ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Vorrei iniziare il mio intervento riferendo alcuni aneddoti relativi alla mia esperienza nella consiliatura 2018-2023 e verificatisi al momento dell’insediamento.
Il primo riguarda l’assegnazione delle stanze ai consiglieri. Appena insediato, infatti, chiesi di poter ricevere in assegnazione una stanza collocata al secondo piano, quella ad angolo di sinistra per chi guarda il Palazzo dei Marescialli da Piazza Indipendenza.
Questa richiesta aveva una ragione di carattere politico e una di carattere personale.
La ragione politica era di natura simbolica. Quella stanza era stata storicamente sempre occupata da un rappresentante di Magistratura Democratica. Nella consiliatura immediatamente precedente, però, il gruppo di AREADG (che all’epoca ancora includeva Magistratura Democratica), era risultato il più rappresentato, con ben 7 consiglieri, e aveva scelto di collocarsi nelle stanze al primo piano, che, sul piano simbolico, era il piano del “potere”, dove si trovavano il Vicepresidente, il Comitato di Presidenza, il Segretariato Generale. Anche le stanze poste a quel piano erano quindi, a loro volta, stanze simbolo “del potere”, storicamente occupate dai rappresentanti di Magistratura Indipendente, prima e da quelli di Unità per la Costituzione, poi.
Ritornare al secondo piano, nella storica stanza di Magistratura Democratica, per me, che ero stato eletto come rappresentante anche di Magistratura Democratica (la scelta di Magistratura Democratica di rompere con AREADG maturerà negli anni successivi), significava simbolicamente ri-allontanarsi dal “potere”, recuperare la vocazione originaria del nostro gruppo associativo di estraneità alle logiche di potere e alle prassi corporative, consociative e clientelari, che negli ultimi anni, ed in particolare nell’ultima consiliatura, si era un po’ persa.
Sul piano personale mi sarebbe piaciuto occupare la stanza che era stata, nella consiliatura 1982/1986, di Salvatore Senese, che, come alcuni sanno, è stato mio amico e maestro, e al quale rivolgo con piacere un commosso ricordo (Salvatore è mancato nel giugno del 2019) in questa sede, nella sua città, nell’Università che lo ha visto protagonista di tanti momenti di riflessione e di confronto, e in una giornata dedicata alla memoria di Alessandro Pizzorusso, al quale Salvatore è stato legato da lunga e profonda amicizia.
Mi sembravano queste delle ottime ragioni. Ma ricevetti, comunque, un categorico no: le stanze, mi fu detto, venivano assegnate ai gruppi nel rigoroso rispetto dell’ordine di risultato elettorale. Peraltro, ma non è rilevante in questa sede, era sbagliato anche il metodo di calcolo del risultato elettorale, in quanto veniva determinato sommando esclusivamente i voti conseguiti nei diversi collegi dai soli candidati risultati eletti. Provai a protestare, rappresentando che il sistema elettorale vigente (quello dei tre collegi plurinominali) non contemplava in alcun modo i “gruppi”. Ma ricevetti una risposta definitiva e senza appello: “si è sempre fatto così”. Una risposta che negli anni successivi mi è capitato più volte di ricevere.
In quei primi giorni chiesi altre due cose:
a) di consentire un dibattito sulla elezione del Vicepresidente, sulla base di una illustrazione, da parte dei componenti laici che avessero voluto offrire la disponibilità ad assumere l’incarico, della loro idea del ruolo del Consiglio e del ruolo del Vicepresidente: un tema non nuovo, che si è riproposto ciclicamente in molte consiliature, come ci ha ricordato Tommaso Giovannetti rievocando, appunto, il discorso mai pronunciato di Alessandro Pizzorusso;
b) di consentire, a chi lo volesse, di sedersi in Plenum accanto ai componenti del proprio gruppo: Ernesto Lupo, nella sua relazione scritta, ci ha ricordato quando e come nacque la scelta di far sedere in Plenum i consiglieri secondo ordine di anzianità, ma io ho sempre pensato che fosse una scelta sbagliata. In primo luogo perché ai componenti di un organo costituzionale, eletti da magistrati, si dovrebbe riconoscere una libertà di autodeterminazione maggiore di quella riconosciuta agli alunni di una classe elementare. In secondo luogo perché penso che nascondere una realtà che non piace non solo non aiuti a modificarla, ma anzi la peggiore, in quanto vi aggiunge, come elementi negativi, opacità e clandestinità.
Anche su queste due richieste la risposta fu negativa: “si è sempre fatto così”. Appunto!
Ho scelto di raccontare questi aneddoti perché, secondo me, rappresentano in maniera molto chiara, anche sul piano simbolico, i fraintendimenti, le ambiguità e, direi anche le ipocrisie, che sovente accompagnano il dibattito, e le prassi, sul rapporto tra correnti e auto-governo.
Nel dibattito pubblico in molti tendono, più o meno in buona fede, a confondere, e a sovrapporre, le correnti, cioè le libere associazioni di magistrati fondate sulla comunanza di idee e di valori, con il correntismo, cioè con l’esercizio del potere fondato su logiche corporative e clientelari, e pensano che l’unico modo per eliminare il correntismo sia eliminare le correnti: un intento di recente ribadito da un esponente del governo con una citazione piuttosto infelice. Un po’ come quelli che hanno pensato, e pensano, che si potessero eliminare la corruzione e il malgoverno eliminando i partiti e gli altri corpi intermedi.
Ma nella pratica concreta, molti di costoro pensano, in realtà, che questo obiettivo, quello della eliminazione delle correnti, e del correntismo, sia impossibile. E che allora sia meglio provare a conviverci, stando attenti però a non farsi vedere, a nascondersi il più possibile, nella convinzione, tutta italiana, che l’ipocrisia in fondo non sia così male, essendo pur sempre un omaggio alla virtù. Sono quelli, e sono tanti, che hanno conservato ben in vista sul tavolo il manuale Cencelli, solo che lo hanno rivestito con la copertina della “Critica della ragion pura”: tu lo apri, pensando di trovarci la legge morale e invece trovi i criteri per la attribuzione delle stanze oppure, per fare un esempio molto più concreto e meno simbolico, per la attribuzione delle presidenze delle commissioni.
“Mi troverò bene”, pensai tra me in quei primi giorni, rievocando una delle più felici battute, anche se non la più famosa, del film “Bianca” di Nanni Moretti.
Nonostante questo, insieme ai colleghi del gruppo di AreaDG, abbiamo provato sin dall’inizio a procedere in direzione “ostinata e contraria”, cercando di dimostrare, nei comportamenti concreti, che era possibile un modello diverso, nel quale la orgogliosa e trasparente rivendicazione della propria appartenenza ideale si accompagnasse alla rigorosa rinuncia alle pratiche clientelari, corporative e consociative.
Sono pienamente d’accordo, al riguardo, con quanto detto da Ernesto Lupo nel suo intervento: il corporativismo e il clientelismo sono mali seri della magistratura e del suo governo autonomo. Dirò di più: io sono convinto che queste pratiche stiano corrodendo dall’interno il governo autonomo della magistratura e finiranno, se non eliminate, per distruggerlo.
Per questo sin dall’inizio della consiliatura formulammo un pressante invito a tutti i gruppi a fare un passo indietro rispetto a queste logiche.
Nei nostri primi documenti arrivammo a parlare esplicitamente di “disarmo unilaterale”. In una chiara e trasparente assunzione di responsabilità, in chiave autocritica, per i comportamenti assunti in passato anche dal nostro gruppo, dichiarammo che ogni nostra scelta sarebbe stata sempre fondata esclusivamente sul merito e del tutto slegata da logiche di appartenenza. E chiedemmo agli altri gruppi di fare lo stesso, nella convinzione che questo fosse l’unico modo per salvare, tutti insieme, il governo autonomo della magistratura.
Quel primo anno al Consiglio fu un anno durissimo. Noi non conoscevamo quello che accadeva fuori dal Consiglio e che poi avremmo letto nelle intercettazioni, ma toccavamo con mano la enorme difficoltà di aprire una breccia, un canale di dialogo e di confronto.
Mi ha molto colpito al riguardo il ricordo del Prof. Silvestri dello stupore provato dal Prof. Pizzorusso all’esito di un dibattito nel quale tutti avevano mostrato di apprezzare e condividere il suo intervento, salvo poi votare in maniera opposta. Mi ha ricordato le parole che mi rivolse uno dei componenti togati del Consiglio dopo un mio accalorato intervento in Plenum: parla, parla, tanto poi votiamo, frase che poi riferì, orgogliosamente, ai partecipanti della famosa serata dell’hotel Champagne.
Ancora oggi io sono convinto che quella fosse la strada giusta, che alla lunga avrebbe prodotto i suoi frutti. E che sia questa l’unica strada da percorrere, in quanto non esistono soluzioni semplici a problemi complessi.
In questo contesto i fatti dell’Hotel Champagne sono stati certamente un fulmine, che ha scosso alle fondamenta il Palazzo dei Marescialli, ma certo non un fulmine a ciel sereno, in quanto il cielo era visibilmente scuro per chi avesse solo voluto guardarlo.
Certo è che quella vicenda ha avuto un impatto molto forte sul Consiglio e ha segnato l’intera consiliatura. Con conseguenze che, valutate complessivamente oggi e a mente fredda, non possono considerarsi del tutto positive.
Certamente la evidenza dei fatti ha costretto tutti a prenderne in qualche modo atto, ha smosso reazioni diffuse e indignate tra i magistrati e nell’opinione pubblica e ha, quindi, favorito un percorso di comune assunzione di responsabilità.
Ma la gestione concreta delle ricadute di quei fatti è stata particolarmente difficile.
Il Consiglio non poteva sottrarsi, a mio avviso, al dovere di accertare le responsabilità dei singoli e di trarne le dovute conseguenze con riferimento alle decisioni di propria competenza (valutazioni di professionalità, conferme per incarichi direttivi e semidirettivi, trasferimenti di ufficio per incompatibilità territoriale o funzionale, disciplinare). Su questo si sono registrate molte difficoltà e resistenze. Sotto molti punti di vista, in termini di esercizio dell’azione disciplinare, di avvio delle pratiche di incompatibilità ambientale, di tempi di trattazione delle valutazioni e delle conferme (alcune delle quali, per queste “difficoltà”, hanno finito per arrivare alla nuova consiliatura).
Ciò ha restituito una immagine poco chiara e disorganica della reazione del Consiglio e di sostanziale ingiustizia degli esiti derivante dalla disparità di trattamento tra situazioni analoghe.
Ingiustizia aggravata dalla comune consapevolezza che il “faro” attivato dall’iniziativa della Procura di Perugia (di sequestro del cellulare del dott. Palamara e di invio della copia integrale del suo contenuto al Consiglio e alla Procura Generale della Cassazione) aveva giocoforza illuminato solo una parte della realtà, quella che, appunto, era in qualche modo collegata con il titolare del telefono, lasciando nell’ombra i comportamenti di altri.
Noi abbiamo sempre detto che rispetto alle pratiche clientelari che emergevano da quelle comunicazioni fosse necessaria una forte autocritica collettiva e una comune assunzione di responsabilità da parte di tutti, nella consapevolezza che certe prassi distorte erano ampiamente diffuse e condivise.
Però, poi, quando si passava all’esame delle singole pratiche, che riguardavano persone in carne ed ossa, tutto diventava più difficile.
La difficoltà di gestione concreta delle ricadute di quei fatti è stata, inoltre, aggravata da una falsa narrazione della vicenda e delle sue conseguenze, alimentata da alcuni protagonisti di quei fatti, cui ha dato ampio spazio una parte della stampa, che hanno preteso di reinterpretare le vicende consiliari degli anni successivi con quello che è probabilmente l’unico metro di giudizio in loro possesso, quello degli accordi di potere e delle scelte fondate su logiche di appartenenza. Di qui la rappresentazione di un “ribaltone” attraverso il quale la sinistra giudiziaria (cioè io e i miei colleghi di AreaDG) avrebbe ripreso, con la complicità di Davigo, il “potere”, accaparrandosi le nomine più importanti. Nulla di più lontano dal vero.
Io feci fare una rilevazione statistica, con la quale dimostrai inconfutabilmente la falsità di questa narrazione, indicando tutte le nomine nelle quali il gruppo di AreaDG e quello di Autonomia e Indipendenza avevano votato insieme (in contrapposizione agli altri gruppi), dimostrando che erano molte meno di quelle in cui il gruppo di Davigo aveva votato insieme agli altri gruppi in contrapposizione ad AreaDG.
Ma come in altre occasioni ho dovuto constatare come a volte non conta che una narrazione sia vera o falsa, conta che “serva”, che sia funzionale all’obiettivo di chi se ne serve.
Tutto ciò ha reso più difficile avviare quel necessario percorso condiviso di costruzione di un diverso modello di governo autonomo, con lo scopo di restituire trasparenza e credibilità all’azione del Consiglio, che noi consiglieri per primi eravamo chiamati ad avviare e gestire: dal Presidente della Repubblica, dai tanti magistrati perbene, dall’opinione pubblica
Un percorso certamente complesso che richiedeva perciò una analisi approfondita delle cause della crisi dell’istituzione e la individuazione dei rimedi di “sistema” sul piano della normativa primaria e secondaria.
Ed è proprio il percorso che già indicava Alessandro Pizzorusso nel suo discorso mai pronunciato e richiamato da Tommaso Giovannetti con parole così chiare e nette, che meritano di essere ribadite: Senza la chiara consapevolezza dei propri obiettivi, che sono prima di tutto obiettivi di ordine culturale, il Consiglio non potrà certamente affermare la propria autonomia nei confronti degli altri soggetti istituzionali con la forza della ragione, che è l'unica di cui dispone, e finirà per subire le influenze della maggior forza politica di cui essi possono avvalersi. Certamente, il Consiglio deve offrire la sua collaborazione più sincera e professionalmente qualificata al capo dello Stato, al ministro della giustizia, alle commissioni giustizia delle camere del parlamento, ed a tutti gli altri operatori politico-costituzionali, e deve altresì saper fare in modo che la sua collaborazione sia accettata e valorizzata. Ma ciò non deve avvenire con uno spirito di rassegnata subordinazione, bensì nella piena consapevolezza di essere portatore di un progetto culturale più ricco e più forte di quelli cui mostrano di ispirarsi i suoi recenti denigratori.
A mio avviso le cause profonde di questa crisi, per molti versi collegate alla riforma dell’ordinamento giudiziario introdotta nel 2006, erano da individuarsi in una serie di fattori, interdipendenti e connessi tra loro:
a) il carrierismo, cioè un mutato rapporto dei magistrati con la carriera, con gli incarichi, con le promozioni;
b) il verticismo e la gerarchizzazione, figli di una malintesa idea secondo la quale la soluzione della crisi della giustizia doveva essere affidata alla guida illuminata, al comando, di un “capo”;
c) la burocratizzazione e il produttivismo, diretta conseguenza di quella visione verticistica, che ha portato i “capi”, in realtà nella stragrande maggioranza dei casi privi di effettive doti organizzative e manageriali, a chiedere ai “sottoposti” di produrre di più, di fare numeri. E ha indotto i magistrati a ripiegarsi sul particolare, a disinteressarsi della organizzazione dell’ufficio e dei risultati della propria attività, per occuparsi solo di tenere in ordine le carte;
d) il clientelismo e il corporativismo, inteso come gestione del potere di governo della magistratura (a tutti i livelli: la dirigenza degli uffici; il governo autonomo locale e centrale) secondo logiche di protezione e di promozione legate esclusivamente alla appartenenza (di corrente, di amicizia, di territorio).
Una serie di fattori che richiedevano interventi strutturali, di sistema, sul piano della normativa primaria e di quella secondaria, che provo ad indicare solo per punti.
Sul piano delle riforme legislative:
a) introdurre una vera temporaneità degli incarichi direttivi e semidirettivi, in modo da trasformare l’incarico direttivo in una parentesi della vita professionale di un magistrato, la cui occupazione principale deve restare l’esercizio della giurisdizione, così evitando che la carriera direttiva diventi un vero e proprio percorso alternativo;
b) ridurre il numero di incarichi semidirettivi, prevedendo l’attribuzione di competenze organizzative all’interno dell’ufficio ai magistrati con maggior esperienza nel settore;
c) modificare la legge elettorale del CSM, introducendo nuovamente il sistema proporzionale su base nazionale, l’unico sistema compatibile con il ruolo di garanzia del Consiglio e con il pluralismo ad esso connaturato; unico sistema, inoltre, che attribuisce un reale potere di scelta agli elettori, i quali attraverso il voto di preferenza possono davvero determinare gli eletti all’interno della lista; unico sistema, infine, che garantisce, in presenza della regola costituzionale della ineleggibilità dei componenti uscenti, una responsabilità politica degli eletti, atteso che le scelte compiute dagli eletti ricadono sul risultato elettorale della lista nella tornata successiva.
Nessuno di questi interventi è stato realizzato. Dopo discussioni infinite sul sorteggio e i suoi derivati, la politica ci ha consegnato un sistema elettorale quasi identico a quello che c’era prima. Il risultato elettorale, ampiamente previsto, è lì a dimostrarlo.
Sul piano della normazione secondaria, invece, alcune cose importanti sono state fatte nella consiliatura.
In particolare ricordo:
a) la circolare sulle tabelle, che ha introdotto, tra le altre cose, limiti stringenti ai poteri dei dirigenti sulla attribuzione di incarichi di collaborazione, in modo da ridurre i rischi di gerarchizzazione degli uffici giudicanti legati anche al “potere” di distribuire a discrezione titoli spesso funzionali a percorsi dirigenziali;
b) la circolare sulla organizzazione delle procure, che, anche per questi uffici, ha introdotto limiti al potere dei dirigenti nella attribuzione degli incarichi (di collaborazione ma anche di coordinamento di gruppi), ma ha anche rafforzato l’autonomia interna dei magistrati dell’ufficio intervenendo nella regolamentazione della assegnazione e gestione degli affari;
c) la circolare sull’accesso agli uffici di legittimità, che ha introdotto limiti alla discrezionalità valutativa del Consiglio e attribuito un peso preponderante alla esperienza professionale maturata negli uffici giudiziari e al giudizio della Commissione Tecnica;
d) la modifica delle disposizioni del TU sulla dirigenza in tema di conferma negli incarichi direttivi e semidirettivi, finalizzata ad assicurare una verifica effettiva e rigorosa sull’esercizio di tali funzioni e ad evitare il crearsi di un percorso separato di carriera per i dirigenti.
Non si è riusciti, invece, a completare l’intervento di riforma su due ulteriori, fondamentali aspetti:
a) la riforma del TU sulla dirigenza relativamente ai criteri di nomina dei dirigenti. La V Commissione aveva approvato all’unanimità un testo di riforma le cui direttrici principali erano la valorizzazione della esperienza professionale, la riduzione della discrezionalità valutativa e la eliminazione del peso delle cd. medagliette. Un testo che aveva ricevuto l’intesa del Ministro della Giustizia pro tempore e che il Plenum non riuscì a discutere e votare. Mi auguro che possa essere una buona base di lavoro per l’attuale Consiglio.
b) la riforma della circolare sulle valutazioni di professionalità che pure fu approvata in Commissione, ma non fu votata dal Plenum, e le cui direttrici erano:
la semplificazione del procedimento;
la riduzione degli spazi di valutazione e di giudizio da parte del dirigente;
l’obbligo per il dirigente di segnalare i fatti rilevanti ai fini della valutazione;
In uno slogan: più fatti e meno aggettivi.
Ma per restituire al Consiglio Superiore della Magistratura un ruolo di protagonista nel dibattito politico e culturale sui temi della giustizia è necessaria anche una riflessione sui meccanismi di funzionamento dell’organo e sulle sue criticità.
I ricorrenti tentativi di ridimensionare il ruolo del Consiglio e di ridurlo ad organo di amministrazione del personale di magistratura, ai quali molti degli interventi hanno fatto riferimento, passano, infatti, anche attraverso una crisi di funzionalità e di efficacia dell’azione del Consiglio.
Vi è in primo luogo un problema di elefantiasi dell’attività del Consiglio: il numero di pratiche da trattare è enorme e questo crea spesso ritardi e incertezze. A questo proposito è opportuno ricordare che la auspicata riduzione del numero di incarichi semidirettivi avrebbe l’ulteriore vantaggio di alleggerire il carico del Consiglio.
Allo stesso modo una semplificazione delle procedure di valutazione di professionalità potrebbe consentire di decentrare ai Consigli Giudiziari la decisione sulle pratiche che non presentano profili di problematicità e concentrare l’attenzione del Consiglio sulle situazioni più critiche. Un forte decentramento si potrebbe realizzare anche nella materia tabellare, per riservare al Consiglio le pratiche più sensibili sul piano della finalità intrinseca dell’organizzazione tabellare e quelle controverse.
In ogni caso andrebbero rafforzate le strutture di supporto alle attività dei consiglieri, aumentando in maniera significativa il numero dei Magistrati Segretari e di quelli addetti all’Ufficio Studi.
Torna, però, anche qui un problema di fondo che richiama nuovamente la irrinunciabilità del ruolo dei gruppi associativi nel sistema di governo autonomo.
Come è noto il Consiglio Superiore si rinnova completamente ogni quattro anni e, per espressa previsione costituzionale, i suoi componenti non sono immediatamente rieleggibili. Questa previsione è più che condivisibile, ma è del tutto evidente che un organo che si rinnova integralmente ogni quattro anni, deve scontare ogni volta le difficoltà della fase di avvio, e le necessarie lentezze ad essa connesse. Nel passato ciò che ha dato continuità all’azione del Consiglio sono state proprio le “correnti” e la loro elaborazione culturale, che creavano un ponte tra gli uscenti e i nuovi eletti, tale da eliminare o ridurre le soluzioni di continuità. E un ruolo rilevante in questo senso era dato anche dai magistrati addetti alla struttura, i quali fin quando sono stati selezionati anche in considerazione delle diverse aree associative e culturali di riferimento, hanno garantito continuità e consapevolezza all’azione dell’Istituzione.
In questo caso risulta evidente come l’azione diretta ad indebolire le “correnti” per il malinteso intento di combattere così il correntismo, si traduca in un indebolimento dell’organo e della sua funzione politico-culturale.
Se, infatti, i componenti del Consiglio - sia quelli di nomina elettiva che gli addetti alla struttura - sono scelti prevalentemente sulla base delle loro qualità tecnico-professionali e non sulla base delle idee sulla magistratura e sul governo autonomo di cui sono portatori, ne deriva giocoforza un ridimensionamento del ruolo del Consiglio.
Se chi si candida al Consiglio rivendica esplicitamente di voler svolgere il suo mandato nello stesso modo in cui svolge la funzione di magistrato, cioè limitandosi ad applicare la legge e se, in palese contrasto con la lettera e lo spirito della Costituzione, addirittura si ipotizza la possibilità di sorteggiare i componenti del Consiglio, è evidente che con queste opzioni si finisce per spingere il Consiglio nella ridotta dell’attività amministrativa di gestione, non essendo con esse compatibili le attività di promozione politico-culturale del Consiglio, quali i pareri sulle riforme, le proposte di intervento legislativo, la relazione annuale sullo stato della giustizia, le pratiche a tutela della autonomia dei magistrati, gli interventi sulla deontologia dei magistrati.
E senza con questo incidere in alcun modo sui mali seri del corporativismo e del clientelismo, in quanto l’esperienza concreta dei sedicenti indipendenti eletti in Consiglio ha dimostrato, e dimostra anche nell’attualità, che questi sono difetti propri dei magistrati e non solo delle correnti.
Non condivido, invece, l’idea avanzata nel dibattito da Ernesto Lupo di un rafforzamento del ruolo del Comitato di Presidenza, quale longa manus del Presidente della Repubblica e, in quanto tale, possibile argine alle derive clientelari e corporative.
Nel disegno del costituente, infatti, questa funzione dovrebbe essere svolta dai membri laici del Consiglio, in quanto portatori di un punto di vista esterno alla corporazione.
Sono ben consapevole del fatto che nell’esperienza pratica ciò non è avvenuto e che purtroppo in alcuni casi i componenti laici hanno dato, su questo terreno, prova peggiore di quella offerta dai togati. Ma a questo si può provare ad ovviare rivedendo i meccanismi di selezione dei componenti laici, in modo da ricondurli al modello pensato dal costituente. In questa direzione sembrava muoversi la riforma Cartabia, che però, in sede di prima applicazione, è stata di fatto disapplicata dal Parlamento.
Mentre mi lascia piuttosto scettico l’idea di affidare un improprio ruolo di “tramite” tra il Presidente della Repubblica e l’Assemblea Plenaria al Vicepresidente e ai due membri di diritto. Non sono certo tra quelli che pensano che il Presidente possa prendere parte alla vita del Consiglio solo partecipando alle sedute ed esprimendo il suo voto. Anzi, penso abbia pienamente ragione il prof. Silvestri quando ha ricordato quali insidie vi fossero nella scelta del Presidente dell’epoca di partecipare alle sedute e di esprimere il voto anche su nomine controverse. Ma credo che vi siano molti altri modi diversi, anche più diretti ed efficaci, per consentire al Presidente di esercitare a pieno il suo ruolo di equilibrio e di garanzia nella vita del Consiglio, senza necessità di un ulteriore irrigidimento dei protocolli, già fin troppo ingessati.
Sono tempi molto difficili i nostri, nei quali lo scontro e la divisione sembrano prevalere su ogni possibilità di ragionamento e di confronto (e non parlo ahimè solo delle nostre pur sempre piccole questioni).
La mia personale convinzione, invece, lo dico da sempre, è che tutti gli attori istituzionali abbiano il dovere di dismettere ogni approccio bellicista e di confrontarsi laicamente, e senza pregiudiziali ideologiche, sul merito dei singoli problemi, il che consentirebbe a mio avviso di trovare soluzioni condivise sulla gran parte dei problemi a cui ho fatto cenno.
Questo credo sarebbe il miglior omaggio che potremmo fare alla memoria del Professor Pizzorusso, il quale nella sua vita di studioso e di giurista ha sempre utilizzato come uniche armi la Ragione, il dialogo e il confronto.
*Intervento di Giuseppe Cascini nel seminario La partecipazione di Alessandro Pizzorusso al CSM (1990-1994) e le successive " stagioni", Università di Pisa, 15 dicembre 2023.
(Immagine: A classroom with children sitting at long tables and a teacher standing with a book in her hand, litografia di J.B. Sonde, Wellcome Collection, Londra)
«La condotta tenuta nel corso di una pubblica manifestazione consistente nella risposta alla “chiamata del presente” e nel c.d. “saluto romano”, rituali entrambi evocativi della gestualità propria del disciolto partito fascista, integra il delitto previsto dall’art. 5 della legge 20 giugno 1952, n. 645, ove, avuto riguardo a tutte le circostanze del caso, sia idonea ad integrare il concreto pericolo di riorganizzazione del disciolto partito fascista, vietata dalla XII disposizione transitoria e finale della Costituzione. A determinate condizioni può configurarsi anche il delitto previsto dall’art. 2 del decreto-legge 26 aprile 1983, convertito, con modificazioni, nella legge 25 giugno 1993, n. 205 che vieta il compimento di manifestazioni esteriori proprie o usuali di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. Tra i due delitti non sussiste rapporto di specialità e possono concorrere sia materialmente che formalmente in presenza dei presupposti di legge»
Questa la decisione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione emessa il 18 gennaio 2024, come da informazione provvisoria che si allega.
È interessante la lettura delle note di udienza dell’Avvocato generale dott. Piero Gaeta.
(Immagine: Fotografia scattata nel 1936 in occasione del varo di una nave al porto di Amburgo, alla presenza di Adolf Hitler. L’uomo che si distingue nella folla, l'unico a braccia conserte, si chiama August Landmesser.)
Era tempo che attendevo il nuovo film di questo regista che tanto mi ha fatto innamorare in passato. E l’attesa (resa amara dal timore che realmente non ci sarebbero stati altri suoi film, come paventato) non è stata vana.
“Sappiamo o non sappiamo, amici miei, cos’è il silenzio?” chiede Rilke nei suoi Sonetti a Orfeo. La stessa domanda sembra porcela il regista finlandese, nella solitudine proletaria di Helsinki, che, in questo film, giunto sei anni dopo L’altro volto della speranza, appare sollevata dallo spazio e dal tempo.
È l’atmosfera adatta per i suoi protagonisti, due anime laterali, mal conciliate alla vita e estremamente tenere, sulle cui solitudini personali ci affacciamo come sbirciando dentro una Wunderkammer.
Difficile collocare le loro vicende in un’epoca precisa, tra colori pastello, abiti informi e démodé, tecnologia vetusta e sparuta, locandine di Godard e Bresson nelle vetrine del cinema rétro (la settima arte come via di fuga dal reale), arredamento d’altri tempi. Unici indizi temporali: la guerra in Ucraina (la “dannata guerra”, come la chiamerà Ansa), della quale giungono notizie attraverso un radio giornale e un calendario affisso nella laida e spoglia cucina di un pub (del 2024, però), scenario dell’ennesimo sfruttamento, dell’ennesima sconfitta.
Il silenzio in Kaurismäki spesso è più denso della parola, lo sappiamo bene. Sembra guardarci sorridente mentre ci lambicchiamo per trovare i vocaboli giusti, consapevole che il suono più adatto talvolta è quello sospeso, adagiato tra una parola e l’altra dei suoi dialoghi ironici e surreali, perfetti, definitivi.
“L’amore consiste in questo, che due solitudini si proteggono a vicenda, si toccano, si salutano”, è ancora Rilke a ricordare. E questa è la storia di Ansa e Holappa (il cui nome di battesimo non si conosce per la durata del film). Ansa, una giovane donna sola e sfiorita che lavora in un supermercato fino al momento in cui viene scoperta a sottrarre prodotti scaduti, uno trovato nella borsetta e altri lasciati a un senzatetto anziché destinarli al macero, come previsto dal protocollo. E Holappa, un operaio metalmeccanico, altrettanto solo, mite e col vizio del bere, che gli farà perdere il lavoro.
Entrambi sottopagati, umiliati, privi di tutela, sconfitti, ai margini di un mondo che sembra non accorgersi delle loro esistenze. Entrambi tagliati fuori dalle regole del gioco («Tu non sei un duro, Holappa», gli dice l’amico Raunio con cui condivide il container dormitorio nel cantiere in cui lavorano, «Però potrei esserlo», replica il ragazzo). Esistenze oblique: si incontrano a un karaoke, dove non sono loro a cantare; si guardano a lungo, ma non si parlano; fuori dal cinema (dove hanno appena visto il grottesco I morti non muoiono di Jim Jarmusch) affidano a un biglietto un numero di telefono, che volerà via, al vento, come le parole che non riescono a dirsi; la ricerca continua l’uno dell’altro, fino al ritrovamento, quasi tragico.
Tra neorealismo e nouvelle vague, nessuna provocazione, solo la fragilità tenace e la precarietà di due figure in bilico, dai sentimenti elementari, lenti attraverso le quali giungiamo all’essenza universale, il nucleo di questo film che la bellezza delicata ha nel nome, portando nel titolo Les Feuilles Mortes di Jacques Prévert, brano reso celebre da Yves Montand. La stessa delicatezza che sarà in grado di preservare quelle due anime fragili e incerte nella brutalità devastante del mondo in cui sono loro malgrado immerse.
Proprio lì si insinua la poetica kaurismäkiana, capace di vette esilaranti, condite da una colonna sonora pienamente all’altezza, che ci regala scene colorate da un umorismo agrodolce, impassibile e malinconico, fatto di trasparenze e di scene sublimi incastonate nella pellicola (la cena per la quale Ansa deve comprare un altro piatto - che avrà vita breve - perché ne possiede soltanto uno, l’insalata di asparagi e quello che tutti chiamano “aperitivo”, è soltanto una di queste).
Un film dallo splendore poetico, minimalista e pungente, in cui nulla è di troppo, perfetto per sottrazione.
Emblematico anche il duo delle sorelle finlandesi che canta nel pub, le Maustetytöt, in inglese, letteralmente, Spice Girls, definite dal New York Times “impossibly cool Finnish duo”, che ci regalano una scena di nichilismo imperturbabile, ma al contempo caldo, timido e spavaldo, estremamente nordico.
Ansa e Holappa sono proletari resistenti in un mondo insensibile e brutale, dove l’addetto alla vigilanza del supermercato di periferia risponde come i gerarchi nazisti al processo di Norimberga.
Un mondo brutale, ma non a tal punto da uccidere la speranza.
Mettendo insieme i rimasugli di una non sopita voglia di vivere, un passo claudicante può tramutarsi nella vigilia di una nuova solitudine, da condividere, col retrogusto di una relativa felicità.
REGISTRAZIONE AUDIO E VIDEO DEL CONVEGNO A QUESTO LINK
https://www.radioradicale.it/scheda/725845/la-magistratura-e-lindipendenza
QUI È DISPONIBILE IL FASCICOLO 3/2024 DELLA NOSTRA RIVISTA CHE RACCOGLIE GLI ATTI DEL CONVEGNO
Roma, 12 aprile 2024
“LA MAGISTRATURA E L’INDIPENDENZA”
In memoria di Giacomo Matteotti
Quarto Convegno di Giustizia Insieme
DIRETTA SUL SITO DI RADIO RADICALE https://www.radioradicale.it/dirette (Special live) dalle ore 9
La terzietà, sia nell’essere che nell’apparire, è sufficientemente garantita dall’investitura di un organo estraneo al potere politico e al potere legislativo?
La terzietà deve riguardare tutti i magistrati o è sufficiente sia solo dei giudici?
Cosa accade negli ordinamenti dei paesi dell’Unione in cui la terzietà non è garantita?
L’attività interpretativa può essere del tutto indipendente dal bagaglio culturale e valoriale dell’interprete? È auspicabile che lo sia?
L’intelligenza artificiale garantisce l’assenza di condizionamenti?
Sono questi i temi a confronto del quarto Convegno di Giustizia Insieme.
Con la trasformazione da homo politicus a homo economicus anche lo iuris dicere fa i conti con gli effetti economici delle decisioni. Su altro terreno, con il PNRR, la celerità delle decisioni produce effetti economici: anche questo è spunto di riflessioni.
L’indipendenza è messa a rischio anche dall’interno, per effetto di riforme ordinamentali introduttive di gerarchie o di controlli indiretti sulle decisioni non condivise dalla politica.
Noi riteniamo essenziale l’indipendenza di tutti i magistrati, sia con funzioni requirenti, sia con funzioni giudicanti. L’indipendenza nello svolgimento delle indagini preliminari e nell’esercizio dell’azione penale è una condizione irrinunciabile in uno Stato di diritto.
La costante rappresentazione mediatica di vicende che interessano l’esercizio della funzione giurisdizionale determina suggestioni che possono influenzare le decisioni in termini di accondiscendenza a quanto voluto dalla gente. Anche la ricerca di popolarità può influenzare le scelte e minare per fatto proprio l’indipendenza del singolo magistrato.
In tema di indipendenza non può infine tralasciarsi di affrontare il tema dell’intelligenza artificiale. L’algoritmo dà certezza dell’assenza di condizionamenti e comunque della stretta attinenza alla fattispecie concreta?
Il Convegno di quest’anno non può che essere dedicato a Giacomo Matteotti, ucciso il 10 giugno 1924. Il processo contro i suoi assassini prova in maniera eclatante il vulnus derivante dalla soggezione dei magistrati al potere politico. Il giudice istruttore della Corte di assise di Roma Mauro del Giudice fu lasciato solo. Il processo fu trasferito a Chieti per legittima suspicione su richiesta del Procuratore generale. Le nostre riflessioni partiranno anche da questa vicenda, perché la memoria non sia vuota, ma esercitata nel quotidiano.
Sala Alessandrina presso S.Ivo alla Sapienza, sede dell'Archivio di Stato di Roma, Corso Rinascimento 40, Roma.
Evento accreditato presso l'ordine degli avvocati di Roma con riconoscimento di 8 crediti formativi.
Per informazioni e iscrizioni: convegno@giustiziainsieme.it
Brevi note in tema di giudicato esterno nel processo amministrativo. A proposito della sentenza Cons. St., Sez. III, 13 aprile 2023, n. 3754
di Nicolò Simeoni
Sommario: 1. La vicenda processuale – 2. La soluzione prospettata dal Consiglio di Stato – 3. Il rilievo del giudicato esterno nel processo amministrativo – 4. Conclusioni.
1. La vicenda processuale
Nella sentenza in rassegna il Consiglio di Stato prende in esame il regime dell’eccezione di giudicato esterno. Segnatamente, si sofferma a delineare da un lato gli oneri di allegazione in capo alle parti e dall’altro i limiti che incontra il giudice nel rilevare la questione. Nonostante si concentri più precisamente sul solo giudicato esterno sopravvenuto, la sentenza offre l’occasione di compiere più ampie riflessioni sul tema.
La vicenda processuale trae origine dal rigetto di un’istanza di adeguamento del prezzo contrattuale ex art. 115 del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 [[1]], presentata da una società a seguito della proroga del contratto di affidamento del servizio di pulizia. La società prima impugnava il provvedimento di diniego davanti al T.A.R., chiedendone l’annullamento e la consequenziale condanna al pagamento della somma revisionale, e successivamente conveniva davanti al giudice ordinario la stessa amministrazione per una pluralità di domande, tra cui quella volta a ottenere la corresponsione dell’importo dovuto a titolo di adeguamento del prezzo.
Entrambi i processi terminavano con una pronuncia nel merito, senza che venisse rilevato il conflitto positivo di giurisdizione: mentre il giudice civile rigettava le pretese attoree, il T.A.R. annullava il provvedimento di diniego e riconosceva la spettanza dell’adeguamento richiesto.
La società impugnava tempestivamente la pronuncia davanti alla Corte d’Appello, tuttavia, senza gravare la parte di sentenza relativa alla richiesta di condanna al pagamento del prezzo revisionale, la quale passava in giudicato ai sensi dell’art. 329 co. 2 cod. proc. civ. Anche la pubblica amministrazione resistente proponeva appello avverso la sentenza del T.A.R., chiedendone la riforma sulla base dell’intervenuto passaggio in giudicato della pronuncia del Tribunale ordinario.
2. La soluzione prospettata dal Consiglio di Stato
Esaminando più nel dettaglio il ragionamento svolto nella sentenza in commento, si può notare come il Consiglio di Stato abbia preso atto fin da subito del possibile contrasto tra i dispositivi delle due sentenze. Sul punto, infatti, si ricorda che entrambi i giudici di primo grado, dopo avere esplicitamente affermato la propria competenza giurisdizionale [[2]], hanno statuito nel merito giungendo a due soluzioni diametralmente opposte: mentre il Tribunale ordinario ha rigettato la richiesta di adeguamento del prezzo, il T.A.R. al contrario l’ha ritenuta fondata.
Si è posto, dunque, il problema di qualificare il conflitto tra l’accertamento contenuto nella pronuncia del giudice ordinario e quello della sentenza del giudice amministrativo. A tale proposito, la Terza Sezione ha ritenuto di potere ravvisare una piena sovrapposizione tra gli oggetti delle due domande, non avendo alcuna rilevanza le differenti locuzioni utilizzate dall’attore in una sede e dal ricorrente nell’altra ovvero la diversa struttura del giudizio civile rispetto a quello amministrativo. Si è optato, pertanto, per un approccio sostanziale nella valutazione del petitum e della causa petendi. In entrambi i casi, infatti, la società allegava a fondamento della propria pretesa i medesimi fatti e mirava allo stesso risultato utile.
Alla luce di tali considerazioni, è stata ritenuta fondata l’eccezione di giudicato esterno sopravvenuto prospettata dall’amministrazione appellante. Secondo la tesi sostenuta nell’atto di gravame, infatti, la formazione del giudicato sulla sentenza del giudice ordinario, nella parte in cui accerta l’insussistenza del diritto alla revisione del prezzo, avrebbe precluso al giudice amministrativo di esprimersi sul merito della stessa domanda in virtù del principio del ne bis in idem. Per quanto concerne la definizione del regime processuale dell’eccezione di giudicato esterno, il Consiglio di Stato, dopo avere richiamato l’orientamento della Corte di cassazione sul tema [[3]], ha affermato che la presenza di una precedente sentenza irrevocabile sullo stesso oggetto e pronunciata tra le medesime parti non possa essere sottoposta a preclusioni né in punto di allegazioni né per quanto concerne la prova. Di conseguenza, il giudicato esterno formerebbe l’oggetto di una questione rilevabile dal giudice in ogni stato e grado del processo e non di un’eccezione in senso stretto. Tale configurazione discenderebbe dalla necessità di garantire la stabilità dei giudicati e di evitarne il contrasto.
3. Il rilievo del giudicato esterno nel processo amministrativo
La pronuncia annotata merita di essere segnalata nella parte in cui si occupa di definire la natura dell’exceptio rei iudicatae. L’argomento non risulta essere stato oggetto di approfondimento né da parte della dottrina processual-amministrativistica, salvo alcuni rari contributi sul tema [[4]], né in seno alla giurisprudenza amministrativa, la quale invero non ha avuto spesso occasione di esprimersi sul punto [[5]]. Al contrario, la natura dell’eccezione di giudicato esterno ha animato un grande dibattito nel campo processual-civilistico, vedendo per lungo tempo la giurisprudenza e la dottrina su due opposte posizioni [[6]]. Soltanto recentemente le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno riconosciuto nel giudicato esterno una questione rilevabile ope iudicis [[7]].
Ai fini della risoluzione del caso di specie, il Consiglio di Stato ha recepito e applicato i principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità, affermando che la prospettazione della questione di giudicato esterno non sia sottoposta a preclusioni. Si evidenzia, tuttavia, che questa presa di posizione sembra essere limitata al solo regime del giudicato esterno sopravvenuto nel corso del giudizio. Gli elementi sopravvenuti, infatti, non sono sottoposti ai limiti temporali, in quanto la parte non avrebbe mai potuto allegarli e produrli in precedenza [[8]]. Non viene chiarito, invece, se tale orientamento sia estendibile all’ipotesi in cui la questione, pur conosciuta dalle parti, non sia stata tempestivamente allegata entro i termini previsti. Sembra opportuno, quindi, svolgere alcune riflessioni allo scopo di offrire qualche spunto circa la natura dell’eccezione di giudicato esterno nel processo amministrativo.
In via preliminare si può osservare come, malgrado il d.lgs. 10 luglio 2010, n. 104, non si occupi direttamente del tema in oggetto, sia comunque possibile rintracciare alcuni indici che possono fungere da guida per l’interprete.
Un primo elemento può essere individuato nella lettera dell’art. 2909 cod. civ., nella parte in cui afferma che l’accertamento della sentenza passata in giudicato formale ex art. 324 cod. proc. civ. “fa stato ad ogni effetto tra le parti, i loro eredi e gli aventi causa” [[9]]. Anche nel processo amministrativo opera l’effetto negativo-preclusivo del giudicato che impedisce alle stesse parti di riproporre una domanda con petitum e causa petendi identici a quella già oggetto di accertamento definitivo. Il secondo giudizio eventualmente instaurato si chiuderebbe con una sentenza di rigetto in rito per la mancanza di un presupposto di decidibilità della causa nel merito [[10]]. Questa prima considerazione, se suggerisce la sicura configurazione nel processo amministrativo dell’eccezione di giudicato esterno, ancora non ne definisce la fisionomia.
Un ruolo maggiormente incisivo sembra essere svolto dall’art. 106, co. 1, cod. proc. amm., secondo cui le parti possono impugnare con il rimedio della revocazione le sentenze del giudice amministrativo “nei casi e nei modi” stabiliti dagli artt. 395 e 396 cod. proc. civ. Tra i casi di revocazione è compresa anche l’ipotesi in cui una pronuncia sia contraria a una antecedente avente tra le parti l’autorità di cosa giudicata, purché non vi sia stata l’occasione per il giudice di esprimersi sulla relativa eccezione (art. 395, n. 5, cod. proc. civ.). Il contenuto della norma rende evidente il legame che intercorre con l’exceptio rei iudicatae. Si tratta in entrambi i casi di strumenti processuali complementari volti a fare valere l’esistenza di un precedente giudicato sullo stesso oggetto al fine di evitare la duplicazione e il contrasto delle decisioni giudiziali. Attraverso l’art. 395, n. 5, cod. proc. civ., il legislatore permette di impugnare la sentenza utilizzando tardivamente l’eccezione di giudicato, oltre la conclusione del giudizio di primo e di secondo grado, ma a patto che la questione non fosse già stata sollevata in precedenza [[11]].
Proprio quest’ultimo profilo sembra suggerire che l’eccezione di giudicato esterno non sia sottoposta a preclusioni né per l’allegazione del fatto né in punto di produzione della relativa prova. Non avrebbe senso, infatti, prevedere un termine perentorio entro cui sollevare la questione se successivamente una delle parti fosse libera di impugnare per revocazione la sentenza facendo valere il medesimo fatto [[12]].
Parte della dottrina [[13]], poi, ha sottolineato che a fronte della previsione dell’art. 395, n. 5, cod. proc. civ., la sentenza revocabile, in quanto pronunciata in contrarietà a quella ormai passata in giudicato, debba considerarsi viziata. Da questo punto di vista, apparirebbe complicato sostenere che la questione di giudicato esterno rientri nel monopolio esclusivo della parte interessata, in quanto si produrrebbe una sentenza viziata non per un errore compiuto dal giudice, bensì in virtù di una mancanza delle parti. Sembra preferibile, pertanto, ritenere che la questione relativa alla preesistenza di una sentenza irrevocabile sia direttamente rilevabile dal giudice senza la necessità di una preventiva e specifica eccezione in senso stretto sollevata dalla parte.
Queste conclusioni sembrano ulteriormente avvalorate dal regime processuale dell’eccezione di litispendenza. Il d.lgs. 10 luglio 2010, n. 104, non predispone direttamente una disciplina per regolare l’ipotesi in cui la stessa domanda sia contemporaneamente proposta dinnanzi a T.A.R. differenti. La lacuna è colmata applicando il disposto dell’art. 39, co. 1 e 3, cod. proc. civ., grazie alla clausola di rinvio esterno di cui all’art. 39, co. 1, cod. proc. amm. [[14]]. Nel processo amministrativo, dunque, la simultanea pendenza dei due giudizi è risolta attraverso il criterio cronologico dando prevalenza alla causa preveniente. Il giudice della causa prevenuta, invece, rileverà ex officio in ogni stato e grado la litispendenza e disporrà con ordinanza la cancellazione della causa dal ruolo. Anche l’istituto della litispendenza sembra presentare qualche affinità con l’eccezione di giudicato esterno dal punto di vista funzionale. Attraverso la previsione dell’art. 39, co. 1, cod. proc. civ., il legislatore mira a evitare la duplicazione dell’attività processuale in relazione all’identica vicenda sostanziale e, in definitiva, di giungere a due pronunce nel merito suscettibili di passare in giudicato. Da questo punto di vista, la litispendenza è stata definita come “un’anticipazione dell’eccezione di cosa giudicata” [[15]]. Se esiste questa soluzione di continuità tra litispendenza ed eccezione di cosa giudicata, allora sembra improbabile che il legislatore abbia previsto la rilevabilità d’ufficio per la prima e non per la seconda. In questo senso, è possibile sostenere che entrambe le eccezioni sottostiano allo stesso regime processuale espressamente stabilito dall’art. 39, co. 1, cod. proc. civ. [[16]].
Qualche perplessità suscita, invece, l’argomento tratto dall’art. 112, secondo periodo, cod. proc. civ., individuato dalla giurisprudenza civile [[17]] quale elemento rischiaratore della natura dell’eccezione di giudicato esterno. Secondo tale orientamento, la norma indicata non si limiterebbe solo a definire la vigenza del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, ma sarebbe espressione di un ulteriore principio generale, secondo il quale i fatti estintivi, modificativi o impeditivi sarebbero di norma rilevabili d’ufficio dal giudice. Solo in alcuni casi specifici, poi, espressamente disciplinati dal legislatore, il fatto sarebbe subordinato alla proposizione di una specifica istanza della parte, configurandosi così un’ipotesi di eccezione in senso stretto. Tali conclusioni, poi, vengono impiegate anche in relazione all’eccezione di giudicato esterno. Non rinvenendo all’interno dell’ordinamento una norma che ne riservi l’utilizzo, se ne deduce la rilevabilità officiosa.
Anzitutto, si constata che il dettato dell’art. 112 cod. proc. civ. è pacificamente recepito dalla giurisprudenza all’interno del processo amministrativo [[18]]. E la pronuncia in rassegna sembra accogliere anche il principio della generale rilevabilità ex officio delle eccezioni, salvo indicazioni normative contrarie. Se ne potrebbe ricavare, dunque, un ulteriore elemento capace di definire la natura dell’eccezione di giudicato esterno. Più di un Autore [[19]], tuttavia, ha avanzato dei dubbi sulla ricostruzione prospettata dalla giurisprudenza, in quanto l’art. 112, secondo periodo, cod. proc. civ., si presterebbe anche a differenti interpretazioni. Vi è chi, ad esempio, richiama proprio tale disposizione per affermare la generale rilevabilità su istanza di parte delle eccezioni, restringendo i poteri officiosi del giudice ai casi tassativamente previsti [[20]]. L’ambigua formulazione dell’art. 112 cod. proc. civ., pertanto, sembra suggerire maggiore cautela nell’impiego di tale indice ai fini della presente indagine.
4. Conclusioni
La mancanza di una chiara presa di posizione da parte del legislatore non sembra consentire allo stato di individuare delle conclusioni sicure a proposito della natura dell’eccezione di giudicato esterno. Nonostante tale indicazione di prudenza, alla luce dei dati raccolti appare preferibile accedere all’opinione più diffusa presso la dottrina [[21]] e la giurisprudenza [[22]], secondo cui si tratterebbe di una questione rilevabile ope iudicis e non soggetta alle preclusioni maturate nel corso del processo. Gli elementi che maggiormente confortano questa ricostruzione sono rappresentanti dalla disciplina della revocazione (art. 106, co. 1, cod. proc. amm., e art. 395, n. 5, cod. proc. civ.) e da quella della litispendenza (art. 39, co. 1, cod. proc. amm., e art. 39, co. 1, cod. proc. civ.). Più in generale, sembra che l’eccezione di giudicato esterno si inserisca all’interno di un sistema di strumenti processuali approntati dal legislatore allo scopo di evitare la presenza di più statuizioni sulla stessa domanda.
Se tale impostazione si ritiene corretta, l’esistenza di una precedente sentenza passata in giudicato pronunciata tra le stesse parti e vertente sullo stesso oggetto potrà essere semplicemente segnalata al giudice in ogni stato e grado del processo amministrativo, senza l’utilizzo di particolari formule sacramentali. Più precisamente, la parte interessata potrà sollevare la questione e produrre la copia autentica della sentenza irrevocabile per tutto il corso del primo grado e, nel caso in cui questa attività sia mancata, non incorrerà nelle preclusioni previste per i nova nel grado di appello dall’art. 104, co. 1 e 2, cod. proc. amm. [[23]]. Ad ogni modo, dovrà essere assicurato il contraddittorio delle parti, nel caso in cui il collegio dovesse rilevarne la fondatezza (art. 73, co. 3, cod. proc. amm.).
Qualche dubbio potrebbe porsi nel caso in cui la questione venisse prospettata per la prima volta all’udienza di discussione. In merito, si potrebbe immaginare una pluralità di soluzioni: a) il collegio potrebbe ammettere l’acquisizione della copia autentica della sentenza e provocare il contraddittorio delle parti sulla questione; b) il collegio potrebbe rinviare l’udienza per permettere la produzione della copia autentica della sentenza e la discussione delle parti sul punto; c) la questione potrebbe ritenersi ormai preclusa e la parte interessata dovrebbe farla valere eventualmente nel grado di appello. Non dovrebbero porsi problemi, invece, se la tardiva prospettazione della questione non sia imputabile alla parte [[24]], in quanto il collegio potrebbe autorizzare a seguito di esplicita richiesta una produzione tardiva della memoria e del documento (art. 54, co. 1, cod. proc. amm.).
Nell’ipotesi in cui nessuna delle parti abbia sollevato l’esistenza di un precedente giudicato né in primo grado né davanti al Consiglio di Stato, sarà allora possibile impugnare la sentenza di appello per revocazione facendo valere il quinto motivo previsto dall’art. 395 cod. proc. civ. [[25]]. Se non sarà promosso neanche il giudizio di revocazione, si verificherà un contrasto pratico tra i due giudicati. In applicazione del criterio cronologico, si ritiene che prevalga l’accertamento intervenuto per secondo [[26]].
[[1]] La disposizione citata, ratione temporis applicabile al caso di specie, prevedeva obbligatoriamente l’inserimento di una clausola di revisione del prezzo nei contratti ad esecuzione periodica o continuativa relativi a servizi o forniture. Si precisava, poi, che la revisione non operasse in via automatica, ma che fosse determinata sulla base di un’istruttoria compiuta dall’amministrazione tenendo conto dei costi standardizzati, calcolati avvalendosi degli indici ISTAT. Le parti contraenti, tuttavia, erano libere di inserire nel capitolato d’appalto anche clausole con meccanismi di revisione del prezzo dal contenuto determinato, escludendo o riducendo il successivo esercizio del potere discrezionale da parte della stazione appaltante.
[[2]] Il conflitto positivo di giurisdizione si spiega alla luce dell’interpretazione offerta dalla giurisprudenza in merito alla lettera dell’art. 133, lett. e, n. 2, cod. proc. amm., secondo cui le controversie “[…] relative alla clausola di revisione del prezzo e al relativo provvedimento applicativo nei contratti ad esecuzione continuata o periodica, nell’ipotesi di cui all’articolo 115 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 […]” sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. In realtà, si ritiene sussistente la giurisdizione del giudice ordinario in tutti quei casi in cui il contratto di appalto preveda una clausola di revisione del prezzo che disciplini nel dettaglio i criteri di adeguamento. In questo caso, infatti, non residuerebbe alcun potere in capo alla pubblica amministrazione e la controversia riguarderebbe l’esecuzione di una prestazione già pienamente definita in base al regolamento contrattuale (Cons. St., Sez. III, sent., 25 luglio 2023, n. 7291; Cass. civ., Sez. un., ord., 22 novembre 2021, n. 35952; Cass. civ., Sez. un., ord., 12 ottobre 2020, n. 21990; Cass. civ., Sez. un., ord., 13 luglio 2015, n. 14559).
[[3]] Tra le maggiormente incisive si indicano: Cass. civ., Sez. un., sent., 3 febbraio 1998, n. 1099 e Cass. civ., Sez. un., sent., 25 maggio 2001, n. 226.
[[4]] Si segnalano gli interventi di: C. Cacciavillani, Giudizio amministrativo e giudicato, Padova, 2005, 88-89; M. Di Rienzo, L’eccezione nel processo amministrativo, Napoli, 1968, 154-155; G. Paleologo, L’appello al Consiglio di Stato, Milano, 1989, 340; F. Saitta, I novanell’appello amministrativo, Milano, 2010, 370-371; P. M. Vipiana, Contributo allo studio del giudicato amministrativo, Milano, 1990, 230 (12).
[[5]] Si vedano le riflessioni degli Autori citati nella precedente nota.
[[6]] Per una rapida disamina si rinvia a M. Russo, Sull’eccezione di giudicato esterno formatosi nel corso del giudizio di merito, in La Nuova Giurisprudenza Civile Commentata, 2012, I, 646-648.
[[8]] Si segnala, infatti, che nel caso in esame il giudicato civile si era formato dopo la pubblicazione della sentenza del T.A.R. Non sarebbe stato possibile, dunque, sollevare la relativa questione nel giudizio di primo grado. Sul punto, si veda A. A. Romano, Questioni in tema di giudicato esterno sopravvenuto in corso di appello, in il Corriere giuridico, 2013, 3, 405-406, il quale ricorda che le preclusioni non trovano applicazione nei confronti della parte che incolpevolmente non fosse nelle condizione di rispettarle.
[[9]] Si ricorda che in caso di lacune il codice del processo amministrativo predispone una clausola di rinvio esterno alle norme del codice di procedura civile “in quanto compatibili o espressione di principi generali” (art. 39, co. 1, cod. proc. amm.). Il d.lgs. 10 luglio 2010, n. 104, invero, richiama in altre parti il concetto del giudicato, ad esempio per quanto riguarda il giudizio di ottemperanza. Sembra possibile affermare, dunque, che nonostante l’art. 2909 cod. civ. non sia collocato all’interno del codice di rito, esso trovi comunque applicazione nel processo amministrativo in quanto presupposto per il funzionamento di altre norme. La dottrina afferma pacificamente l’applicazione nel processo amministrativo sia dell’art. 2909 cod. civ. sia dell’art. 324 cod. proc. civ. (C. Cacciavillani, Il giudicato, in F. G. Scoca (a cura), Giustizia amministrativa, Torino, 2023, 644-645. Si segnala, sotto la vigenza della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, la posizione di P. M. Vipiana, Contributo, cit., 196-203, secondo la quale tali norme possono trovare applicazione con i dovuti adattamenti richiesti dalla struttura e dalle esigenze proprie del processo amministrativo). Anche la giurisprudenza non sembra avere dubbi al riguardo (Cons. St., Sez. IV, sent., 29 agosto 2022, n. 7504; Cons. St., Sez. III, sent., 7 novembre 2018, n. 6281).
[[10]] C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, I, Torino, 2019, 104-106 e 116-121.
[[11]] M. D’Orsogna, Le impugnazioni straordinarie contro le decisioni dei giudici amministrativi, in F. G. Scoca (a cura), Giustizia, cit., 495-496.
[[12]] Si è notato, tuttavia, come l’art. 395, n. 5, cod. proc. civ., utilizzi espressamente il termine “eccezione”, rimandando a una precisa tradizione giuridica. Da un punto di vista letterale, quindi, si potrebbe sostenere che il legislatore richieda che sia la parte interessata ad allegare specificatamente l’esistenza del precedente giudicato (S. Ziino, Disorientamenti della Cassazione in materia di giudicato “implicito” e di rilevabilità del giudicato esterno, in Rivista di diritto processuale, 2005, 4, 1401).
[[13]] C. Cacciavillani, Giudizio, cit., 89; G. Pugliese, voce Giudicato civile (dir. vig.), in Enc. dir., XVIII, Milano, 1969, 835.
[[14]] In questo senso si veda A. Police, La competenza, in F. G. Scoca, Giustizia, cit., 144. In giurisprudenza si segnalano: T.A.R. Campania (Salerno), Sez. III, sent., 24 maggio 2023, n. 1214; T.A.R. Molise (Campobasso), Sez. I, sent., 9 giugno 2017, n. 224; T.A.R. Friuli-Venezia Giulia (Trieste), Sez. I, sent., 12 maggio 2016, n. 164; Cons. St., Sez. IV, sent., 5 giugno 2013, n. 3100.
[[15]] C. Cacciavillani, Giudizio, cit., 89. In senso analogo si vedano C. Consolo, Spiegazioni, cit., 123 e S. Menchini, voce Regiudicata civile, in Dig. disc. priv. Sez. civ., XVI, Torino, 1997, 467.
[[16]] Contra S. Ziino, Disorientamenti, cit., 1400-1401, il quale, riconosciuto che i due istituti condividono l’obiettivo di evitare il contrasto tra giudicati, ne sottolinea anche le differenze. In particolare, la litispendenza si preoccuperebbe di trovare una soluzione a un problema di competenza, caratteristica che invece sfuggirebbe all’eccezione di cosa giudicata. Si rinvia anche a G. Scarselli, Note in tema di eccezione di cosa giudicata, in Rivista di diritto processuale, 1996, 857-860.
[[17]] Cass. civ., Sez. un., sent., 3 febbraio 1998, n. 1099, con nota di M. Negri, L’eccezione di “aliunde perceptum” è preclusa in appello, in il Corriere giuridico, 1999, 8, 1013-1021.
[[18]] Secondo alcune pronunce la norma troverebbe applicazione quale sviluppo logico del principio della domanda (ex multis: Cons. St., Sez. IV, sent., 4 settembre 2023, n. 8153; Cons. St., Sez. VII, sent., 22 dicembre 2022, n. 11190; Cons. St., Sez. V, sent., 14 giugno 2019, n. 4024), altre invece ricorrono alla mediazione dell’art. 39, co. 1, cod. proc. amm. (ex multis: Cons. St., Sez. II, sent., 17 marzo 2021, n. 2293; Cons. St., Sez. II, sent., 7 settembre 2020, n. 5397; Cons. St., Sez. II, sent., 25 luglio 2020, n. 4753). Si precisa che le sentenze qui riportate si occupano solo dell’applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ. nel processo amministrativo, senza soffermarsi sul tema delle eccezioni.
[[19]] Sul tema della distinzione tra eccezioni in senso stretto ed eccezioni in senso lato in relazione all’art. 112, secondo periodo, cod. proc. civ., si rinvia a: C. Cavallini, Eccezione rilevabile d’ufficio e struttura del processo, Napoli, 2003, 63-69; V. Colesanti, Nostalgie in tema di eccezioni, in Rivista di diritto processuale, 2016, 283-285; G. Fabbrini, L’eccezione di merito nello svolgimento del processo di cognizione, in Studi in memoria di Carlo Furno, Milano, 1973, 264-276; E. Grasso, La pronuncia d’ufficio, Milano, 1967, 315-333; E. Merlin, Eccezioni rilevabili d’ufficio e sistema delle preclusioni in appello, in Rivista di diritto processuale, 2015, 300-308; R. Oriani, voce Eccezione, in Dig. disc. priv. Sez. civ., VII, Torino, 1991, 270-272 e 279; S. Ziino, Disorientamenti, cit., 1399-1400.
[[20]] S. Ziino, Disorientamenti, cit., 1399-1400.
[[21]] S. Valaguzza, Il giudicato amministrativo nella teoria del processo, Milano, 2016, 229.
[[22]] Cons. St., Sez. VI, sent., 9 maggio 2023, n. 4651; Cons. St., Sez. IV, sent., 26 novembre 2020, n. 7422; Cons. St., Sez. IV, sent., 10 luglio 2013, n. 3654; Cons. St., Sez. VI, sent., 29 marzo 2013, n. 1848.
[[23]] Si segnala l’indirizzo giurisprudenziale per cui, anche in mancanza della produzione della sentenza passata in giudicato, il Consiglio di Stato potrebbe prenderne visione attraverso l’accesso al sito della giustizia amministrativa (Cons. St., Sez. VI, sent., 29 agosto 2022, n. 7504).
[[24]] È il caso in cui il giudicato si fosse formato allo spirare dei termini stabiliti dall’art. 73, co. 1, cod. proc. amm.
[[25]] Si ricorda che, secondo l’art. art. 395, co. 5, cod. proc. civ., la revocazione non può essere proposta avverso la sentenza che “abbia pronunciato sulla relativa eccezione [di giudicato esterno]”. La giurisprudenza amministrativa interpreta estensivamente la locuzione utilizzata dalla norma, ricomprendendovi non solo le ipotesi in cui il giudice si sia espresso sulla questione, ma anche tutti quei casi in cui ne ha avuto la mera occasione. È sufficiente, quindi, che una delle parti abbia prospettato l’esistenza di un giudicato esterno rilevante ai fini del giudizio per non potere più promuovere la revocazione (Cons. St., Sez. II, sent., 2 luglio 2023, n. 6419; Cons. St., Sez. II, sent., 20 febbraio 2023, n. 1695; Cons. St., Sez. VI, sent., 9 maggio 2023, n. 4651).
[[26]] C. Consolo, Spiegazioni, cit., 125-126; S. Menchini, voce Regiudicata, cit., 469; A. Proto Pisani, Appunti sul giudicato civile e i suoi limiti oggettivi, in Rivista di diritto processuale, 1990, 418; G. Pugliese, voce Giudicato, cit., 825. Per un approfondimento sul tema si rinvia a G. Scarselli, Note, cit., 851-852. Concorde anche la giurisprudenza: T.A.R. Piemonte (Torino), Sez. II, sent., 2 maggio 2023, n. 399; T.A.R. Sicilia (Catania), Sez. IV, sent., 9 aprile 2021, n. 1126; Cons. St., Sez. VI, sent., 26 ottobre 2020, n. 6503; Cons. St., Sez. V, sent. 6 giugno 2003, n. 3239.
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