ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
di Maria Baldari
Sommario: 1. Premessa. – 2. Il procedimento sanzionatorio e la vicenda giudiziaria. – 3. La decisione della CGUE: la ricevibilità e la prima questione pregiudiziale – 3.1 La decisione della CGUE: la seconda questione pregiudiziale – 3.2 La decisione della CGUE: la terza questione pregiudiziale – 4. Il ne bis in idem: da garanzia processuale a garanzia sostanziale. Ricadute applicative - 5. Il recepimento in ambito interno. Considerazioni di sistema.
1. Premessa
Con la sentenza del 14 settembre 2023 la Corte di Giustizia dell’Unione Europea conferma la propria adesione alla nozione sostanzialista di «materia penale», da cui discende l’applicazione dello statuto giuridico proprio delle pene anche alle sanzioni che, sebbene formalmente amministrative, siano considerate penali sulla scorta dei cd. Engel criteria.
In tale contesto, torna a pronunciarsi sui requisiti richiesti ai fini della deroga al principio del ne bis in idem, ritenendo irrinunciabile la verifica in ordine alla sussistenza di un effettivo coordinamento tra i diversi procedimenti.
La pronuncia si è resa necessaria per fare luce nel clima di incertezza generato dalle interpretazioni evolutive che, a più riprese, hanno interessato il principio in esame.
2. Il procedimento sanzionatorio e le vicende giudiziarie
Con decisione del 4 agosto 2016 l’AGCM ha irrogato in solido alla Volkswagen Group Italia SpA, (VWGI) e alla Volkswagen Aktiengesellschaft (VWAG) una sanzione pecuniaria di importo pari a 5 milioni di euro per aver posto in essere pratiche commerciali scorrette ai sensi dell’articolo 20, secondo comma, dell’articolo 21, primo comma, lettera b), e dell’articolo 23, primo comma, lettera d), del codice del consumo[1].
In dettaglio, alle due società sono state contestate da un lato, l’installazione, sui veicoli diesel commercializzati a far data dal 2009, di un software finalizzato ad alterare la misurazione dei livelli di emissione di ossidi di azoto durante i test per il controllo delle emissioni inquinanti; dall’altro, la diffusione di messaggi pubblicitari contenenti informazioni relative all’attenzione prestata da tali società al livello delle emissioni inquinanti e all’asserita conformità dei veicoli in questione alle norme di legge. Il provvedimento è stato impugnato dinnanzi al T.a.r. Lazio.
Quando il ricorso dinnanzi al giudice amministrativo si trovava ancora pendente, la procura di Braunschweig (Germania) ha irrogato alla VWAG una sanzione pecuniaria di importo pari a 1 miliardo di euro in ragione della contestata manipolazione dei gas di scarico di taluni motori diesel del gruppo Volkswagen. Nell’ambito di tale decisione è stato precisato che, mentre una parte dell’importo complessivo - pari a 5 milioni di euro - sanzionava la condotta illecita, la restante somma era destinata a privare la VWAG dei benefici economici ricavati dall’installazione del software de quo.
La decisione tedesca è divenuta definitiva il 13 giugno 2018, quando la VWAG, versando la sanzione pecuniaria, ha formalmente rinunciato alla proposizione del ricorso. Conseguentemente, nell’ambito del procedimento pendente dinnanzi al T.a.r. Lazio, la VWGI e la VWAG hanno dedotto l’illegittimità sopravvenuta della decisione controversa per violazione del principio del ne bis in idem di cui all’articolo 50 della Carta e all’articolo 54 della CAAS.
Con sentenza del 3 aprile 2019, il giudice di primo grado ha respinto il ricorso ritenendo che il principio invocato non osti al mantenimento della sanzione pecuniaria prevista dalla decisione impugnata; avverso tale sentenza la VWGI e la VWAG hanno proposto appello.
Il Consiglio di Stato ha ritenuto di dover risolvere preliminarmente la questione relativa all’applicazione del principio del ne bis in idem al caso di specie. A tal fine, ha osservato che dalla giurisprudenza della Corte[2]risulta che l’articolo 50 della Carta dev’essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale che consente di celebrare un procedimento riguardante una sanzione amministrativa pecuniaria di natura penale nei confronti di una persona per condotte illecite che integrano una manipolazione del mercato per le quali è già stata pronunciata una condanna penale definitiva a suo carico, nei limiti in cui tale condanna, tenuto conto del danno causato alla società dal reato commesso, sia idonea a reprimere tale reato in maniera efficace, proporzionata e dissuasiva.
Il giudice di secondo grado, interrogatosi innanzitutto sulla qualificazione della sanzione oggetto della controversia, ha richiamato la ormai costante giurisprudenza della Corte, così concludendo per il riconoscimento della sua natura sostanzialmente penale.
In secondo luogo, il giudice di secondo grado ha osservato che il principio del ne bis in idem mira ad evitare che un’impresa sia condannata o perseguita una seconda volta, circostanza questa che presuppone che la prima decisione non sia più impugnabile. Con particolare riferimento alla questione se la decisione dell’AGCM e la decisione tedesca riguardino gli stessi fatti, il Consiglio di Stato ha rilevato «l’analogia, se non l’identità», nonché l’«omogeneità» dei comportamenti oggetto di tali due decisioni, precisando altresì che, benché la sanzione dell’AGCM sia stata irrogata in un tempo antecedente, la decisione tedesca sia quella divenuta definitiva per prima.
In terzo e ultimo luogo, il giudice di secondo grado, dopo aver ricordato che una limitazione al principio del ne bis in idem può essere giustificata sulla scorta dell’articolo 52, paragrafo 1, si è interrogato sulla eventuale rilevanza ai fini di tale disposizione della normativa del codice del consumo oggetto di applicazione nella decisione controversa.
All’esito di siffatte considerazioni, il Consiglio di Stato ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte i seguenti quesiti interpretativi: in primo luogo, se le sanzioni irrogate in tema di pratiche commerciali scorrette, ai sensi della normativa interna attuativa della direttiva 2005/29, siano qualificabili alla stregua di sanzioni amministrative di natura penale; in secondo luogo, se l’articolo 50 della Carta vada interpretato nel senso che esso osta ad una normativa nazionale che consente di confermare in sede processuale una sanzione amministrativa pecuniaria di natura penale per condotte illecite che integrano pratiche commerciali scorrette, per le quali nel frattempo è stata pronunciata una condanna penale definitiva a suo carico in uno Stato membro diverso, laddove la seconda condanna sia divenuta definitiva anteriormente al passaggio in giudicato dell’impugnativa giurisdizionale della prima sanzione amministrativa pecuniaria di natura penale; da ultimo, se la disciplina di cui alla direttiva 2005/29, con particolare riferimento agli articoli 3, paragrafo 4, e 13, paragrafo 2, lettera e), possa giustificare una deroga al divieto di ne bis in idem stabilito dall’articolo 50 della Carta e dall’articolo 54 della CAAS[3].
3. La decisione della CGUE: la ricevibilità del ricorso e la prima questione pregiudiziale
Preliminarmente la Corte, respingendo entrambi gli argomenti sostenuti dall’AGCM, dichiara ricevibili le questioni pregiudiziali.
Innanzitutto, per quanto attiene all’eccezioni secondo cui nel caso di specie l’articolo 50 della Carta e l’articolo 54 della CAAS non troverebbero applicazione in quanto la normativa tedesca rilevante non deriverebbe dal diritto dell’Unione, chiarisce che la decisione controversa è stata adottata sulla base della normativa italiana; quest’ultima, nella misura in cui recepisce la direttiva 2005/29, costituisce attuazione del diritto dell’Unione con conseguente applicazione della Carta. Parimenti, per quanto riguarda l’interpretazione dell’articolo 54 della CAAS, ricorda che la CAAS fa parte integrante del diritto dell’Unione in forza del protocollo n. 19 sull’acquis di Schengen, allegato al Trattato di Lisbona.
Inoltre, con riferimento al rilievo secondo cui nel caso di specie non sussisterebbe l’identità dei fatti, in quanto la decisione dell’AGCM e la decisione tedesca riguarderebbero persone e condotte diverse, la Corte osserva che le questioni relative alla interpretazione del diritto dell’Unione sono di regola assistite da una presunzione di rilevanza. Sul punto, ritiene che l’AGCM non abbia assolto l’onere della prova a suo carico, non essendo riuscita a dimostrare che l’interpretazione del diritto dell’Unione richiesta dal giudice del rinvio non abbia alcun rapporto con la realtà effettiva o con l’oggetto del procedimento principale o riguardi un problema di carattere ipotetico.
Passando ad esaminare nel merito le questioni pregiudiziali, per rispondere al primo quesito la Corte ribadisce che la natura penale dei procedimenti e delle sanzioni, ai fini dell’applicazione dell’art. 50 della Carta, deve essere vagliata sulla scorta di tre criteri, e segnatamente: la qualificazione giuridica dell’illecito nel diritto nazionale, la natura medesima dell’illecito e il grado di severità della sanzione[4].
Ebbene, nel caso di specie, la sanzione e il procedimento di cui all’art. 27, co. 9 cod. cons. risultano qualificati come “amministrativi”; questo dato, tuttavia, non è di per sé ostativo all’applicazione dell’art. 50 CDFUE, dovendosi compiere una verifica alla luce degli ulteriori criteri.
Per quanto attiene alla natura dell’illecito, questa impone di verificare se la sanzione persegua una finalità repressiva, eventualmente anche non disgiunta da una preventiva. Nel caso di specie, la sanzione prevista da tale disposizione si aggiunge, obbligatoriamente, alle altre misure che l’AGCM può adottare rispetto a pratiche commerciali scorrette e che comprendono, in particolare, il divieto di proseguire o ripetere le pratiche in questione. Tant’è che, secondo quanto osservato dal Governo italiano, sarebbe proprio tale ultimo divieto a svolgere una funzione repressiva, con la conseguenza che la sanzione de qua avrebbe la diversa finalità di privare l’impresa interessata dell’indebito vantaggio concorrenziale acquisito.
Tuttavia, un siffatto scopo non è affatto menzionato nella disposizione in esame; inoltre, anche a ritenere che sia questa la finalità, la circostanza che la sanzione pecuniaria varia a seconda della gravità e della durata dell’illecito di cui trattasi testimonia una certa gradualità e progressività tipica delle sanzioni. Da ultimo, lo scopo di privare l’impresa dell’indebito vantaggio acquisito collide con la previsione di un importo massimo (il raggiungimento dello scopo sarebbe infatti vanificato in tutti quei casi in cui l’indebito vantaggio concorrenziale superi tale soglia) e di un importo minimo (nell’ambito di determinate pratiche commerciali scorrette quest’ultimo potrebbe infatti risultare superiore al vantaggio concorrenziale).
Per quanto concerne infine il terzo criterio, la Corte rileva come il grado di severità venga valutato in funzione della pena massima, con la conseguenza che una sanzione amministrativa pecuniaria che può raggiungere un importo di 5 milioni di euro presenta un grado di severità tale da far propendere per il riconoscimento della natura penale.
Sulla scorta di siffatte argomentazioni, la Corte conclude ritenendo che l’art. 50 della Carta deve essere interpretato nel senso che una sanzione amministrativa pecuniaria prevista dalla normativa nazionale, irrogata a una società dall’autorità nazionale competente in materia di tutela dei consumatori per pratiche commerciali sleali, benché sia qualificata come sanzione amministrativa dalla normativa nazionale, costituisce una sanzione penale quando persegue una finalità repressiva e presenta un elevato grado di severità.
3.1 La decisione della CGUE: la seconda questione pregiudiziale
Con riferimento al secondo quesito la Corte ricorda che l’applicazione del principio del ne bis in idem è soggetta a una duplice condizione, vale a dire, da un lato, che vi sia una decisione definitiva anteriore (bis) e, dall’altro, che gli stessi fatti siano oggetto tanto della decisione anteriore quanto del procedimento o della decisione successivi (idem)[5].
Nel caso di specie, la decisione tedesca è divenuta definitiva il 13 giugno 2018 e dunque in epoca successiva alla decisione dell’AGCM sicché, rettamente, la stessa non è stata invocata nell’ambito del procedimento dinnanzi all’autorità amministrativa italiana. Ad opposte conclusioni deve giungersi a seguito dell’acquisizione del carattere di definitività, in conseguenza del quale la medesima decisione può certamente essere fatta valere dinnanzi al giudice amministrativo; a nulla rilevando la circostanza che la stessa sia divenuta definitiva a seguito del pagamento e della rinuncia alla contestazione da parte della VWA[6].
Per quanto attiene al requisito dell’idem, dalla formulazione dell’articolo 50 della Carta discende che esso vieta di perseguire o sanzionare penalmente una stessa persona più di una volta per lo stesso reato. Ebbene, da un lato, entrambe le decisioni riguardano la stessa persona giuridica, vale a dire la VWAG, a nulla rilevando la circostanza che la decisione AGCM sia diretta anche alla VWGI; dall’altro, il criterio rilevante ai fini della valutazione della sussistenza di uno stesso reato è quello dell’identità dei fatti materiali, intesi come esistenza di un insieme di circostanze concrete inscindibilmente collegate tra loro che hanno condotto all’assoluzione o alla condanna definitiva dell’interessato[7].
Nel caso di specie, il giudice del rinvio prende in considerazione una situazione in cui una persona giuridica è oggetto di sanzioni di natura penale per gli stessi fatti nell’ambito di due procedimenti distinti, con la conseguenza che, secondo tale giudice, la condizione dell’idem risulterebbe soddisfatta. Tuttavia, la Corte rileva come il medesimo giudice faccia altresì riferimento all’«analogia» e all’«omogeneità» dei fatti, condizioni, queste ultime, insufficienti ai fini dell’applicazione del principio del ne bis in idem.
Sul punto, la Corte osserva in primo luogo che la negligenza nella supervisione dell’attività da parte di un’organizzazione con sede in Germania (oggetto della decisione tedesca) è condotta distinta dalla commercializzazione in Italia di veicoli muniti di un impianto vietato e dalla diffusione di pubblicità ingannevole in tale Stato membro (oggetto della decisione AGCM). In secondo luogo, nella misura in cui la decisione tedesca riguarda la commercializzazione di veicoli muniti di un siffatto impianto di manipolazione vietato anche in Italia, nonché la diffusione di messaggi pubblicitari scorretti relativi alle vendite di tali veicoli, la mera circostanza che un’autorità di uno Stato membro menzioni un elemento di fatto che riguarda il territorio di un altro Stato membro non può essere sufficiente per ritenere che tale elemento di fatto sia stato considerato tra gli elementi costitutivi di tale infrazione; a tali fini, piuttosto, occorre da un lato, accertare che tale autorità si sia effettivamente pronunciata su detto elemento di fatto nell’accertamento dell’infrazione, dall’altro, dimostrare la responsabilità della persona perseguita per tale infrazione ed eventualmente sanzionarla[8]. In terzo luogo, dalla decisione tedesca risulta che le vendite di siffatti veicoli in altri Stati membri sono state prese in considerazione dalla Procura in sede di calcolo della somma di 995 milioni di euro, disposta a carico della VWAG. In quarto luogo, la stessa Procura ha espressamente rilevato che, trattandosi di medesimi fatti[9], il principio del ne bis in idem, quale sancito nella costituzione tedesca, osterebbe all’irrogazione di ulteriori sanzioni penali al gruppo Volkswagen.
Alla luce delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene che il principio del ne bis in idem sancito all’articolo 50 della Carta deve essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale che consente il mantenimento di una sanzione pecuniaria di natura penale irrogata a una persona giuridica per pratiche commerciali sleali nel caso in cui tale persona abbia riportato una condanna penale per gli stessi fatti in un altro Stato membro, anche se detta condanna è successiva alla data della decisione che irroga tale sanzione pecuniaria ma è divenuta definitiva prima che la sentenza sul ricorso giurisdizionale proposto avverso tale decisione sia passata in giudicato.
3.2 La decisione della CGUE: la terza questione pregiudiziale
Prima di rispondere al terzo quesito, la Corte ricorda la propria facoltà di riformulare le questioni sottopostele. Nel caso di specie, i giudici di Lussemburgo ritengono che i riferimenti normativi indicati dal giudice del rinvio[10] non siano rilevanti ai fini della soluzione della controversia.
In primo luogo, l’articolo 54 della CAAS mira a garantire che una persona condannata che abbia scontato la sua pena o, viceversa, che sia stata definitivamente assolta in uno Stato membro, possa circolare all’interno dello spazio Schengen senza dover temere di essere perseguita per gli stessi fatti in un altro Stato membro[11]; il procedimento principale, tuttavia, attiene a due imprese con sede l’una in Germania e l’altra in Italia, sicché la norma in esame non appare rilevante. In secondo luogo, l’articolo 3, paragrafo 4, della direttiva 2005/29 dispone che, in caso di contrasto tra le disposizioni di tale direttiva e altre norme dell’Unione disciplinanti aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali, queste ultime debbano essere ritenute prevalenti; dall’ordinanza di rinvio, però, non risulta che nel caso di specie sussista un contrasto tra norme dell’Unione. In ogni caso, poiché l’articolo 3, paragrafo 4, della direttiva 2005/29 mira specificamente ad evitare un cumulo di procedimenti e di sanzioni, tale disposizione non è rilevante al fine di stabilire in quali circostanze siano ammesse deroghe al principio del ne bis in idem. In terzo luogo, l’articolo 13, paragrafo 2, lettera e), della direttiva non è applicabile ratione temporis al procedimento principale, poiché tale disposizione, introdotta dalla direttiva 2019/2161, è in vigore solo a far data dal 28 maggio 2022.
Tanto premesso, i giudici di Lussemburgo ritengono che, con la sua terza questione, il giudice del rinvio abbia chiesto, in sostanza, a quali condizioni siano ammesse limitazioni al principio del ne bis in idem, sancito dall’articolo 50 della Carta.
Limitazioni di tal fatta possono essere giustificate sulla base dell’articolo 52, paragrafo 1 a condizione che: siano previste dalla legge, garantiscano il contenuto essenziale di detti diritti e libertà e, nel rispetto del principio di proporzionalità, siano necessarie per il perseguimento di finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o per la protezione di diritti e libertà altrui. Nel caso di specie, è compito del giudice del rinvio verificare se l’intervento di ciascuna delle autorità nazionali interessate fosse previsto dalla legge e se tale requisito possa dirsi rispettato anche laddove vengano in considerazione normative diverse.
Con riferimento al perseguimento di un obiettivo di interesse generale, la Corte osserva che le due normative nazionali perseguono obiettivi legittimi e distinti, e nello specifico: la disposizione tedesca mira a far sì che le imprese e i loro dipendenti agiscano nel rispetto della legge e sanziona, pertanto, l’inadempimento colposo dell’obbligo di vigilanza nell’ambito di un’attività imprenditoriale; di contro, le norme del codice del consumo applicate dall’AGCM recepiscono la direttiva 2005/29 e mirano a conseguire un livello elevato di tutela dei consumatori, contribuendo nel contempo al corretto funzionamento del mercato interno.
Riguardo al principio di proporzionalità, quest’ultimo richiede che il cumulo di procedimenti e di sanzioni previsto dalla normativa nazionale non superi i limiti di quanto idoneo e necessario al conseguimento degli scopi legittimi perseguiti dalla normativa, fermo restando che, qualora sia possibile una scelta fra più misure appropriate, è opportuno ricorrere alla meno restrittiva. La circostanza che due procedimenti perseguano obiettivi di interesse generale distinti - la cui tutela cumulativa risulta legittima -, può essere presa in considerazione quale fattore diretto a giustificare tale cumulo, a condizione che tali procedimenti siano complementari e che l’onere supplementare rappresentato da tale cumulo possa trovare giustificazione proprio nel perseguimento dei due diversi obiettivi.
Sulla scorta di siffatte argomentazioni, la Corte ribadisce pertanto che, affinché un cumulo possa essere giustificato, occorre che siano soddisfatte tre condizioni, vale a dire: che tale cumulo non costituisca un onere eccessivo per l’interessato; che esistano norme chiare e precise che consentano di prevedere quali atti e omissioni possano essere oggetto di cumulo; che i procedimenti in questione siano stati condotti in modo sufficientemente coordinato e ravvicinato nel tempo[12].
Ebbene, per quanto attiene alla prima di tali condizioni, la Corte osserva che la decisione dell’AGCM prevede una sanzione pecuniaria di cinque milioni di euro, che si aggiungerebbe alla sanzione pecuniaria di un miliardo di euro irrogata dalla decisione tedesca. Considerato che la VWAG ha accettato tale ultima sanzione pecuniaria, non risulta che la sanzione irrogata dall’AGCM - il cui importo peraltro corrisponde soltanto allo 0,5% della sanzione impartita dalla decisione tedesca - abbia avuto come conseguenza l’eccessiva onerosità del cumulo; né, in senso contrario, rileva la circostanza che l’AGCM abbia irrogato la sanzione massima prevista dalla legge.
Quanto alla seconda condizione, la Corte ritiene che, nonostante il giudice del rinvio non abbia fatto menzione di disposizioni tedesche o italiane che prevedano specificamente la possibilità di un cumulo, la VWAG avrebbe comunque potuto prevedere che la propria condotta potesse comportare l’apertura di procedimenti e la conseguente irrogazione di sanzioni in almeno due Stati membri, in ragione della violazione di norme applicabili alle pratiche commerciali sleali o anche di norme diverse come quelle previste dalla legge sugli illeciti amministrativi.
Per quanto riguarda la terza condizione, i giudici di Lussemburgo rilevano che non vi è stato alcun coordinamento tra la Procura tedesca e l’AGCM, nonostante i procedimenti in questione siano stati condotti in parallelo per alcuni mesi e la stessa Procura tedesca fosse a conoscenza del provvedimento dell’AGCM nel momento in cui ha adottato la propria decisione.
Ed in effetti, sebbene il regolamento (CE) n. 2006/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio preveda un meccanismo di cooperazione e coordinamento tra le autorità nazionali responsabili dell’esecuzione della normativa che tutela i consumatori, la Procura tedesca, a differenza dell’AGCM, non rientra tra queste autorità. Peraltro, la Procura tedesca ha preso contatti con Eurojust proprio al fine di evitare il cumulo di procedimenti penali nei confronti della VWAG in vari Stati membri[13]; tuttavia, per i fatti oggetto della decisione tedesca, le autorità italiane non hanno rinunciato ai procedimenti penali a carico della medesima società, né AGCM ha partecipato al tentativo di coordinamento nell’ambito di Eurojust.
Sul punto, nonostante il governo italiano affermi che, per ritenere giustificato il cumulo, sia sufficiente verificare soltanto se il principio del ne bis in idem sia rispettato nella sua «dimensione sostanziale», così dovendosi verificare solo se la sanzione complessiva risultante dai due procedimenti non sia manifestamente sproporzionata, senza che occorra anche il coordinamento tra i due procedimenti, la Corte ribadisce che le condizioni che giustificano siffatto cumulo - così come stabilite dalla giurisprudenza della stessa CGUE -, non possono subire variazioni a seconda del caso concreto. Sicché, nonostante il coordinamento di procedimenti o sanzioni riguardanti gli stessi fatti possa rivelarsi più difficile nei casi in cui le autorità appartengano a Stati membri diversi, tali aspetti pratici non possono in ogni caso comportare una relativizzazione del requisito in questione.
Sulla sorta di tali argomentazioni la Corte conclude ritenendo che l’articolo 52, paragrafo 1, della Carta deve essere interpretato nel senso che esso autorizza la limitazione dell’applicazione del principio del ne bis in idem, sancito all’articolo 50 della Carta, in modo da consentire un cumulo di procedimenti o di sanzioni per gli stessi fatti, purché le condizioni previste all’articolo 52, paragrafo 1, della Carta, come precisate dalla giurisprudenza, siano soddisfatte, vale a dire qualora, in primo luogo, tale cumulo non rappresenti un onere eccessivo per l’interessato, in secondo luogo, esistano norme chiare e precise che consentano di prevedere quali atti e omissioni possano essere oggetto di cumulo e, in terzo luogo, i procedimenti di cui trattasi siano stati condotti in modo sufficientemente coordinato e ravvicinato nel tempo.
4. Il ne bis in idem: da garanzia processuale a garanzia sostanziale. Ricadute applicative
La sentenza in commento interviene nel clima di incertezza generato dalle rivisitazioni che hanno interessato il principio in esame. Infatti, com’è noto, l’istituto del ne bis in idem, da tempo presente nell’ordinamento interno ed europeo, grazie all’apporto della giurisprudenza ha subito diverse innovazioni che ne hanno mutato - con esiti differenti - il campo applicativo.
Nello specifico, sul piano sovranazionale, il principio si trova sancito da un lato, dall’art. 50 CDFUE[14] e dall’art. 54 della Convenzione di Schengen[15]; dall’altro, dall’art. 4 del Protocollo n. 7 CEDU[16]. I due concetti non sono tra loro slegati dovendo semmai essere intesi in un rapporto di armonia e coerenza, in virtù della clausola orizzontale di salvaguardia di cui all’art. 52 CDUE in base alla quale, quando la Carta riconosce un diritto corrispondente ad uno previsto dalla CEDU, deve garantire almeno lo stesso livello di tutela[17]. In ambito interno, il principio è poi codificato dall’art. 649 c.p.p., che sancisce il divieto di sottoporre l’imputato, già prosciolto o condannato con decisione divenuta irrevocabile, ad un secondo giudizio per il medesimo fatto.
Ebbene, entrambi i requisiti richiesti ai fini dell’applicazione della garanzia sono statti oggetto di interpretazioni evolutive da parte della giurisprudenza sovranazionale.
Da un lato, incidendo sul concetto di idem, la Corte EDU ha esteso il principio de quo anche ai casi in cui uno dei due procedimenti in questione, sebbene formalmente amministrativo, comporti l’irrogazione di una sanzione sostanzialmente penale[18]. Tale assunto trova una compiuta giustificazione nel progressivo processo di assimilazione tra le due figure, che ha interessato tanto le garanzie sostanziali quanto quelle procedimentali e processuali.
Dall’altro, la stessa Corte Edu ha operato un revirement in relazione alla nozione di bis. In dettaglio, in occasione del caso A e B c. Norvegia, la Grande Chambre ha chiarito che «Non viola il ne bis in idem convenzionale la celebrazione di un processo penale, l’irrogazione della relativa sanzione, nei confronti di chi sia già stato sanzionato in via definitiva dall’amministrazione tributaria con una sovrattassa (nella species pari al 30% dell’imposta evasa) purché sussista tra i due procedimenti una “connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta»[19].
Con questa pronuncia, dunque, la Corte Edu non ha escluso che ciascuno Stato possa articolare la risposta sanzionatoria tramite procedimenti distinti, purché temporalmente vicini e prevedibili ex ante; di conseguenza, ha invitato gli Stati ad adottare meccanismi in grado di unificare i procedimenti sanzionatori tramite una adeguata interazione tra le varie autorità competenti.
Nell’adempiere siffatto compito, i legislatori nazionali avrebbero dovuto curare, da un lato, che l’accertamento dei fatti in un procedimento venisse utilizzato anche nell’altro procedimento, così evitando inutili duplicazioni anche a livello istruttorio; dall’altro, che la sanzione imposta nel procedimento conclusosi per primo venisse tenuta in debito conto nell’altro, il fine di irrogare un trattamento sanzionatorio complessivamente proporzionato.
All’evidenza, con una simile interpretazione la Corte Edu ha inciso in maniera significativa sulla portata del ne bis in idem. Il principio in esame, infatti, da garanzia “processuale assoluta” - idonea cioè ad impedire l’instaurazione di nuove azioni penali o anche solo il rischio di tali azioni - è divenuto garanzia “sostanziale relativa”, in quanto dipendente dall’ulteriore requisito della connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta tra i due procedimenti[20].
Quest’ultimo corso giurisprudenziale, fondato appunto sul criterio della connessione sufficientemente stretta tra i procedimenti, ha evidenziato fin da subito molteplici criticità.
Innanzitutto, ha comportato una drastica riduzione del campo applicativo del divieto, con conseguenze ancora più dirompenti in relazione a quel processo di estensione delle garanzie CEDU cui si faceva poc’anzi riferimento.
In secondo luogo, l’indeterminatezza del criterio indicato ha l’effetto ultimo di lasciare ampio margine di apprezzamento all’interprete, il quale di volta in volta si trova a dover ricavare la regola dal singolo caso concreto, con un approccio inevitabilmente casistico e foriero di plurime incertezze.
Le problematiche indicate sembravano essere state parzialmente risolte dalla stessa Corte di Giustizia, che qualche anno fa è stata chiamata a pronunciarsi sulla questione in conseguenza di tre rinvii pregiudiziali sollevati dai giudici italiani[21].
In dettaglio, con la sentenza Grande Sezione, 20 marzo 2018, C-537/16, la CGUE, aderendo al medesimo orientamento della Corte Edu, ha ritenuto ammissibile il cumulo, purché nel rispetto delle condizioni indicate, vale a dire: il perseguimento di un interesse generale e di scopi complementari; l’indicazione di regole chiare e precise, tali da consentire al soggetto accusato di prevedere quali atti e quali omissioni possano costituire oggetto del cumulo; un coordinamento fra i procedimenti, al fine di limitare a quanto è strettamente necessario l’onere supplementare che un cumulo comporta; la proporzionalità del complessivo trattamento sanzionatorio rispetto alla gravità dell’illecito[22].
Peraltro, anche in ottemperanza alla clausola di salvaguardia di cui all’art. 52 CDFUE, la CGUE ha precisato che i criteri indicati «assicurano un livello di tutela del principio del ne bis in idem che non incide su quello garantito all’art. 4 del protocollo n. 7 della CEDU, quale interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo».
In altri termini, secondo i giudizi di Lussemburgo lo standard UE in materia di ne bis in idem sarebbe più elevato, essendo le eccezioni al divieto di cumulo meglio definite e, per tale motivo, di applicazione più circoscritta.
5. Il recepimento in ambito interno. Considerazioni di sistema
Nonostante quell’intervento della CGUE, che negli intenti avrebbe dovuto svolgere una portata chiarificatrice, le problematiche applicative legate al nuovo corso giurisprudenziale non hanno trovato una compiuta risoluzione.
A livello interno, un parziale recepimento del revirement è avvenuto ad opera della Corte Costituzionale che, intervenuta per rigettare l’ennesima q.l.c. dell’art. 649 c.p.p., lo ha fatto proprio in ossequio ai nuovi dettami indicati nella causa A e B c. Norvegia.
Nello specifico, la Consulta ha sottolineato come si sia passati «dal divieto imposto agli Stati aderenti di configurare per lo stesso fatto illecito due procedimenti» tra loro indipendenti, alla facoltà di «coordinare nel tempo e nell'oggetto tali procedimenti, in modo che essi possano reputarsi nella sostanza come preordinati ad un'unica, prevedibile e non sproporzionata risposta punitiva»[23].
Nella medesima occasione la Corte ha auspicato un intervento normativo, anche al fine di evitare che la soluzione del problema venisse lasciata agli organi giudicanti[24]. Questi ultimi, infatti, proprio in ragione della laconicità del principio enunciato, a cui spesso si aggiunge l’elevato tecnicismo della materia, risultano privi di chiari riferimenti legislativi.
Tant’è che, proprio a riprova delle persistenti difficoltà interpretative, il giudice amministrativo ha sollevato il nuovo rinvio pregiudiziale a cui la CGUE ha risposto con la sentenza in commento[25].
Come in parte già anticipato, all’atto della verifica circa la sussistenza delle condizioni necessarie ai fini della deroga al ne bis in idem, erano emersi i seguenti elementi fattuali: mancanza di una regola chiara e certa che rendesse prevedibile il doppio binario; assenza di qualsiasi forma coordinamento fra i procedimenti indicati; sanzione irrogata nella misura massima in entrambi i casi.
Trattandosi peraltro di una materia diversa (vale a dire quella attinente alle pratiche commerciali scorrette) da quella rispetto alla quale la Corte era già intervenuta per recepire il ne bis in idem come garanzia “sostanziale” (rappresentata generalmente dal tema delle manipolazioni del mercato), la Sesta Sezione ha ritenuto di dover chiedere chiarimenti interpretativi alla CGUE.
Il nuovo rinvio da parte del giudice amministrativo era apparso come una sorta di invito alla Corte di Giustizia quanto meno a circoscrivere, nella portata applicativa, le deroghe al principio in esame, a riprova della preoccupazione in ordine ai possibili effetti distorsivi in termini di garanzie.
Ed in effetti la Corte, aderendo ad una interpretazione rigida dei requisiti che giustificano le deroghe al ne bis in idem, sembra aver colto tali sollecitazioni, ritenendo il coordinamento tra i procedimenti elemento indispensabile ai fini delle limitazioni del principio.
Peraltro, come accennato in apertura, la decisione in commento riveste importanza anche sotto altro profilo: tale sentenza rappresenta ulteriore conferma dell’adesione, da parte della CGUE, al filone giurisprudenziale volto a vagliare la natura penalistica di una sanzione sulla scorta di criteri di matrice sostanziale.
Ed in effetti, alla base dell’applicazione del principio del ne bis in idem si pone proprio il riconoscimento della natura sostanzialmente penale della sanzione irrogata dall’AGCM sulla scorta degli Engel criteria.Anche sotto tale profilo, la pronuncia non rappresenta una assoluta novità, inserendosi in quel percorso di adesione ai dettami sanciti dalla Corte EDU già da tempo avviato anche da parte della CGUE[26].
Dal riconoscimento della natura punitiva della sanzione deriva l’applicazione del regime giuridico proprio delle pene in senso stretto, nell’ambito di un processo di progressiva commistione tra i due modelli sanzionatori[27].
Ebbene, siffatto processo trova in questa sentenza un ulteriore passo in avanti, rappresentato dall’estensione alle sanzioni “punitive” di un’altra garanzia processuale, quale risulta essere appunto il divieto del bis in idem[28].
[1] In dettaglio, ai sensi dell’art. 20, co. 2 «Una pratica commerciale è scorretta se è contraria alla diligenza professionale, ed è falsa o idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che essa raggiunge o al quale è diretta o del membro medio di un gruppo qualora la pratica commerciale sia diretta a un determinato gruppo di consumatori»; ai sensi dell’articolo 21, co. 1 «È considerata ingannevole una pratica commerciale che contiene informazioni non rispondenti al vero o, seppure di fatto corretta, in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva, induce o è idonea ad indurre in errore il consumatore medio riguardo ad uno o più dei seguenti elementi e, in ogni caso, lo induce o è idonea a indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso: (...) b) le caratteristiche principali del prodotto, quali la sua disponibilità, i vantaggi, i rischi, l’esecuzione, la composizione, gli accessori, l’assistenza post-vendita al consumatore e il trattamento dei reclami, il metodo e la data di fabbricazione o della prestazione, la consegna, l’idoneità allo scopo, gli usi, la quantità, la descrizione, l’origine geografica o commerciale o i risultati che si possono attendere dal suo uso, o i risultati e le caratteristiche fondamentali di prove e controlli effettuati sul prodotto»; ai sensi dell’articolo 23, co. 1, lett. d) : «Sono considerate in ogni caso ingannevoli le seguenti pratiche commerciali: (...) d) asserire, contrariamente al vero, che un professionista, le sue pratiche commerciali o un suo prodotto sono stati autorizzati, accettati o approvati, da un organismo pubblico o privato o che sono state rispettate le condizioni dell’autorizzazione, dell’accettazione o dell’approvazione ricevuta».
[2] Ed in particolare il riferimento è alla nota sentenza del 20 marzo 2018, Garlsson Real Estate e a., causa C‑537/16.
[3] Così Cons. Stato, Sez. VI, ord. 7 gennaio 2022, n. 68.
[4] Così sentenza del 4 maggio 2023, MV – 98, C‑97/21, EU:C:2023:371.
[5] Cfr. sentenza del 22 marzo 2022, bpost, C‑117/2.
[6] Il principio del ne bis in idem, infatti, trova applicazione indipendentemente dalle specifiche modalità con cui la singola decisione è divenuta definitiva.
[7] Così sentenza del 22 marzo 2022, bpost, C‑117/20, EU:C:2022:202
[8] V., in tal senso, sentenza del 22 marzo 2022, Nordzucker e a., C‑151/20, EU:C:2022:203, punto 44).
[9] Ed in effetti, l’installazione di detto impianto, il rilascio dell’omologazione, nonché la promozione e la vendita dei veicoli in questione costituiscono un insieme di circostanze concrete inscindibilmente connesse tra loro.
[10] Vale a dire l’articolo 54 della CAAS, l’articolo 3, paragrafo 4, e l’articolo 13, paragrafo 2, lettera e), della direttiva 2005/29.
[11] V., in tal senso, sentenze del 29 giugno 2016, Kossowski, C‑486/14 e del 28 ottobre 2022, Generalstaatsanwaltschaft München C‑435/22.
[12] In questo senso la CGUE si era già espressa nella sentenza del 22 marzo 2022, bpost, C‑117/20, punto 51).
[13] Tale circostanza risulta dalle informazioni fornite dalla VWAG all’udienza dinanzi alla Corte.
[14] Il quale prevede il divieto di perseguire o condannare una persona per un reato per il quale sia già stata assolta o condannata nell’Unione con sentenza penale definitiva. In questa versione, il principio de quo attiene ai rapporti tra Stati membri e si applica solo nell’attuazione del diritto UE.
[15] Secondo cui una persona già giudicata con sentenza definitiva in uno Stato contraente non può essere sottoposta, per i medesimi fatti, ad un procedimento penale in un altro Stato contraente.
[16] Tale disposizione vieta che ogni persona possa essere perseguita o condannata penalmente dallo stesso Stato per un reato per il quale sia già stata assolta o condannata con sentenza definitiva.
[17]Per un commento alla clausola di salvaguardia si rinvia a F. Ferraro - N. Lazzerini, Art. 52, in R. Mastroianni, O. Pollicino, S. Allegrezza, F. Pappalardo, O. Razzolini (a cura di), Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, Milano, 2017, p. 1061 ss. Sui rapporti tra CDUE e CEDU cfr. B. Nascimbene, Il principio di attribuzione e l’applicabilità della Carta dei diritti fondamentali: l’orientamento della giurisprudenza, in Riv. dir. int., 2015, p 49 ss., I. Anrò, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e CEDU: dieci anni di convivenza, in Federalismi.it, 2020.
[18] Cfr. Corte EDU, sent. 4 marzo 2014, caso Grande Stevens c. Italia. In dottrina, v. A.F. Tripodi, Uno più uno (a Strasburgo) fa due. L’Italia condannata per violazione del ne bis in idem in tema di manipolazione del mercato, in Dirittopenalecontemporaneo.it; G.M. Flick – V. Napoleoni, A un anno di distanza dall'affaire Grande Stevens: dal bis in idem all'e pluribus unum?, in Rivista delle Società, fasc.5, 2015; S. Calvetti, CEDU, sentenza Grande Stevens, e il diritto a non essere giudicati due volte, in Diritto & Giustizia, fasc.32, 2015, pag. 17.
[19]Corte Edu (Grande Camera),15 novembre 2016, A.e B. c. Norvegia, ric. n. 24130/11 e 29758/11.
[20] Sulla tematica si rinvia a C. Lamberti, Sanzioni e ne bis in idem nelle sentenze della corte europea e del giudice nazionale. L’involuzione del principio, in giustamm.it, 2015. Lo stesso criterio, del resto, veniva ribadito dalla Corte qualche anno dopo, in un caso in cui la violazione del ne bis in idem è stata riscontrata proprio in ragione della limitata sovrapposizione nel tempo dei due procedimenti nonché della circostanza che la raccolta e la valutazione delle prove nei procedimenti fosse stata largamente indipendente; il riferimento è Corte Edu, 18 maggio 2017, Jóhannesson c. Islanda.
[21] Il riferimento è in particolare a: causa Menci, sollevata dal Tribunale di Bergamo; causa Garlsson e causa Di Puma, sollevata dalla II sez. civile della Cassazione, tutte riunite dalla CGUE e decise con sentenza Grande Sezione, 20 marzo 2018, C-537/16.
[22] In dottrina si rinvia a B. Nascimbene, Il divieto di bis in idem nella elaborazione della Corte di Giustizia dell’Unione europea, in Sistema penale, 2020, fasc. 4, p. 95-108; L. Mariconda, Diritto antitrust e ne bis in idem nel dialogo tra le corti europee, in Diritto del Commercio Internazionale, fasc.4, dicembre, 2020, pag. 1053; S. Schiavone, La nozione di “idem” nel dialogo tra Corti: un unico criterio per una tutela effettiva, anche in materia di concorrenza , in Cassazione Penale, fasc.7-8, luglio 2022.
[23] Così Corte Cost., sent. 2 marzo 2018, n. 43.
[24] In questa direzione v. G. Angiolini, Una giustizia ancora irrisolta: il ne bis in idem “europeo” e l’Italia, in Riv. it. dir. e proc. Penale, 2018, fasc. 4, p. 2136.
[25] Cons. Stato, Sez. VI, ord. 7 gennaio 2022, n. 68.
[26] Si v. in tal senso CGUE sentenze del 20 marzo 2018, Menci, C-524/15 e Garlsson Real Estate, C-537/16; del 20 marzo 2018, Di Puma e Zecca, C-596/16 e C-597/16; CGUE, sentenza 2 febbraio 2021, causa C-481/19.
[27] Sul tema, la dottrina è amplissima; tra gli altri, si rinvia a F. Goisis, La tutela del cittadino nei confronti delle sanzioni amministrative tra diritto nazionale ed europeo, Torino, 2018; P. Cerbo, La nozione di sanzione amministrativa e la disciplina applicabile, in A. Cagnazzo - S. Toschei - F.F. Tuccari (a cura di), La sanzione amministrativa, Milano, 2016; M.A. Sandulli, Sanzioni non pecuniarie della pa, in Treccani. Il libro dell’anno del diritto, Istituto dell’Enciclopedia Italiana Roma, 2015; M. Allena, Il caso Grande Stevens c. Italia: le sanzioni CONSOB alla prova dei principi CEDU, in Giornale dir. amm., 2014, pp. 1053 ss.; Id, La sanzione amministrativa tra garanzie costituzionali e principi CEDU: il problema della tassatività-determinatezza e prevedibilità, in www.federalismi.it.
[28] Appare il caso di precisare come, in ambito interno, l’applicazione del ne bis in idem alle sanzioni “punitive” sia già stata riconosciuta dalla Corte Costituzionale con la sentenza 12 maggio 2016, n. 102. Per un commento alla sentenza, si rinvia a F. Vigano’, Ne bis in idem e doppio binario sanzionatorio in materia di abusi di mercato: dalla sentenza della Consulta un assist ai giudici comuni, in Dirittopenalecontemporaneo.it, maggio 2016.
Nella giornata di oggi, 12 gennaio 2024, presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Roma 3, sarà conferito il premio “Giulia Cavallone” edizione 2023, premio nato da un’iniziativa della Fondazione Piero Calamandrei e della Famiglia Cavallone per ricordare e onorare la memoria di Giulia Cavallone, una giovane donna, magistrata, scomparsa a soli trentasei anni dopo una lunga lotta contro il cancro. Una malattia che peraltro non le impedì di amministrare giustizia fino all’ultimo in quell’aula del Tribunale Penale di Roma che, per tale motivo, da allora porta il suo nome.
Come è stato già più volte ricordato in occasione delle precedenti edizioni del premio, Giulia Cavallone è stata una donna e una giurista di respiro internazionale.
Dopo essersi laureata in Giurisprudenza con il massimo dei voti presso l’Università Roma Tre, con una tesi dal titolo “Il reato transnazionale in materia di terrorismo”, conseguì successivamente il dottorato di ricerca presso l’Università “La Sapienza” di Roma, in cotutela con l’Universitè Paris II – Panthéon Assas, con una tesi dal titolo “Obblighi europei di tutela penale e principio di legalità in Italia e in Francia”.
Grazie a numerose borse di studio vinte, svolse periodi di ricerca anche presso l’Università di Losanna e presso l’Istituto di diritto penale straniero e internazionale “Max Planck” di Friburgo, in Germania.
Svolse altresì uno stage presso la Rappresentanza permanente dell’Italia presso l’Unione Europea, a Bruxelles, ove ebbe modo di approfondire la sua conoscenza del diritto e delle istituzioni europee.
Fu giudice penale presso il Tribunale di Velletri, sino all’ottobre 2018, e successivamente ricoprì le medesime funzioni presso il Tribunale di Roma sino alla data della sua morte, prematura e ingiusta, avvenuta in una tiepida mattina del 17 aprile 2020.
In considerazione dell’apprezzamento unanime della sua figura professionale e umana, del prestigio acquisito in Italia e all’estero nonostante la giovane età, del suo instancabile esercizio della funzione giurisdizionale, che la portò a presiedere sino all’ultimo le udienze di un delicato processo d’interesse nazionale, nonché del suo impegno sociale nel promuovere in prima persona l’emancipazione e la difesa dei diritti delle donne lavoratrici in Senegal, la Giunta Capitolina di Roma ha deliberato il 30 ottobre 2020 di riservarle un’area presso il Cimitero Monumentale del Verano, quale persona che ha onorato con la sua vita la città di Roma in Italia e nel mondo.
Anche il Tribunale di Velletri, sua prima sede di servizio ha deliberato, come già avvenuto a Roma, di intitolarle l’aula dove ella aveva tenuto le sue udienze.
In linea con la sua storia personale, il Premio “Giulia Cavallone” ha pertanto lo scopo di finanziare soggiorni di studio presso Università e altri centri esteri di riconosciuto prestigio per consentire a giovani dottorandi nel campo del diritto e della procedura penale di ampliare le loro conoscenze, così da formare giuristi sensibili alle diversità culturali, con una mente aperta, critica e disposta al confronto, la cui azione sia improntata ai valori della solidarietà e della tutela della persona, così com’era Giulia Cavallone.
Come hanno già scritto di lei, Giulia Cavallone «era arrivata in magistratura dopo anni di vita vissuta, dedicati con passione alla ricerca e all’accademia, da giurista (e da persona) matura e raffinata, cui erano bastati pochi mesi di preparazione per superare il concorso. Pochi mesi in cui Giulia studiava di sera, in un monolocale al sesto piano senza ascensore dal cui abbaino si vedeva la Tour Eiffel, di ritorno da lunghe giornate passate all’Institut de Droit Pénal china sulla sua tesi di dottorato. Pochi mesi durante i quali aveva vinto prestigiose borse di studio internazionali, aveva fatto la spola tra Parigi ed Heidelberg, aveva pubblicato articoli scientifici in lingue diverse, e diverse dalla propria, si era fatta ospitare a casa degli amici la sera prima delle conferenze internazionali in cui aveva relazionato. Mesi in cui aveva portato avanti il suo impegno nel volontariato, dando il via a nuovi importanti progetti, partendo per l’Africa. Tutto questo senza mai mancare una serata a teatro, una mostra, un concerto, un’occasione di viaggio, una cena con gli amici. E a cena Giulia dava il meglio di sé. Era una delle persone più brillanti che si potesse sperare di avere intorno. Il suo senso dell’umorismo era la punta dell’iceberg della sua intelligenza. Portava la propria erudizione ed il proprio spessore come si portano un paio di jeans, con la stessa leggerezza con cui, poi, avrebbe portato il fardello della malattia. Che non le avrebbe impedito di continuare a viaggiare, di costruire una casa con il suo compagno, di rinsaldare e coltivare le sue amicizie ed i suoi interessi, ed anzi l’avrebbe spinta a farlo con sempre maggior convinzione. La fatica fisica e morale delle cure, l’apprensione con cui parlava della malattia, l’estenuante alternarsi di speranza e sconforto, nel suo quotidiano sbiadivano dietro l’ironia con cui sapeva celarli …. La gentilezza di cui tutti raccontano era il sintomo di una grande maturità e consapevolezza di sé: non solo indole, ma frutto delle tante esperienze fatte, di un convinto e profondo umanismo. Di pari passo con la dedizione per il lavoro in cui così tanto credeva andava l’impegno che metteva in ogni altro aspetto del vivere, la cura che dedicava alle proprie relazioni, ai propri interessi e passioni, al costruire la propria esistenza di essere umano. Giulia aveva compreso che l’unico modo per essere un buon giudice, un giudice giusto, è essere una persona giusta, qualsiasi cosa voglia dire. Rispettosa della vita e del mondo. Studiosa non solo del diritto, ma dell’umano. (Sibilla Ottoni, Giustizia Insieme, 17 Aprile 2021)»
L’eredità che ci lascia Giulia Cavallone è quella di un esercizio della funzione giurisdizionale come servizio da rendere, mai come un privilegio, sempre con competenza, compostezza, garbo e umanità, aspetti della sua personalità particolarmente ammirabili in un momento storico in cui sembrano prevalere su tutto l’incompetenza, la superficialità, l’incontinenza verbale ed emotiva, il desiderio di fama e di potere come massima realizzazione dell’essere umano.
In questo spirito, il Premio si propone quindi come obiettivo di contribuire a formare non soltanto migliori operatori del diritto ma, anche, migliori cittadini del mondo.
Nell’edizione 2023 il Premio, che, come detto, sarà formalmente consegnato il 12 gennaio 2024, è stato attribuito alla dottoressa Federica Ceccaroni, dottoranda presso l’Università della Tuscia, relativamente al progetto di ricerca “Il concorso dell’impresa nei crimini internazionali tramite azioni “neutrali”. Profili di diritto penale internazionale economico”.
La dottoranda di ricerca in diritto penale internazionale propone di perfezionare presso l’École normale supérieure (ENS) di Parigi lo studio della responsabilità penale degli enti per crimini internazionali, in particolare sollevando l’interrogativo sulla natura delle c.d. azioni neutrali (attività commerciali ordinarie, che appaiono non correlate alla condotta illecita di altri attori), attraverso la lente degli emergenti obblighi di due diligence in materia di diritti umani.
La salvaguardia dei diritti umani attraverso il diritto internazionale è da tempo al centro degli interessi della dottoressa Ceccaroni. Ella, infatti, ha svolto periodi di studi in importanti università straniere (Università di Oxford e Stockholms Universitet, Max Planck Institute for Comparative Public Law and International Law).
La ricerca proposta parte dalla rilevazione fattuale della inadeguatezza dello strumento penale ad affrontare il tema delle violazioni massive dei diritti umani, perpetrate attraverso attività imprenditoriali che si avvalgono di condizioni ambientali che le rendono possibili.
La dottoressa Ceccaroni osserva come la globalizzazione abbia esacerbato forme di criminalità di impresa che attentano ai diritti umani più “nucleari”, nonché avviato un processo di crisi della forza regolativa della legge. L’emergere di nuove forme di giuridicità finisce però, nelle parole della dottoressa, per tessere uno ius commune, che ella auspica poter costituire la base per la rinascita di strumenti regolativi vincolanti. Vengono così introdotte le risposte giuridiche, policentriche e multilivello, relative al fenomeno considerato, al cui interno si situa il diritto punitivo, nazionale e internazionale. Da questo discendono insieme l’importanza e il limite del diritto penale dinanzi al c.d. State corporate crime, ove si intrecciano pubblico e privato e anch’esso oggetto di approfondimento nel progetto di ricerca.
In questo contesto appare puntuale e di particolare interesse l’attenzione verso l’estensione dei limiti della territorialità del diritto punitivo, anche attraverso il concetto di due diligence. A questa idea di un diritto senza confini contribuisce, nell’impostazione della ricerca proposta, anche la giurisdizione domestica, per “la tendenza dei tribunali nazionali a farsi carico delle domande di giustizia provenienti dalle vittime di abusi commessi da attori economici” che si inserisce nel “processo di «denazionalizzazione» del diritto interno, resa possibile attraverso l’attività delle corti giudiziarie”.
Infine, la ricerca analizza le potenzialità e i rapporti con il diritto punitivo classico, interno ed internazionale, di nuovi strumenti sanzionatori, c.d. unilaterali, con finalità preventive e di conformazione della condotta ma che si presentano come vere e proprie sanzioni parapenali, senza peraltro necessità di nesso territoriale, quali quelle previste dal Global Magnitsky Human Rights Accountability Act statunitense.
La complessa proposta di ricerca si conclude con l’interrogativo, cui intende fornire elementi valutativi, circa il diritto penale internazionale come ultima ratio e il suo rapporto con la risposta simbolica degli Stati.
La dr.ssa Ceccaroni potrà avvalersi della opportunità di studio presso l’ENS per completare i molti aspetti aperti della sua ricerca, contribuendo così a un settore del diritto penale in rapida evoluzione e centrale per la tutela dei diritti umani.
È stato altresì giustamente segnalato, dalla Commissione aggiudicatrice del Premio, l’impegno della vincitrice nel volontariato, sia nell’assistenza ai detenuti duranti i corsi di laurea, sia all’estero per la formazione e istruzione di bambini in condizioni disagiate presso il Potter’s Village di Dodowa, nella Regione della Grande Accra in Africa (Ghana), impegno che rimanda inevitabilmente a quello di Giulia Cavallone per l’emancipazione delle donne lavoratrici in Senegal, in un ideale passaggio di testimone nelle attività a favore dei soggetti più deboli.
È auspicio della Fondazione Calamandrei e della Famiglia Cavallone che, anche per il futuro, l’esempio di Giulia possa contribuire a cambiamenti verso una società più giusta, in armonia con quello che può essere ricordato come il suo invito rivolto a tutti noi: “Siate giusti, siate gentili”.
A fine novembre si è celebrato il primo anniversario di ChatGPT, il software di intelligenza generativa più noto che, insieme ad altre forme di applicazioni dell’intelligenza artificiale dai nomi affascinanti (Bard, LLaMM, Claude e simili), ha riproposto il problema della crescita esponenziale e inevitabile dell’intelligenza artificiale, delle sue prospettive, e, secondo molti, delle sue minacce.
Mettendo da parte le riflessioni morali-filosofiche che le nuove tecnologie impongono, prima tra tutte il concreto pericolo che in un futuro vicino esse possano superare e travolgere la centralità dell’uomo, non vi è dubbio che da quando OpenAI ha lanciato ChatGPT nell’autunno del 2022 l’attenzione globale è stata costretta a concentrarsi sui rischi e sui benefici dell’Intelligenza artificiale in campo politico e sociologico. Soprattutto è diventato evidente che, con così tante incognite, è difficile identificare un percorso chiaro e diretto che consenta di sfruttare al meglio queste tecnologie e di modellarne gli usi ai fini di pace, sicurezza e garanzia per i diritti, sia nelle relazioni internazionali sia nei vari campi del diritto interno agli Stati.
È recentissima la notizia che il New York Times ha portato Elon Musk a giudizio davanti alla Corte di Manhattan per la violazione di diritti di copyright, con l’accusa di aver “dato in pasto” a ChatGPT centinaia e centinaia di articoli per istruirlo nell’arte del giornalismo, impossessandosi di risultati per i quali il NYT investe da sempre migliaia e migliaia di dollari in formazione.
Ed è di questi giorni anche la notizia che nel 2021 un robot operaio abbia quasi atterrato un ingegnere della Tesla con cui lavorava, evocando scenari da 2001 Odissea nello Spazio e ponendo ancora una volta il problema del rapporto uomo macchina che Stanley Kubrick aveva già immaginato nel lontano 1968.
Ma passando a rischi ben più gravi di quello economico lamentato dal NYT, e superando l’episodio del 2021 come un mero incidente di percorso (così lo ha definito lo stesso Elon Musk) non vi è dubbio che la crescita e la diversità delle applicazioni dell’intelligenza artificiale, ove lasciata senza controllo, non potrà che aggravare il già netto divario digitale e tecnologico tra chi ha e chi non ha all’interno del sistema internazionale, con nette ricadute anche in ambito nazionale.
Così alimentando i timori più correnti circa l’impatto dell’AI sul libero esercizio di diritti fondamentali quali, ad esempio, il diritto al lavoro, implicando una riduzione dell’occupazione disponibile e talora addirittura la scomparsa di talune tipologie di lavoro che l’AI sarebbe in grado di svolgere in modo automatico, più veloce e meno costoso per le aziende. O, ancora a titolo di esempio, sul diritto alla libertà di riunione e di manifestazione del pensiero che potrebbe essere limitata dall’uso dell’AI, in grado di profilare individui legati a determinati gruppi politici o di opinione. O infine, incidere sulla libertà di informazione e segnatamente sul diritto ad una corretta informazione, alimentando il terreno già fertile della disinformazione.
Poiché la creazione e lo sviluppo dell’AI è di fatto concentrata in pochi Paesi e gestita attraverso una manciata di società private, la maggior parte del mondo dovrà concentrarsi sul problema di creare un quadro di governance comune a tutti per evitare o almeno limitare le possibili azioni avverse di chi, in possesso di tali tecnologie, possa condizionare il resto del pianeta.
Le sfide del 2024 sono tante, a cominciare da quella della gestione dell’informazione, che a livello globale si troverà a fronteggiare la massiccia ondata di elezioni che si svolgeranno in tutto il mondo e il rischio di disinformazione che vi è connesso.
Un numero senza precedenti di oltre 50 Paesi, tra cui alcuni molto popolosi (Bangladesh, India, Iran, Pakistan, Russia, Stati Uniti, solo per citarne alcuni) e che coprono quasi 2 miliardi di persone, si recheranno alle urne nel 2024. Questo rende evidente come disinformazione o fake news potrebbero mettere a serio rischio il democratico svolgimento delle competizioni elettorali.
Ancor prima che l’intelligenza artificiale facesse irruzione nella nostra vita quotidiana con la visibilità che oggi la caratterizza, la crescita di internet e dei social media avevano reso il problema dell’informazione, misinformazione e disinformazione (MDM) una delle più grandi sfide del nostro tempo, con un impatto deflagrante sulle politiche pubbliche e sulla società. In questo scenario, che già si rappresentava come una guerra in perdita, l’AI, ove non opportunamente regolamentata, ha indubbiamente la capacità di aggiungere ulteriore potenza alla pozione avvelenata delle deep fake, dell’infoware e dell’ipercomunicazione[1].
Le premesse non sono buone. L’AI generativa ha un ruolo critico nello sviluppo di sofisticati sistemi di deepfake e ha già contribuito alla proliferazione di immagini e audio fuorvianti.
A mero titolo di esempio la pubblicazione negli Stati Uniti, a novembre di quest’anno, di un video che immagina, in caso di rielezione del presidente Biden, un futuro in cui sciami di migranti attraversano il Paese, mentre soldati armati pattugliano strade vuote in un clima da terza guerra mondiale. I Russi, del resto, avevano già fatto la loro parte pubblicando, a maggio di quest’anno, sul canale russo RT.com, un video che mostrava il Pentagono in fiamme colpito da missili.
Documenti che evidenziano come l’uso della disinformazione - e dell’AI che può renderla sempre più raffinata e credibile - possa falsare la libertà di voto dei cittadini e comunque influenzarne le coscienze.
Senza dimenticare che l’uso dei deep fake prende di mira in particolare le donne, aggiungendo un altro strumento agli abusi digitali e alle molestie che notoriamente le vittimizzano in tutto il mondo.
Forse uno degli ambiti che riceve maggiore attenzione riguarda l’uso militare delle nuove tecnologie nei conflitti attuali e futuri.
Lo stato attuale del mondo, dai conflitti in Ucraina e Gaza ai tanti focolai di tensione che esistono da tempo o che spuntano di continuo, ci offriranno ampie opportunità di testare cosa ci riserva il futuro.
È cresciuta la consapevolezza del pericolo che l’intelligenza artificiale può rappresentare nell’uso delle armi nucleari e di altre armi avanzate ma anche nell’individuazione degli obiettivi da colpire.
Purtroppo anche in quest’ultimo campo i timori si sono rivelati fondati, visto che le recenti esperienze nei conflitti in corso mostrano il pessimo uso fatto dell’AI che non ha operato nel senso di salvaguardare vite umane e garantire il diritto umanitario internazionale, quanto piuttosto è stata finalizzata ad ottenere una maggiore capacità di raggiungimento degli obiettivi bellici, con buona pace delle speranze di chi ipotizzava l’uso benefico dell’intelligenza artificiale nel peacebuilding[2].
Senza contare che la costruzione della pace passa anche attraverso la creazione di un sistema internazionale di limitazione delle disuguaglianze sociali che per contro potrebbero essere esacerbate dall’applicazione dell’AI nel settore finanziario.
I governi e le banche private stanno da tempo utilizzando questi nuovi strumenti per prendere decisioni sui prestiti concedibili e per valutare i rischi rispetto alle operazioni bancarie di ogni livello. E tuttavia un maggior coinvolgimento dell’intelligenza artificiale in termini decisionali nei servizi finanziari, con strumenti che individuano con criteri automatizzati Soggetti e Paesi da considerarsi più o meno rischiosi in termini di investimenti, potrebbe limitare l’accesso alle banche e ai crediti d’aiuto proprio per quei popoli che ne avrebbero più bisogno perché afflitti da guerre, carestie e crisi economiche.
Un’altra area di utilizzo dell’AI che sta richiamando l’attenzione a livello internazionale è la tecnologia di sorveglianza, che può condizionare anche l’esercizio delle attività di polizia e della giurisdizione.
In questo campo l’intelligenza artificiale senz’altro costituisce un ausilio ai sistemi di sicurezza, avendo la capacità di rivedere e analizzare dati e documenti audio con capacità ben più veloci di quanto siano in grado di fare gli umani specialisti nel campo; con risultati forse - a saldo dei margini di errore - anche più precisi.
E tuttavia pone non pochi problemi per il suo possibile utilizzo nel monitoraggio su larga scala delle azioni dei cittadini, in particolare sul fronte della polizia e della giustizia predittive.
Nonostante tutta l’attenzione sembri concentrarsi su ChatGPT, esiste, in tutti gli angoli dell’internet, un incredibile numero di opzioni di intelligenza artificiale generativa prodotta da aziende, governi e enti di ricerca che attingono ad un enorme volume di dati e che mettono in pericolo la privacy della vita quotidiana, delle scelte religiose, sessuali e politiche dei cittadini del mondo: pericolo reso sempre più evidente dall’aumento dell’autoritarismo mondiale e dei continui attacchi ai processi democratici.
A fronte di questo scenario negativo e pieno di dubbi le speranze non mancano.
Prima di tutte quella di usare il tempo che abbiamo per far sì che l’intelligenza artificiale possa rivoluzionare davvero le nostre vite in positivo così come è stato per il progresso tecnologico che fin ora ha comportato un beneficio netto per l’umanità. E che il tempo possa essere usato per conformare risposte normative idonee per plasmare responsabilmente l’evoluzione di questa tecnologia.
L’utilizzo dell’intelligenza artificiale nei conflitti potrebbe essere capovolta rispetto all’uso bellico fin ora registrato per divenire uno strumento prezioso nei processi di pace.
I droni non armati potrebbero svolgere un ruolo importante nel monitoraggio delle linee di contatto e delle violazioni del cessate il fuoco e potrebbero fare un’operazione di verità sulle azioni di guerra, contribuendo, unitamente alle immagini satellitari, a identificare i crimini di guerra e forse evitare, per il timore di essere denunciati alla giustizia internazionale, devastazioni, violenze di massa e violazioni del diritto umanitario internazionale.
Tra gli altri possibili usi benevoli l’utilizzo dei dati storici che l’AI può ricercare e identificare con maggiore facilità e precisione di quanto potrebbero fare significative risorse umane e che potrebbero essere utilizzati in vari settori quali sanità, giustizia e legislazione tanto per citare le più importanti.
Ma affinché questi obiettivi possano essere realizzati, la prima esigenza da soddisfare è la regolamentazione dell’AI con criteri ben determinati, in un quadro di livello globale che tenga conto, in primo luogo, della salvaguardia dei diritti umani e che consenta di sviluppare risposte politiche adeguate a trarne il massimo beneficio e penalizzarne l’uso nocivo.
In quest’ottica sembra che si stiano orientando i governi e le organizzazioni internazionali che stanno discutendo del futuro dell’AI e di come dovrebbe essere gestito, con la proposta di possibili modelli da usare per l’obiettivo generalmente condiviso di evitare i suoi danni, voluti o non voluti che siano.
E, sempre sulla stessa strada, il Segretariato Generale dell’ONU ha lanciato un progetto di discussione che coinvolgerà tutti gli stati membri e culminerà nel “Summit of the Future” previsto per il settembre del 2024 con l’ambiziosa finalità di valutare tutte le implicazioni della computing capacity e degli algoritmi e di raggiungere l’accordo su un Global Digital Compact, valevole e vincolante per tutti i firmatari.
Anche l’Unione Europea sta continuando il suo sforzo, avviato già nel 2018, di creare una governance idonea a mitigare i rischi della tecnologia emergente e sempre più in fase avanzante, al fine di fare in modo che essa possa contribuire al bene pubblico comune.
Il 13 dicembre, dopo più di 2 anni di gestazione. l’Unione ha finalmente raggiunto un accordo politico per l’Artificial Intelligence Act, il regolamento sull’intelligenza artificiale, frutto di una negoziazione su base trilaterale tra Parlamento,Consiglio e Commissione, finalizzata a limitare l’uso dei software deputati alla ricognizione facciale, richiedere alle compagnie che creano e gestiscono i software di elaborare modelli di linguaggio informatico (LLMs) per divulgare e rendere accessibili i dati utilizzati per creare i loro software e imporre alle compagnie che operano nel campo delle nuove tecnologie di effettuare la certificazione del rischio prima che i loro prodotti siano utilizzati.
Pur non essendo stato ancora, al momento, pubblicato il testo definitivo, gli aspetti salienti emersi dalla documentazione già pubblicata, in particolare il draft del testo elaborato dal Parlamento, molto avanzato sul profilo della tutela dei diritti, e dalla conferenza stampa, riguardano in particolare il nodo del riconoscimento facciale da remoto (RBI, Remote Biometric Identification), le proibizioni e le relative sanzioni in caso di violazioni.
Proibiti i sistemi di categorizzazione biometrica che utilizzano caratteristiche sensibili quali convinzioni politiche, religiose filosofiche, orientamento sessuale e razza; nonché la raccolta non mirata di immagini di volti da Internet o da filmati da telecamere a circuito chiuso per create database di riconoscimento facciale; e ancora proibito il riconoscimento e classificazione di emozioni sul posto di lavoro o nelle istituzioni scolastiche; o il cosiddetto social scoring, a classificazione degli individui basata sul comportamento sociale: nonché qualunque tipo di sistema di intelligenza artificiale che sia idoneo, in qualunque forma concepito, a manipolare il comportamento umano e coartare la libera volontà delle persone.
Bandita, infine, la cosiddetta polizia predittiva quanto meno nella forma in cui si valuta il rischio che un certo individuo possa commettere reati futuri sulla base di tratti personali.
Verosimilmente a causa delle pressioni dei governi sul punto, manca una disposizione di messa al bando totale sui sistemi di identificazione da remoto in spazi aperti al pubblico, con la previsione di eccezioni previamente autorizzate dall’autorità giudiziaria e solo per liste di reati rigorosamente definite dalla legislazione. La RBI da remoto ex post potrà essere utilizzata solo per la ricerca mirata di persone condannate o sospettate di aver commesso tali reati; mentre quella in tempo reale, invece, potrà essere utilizzata solo per le ricerche mirate di vittime di reato o per la prevenzione di minacce terroristiche che siano valutate come specifiche e attuali.
Da questo sintetico resoconto emerge che si tratta di una cornice normativa importante sull’uso globale dell’intelligenza artificiale che mira ad avere un impatto simile a quello della regolamentazione europea dell’e-commerce, sulla lotta alla disinformazione e ai linguaggi di odio sui social media e sulla normativa sulla tutela della privacy e sull’uso dei dati privati dei cittadini.
E non vi è dubbio che già il fatto di aver raggiunto un accordo politico vincolante sulla regolamentazione, nonostante la quantità di soggetti e interessi che remavano contro, sia già di per sé un successo.
Ma il successo di maggior peso consisterà nella reale presa di coscienza a livello internazionale - e delle azioni conseguenti - che, dalle finanze al sistema degli armamenti, dai social media alla sanità, dalla giustizia e al ruolo nei conflitti, l’AI è destinata ad espandersi, che un uso non controllato delle sue applicazioni può causare pericoli forse allo stato neppure immaginabili e che la globalità del fenomeno impone che sia la comunità internazionale a dover valutare i possibili modelli per l’individuazione e il conseguimento di tutti gli obiettivi che l’intelligenza potrebbe consentire di raggiungere ove gestita adeguatamente.
Questo risultato consentirebbe anche di riconoscere e apprezzare l’indubbio fascino dell’intelligenza artificiale.
C’è da chiedersi se saremo in grado di cogliere questa opportunità.
[1] ISPI – Istituto Studi Politiche Internazionali Dossier 2023.
[2] USIP- United States Institut of Peace - Ather Ashby: “Un ruolo per l’intelligenza artificiale nella costruzione della pace” - 6.12.2023.
(Immagine: Incisione a colori tratta dall'opuscolo di Joseph Racknitz del 1789 che cercava di svelare il funzionamento segreto del presunto automa di William Kempelen che giocava a scacchi, Fonte: Biblioteca della Humboldt Universität, Berlino)
Per approfondire queste tematiche su Giustizia Insieme:
Machina delinquere non potest di Costanza Corridori, L’Intelligenza Artificiale nei processi decisionali: il pericolo per la giustizia di Rosita D’Angiolella, Nomofilachia, giustizia predittiva e intelligenza artificiale di Giovanni Ariolli.
Sommario: 1. Una premessa sul senso dell’esperienza di componente delle Sezioni Unite civili. - 2. Il “giudicare” ed il “cooperare” delle Sezioni Unite. - 3. Chiarezza e concisione nelle sentenze delle Sezioni Unite. - 4. Qualche conclusione (in movimento).
1. Una premessa sul senso dell’esperienza di componente delle Sezioni Unite civili.
Per affrontare il tema indicato nel titolo vorrei muovere da una domanda: l’interpretazione di una sentenza va operata considerandola come una legge o ha natura negoziale?
Si tratta di una questione assai delicata, come dimostra il dubbio più volte emerso in sede di esame dei ricorsi proposti in sede di legittimità contro le sentenze del giudice di merito al fine di individuare il parametro normativo esatto per consentirne il sindacato. Problema affrontato da diversi precedenti ed oggetto di diverse interpretazioni e, alla fine, posto all’esame delle Sezioni Unite civili.
Cass. S.U. n.11501/2008 ha quindi ritenuto che ai fini dell'interpretazione di provvedimenti giurisdizionali si debba fare applicazione, in via analogica, dei canoni ermeneutici prescritti dagli artt.12 e seguenti disp. prel. cod. civ., in ragione dell'assimilabilità per natura ed effetti agli atti normativi, secondo l'esegesi delle norme (e non già degli atti e dei negozi giuridici), in quanto dotati di "vis imperativa" e indisponibilità per le parti; ne consegue che la predetta interpretazione si risolve nella ricerca del significato oggettivo della regola o del comando di cui il provvedimento è portatore. Pertanto, "la vis normativa del provvedimento giurisdizionale comporta che la correlativa esegesi debba essere coerentemente operata alla stregua della interpretazione delle norme e non di quella degli atti e dei negozi giuridici-cfr.Cass.S.U. nn. 13916/2006 e 24664/07-.
Orbene, sembra importante muovere da questo incipit per tratteggiare il ruolo nomofilattico delle Sezioni unite della Corte di Cassazione[1], in quanto la ricordata soluzione al dubbio iniziale, che dunque parifica la sentenza alla legge quanto ai parametri da utilizzare per interpretarla non risolve, ma lascia inesplorato l’ulteriore quesito in ordine a cosa sia la legge (e dunque la sentenza). Ci si interroga infatti da tempo se la legge si limiti a prescrivere una regola di condotta, che dunque non è né vera né falsa, ovvero abbia una valenza ulteriore e complessa- o come si dice, a volte, creativa- nella quale la regola astratta non è l’unico elemento che consente di descrivere il fenomeno regolato, occorrendo anche ulteriori elementi fra i quali, appunto, l’interpretazione di chi applica la legge facendola diventare norma del caso concreto[2]. Questione che arriva a lambire il tema spinoso della giurisprudenza come fonte del diritto, avendo le Sezioni Unite - Cass. S.U. n.38162/2022 - di recente offerto talune importanti considerazioni sulle quali si avrà modo di tornare nel prosieguo.
Già qui è comunque evidente che il tema del ruolo dell’interpretazione della legge costituisce il classico campo di battaglia nel quale si scontrano e si incontrano nella dottrina, nell’avvocatura e fra gli stessi magistrati diverse, anzi diversissime opinioni.
Queste ultime convergono unicamente su un dato e cioè quello di riconoscere l’ampliamento del diritto vivente, a volte descrivendosi questo fenomeno come sovversivo, eversivo o egemone rispetto al diritto scritto, soprattutto quando i canoni ermeneutici si discostano dal testo della disposizione e così valicandolo pericolosamente in nome di principi o valori dell’uomo e così spingendosi verso un’innaturale attività definita creativa del diritto[3]. Visione alla quale si contrappone una diversa prospettiva che vede nell’attuale sistema l’edificazione di una commendevole attività coerenziatrice e di collegamento della disposizione astratta al caso che ne sollecita l’applicazione e che dunque grazie al caso diventa norma effettiva[4], vivente appunto.
Insomma, questioni che fanno tremare i polsi e che quando giungono al cospetto delle Sezioni Unite assumono ancora di più rilevanza, rispetto alla complessità che emerge sovente.
Ci si è così lentamente avvicinati al cuore dell’esperienza di componente delle Sezioni Unite civili per delinearne i caratteri peculiari che sembrano giustificare un approccio particolare al tema del linguaggio e della chiarezza della giurisprudenza e degli atti difensivi che il convegno ha inteso approfondire.
2.Il “giudicare” ed il “cooperare” delle Sezioni Unite.
Si proverà dunque a spiegare il “perché” del carattere sui generis del ruolo delle Sezioni Unite attingendo per lo più alla carne dell’esperienza vissuta e dunque alle camere di consiglio sempre calibrate su un preliminare approccio preparatorio, volto in sede di “precamera” di consiglio ad inquadrare le questioni da parte di tutti i componenti in modo da focalizzare quelle più “complesse”, per le quali spesso si prende tempo perché, suol dirsi, …la notte porta consiglio… oppure ci pensiamo stanotte… ci ragioniamo su. Si giunge così all’udienza pubblica, quando c’è, che fa da preludio alla decisione finale sulla questione ormai metabolizzata e digerita grazie alle difese degli avvocati e alle conclusioni del Procuratore generale.
Un farsi della decisione delle Sezioni Unite assolutamente straordinario per un giudice abituato nel merito a decidere, in generale, “da solo” o in composizione collegiale (a tre), poi riconvertito al giudizio di legittimità con obbligatoria composizione a cinque – salvo l’istituto, di recente fattura, delle c.d. PDA[5]- e, invece, catapultato all’interno di un’esperienza davvero singolare.
Singolarità che comincia già dal luogo in cui maturano le decisioni delle Sezioni Unite.
L’Aula magna della Corte ex se incute sentimenti difficili da descrivere ma che certamente provocano un fascio di reazioni emotive in ragione del rispetto del luogo, della sua maestosità, dell’idea che sulle e nelle gigantesche poltrone delle Sezioni Unite sedettero colleghe e colleghi che “vivono” nelle massime redatte dall’Ufficio del Ruolo e del Massimario e nelle decisioni destinate a diventare “diritto vivente”[6]. Là dove il vivente non sta solo a marcare il dichiarato fine di comporre i contrasti o di delineare un principio che si offre alla comunità dei giuristi per fare chiarezza in modo più o meno definitivo sul tema giunto all’esame delle S.U. e che abbisogna di qualcosa in più rispetto al diritto scritto per porsi come regola attiva nei rapporti fra viventi. Ed è, per l’appunto, vivente perché respira attraverso la motivazione non è lapidario e marmoreo e nemmeno granitico, arrivando alla fine di un percorso spesso tortuoso, complesso, ambiguo, incerto, controverso. Niente di diverso, a ben considerare da chi ciò è persona viva, vivente.
L’essere parte o co-parte di quell’organo produce, dunque sentimenti tipicamente umani al contempo di “grandezza e di piccolezza” quando si prende consapevolezza di essere investito di una funzionalmente destinata a “fare” il diritto, per quel piccolo granello di sabbia che nel tempo ogni componente rappresenta quando accende il microfono ed espone le sue ragioni.
Si vuole qui rappresentare l’aspetto più umano del giudizio svolto dalle Sezioni Unite e così le emozioni, le paure, la rabbia, a volte, ma anche la serenità che si prova quando si prende parte alla discussione e si ascolta il “giudizio” degli altri con l’umana speranza di avere proposto “il vero”[7] – id est la soluzione più coerente, ragionevole, proporzionata, adeguata al quadro delle norme e dei valori che essa stessa è tenuta a rispettare - e di avere convinto gli altri componenti che si trasforma in ( sana) preoccupazione quando si ascoltano le opinioni concorrenti, alternative, dissenzienti in tutto o in parte.
Un’esperienza fatta anch’essa di linguaggio comunicativo, di rappresentazione delle “ragioni” che inducono verso una certa soluzione, dell’interpretazione che si propone degli argomenti espressi, di sussunzioni della vicenda nella legge e nel diritto (vivente e scritto) fatte e rifatte, con tutta la complessità che queste operazioni recano con sé.
Dunque, in sintesi, un plus di condivisioni ma anche (a volte) di contrapposizioni che il Primo presidente ed i più illuminati nelle camere di consiglio – e fra questi nella esperienza particolare e personale di chi scrive ha occupato un posto centrale la figura umana e professionale di Alberto Giusti - si adoperano per appianare, nei limiti del possibile, le tesi differenti, per trovare un ragionevole accomodamento, con un occhio attento alla coerenza della decisione con il sistema generale oltre che alla vicenda concreta ed agli indirizzi giurisprudenziali già sedimentati. Un appianamento che, a volte, non si avverte poiché vi è convergenza delle opinioni, ma altre si impone come necessario ed altre volte non si riesce a raggiungere.
Ora, il confronto a nove - spesso ancora più arricchito dalla presenza di consiglieri giovani che compongono i collegi solo per le loro cause - è qualcosa di assolutamente singolare nell’esperienza di un giudice.
Un’esperienza al tempo stesso esaltante e logorante quando, ed a chi scrive è capitato – si propone una soluzione diversa da quella poi raggiunta dalla maggioranza che, a volte, con gli esiti della votazione lascia in sonora minoranza e altre volte si ferma a quel cinque a quattro che dovrebbe abbattere anche i più resilienti.
Ecco, la “soccombenza” rispetto all’esito approvato dalla maggioranza rappresenta una delle esperienze più uniche e al contempo più arricchenti e formative, soprattutto per chi- come lo scrivente- mai ha inteso avvalersi della possibilità di chiedere la sostituzione nella redazione della sentenza-art.276, ult. comma, c.p.c.-, in essa cogliendo l’essenza del giudicare di chi compone il collegio delle Sezioni Unite, un’esperienza di servizio alla nomofilachia, capace di mettersi al servizio del sistema nel modo migliore (ma pur sempre umano) possibile[8].
Ed è qui che occorre riportare l’analisi al tema di questa sessione, al linguaggio della sentenza delle Sezioni Unite proprio quando il relatore avrebbe, se fosse stato persuasivo agli occhi della maggioranza, utilizzato argomenti capaci di sostenere la tesi offerta al collegio e poi prevalsa. Il difficile, ma il bello, viene quando si è chiamati a redigere una motivazione coerente con la decisione della maggioranza e con l’interpretazione della norma prevalsa in base agli argomenti espressi, ma che risulta distonica con gli (altri) argomenti che si sarebbero utilizzati se a prevalere fosse stata la soluzione non condivisa dalla maggioranza.
Questo conflitto interno mette in discussione, spersonalizza ma al contempo impone di mettere in campo le migliori energie per rappresentare la volontà del Collegio che è una (e unica), anche se ha preso corpo attraverso il confronto del quale si è detto sopra[9]. E qui che emerge, forse in maniera più marcata che in qualunque altra decisione collegiale diversa da quelle adottate dalle Sezioni Unite della Corte, la necessità che le motivazioni siano assolutamente coerenti ed adamantine rispetto alla soluzione adottata, lineari e non suicide o incerte o rivolte a “far capire” all’esterno che il relatore, in realtà, non era d’accordo con la soluzione adottata.
Dunque, è in questi casi che si misura forse ai massimi livelli la forza nomofilattica di una decisione delle Sezioni Unite.
Ora tutto questo credo sia parte del ruolo nomofilattico delle Sezioni Unite.
Pensare che la decisione di un conflitto o di una questione di massima di particolare importanza sia anche questo può forse aiutare gli operatori del diritto a mettere al posto giusto la funzione delle Sezioni Unite, prendendo a prestito una suggestione dell’ultimo saggio di Massimo Luciani[10]. Aiuta a rendere evidente che in tutto questa costruzione della decisione finale la tela che si può tentare di dipingere sia composta da tratti di razionalità ed al contempo di umanità che non perdono tuttavia di vista il contesto nel quale maturano le decisioni, le esperienze culturali e professionali plurime che animano i collegi delle sezioni unite, non a caso composti ogni volta da Presidenti di sezione e componenti provenienti dalle diverse sezioni della Corte- e dunque portatori i saperi ed esperienze professionali diverse -, le sempre continue (e proficue) contaminazioni provenienti dalle giurisprudenze delle Corti sovranazionali. Una composizione che, ancora una volta, è dimostrazione plastica di quanto complesso sia il diritto e di quanto il diritto vivente non possa essere in alcun modo classificato con formule matematiche.
Una prospettiva che, dunque vivifica e rende onore, in definitiva, a quel che Massimo Fioravanti ha individuato come tratto distintivo dello Stato costituzionale, appunto la “pari dignità costituzionale” di legislazione e giurisdizione, in questo contesto rappresentata dalle Sezioni Unite[11].
2.Chiarezza e sinteticità nelle sentenze delle Sezioni Unite.
Torniamo ora alla prospettiva più tecnica.
La pronunzia delle Sezioni Unite diventa il crocevia della soluzione dei contrasti fra diversi orientamenti giurisprudenziali o dell’esame di questioni di massima di particolare importanza prima ancora che giungano all’esame della sezione semplice - come è accaduto di recente per le note vicende dei provvedimenti resi dalla Giudice del Tribunale di Catania in materia migratoria-.
Intervento che, d’altra parte, è ancora necessitato per le ipotesi in cui le Sezioni Unite abbiano già affrontato la questione tornata all’esame di una sezione semplice che ritenga di non condividere la soluzione espressa dalle Sezioni Unite e che, non potendo da questa discostarsi sollecita un nuovo intervento del medesimo organo (art.374, comma 3, c.p.c.).
Per altro verso, l’intervento nomofilattico può derivare dal rinvio pregiudiziale del giudice di merito alla Corte di cassazione (art.363 bis c.p.c.) per questioni esclusivamente di diritto necessarie alla definizione anche parziale del giudizio, non ancora risolte dalla Corte di cassazione, suscettibili di porsi in numerosi giudizi e caratterizzate da gravi difficoltà interpretative. Anche in questi casi, la decisione del rinvio pregiudiziale può essere assegnata all’esame delle Sezioni Unite, vuoi perché presenta aspetti di particolare rilevanza, vuoi perché attiene a questioni che involgono il tema del riparto delle giurisdizioni[12], suscitando un intervento che vede la Corte custode dell’interpretazione più che della legalità della decisione del giudice di merito. Decisione che non è nel caso di specie “impugnata” innanzi alla Corte, ma è essa stessa richiesta di intervento del giudice di legittimità[13].
Per riassumere, la fonte di innesco della decisione delle Sezioni Unite è generalmente rappresentata da un’ordinanza interlocutoria della sezione semplice, o appunto, dalla richiesta di rinvio pregiudiziale del giudice di merito.
In entrambe le occasioni le Sezioni Unite hanno il campo già tracciato, perché la sezione semplice fissa il contorno della questione, ne evidenzia la rilevanza o i contrasti giurisprudenziali esistenti, a volte rimanendo esterna al contrasto stesso, altre rappresentando le ragioni che sembrerebbero orientare verso l’una ipotesi o l’altra.
E se i contenuti dell’ordinanza interlocutoria di una sezione semplice non sono in alcun modo fissati dal codice, più stringenti sembrano essere le regole per il giudice di merito che si rivolge alla Corte di cassazione con la richiesta di rinvio pregiudiziale dovendo rappresentare, fra l’altro, con “specifica indicazione delle diverse interpretazioni possibili”.
In tutti questi casi l’attività delle Sezioni Unite prosegue un percorso già iniziato da precedenti pronunzie giurisdizionali, alcune di natura decisoria, altre di natura interlocutoria, che comunque rappresentano l’ineludibile punto di partenza di un “farsi” progressivo che dà ancora oggi il senso della unità della giurisdizione.
Ecco dunque disvelarsi le caratteristiche della nomofilachia dalle stesse parole delle Sezioni Unite- Cass. S.U. n.24414/2021-:
La nomofilachia delle Sezioni Unite è un farsi, un divenire che si avvale dell'apporto dei giudici del merito e delle riflessioni del Collegio della Sezione rimettente, dell'opera di studio e di ricerca del Massimario, degli approfondimenti scientifici e culturali offerti dagli incontri di studio organizzati dalla Formazione decentrata presso la Corte, delle sollecitazioni e degli stimoli, espressione di ius litigatoris, derivanti dalle difese delle parti e del contributo, ispirato alla salvaguardia del pubblico interesse attraverso il prisma dello ius constitutionis, del pubblico ministero. Le Sezioni Unite sono dunque inserite in un contesto di confronto, di dialogo e di contraddittorio tra le parti, che consente alla Corte di legittimità di svolgere il suo ruolo con quella prudenza "mite" che rappresenta un connotato del mestiere del giudice.
Si delinea, così, in modo plastico quella che a buon titolo è definita l’arte del giudicare[14], il ruolo interpretativo svolto dalle Sezioni Unite, i cancelli nei quali esse si muovono, il prima della decisione che fa da preludio ad un poi, nel quale la sentenza che decide la questione entra nel circolo o circuito della comunità interpretativa composta dalla scienza giuridica e dai giudici di merito e viene poi testata, commentata, criticata, lodata, avversata, presa a modello del buon giudicare o del cattivo – o creativo, per alcuni - giudicare.
Ciò aiuta a comprendere il ruolo centrale degli organi giurisdizionali che attivano il rinvio alle Sezioni Unite, tanto che questo provenga da una Sezione semplice che da un giudice di merito (art.363 bis c.p.c.).
Con riferimento a tale ultima ipotesi ci si deve infatti interrogare sul valore della domanda di rinvio pregiudiziale, sul suo significato e sulla sua centralità che fa del giudice di merito volano di pronunzie di sistema, partecipe di una funzione di nomofilachia nella quale non ha più senso insistere sul ruolo verticistico della Corte di cassazione se appunto si considera che la richiesta di rinvio proviene dal giudice di merito che ha obblighi stringenti di esplicitare, pena l’inammissibilità, le ragioni che giustificano il rinvio pregiudiziale, le difficoltà interpretative in ordine alla disposizione rilevante nel processo, la opinabilità delle soluzioni, l’assenza di precedenti della Corte di legittimità, la serialità del contenzioso.
In definitiva, un giudice di merito assoluto ed incontrastato protagonista di una funzione che non è più soltanto quella del “giudicare”, ma si arricchisce per diventare funzione del “cooperare”, del “giustificare” non la decisione-soluzione della questione ma, anzi, la complessità del tema, esponendo argomenti plurali che possono in astratto essere utilizzati per la decisione dalla Corte di cassazione.
Una funzione del cooperare che, d’altra parte non è meno intensa, anzi assume tratti ancora più marcati quando sia la stessa Corte di cassazione, con una sua sezione, a “decidere di non decidere” rimettendo la questione all’esame delle Sezioni Unite[15]. Il rinvio alle Sezioni Unite rappresenta nel sistema una straordinaria opportunità di confronto fra rimettente e Sezioni Unite, capace di germinare frutti tanto più fecondi quando il rinvio non sia fatto perché si è sicuri che le Sezioni Unite adotteranno una certa linea ma, appunto, perché si ha la consapevolezza che l’autorevolezza delle Sezioni Unite, l’ampiezza del dibattito che all’interno potrà nascere, l’apporto a quella decisione dei diversi costruttori potranno fornire contribuirà a dare vita ad una soluzione “giusta”.
In questo cooperare sta, probabilmente, il futuro dei giudici e degli avvocati, ai quali ultimi non può e non deve sfuggire la funzione pubblica che essi hanno tanto quanto l’hanno i giudici, cooperando insieme alla giurisdizione per un sistema sempre più effettivo ed efficace di protezione dei diritti fondamentali in un piano di assoluta equi ordinazione con la giurisdizione. Prospettiva, quest’ultima, capace di lasciare sullo sfondo il ragionare fondato su schemi gerarchici e che consente di dare un senso all’art.101 Cost. ed alla guarentigia che esso prevede per i giudici.
E per riprendere una riflessione lasciata in sospeso all’inizio sul ruolo della giurisdizione rispetto al tema delle fonti, sono ancora le espressioni utilizzate dalle Sezioni Unite (Cass.S.U., n.38162/2022) in tema di trascrizione dell’atto di nascita di minori nati all’estero e frutto di concepimento per il tramite della c.d. maternità surrogata a rendere evidente l’in se della funzione nomofilattica.
Chiamate a verificare se la richiesta di trascrizione avanzata dal genitore sociale del minore potesse trovare una base giuridica interna tale da renderla compatibile con l’ordine pubblico internazionale, le Sezioni Unite descrivono, per un verso, la funzione del giudice rispetto all’interpretazione dei principi e delle clausole generali[16], mettendo in risalto il travaglio della decisione, il senso della ricerca, dello scavo[17], la coscienza del giudicare e la responsabilità che ne consegue, sempre più condivisa, partecipata, dialogata.
Uno scavo che incontra dei limiti rispetto al compito riservato al legislatore[18], tanto più quando essi sono stati circoscritti dal giudice delle leggi; limiti che, tuttavia, non possono essere indefiniti ed indeterminati se il potere legislativo protrae la situazione di stallo e di inerzia[19]. Serve piuttosto che i vuoti che la giurisprudenza a volte colma vengano considerati nel contesto che si è cercato di delineare a proposito del giudicare sui generis delle Sezioni Unite, al contempo metro e misura del buon giudicare, capace di vincere la prospettiva creazionista in nome di canoni riempiti di legalità connessa al sistema processuale che fissa regole precise per giudici di merito e di legittimità rispetto al ruolo della pronunzia delle Sezioni Unite, di ascolto, di dialogo, di cooperazione[20] e di fiducia reciproca fra i diversi costruttori del diritto[21].
È dunque anche la coscienza sociale[22], alla quale guarda come valore fondamentale l’art.2 Cost., ad imporre una regolamentazione, una disciplina che, ricercata nel sistema, è necessario fare emergere per garantire la civile convivenza ed il rispetto dei diritti fondamentali ma anche la tutela rispetto alle naturali cambianti che prendono corpo e vivono nella società[23].
Ecco così tratteggiarti i compiti ed il ruolo della nomofilachia, tutta protesa a realizzare quello che sembra impossibile tenendo insieme i precedenti, le dinamiche sociali, le voci provenienti dagli altri plessi giurisdizionali, l’apporto dell’Accademia e delle parti processuali e di chi ha cooperato alla decisione finale[24]. Dunque, un’attività dinamica di raccordo e di emersione delle polarità[25] che finisce, in definitiva, per dare il senso massimo della legittimazione del giudice (di qualunque giudice, di merito e di legittimità) ad operare nel mondo del diritto con i tratti che la comunità dei giuristi conosce[26], talvolta apprezzandoli, talaltra criticandoli anche aspramente.
4.Qualche conclusione (in movimento).
È giunto il momento di mettere qualche punto fermo.
Il linguaggio della nomofilachia, se è destinato a rispondere ad un’esigenza di chiarezza e di risoluzione di conflitti interpretativi o di determinazione di un diritto vivente destinato a realizzare l’uniforme interpretazione del diritto, deve essere utilizzato in maniera accorta dalle Sezioni Unite, per evitare che le stesse proposizioni utilizzate delle Sezioni Unite siano oggetto di quelle incertezze interpretative che l’intervento chiarificatore ha inteso appianare.
Tanto più è elevata la necessità di porre un punto fermo su una questione, quanto più chiara e lineare dovrà essere la soluzione adottata.
Per altro verso, il carattere sui generis delle pronunzie delle Sezioni Unite abilita forse a ritenere che il canone della sinteticità mal si addice alla soluzione delle questioni ad essa demandata, abbisognando degli aggiustamenti, appunto correlati alla complessità delle vicende trattate. Il che non giustificherà certo la redazione di “sentenze trattato”, ma renderà necessaria la “messa in campo” delle argomentazioni capaci di offrire quella stabilità a livello massimo la persuasività e stabilità della decisione[27].
Ciò non vuol dire che la pronunzia sia la verità assoluta, essa appunto inserendosi nel circuito interpretativo del quale si è detto in un moto che non è dunque destinato mai a concludersi, ma semmai ad arrestarsi temporaneamente per poi essere eventualmente rivalutato in relazione a fattori plurimi che caratterizzano oggi il diritto, rispetto ai quali il fiorire di diritti viventi provenienti dalle Corti sovranazionali e dalle Carte dei diritti nazionali e sovranazionali rendono mobile ed in un continuo movimento che va, peraltro, necessariamente mediato con le assolutamente legittime e parimenti centrali prospettive di salvaguardia dei canoni di certezza e prevedibilità[28], all’interno di una continua e mai paga ricerca di un bilanciamento fra i diritti, i valori ed i principi che animano la società.
Perciò, concludere queste riflessioni è abbastanza agevole se si afferma che le Sezioni Unite non pongono fine ai contrasti, ma li appianano come è giusto che sia in un sistema improntato ai valori del confronto fra diverse opinioni alle quali va data, necessariamente coerenza ed uniformità[29].
Si tratta di una prospettiva pienamente condivisa con la giurisprudenza della Corte edu che, anche di recente, ha avuto modo di apprezzare, esaminando una vicenda originata in Serbia, come l’esistenza di fisiologici contrasti interni di giurisprudenza su una questione di natura processuale destinata a ripetersi in modo frequente avevano trovato soluzione attraverso un “parere” espresso dalla Corte suprema al sulla base di un parere preventivo (previsto dall’art.176 del codice di procedure serbo) assai simile a quello previsto dall’art.363 bis c.p.c. al quale erano seguite pronunzie dei giudici di merito allo stesso conformi. Questo ha consentito alla Corte edu di riconoscere che non potevano dirsi presenti nel caso differenze profonde e duratura nella giurisprudenza nazionale tali da giustificare la violazione del giusto processo (art.6 CEDU)[30].
Un’uniformità che tuttavia vale fintantoché il composito e complesso piano del diritto non richieda un nuovo intervento che potrà essere sollecitato nelle forme che il sistema prevede, alla continua ricerca della verità[31] e con la straordinaria carica di vitalità che questa prospettiva, agli occhi di chi scrive, arricchisce la funzione di chi opera nel diritto e la rende essa stessa in continuo movimento[32]. Il che, beninteso, non assolve in alcun modo la Corte di cassazione e le Sezioni Unite dalle sue criticità, ben note alla comunità dei giuristi, pure di recente ricordati dal Presidente Ernesto Lupo[33]. Tenta semplicemente di rappresentarne il volto umano, come tale imperfetto, ma pur sempre vivo, per quel che ancora oggi possa valere.
* Intervento svolto al Convegno organizzato dal Prof. D. Velo Dalbrenta presso l’Università di Verona il giorno 1° dicembre 2023 sul tema “Il ragionamento giuridico tra deontologia e senso comune.” Le opinioni espresse nel presente articolo sono rese a titolo personale e non possono dunque in alcun modo impegnare la Corte di cassazione.
[1] Giova fin da subito chiarire che nella prospettiva che condivido la nomofilachia appartiene all’intera giurisdizione, di merito e di legittimità, per ragioni altre volte espresse ed alle quali rinvio, per quel nulla che può valere-R.G. Conti, Nomofilachia integrata e diritto sovranazionale. I “volti” della Corte di Cassazione a confronto, in Il giudizio civile di cassazione, Quaderno n.20 a cura della Scuola superiore della magistratura, 2022, 177, consultabile anche sul sito della SSM (https://www.scuolamagistratura.it/ e nelle pubblicazioni ufficiali dell’IPZS -https://www.bv.ipzs.it/.
[2] V. R. Rordorf, Giudizio di cassazione. Nomofilachia e motivazione, Libro dell’anno 2012, Treccani.
[3] S. Chiarloni, Ruolo della giurisprudenza e attività creative di nuovo diritto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2002,1.
[4] F. Roselli, Il principio di effettività e la giurisprudenza come fonte del diritto, in Riv. dir. civ., 1998, II, 23.
[5] Istituto, quello introdotto dal riformato art.380 bis c.p.c. che non può essere oggetto di esame ma che, all’interno della Corte di cassazione, è oggetto di riflessione articolata all’interno di un gruppo di lavoro intersezionale appositamente costituito dalla Prima Presidenza proprio al fine di offrire orientamenti volti a garantire una certa uniformità alle tecniche di motivazione che possano in tal modo orientare i magistrati della Corte ed il Foro. V., in generale, sul tema della motivazione dei provvedimenti della Corte di Cassazione, le indicazioni elaborate dal Primo Presidente Ernesto Lupo e la relativa relazione, in Foro it., 2011, V, 183.
[6] G. Evangelista-G. Canzio, Corte di cassazione e diritto vivente, in Foro it., 2005, V, 82. G. Borrè, P. Martinelli e L. Rovelli su Unità e varietà nella giurisprudenza. A proposito della c.d. rotazione in Cassazione, in Foro it., 1999, V, 45.
[7] Sia consentito il rinvio a R. Conti, Il mestiere del giudice ed il diritto incordato di verità, in Accademia, n.1/2023, 313.
[8] Una precisazione occorre fare a proposito dell’uso del termine verità che qui come in altra occasione si propone. Un’idea sicuramente dicotomica rispetto al brocardo «Auctoritas, non veritas, facit legem» invece intesa soprattutto come valore, come prospettiva e per dirla con Massimo Vogliotti -Perché una cattedra intitolata ad Alessandro Galante Garrone? La crisi dello Stato costituzionale di diritto, la distopia nichilistica e l'esigenza di una nuova educazione giuridica, in L’arcipelago del diritto. Lezioni per i futuri naviganti. In ricordo del decennale della cattedra Galante Garrone, a cura di M. Vogliotti, Torino, 2022, 54- come “funzione concettuale” che "attiviamo quando diciamo o pensiamo "è vero", "è falso", "non è vero"», fino ad ipotizzare che il diritto, come il linguaggio, altro non è che una convenzione basata su veridicità e fiducia. Orbene, fatta questa premessa, a sposare la logica dei vincitori e dei vinti e della verità processuale “unica” di cui al testo, si dovrebbe sostenere che nel caso di decisione finale diversa da quella proposta dal relatore appena ricordata nel testo abbia perso la tesi (la verità) del relatore ed abbia vinto quella della maggioranza delle Sezioni Unite. Eppure a chi scrive pare che tale sia logica profondamente errata quando si discute di giustizia e di sentenze, proprio alla luce dell’esperienza viva vissuta all’interno delle Sezioni Unite. A ben considerare, la verità introiettata nel giudicato reso in funzione nomofilattica non può realizzarsi senza i contributi, parimenti indispensabili, di chi, all’interno del Collegio decidente, credeva in un’altra verità ed ha contribuito alla ricerca, alla “invenzione” della verità poi espressa nel giudicato. Una verità che, malgrado il giudicato, potrebbe peraltro non essere quella finale e che si presta ad essere, in astratto, messa in discussione dai seguiti che la sentenza stessa produce nella dottrina e nella stessa giurisprudenza. Come è noto, infatti, non esiste nel nostro ordinamento il principio della vincolatività della giurisprudenza di legittimità sugli altri giudici, gli stessi pienamente legittimati a porla in discussione, in maniera argomentata, al punto di prospettare l’incostituzionalità della decisione o la contrarietà a parametri sovranazionali ed in tal modo invitando altre Corti a verificare il fondamento ultimo di quella verità coperta dalla pronunzia delle Sezioni Unite. E che quanto qui esposto appartenga al campo del plausibile trova conferma, a titolo esemplificativo, nelle diverse prospettive che hanno animato le Sezioni Unite nel decidere, in funzione nomofilattica, un contrasto interno alla Corte sul tema della procura speciale nei ricorsi per cassazione in materia di protezione internazionale. A pochi giorni distanza dalla decisione adottata- Cass.S.U. n. 15177/2021- la terza sezione civile -Cass.n.17970/2021 - si è rivolta alla Corte costituzionale prospettando vizi di costituzionalità che la sentenza anzidetta aveva ritenuto manifestamente infondati. Questione di costituzionalità poi decisa da Corte cost.n.13/2022. V. sul punto, G. Famiglietti, Autentica della firma e certificazione della data per me pari sono. Il doppio onere relativo alla procura speciale per il ricorso in Cassazione in materia di protezione internazionale al vaglio della Corte costituzionale (commento alla sent. n. 13/2022), in Diritto, immigrazione, cittadinanza, n.2/2022, 307. Non meno sintomatico delle considerazioni appena espresse risulta la vicenda, sulla quale si tornerà nel testo, della trascrizione dell’atto di nascita formato all’estero relativi a minori nati a seguito di maternità surrogata che ha visto una sezione della Corte di Cassazione rivolgersi dapprima alle Sezioni Unite e poi mettere in discussione, sotto il profilo della tenuta costituzionale, la decisione da quell’organo resa sollevando questione di legittimità costituzionale e, quindi, nuovamente investendo le Sezioni Unite a seguito dell’ordinanza che aveva ritenuto infondati i dubbi di costituzionalità prospettati.
[9] Quanto detto nel testo corrisponde, del resto, alle dinamiche delle decisioni assunte dalla Corte costituzionale e fotografate dal recente comunicato del 19 dicembre 2023 della Consulta- consultabile sul sito della Corte costituzionale- ove si afferma, tra l’altro, che “è fisiologico che vi possano essere diversità di opinioni tra i singoli giudici, come accade del resto in ogni organo giurisdizionale collegiale. In queste situazioni, la decisione non può che essere adottata a maggioranza, e vincola l’intera Corte, compresi i giudici dissenzienti.”
[10] M. Luciani, Ogni cosa al suo posto, Milano, 2023.
[11] M. Fioravanti, Per una storia della legge fondamentale in Italia: dallo Stato alla Costituzione, in M. Fioravanti, (a cura di), Il valore della Costituzione. L’esperienza della democrazia repubblicana, Roma, Bari, 2009, 32.
[12] È questo il caso del rinvio pregiudiziale sollevato dalla Corte di giustizia tributaria di primo grado di Agrigento sul tema delle controversie in tema di incentivi introdotti dalla decretazione di urgenza post Covid in favore di imprenditori e proferssionisti-R.G.7201/2013, Provv.Primo Pres. 18.4.2023. Vicenda approdata all’esame delle Sezioni Unite e decisa con la recente Cass.S.U., 13 dicembre 2023 n.34851. V. anche R.G.n.12668/23, Provv.Primo pres.P.7.7.2023, R.G.13777/2023, Provv. Primo. Pres. 26.7.2023, R.G.n.16885/2023, Provv.P.P. 18.9.2023, tutti inseriti nel sito internet della Corte di cassazione.
[13] V., per la vicenda approdata all’esame delle Sezioni Unite indicata alla nota precedente su rinvio pregiudiziale della Corte di giustizia tributaria di Agrigento la recente Cass.S.U., 13 dicembre 2023 n.34851.
[14] G. Rossi, “Suum cuique tribuere”:il render giustizia e la sua “narrazione”, tra diritto e arte, in L’arte del giudicare. Percorsi ed esperienze tra letteratura, arti e diritto, a cura di G. Rossi, D.Velo Dalbrenta, C. Pedrazza Gorlero, Napoli, 2022, 20; F. Puppo, Dell’inutilità del processo in Salvatore Satta, ibidem,174.
[15] In questa prospettiva può essere ricordata la vicenda della rilevanza, ai fini delle unioni civili, della pregressa convivenza che una sezione della Corte di cassazione-Cass.n.2507/2023-, chiamata per la prima volta ad interpretare la nuova legge varata all’esito di alcune pronunzie della Corte edu, ritenne di rinviare all’esame delle Sezioni Unite offrendo delle possibili chiavi di lettura in ordine al testo normativo ed al contesto nel quale esso era maturato. Prospettive poi condivise dalle S.U.- Cass.S.U. n.35969/2023-. Ora, al di là del merito della vicenda, non può sfuggire che la soluzione maturata dalle Sezioni Unite sia dotata di un grado di autorevolezza particolare, proprio perché promossa da una sezione semplice della Corte di cassazione, anch’essa pienamente partecipa della funzione nomofilattica pur se non espressa attraverso la forma del “giudicare” ma in quella del “cooperare”.
[16] Cfr.Cass. S.U. n.38162/2022, più volte qui richiamata: “Nell’attesa dell'intervento, sempre possibile ed auspicabile, del legislatore, il giudice, trovandosi a dover decidere una questione relativa allo status del figlio di una coppia omoaffettiva, non può lasciare i diritti del bambino indefinitamente sospesi, ma deve ricercare nel complessivo sistema normativo l'interpretazione idonea ad assicurare, nel caso concreto, la protezione dei beni costituzionali implicati, tenendo conto delle indicazioni ricavabili dalla citata sentenza della Corte costituzionale.
[17] P. Grossi, Prefazione a Il mestiere del giudice, a cura di R. G. Conti, Padova, 2020, XVI: “Il vecchio giudice, condannato ad essere ‘bocca della legge’ dai riduzionismi strategici degli illuministi (dapprima) e dei giacobini (successivamente), non può che togliersi volentieri di dosso la veste opprimente dell’esegeta, ormai del tutto inadatta, e indossare quella dell’interprete, dell’inventore, intendendo la sua operazione intellettuale irriducibile in deduzioni di semplice natura logica (come in una celebre pagina di Beccaria) e concretizzabile piuttosto in una ricerca, in un reperimento, con le conseguenti decifrazione e registrazione. Quello che mi sentirei, invece, di rifiutare, decisamente perché fonte di più che probabili malintesi, è il sintagma ‘creazione giurisprudenziale’, .... Infatti, è proprio di ‘creazione ‘ e di ‘creazionismo’ che parlano gli adepti del legalismo statalistico stracciandosi le vesti di fronte a un ruolo, innaturale perché para-legislativo, conferito (almeno secondo loro) ai giudici dalla riflessione ermeneutica. Insisterei, come ho fatto anche di recente, su un ruolo inventivo, marcando bene che si fa esclusivo riferimento alla inventio dei latini consistente appunto in un ‘cercare per trovare’.”
[18] Cfr. Cass., S.U. n.38162/2022, cit.: Anche quando non si trova al cospetto di un enunciato normativo concepito come regola a fattispecie, ma è investito del compito di concretizzare la portata di una clausola generale come l'ordine pubblico internazionale, che rappresenta il canale attraverso cui l'ordinamento si confronta con la pluralità degli ordinamenti salvaguardando la propria coerenza interna, o di un principio, come il migliore interesse del minore, in cui si esprime un valore fondativo dell'ordinamento, il giudice non detta né introduce una nuova previsione normativa. La valutazione in sede interpretativa non può spingersi sino alla elaborazione di una norma nuova con l'assunzione di un ruolo sostitutivo del legislatore. La giurisprudenza non è fonte del diritto. Soprattutto in presenza di questioni, come quella oggetto del presente giudizio, controverse ed eticamente sensibili, che finiscono con l'investire il significato della genitorialità, al giudice è richiesto un atteggiamento di attenzione particolare nei confronti della complessità dell'esperienza e della connessione tra questa e il sistema. Si tratta di temi, infatti, in rapporto ai quali lo stesso diritto di famiglia, nel mentre riflette, come uno specchio, lo stato dell'evoluzione delle relazioni familiari nel contesto sociale, tuttavia non può prescindere dal sistema, affidato anche alle cure del legislatore. Ciò vale soprattutto in una vicenda, come l'attuale, nella quale si profila un ambito di discrezionalità del legislatore che la Corte costituzionale ha inteso preservare, indicando un percorso di collaborazione istituzionale nel quadro di un bilanciamento tra la legittima finalità di disincentivare il ricorso alla maternità surrogata e l'imprescindibile necessità di assicurare il rispetto dei diritti dei minori.
[19] Cfr. Cass. S.U. n.38162/2022, più volte citata: Il rispetto del pluralismo e dell'equilibrio tra i poteri, profilo centrale della democrazia, perché la ricerca dell'effettività deve seguire precise strade compatibili con il principio di leale collaborazione e con il dialogo istituzionale che la Corte costituzionale ha avviato con il legislatore. La presa d'atto che talora la ricerca dell'effettività richiede un camminare in direzione di una meta non ancora completamente a portata di mano, perché la gradualità concorre a far assorbire il cambiamento e le novità nel sistema, con la giurisprudenza che accompagna ed asseconda l'evoluzione che si realizza nel costume e nella coscienza sociale. La coerenza degli orientamenti giurisprudenziali, giacché le nuove frontiere dell'interpretazione che aspirino a offrire stabilità e certezza non conseguono a bruschi cambiamenti di rotta, ma sono il frutto di un progredire nel dialogo con i precedenti, con le altre Corti e con la cultura giuridica. Non c'è spazio, in altri termini, né per una penetrazione diretta - attraverso la ricerca di un bilanciamento diverso da quello già operato dal Giudice delle leggi - di quell'ambito di discrezionalità legislativa che la Corte costituzionale ha inteso far salvo, né per una messa in discussione del punto di equilibrio da essa indicato.
[20] V. G. Canzio, Corte di cassazione e Corte costituzionale: il diritto vivente quale fondamento del giudizio di legittimità costituzionale, in questa Rivista, 15 dicembre 2023.
[21] T. Greco, La legge della fiducia. Alle radici del diritto, Roma, 2021.
[22] V. A Giusti, Tutela effettiva dei diritti, ordinamento vivente e coscienza sociale nelle sentenze della Corte di cassazione", Relazione tenuta all’incontro svolto il 12 aprile 2018 presso la Corte di Cassazione, consultabile sul sito internet di Radio radicale
[23] Estremamente significativo un passaggio di recente espresso dalle Sezioni Unite civili – Cass., S.U., 18 dicembre 2023, n.35385 - chiamate a valutare l’incidenza della convivenza prematrimoniale sulla commisurazione dell’assegno divorziale, offrono all’interprete un’immagine comune della evoluzione sociale e del diritto vivente, inestricabilmente destinati ad alimentarsi vicendevolmente. Da un lato si legge in Cass., S.U. n.35383 che “la convivenza prematrimoniale è ormai un fenomeno di costume sempre più radicato nei comportamenti della nostra società cui si affianca "un accresciuto riconoscimento - nei dati statistici e nella percezione delle persone - dei legami di fatto intesi come formazioni familiari e sociali di tendenziale pari dignità rispetto a quelle matrimoniali". A questa continua metamorfosi delle vicende umane, proseguono le Sezioni Unite, “costantemente si ripresenta, soprattutto nella materia del diritto di famiglia, l'esigenza che la giurisprudenza si faccia carico dell'evoluzione del costume sociale nella interpretazione della nozione di "famiglia", concetto caratterizzato da una commistione intrinseca di "fatto e diritto", e nell'interpretazione dei vari modelli familiari.” Per tali ragioni, dunque “tra i canoni che orientano l'interpretazione della legge deve annoverarsi anche quello dell'interpretazione storico - evolutiva, "che si aggiunge ai canoni letterale, teleologico e sistematico e, nutrendosi anche del diritto positivo successivo alla disciplina regolatrice della fattispecie, getta sulla stessa una luce retrospettiva capace di disvelarne significati e orientamenti anche differenti da quelli precedentemente individuati”.
[24] G. Canzio, Il ruolo e la funzione nomofilattica della Corte di cassazione, in Dire il diritto nel XXI secolo, Milano, 2022,99.
[25] M. Naro, La verità nel suo rovescio, L'altra parola: Riscritture bibliche e questioni radicali, Roma, 2022, 224: “…Sentire i contrari significa invece oltrepassare l’apparenza fenomenica in cui essi si lasciano avvertire, penetrare nel loro più intimo orizzonte e, al contempo, interiorizzarli entrambi in sé: per scoprire che essi non sono semplicemente e inappellabilmente contrapposti, bensì polarmente posti. La loro polarità, seppur li oppone, li fa anche esistere in reciproco riferimento. I contrari, polarmente sentiti, sono l’uno dell’altro, l’uno per l’altro. A tal punto che, escludendosi, essi cessano di essere. I poli sono tali- anzi, assolutamente: sono- in quanto si esigono a vicenda.”
[26] A. Nappi, Il sindacato di legittimità nei giudizi civili e penali di cassazione, Torino,2011, 11.
[27] In termini generali, sul linguaggio delle sentenze della Corte di Cassazione, v. A. Virgilio, Lo stile delle sentenze della Corte di cassazione, in Foro it., 1987, V, 265.
[28] R. Bin, Funzione uniformatrice della Cassazione e valore del precedente giudiziario, in Contr. e impr. 1988, 545.
[29] E. Lupo, Il giudizio interpretativo tra norma scritta e diritto effettivo, in questa Rivista, 28 dicembre 2023, par.4.. V., volendo, R. Conti, Il mutamento del ruolo della Corte di cassazione fra unità della giurisdizione e unità delle interpretazioni, in Consultaonline,2015, III, 807.
[30] Cfr.Corte edu, 12 gennaio 2021, Svilengaćanin e a. c. Serbia – ric.n. 50104/10 –.
[31] Una verità, quella a cui si fa cenno nel testo ricostruita, ricercata, scoperta nel processo, attraverso gli avvocati, autentici motori dei diritti, con l’ascolto delle parti, con l’esame del caso, filtrata dalla carnalità dei fatti e rivisitata ed arricchita alla luce dei valori fondamentali dell’uomo che possono e devono irrorare il giudizio di verità. E non perché la verità sia patrimonio del giudice ed il giudice sia il tiranno della verità o sia egli stesso titano-Prometeo. Ma, tutto al contrario, perché è il giudizio, il processo, il luogo eletto per raggiungere una delle verità possibili del mondo degli umani attraverso chi è al suo servizio -v., volendo, R. G. Conti, Prometeo, il Potere, l’uomo e la giustizia fra l’umano e il divino, in Ordine internazionale e diritti umani, 2023, pp. 482-487; id., Appunti su alcuni aspetti della verità nel diritto, in Diritti comparati, n.3/2022, 826. V., ancora, R. Rordorf, A. Gentili, I civilisti e la verità, Intervista a cura di R.G. Conti, in corso di pubblicazione sul n.4/2023 di Accademia.
[32] R. Conti, Il mutamento del ruolo della Corte di cassazione fra unità della giurisdizione e unità delle interpretazioni,cit..
[33] E. Lupo, Il giudizio interpretativo tra norma scritta e diritto effettivo, cit..
Sommario: 1. Vent’anni dopo – 2. Clientela vecchia e nuova – 3. Ombre crescenti – 4. Le cose cambiano – 5. La ‘’Bozza Cendon’’ del 1986 – 6. Scorciatoie, espedienti gestionali – 7. Sotterfugi disciplinari, esempi stranieri – 8. Un metro empirico di valutazione – 9. Economia domestica – 10. Fare male, non fare affatto – 11. Rischi accentuati – 12. Una treccia a tre fili colorati – 13. Crisi del consenso presunto – 14. Prima no e poi sì – 15. Negozi di tipo personale – 16. Una distinzione importante – 17. Sì da una parte, no dall’altra – 18. Centralità della persona del beneficiario – 19. Soggetti deboli e soggetti indeboliti – 20. Persone con disagi psichici – 21. Altri esempi – 22. Messe a confronto – 23. No a privilegi eccessivi – 24. Gli artt. 428 e 2046 cod. civ. – 25. Quando l'amministratore non può essere un familiare – 26. Casistica – 27. Abrogare l’interdizione – 28. Neppure ha senso oggi l’inabilitazione – 29. Conferme – 30. Ragioni a favore della dignità e libertà – 31. Spirito e linee dell’AdS: spiegare e diffondere – 32, Formazione, sensibilità a 360° – 33. Haters seriali, gruppi antipsichiatrici – 34. Scontentezze croniche – 35. Astuzie nei media – 36. Che fare – 37. Il mondo dei giudici – 38. Disfunzioni – 39. Decreti-fotocopia - 40. Occuparsi degli altri – 41. Resistenze, manchevolezze – 42. Disparità comunicative – 43. Correttivi, aggiustamenti – 44. Il patto di rifioritura – 45. Quattro storie – 46. Matrimonio sì o no – 47. Ultime volontà – 48. Atti della vita quotidiana – 49. Neo-sovranità negoziali – 50. Eluana Englaro – 51. Altre vicende – 52. Il mandato di protezione – 53. Inconvenienti di un assetto pan-negoziale – 54. Il profilo esistenziale di vita – 55. Comportamenti, abitudini – 56. Procedure – 57. Il patrimonio con vincolo di destinazione – 58. Dettagli – 59. L’ufficio-sportello comunale per la fragilità – 60. Espletamenti burocratici.
1. Vent’anni dopo
Pochi istituti privatistici hanno conosciuto, nel bilancio che possiamo trarre, a vent’anni dall’approvazione parlamentare, una crescita impetuosa come l’Amministrazione di sostegno. Si è molto allargata dal 2004 – prima notazione sociologica/disciplinare – la ‘’clientela’’ di riferimento. La lista dei beneficiari comprende ormai non soltanto sofferenti psichici, in senso stretto, ma in generale tutti coloro che, per serie ragioni, ‘’non ce la fanno’’ a gestirsi utilmente, sotto il profilo esistenziale. Ad esempio, anziani non più padroni di sé, esseri affetti da disabilità fisiche, malati contingentemente in difficoltà; oppure vittime di dipendenze, di ictus pesanti, portatori di disturbi invalidanti, nonché, secondo alcuni interpreti, analfabeti di ritorno, carcerati, eremiti irriducibili, homeless, migranti. E a rientrare nel raggio della protezione, come la Cassazione ha più volte riconosciuto, sono altresì coloro i quali erano affidati un tempo, in via esclusiva, alle competenze tecniche dell’interdizione, ossia gli infermi mentali gravi.
2. Clientela vecchia e nuova
Per la maggior parte i destinatari appartengono oggi, statisticamente, a tipologie di persone le quali non stanno – ecco la zona grigia del disagio – abbastanza bene da cavarsela da sole, in qualsiasi frangente; e che neppur risultano, sul piano fisiologico e spirituale, debilitate al punto da dovere essere sostituite, nell’area patrimoniale o non patrimoniale, interamente e per sempre. Creature a metà fra il bianco e il nero, nel campionario della mancata autosufficienza. Individui i quali sarebbero, un tempo, rimasti ai margini del diritto, abbandonati a se stessi: in balia del destino, delle proprie inettitudini, degli stenti, delle altrui incurie o cattiverie. Oggi è sempre meno così, anche di fatto. Attualmente gli ’’amministrati’’ in Italia sono all’incirca 400.000, il ritmo espansivo del presidio ex art. 404 cod. civ. è stato crescente, in percentuale, di anno in anno. Gli interdetti giudiziali sono oggi 140.000; si tratta in parte di persone le quali erano già interdette nel 2004, che non sono defunte nel frattempo, e che non sono state fin qui, per le ragioni più varie, “disinterdette" dai Tribunali, come pure era teoricamente possibile. Gli inabilitati sono press’a poco 20.000.
3. Ombre crescenti
Col passare degli anni alcune difficoltà, in vista della salvaguardia dei più fragili, sono venute acuendosi. Così, ad esempio, per effetto dei contrasti fra teoria e pratica del diritto. Da un lato i proclami, si osserva, delle convenzioni internazionali, del diritto europeo, della legislazione nazionale e regionale: con nobili affermazioni di principio, sulla carta, con un proliferare di vessilli e declamazioni, circa le prerogative degli esseri vulnerabili, in merito agli obblighi dello Stato, delle pubbliche istituzioni. Dall’altro lato le contro-segnalazioni del welfare in affanno, in quell’ambito, degli impegni rinviati o disattesi: allorquando emerga di giudici che scarseggiano, in particolare, di cancellieri che non vengono rimpiazzati, di fondi decurtati o dirottati altrove, di decreti dell’AdS impersonali, troppo standardizzati, di amministratori di buon cuore che latitano. O quando si sappia – aggiunge qualcuno – dell’assistenza domiciliare che verrà sospesa, a partire dal mese prossimo, del day hospital che sta per chiudere, salvo miracoli; degli sportelli che non apriranno subito, in Comune, del consultorio che accorcerà gli orari, del corso di formazione non più finanziabile.
4. Le cose cambiano
Forte in effetti il pericolo – si continua – che situazioni di relativo splendore possano, da un giorno all'altro, iniziare a perdere colpi, anche per quanto riguarda i più esposti alle intemperie; con uffici man mano anchilosati da tensioni interne, frustrati in qualche fantasia di riassetto, via via meno incisivi negli interventi, ridotti a gusci sostanzialmente vuoti. Neo forme di debolezza poi – sul piano dell’efficienza informativa, nella giungla burocratica, dei saperi e accessi tecnologici – che si affacciano insidiose; e non è detto che le difese rituali, per chi resti emarginato comunicativamente, saranno sempre utilizzabili. La scarsezza di risorse che incombe poi, a livello economico, deludendo e offuscando i sogni migliori, presso i consigli comunali e regionali; ed è già chiaro come alcune garanzie, quanto al lavoro dei malati di mente, o per l’aiuto scolastico agli allievi con disabilità, a proposito dei care giver, dei protettori di minori non accompagnati, non siano generalizzabili oltre una certa soglia, nelle rivendicazioni delle magistrature più alte. Psichiatri o psicologi i quali traslocano, per sempre talvolta; pensionamenti a raffica, assistenti sociali orientati a cambiare reparto, giudici chiamati a fare carriera altrove. Come evitare – se quella orale, mimica o gestuale è la forma con cui i disadattati si raccontano di solito, attraverso cui parlano e rispondono all’esterno – che ogni cambio fra i custodi, fra gli interlocutori abituali o prediletti, disperda ricchezze preziose? Vanificando subliminarità e automatismi, giochi di sinapsi scontati fino ad allora, pre-comprensioni collaudate negli anni?
5. La ‘’Bozza Cendon’’ del 1986
Molteplici i fattori che, grazie anche alla collaborazione di studiosi di altri Atenei, indurranno un gruppo di giuristi dell’Università di Trieste – dopo lo svolgimento dell’importante convegno tenutosi alla Stazione Marittima nel giugno del 1986, "Un altro diritto per il malato di mente. Esperienze e soggetti della trasformazione’’ – a stendere quell’estate una neo intelaiatura per gli assetti inerenti, nel codice civile, al continente dei ‘’civilmente disadattati’’. Occorreva per i redattori prendere atto, anzitutto, che la quasi totalità delle persone con disturbi mentali, salvo quelle accolte in cliniche private o in micro-istituzioni, erano destinate a vivere – dopo il 1978 – non più all’interno di un "Moloch totalitario’’, di un formicaio compattato della Sanità; bensì in famiglia, quella d’origine o quella propria, oppure in micro comunità, certuni in appartamenti alloggio, magari in un’abitazione da soli. A casa propria insomma. Non poteva prorogarsi allora, in via ulteriore, un sistema di risposte concepite nell’'800 per destinatari ammassati abitativamente, parti di un mega ingranaggio, a porte chiuse dall’interno. Con la “Chose sanitaria e inframuraria’’ che custodiva stabilmente gli ospiti, da un lato, e che aveva se non altro il merito di provvedere, mese per mese, più o meno gratis, al soddisfacimento dei loro bisogni elementari (dormire, mangiare, luce, acqua, riscaldamento, igiene).
6. Scorciatoie, espedienti gestionali
Era sempre più chiaro che i moduli risalenti, all’interno del codice civile, quali l’interdizione e l’inabilitazione, offrivano al popolo della vulnerabilità, sub specie di gestione ordinaria, risposte invecchiate, non più presentabili. Sia perché troppo severe come gabbie, quanto a ispirazione politica, per l’ordine pubblico. Sia perché schemi architettati in alto, destinati a entrare in gioco uniformemente, in termini meccanici: rispetto a una folla di esseri pur differenziati, sul piano umano, inconfondibili fra loro – per genere, diagnosi medica, età, carattere, salute fisica, tessuto familiare. Divise legali, in altre parole, nel grande falansterio di vita e di cura; livree uguali l’una all’altra, simili a camicie di forza, a righe orizzontali o verticali. Alle "voci legali e amministrative’’ dopo il 1978 – e cioè alle riscossioni e ai pagamenti, alle rate e alle multe, alle tasse e alle bollette, alle iscrizioni, agli abbonamenti e ai recessi contrattuali – provvedevano le famiglie, di solito, per i frequentatori dei Centri di salute mentale. Oppure gli operatori stessi dei Centri, infermieri e assistenti, intervenendo quasi sempre senza vere procure, neanche verbali; comunque sulla base di attribuzioni rappresentative e facoltizzazioni di dubbia regolarità. Spesso in forza di una filigrana accuditiva puramente empirica, "selvaggia’’; coltivata in modo spontaneo, emergenza per emergenza, se non proprio svolgentesi sulla base della negotiorum gestio. Entro cioè una cornice quantomeno precaria, dipendente dal buon cuore, un po’ approssimativa, come per i quasi contratti di stampo giustinianeo. Il che si traduceva alfine (ecco il punto) per metà in serie possibilità di abusi, di prevaricazioni insidiose per l’assistito; per l’altra metà nel rischio di incurie e neghittosità, di rimandi di comodo nelle consegne, negli assolvimenti, nelle bonifiche, nei condoni, nelle messe in regola al catasto: tutti disguidi solo in parte giustificabili col pericolo, per gli interessati, di incorrere in questa o in quella sanzione.
7. Sotterfugi disciplinari, esempi stranieri
Era anche palese che l’espediente utilizzato, dopo il 1978, da alcuni fra i nostri giudici tutelari – i quali muovevano da una mini disposizione contenuta nella legge 180, volta a riconoscere alcuni poteri d’intervento al GT, in via di urgenza, riguardo agli infermi sottoposti a un trattamento sanitario obbligatorio (norma che veniva estesa poi, in generale, a tutti i fragili psichici bisognosi di un soccorso gestorio) – non poteva dilatarsi oltre una certa misura. Pur se esso valeva a fornire, occorreva riconoscerlo, un tampone/accorgimento esemplare sul come operare post manicomio, per un sistema privatistico; anzitutto a livello giudiziale, in via di emergenza, un giorno magari sul piano legislativo. In più esistevano, lungo un’altra vetrina, quella dell’Europa, i grandi paradigmi offerti – sul terreno riformatore, a livello europeo – da alcuni ordinamenti stranieri: quelli culturalmente più sensibili alle necessità di svecchiamento e civilizzazione, per il diritto dei meno fortunati, come la Francia e l’Austria. Paesi che in vario modo, a partire dagli anni sessanta, la prima con l’introduzione della Sauvegarde de justice nel code civil, la seconda con l’abrogazione dell’interdizione e l’inserimento nell’ABGB della Sachwalterschaft, avevano ammodernato le loro officine. Non si trattava anche qui – ecco la domanda – di indicazioni preziose a livello normativo, di cui tenere conto per l’ambiente italiano?
8. Un metro empirico di valutazione
La chiave di volta allora dell’amministrazione di sostegno – come versione del terzo decennio, per il terzo millennio – nell’inchiesta affidata al giudice tutelare? Il criterio attraverso cui decidere, oggigiorno, se far luogo o meno alla misura in questione, riguardo a un determinato cittadino, al centro del ricorso presentato? Si tratta, va sottolineato, di una cifra funzionale e insieme comparativa, rimessa applicativamente al Tribunale, ossia di un filtro storico/contabile, in senso ampio: da identificarsi come ‘’adeguatezza/inadeguatezza di gestione’’, per quella data persona, nel suo contesto abituale di vita, tenuto conto di ogni aspetto, anche extra-monetario, immateriale. Cifra ravvisabile – ecco il raffronto indicatore – nella corrispondenza o meno (a) tra i comportamenti che sono stati tenuti dal soggetto in esame, specificamente, lungo un cert’arco di tempo; (b) a fronte di un modello ideale di dare/avere, sul piano spirituale e commerciale, come astratta fragranza quotidiana, del cuore e del portafoglio.
9. Economia domestica
In questa prospettiva le questioni-base per gli uffici preposti, nei confronti del beneficiando, verteranno non tanto e non solo sul se ci si trovi dinanzi a un individuo ‘’malato o menomato’’, a livello fisico o psichico: di fronte a un essere rientrante, come tale, in qualche casella nosologica o accademica. Occorrerà domandarsi soprattutto – a valle dell’inchiesta, partendo dagli estratti conto, dai tabulati, dai video di registrazione, dagli scontrini, dai prospetti condominiali, dai segni digitali di passaggio, dai test dello psicologo o del confidente domestico – se le azioni che la persona in esame compie, o non compie, mediamente, siano quelle che hic et nunc (a fin di bene, in vista di un risultato fruttuoso) dovrebbero venir intraprese nei contesti familiari, scolastici, lavorativi, relazionali, in cui la stessa si trova immersa. Diagnosi o etichette di tipo medico, previdenziale, sindacale, religioso, universitario, laboratoriale? Influiranno certamente, anche nell’ottica dell’Amministrazione di sostegno. Sempre fino a un certo punto però, come tracce di prima correlazione; per un raccordo fra i diversi saperi, nel computo d’insieme.
10. Fare male, non fare affatto
I fatti omissivi allora, le astensioni e mancanze spicciole, ‘’ruspanti’’? I materiali consistenti nel non essersi l’amministrando attivato, in nessun modo, quando un’iniziativa sarebbe invece stata indispensabile per lui, o almeno propizia? Sono elementi destinati quasi sempre – salvo che non ci si riferisca a soggetti abituati a vivere sugli alberi, o in una grotta di montagna – ad assumere un valore ben più marcato, all’interno del giudizio, rispetto ai fatti di tipo commissivo. Prescrizioni o decadenze dimenticate allora, oppure i figlioletti lasciati senza libri scolastici, senza giocattoli o senza scarpe. Convocazioni in tribunale che vengono disertate, col rischio di condanne in automatico. Il cane e il gatto di casa a digiuno, i fiori non innaffiati, centimetri di polvere sui libri, segni di rassegnazione sul piano igienico, sanitario.
11. Rischi accentuati
Certo è un male – sperando che non tardi eccessivamente l’annullamento contrattuale, o la condanna penale del truffatore – se colui che si trova ai margini dell’assennatezza, o del buon senso, effettua una donazione assurda, cosa che proprio non dovrebbe, per il suo bene; oppure se il nostro acquista un quadro pagandolo dieci volte il suo valore, o vende un prezioso mobile di casa per quattro soldi. Peggio ancora tuttavia, per certi versi, quando l’interessato evita (come talvolta succede) di pagare le bollette, in nome del suo stile di vita, o per vizi endemici, o per disinvolta noncuranza; se non si cura dei suoi debiti, e nemmeno dei crediti, se non aggiusta per tempo – nel segno dell’originalità riservata ai grandi della mente – qualche persiana delle finestre o una ringhiera di ferro pericolante, con sotto i pedoni che passano o i bambini che giocano. E ancor più preoccupante, il contesto, per chi usa gettare senza aprirle le raccomandate postali, con dentro i moduli di versamento; per chi scorda di prendere regolarmente gli antibiotici o gli anticoagulanti o le pasticche al litio: per chi non fa riparare i freni guasti o non cambia le gomme consumate dell’automobile.
12. Una treccia a tre fili colorati
Alcuni fra i nostri interpreti – per scandire immaginificamente quanto avvenuto, a partire dal 2004, nel campo dell’Amministrazione di sostegno – sogliono far riferimento allo Scooby Doo; quel giochino a basso costo (caro soprattutto alle bambine) che si compra dal giornalaio, e che consiste in tre fili di plastica di colore diverso, ad esempio rosso, verde e giallo, da ricomporre l’uno insieme agli altri, con le dita, in modo da formare una piccola treccia.
(a) In effetti, allorché la ‘’Bozza Cendon’’ era stata redatta, nel 1986, l’attenzione degli autori, circa le questioni riservabili al giudice o al vicario, si era rivolta in via pressoché esclusiva ai lemmi di tipo economico: e cioè spese ordinarie e straordinarie, canone tivù, condominio, garage, banca, conto postale, investimenti (giusti e sbagliati), contributi della badante, assicurazione, bollo auto, tagliandi, e così via.
(b) a partire dal 2004 il da farsi, per giudici e per gli amministratori di sostegno, era invece destinato a lievitare, sia nelle voci sia nei livelli generali. Anzitutto sotto il profilo sanitario.
Fino ad allora – salvo il caso degli interdetti e degli inabilitati, dove esisteva pur sempre un tutore o un curatore, in grado di prestare/incoraggiare il consenso – ad autorizzare l’atto medico, fuori dall’ipotesi dello ‘’stato di necessità’’, provvedeva di solito (allorché l’interessato non fosse in condizione di esprimersi direttamente) qualche familiare. Oppure si faceva capo all’espediente del ‘’consenso presunto’’, o dell’assenso ‘’tacito’’, secondo cui, dinanzi a un certo malanno fisico o psichico, è plausibile che chiunque di noi – contingentemente obnubilato o alienato – sarebbe d’accordo con le vie d’uscita proposte dal sanitario. Il giudice non veniva pressoché mai chiamato in causa.
13. Crisi del consenso presunto
Dopo l’entrata in vigore dell’AdS, alcuni fra gli scenari di cui sopra sarebbero caduti. I familiari non erano più abilitati a fornire, in quanto tali, un consenso informato per il congiunto; dovevano a quel fine essere stati prima nominati, ritualmente, amministratori di sostegno. L’espediente del consenso presunto – ora che in materia esisteva una normativa specifica – perdeva molto del suo credito presso i Tribunali. E di conseguenza presso i medici, consapevoli per primi dell’azzardo legale che incombeva, da allora in poi, per ogni gesto sanitario irregolare. Decisi pertanto a non subire accuse di violenza privata o di sequestro di persona o di abuso professionale, con i relativi corollari penali e risarcitori. Ecco perché, già nel 2004, si moltiplicheranno le istanze in cui un medico – per procedere a quell’atto, specie se di tipo chirurgico, talvolta anche poco impegnativo – pretendeva che entrasse in gioco qualcuno con le credenziali giuste: un fiduciario in condizione di prestare ufficialmente, riguardo al malato non in grado di esprimersi, il consenso informato.
14. Prima no e poi sì
All’inizio vi sarà – ricordiamo la cronaca dei Tribunali – qualche magistrato il quale respingerà l’istanza in questione: dichiarando di non possedere competenze formali, in quanto Ufficio dello Stato, sul piano sanitario/farmacologico. Sarà ben presto evidente tuttavia, a fronte di un medico deciso a non procedere di sua iniziativa, che l’unico modo onde uscire dall’impasse (evitando che fosse il malato a scapitarne) era quello di invitare il GT a nominare lui, con sollecitudine, un’“avatar privatistico’’: autorizzato espressamente nel provvedimento a prestare il consenso.
Dopodiché tutti i magistrati concordi, allineati in breve tempo. Il problema poteva dirsi temporaneamente risolto per l’Italia. Lacuna istituzionale colmata, salvo che per i casi (ma era già un altro discorso) in cui risultasse arduo reperire, di fatto, un incaricato disponibile alla bisogna; in assenza di un familiare a portata di mano. E le difficoltà si spostavano, semmai, sull’altra serie di crinali operativi – i più intricati fra tutti – al cui centro c’era un paziente non proprio lucido, magari, confuso sui dettagli, affetto da qualche tremolio psichiatrico; e fermamente contrario però (questo il punto) rispetto all’atto medico o farmacologico in questione. Si tratterà – ecco la conclusione – di una congerie di neo fattispecie medico/legali, spesso non semplici da ricomporre per il GT: ad esempio nell’eventualità di una mancata convergenza, presso lo stesso apparato sanitario, circa la via migliore da seguire.
15. Negozi di tipo personale
Non meno impegnativo, dopo l’avvento dell’AdS, il settore inerente al ‘’terzo filo colorato’’ dello Scooby Doo: quello relativo ai problemi di natura familiare e successoria. Pur tanto meno rilevanti a livello quantitativo, casi del genere, per come venivano affacciandosi sul tavolo del magistrato, apparivano nel 2004 di particolare delicatezza. Più di un giurista aveva prospettato, all’inizio, la conclusione secondo cui immaginare una delegabilità a terzi di momenti simili – così intrinsecamente legati al nucleo profondo di ciascuno, sul piano ideale e pulsionale – non fosse consentito nel diritto. Nessun alter ego avrebbe potuto gestire quei filamenti (tale l’assunto di fondo) in vece dello stretto interessato.
16. Una distinzione importante
Era una posizione che si articolava, sul piano casistico, in due distinti tronconi.
(a) Vi erano le ipotesi in cui appariva pressoché impossibile, salvo che in un film distopico, di fantascienza, immaginare una sostituibilità legale del beneficiario, in carne e ossa, quale autore del negozio.
Così ad esempio per atti come il matrimonio o il testamento: ambiti in cui (si osservava) la pregnanza del momento egoico/affettivo, non strettamente razionale e ufficiale, risultava palese a tutti.
(b) E vi erano poi le fattispecie in cui il dato cruciale, ai fini di una decisione circa il ‘’ponte di comando’’, poteva ravvisarsi (riguardo alle persone svantaggiate) non già nei tratti di una signoria ancestrale, d’ordine recondito/emotivo; quanto piuttosto nei lemmi del ‘’benessere oggettivo’’ per il singolo – alimentare, sopravvivenziale, metropolitano – con un’attenzione spiccata per il motivo del best interest.
Ad esempio là dove – come esito di iniziative tarate su provvedimenti come la separazione coniugale o il divorzio, o rivolte a un annullamento del matrimonio, a una rinuncia all’eredità, perfino a un riconoscimento del figlio naturale, o a una dichiarazione giudiziale di paternità – risultava pacifico cosa fosse e non fosse, anche psicologicamente, consigliabile per la miglior quotidianità dell’interessato (inerte ma non oppositivo).
17. Sì da una parte, no dall’altra
Bene dunque – ecco la conclusione – l’Amministrazione di sostegno, dopo un periodo di titubanza nelle Corti, per le evenienze tecniche del secondo tipo. No invece per quelle del primo tipo. Così è ancor oggi in linea di massima; sempre più diffusamente potremmo dire.
Naturale poi che la soluzione sarà destinata a complicarsi dinanzi a un beneficiario, afflitto da malesseri psichici, il quale si dichiari ostile – poniamo – al compimento di un atto personale per lui consigliabile, anzi necessario, secondo quanto suggerito dall’amministratore. O, in modo simmetrico, nel caso di un assistito incline alla conclusione di negozi che si annuncino, per lui, secondo l’opinione concorde del vicario e del giudice, visibilmente azzardati o temerari (ad es. il matrimonio con persona di dubbia moralità e affidabilità).
18. Centralità della persona del beneficiario
Il legislatore italiano ha avuto cura di sottolineare in più sedi, entro la cornice normativa del 2004, l’imprescindibilità (del motivo) della sovranità decisoria, nelle sue diverse declinazioni.
Autodeterminazione, libertà di gestione, propensioni hic et nunc: salvo eccezioni sarà il beneficiario a stabilire, così come meglio desidera, quel che rientra o non rientra nelle sue ‘’praterie d’inveramento’’ – e di tali elementi non si potrà non tener conto, fin che possibile, dagli operatori che lo attorniano.
Più d’una le disposizioni che interessano. Nell’art. 1 della l. 6\2004, si parla, in particolare, di "finalità di tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia’’. Nell’art. 406 cod. civ., di "ricorso per l'istituzione dell'Amministrazione di sostegno’’ che "può essere proposto dallo stesso soggetto beneficiario, anche se minore, interdetto o inabilitato’’.
Nell’art. 407 cod.civ., di un giudice tutelare che "deve sentire personalmente la persona cui il procedimento si riferisce recandosi, ove occorra, nel luogo in cui questa si trova’’ e che "deve tener conto, compatibilmente con gli interessi e le esigenze di protezione della persona, dei bisogni e delle richieste di questa’’. Nell’art. 408 cod.civ., di scelta dell'amministratore di sostegno, che dovrà compiersi "con esclusivo riguardo alla cura ed agli interessi della persona del beneficiario’’, precisandosi poi che "l'amministratore di sostegno può essere designato dallo stesso interessato, in previsione della propria eventuale futura incapacità, mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata’’.
Nell’art. 409 cod.civ. si sottolinea che "Il beneficiario conserva la capacità di agire per tutti gli atti che non richiedono la rappresentanza esclusiva o l'assistenza necessaria dell'Amministratore di Sostegno’’ e che egli “può in ogni caso compiere gli atti necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana’’. Nell’art. 410 cod.civ. viene stabilito che “nello svolgimento dei suoi compiti l'amministratore di sostegno deve tener conto dei bisogni e delle aspirazioni del beneficiario’’, che egli “deve tempestivamente informare il beneficiario circa gli atti da compiere nonché il giudice tutelare in caso di dissenso con il beneficiario stesso’’, aggiungendo che “in caso di contrasto, di scelte o di atti dannosi ovvero di negligenza nel perseguire l'interesse o nel soddisfare i bisogni o le richieste del beneficiario, questi, il pubblico ministero o gli altri soggetti di cui all'articolo 406 possono ricorrere al giudice tutelare, che adotta con decreto motivato gli opportuni provvedimenti’’.
19. Soggetti deboli e soggetti indeboliti
Scansato l’ostacolo, addolcite le creste, i problemi operativi verranno ad attenuarsi; scompariranno in parte dall’agenda del beneficiario. Non esistono in definitiva – ecco la conclusione di molti – creature “deboli intrinsecamente”; non si danno individui segnati da ombre arcane, ab origine, soggetti con un marchio scritto in fronte, tali una volta per sempre. Vi sono non più che esseri ‘’indeboliti’’ dalle circostanze, nel corso della stagione, cittadini resi claudicanti ex post, in via provvisoria; e ciò a causa di un’omessa rimozione degli ostacoli, da parte della Repubblica; per effetto di una proroga cieca e impigrita delle saracinesche, dei cavalli di Frisia dell’interessato.
L’ottica diventa così quella di un approdo/ritorno ai giusti ritmi, da ricercare attentamente, in vista di una rifioritura sostenibile. Così bisogna giudicare l’esistente, nella sostanza e già nelle parole che si impiegano. Non sarà fragile dunque, non almeno di default, il bambino rimasto orfano, esposto a insidie circostanti; il giovane extraeuropeo, magari albino e dai piedi rovinati, con ritardi di apprendimento. Casomai il minore privo di figure adulte sostitutive, istituzionalizzato sconsideratamente, ignorato dalle strutture educative; l’adolescente in cerca di affetto, buttato in un angolo, senza telefoni a portata di mano, senza i suoi colombi viaggiatori: la ragazzina bisognosa di un dentista, mancante di qualcuno in grado di registrare segnali, confidenze, invocazioni.
20. Persone con disagi psichici
Disturbi mentali? Di nuovo a contare – più che i misteri sotterranei – sarà il quadro dei rapporti con gli altri, il nesso di fluidità con l’ambiente. Indebolito potrà dirsi l’oligofrenico che i familiari sequestrino in casa, quello obeso per pigrizia, improduttivo suo malgrado, con gli occhiali da miope mentre gli servirebbero da presbite. Cesserà di esserlo, sarà meno in scacco, il giorno in cui gli operatori avranno rivisto il dosaggio di psicofarmaci, ritoccato le scadenze; inserendo l’utente in un circuito di impegni, di fermenti a sua misura, facendogli nominare un custode premuroso, procurandogli una pensione di invalidità. Ricomparirebbe, la parte oscura, il giorno in cui il nostro si trovasse interdetto senza necessità, dismesso dalla cooperativa, sottratto ai luoghi del tempo libero, boicottato nei legami sentimentali; minacciato qua e là nella sua riservatezza, ostacolato nello sport, scoraggiato nella coltivazione dei suoi hobby, affidato a un tutore (magari onesto ma troppo) austero e taccagno.
21. Altri esempi
Così di seguito. Non sarà fragile lo spastico, il sordomuto, il paraplegico avvolto in coltri idonee a valorizzare, al meglio, quanto il soggetto è in grado di compiere. Non Gregor - il neo-scarafaggio di Kafka, umano sino al giorno prima - qualora lo trattino in casa come un figlio malgrado tutto, come un fratello sfortunato. Non lo sarà la donna incinta, segnata da afflizioni psicosomatiche, che il consultorio sappia guidare dolcemente, sino al momento del parto; poi nei mesi successivi, con scrupolosità. Non sarà debole l’alcolista accolto in un centro che si prenda, continuativamente, cura di lui. Né il gay messo in condizione di accompagnarsi a qualcuno, alla luce del sole, di optare per un regime di comunione, di non testimoniare ai processi contro il compagno. Né il detenuto ospite di una prigione con celle adeguate, servizi di biblioteca, bagni puliti, contatti periodici, possibilità di tenerezze incluse, rispetto al mondo esterno; quello incoraggiato a organizzare quartetti d’archi dentro le mura, a diplomarsi, ad allevare uccellini.
22. Messe a confronto
Raffronti indicativi per l’interprete? Non tanto quelli tra la squadra dei "forti" da un lato, e la compagine dei "deboli" dall’altro; oppure i confronti – preziosi nei discorsi sul danno, un po’ meno rispetto al primo libro – tra ciò che un essere in difficoltà fa e disfa attualmente, con un minor tasso di freschezza, e il modo in cui il soggetto si muoveva, corpo e anima, prima che nella sua casella irrompessero i fattori di scompenso.
Piuttosto la messa a paragone – questa sì – fra quel che un “debole” si trova costretto a fare, contingentemente, e ciò che avverrebbe, per lui, qualora fossero attivi nella realtà i supporti (educativi, rincuoranti, sportivi, ospedalieri) capaci di neutralizzare, riguardo alle sue giornate, i riflessi negativi delle manchevolezze.
Parole chiave? Scambio, interfaccia, empatia: ponderare ciò che sta accadendo, dentro e fuori l’individuo, capire quali vie d’uscita saranno preferibili. Le leve giudiziali come percorsi elastici, da rinnovare ogni tanto, anche dietro istanza dell’interessato. Il bon ton quale insieme destinato a fluire, che dovrà spendersi con la giusta scioltezza – qualcosa privo di intralci, a misura d’uomo.
23. No a privilegi eccessivi
Il risultato che minaccia un’indulgenza eccessiva, alle volte, nello statuto della fragilità? A parte l’oggettiva iniquità per la controparte (vittima innocente del caso), potrebbe scattare una sorta di ingessamento – negoziale e sociale, per il soggetto privilegiato – quale contraccolpo indesiderabile; alla lunga un blocco ‘’pervasivo–esistenziale’’ nella sua agenda. Stante il presumibile rifiuto a monte, da parte dei terzi, a entrare in affari con creature autorizzate a monte, dall’ordinamento, a fare sempre ciò che vogliono, nel bene e nel male; creature ammesse ad agire anche capricciosamente, persino scompostamente, senza dover mai fornire spiegazioni, esenti per definizione da conseguenze. Meglio allora – opinano alcuni – prevenire per tempo i boomerang della vita corrente. Una tendenziale parità di trattamento, tra fragili e non fragili, nell’interesse anche dei primi, si profilerà a volte come la miglior linea di politica del diritto.
24. Gli artt. 428 e 2046 cod.civ.
Bene così un’impugnativa per (atti conclusi da) soggetti cui il potere dispositivo era stato, in via formale, sospeso o negato dal giudice tutelare.
Dubbi tuttavia sulla funzionalità di norme:
(a) come l’art. 428 cod.civ., secondo comma, che parrebbe consentire, una volta emersa la malafede della controparte, l’annullabilità anche di contratti equilibrati per sé stessi, impeccabili nella sostanza, nient’affatto dannosi per l’ ‘’incapace’’ - e che soprattutto rende inattaccabili il 99% dei contratti sbagliati fatti a distanza, tipo Amazon;
(b) o come l’art. 2046 cod.civ., che a beneficio degli infermi gravi di mente mantiene in vita una sorta di licenza a recare danni, senza dover pagare dazi, almeno in prima battuta.
Quale condominio in situazioni del genere – volendo metterla sul pratico – accetterebbe di ospitare al proprio interno una casa/appartamento per creature (‘’chi rompe stavolta non paga’’) instabili psichicamente? Quanti interlocutori, sapendo di aver a che fare con qualcuno facile da abbindolare, miracolato tuttavia dal sistema, in grado di sottrarsi agli obblighi esecutivi, a suo piacere, non preferiranno scansarlo a monte, isolare e ostracizzare già in partenza il ‘’fuorilegge’’?
25. Quando l'amministratore non può essere un familiare
Si sostiene da alcuni che la disciplina dell’AdS andrebbe modificata, a livello normativo o quantomeno applicativo, in un punto specifico; mai attribuire il ruolo di amministratore di sostegno al di fuori della famiglia – occorrerebbe pescare sempre, a tal fine, entro l’ambito domestico. Soltanto il coniuge, ad esempio, oppure un genitore, un figlio, un fratello, uno zio, un parente stretto; meglio se un consanguineo. Escluse altre soluzioni. Che dire al riguardo?
Occorre prudenza in questi casi, come sempre; bisognerà informarsi bene, ogni volta, candidato per candidato: lente di ingrandimento alla mano, per il magistrato. Accorgersi via via di ogni ombra, indovinare le furberie e i tranelli, procedere coi piedi di piombo. Diventare sospettosi, specie quando vi siano in ballo ‘’case e alberghi’’, analizzare il conto in banca, sistematicamente, il portafoglio titoli del beneficiario. Diffidare di chiunque si offra troppo disinvoltamente per quell’ufficio. Con scrupolo, meticolosità: il controllo può manifestare dei buchi a volte, non riuscire a smascherare gli imbrogli in atto, in cantiere.
26. Casistica
Va detto allora che l’inclinazione pro focolare, agli effetti della nomina, può essere accettabile in tutta una serie di ipotesi. È la linea che il legislatore ha fatto sua, del resto, allorquando ha indicato quello casalingo come il bacino entro cui attingere, in prima istanza, da parte del magistrato (art. 408 cod.civ.). Sono molte le situazioni però, ecco la realtà, in cui occorrerà indirizzarsi diversamente, scegliendo come amministratore un estraneo.
(a) Così anzitutto – per scendere a qualche esempio – quando non ci sia nessun parente cui far capo; è evidente che occorrerà qui pescare al di fuori. Lo stesso allorché il familiare esista, sulla carta, con un beneficiario che lo respinge però come gestore; nella misura del possibile andranno trovate altre soluzioni. Lo stesso nel caso in cui il congiunto, il quale potrebbe svolgere il compito assistenziale, detesti vivamente il beneficiario, e viceversa; o quando il candidato appaia indisponibile, e faccia sapere, motivatamente, di non voler assumere siffatto munus; oppure nel caso in cui il familiare abbia passato il proprio tempo – capita a volte – a derubare il fragile in passato, a truffarlo, a insidiarlo, ovvero nel caso in cui sussista un serio contrasto d’interessi, fra i due.
(b) Idem allorché il familiare risulti portatore di gravi dipendenze, tipo alcol, droga, sostanze, disturbi alimentari, gioco d’azzardo; o quando egli si trovi in carcere, oppure abiti in Australia o in Canada.
Conclusione analoga quando il familiare (candidato) appaia gravemente malato o disabile; o sia un centenario, o abbia meno di 18 anni, o sia interdetto o inabilitato, o risulti a sua volta un beneficiario di AdS. Oppure quando si tratti di un soggetto analfabeta, ritardato tecnologico, inesperto rispetto alle questioni che interessano la vita del fragile; o sia un credulone inguaribile, uno spilorcio, come peggio non si potrebbe, oppure un essere maniacale, smemorato, imprudente per natura, negligente di carattere, prodigo con tutti, ribelle patologico, seguace di sette misteriose.
In generale, allorché ci si trovi in presenza di un gruppo familiare – quello di partenza – pieno di odio, intrinsecamente tossico, un nucleo di vipere; con dissidi gravi e ricorrenti, con minaccia di ricadute negative per il beneficiario (tenuto conto anche delle convivenze in atto), laddove uno dei parenti diventasse AdS.
27. Abrogare l’interdizione
A vent’anni dall’entrata in vigore della legge n. 6 del 2004 sono maturi, oggigiorno, i tempi per far luogo all’abrogazione dell’interdizione e dell’inabilitazione. Non sussiste alcun motivo valido che giustifichi la conservazione, nel codice civile, dei due vecchi modelli “incapacitanti’’. E anzi tale abrogazione è divenuta non più rinviabile, per un ordinamento che voglia dirsi realmente sensibile ai diritti fondamentali dell’individuo – quali, in primo luogo, la dignità personale e il diritto al sostegno. Una chiara indicazione in tal senso proviene dall’Osservatorio Nazionale sulla condizione delle persone con disabilità, istituito in seno alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. L’Osservatorio ha, in particolare, elaborato un documento nel quale riferisce circa le osservazioni e istanze formulate dal Comitato Onu, riguardo all’attuazione della Convenzione sui diritti delle persone con disabilità. La preoccupazione del Comitato è che si continui oggi a “perpetuare la sostituzione’’ della persona disabile, mediante il ricorso a un tutore, per quanto concerne le decisioni da assumere. La raccomandazione è nel senso di abrogare, in concreto, le leggi che permettano siffatta sostituzione, per giungere ad assetti imperniati su un presidio autentico del processo decisionale. Sulla base di detta istanza l’Osservatorio passa allora in rassegna – con la lente di ingrandimento – le tre misure difensive contemplate oggi nel codice civile; ciò allo scopo di vagliarne la compatibilità con le indicazioni del Comitato. Riguardo all’interdizione, in particolare, l’Osservatorio così si esprime: “Sicuramente la prima delle tre misure di protezione giuridica (interdizione) deve essere abrogata, visto che prevede la sostituzione della persona con disabilità da parte del tutore nominato dal Giudice sempre e per l’esercizio di qualsiasi diritto, patrimoniale e non (incluse le scelte esistenziali: dove vivere, ecc.) parlandosi in tal caso di ‘rappresentanza esclusiva’ (il tutore compie gli atti da solo e firmando in nome e per conto della persona interdetta)”. Tale passaggio condensa in poche parole il d.n.a. dell’interdizione, ovverosia il taglio espropriativo e di totale rimpiazzo per la creatura in difficoltà; la quale si trova collocata dal tribunale – come spesso vien detto – entro una maglia giuridica equivalente alla morte civile. Con l’interdizione la persona viene dichiarata, urbi et orbi, legalmente incapace di agire, il che comporta un'estromissione dalla possibilità di compiere qualsivoglia atto produttivo di effetti giuridici (contratti anche semplici, negozi di natura personale, come il matrimonio o il riconoscimento di un figlio).
28. Neppure ha senso oggi l’inabilitazione
Al riguardo, l’Osservatorio ricorda come il Curatore intervenga, qui, ad “assistere’’ e non già a “sostituire’’ la persona, nel compimento dei soli atti di straordinaria amministrazione; talché l’interessato rimane libero di compiere quelli di ordinaria amministrazione. Pur tuttavia, prosegue il documento, “i poteri del curatore e quindi l’ampiezza dei suoi poteri è già declinata in maniera generale nel codice civile, senza aver cura di calibrare tale attività rispetto alle esigenze di supporto del caso concreto; quindi all’eventuale ricorrere di alcune condizioni stabilite dal codice civile, si prevede che il curatore agisca sempre in una certa maniera nell’‘assistere’ la persona nel compimento di tutti gli atti di straordinaria Amministrazione controfirmando e dando valore agli atti. ovvero non controfirmando gli atti posti in essere dalla persona con disabilità e quindi bloccandoli”. Da qui la necessità – secondo l’Osservatorio – di abrogare pure l’inabilitazione: “Anche rispetto a tale misura di protezione giuridica, si deve considerare l’automatismo nell’attività di una figura (curatore) che interviene, con una sorta di potere di veto, nelle scelte della persona con disabilità su un novero di atti già identificato dal codice, semmai per il ricorrere solo di alcune condizioni che non permettano solo alcuni di tali atti di straordinaria Amministrazione”. In effetti l’istituto dell’inabilitazione risulta da tempo disapplicato, in Italia, sostituito com’è nella prassi dall’Amministrazione di sostegno; e tale sfioritura conferma la necessità di procedere a una cancellazione formale.
29. Conferme
La stessa Convenzione delle Nazioni Unite, sui diritti delle persone con disabilità, fa obbligo agli Stati di prendere le misure necessarie a che le persone con disabilità ricevano il sostegno di cui hanno bisogno per esercitare la loro capacità (art. 12, par. 3). Tutte le misure statali suscettibili di incidere sulla capacità, precisa la Convenzione, devono essere tarate sulle specifiche esigenze della persona interessata, e devono tener conto della volontà e delle preferenze di quest’ultima (art. 12, par. 4). E nello stesso Preambolo della Convenzione – come rammenta ancora l’Osservatorio – “si riconosce la necessità di promuovere e proteggere i diritti umani, incluso quindi quello più intrinseco all’essere Persona, quale quello all’autodeterminazione, per tutte le persone con Disabilità, incluse quelle che richiedono un maggiore sostegno, anche ad intensità elevatissima”. Va poi sottolineato che la nostra Corte di Cassazione, con sentenza 25.10.2012, n. 18320, ha sancito la piena compatibilità sostanziale dell’AdS rispetto a tali indicazioni; a differenza di quanto non possa dirsi (ecco il punto) per una figura come l’interdizione, che appare una risposta non proporzionata allo scopo, quale misura in sostanza irrevocabile, di fatto non revisionabile. Merita anche segnalare come, a favore dell’abrogazione dell’interdizione e dell’inabilitazione, si sia pronunciato in modo esplicito – nell’ultimo ventennio – l’intero Gotha della dottrina civilistica italiana: basterà ricordare qui i nomi di R. Sacco, P. Rescigno, C. M. Bianca, P. Schlesinger, S. Rodotà, F. Busnelli, P. Perlingieri.
30. Ragioni a favore della dignità e libertà
È il caso di ricordare, in estrema sintesi, le negatività tecniche che sono proprie dell'interdizione (e dell'inabilitazione):
31. Spirito e linee dell’AdS: spiegare e diffondere
Non sempre dagli addetti ai lavori, dalle autorità, dai professori, dagli esperti vengono coltivati - con la necessaria solerzia - i profili della formazione, culturale e istituzionale: offrire alle famiglie e al vasto pubblico, agli stessi operatori on the field, i chiarimenti opportuni circa i ‘’motivi’’ della legge 6/2004. Lavorando anche sull’esegesi sui testi normativi, fornendo i ragguagli sistematici del caso. Momenti tanto più importanti per un’area non scontata - arieggiante com’è al ‘’diritto dal basso’’, da riplasmare e adattare per ogni situazione – qual è la difesa dei meno fortunati. Esempi di errori in proposito? A fornirne uno significativo è un recente decreto giudiziale: dove leggiamo che l’amministrazione di sostegno, a livello di diritti e di poteri, costituirebbe sempre una misura "incapacitante’’; nel senso che ogni applicazione dell’art. 404 cod.civ. produrrebbe, lo si voglia o meno, qualche restrizione nella sovranità del beneficiario. Si tratta – secondo quanto risulta dall’art. 409, primo comma, cod.civ. – di un’affermazione sicuramente lontana dal vero. Ed è sufficiente pensare al campo delle disabilità fisiche: dove potrà ben manifestarsi civilmente, qua e là, la necessità di un ausilio tecnico, a favore dell’interessato, fra cui la nomina di un vicario ad negotia (art. 404 cod.civ.); e dove raramente si segnalano, però, insidie tali da giustificare soluzioni restrittive della sovranità. Lo stesso vale – può aggiungersi – per settori come quelli delle persone anziane, dei fragili istituzionali, dei malati cronici, del fine vita.
32. Formazione, sensibilità a 360°
Né il discorso è limitato all’area degli atti e dei contratti, in senso stretto. Esempi ulteriori possono ricercarsi oltre l’ambito prettamente negoziale, dispositivo. Basta pensare ai risvolti di emotività che costellano, tendenzialmente, l’aggravarsi di un deficit psicofisico; più in generale, ai fondali umani e antropologici della volontaria giurisdizione, quale ramo del diritto privato. È palese come solo una buona educazione spirituale e interdisciplinare – presso chi è chiamato a decidere – potrà abbassare qui il rischio che venga trascurato l’ascolto degli svantaggiati, il dialogo sereno e pacato con loro. Che si eviti di indagare circa gli effetti psicologici delle decisioni assunte in Tribunale; che non sia controllata via via la qualità delle regole e delle atmosfere che vigono nei luoghi di cura, negli asili, negli hospice. Che escano qua e là calpestate le prerogative dei familiari del beneficiario, accolto in una casa di cura o in una RSA.
33. Haters seriali, gruppi antipsichiatrici
Altri imprevisti sono quelli legati al diffondersi, presso la communis opinio, di momenti di ostilità preconcetta – di avversioni umorali, spesso distillate a tavolino – nei confronti dell’amministrazione di sostegno, come entità del primo libro del codice. Beninteso rispetto alla legge 6/2004, cioè alla sua applicazione in Tribunale, si incontrano spesso critiche ben argomentate, giustificate nei fatti; critiche mosse da spirito costruttivo, allora, dentro e fuori i palazzi di giustizia, rilievi accorti e provvidenziali, lamentele che centrano in modo sapiente il bersaglio.
Alle volte ci si trova dinanzi invece, specie negli ultimi tempi, a contestazioni che travalicano le soglie della ragionevolezza, della buona fede: invettive di stampo aprioristico, programmatico, avvelenate da un che di strumentale, cahiers e requisitorie che sembrano venire da lontano, accuse intrise di un fiele di bottega.
34. Scontentezze croniche
Due al riguardo, fra esasperazioni accumulatesi nel tempo e sbandamenti polemici, le tipologie di base.
Da un lato si segnalano gli ’’infelici cronici’’, nel mondo nell’AdS: donne e uomini un po’ incattiviti, esacerbati internamente, cani perduti senza collare, con poche speranze, vittime pure e semplici della sfortuna. Persone nei cui confronti la sorte, in passato, si è accanita più o meno crudelmente; esseri che hanno perduto l’affetto di una persona cara, magari in circostanze drammatiche, scontratisi poi con decisioni avvilenti dei medici, del capo ufficio, dell’assessorato, della caserma: individui colpiti e inaciditi da sfratti, espulsioni, pignoramenti, usciti non bene da espropriazioni giudiziali, da conflitti in famiglia, da licenziamenti. Creature passate da un insuccesso all’altro, nella vita, rimbalzanti da una comunità a un ospedale, da un reparto cattivo a uno ancora peggiore. Anime schiave di qualcosa, incollerite, senza più sogni, costrette a vivere in condizioni penose.
35. Astuzie nei media
Sull’altro fianco si collocano – figure assai diverse – certi ‘’addetti all’informazione’’, grandi esperti della cronaca spettacolare, circense. Professionisti abili a far nascere le breaking news, quasi dal nulla, in ambito di fragilità umana e risvolti giuridici. Insuperabili nel fiutare scoop e colpi di scena, per il mercato, esaltando ciò che convenga, attraverso i report, in vista di un aumento del fatturato, degli applausi, tacendo tutto il resto.Autori di trasmissioni giornalistiche, responsabili di testate, di blog, odiatori che frequentano Facebook, talvolta aggregatori di vittime sentimentali. Gente familiarizzata con l’universo televisivo, che ben conosce le debolezze subliminali del pubblico, legata magari a compagini antipsichiatriche, a giuristi spregiudicati, a ex compagne di un disabile famoso. Gruppi consumati nel trasformare le storie di miseria, di débauche, ogni neo-vertenza di carta bollata, in qualcosa di mondano, di stuzzicante a livello mediatico; gonfiando qualsiasi riflesso atto a indignare i lettori, gli ascoltatori, a commuoverli in profondità. Comunicatori maestri nello svelare – con forti impennate nell’audience (fra gioielli rubati, macchine di lusso, firme estorte, quadri scomparsi) – i tristi segreti di vecchie celebrità del cinema, di star musicali, di personaggi di spicco.
36. Che fare
Difficile immaginare qui contromisure.
Vedremo come possano reagire, in certe ipotesi, gli uffici giudiziari.
Altrimenti? La frangia del pubblico più ragionevole si lascerà persuadere, ogni tanto, a tentare di contro-informarsi: in cerca di versioni meno tendenziose, presso qualche tivù o giornale on line. Decidendo poi se credere davvero alle tesi di complotti segreti, orditi dai giudici, dai p.m. e degli amministratori, contro quel beneficiario.
Una quota consistente, anche se minoritaria, non cambierà affatto opinione. Non presterà fede ad altre versioni; continuerà– spesso ignorando dove sia disciplinata l’AdS, non avendo messo piede mai in Tribunale, all’oscuro di cosa sia la Cassazione – a ripetere che l’intero ‘’sistema’’ è sbagliato, in Italia, a giurare che i magistrati sono per metà senza cuore, per l’altra metà collusi con gli amministratori. A insistere che questi ultimi sono per terzo dei ladri, per un terzo degli indifferenti patentati, per un terzo degli accaparratori di fascicoli.
Una parte significativa dirà invece che, al mondo, i disguidi accadono purtroppo, che certe risposte dei magistrati suonano frettolose, che alcuni divieti di accesso agli ospizi e alle cliniche sono eccessivi. E che dietro quell’avvenimento "tenebroso’’ non ci sarà magari il dolo, un po’ di colpa sì però - più o meno lieve - in chi ha preso le decisioni.
37. Il mondo dei giudici
Altri passaggi critici sono quelli legati al funzionamento dei Tribunali.
La prima osservazione, in proposito, è che l’amministrazione di sostegno deve molto del suo sviluppo positivo, dopo il 2004, a una coppia di elementi. C’è anche del buono, del confortante a livello istituzionale, nella conduzione del diritto.
Bene in particolare – verso il basso – la lungimiranza con cui tanti giudici tutelari hanno saputo cogliere, fin dal primo momento, l’essenza della novità del 2004: obbedendo alla saggezza del cuore, alle voci del coraggio, non tirandosi indietro rispetto a una serie di dilemmi applicativi. Non ripiegando sulle linee più comode, tralatizie, nel decidere su questo o quel garbuglio.
Bene poi – verso l’alto – l’atteggiamento della Corte di Cassazione: che su molteplici versanti, sostanziali e processuali, ha mostrato di condividere fin da subito le ambizioni più luminose dell’AdS; ponendo ogni approccio alla materia, tanta rifinitura teorico-pratiche, al servizio dei meno forti e più scoperti della società. A presidio dell’istanza ad avere, in Italia, regole lievi e civili sul disagio.
38. Disfunzioni
Con questo non si vuol dire che tutto, presso le Corti nostrane, proceda al meglio.
La volontaria giurisdizione non vanta, presso i magistrati, un’immagine granché attraente. Solo una minoranza tra i vincitori di concorso è disposta a occuparsene, a vederla come un buon tramite, da sperimentare utilmente per un lawyer.
La progressione di carriera non è strutturata - a livello cartaceo, negli incentivi formali - per valorizzare il lavoro dedicato ai meno felici, agli esseri più inanimati della schiera. Un "mestiere da donne’’, quello del giudice tutelare, un impegno "da assistenti sociali’’, pensano in tanti (anche se non sempre lo si dice). Una professione in cui i decreti dell’AdS varranno poco come titoli; dove otterranno blandi riscontri, per salire di grado, i pomeriggi spesi a colloquiare con gli assistiti, le mattinate a sentirli pazientemente. Dove garbo e premura verso i derelitti, i perdenti del milieu, lasciano il tempo che trovano.
Col numero dei beneficiari in costante aumento, poi, con fascicoli mai definitivi, stanti le continue novità nella vita degli interessati. Fatiche aggiuntive in Tribunale, altrettanti accomodamenti nel dossier, che non promettono avanzamenti di sorta.
Non era meglio tutto sommato – si chiedono alcuni – non tentare nulla di funambolesco, nel 2004, non era saggio accantonare i fremiti da Don Chisciotte? Non c’era più umiltà nell’arrendersi al destino, filosoficamente, rinunciando ai sogni di grandezza, volando bassi con le riforme? Non era raccomandabile – quel fine 2003 - astenersi dai propositi di cambiare il mondo, a colpi di diritto civile? Non era più sensato voltare e le spalle ai sogni, al buonismo quale metodo, non conveniva lasciare che i poveretti si arrangiassero, cavandosela da soli, come sempre, ognuno per i fatti propri?
39. Decreti-fotocopia
Come numero i magistrati risultano oggi insufficienti, tendenzialmente, nelle stanze e nelle cucine dell’AdS. Spesso sono davvero pochi, gli addetti al lavoro, non reggono decorosamente alla bisogna; con un organico già in crisi, in varia misura secondo le sedi territoriali. Le energie personali che potrà dedicare ai ‘’clienti’’ ciascun giudice, dipendono dal contagocce; le clessidre previste per chi bussa alla porta, non sono adeguate, né in partenza generose. Mancano setacci appropriati nella formazione, che rassicurino circa le attitudini – liquide, introspettive, relazionali – per chi dovrà gestire i temi della sofferenza.
Così anche nei Dipartimenti di Giurisprudenza, in quelli di Scienze morali, così fra i manuali delle professioni d’aiuto, nelle aule universitarie.
Il ricorso a giudicanti non togati, nei cui confronti i filtri di assunzione non sono sempre rigorosi, è talora esorbitante; le deleghe interne eccessivamente disinvolte, in certi casi, generiche.
Finisce per cronicizzarsi così, giorno dopo giorno, la prassi dei decreti fatti in serie, troppo laconici e allo stesso tempo troppo ampi, come dettato. L’approdo a provvedimenti emessi in serie, con la fotocopiatrice: l’opposto di quella logica del "vestito su misura’’, confezionato ago e filo per quel certo individuo, in cui tanti interpreti avevano giustamente ravvisato – fin dall’inizio – l’anima stessa dell’AdS.
40. Occuparsi degli altri
Interrogativi ulteriori attengono alla figura dell’amministratore di sostegno.
Al fondo della riforma, sembra esservi la fiducia che l’Italia 2024 abbondi di Cirenei ansiosi di occuparsi del prossimo, spontaneamente, evangelicamente. Felici di aiutare chiunque balbetti, incespichi - chi non sappia gestirsi da solo. Senza mai chiedere cosa vi sia in cambio, come riconoscimento; senza informarsi se arriverà un corrispettivo prima o poi, per l’opera prestata. E v’è pure l’idea che i destinatari del soccorso, per la maggior parte, si conformeranno volentieri alle indicazioni ricevute, alle scelte fatte nei loro confronti; con sentimenti di gioia, per quanto hanno ottenuto, ringraziando per la fortuna, ogni volta che possono. Sarebbe anzi tale remissività a giustificare poi l’abnegazione del gestore, sull’altro versante; compensandolo per le energie spese pro assistito: innescando così un gioco di scambi virtuosi, fatti di buoni sentimenti, in cui tutti gli attori in scena si apprezzano e si complimentano, vicendevolmente, nella luce del Signore.
41. Resistenze, manchevolezze
Così non è in effetti, nella maggioranza dei casi.
Lo si è già detto: i beneficiari sono spesso – a vedere le cose come sono, non come si vorrebbe che fossero – persone ferite dalla vita; vittime offese in modo profondo, talora beffardo. Individui poco collaborativi, mortificati dentro e fuori. Delusi nei sentimenti e frustrati dal lavoro, amareggiati dall’ex–riformatorio, dai Sert, dal carcere, dal pronto soccorso, dalla comunità terapeutica. Esseri convinti – a volte al crepuscolo - di avere il diritto che ci si occupi di loro, amabilmente, senza indugi, dando il meglio che c’è; pronti a incolpare a ogni passo lo Stato, il Governo, non inclini a particolari sentimenti di gratitudine.
Ancora: le Regioni italiane che hanno legiferato in tema di AdS sono, fino ad oggi, la metà del totale nazionale; manca nelle altre - oltre al resto - la previsione di un fondo utile a pagare le indennità per i beneficiari incapienti: col risultato che gli amministratori, rispetto a questi ultimi, si vedono costretti a lavorare gratis, a volte, rimettendoci magari di tasca propria.
I giudici, quando cercano un amministratore di sostegno, là dove manchi un familiare adatto, non sanno spesso a chi rivolgersi. E finiscono così per far capo a certi studi di avvocato, quelli cui si sono abituati, nello smistamento delle pratiche, che da tempo godono della loro fiducia. Buoni legali magari, tecnici bravi nella procedura, sempre quelli però ripetitivamente: stesso indirizzo, stessa pec, stesso codice fiscale. Sicché troviamo nelle città professionisti i quali accumulano e concentrano oggigiorno, sopra di sé, decine e decine di fascicoli di AdS; con quali risultati - ai fini di un accudimento gentile, personalizzato dei sofferenti - si può ben immaginare.
"Beato il paese che non ha bisogno di eroi’’, diceva Bertold Brecht.
42. Disparità comunicative
Gli inconvenienti del riserbo obbligato, adesso. Dinanzi alle campagne ordite da certa stampa, i Tribunali appaiono qua e là disarmati. I pericoli sparsi, i dettagli che hanno indotto quel dato giudice ad adottare, poniamo, un provvedimento restrittivo dell’accesso al conto bancario, a bloccare un matrimonio, a optare per l’entrata in una casa di riposo: ebbene, si tratta di particolari che non possono venir rivelati, esternamente, coperti come sono dai sigilli della discrezione, della riservatezza. Così la pubblica opinione, cui mancano i dettagli esplicativi, illuminanti, può uscirne seriamente sconcertata: ha l’impressione di una giustizia frettolosa, di crudeltà commesse senza ragione. Gli elementi negativi, come look complessivo, finiscono così per sopravanzare quelli positivi, nell’amministrazione di sostegno; il che ha l’effetto di appannare l’immagine stessa della giustizia, il suo stemma araldico, quale circolante nel paese. Con l’ingenerarsi di complicazioni non da poco, allora, per quanto concerne lo stato d’animo, le propensioni naturali negli utenti; ciò anche presso le famiglie dei beneficiandi, in generale, riguardo alle future evenienze.
43. Correttivi, aggiustamenti
Il tema è complesso, ci si può forse interrogare sugli antidoti – non è semplice trovarli.
Basterà a volte (a tranquillizzare gli scettici) il computo dei fascicoli rispetto ai quali le cose procedono invece, a livello di territorio, ragionevolmente bene o almeno in modo discreto e talora proprio risolutivamente, con riguardo all’AdS?
Confidare poi che la buona stampa, se non altro nei dossier coinvolgenti celebrità dello spettacolo, riuscirà a mettere mano sui delitti nascosti – piccoli crimini, affiorati dalle pieghe di un processo penale, a sorpresa - da passare poi al campo civile, per il grande pubblico?
Incoraggiare infine i Tribunali a pubblicizzare ogni tanto (se non proprio le brutture dei casi singoli) quantomeno i binari e i fuochi ispiratori lungo cui, per l’anno in corso, si svolgerà in ufficio la gestione dei fascicoli – il metodo abituale di lavoro, lo stile degli interventi tecnici, riguardo alla protezione dei bisognosi, agli orizzonti operativi che si assumono - in chiave di politica del diritto?
44. Il patto di rifioritura
Come riuscire – altra questione adesso – ad aiutare chi sia afflitto da serie dipendenze, tali da fiaccarlo nel corpo e nello spirito, come fargli ritrovare il sentiero perduto?
Primo passaggio, allora, affidarsi alla regia di un’autorità sperimentata, ossia il giudice tutelare. Anche là dove il dato sanitario figuri in primo piano, resteranno decisivi, per l’agenda di chi zoppica, i momenti di tipo non biologico: il focolare, il lavoro, il tempo libero, la scuola, le intese col volontariato.
Meglio sia un’équipe composita, suggeriscono allora certi interpreti, a occuparsene istituzionalmente. Il timone rimesso a chi è abituato, per mestiere, a soppesare e bilanciare i risvolti secolari del giorno per giorno, del tenore di vita.
(a) E occorre abbandonare l’idea di un marchingegno ospedaliero – tipo la settimana del trattamento obbligatorio, di cui alla legge 180 – esaurentesi in pochi giorni.
Le cose vanno viste come destinate a svolgersi in più fasi: continue, progressive, all’insegna di un accorto interscambio, del non primato per i muscoli e la chimica. Con alternanze di passaggi, medici e non medici, fintantoché la presa in carico perduri; qualche mese di impegno o anche più tempo, nella coscienza che i miracoli sono rari, che necessitano di pazienza, di realismo. Un metodo condiviso, il più possibile. Meno diritto penale, meno psichiatria. Che non escluda all’orizzonte l’eventualità di momenti energici, all’occorrenza, di ‘’coazioni benigne’’: nel segno di un richiamo ai doveri della civitas, per l’assistito, della coerenza operativa.
Ogni sacrificio – giri di boa, astinenze virtuose, rinunce alla tossicità, self–restraint – concertato col gruppo istituzionale di ripristino: in stretta armonia d’intenti.
Chi brontola o protesta, invitato a smetterla - dal cane pastore, dall’équipe salvavita - per il bene di tutti quanti: ammonito a rispettare gli accordi, ‘’altrimenti si andrà avanti col programma’’, piaccia o non piaccia, fino in fondo.
(b) Resta da aggiungere come l’Amministrazione di sostegno si sia confermata, dopo anni di applicazione, quale corpus pienamente rilevante ai sensi dell’art. 32, secondo comma, della Costituzione. Figura e bastione istituzionale in grado di legittimare - con le dovute garanzie - diffide/ultimatum in ordine ai doveri che ogni individuo accusa verso se stesso (autoprotezione, dignità, onore, cautela); nonché in merito agli obblighi che gravano, su di lui, rispetto ai familiari e alle persone che lo attorniano (assistenza, mantenimento, educazione, promozione).
45. Quattro storie
Non dovrà più accadere così che Bianca – diciottenne tossicodipendente, a rischio di autodistruzione, facile preda di malintenzionati – possa uscire a suo piacere dalla comunità che la ospita. Al custode che vigila alla guardiola sarà stato attribuito dal Tribunale, in partenza, il potere di rifiutare alla ragazza, che lo domandasse, l’apertura del cancello.
Ancora. Luciano, un ludo–dipendente, poker, macchinette, corse al trotto: tre giorni dopo aver preso lo stipendio se l’è già "fatto fuori’’; risultato i bambini di casa denutriti, senza scarpe, la moglie che non può andare dal dentista. Un provvedimento giudiziale, circoscritto ai meri profili finanziari, non esteso agli aspetti sanitari, terapeutici, farmacologici, potrebbe reputarsi per il futuro, con buona ragione, non proprio adeguato.
Evelina, aspetta un bambino da un mese e mezzo, risulta che fino al giorno del concepimento si faceva di eroina, un giorno sì e un giorno no. Andrà messa in condizione di non poter assumere nessuna sostanza, non perfettamente innocua, sino al parto concluso, e anche dopo se allatta.
Gregorio, beve ogni giorno sino a stordirsi, non appena ubriaco picchia moglie e figli, quando non è assecondato. Un itinerario all’insegna dell’ascolto, disseminato però di aut–aut, di robuste saracinesche, di allontanamenti prolungati, dovrà al più presto – secondo quanto suggeriscono il sociologo, il farmacista, l’analista dell’anima – tratteggiarsi dal magistrato.
46. Matrimonio sì o no
Infermiera tuttofare. La diciannovenne dell’est, bionda di capelli, sensuale, occhi da gatta, che vorrebbe sposare il novantenne arzillo a lei affidato, milionario, apparentemente felice di impalmare la giovinetta e, difficoltà linguistiche a parte, di farla sua. Sì, oppure no alla cerimonia, deve decidere il giudice, sollecitato dai parenti preoccupati per l’eredità: è questo un matrimonio che s’ha da fare? Sì allora – è il responso – qualora lei figuri almeno un minimo affidabile, di buona indole: non troppo rapace, gentile, ragionevolmente onesta, affezionata quel tanto che basta.
No alle nozze invece (basterà e avanzerà una convivenza di fatto, per i colombi) se è evidente che la biondina comincerebbe, già al secondo giorno della luna di miele, a spolpare il ‘‘marito’’; se è una pessima cuoca che gli preparerebbe, magari apposta, piatti poco digeribili; se è ben chiaro che, entro breve tempo, porterebbe in casa qualche amante; se è scontato che quelle mini–tenerezze, ragione non ultima per cui lui vuol darle il suo nome, lei smetterebbe tre settimane dopo la cerimonia di prodigargliele.
47. Ultime volontà
Cosi press’a poco per le decisioni relative al testamento.
S’intende che, in merito a quello olografo, l’interessato può scrivere sul foglio di carta quello che gli pare, magari quello che gli detta lei, vocabolario alla mano, dietro le sue spalle; si vedrà poi in sede di giudizio sull’impugnativa.
A livello notarile tutto si sposta sul momento iniziale: che cosa ammettere e che cosa bloccare subito?
No alla validità dell’atto allora – no alla sua possibile redazione – qualora le lusinghe amorose mostrino di oltrepassare una certa soglia, di seduttività e di scaltrezza; allorché la lucidità del testatore riveli, specularmente, di scendere sotto un certo limite, ogni giorno peggio.
Sì invece, coi debiti scongiuri, nell’ipotesi opposta.
Resta solo da interrogarsi – presenze ammaliatrici a parte – sul ruolo che è o sarebbe affidabile all’amministratore, in vista della messa a punto di un testamento notarile, al limite perfino olografo, da parte di un de cuius con qualche ombra cognitiva; deciso però a far sentire la sua voce, l’ultima per il ‘’dopo di me’’, nel consuntivo che gli resta. Si tratta, comunque, di interrogativi quasi interamente de iure condendo.
48. Atti della vita quotidiana
Il fatto di accusare disturbi mentali non significherà che la persona non possa, sul piano delle iniziative, collaborare alla propria rinascita. Anche sul piano contrattuale.
Anzitutto è pacifico che un individuo, per quanto instabile o bizzarro, è pressoché sempre in grado di compiere gli atti della vita di ogni giorno. Nessun barista, al "pazzerello’’ che gli chieda un cappuccino, porgendo due euro, potrà mai rispondere dunque: “Non ti servo, sei fuori di testa. Puoi restare nel mio locale, niente però consumazioni; al massimo un bicchier d’acqua dal rubinetto, in regalo”.
Lo stesso per quanto concerne il fornaio, il tassista, il salumiere, il calzolaio, il fruttivendolo (art. 409 cod.civ., ultimo comma).
Conclusione analoga, fin che possibile, rispetto a negozi meno semplici.
Non si parla di operazioni societarie, beninteso, né di fusioni tra banche. Ciò che è sensato dovrà accogliersi tuttavia – in vista di una miglior risocializzazione – nella portata virtuale del fragile; almeno in chiave informativa, di partecipazione ai vari anelli.
Complicità, accompagnamenti; mai esclusioni o segretezze, nessun individuo messo di fronte al fatto compiuto. Decisive nei dettagli, sempre, le caratteristiche del caso specifico: natura del vulnus cognitivo, curiosità e disponibilità al coinvolgimento, importanza del contratto da stipulare, costi/benefici sulla carta, idoneità di un’assistenza (doppia firma) civilistica.
49. Neo-sovranità negoziali
Neanche il fatto che un individuo sia "incapace di intendere e volere’’, secondo i crismi ufficiali, significherà che i suoi propositi interni non contino
Una persona può non aver stilato disposizioni anticipate, non aver lasciato alcunché di solenne: rimarrà libera di indicare al medico, al momento cruciale, cosa debba accadere di lei, del suo corpo. E se il paziente è obnubilato, magari in coma, sarà comunque decisivo ciò che egli risulti aver detto, ai familiari e agli amici, quando stava bene di salute. Tutti al mondo parlano, si esprimono, basta saperli ascoltare.
“Non ti pronunci, non hai scritto nulla”.
“Non è vero, sei tu che non leggi, che non presti attenzione”. “Forse hai poco cervello e niente cuore”.
50. Eluana Englaro
È questo un passaggio su cui Beppino Englaro insiste particolarmente, nelle sue conferenze. Le lotte per porre fine allo strazio di Eluana, la figlia tenuta in vita dalle macchine, una lesione irreversibile al cervello. “Non mi sarei battuto con tanto impegno, – ripete sempre, – senza il ricordo della fermezza con cui Eluana, a vent’anni, parlando in generale, un po’ riferendosi a un amico al quale era capitata una disgrazia, ripeteva che in frangenti simili, mancando speranze di ripresa, lei non avrebbe accettato prolungamenti artificiali dell’esistenza”. “La memoria di quel vigore, ecco perché sono sceso in campo”: soltanto a certe condizioni, di freschezza e dignità elementari, merita di essere vissuta la vita.
51. Altre vicende
Lo stesso per chi da un certo momento in poi, emergenze terminali a parte, stenti a indicare chiaramente cosa vuole.
Flebo, interventi chirurgici, anestesie, riabilitazioni, sondini. Verrà ancora dal paziente la risposta: confidenze fatte agli amici, trent’anni prima, pagine di diario, scritti per un concorso; collezioni di aforismi nel blog, testi di canzoni famose modificati appositamente e registrati sul telefonino. Più gli indizi e i segnali che trasmette il presente: battiti degli occhi, movimenti del corpo, le narici, il sudore sulla fronte, la mano che si apre o che si chiude: chi vuol documentarsi ha ciò che gli serve. Anche per quanto riguarda il matrimonio.
(a) Vincenzo ad esempio, è portatore di una seria diagnosi psichiatrica, con scompensi ricorrenti; vorrebbe sposare Arianna: neanche lei sta bene, depressa cronica, poche speranze di rimessione. Gli esperti sono pessimisti. Ecco un caso in cui l’ultima parola, in Tribunale, non potrà che essere nel senso: questo matrimonio non s’ha da fare.
(b) Lucio invece. Affetto da oligofrenie visibili sarebbe intenzionato – lei d’accordo – a sposare Carolina, non perfetta a sua volta. Cresciuti insieme, le famiglie si conoscono, hanno sempre presidiato quella che, per anni, era una semplice amicizia. I due novizi con gli occhi a mandorla hanno frequentato buone scuole, entrambi dispongono di un mestiere sicuro in mano, lui magazziniere, lei sarta; tutti li conoscono, ambedue vantano un bel carattere, ci sarà sempre a un metro di distanza un’ala protettiva. Due le coppie, normali, che si sono sposate ultimamente, fra i coetanei del quartiere. Perché non lo stesso anche loro? Carolina con l’abito bianco che ha già adocchiato, boccioli e strascico, in una boutique specializzata del centro; Lucio quel nuovo vestito grigio perla, coi risvolti lucidi e il cravattino a righe.
52. Il mandato di protezione
Trattasi di una figura già nota all’estero – presente con alterni successi in Europa – che non pochi vorrebbero oggi importare in Italia. In sostanza; invece che affidarsi all’amministrazione di sostegno, un soggetto il quale tema di perdere presto o tardi la sua lucidità, stipula un contratto di mandato, quando sta ancora bene, con un altro soggetto. Nel momento in cui si verificherà la detta condizione, il mandatario entrerà in carica, occupandosi lui degli affari del mandante, di lì in avanti, secondo i termini stabiliti nel contratto. Gli interpreti nostrani appaiono divisi nel conteggiare/misurare vantaggi, e svantaggi, di questa soluzione.
Opportunità, vantaggi
53. Inconvenienti di un assetto pan-negoziale
I punti critici adesso
54. Il profilo esistenziale di vita
Prendiamo ora il caso di una donna, Juliette, vicina ai quarant’anni. Vive in un borgo in provincia di Bologna, è nata con un forte ritardo mentale. Figlia unica, per fortuna con dei bravi genitori, si sono sempre occupati di lei. La madre, Viola, fa la bidella in un istituto scolastico, ormai alle soglie della pensione; il padre, Franco gestisce una piccola officina di elettrauto, ha il suo carico di anni. Non parla Juliette, praticamente, vede e sente così così; in carrozzina da sempre. Simpatie e antipatie estreme: gusti categorici, mai mezze misure. Una cosa le piace o non le piace. Se tutto fila come lei desidera, ove la cucina sforni leccornie, qualora il gioco che sta facendo la diverta, allora è felice come un usignolo; iniziano a splenderle gli occhi, saluta con le mani. Ride, alza e abbassa le spalle più volte, sporge la bocca per dare baci. Quando succede il contrario, eccola invece strepitare; pugni battuti per aria, cinque minuti, si chiude poi in un silenzio rassegnato: sopracciglia aggrottate, espressione tra la furia e lo sconforto. Da quarant’anni va avanti così. Colpa del reparto di ostetricia – il ritardo, la disgrazia. L’ultimo giorno Juliette aveva assunto una posizione sbagliata, nel grembo materno: occorreva far luogo a un taglio cesareo, ogni pericolo sarebbe stato superato. Purtroppo quel black–out in ospedale: risultato, il cordone ombelicale attorcigliatosi intorno al collo del feto, la mancata ossigenazione al cervello, per un paio di minuti; donde la lesione anatomica finale. C’era stato un risarcimento poi, il punto evidentemente non era quello.
55. Comportamenti, abitudini
I gusti di Juliette si sono fissati via via nel corso del tempo; benché ricchi di variabili, sono oggi ben chiari ai genitori, per l’intera gamma. Sì alla cioccolata fondente, ai lamponi di bosco, ai fagioli bianchi, al salame coi pistacchi; no alla polenta, al formaggio di capra, al gelato di cocco, alle pere cotte, alla lingua salmistrata. Sì alle storie d’amore, in televisione, ai cartoni animati retro, alle pellicole in costume; no ai telegiornali, ai dibattiti culturali, ai film del terrore. A Juliette piace andare al mare, esita a entrare in acqua però. Il viola quello chiaro, che dà sul lilla; l’azzurro se sfuma sul turchese. Sì al gelsomino, come profumo, anche alle spighe, no alla verbena. I bambini la divertono, i cani grossi la spaventano; vanno bene i gatti, quando vede le galline stringe gli occhi e ride. Meglio le canzoni cantate dalle donne che dagli uomini, soffre l’umido, i rumori forti, gli spifferi. Odia che la si faccia dormire sul fianco sinistro, detesta non essere lavata ogni giorno; gli sconosciuti prima di accettarli deve studiarli da lontano, per qualche minuto, poi dipende.
58. Procedure
Viola e Franco, come madre e come padre, hanno iniziato a pensare che – un giorno neanche tanto lontano – loro due non saranno più al mondo. Sanno che esiste l’art. 3 della Costituzione. Juliette, benché in serie difficoltà, ha buona tempra e vivrà a lungo: chi sarà lì a decidere (ecco la preoccupazione) il giorno che lei non avrà più accanto qualcuno che, come quelli di casa, conosce a memoria ogni segreto? Qualcuno che sappia come prenderla, volta per volta, che decodifichi ogni battito d’occhi al volo, qualunque smorfia.
Per questo occorre mettere a punto nuovi scudi istituzionali. Il ‘‘Profilo esistenziale di vita’’: ossia uno strumento a garanzia dei più fragili, qualcosa da porre al centro di una legge apposita; un testo che andrà approvato al più presto dal Parlamento.
(a) Ecco in breve i punti chiave. I genitori, una volta decisi ad assicurare al figlio quella rete difensiva, o in mancanza i Servizi sociosanitari, si rivolgono all’apposito ufficio del Comune. Viene attivato un procedimento teso alla confezione materiale del Profilo: mirante cioè a raccogliere, sotto la regia di un ‘’accompagnatore’’ incaricato dal Comune, i dati biografici necessari. Materiali che forniranno il disabile stesso, nella misura del possibile, i genitori, gli esperti che hanno seguito il caso, i restanti membri della famiglia. Nessun dettaglio trascurato: quale abitazione e con chi, disposizione del letto, tipi di film, insofferenze coi negozi, gusti nei vestiti, uso del frigorifero. Il tutto – con corredo di foto, di clip, di registrazioni, di video – convogliato entro un format di una decina di pagine. Documento destinato a essere parte, per un verso, della carta di identità della persona; da trasfondere, per altro verso, nell’apposito registro del Comune: a sua volta in rete con la banca–dati nazionale dei ‘’Profili esistenziali di vita’’.
(b) Da allora in poi nessun operatore avrà facoltà di prendere decisioni, sul conto di quella persona, qualora non abbia prima consultato il Profilo esistenziale di vita. Consultazione scrupolosa, fatta al microscopio, specie dopo che i genitori sono mancati. E ogni scelta non conforme al Profilo – riguardante il cibo, il tragitto della carrozzina nelle passeggiate, la presenza nei social, il colore delle tende – sarà impugnabile presso il Giudice tutelare. Ogni tanto il testo andrà aggiornato, se invecchia; un organo apposito in Municipio vigilerà su quella persona, minuziosamente, verificando che funzioni tutto al meglio, mese per mese. “Chi mi protegge è l’Italia”, ecco il vessillo per il beneficiario.
57. Il patrimonio con vincolo di destinazione
Soluzioni nuove per il “dopo di noi”. L’abrogazione dell’interdizione determina in prospettiva, negli artt. 692 ss. del codice civile, l’aprirsi di un “vuoto’’ disciplinare; vuoto suscettibile di essere coperto, agli effetti patrimoniali, tenendo presenti le istanze umane e tecniche che si ricollegano oggi all’universo del “durante e dopo di noi”. In effetti il vuoto in questione esisteva già, funzionalmente, nella vigenza dei vecchi istituti; essendo la sostituzione fedecommissaria un meccanismo quantomai farraginoso, oggetto di scarsa applicazione nella pratica. Né il deficit di presidio legale, da sempre registrabile nell’ambito del bisogno, poteva dirsi utilmente aggirato/colmato attraverso eventuali ricorsi all’istituto (non proprio italiano) del trust, o dalla legge (super laconica) sul ‘’dopo di noi’’, o dalla disciplina (puramente secondaria) dell’art. 2645 ter del codice civile. Anzi un recente bilancio circa lo stato di attuazione della legge sul dopo di noi ha messo in evidenza (gennaio 2020) che, per facilitare la diffusione degli strumenti in essa previsti, può "risultare utile completare la disciplina del contratto di affidamento fiduciario che, ad oggi, appare soltanto parzialmente regolamentato nell'ambito della legge in questione, con inevitabili conseguenze in merito alla sua concreta applicazione". È stato così immaginato, a livello di "Tavolo nazionale sui diritti delle persone fragili’’, un neo–bastione privatistico, denominato “patrimonio con vincolo di destinazione a favore della persona fragile”, che occuperebbe statutariamente gli articoli da 692 a 697 del codice civile (articoli ospitanti fino ad oggi la disciplina del fedecommesso). Tenuto conto, d’altronde, quanti siano nella prassi i casi in cui, rispetto ad una persona vulnerabile, il giudice tutelare mostra di orientarsi – per le ragioni più varie, allorché sia operativa una buona rete domestica – verso una non apertura hic et nunc dell’Amministrazione di sostegno, si è ritenuto opportuno ampliare il target del neo–istituto, allargandolo in generale a tutte le persone che vivano in condizioni di spiccato disagio.
58. Dettagli
Brevemente allora: con l’introduzione di detto strumento diviene possibile, per i familiari della persona in difficoltà, costituire un fondo gestito da un affidatario, nell’interesse e per l’esclusivo sostegno del fragile: in particolare per il mantenimento, la cura, la formazione, la partecipazione sociale dello stesso. È esperienza comune – merita sottolineare – come risulti spesso non opportuno intestare i beni direttamente alla persona bisognosa; x) essendo più utile che detti beni costituiscano un patrimonio separato, y) gravato da un vincolo di destinazione e contrassegnato da pressanti obbligazioni fiduciarie a carico del proprietario–gestore, z) in modo che sia assicurato il rispetto del programma che il costituente ha stabilito. Elemento caratterizzante del nuovo istituto appare, in sintesi, il favor per l’autosufficienza economico-esistenziale dell’interessato. La realizzazione del programma e il rispetto della finalità sono posti sotto l’egida del Giudice tutelare. L’istituto in esame si colloca nel solco già tracciato dall’art. 2645-ter del codice civile, delineando e disciplinando un atto di destinazione volto, in prospettiva, alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela, secondo il nostro ordinamento giuridico. Esso risponde sia alle preoccupazioni dei familiari, relative alla futura eventuale impossibilità di prendersi direttamente cura della persona con fragilità, sia ad esigenze del “durante noi”. Diversamente da quanto previsto nella legge 112/2016 (legge sul ‘’dopo di noi’’), il patrimonio vincolato potrebbe costituirsi anche a vantaggio di persone non classificabili come “disabili gravi”: un passaggio disciplinare mirante alla esaltazione/promozione della sovranità, per tutte le persone civilmente svantaggiate, a prescindere dalla serietà della patologia che le affligga.
59. L’ufficio-sportello comunale per la fragilità
Una proposta che si affaccia, sempre più spesso, è in tema di fragilità quella di un “Ufficio–sportello triangolare per la fragilità e l’Amministrazione di sostegno” (Ustfas), da insediare tendenzialmente a livello di Comune o di Consorzi di Comuni. Un’agenzia di supporto – viene precisato – affidata al coordinamento dell’Assessore comunale alle politiche sociali, gestibile eventualmente attraverso un’apposita fondazione, o agenzia esterna, o cooperativa, sotto il controllo dell’ente locale. Composta al suo interno da vari soggetti, pubblici e privati: personale del Comune stesso, rappresentanze degli amministratori di sostegno, operatori del Tribunale, enti della Cooperazione sociale, uffici del Dipartimento di salute mentale della A.S.L., e poi espressioni del volontariato, delle famiglie dei malati di mente, o comunque delle persone anziane, dei portatori di dipendenze, delle persone con disabilità.
"Non vi spiegherò cari utenti come fare le cose – questo il motto – le faccio io direttamente per voi”.
A monte allora una legge–quadro nazionale, istitutiva dell’Ustfas per l’intero paese, seguita poi da leggi regionali di attuazione. Tre interfacce sociali di riferimento: x) cittadinanza, famiglie, persone fragili del territorio; y) ufficio del giudice tutelare, z) amministratori di sostegno in carica. Obiettivi di fondo: accogliere, prendere in carico i non autosufficienti, sgravare il giudice e l’amministratore di sostegno da tutta una serie di mansioni (meccaniche, burocratiche, computerizzabili); consentendo a entrambi di gestire, al meglio, i rapporti personali con gli assistiti (dialogo, ascolto, confidenze, passaggi maieutici, rassicurazioni).
60. Espletamenti burocratici
Fra i compiti dell’Ustfas, soprattutto:
(Immagine: Dino Campana, Fabbricare fabbricare fabbricare, illustrazioni di Sebastiano Vassalli, Edizioni Pulcinoelefante, Osnago, 2009.)
To install this Web App in your iPhone/iPad press icon.
And then Add to Home Screen.