Entrata in Magistratura, tra le prime, “magnifiche otto”, e con lei anche Graziana Calcagno – che pure ho avuto la fortuna di conoscere, e che ci ha lasciato da qualche anno – Giulia De Marco è stata la presidente, la magistrata, l’amica, che tutti e tutte vorremmo avere.
Per me e per la nostra “generazione di mezzo”, dell’epoca in cui eravamo ancora un po' meno della metà, ma stavamo avviandoci ad essere sempre di più, sempre più numerose anche come capi degli uffici, quelle prime donne entrate in magistratura ci ricordavano come quel punto d’arrivo – che era, poi, una partenza - non fosse stato conquistato senza fatica; anche in occasione del cinquantenario celebrato con una bella festa in Cassazione, Giulia stessa citò il susseguirsi di confronti parlamentari, certe affermazioni che pare impossibile qualcuno possa avere condiviso, la necessità di una decisione della Consulta.
Ma non solo, anche l’accettazione non scontata da parte dei colleghi, il pregiudizio che la donna magistrato non potesse che occuparsi di certe materie e non di altre, ricoprire alcune funzioni, e non altre.
Accanto a questo, io penso che la grandezza di Giulia, e quello che più di altro ce l’ha fatta sentire “amica” sia stato l’unire alla professionalità e alla dedizione alla sua funzione, la capacità di intessere legami affettivi stabili, di dare ai figli affetto e regole – come amava dire – e il proprio esempio, lo stesso che dava ai suoi collaboratori e a noi tutti, colleghe e colleghi, i “suoi” giudici.
Nel salutarla per l’ultima volta, ho ricordato come, nell’approdare al Tribunale per i minorenni di Torino, personalmente provassi un certo timore.
Un timore quasi reverenziale, perché diventavo giudice, dopo anni di procura, e arrivavo ad un Tribunale per i minorenni che aveva fatto storia, era considerato tra i migliori d’Italia, anche perché alcune soluzioni giurisprudenziali erano poi state condivise e addirittura recepite in modifiche normative.
E Giulia era stata una dei protagonisti di quell’epoca, e di quel tribunale.
Se decidere è gravoso per tutti i giudicanti, diventa a volte un vero e proprio macigno per il Giudice Minorile, che decide delle “vite degli altri”, delle relazioni più intime e profonde, della “capacità” di fare i genitori, così come della maturità dei ragazzi che commettono reati.
E, in quello, Giulia è stata una guida, per me, come per tutti i colleghi; e non era solo per la sua capacità organizzativa, la sua presenza costante, l’avere continuato a fare il giudice, a scrivere provvedimenti, a presiedere collegi, fossero penali, civili o del tribunale di sorveglianza, anche da presidente, con tutti gli adempimenti amministrativi e le responsabilità che ciò comportava.
Era la consapevolezza, che ti infondeva, del peso, e insieme della rilevanza, del decidere; non solo la rilevanza sociale, ma proprio quella rispetto al caso concreto, a quel bambino, a quel ragazzo.
Decidere la vita dei bambini, dei ragazzi, delle loro famiglie; cambiare, se necessario, il loro contesto, le loro storie, il loro futuro… dare una possibilità a chi non è stato “visto” e per questo ritiene di non avere valore, e non sa dare valore all’altro. L’importanza di intervenire in via preventiva, per evitare, poi, di ritrovare gli stessi ragazzi in sede penale.
E decidere da “giudice”, ma confrontandosi con chi di bambini e ragazzi ne sa più di noi, in quella architettura della Giustizia Minorile che è stata l’esito di un percorso che va dalla Costituzione alle grandi riforme, dal ’67, agli anni settanta e ottanta dello scorso secolo.
Ma sempre decidere; sugli atti, che conosceva a fondo; con l’aiuto di saperi “altri”; con la premura di chi sa che la vita dei bambini non si misura con il metro degli adulti; senza alcun condizionamento esterno, pure essendo, lei, una “moglie della Repubblica” realtà, questa, che tutti conoscevamo, ma che in ufficio quasi non appariva.
Giulia, poi, era unica nel motivare i provvedimenti, di una sintesi che però abbracciava tutte le questioni; e capace, nella collegialità che allora riguardava tutte le decisioni del Tribunale minorile, di cambiare anche idea, dal progetto che tutti ci si fa, in base all’istruttoria, entrando in camera di consiglio, alla conclusione assunta grazie anche all’apporto di quelle scienze “altre” che partecipavano alla decisione.
Anche dopo la pensione, Giulia partecipava alla formazione di operatori sociali, di neuropsichiatri infantili, continuando quel dialogo, che era stato il fulcro, e la novità, dei Tribunali minorili, e di quello di Torino, in particolare, in quegli anni che appaiono ora lontani.
Ma era, soprattutto, un’amica; vicina nelle questioni che riguardavano il lavoro, ma anche nel privato, per un consiglio, un abbraccio consolatorio in momenti particolarmente dolorosi, che non era di forma, e la cui mancanza, oggi, fa soffrire ancora di più.
Doti “femminili”, queste? Forse, ma nel significato che più valorizza questo modo di essere, nella nostra specificità, e nel nostro impegno, come magistrate, e come donne.
Parlare di esempio è riduttivo, parlare del ruolo della donna in magistratura non esaurisce il punto; esiste donna e donna, e le generalizzazioni sono di troppo.
Esiste chi è attento a quelle “vite degli altri”, chi percepisce l’importanza della funzione, non della persona in sé, chi sa sorridere, degli altri ma anche di se stessa, chi è davvero amica delle altre donne senza dimenticare il proprio ruolo, chi lascia insegnamenti che non si dimenticano.
Giulia ha davvero fatto scuola, ma a volte mi domando se la mia generazione invece non ci sia riuscita; o forse è cambiata la sensibilità, non voglio dire la moda, ma il senso di un’istituzione davvero dalla parte dei bambini non è più così chiaro, neppure a chi fa il magistrato minorile.
E così è arduo, ora, raccoglierne il testimone; per l’inclemenza dei tempi, e certe scelte legislative che sembrano voler cancellare il passato, senza una piena cognizione della realtà sulla quale si va ad incidere.
La sua lezione di vita e di professione parlava un linguaggio diverso da quanto ora sembra contare.
Ma soprattutto resta il ricordo di quel suo sorriso, di quei suoi occhi così vivaci, di sollecitudine nel chiedere di noi, nell’esserci sempre, in una vicinanza speciale.