con un minimo non superiore a tre anni «commessi in dipendenza di agitazioni, conflitti o competizioni economico-sociali. Quindi i beneficiati furono pochissimi». Riconosceva che, nei processi celebri di Ferrara e per i fatti di Palazzo d’Accursio a Bologna, «la giustizia ha smontato e ridotto alle vere proporzioni episodiche quei fatti sui quali si era maggiormente sviluppata la speculazione fascista». Al tempo stesso sottolineava i 1929 anni di galera, inflitti nella sola provincia di Bologna, i 700 anni di reclusione comminati dalle Assise di Trani a «quaranta contadini».
Quanto al «recentissimo decreto 31 ottobre 1923», inteso ad amnistiare «tutti i reati a movente politico», Matteotti sosteneva che, al di là dell’intento propagandistico, l’esclusione per tutti i delitti contro la sicurezza dello Stato e per quelli puniti con oltre tre anni di reclusione rendeva la misura «grottesca e iniqua». Affermava che una «vera pacificazione» avrebbe dovuto riservare la clemenza penale «proprio ai reati contro le persone commessi durante la guerriglia civile del 21 e del 22 e giudicati da giurie spesso e inevitabilmente traviate dall’odio e dal terrore». Ricordava che «ogni caduto di parte fascista è stato posto a carico di decine di sovversivi, condannati a gravissime pene, con o senza prove, spessissimo con prove adulterate»; denunziava, ancora per tutto il 1923, «invasioni fasciste di tribunali, assalti a imputati o a carceri, percosse ad avvocati e giudici»[104]. Nel 1940 il Codice dell’amnistie confermerà quanto scritto da Matteotti, ricordando che nei provvedimenti di clemenza del biennio 1922-1923 la magistratura di merito e la Cassazione – cui i decreti riconoscevano ampia discrezionalità – avevano assecondato il disegno del legislatore nel riconoscere il beneficio ad ogni reato inteso a «difendere le istituzioni contro un partito antinazionale e contrastare l’azione dei partiti sovversivi»[105].
6. Epilogo. Il ricordo dei penalisti
Nelle condoglianze trasmesse al sindaco di Fratta polesine Alfredo Rocco, presidente della Camera, di Matteotti ricordava la «forza del suo acuto intelletto, della sua vasta conoscenza, della sua fervida operosità […] la vita nobilissima, tutta spesa per la causa degli umili»[106]. Ad un anno dall’assassinio tra le testimonianze dei «compagni di lotta» il Comitato centrale delle opposizioni pubblicava un ricordo di Stoppato, che premetteva «io la pensavo politicamente in modo molto diverso da lui», nella sottolineatura sull’esser stati, lui e il «discepolo», «moralmente avvicinati quanto più il pensiero politico ci allontanava». Il maestro piangeva il «giurista colto e assennato», che coniugava «amore verace per la ricerca» e «alto spirito di illuminata libera impassibilità»; scriveva di «morte atrocemente tragica», che aveva tolto «alla scienza una forte promessa»[107]. Ferri lasciava al condirettore Florian – deputato, nel 1923 aggredito dai fascisti per averne denunziato le violenze, aderente al partito al socialista unitario – il compito di scrivere il necrologio su La Scuola positiva,indicata come sede per «battaglie scientifiche: preoccupazioni politiche le sono estranee; ma il diritto è libertà, è civiltà è legalità, onde la protesta, del resto unanime, contro l’immane delitto e la sua infernale preparazione»».
Florian scriveva di «bestiali sicari, che intendevano sopprimere in lui la libera voce, l’ardente apostolato, l’energia inflessibile del segretario politico del partito socialista unitario»; al rimpianto per l’«Apostolo e Martire» il maestro positivista univa una testimonianza di un «lato particolare della febbrile attività, attinente ai nostri studi». Ricordava il «discepolo di Alessandro Stoppato, al quale professò sempre affettuosa deferenza»; definiva Matteotti «milite della Scuola criminale positiva […] pure con atteggiamenti critici», a principiare dal libro sulla Recidiva, «ottimo contributo allo studio del penoso argomento». Elencava anche i lavori pubblicati tra il 1917 e il 1919, la Nullità assoluta, «articolo meditato e acuto», l’«arguta lettera» sulla giurisdizione dell’Intendente di finanza, la «larga moderna concezione del diritto penale», espressa nella recensione al volume di Sabatini, Il concetto di sentenza penale, pubblicato da Lucchini sulla Rivista Penale; concludeva «non di rado gli avvocati penali ebbero l’onore di soffrire e cadere per la libertà Matteotti partecipa alla sublime coorte di questi eroi del diritto»[108]. Nello scritto per il Comitato centrale delle opposizioni Florian sottolineava che «Matteotti ebbe mente di giurista», per «metodo e virtù di costruzione sistematica», e che, «morendo per la libertà, testimoniò ancora una volta che diritto e libertà sono termini indissolubili, beni ideali eterni»[109].
Lucchini ricordava l’aver ospitato nella Rivista Penale «vari pregevoli lavori» dello «studioso assiduo e valente delle nostre discipline», ed il recente invito, «per la molta considerazione per l’ingegno e la cultura», a tornare ai «prediletti studi. Ma la passione politica l’aveva ormai conquiso». Tra diritto e politica Lucchini pubblicava ‘l’ultima lezione’ di Matteotti, una lettera del 10 maggio 1924, in cui il penalista ringraziava il «Maestro», rammaricandosi nel non vedere, «purtroppo», «il tempo nel quale ritornerò tranquillo agli studi abbandonati», cui anteponeva la rivendicazione della legalità, i «presupposti di qualsiasi civiltà e nazione moderna», «non solo la convinzione, ma il dovere oggi mi comanda di restare al posto più pericoloso, per rivendicare quelli che sono, secondo me, i presupposti di qualsiasi civiltà e nazione moderna. Ma quando io potrò dedicare ancora qualche tempo agli studi prediletti, ricorderò sempre la profferta e l’atto cortese che dal Maestro mi sono venuti nei momenti più difficili».
Lucchini metteva in conto «la tragedia Matteotti» alla «prepotenza e violenza predicate e praticate dall’alto, con la incosciente derisione di ogni principio di libertà, di giustizia e di legalità»[110]; da allora apertamente antifascista – fino a subire, quasi ottantenne, un processo davanti all’Alta corte di giustizia per offese al capo del governo – nel 1925 inaugurava il secondo cinquantennio della Rivista Penale ricordando che le «leggi penali sono indissolubilmente legate alle vicende delle pubbliche libertà»[111].
[1] Cfr. S. Caretti, Introduzione, in G. Matteotti, Scritti giuridici, a cura di S. Caretti, Pisa 2003, p. 21; P. Passaniti, Giacomo Matteotti e la recidiva. Una nuova idea di giustizia criminale, Milano 2022, p. 22; D. Castronovo, La concezione della recidiva in Giacomo Matteotti, in Giacomo Matteotti tra diritto e politica, a cura di D. Negri, Verona 2022, p. 44; G. Canzio, Giacomo Matteotti, il giurista in «Sistema penale», 10 gennaio 2024, in open access.
[2] Il legame tra il Matteotti giurista e politico – dall’attività a sostegno dei contadini del Polesine, al ruolo di amministratore locale, deputato dal novembre 1919 al Marzo 1921 per il Collegio Ferrara-Rovigo, in una Camera per due terzi rinnovata rispetto all’anteguerra, con la presenza, per la prima volta in Italia, dei grandi partiti di massa, rieletto nel 1921 e nel 1924, segretario del partito socialista unitario, riformista e legalitario – in C. Carini, Giacomo Matteotti. Idee giuridiche e azione politica, Firenze 1984, p. 15 ss; sull’«assertore del diritto e della giustizia per altra, dolorosissima via» rispetto all’impegno scientifico cfr. G. Vassalli, Presentazione, in G. Matteotti, Scritti giuridici, cit., p. 23; P. Marchetti, Matteotti, Giacomo, in Dizionario biografico dei giuristi italiani (XII-XX secolo) diretto da I. Birocchi, E. Cortese, A. Mattone, M.N. Miletti, Bologna 2013, pp. 1307; P. Passaniti, Giacomo Matteotti, cit., pp. 11 ss; sul legame tra la «causa del socialismo», del «nostro paese e anche della civiltà» cfr. M. Degl’Innocenti, Giacomo Matteotti e il socialismo riformista, Milano 2022, pp. 115 ss
[3] Sui conflitti interni alla sinistra e la rimozione della tradizione riformista, cui Matteotti apparteneva cfr. S. Caretti, Introduzione, in Un anno e mezzo di dominazione fascista, a cura di S. Caretti, Pisa 2020, pp. 21-28, che ricorda, tra l’altro, un intervento di Gianpasquale Santomassimo sul «Manifesto» del 18 luglio 2000; cfr. più di recente W. Veltroni, Introduzione, in G. Matteotti, Un anno di dominazione fascista, Introduzione di W. Veltroni e un saggio di U. Gentiloni Silveri, Milano 2020.
[4] E. Presutti, in Comitato centrale dell’opposizione, Giacomo Matteotti nel primo anniversario del suo martirio, Roma 1925; sul docente e deputato, vicino a Giovanni Amendola, allontanato dalla cattedra di diritto amministrativo e costituzionale a Napoli per la scelta dell’Aventino cfr. P. Allotti,Presutti, Enrico, in Dizionario biografico dei giuristi italiani, cit., pp. 1627-1628.
[5] Come è noto, Mario Sbriccoli ha indicato il carattere fuorviante della distinzione in ‘Scuole’, rigidamente strutturate, per restituire la ricchezza della penalistica, presenza culturale centrale nella storia nazionale tra Otto e Novecento; cfr. M. Sbriccoli, Caratteri originari e tratti permanenti del sistema penale italiano (1860-1990), in Id., Storia del diritto penale e della giustizia. Scritti editi e inediti (1972-2007), Milano 2009, p. 605. Sul tema si può vedere F. Colao, Le scuole penalistiche, in Enciclopedia italiana, Il contributo alla storia del pensiero, Diritto, a cura di P. Cappellini, P. Costa, M. Fioravanti, B. Sordi, Roma, 2012, pp. 349-356. Su Matteotti e le ‘scuole’cfr. A. Gargani, Il sistema penale tra tradizione liberale e posivismo (A proposito degli Scritti giuridici di Giacomo Matteotti), in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 2003, pp. 551-581; D. Negri, Giacomo Matteotti custode della legalità processuale contro l’arbitrio del potere, in Giacomo Matteotti tra diritto e politica, cit., p. 47.
[6] Su cui cfr. M. Sbriccoli, Il diritto penale sociale (1883-1912), in Id., Storia del diritto penale, cit., pp. 819-902.
[7] Sugli scritti di Matteotti con il diritto il penale scienza integrata cfr. G. Vassalli, Presentazione, cit., p. 32.
[8] A. Gargani, Il sistema penale, cit., p. 576.
[9] Cfr. G. Vassalli, Presentazione, cit., p. 32.
[10] Su Matteotti, che coniugava «la tradizione giuridica liberale» con «gli ideali di uguaglianza e democrazia» cfr. A. Gargani, Il sistema penale, cit., p. 579.
[11] Su cui M. Sbriccoli, La penalistica civile. Teorie e ideologie del diritto penale nell’Italia unita, in Id., Storia del diirtto penale, cit., pp. 493-590, con un cenno a Matteotti, «che dedicava una lunga riflessione al «sistema penale fattore di recidiva», p. 563.
[12] A. Stoppato, Sul fondamento scientifico della procedura penale, in «Rivista Penale», 1893, p. 318; sul processualpenalista cfr. C. Storti, Stoppato, Alessandro, in Dizionario biografico dei giuristi italiani, cit., pp. 1919-1920. Su Matteotti inteso a «mettere in sicurezza il codice Stoppato»cfr. P. Passaniti, Giacomo Matteotti, cit., p. 52.
[13] Sul pensiero di Ferri e sulla «revisione critica di Matteotti tra elemento etico e difesa sociale» cfr. P. Passaniti, Giacomo Matteotti, cit., pp 113 ss.
[14] E. Ferri, Discorsi parlamentari sul nuovo codice penale, Napoli 1889, p. 7; sul tema cfr. R. Orlandi, Rito penale e salvaguardia dei galantuomini, in «Criminalia», 2006, pp. 293 ss.
[15] Sulla profonda conoscenza di Matteotti delle teorie e pratiche penali anche fuori d’Italia cfr. M. Pifferi, Giacomo Matteotti e il riformismo penale europeo, in Giacomo Matteotti tra diritto e politica, cit., pp. 13 ss.
[16] G. Matteotti, La recidiva. Saggio di revisione critica con dati statistici, Torino 1910, pp. 161 ss, 292. Sulla kantiana teoria dei limiti nel pensiero di Carrara cfr. M. Montorzi, Tra progetto scientifico e politica del diritto: dentro il Programma del Corso di diritto criminale di Francesco Carrara,in Id., Crepuscoli granducali. Incontri di esperienza e di cultura giuridica in Toscana sulle soglie dell’età contemporanea, Pisa 2006 pp. 229 ss.
[17] La lettera alla moglie Velia in S. Caretti, Introduzione, cit. p. 16.
[18] Sul «nostro socialismo più tribuno che politico» cfr. P. Gobetti, Matteotti, Milano 1925, pp. 29, 45.
[19] G. Matteotti, Il concetto di sentenza penale e le dichiarazioni di incompetenza in particolare, in «Rivista penale», 1918, in Id., Scritti giuridici, cit., p. 255. Sull’ostilità di Matteotti alla «civilistica penale» – felice formula coniata da M. Sbriccoli, La penalistica civile, cit., pp. 573 ss – e sul «tecnicismo giuridico bene inteso» cfr. D. Negri, Giacomo Matteotti, cit., pp. 51, 54; sugli scritti tra il 1917 e il 1919 cfr. G. Vassalli, Presentazione, cit., p. 21; G. Canzio, Giacomo Matteotti, cit.
[20] E. Florian, La giustizia penale dei pieni poteri, in «Rivista di diritto e procedura penale», 1918, pp. 160 ss, su cui G. Matteotti, Dalla critica alla ricostruzione (a proposito dell’Intendente di finanza improvvisato giudice penale), ivi, in Id., Scritti giuridici, cit., pp. 333 ss. Indicazioni sul penalista positivista ed assertore del «diritto penale scienza giuridica» (1900) in F. Colao, Florian Eugenio, in Dizionario biografico dei giuristi italiani, cit., pp. 878-879.
[21] L. Lucchini, Inaugurando il 2 Cinquantennio della Rivista, in «Rivista Penale», 1925, pp. 11-12; su Lucchini scienziato, alto magistrato, senatore, cfr. M. Sbriccoli, Il diritto penale liberale. La «Rivista Penale» di Luigi Lucchini (1871-1900), in Id., Storia del diritto penale, cit., pp. 903-980.
[22] L. Lucchini, La riforma della legislazione criminale, in «Rivista penale», 1919, pp. 382 ss.
[23] E. Ferri, Relazione sul progetto preliminare di codice penale italiano, in «La scuola positiva», 1921, pp. 5 ss; sul testo indicazioni in F. Colao, «Un fatale andare». Enrico Ferri dal socialismo all’«accordo pratico» tra fascismo e Scuola positiva, in I giuristi e il fascino del regime (1918-1925), a cura di I. Birocchi, L. Loschiavo, Roma, 2015, pp. 139 ss; sul «silenzio» di Matteotti sul Progetto Ferri cfr. P. Passaniti, Giacomo Mattotti e la recidiva, cit., p. 50.
[24] G. Matteotti, Rendiconti analitici, G. Sabatini: Principi di scienza del diritto penale, Catanzaro 1918, in «Rivista di diritto e procedura penale», 1918, in Id., Scritti giuridici, cit., p. 374.
[25] G. Matteotti, Un anno di dominazione fascista (1924), Bologna 1980, p. 9. Sulla ‘fortuna dell’opera’ e sull’ampliamento, progettato da Matteotti cfr. S. Caretti, Introduzione, in Un anno e mezzo, cit., p. 21 ss; F. Venturini, Un anno e mezzo di dominazione fascista: sulle tracce di un ‘relitto archivistico’, in «Tempo presente», 2020, pp. 15-26; A. Aghemo, Un inedito mortis causa, in Un anno e mezzo, cit., pp. 13-20. «L’abuso dei decreti legge» apriva la Parte seconda, Atti del governo fascista, ivi, pp. 61 ss.
[26] A. Rocco, La legge sulla facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche, in Id., Scritti e discorsi politici, I, Roma 1938, pp. 69 ss. Sul punto cfr. L. Lacchè, Un groviglio costituzionale. Fasi e problemi della costituzione ‘fascista’ nelle trasformazioni del regime, in «Journal of constitutional history. Giornale di storia costituzionale», 1/2022, p. 22; La costruzione della ‘legalità’ fascista negli anni Trenta, a cura di G. Chiodi-I. Birocchi-M. Grandona, Roma, 2020; sull’architetto del regime cfr. P. Costa, Rocco, Alfredo, in Dizionario biografico dei giuristi italiani, cit., pp. 1701-1704; G. Chiodi, Alfredo Rocco e il fascino dello Stato totale, in I giuristi e il fascino del regime pp. 103 ss.
[27] Cfr. G. Dodaro, Giuliano Vassalli tra fascismo e democrazia. Biografia di un penalista partigiano (1944-1948), Milano 2022; M. Pifferi, La penalistica del dopoguerra e le sfide della Costituzione repubblicana. Qualche considerazione sul problema e sul fine della pena, in «Journal of constitutional history. Giornale di storia costituzionale», 2023, p. 220.
[28] G. Vassalli, Nullum crimen sine lege, in «Giurisprudenza italiana», 1939, p. 127.
[29] La lettera di Matteotti a Turati del marzo-aprile 1924 in P. Passaniti, Giacomo Matteotti, cit, p. 11.
[30] F. Venturini, Un anno e mezzo, cit., p. 16; Id., Giacomo Matteotti e la giunta delle elezioni, in Giacomo Matteotti tra diritto e politica, cit. pp. 99 ss.
[31] G. Matteotti, Dopo un anno di dominazione fascista, in «Critica sociale», 1924, pp. 5-7.
[32] In generale sul tema cfr. C. Latini, «L’araba fenice». Specialità delle giurisdizioni ed equità giudiziale nella riflessione dottinale italiana tra Otto e Novecento, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 2006, pp. 595 ss, sul primo dopoguerra in particolare, p. 696 ss.
[33] Sul pacifismo in Matteotti, anche per indicazioni bibliografiche cfr. P. Passaniti, Giacomo Matteotti, cit., p. 50.
[34] G. Matteotti, Nullità assoluta della sentenza penale, in «Rivista di diritto e procedura penale», 1917, ora in Id., Scritti giuridici, cit. pp. 216-250, p. 248.
[35] Ivi, p. 220.
[36] Ivi, p. 250
[37] P. Calamandrei, Il significato costituzionale delle giurisdizioni di equità, in Id., Opere giuridiche, III, Roma 2019, p. 3
[38] P. Calamandrei, La Cassazione civile, I, Storia e legislazioni, in Id., Opere giuridiche, VI, Roma, 2019. Sul ‘monumento’ cfr. D. Luongo, La Cassazione civile di Calamandrei: cento anni dopo: spunti storico-giuridici, in «Rivista di storia del diritto italiano», 2020, p. 279 ss; R. Ferrante, Ideologie della giurisdizione e cultura giuridica togata. Tradizioni, nomofilachia, formanti e metodo storico, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 2020, p. 333 ss
[39] Fonte in S. Caretti, Introduzione, cit, p. 19-20
[40] G. Matteotti, Dalla critica, cit., p. 334 ss.
[41] Ivi, p. 338
[42] G. Matteotti, Oggetti di ricorso per cassazione nelle giurisdizioni non ordinarie (militari, marittime, coloniali, ecc), in Codice di procedura penale, a cura di L. Lucchini, supplemento a «Rivista penale», 1918, in Id., Scritti giuridici, cit., p. 320; sul saggio «capitolo completo dell’opera non venuta alla luce» cfr. G. Vassalli, Presentazione, cit., p. 31
[43] G. Matteotti Il concetto di sentenza penale, cit., p. 294; sul saggio, preludio all’opera sulla Cassazione penale mai condotta a termine, ma che sarebbe stata «fondamentale» cfr. G. Vassalli, Presentazione, cit., p. 31
[44] G. Matteotti, Il concetto di sentenza penale, cit, p. 252
[45] Ivi, p. 305
[46] G. Vassalli, La potestà punitiva, Torino 1942, p. 175. Sul collegamento ideale tra il saggio di Matteotti Il pubblico ministero è parte (1918) e il codice del 1988, che porta il nome di Vassalli cfr. P. Passaniti, Giacomo Matteotti, cit., p. 53
[47] G. Vassalli, Presentazione, cit., p 32; sulla «atavica stortura» cfr. M. Nobili, Il pubblico ministero; vecchie e recenti tendenze, in Id., Scenari e trasformazioni del processo penale, Padova 1988, p. 158; sugli «argomenti penetrati così a fondo nell’esperienza storica da ripresentarsi puntuale ad ogni regressione inquisitoria del sistema processuale» cfr. D. Negri, Giacomo Matteotti custode, cit., p. 61
[48] Cfr. M.G. Di Renzo Villata, Un pubblico ministero ‘figlio della politica’? Azione penale e pubblico ministero tra dipendenza e libertà nell’Italia postunitaria, in Staatsanwaltschaft. Europäische und amerikanische Geschichten, curr. B. Durand, L. Mayali, A. Padoa Schioppa, D. Simon, Frankfurt am Main 2005, pp. 203-310
[49] G. Matteotti, Il pubblico ministero è parte, in «Rivista penale», 1919, in Id., Scritti giuridici, cit., p. 369
[50] G. Matteotti, Classificazione degli incidenti di esecuzione, in «Rivista di diritto e procedura penale», 1919, in Id., Scritti giuridici, cit., p. 337-367; sullo scritto «vera monografia» cfr. G. Vassalli, Presentazione, cit., p. 30; sul tema in generale, con una considerazione sul «profetico Matteotti» cfr. M.N. Miletti, La pena nel processo. Giurisdizionalizzazione dell’esecuzione nella penalistica dell’Italia liberale, in «Diritto penale contemporaneo», 4/2017, p. 39
[51] Sull’autore della nota Prolusione sassarese del 1910, svolta nella penalistica tra ‘800 e ‘900 cfr L. Garlati, Arturo Rocco inconsapevole antesignano del fascismo nell’Italia liberale, in I giuristi e il fascino del regime, cit., pp. 191 ss
[52] La lettera di Arturo Rocco in S. Caretti, Introduzione, cit., p. 20; P. Passaniti, Giacomo Matteotti, cit., p. 52
[53] Bilancio del Ministero dell’Interno, in G. Matteotti, Scritti giuridici, cit., p. 385-387
[54] M.N. Miletti, La pena, cit., p. 31
[55] G. Matteotti, Il fascismo della prima ora, in Id., Scritti sul fascismo, a cura di S. Caretti, Pisa 1983, pp. 291-385. L’opera, forte della documentazione della stampa fascista ed in particolare de Il popolo d’Italia, usciva postumo nel luglio 1924; denunziava, tra l’altro, il carattere demagogico e populistico del movimento nel 1919 e lo sviluppo violento dal 1920.
[56] G. Matteotti, Dopo un anno, cit., p. 5, su cui A. Aghemo, Un inedito, cit., p. 17-18
[57] G. Matteotti, Un anno, cit., p. 3
[58] Cfr. I. Birocchi, Il giurista intellettuale e il regime, in I giuristi e il fascismo del regime, cit., pp. 9-61
[59] A. De Marsico, La giurisprudenza di guerra e l’elemento sociale del diritto (1920), in Id., Studi di diritto penale, Napoli 1930, p. 24. Sul giurista e politico cfr. A. Mazzacane, Alfredo De Marsico e le ideologie giuridiche del Novecento, in Alfredo De Marsico. L’avvocato, lo scenziato del diritto, l’uomo delle istituzioni, a cura di C. Masi, M. Di Lauro, Napoli 2003, pp. 43 ss
[60] A. De Marsico, La difesa sociale contro le nuove forme di delitto collettivo, in «Rivista penale». 1920, p. 201.
[61] G. Escobedo, Quale reato commetta il macchinista, il quale si rifiuti di far partire il treno se prima non discendano i carabinieri che viaggiano per motivi di servizio, in «Giustizia Penale», 1922, col. 706.
[62] Amnistie, condoni e indulti. Raccolta cronologica completa dalla proclamazione del Regno d’Italia, Santa Maria Capua Vetere 1950, pp. 39 ss.
[63] Fonti in C. Storti Lavoratori ribelli e giudici eversivi. Sciopero e licenziamento collettivo nella giurisprudenza di Cassazione tra 1900 e 1922, in Il diritto del Duce. Giustizia e repressione nell’italia fascista, a cura di L. Lacchè, Roma 2015, p. 29.
[64] E. Massari Politica e diritto penale, in «Dizionario penale», 1921, pp. 142 ss.
[65] Art. Rocco, Diritto o delitto ?A proposito degli scioperi nei pubblici servizi, in «L’idea nazionale», 1920, pp. 467 ss.
[66] Alf. Rocco, Stato e sindacati (1920) in Id. Scritti e discorsi politici, Milano 1938, p. 636
[67] G. Marasco, L’occupazione delle fabbriche da parte delle maestranze, in «Rivista Penale», 1922, pp. 79 ss Sulla penalistica e sull’opinione pubblica davanti all’occupazione delle fabbriche si può vedere F. Colao, Il processo «Scimula Sonzini». Politica e diritto penale alle origini del fascismo, in Processo penale e opinione pubblica in Italia tra Ottocento e Novecento, a cura di F. Colao, L. Lacchè, C. Storti, Bologna 2008, pp. 439-470.
[68] V. Manzini, Trattato di diritto penale Italiano, V, Torino 1921, p. 672.
[69] G. Matteotti, Il fascismo della prima ora, cit. p. 297
[70] Ivi, p. 377
[71] L. Lucchini, Ancora e sempre amnistie, in «Rivista penale», 1921, p. 488.
[72] Alf. Rocco, Sulle comunicazioni del governo (1921), in Id., Discorsi parlamentari, con un saggio introduttivo di G. Vassalli, Passione politica di un uomo di legge, Bologna, p. 77.
[73] Alf. Rocco, Sull’indirizzo di risposta al discorso della Corona (1921), ivi p. 190.
[74] P. Marsich, La posizione teorica e pratica del Fascismo di fronte allo Stato, in E. De Felice, Autobiografia del fascismo. Antologia di testi fascisti, Torino 2004
[75] L. Lucchini, Volpi sopraffine, ivi, 1921, p. 80; cfr. inoltre Id., Il socialismo militante in Italia è un delitto comune, ivi, 1922, pp. 23 ss; Id., Delitti politici, ivi, pp. 201 ss. Su Lucchini in questa stagione cfr. M.N. Miletti, Dall’adesione alla disillusione. La parabola del fascismo nella lettura panpenalistica di Luigi Lucchini, in I giuristi e il fascino del regime, cit. pp. 303 ss
[76] Ricorda che, in seguito, Matteotti modificò il giudizio su Lucchini, e che i rapporti tra i due «tornarono cordiali» S. Caretti, Introduzione, cit., p. 8
[77] L. Lucchini, Restaurazione nazionale e autorità dello Stato, in «Rivista penale»,1923, p. 493.
[78] E. Ferri, I socialisti nazionali e il governo fascista. Programma del Partito, Roma 1923.
[79] G. Matteotti, Dopo un anno, cit., pp. 3-5
[80] G. Matteotti, Un anno e mezzo, cit, p. 33
[81] Ivi, pp. 60 ss, 68
[82] Ivi, p. 111-112; Matteotti non ricordava le due sentenze del 1922, ispirate da Mortara, intese a rivendicare alla Corte suprema il rilievo di incostituzionalità dei decreti legge; cfr. M. Meccarelli, Le Corti di Cassazione nell’Italia unita. Profili sistematici e costituzionali della giurisdizione in una prospettiva comparata (1865-1923), Milano 2005, pp. 264 ss; M. Boni, Il figlio del rabbino. Lodovico Mortara, storia di un ebreo ai vertici del Regno d’Italia, Viella, Roma, 2018, pp. 110 ss
[83] G. Matteotti, Un anno e mezzo, cit, p. 131
[84] Ivi, p. 112
[85] Ivi, pp. 150-151
[86] Ivi, pp. 126-130
[87] Ivi, pp. 155-343
[88] Ivi, p. 155
[89] Ivi, p. 171
[90] G. M. Parlamento e governo, in «echi e commenti», 5 giugno 1924, su cui C. Carini, Giacomo Matteotti, cit., p. 228, 235
[91] Fonte in C. Carini, Giacomo Matteotti, cit., pp. 197-203
[92] Fonte in S. Caretti, Introduzione, cit., p. 21
[93] G. Matteotti, Un anno e mezzo, cit, p. 112-114; sul decreto 1641/1922 esemplare della «amnistie faziose» cfr. P. Caroli, Il potere di non punire. Uno studio sull’amnistia Togliatti, Napoli 2020, p. 117; si può vedere F. Colao, Leggendo alcune recenti pubblicazioni in tema di clemenza per la ‘pacificazione’. Scene della giustizia di transizione nel Novecento italiano, in «Italian Review of legal History», 6/2020, pp. 145-159
[94] E. Florian, Del fatto, commesso od istigato, pregiudizievole all’interesse nazionale, in «Rivista di diritto e procedura penale», 1919, p. 120
[95] P. Marsich L’obbiettività giuridica dell’amnistia, in «La Scuola positiva»1923, pp. 362 ss.
[96] A. Santoro, Il delitto politico nella recente amnistia, in «La Scuola positiva»,1923, p. 190.
[97] E. Ferri, Principi di diritto criminale, Torino 1928, p. 324.
[98] Fonte in G. Donzelli, Diritto e politica nel pensiero di Piero Calamandrei, Bologna 2022, p. 339
[99] Sul penalista fiorentino avversario del regime cfr. G. Paoli, Fare l’avvocato, con l’arringa nel processo Majorana e scritti vari, a cura di M. Pisani, Pisa 2011
[100] G. Paoli, L’indulgenza sovrana del dicembre 1922. Note di diritto e procedura penale al R. decreto di amnistia e indulto del 22 Dicembre 1922, n. 1641, Firenze 1923, p. 14
[101] Ivi, p. 17-18
[102] Ivi, p. 6
[103] Ivi, 2
[104] G. Matteotti, Un anno e mezzo, cit., p. 114
[105] Fonti in A. Jannitti Piromallo, Codice delle amnistie, degli indulti e delle grazie, Milano 1940, pp. 63 ss
[106] Fonti in P. Evangelisti, Postfazione, in Un anno e mezzo, cit., p. 349 ss
[107] A. Stoppato, in Giacomo Matteotti nel primo anniversario, cit. p. 71-72
[108] (E. Flo), Giacomo Matteotti, in «La scuola positiva», 1924, p. 288
[109] E. Florian, Matteotti giurista, in Giacomo Matteotti nel primo anniversario, cit., p. 36
[110] L. Lucchini, Chi semina vento raccoglie tempesta, in «Rivista penale», 1924, pp. 101-4; sull’«ultimo contatto tra Matteotti e la scienza del diritto penale» cfr. P. Passaniti, Giacomo Matteotti, cit., p. 54
[111] L. Lucchini, Inaugurando, cit., p. 11-12, su cui M. Sbriccoli, Il diritto penale liberale, cit., p. 980.
L'immagine è una di quelle esposte nella mostra Giacomo Matteotti. Vita e morte di un padre della Democrazia, visitabile a Palazzo Braschi (Roma) fino al 16 giugno 2024. La Redazione segnala altresì il convegno Il pensiero di Giacomo Matteotti che si terrà a Roma il 22 e 23 maggio 2024 presso l'Accademia Nazionale dei Lincei.