ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. Premessa – 2. La “documentazione antimafia” – 3. Il “controllo giudiziario” - 4. Rapporti fra informazione antimafia e controllo giudiziario - 4.1. Demarcazione dei relativi presupposti - 4.2. Favorevole conclusione della procedura di controllo giudiziario: effetti e conseguenze - 5. Conclusioni.
1. Premessa
“La mafia…..è un fatto umano... che si può vincere impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni” (Giovanni Falcone).
In quest’ottica, attraverso l’elaborazione del cd. “Codice Antimafia” (Decreto Legislativo 6.9.11 n. 159), il Legislatore ha inteso perseguire, a forza, il complesso obiettivo come sopra citato.
In un contesto così delicato, tuttavia, la principale questione che si pone è quella di riuscire ad assicurare il difficile bilanciamento fra due contrapposti interessi, entrambi aventi rilevanza costituzionale, quali la salvaguardia dell’ordine pubblico economico ed il diritto di iniziativa economica privata.
Se pertanto, da un lato, l’art. 84 comma 1 contempla il sistema della “documentazione antimafia”, la cui finalità è quella di estromettere dal contesto economico sano quelle imprese condizionate dalla criminalità organizzata, privandole della possibilità di poter contrarre con la Pubblica Amministrazione; dall’altro, l’art. 34-bis, introdotto a distanza di pochi anni (Legge 17.10.17 n. 161) dall’entrata in vigore del Codice, persegue la finalità di riallineare ad esso contesto economico sano quelle realtà imprenditoriali ritenute come soltanto “occasionalmente” inquinate dal fenomeno mafioso.
Il presente contributo, anche alla luce delle peculiari esperienze professionali maturate al riguardo, si propone di analizzare - premessi brevi cenni descrittivi sugli istituti - il rapporto (rectius: la correlazione) esistente fra i predetti differenti strumenti, che, pur essendo basati su distinti presupposti giuridici, hanno ad oggetto la valutazione dei medesimi fatti da parte da parte del Giudice Amministrativo e del Giudice della Prevenzione, con ogni inevitabile conseguente inferenza.
2. La “documentazione antimafia”
Il sistema della documentazione antimafia è costituito (art. 84 comma 1 D.Lgs. 6.9.11 n. 159) dalle differenti categorie della “comunicazione antimafia” e della “informazione antimafia”.
L’emissione di tali provvedimenti comporta, tra l’altro, l’esclusione di un imprenditore dalla titolarità di rapporti contrattuali con le Pubbliche amministrazioni, determinando a suo carico una particolare forma di incapacità giuridica (Consiglio di Stato, A.P. 6.4.18 n. 3).
Mentre la “comunicazione antimafia” si traduce, in via essenziale, nell'attestazione in ordine alla sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, sospensione o divieto di cui all'art. 67 del Codice Antimafia ed opera, in tal senso, alla stregua di uno strumento vincolato, avente una funzione di natura accertativa, che fotografa la cristallizzazione di una situazione espressamente tipizzata dal Legislatore; la “informazione antimafia” si fonda su di una valutazione, frutto dell’esercizio di un potere amministrativo avente contenuto ampiamente discrezionale, che, muovendo anche dalle “situazioni indizianti” elencate al comma 4 dell’art. 84, conduce alla elaborazione di un quadro indiziario dal quale poter desumere, sulla base di un criterio di natura probabilistica (“più probabile che non”), che l’attività d’impresa possa essere esposta ad un “tentativo” di infiltrazione mafiosa.
L’informazione antimafia, alla luce dell’ampiezza di esso potere valutativo, finisce per essere equiparata ad una misura di prevenzione sui generis, che anticipa massimamente la soglia di prevenzione.
Epperò, attesane la natura squisitamente cautelare, non è richiesta, ai fini della sua adozione, la prova di un fatto concreto, essendo ritenuta sufficiente, secondo il consolidato orientamento seguito dalla giurisprudenza amministrativa, la sussistenza di elementi “sintomatico-presuntivi”, integrati da dati di comune esperienza evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali, dai quali sia deducibile, sulla base della predetta citata regola causale del “più probabile che non” ed alla luce di una loro considerazione “unitaria” e non già atomistica (cosicché ciascuno di essi acquisti valenza nella sua connessione con gli altri), il pericolo di ingerenza da parte della criminalità organizzata.
È dunque radicalmente estranea all’informazione antimafia qualsiasi logica penalistica di certezza probatoria raggiunta al di là del ragionevole dubbio.
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Sono almeno due, al riguardo, gli spunti di riflessione critica.
Da una parte, risalta l’occorsa elaborazione di un ormai granitico orientamento giurisprudenziale che, andando oltre il dato letterale del quadro normativo di riferimento, interpreta in senso ampio la nozione di “tentativo di infiltrazione mafiosa” [certamente non inteso quale compimento di “atti idonei, diretti in modo non equivoco, a commettere”], sostituendola, in sostanza, con quella di mero “rischio” di condizionamento e/o di ingerenza mafiosa.
Dall’altra, la predisposizione di un “sistema di prevenzione” fatto funzionare per tramite di uno strumento (rectius: provvedimento) di natura amministrativa, che, anche alla luce delle indicazioni rese dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nella nota sentenza De Tommaso, sconta un evidente deficit di tipicità.
Il rischio che si verifica, in tal senso, è quello di comportare un’anticipazione dell’intervento dei pubblici poteri e della soglia della difesa sociale tale da “avanzare la frontiera della prevenzione” fino al punto di poter desumere il pericolo di infiltrazione mafiosa da elementi financo immaginari od aleatori, da semplici sospetti, intuizioni o percezioni soggettive non assistite da alcuna evidenza indiziaria e pur in assenza di azioni che appaiano idonee rispetto al supposto fine dell’interferenza e del condizionamento delle scelte imprenditoriali, ciò che consegnerebbe l’istituto dell’informazione antimafia ad un diritto della paura, che finirebbe per comminare una sorta di “pena del sospetto”.
La conseguente difficoltà è quella degli amministrati di poter agevolmente censurare dinanzi al Giudice Amministrativo le scelte compiute dall’Autorità Prefettizia e ciò attesi i noti limiti riguardanti il sindacato giurisdizionale involgente le scelte tecnico-discrezionali dell’Amministrazione.
3. Il “controllo giudiziario”
Muovendo nell’ottica di garantire il bilanciamento dei contrapposti interessi descritti in premessa, il Legislatore - anche, si ritiene, al fine di colmare gli inconvenienti di sistema sopra descritti - ha innovato il Codice Antimafia mediante l’introduzione dell’art. 34-bis, rubricato “controllo giudiziario delle aziende”.
Essa misura ha come obiettivo primario quello di ricondurre ad un ambito di piena consolidata legalità quella impresa, già raggiunta da un’informazione antimafia, ma affetta, secondo una valutazione che ne viene operata dal Giudice della Prevenzione, da un condizionamento e/o da una ingerenza mafiosa ritenuta di tipo solo “occasionale”, che può perciò essere estirpata mediante l’ausilio di un programma di sostegno attuato da un Giudice Delegato e da un Amministratore Giudiziario all’uopo nominati, chiamati ad affiancare il proprietario dell’azienda e ad esercitare dei poteri di controllo sull’attività d’impresa [siffatta misura va pertanto tenuta nettamente distinta dalla diversa fattispecie della “amministrazione giudiziaria” (art. 34), che implica la estromissione del proprietario dei beni e dell’azienda, sia pure temporaneamente (art. 34, comma 2), dall’esercizio dei propri poteri].
Il controllo giudiziario, indubbiamente qualificabile alla stregua di una “misura di salvataggio”, è perciò coadiuvante di un nuovo corso della gestione della azienda, finalizzato ad un suo recupero alla libera concorrenza, una volta affrancata dalle infiltrazioni mafiose che ne avevano condizionato l’attività.
Presupposti indefettibili per la sottoposizione di una data impresa alla misura di salvataggio in discorso, che, oltre che d’ufficio, può avvenire anche su istanza di parte (art. 34-bis comma 6), sono:
Il controllo giudiziario, rispetto all’informazione antimafia, che ne è l’antecedente logico-causale, costituisce dunque un post factum; e la sua disposizione, scevra da qualsivoglia automatismo, presuppone sempre e comunque l’accertamento, da parte del Giudice della Prevenzione, della sussistenza, unitamente agli altri presupposti come sopra passati in rassegna, del requisito della occasionalità del condizionamento mafioso, che implica, secondo l’interpretazione fornita dalla Suprema Corte di Cassazione (Cass. Pen. SS.UU. 19.11.19 n. 46898), la presenza di un contributo agevolatore avente carattere solo isolato e discontinuo [si evidenzia, per completezza, come il provvedimento con cui il Giudice della Prevenzione neghi eventualmente l’applicazione del controllo giudiziario richiesto sia impugnabile con ricorso alla Corte di Appello anche per il merito (Cass. Pen. SS.UU. 19.11.19 n. 46898)].
Dalla eventuale sottoposizione dell’azienda ad essa misura discende, ope legis (art. 34-bis comma 7), la sospensione degli effetti della informazione antimafia gravata dinanzi al Giudice Amministrativo, oltre che, per l’effetto, degli atti strettamente consequenziali alla stessa.
Siffatto effetto sospensivo, tuttavia, si produce solo pro futuro, non potendo il provvedimento giurisdizionale che dispone il controllo giudiziario avere portata retroattiva sui provvedimenti già eventualmente adottati in conseguenza dell’adozione del provvedimento interdittivo prefettizio (ex multis, Consiglio di Stato Sez. III 29.5.23 n. 5231).
Nel corso del periodo di controllo, che ha durata non inferiore ad un anno e non superiore a tre anni (art. 34 bis comma 2), l’Amministratore Giudiziario all’uopo nominato riferisce periodicamente, almeno bimestralmente, gli esiti dell’attività di controllo al Giudice Delegato e al Pubblico Ministero [art. 34 bis comma 2 lett. b)].
Al termine del periodo di durata inizialmente previsto, il Giudice della Prevenzione, tenuto conto di quanto relazionato dall’Amministratore Giudiziario, può disporre la revoca della misura ovvero prorogarne - nel rispetto del predetto limite di durata massima triennale - il periodo di durata.
4. Rapporti fra informazione antimafia e controllo giudiziario
4.1. Demarcazione dei relativi presupposti
Informazione antimafia e controllo giudiziario, pur essendo fondati sui differenti presupposti giuridici come sopra passati in rassegna, hanno ad oggetto la valutazione dei medesimi fatti, circostanza, quest’ultima, che, inevitabilmente, finisce per creare, di riflesso, delle inferenze nei rapporti tra i pur autonomi accertamenti delibati dal Giudice Amministrativo e dal Giudice della Prevenzione.
Mentre il primo è chiamato a verificare la legittimità del provvedimento interdittivo prefettizio; il secondo verifica esclusivamente la sussistenza del requisito della occasionalità della agevolazione mafiosa, sì che la relativa valutazione si fonda su parametri non sovrapponibili alla ricognizione probabilistica del rischio di infiltrazione, che costituisce invece presupposto del provvedimento interdittivo prefettizio.
Deve infatti essere radicalmente esclusa la sussistenza in capo al Tribunale di Prevenzione di poteri di controllo dei presupposti della interdittiva antimafia, stante che, in tal caso, si finirebbe per introdurre nel sistema una duplicazione del controllo sulla legittimità della misura interdittiva stessa (sul punto, Cass. Penale Sez. VI, 9.5.19 n. 26342).
Ciò premesso, la questione che si pone è allora quella di stabilire se e in che misura le risultanze dell’accertamento compiuto dal Giudice della Prevenzione possano incidere sull’esito del giudizioamministrativo incoato avverso il provvedimento interdittivo prefettizio costituente l’antecedente logico-causale della misura del controllo giudiziario.
Al riguardo, i Giudici di Palazzo Spada hanno chiarito come la pronuncia resa dal Giudice della Prevenzione non valga a produrre un accertamento vincolante, con efficacia di giudicato, sul rischio di infiltrazione dell’impresa da parte della criminalità organizzata, escludendo, per l’effetto, che il provvedimento prefettizio possa essere sindacato alla luce delle risultanze della (successiva) delibazione di ammissibilità al controllo giudiziario, avente una diversa prospettiva d’indagine (sul punto, Consiglio di Stato Sez. III 4.2.21 n. 1049).
Il rischio concreto che, tuttavia, consegue ad un ragionamento siffatto è che l’ordinamento possa divenire, a spese dell’amministrato, “schizofrenico”, dando origine al paradosso, già verificatosi nella prassi, per cui, da un lato, il Giudice Amministrativo ritenga non illogica la prognosi inferenziale elaborata dall’Autorità Prefettizia, negando, per l’effetto, la concessione della misura cautelare della sospensione dell’efficacia della gravata informazione antimafia; e, dall’altro, il Giudice della Prevenzione ritenga, dal canto suo, l’impresa istante non sottoponibile alla misura del controllo giudiziario muovendo dal presupposto che l’ingerenza mafiosa posta a fondamento del provvedimento interdittivo prefettizio sia inesistente e non raggiunga pertanto neppure la soglia della “occasionalità”.
Ipotesi, queste ultime, che, in entrambi i casi, concretamente impediscono l’esercizio dell’attività d’impresa.
Ed ecco il paradosso cui si accennava: laddove l’azienda fosse ritenuta un po’ più asservita all’ingerenza mafiosa da parte del Giudice della Prevenzione, sarebbe avvantaggiata nelle more della definizione del giudizio di merito dinanzi al Giudice Amministrativo, stante che, in tal caso, avrebbe la possibilità di proseguire, sia pure sotto il controllo del Giudice Delegato, l’attività d’impresa [il che comporta altresì una evidente disparità di trattamento con quelle altre imprese che, in quanto ritenute come occasionalmente agevolate (e quindi, a stretto rigore, aventi una posizione peggiore agli occhi dell’ordinamento), possono proseguire l’attività d’impresa in regime di controllo giudiziario].
È allora in questa fase che le due differenti delibazioni compiute dal Giudice Amministrativo e dal Giudice della Prevenzione devono, di riflesso, finire per “influenzarsi”.
Si invoca, al riguardo, una recente pronuncia del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana (sentenza 4.1.23 n. 13), nell’ambito della quale il Giudice Amministrativo d’appello, che aveva inizialmente negato la concessione della misura cautelare di sospensione dell’esecutività della sentenza di I grado, accoglieva infine il proposto ricorso in appello [annullando, in accoglimento del ricorso di I grado, l’informazione antimafia] proprio a partire dalle risultanze della (successiva) delibazione di ammissibilità al controllogiudiziario.
Risalta come, in tale specifico contesto, il Giudice Amministrativo (del tutto correttamente, a parere di chi scrive) non abbia potuto non tenere conto della valutazione compiuta dal Giudice della Prevenzione, spintosi sino al punto di negare l’ammissibilità dell’impresa richiedente al controllo giudiziario ma non già, si badi, in considerazione di un supposto ed ormai cronico e strutturale asservimento dell’impresa alla ingerenza mafiosa, bensì rilevando, in senso contrario, l’insussistenza in radice dello stesso presupposto della solo “occasionale agevolazione”.
È stato in altri termini evidenziato come, a venire in rilievo, fosse un operatore economico scevro da qualsiasi condizionamento, oltre che allineato al contesto economico sano.
Se pertanto è astrattamente condivisibile la valutazione della giurisprudenza amministrativa secondo cui la delibazione sull’ammissibilità al controllo giudiziario non produce un accertamento vincolante, con efficacia di giudicato, sul rischio di infiltrazione dell’impresa da parte della criminalità organizzata, è tuttavia altresì innegabile che siffatta delibazione possa (rectius: debba) produrre, di riflesso, una qualche inferenza nell’ambito dell’autonomo giudizio amministrativo.
4.2. Favorevole conclusione della procedura di controllo giudiziario: effetti e conseguenze
Si è già avuto modo di chiarire come l’informazione antimafia rappresenti l’antecedente logico del controllo giudiziario; e che l’adozione di quest’ultima misura giurisdizionale implichi la automatica sospensione - ma solo pro futuro - degli effetti del provvedimento interdittivo prefettizio.
Per altro verso, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha altresì recentemente chiarito come l’ammissione di una data impresa alla misura del controllo giudiziario non comporti l’obbligo di sospendere (art. 295 c.p.c.) il giudizio amministrativo incoato avverso l’originario provvedimento prefettizio, stante che, in tal caso, verrebbe snaturata la funzione tipica del processo, da strumento di tutela delle situazioni giuridiche soggettive ed attuazione della legge, a mero strumento per l’attivazione di ulteriori mezzi di tutela (Consiglio di Stato, A.P. 13.2.23 n. 7).
Diviene allora di assoluto interesse, in un siffatto contesto, individuare, da un lato, il percorso che dovrà essere seguito dall’azienda che abbia favorevolmente concluso, riallineandosi al contesto economico sano, il periodo di controllo giudiziario; e, dall’altro, le sorti della originaria informazione antimafia (oltre che del ricorso proposto avverso la stessa dinanzi al Giudice Amministrativo) che aveva condotto alla adozione di essa misura di salvataggio.
Soccorrono, sul punto, le previsioni di cui agli artt. 86 comma 2 e 91 comma 5 del Codice Antimafia.
È infatti opinione di chi scrive che, a fronte della favorevole definizione del controllo giudiziario, l’azienda sia onerata di richiedere alla competente Autorità Prefettizia di procedere, sulla base del combinato disposto delle predette norme, ad aggiornare, avuto riguardo ad esso fatto sopravvenuto, l’esito dell’informazione antimafia già gravata dinanzi al Giudice Amministrativo e già costituente l’antecedente della conclusasi procedura di controllo giudiziario.
Fermo restando come l’Amministrazione abbia l’obbligo - coercibile ai sensi e per gli effetti degli attt. 31 e 117 C.P.A. (sul punto, T.A.R. Emilia Romagna - Parma 15.2.22 n. 41) - di provvedere su di essa richiesta nei modi e tempi di legge (art. 2 Legge 7.8.90 n. 241), deve tuttavia essere evidenziato come, in questa fase, l’azienda finirà per patire gli effetti di quello che può essere definito un vero e proprio vulnus normativo.
Ed invero, nelle more della definizione della incoata procedura di aggiornamento, si (ri)verificherà, attesa, sul punto, l’assenza di qualsivoglia indicazione contenuta in seno all’art. 34-bis del Codice Antimafia, la riespansione dell’efficacia dell’originaria interdittiva conseguente al fatto, in sé considerato, della mera conclusione della procedura di controllo giudiziario e ciò pur e nonostante il suo esito positivo.
L’incredibile paradosso è che l’impresa che aveva potuto ritualmente esercitare la propria attività durante il periodo di controllo giudiziario, attesa l’automatica sospensione degli effetti della presupposta informazione antimafia, sarà, per così dire, “svantaggiata” dalla favorevole definizione di essa procedura che le aveva consentito di esercitare l’attività d’impresa, con la conseguenza che la stessa non potrà operare fintantoché non sarà favorevolmente definito altresì il procedimento incoato ex artt. 86 comma 2 e 91 comma 5 del Codice Antimafia mediante il rilascio di un’informazione liberatoria.
In tal caso, il ricorso proposto avverso l’originario provvedimento interdittivo non potrà che essere dichiarato improcedibile per sopravvenuta cessazione della materia del contendere [l’azienda avrà infatti raggiunto l’obiettivo di “superare”, sia pure mediante l’aggiornamento basato sul fatto sopravvenuto dell’esito positivo della procedura di controllo giudiziario, l’originario provvedimento interdittivo prefettizio, con la ovvia conseguenza che da esso ricorso non potrà più trarre alcun tipo di utilitas].
Laddove invece, come spesso accade, l’Autorità Prefettizia, pur e nonostante l’esito favorevole del controllo giudiziario, dovesse negare l’aggiornamento richiesto, l’azienda dovrà necessariamente gravare il “diniego di aggiornamento” dinanzi al Giudice Amministrativo, richiedendo, attesa l’urgenza derivante dal vulnus come sopra descritto, l’adozione di una misura cautelare propulsiva (cd. remand).
In tal caso, appare quanto mai complesso individuare, in termini di assoluta certezza, le sorti del ricorso proposto avverso l’originario provvedimento interdittivo.
Certamente lo stesso diverrebbe improcedibile laddove l’azienda non procedesse a tempestivamente gravare l’opposto diniego di aggiornamento.
Quanto, invece, ad una pronuncia di merito, si ritiene che la stessa non potrebbe che essere di segno negativo.
Invero, la disposizione del controllo giudiziario [non in disparte la posizione di acquiescenza prestata a fronte della volontaria sottoposizione ad essa misura di salvataggio], unitamente alla favorevole definizione di tale procedura, consistita nella rimozione di quelle situazioni che avevano determinato l’adozione della informazione antimafia, varranno, in concreto, a dimostrarne l’originaria legittimità.
Non si ritiene pertanto residui spazio, in definitiva, per una pronuncia di accoglimento del ricorso nel merito.
5. Conclusioni
È auspicabile, alla luce del quadro normativo e giurisprudenziale sin qui descritto, che il Legislatore abbia ad intervenire sulla questione del rapporto intercorrente fra gli istituti dell’informazione antimafia e del controllo giudiziario, superando, segnatamente, il vulnus normativo conseguente alla favorevole definizione di quest’ultima procedura ed alla riespansione degli effetti dell’originario provvedimento interdittivo prefettizio.
Se è vero - come è vero - che la favorevole definizione di essa predetta procedura produce l’effetto di riallineare l’impresa al contesto economico sano, non è adeguato, a parere di chi scrive, che, nelle more della definizione del procedimento di aggiornamento ex artt. 86 comma 2 e 91 comma 5 del Codice Antimafia, la stessa venga in concreto privata della possibilità di esercitare l’attività d’impresa.
Questo contributo fa parte della discussione aperta da questa Rivista sul disegno di legge di riforma costituzionale n. 935, comunicato alla Presidenza del Senato il 15 novembre 2023, che prende il nome di premierato. Si veda anche Premierato sì, ma non così di Stefano Ceccanti, Trent’anni dopo. L’Ingegneria costituzionale e le Riforme di Alessandro Mangia.
Brevissime note sulla riforma costituzionale del premierato
di Giuliano Scarselli
Sommario: 1. La riforma della Costituzione detta del premierato (modifica degli artt. 59, 88, 92, 94 Cost.). 2. Dubbi sulla sua capacità di realizzare gli obiettivi pretesi, primo fra tutti quello della stabilità dei Governi. 3. Ed infatti, sintetico esame di quattro diverse impasse nel quale il primo ministro, ancorché eletto dal popolo, si può trovare con il nuovo art. 94 Cost. 4. Ulteriore esame dei limiti della riforma rispetto agli altri obiettivi dichiarati nella relazione tecnico/esplicativa. 5. Il mutato rispetto alla nostra Costituzione e l’esigenza di evitare riforme n’importe quoi.
1. La riforma della Costituzione detta del premierato (modifica degli artt. 59, 88, 92, 94 Cost.).
Si ha in discussione, in questa XIX legislatura, un disegno di legge di riforma costituzionale che prende il nome di Premierato.
Con esso si propone di modificare quattro articoli della Carta costituzionale, ed esattamente gli artt. 59, 88, 92, 94.
Il contenuto della riforma è stato illustrato da questa rivista con una nota redazionale del 17 maggio scorso, cui poi sono seguite delle pubblicazioni di commento.
Non starò quindi a dilungarmi su aspetti strettamente preliminari.
Ricordo solo che le modifiche degli artt. 59 e 88 possono essere considerate minori, mentre certamente le riforme principali sono quelle che riguardano gli artt. 92 e 94.
Sostanzialmente, le principali novità possono essere così riassunte:
a) il popolo eleggerà direttamente il Presidente del Consiglio dei ministri, il quale si presenterà alle elezioni con una propria lista di candidati;
b) le votazioni per l’elezione delle due Camere e del Presidente del Consiglio dei ministri dovranno avvenire contestualmente;
c) le votazioni saranno disciplinate da una nuova legge elettorale, che dovrà attribuire alla lista più votata, seppur nel rispetto dei principi di rappresentatività e governabilità, un premio di maggioranza che garantisca ai vittoriosi il 55 per cento dei seggi in ciascuna delle due Camere;
d) Il Presidente della Repubblica conferirà necessariamente al Presidente del Consiglio dei ministri eletto dal popolo l’incarico di formare il Governo;
e) il Parlamento darà la fiducia al Governo e, ove non dovesse succedere, il Presidente della Repubblica rinnoverà l’incarico sempre al Presidente del Consiglio eletto dal popolo, il quale si ripresenterà, così, per la seconda volta, dinanzi alle Camere, e se queste nemmeno per la seconda volta dovessero dargli la fiducia, ebbene: “il Presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere”;
f) infine, con un’apposita clausola denominata “anti-ribaltone”, nelle ipotesi nelle quali dovesse venir meno la carica del Presidente del Consiglio eletto, il Presidente della Repubblica avrebbe comunque l’obbligo di conferire il nuovo incarico sempre al Presidente del Consiglio eletto, “o ad un altro parlamentare che è stato candidato in collegamento al Presidente eletto”; e se nemmeno questi dovessero ottenere la fiducia in questo secondo mandato, allora, di nuovo: “il Presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere”. (nuovo art. 94 Cost.).
2. Dubbi sulla sua capacità di realizzare gli obiettivi pretesi, primo fra tutti quello della stabilità dei Governi.
Che dire di questa riforma?
Gli obiettivi sono illustrati nella relazione tecnico/esplicativa e sono chiari: si vuole evitare “l’instabilità dei Governi” nonché “garantire il rispetto del voto popolare e la continuità del mandato elettorale”.
Tuttavia a me non sembra che le nuove norme siano in grado di perseguire questi obiettivi, se non in modo molto modesto e marginale; e mi sembra che anche solo una semplice analisi del testo sia sufficiente per giungere ad una simile conclusione.
In sostanza, le differenze che introducono i nuovi artt. 92 e 94 Cost. rispetto all’esistente (e salva la valutazione della legge elettorale, che al momento, non esistendo, non può essere oggetto di commento) possono essere così indicate:
a) il Presidente della Repubblica non potrà più scegliere il primo ministro ma dovrà necessariamente nominare il leaderdel gruppo politico che ha vinto le elezioni.
Di fatto, però, nessuno può negare che sia già così, e che i Presidenti della Repubblica abbiano, per lo meno dagli anni ’90, nominato sempre il leader del gruppo vittorioso, nel rispetto della volontà popolare.
Si potrebbero fare esempi di nomine fatte ob torto collo; ma nessun Presidente della Repubblica ha mai pensato di nominare un capo di governo diverso da quello risultato vittorioso nella dialettica elettorale.
b) Il Parlamento, per contro, dovrà, in prima battura, e secondo il 3° comma dell’art. 94 Cost., dare la fiducia al proprio leader, e anche questo, direi, è (normalmente) già così.
Ma, successivamente, in base sempre all’ultimo comma della stessa disposizione costituzionale, non sembra che il Parlamento non possa sfiduciare il governo e il suo leader, e ciò potrà avvenire, ad esempio, anche solo a seguito della mancata approvazione di una legge sulla quale il Governo abbia posto (espressamente o meno) la fiducia; per giungere a diversa conclusione bisognerebbe sostenere che questa riforma impedisca al Parlamento di non approvare le leggi presentate dal Governo, ma credo che nessuno sia disposto a spingersi fino ad un tal punto, che di fatto sottrarrebbe al Parlamento la funzione legislativa.
La novità, allora, sarà che in questi casi il primo ministro potrà essere sostituito solo con altro primo ministro appartenente al medesimo gruppo politico o a gruppo politico collegato; e se questo secondo primo ministro, non otterrà, o successivamente perderà, la fiducia, allora il Parlamento si scioglierà.
Premesso che, anche oggi, i più direbbero che in questi casi è inevitabile ridare la parola agli elettori, ma, a parte ciò, lo scioglimento del Parlamento non potrà non comportare il venir meno anche del primo ministro e la necessità che il popolo, ai sensi dell’art 92 Cost., sia chiamato di nuovo alle urne non solo per rieleggere il Parlamento ma anche per rieleggere il primo ministro.
Quindi il Parlamento, dopo la prima fiducia, mantiene la possibilità di far cadere il governo.
È vero che questo avrebbe un costo che fino ad oggi non ha avuto, cioè lo scioglimento del Parlamento; tuttavia si tratta di un rischio, e/o di un costo, che ha anche il primo ministro, che cade in questi casi insieme al Parlamento; ed in ogni caso questo rischio non v’è sempre, poiché la riforma non prevede lo scioglimento delle Camere nel passaggio tra il primo ministro eletto e il primo ministro successivo appartenente al medesimo gruppo politico o a gruppo politico collegato.
Non so, mi sembra, come si dice, che, alla fine, la montagna abbia partorito il topolino; e lo stesso mi sembra emergere dall’analisi delle singole questioni riportate nella relazione tecnico/esplicativa della riforma.
Valga al riguardo quanto segue.
3. Ed infatti, sintetico esame di quattro diverse impasse nel quale il primo ministro, ancorché eletto dal popolo, si può trovare con il nuovo art. 94 Cost.
Il primo tema, appunto, è quello della stabilità del primo ministro e/o del Governo.
La relazione tecnico/esplicativa assicura che “attraverso l’elezione diretta del presidente del consiglio dei ministri” si ottiene “la stabilizzazione della sua carica, per dare appoggio e continuità al mandato democratico”.
Però, ripeto, questa stabilità a me sembra relativa.
Penso si debba ribadire, in via preliminare, che lo scioglimento del Parlamento comporta automaticamente anche la cessazione della carica del primo ministro.
V’è infatti da ritenere che, sciolte le Camere; si debba tornare a votare, e non è pensabile che il popolo possa votare le nuove Camere senza unitamente votare anche il primo ministro, poiché le votazioni devono essere unitarie: “Le votazioni per l’elezione delle due Camere e del Presidente del Consiglio avvengono contestualmente” (così il nuovo art. 92 Cost.); né la nuova Costituzione prevede da nessuna parte che possano darsi elezioni delle Camere separate da quelle del primo ministro.
E allora, se possiamo convenire che, anche a seguito di questa riforma, resta la regola che lo scioglimento delle Camere comporta il venir meno del Governo, debbano darsi, a mio sommesso parere, almeno quattro diverse ipotesi di instabilità del primo ministro anche a seguito di questa svolta di premierato.
3.1. La prima, ai sensi del 3° comma dell’art. 94 Cost., si ha quando il governo della coalizione che abbia vinto le elezioni si presenta, con il primo ministro, dinanzi alle Camere per ottenere la fiducia; se le Camere non prestano la fiducia, il Presidente della Repubblica deve confermare il primo ministro eletto nel compito di formare il governo, e se anche questo nuovo Governo non ottiene la fiducia, il Presidente della Repubblica provvede a sciogliere le Camere.
Dunque, seppur sotto la condizione dello scioglimento del Parlamento, l’entrata in carica del primo ministro eletto resta comunque subordinata ad una mozione di fiducia, in assenza della quale, come al gioco dell’oca, tutto deve ricominciare.
3.2. Ovviamente il primo ministro eletto otterrà la fiducia dalle Camere e il suo Governo potrà così iniziare a lavorare.
Questo, tuttavia, e come abbiamo già detto, non esclude che, dopo tempo, il primo ministro eletto possa essere egualmente sfiduciato dal Parlamento.
Ciò è evidente, ed è altresì circostanza confermata nell’ultimo comma dell’art. 94 Cost: peraltro, in questi casi, diversamente dal precedente, il Parlamento che sfiducia il primo ministro eletto non sopporta lo scioglimento, ma solo deve trovarsi un nuovo primo ministro che lo sostituisca, con l’unico limite che questo nuovo primo ministro deve far parte del gruppo politico in collegamento con il presidente eletto sfiduciato.
Dunque, il primo ministro eletto può non ottenere la fiducia alla sua prima presentazione alle Camere, oppure può perdere la fiducia nel corso del suo mandato; nel primo caso ciò comporta lo scioglimento delle Camere, ma nel secondo caso il Parlamento non si scioglie, ma solo si nomina un nuovo primo ministro.
3.3. Il primo ministro subentrato al primo ministro eletto, di nuovo, sempre ai sensi del quarto comma dell’art. 94 Cost., può essere parimenti sfiduciato dalle Camere nel corso del suo mandato.
Di nuovo, in questo caso, si ha lo scioglimento del Parlamento da parte del Presidente della Repubblica; ma, seppur sotto questa condizione, resta fuori da ogni possibile discussione che anche il secondo primo ministro, così come già il primo ministro eletto, può essere sfiduciato dal Parlamento se non trova la fiducia che è necessaria per esercitare la funzione governativa.
3.4. Infine, non deve dimenticarsi che la riforma ha ritoccato solo in parte l’art. 88 Cost., prevedendo sì la soppressione dell’inciso “o anche una sola di esse”, però lasciando inalterata l’altra parte della norma costituzionale che prevede che: “Il Presidente della Repubblica può, sentiti i loro Presidenti, sciogliere le Camere”.
Dunque, noi avremmo, con questa riforma, (potremmo dire) due ipotesi di scioglimento delle Camere “dovute”, in quanto in quei casi il Presidente della Repubblica deve sciogliere le Camere, e queste due ipotesi sono, lo ripetiamo, quella nel quale il primo ministro eletto non ottiene la fiducia ai sensi del 3° comma dell’art. 94 Cost., e quella nel quale non ottiene la fiducia il nuovo primo ministro dopo la cessazione della carica da parte del primo ministro eletto; ma, oltre a queste ipotesi di scioglimento dovute delle Camere, resta l’ipotesi di scioglimento delle stesse (potremmo sempre dire) discrezionale da parte del Presidente della Repubblica ai sensi dell’art. 88 Cost.
Anche a fronte di quest’ultimo scioglimento delle Camere si avrà parimenti la caduta del governo, e quindi un’ulteriore ipotesi di cessazione della carica del primo ministro.
3.5. In sintesi, anche con questa riforma si danno dunque quattro ipotesi di impasse per il primo ministro:
a) quando il primo ministro eletto non ottiene la fiducia dalle Camere alla sua presentazione dopo la vittoria elettorale ai sensi del 3° comma dell’art. 94 Cost.;
b) quando il primo ministro eletto perde la fiducia del Parlamento nel corso del suo mandato ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 94 Cost., ed in questi casi la sfiducia può esser data senza lo spettro dello scioglimento delle Camere;
c) quando il primo ministro nominato dopo la cessazione del mandato del primo ministro eletto viene egualmente sfiduciato dal Parlamento ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 94 Cost;
d) e infine quando il primo ministro eletto, oppure il primo ministro che segue il primo ministro eletto già sfiduciato, cessano dalle loro funzioni perché il Presidente della Repubblica scioglie le Camere ai sensi dell’art. 88 Cost.
4. Ulteriore esame dei limiti della riforma rispetto agli altri obiettivi dichiarati nella relazione tecnico/esplicativa.Oltre al tema della stabilità del primo ministro, a me sembra poi che anche gli altri obiettivi descritti nella relazione tecnico/esplicativa siano in verità di difficile concretizzazione con questi nuovi artt. 92 e 94 Cost.; e qui, brevemente, sottolineo a mio parere i punti.
4.1. Circa l’indirizzo politico, la relazione tecnico/esplicativa precisa che “la proposta di legge mira a consolidare il principio democratico, valorizzando il ruolo del corpo elettorale nella determinazione dell’indirizzo politico della Nazione”,
In verità, i nuovi artt. 92 e 94 Cost. assicurano (rectius: cercano di assicurare) al primo ministro cinque anni di esercizio del mandato, ma non assicurano affatto che il primo ministro rispetti il programma politico con il quale si è presentato agli elettori e in forza del quale gli elettori lo hanno votato; poiché, par evidente, che se il primo ministro dovesse, dopo le elezioni, e in qualunque successivo momento, mutare orientamenti o assumere indirizzi diversi da quelli prospettati in campagna elettorale, e il Parlamento lo segue, non succederebbe niente, né la Costituzione riformata prevede correttivi per ipotesi del genere.
4.2. Discorso analogo può valere per il Parlamento.
La relazione tecnico/esplicativa avverte che lo scopo della riforma è quello di risolvere “problematiche ormai risalenti, cioè….. l’eterogeneità e la volatilità delle maggioranze, il transfughismo parlamentare”.
Anche qui, se il giorno dopo le votazioni, o qualche tempo dopo le votazioni, parte dei parlamentari transfuga, e non è più disponibile a seguire l’indirizzo politico del primo ministro e a obbedire alle sue direttive, semplicemente quella maggioranza che il primo ministro aveva nella fase di partenza, la perde poi nel corso del tempo, e può essere sostituito con un nuovo primo ministro, seppur di un gruppo politico collegato.
La nuova costituzione, tra l’altro, lascia invariata la disposizione dell’art. 68 Cost. secondo la quale “I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni”.
Ed inoltre, è chiaro, la sostituzione del primo ministro eletto con un nuovo primo ministro ha, inevitabilmente, un passaggio delicato, visto che l’espressione usata dall’art. 94 Cost di candidato in collegamento, è elastica, e potrà essere oggetto di dubbi e/o interpretazioni; e si discuterà, così, se veramente un parlamentare in procinto di divenire nuovo primo ministro può dirsi o meno collegato al primo ministro eletto sfiduciato.
4.3. Si tiene a precisare, poi, che, se si arriva ad un secondo primo ministro, questi, non solo deve far parte dello stesso gruppo politico del primo, ma deve anche perseguire la stessa politica.
Si legge nella relazione: “il Presidente del Consiglio dei ministri in carica può essere sostituito solo da un parlamentare della maggioranza e solo al fine di proseguire nell’attuazione del medesimo programma di governo”.
Però, anche sotto questo profilo, si tratta di una rassicurazione molto relativa: i programmi di indirizzo politico esposti in campagna elettorale sono normalmente molto generici e vaghi, inevitabilmente incompleti; essi possono essere oggetto poi di future interpretazioni e punti di vista; inoltre potrebbero sorgere nel corso del mandato questioni e problematiche nuove, che necessitano di essere affrontate.
Se dovesse sorgere contrasto tra il primo ministro eletto e la maggioranza del Parlamento, l’art. 94 Cost. non impedirebbe comunque al Presidente della Repubblica di nominare un nuovo primo ministro, con l’unico limite che questo si sia presentato all’epoca agli elettori nella stessa lista politica, o comunque collegata, del primo ministro sfiduciato.
Poi, però, è inevitabile, questo nuovo primo ministro collegato, con la maggioranza parlamentare, potrà fare, liberamente, un po’ tutto quello che riterrà di dover fare, magari sotto la rabbia del primo ministro eletto e sfiduciato, che, ridotto a semplice parlamentare, assisterà a tutto ciò in disparte.
In sintesi, può dirsi che la norma non impedisce al Parlamento di ribaltare il primo ministro eletto dal popolo e scegliersi poi (o comunque avere) un altro primo ministro; la sola condizione è che questo nuovo primo ministro appartenga ad uno schieramento politico collegato a quello del primo ministro eletto; garanzia davvero poco consistente se si pensa alla versatilità della vita politica.
4.4. Afferma ancora la relazione che questa stabilità è altresì necessaria per “concepire indirizzi politici di medio-lungo periodo, di elaborare e attuare riforme organiche, di farsi carico, in ultima analisi, delle prospettive e del futuro della Nazione”.
Ora, anche questa affermazione trascura un dato, che è quello che oramai gli indirizzi politici di medio-lungo periodo e l’attuazione di riforme organiche, sono, in grandissima parte, in mano all’Unione europea e alle politiche comuni, a fronte delle quali la libertà di determinazione degli Stati membri si è sempre più ridotta, o addirittura sparita dopo l’approvazione del PNRR, che oggi regola gran parte dell’agenda governativa e parlamentare.
A questo proposito è utile ricordare che già con la legge 24 dicembre 2012 n. 234, l’Italia si è data la regolamentazione della sua partecipazione alla formazione e all’attuazione della normativa relativa alle politiche dell’UE.
L’art. 30 di quella legge prevede che il nostro governo recepisca le direttive europee e modifichi o abroghi quelle in contrasto con le normative UE.
Ed inoltre, come è noto, il nostro ordinamento si deve uniformare ai pareri motivati indirizzati all’Italia dalla Commissione europea e a recepire in via regolamentare le direttive.
In concreto, poi, il Governo, ogni anno, deve presentare un disegno di legge che assicuri il periodico adeguamento dell’ordinamento nazionale all’ordinamento dell’Unione europea.
L’ultimo disegno di legge è stata approvato dal Consiglio dei Ministri il 24 maggio 2024 e ha preso in considerazione gli atti dell’UE pubblicati a partire dal mese di luglio 2023 fino al mese di maggio 2024; il disegno di legge si compone di tre capi e 17 articoli e consentirà il recepimento di 20 direttive e l’adeguamento dell’ordinamento nazionale relativamente a 13 regolamenti europei.
Precedentemente la legge 21 febbraio 2024 n. 15 “Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti normativi dell’Unione europea” è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale n. 46 del 24 febbraio 2024, e ha consentito il recepimento di 20 direttive e l’adeguamento dell’ordinamento nazionale a 9 regolamenti europei.
Da ricordare altresì che la Presidenza del Consiglio dei Ministri italiana è supportato dal Dipartimento per gli Affari europei proprio al fine di gestire le attività inerenti all’attuazione degli obblighi assunti nell’ambito dell’Unione.
Se poi stiamo al PNRR, relativamente al quale merita menzionare il decreto legge 31 maggio 2021 n. 77, convertito dalla legge 29 luglio 2021 n. 108, vediamo immediatamente come l’art. 1 preveda che si debba semplicemente attuare: “il regolamento UE 2021/241 del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 febbraio 2021, nonché del Piano Nazionale integrato per l’Energia e il Clima 2030 di cui al Regolamento UE 2018/1999 del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 dicembre 2018”; ed ancora: “Le disposizioni contenute nel presente decreto in quanto direttamente attuative degli obblighi assunti in esecuzione del Regolamento UE 2021/241 sono adottate nell’esercizio della competenza legislativa esclusiva in materia di rapporti dello Stato con l’Unione europea”.
Se, infine, si constata che la stragrande maggioranza dei decreti e delle leggi approvate dal nostro Governo e dal nostro Parlamento altro non sono che adeguamenti alle normative europee, va da sé che è un po’ velleitario asserire che il premierato è funzionale ad elaborare e attuare riforme organiche…….delle prospettive e del futuro della Nazione, visto che il premier, in verità, non altro deve fare, quasi sempre, se non adeguarsi all’Europa.
4.5. Si è asserito, ancora, che la riforma è altresì finalizzata a superare la situazione che così viene descritta: “Gli anni recenti si caratterizzano per un marcato astensionismo e per una sempre più evidente disaffezione verso la politica dei cittadini, i quali si trovano impossibilitati a distinguere e imputare correttamente le responsabilità nell’ambito di un sistema decisionale vischioso: aspetto che si riflette in una forte comprensione della capacità di selezionare, giudicare, e dunque confermare o non confermare, la classe dirigente alle urne”.
Ora, a parte la circostanza che è fastidiosa questa infantilizzazione degli elettori, che non capiscono niente se le cose non sono semplici e chiarissime, sinceramente, poi, ritenere che l’astensionismo alla politica dipenda dal fatto che il nostro sistema è ancora troppo parlamentare, e che il passaggio ad un premierato farebbe venir meno questa astensione, mi sembra un po’ demagogico.
V’è da ritenere, tutto al contrario, che l’astensionismo sia piuttosto il frutto della percepita inaffidabilità della politica, o fors’anche della sua mediocrità, la quale certo difficilmente può cambiare passando da un sistema di governo all’altro.
4.6. Infine, anche con riferimento alla riforma dell’art. 59, 2° comma Cost., volto a sopprimere la figura dei senatori a vita diversi dagli ex Presidenti della Repubblica, mi sembra parimenti che l’intento proclamato nella relazione sia forzato e non veritiero.
Si legge nella relazione che: “nella logica di portare la legittimazione democratica al più ampio numero possibile di istituti della forma di governo, si supera la categoria dei senatori a vita. Un intervento, quest’ultimo, reso inevitabile nella già menzionata prospettiva di stabilità delle maggioranze, dell’intervenuta riduzione del numero dei senatori, che ha ulteriormente ridotto il margine delle maggioranze in quel ramo del Parlamento”.
In verità, non si vede proprio come la presenza dei senatori a vita possa compromettere la stabilità della maggioranza o la rappresentatività e governabilità del primo ministro.
I senatori a vita sono 5, mentre i senatori, anche dopo la riduzione del loro numero, sono attualmente 200 (art. 57 Cost.), mentre i deputati sono attualmente 400 (art. 56 Cost.); come 5 membri possano avere una effettiva rilevanza a fronte di 600 parlamentari è difficile capire; né, dalla nascita della nostra Repubblica, sapremmo, per il passato, indicare un solo caso nel quale un governo è caduto, o una legge è stata affossata, per la presa di posizione di uno o più senatori a vita.
Direi, così, che si possa escludere che la soppressione del 2° comma dell’art. 59 Cost. trovi in ciò la ragion d’essere.
E sarei, al contrario, più propenso a credere che una tale determinazione sia invece il frutto di un’idea, oggi purtroppo abbastanza diffusa, secondo la quale non esistono meriti insigni o altissimi, e soprattutto che questi non debbano essere riconosciuti; non siamo più una società che premia l’originalità (o l’individualità) di scienziati, artisti, o letterari, cosicché nessuno tra loro, per il comune sentire, merita di sedere in Senato, e magari intralciare con qualche intervento, o presa di posizione, quanto la politica va a fare.
5. Il mutato rispetto alla nostra Costituzione e l’esigenza di evitare riforme n’importe quoi.
Ebbene, alla luce di tutto ciò, sommessamente, la domanda è questa.
Ha un senso modificare la Costituzione per fare riforme di questo tenore?
Io credo di no; e credo peraltro che di tutto si abbia bisogno in questo momento storico meno che di rafforzare i poteri del capo del governo, sia questo di destra oppure di sinistra.
E mi rattrista vedere come, negli anni, si sia fortemente mutato il senso del rispetto verso la nostra Costituzione.
Non è un vizio della destra, è un vizio di tutti; ed infatti le modifiche costituzionali che già si sono avute in questi anni sono state più il parto della sinistra che della destra.
Un tempo v’era un altro rispetto per la Costituzione, un tempo nessuno pensava di potere intervenire su di essa con questa facilità, di modificare, n’importe quoi, quel costrutto che i nostri costituenti, usciti dall’esperienza del fascismo, avevano faticosamente messo insieme dopo la guerra.
Tutti si ricordavano che la Costituzione era nata dalla lotta alla dittatura, e costituiva per questo un testo fondamentale e intoccabile; tutti si ricordavano quello che con immortali parole Piero Calamandrei aveva detto il 26 gennaio 1955 agli studenti di Milano: “Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra costituzione”.
Oggi questa sacralità della Costituzione si è persa, e tutti credono di aver titolo e formazione per modificare quello che i nostri costituenti ci hanno lasciato.
Io trovo tutto questo preoccupante.
Sinceramente, così come non vedevo necessarie le modifiche della Costituzione che recentemente si sono avute, allo stesso modo non vedo proprio la necessità di arrivare a questo riforma c.d. di premierato.
Cento anni senza Giacomo Matteotti
10 giugno 1924 - 10 giugno 2024
Il 10 giugno del 1924 l'onorevole Giacomo Matteotti fu aggredito in pieno giorno, sequestrato e ucciso da un gruppo di appartenenti alla Ceka, polizia segreta al soldo di Benito Mussolini, per reprimere con la violenza il dissenso e qualunque forma di critica al Governo in carica. Il deputato pagava con la vita la sua lucida e intransigente opposizione al regime.
Nel giorno in cui ricorre il centenario della sua uccisione, Giustizia Insieme vuole onorare la memoria di questo eroe civile riproponendo tutti gli articoli che sono apparsi sulla Rivista per ricordarne la figura e l'attualità del suo sacrificio e della sua testimonianza.
Il IV convegno di Giustizia Insieme, "La magistratura e l'indipendenza", Roma 12 aprile 2024 è stato dedicato alla memoria di Giacomo Matteotti. Per gli altri contributi già pubblicati si veda Giacomo Matteotti: il suo e il nostro tempo di Licia Fierro, Discorso alla Camera del Deputati del 30 maggio 1924 di Giacomo Matteotti, "Il delitto Matteotti" e quel giudice che voleva essere indipendente (nel 1924) di Andrea Apollonio, Una risalente (ma non vecchia) vicenda processuale: il pestaggio fascista in danno dell’on. Giovanni Amendola del 26 dicembre 1923 di Costantino De Robbio, La magistratura al tempo di Giacomo Matteotti di Giuliano Scarselli, A margine del Processo Matteotti: la coerenza di un magistrato in tempo di regime di Costantino De Robbio, Giacomo Matteotti. Il giurista di Giovanni Canzio, Note su Giacomo Matteotti ed il penale costituzionale: la legalità dalla crisi dello Stato liberale alla «dominazione fascista» di Floriana Colao, Un Matteotti poco conosciuto di Enrico Manzon, Il metodo per la riforma fiscale, preziosissima eredità di Giacomo Matteotti di Francesco Tundo.
Chi trova un bene culturale trova un tesoro. Note a margine di una recente pronuncia del Consiglio di Stato.
di Silia Gardini
Sommario: 1. La vicenda sottoposta alla cognizione del Consiglio di Stato – 2 La disciplina normativa e procedimentale del premio di rinvenimento – 3. L’individuazione dei soggetti beneficiari – 4. L’applicazione delle garanzie partecipative al procedimento per la determinazione del premio – 5. La natura indennitaria del premio e il regime fiscale.
1. La vicenda sottoposta alla cognizione del Consiglio di Stato
Con la sentenza 31 gennaio 2024, n. 920, la Sez. VI del Consiglio di Stato ha avuto modo di approfondire l’analisi dello speciale istituto che trova applicazione nel caso in cui venga ritrovato o scoperto un bene culturale, ovvero il c.d. premio di rinvenimento. In tali circostanze, com’è noto, il Codice dei beni culturali e del paesaggio, D. lgs. n. 42/2004 prevede l’obbligo per lo Stato di corrispondere a determinate categorie di soggetti un “premio” di natura economica, proporzionato al valore di quanto rinvenuto[1].
La pronuncia trae origine dalla scoperta del c.d. “Tesoro di Como”, avvenuta nel 2018 durante uno scavo edilizio su un’area privata nella città lombarda. L’impresa ricorrente, acquirente dei locali dell’ex Teatro Cressoni, nel corso dell’esecuzione dei lavori di ristrutturazione per la realizzazione di un nuovo complesso abitativo, aveva rinvenuto testimonianze dello sviluppo storico della città di Como, a partire dalla sua fondazione risalente al 59 a.C. ad opera di Giulio Cesare e, in particolare, aveva portato alla luce uno straordinario reperto archeologico, ovvero un contenitore in pietra ollare al cui interno erano collocati tre anelli d’oro e mille monete d’oro, nonché altri frammenti d’oro di periodo tardo romano (denominato non a caso “Tesoro di Como”), del valore complessivo – secondo la stima ministeriale – di circa quattro milioni di euro.
Il Ministero della Cultura aveva quantificato l’entità del premio in denaro da riconoscere all’impresa, in quanto proprietaria del sito presso il quale era stata effettuata la scoperta, in 370.000 € (pari al 9,25% del valore dei beni). La stessa impresa non aveva, però, condiviso tale decisione, ritenendo che l’Amministrazione avrebbe dovuto applicare nella fattispecie il secondo comma dell’art. 92 del d.lgs. n. 42 del 2004, a norma del quale al proprietario del sito presso il quale è stato effettuato il rinvenimento può essere attribuito un premio pari alla metà del valore del reperto qualora tale soggetto ne sia anche lo scopritore fortuito.
L’adito Tribunale amministrativo per la Lombardia (con sentenza sella Sez. III, n. 1263/2022) aveva rigettato il ricorso dei privati e confermato la validità dell’azione ministeriale, considerando non chiara la paternità del ritrovamento.
La scoperta era stata, infatti, denunciata da una società specializzata in scavi archeologici, incaricata dalla ricorrente stessa di sovrintendere ai lavori di scavo, dal momento che la stessa Soprintendenza aveva disposto che tutte le operazioni di scavo si sarebbero dovute effettuare in regime di “sorveglianza archeologica”, trovandosi il terreno in un’area considerata a “rischio archeologico”. In secondo luogo, gli stessi scavi erano stati realizzati da altra società appaltatrice, la quale aveva pure avanzato domanda di corresponsione del premio, ritenendosi scopritrice materiale del reperto. Anche le ulteriori censure, relative alla carenza di garanzie partecipative in capo al privato e all’erroneo assoggettamento del premio a ritenuta a titolo di imposta pari al 25% del valore del premio (ai sensi dell’art. 30 del d.P.R. n. 600 del 1973), venivano rigettate dal TAR.
Il Consiglio di Stato, nel corso del giudizio di appello, ha completamente ribaltato la decisione di primo grado, accogliendo le doglianze della società ricorrente e fornendo interessanti coordinate ermeneutiche tanto sotto il profilo dell’inquadramento della figura dello scopritore, quanto con riguardo allo svolgimento dell’istruttoria procedimentale e all’individuazione del regime fiscale del premio.
2. La disciplina normativa e procedimentale del premio di rinvenimento
Prima di analizzare le questioni giuridiche emerse dalla pronuncia in commento, è opportuno effettuare una breve ricognizione della normativa vigente in materia e, in particolare, richiamare la struttura del procedimento amministrativo previsto per l’attribuzione del premio di rinvenimento.
Gli artt. 92 e 93 del Codice disciplinano consistenza e criteri per l’attribuzione del premio sia nei per i ritrovamenti programmati che per le scoperte fortuite di beni culturali. Le regole prevedono che, in entrambi i casi, il contributo economico – non superiore al quarto del valore delle cose trovate – sia corrisposto innanzitutto al proprietario dell’immobile dove è avvenuto il ritrovamento. Nel caso di ritrovamenti, il concessionario dell’attività di ricerca potrà ottenere il premo qualora l’attività medesima non rientri tra i suoi scopi istituzionali o statutari; nel caso di scoperte, lo scopritore fortuito sarà ricompensato solo laddove abbia ottemperato agli obblighi posti a suo carico dalla legge.
L’ipotesi in cui più profili concorrano in capo allo stesso soggetto è disciplinata dal secondo comma dell’art. 92, che identifica la figura del proprietario-concessionario (colui che effettua i ritrovamenti su un immobile di sua proprietà nell’ambito di una ricerca debitamente autorizzata) e quella proprietario-scopritore (colui che accidentalmente porti alla luce un bene su un immobile di sua proprietà). In questi casi la legge riconosce il diritto a un premio di più cospicuo, comunque non superiore alla metà del valore delle cose ritrovate. L’espressione “non superiore” deve essere interpretata come un limite massimo quantitativo e non come criterio fisso. In assenza di ulteriori indicazioni o limitazioni rinvenibili in altre fonti, anche di rango amministrativo generale, la valutazione del quantum del premio nel caso concreto è, dunque, riservata alla valutazione discrezionale dell’Amministrazione[2].
Avvenuta la scoperta, in capo allo scopritore nascono una serie di obblighi inderogabili, espressamente previsti dall’art. 90 del Codice dei beni culturali. Il principale è l’obbligo di denuncia, da effettuare entro ventiquattr’ore dalla scoperta al soprintendente, al sindaco (del comune in cui la stessa è avvenuta) ovvero all’autorità di pubblica sicurezza. Lo scopritore è altresì tenuto alla conservazione temporanea, a titolo di custode, della cosa ritrovata, che deve esser preferibilmente mantenuta nelle condizioni e nel luogo in cui è state rinvenuta.
Il premio viene corrisposto all’esito dell’apposito procedimento disciplinato dall’art. 93 del Codice che prevede, da una parte, l’accertamento delle condizioni previste dalla norma ai fini della sua corresponsione in capo al concessionario, allo scopritore o al proprietario e, dall’altra, il compimento di una valutazione tecnico-discrezionale relativa al valore dei beni rinvenuti, in base alla quale verrà poi quantificato, nel rispetto dei limiti edittali previsti dalla legge, lo stesso premio.
Il procedimento prende avvio d’ufficio (nei casi in cui, dopo aver ricevuto la denuncia di ritrovamento, il Ministero disponga di tutti gli elementi necessari per concluderlo) o a seguito di apposita istanza dell’interessato, che deve essere formulata entro il termine massimo di dieci anni dal rinvenimento.
La durata del procedimento è di complessivi centottanta giorni[3]. Le Soprintendenze ABAP hanno competenza per lo svolgimento della sola istruttoria relativa alla determinazione del premio, mentre la competenza ad emettere il provvedimento finale è radicata in capo alla Direzione Generale ABAP[4]. Una volta determinato il valore del bene (attraverso tabelle di riferimento o di ricerche sul mercato antiquario, necessarie ad attribuire ai reperti un valore commisurato alla loro natura di beni sottratti al commercio legale), il premio di rinvenimento viene calcolato applicando la percentuale ritenuta opportuna al totale della stima. La Soprintendenza invia, poi, alla Direzione Generale ABAP i risultati dell’istruttoria, corredati dalla relativa proposta di provvedimento.
Se gli aventi titolo non accettano la stima del Ministero, il valore delle cose ritrovate è determinato da un terzo, designato concordemente dalle parti o nominato dal presidente del Tribunale competente per territorio (art. 93, comma 3)[5].
3. L’individuazione dei soggetti beneficiari
In merito alla esatta individuazione delle categorie di soggetti legittimati a ricevere il premio, la legge si limita a indicare i tre potenziali beneficiari: il proprietario del fondo in cui è avvenuto il ritrovamento, il concessionario di ricerca che non svolga tale attività per fini istituzionali e lo scopritore fortuito virtuoso. Il cerchio, però, risulta in concreto ben più ristretto di quello formalmente tracciato dal legislatore.
Innanzitutto, è da escludere che il premio possa essere corrisposto al proprietario del fondo laddove esso sia un ente pubblico. Ciò poiché si deve ritenere che all’obbligo istituzionale di concorrere alla tutela e alla conservazione del patrimonio culturale partecipino tutte le articolazioni dello Stato, per le quali la finalità di renderne possibile la scoperta non può, all’evidenza, comportare alcun beneficio di natura economica, se non attraverso la valorizzazione e la pubblica fruizione del bene rinvenuto[6]. Per le medesime ragioni, sono esclusi dalla corresponsione del premio anche quei soggetti che, pur avendo una forma privata, sono sostanzialmente assimilabili a soggetti pubblici, quali le società in housee gli organismi di diritto pubblico.
Un’altra recente sentenza del Consiglio di Stato ha posto in evidenza, con riguardo alla possibilità di corrispondere il premio al proprietario del fondo, la necessità che tale attribuzione non avvenga incondizionatamente, ma che sia preceduta da un’apposita valutazione circa la meritevolezza della condotta del potenziale beneficiario, in termini di apporto cooperativo al ritrovamento stesso[7].
Ulteriori precisazioni devono essere effettuate con riguardo alla figura dello scopritore. Tale qualifica dovrebbe radicarsi in capo al soggetto che ha materialmente determinato, involontariamente, l’evento della scoperta attraverso le proprie azioni. Nel caso di attività svolte da più persone (ad esempio, per l’esecuzione di lavori o altri rilevamenti), l’interpretazione non è stata sempre concorde, anche se l’orientamento prevalente propende per la persona giuridica, pubblica o privata, titolare dell’attività.
La sentenza della Sez. VI del Consiglio di Stato 31gennaio 2024, n. 920 analizza espressamente la questione, a fronte del mancato riconoscimento nella pronuncia di primo grado della qualifica di scopritore in capo alla società proprietaria del terreno (ai fini dell’aumento della percentuale del valore del premio). Nel caso specifico si sovrapponeva, infatti, la presenza di un committente a quella di due appaltatori (una società specializzata in scavi archeologici, incaricata della sorveglianza archeologica e un’altra società appaltatrice, incaricata dei lavori di scavo).
Il Consiglio di Stato ha, a riguardo, evidenziato come anche nei casi in cui risultino materialmente coinvolti più soggetti, il ruolo di scopritore debba radicarsi in capo al proprietario-committente, titolare del permesso (titolo edilizio) sulla base del quale vengono svolte le attività da cui è derivata la scoperta, dal momento che allo stesso tali attività sono imputabili sia giuridicamente che materialmente.
Lo stesso discorso vale con riferimento allo svolgimento della sorveglianza archeologica, giacché ciò che rileva e prevale è sempre la titolarità giuridica dell’attività. Nel caso di specie, infatti, diretta destinataria delle prescrizioni archeologiche da parte degli organi ministeriali era esclusivamente la società committente[8].
Completamente differente è la questione dell’attribuzione della qualifica di concessionario. In questo caso lo svolgimento materiale o la titolarità dell’attività da cui deriva il ritrovamento non ha alcuna rilevanza. L’unico elemento identificativo è, infatti, come pure rilevato dalla sentenza in commento, quello della formale titolarità di una concessione di ricerca a tale scopo rilasciata dal Ministero. Tale provvedimento, nell’ordine tradizionale della funzione concessoria, ha la funzione di arricchire la sfera giuridica del soggetto che ne è destinatario, attraverso l’affidamento di un’attività (la ricerca archeologica) per legge riservata alla sola Amministrazione. Nessun premio potrebbe, dunque, mai essere riconosciuto al soggetto che, autonomamente, avvii campagne di scavo o di ricerca, anche su terreni privati.
In concreto, l’attribuzione del premio di rinvenimento al concessionario di ricerca risulta un’ipotesi in concreto residuale, se non del tutto esclusa. La legge estromette a priori tutti i soggetti per i quali l’attività di ricerca rientri tra gli scopi istituzionali o statutari, lasciando così fuori la stragrande maggioranza di soggetti – ovvero gli enti di ricerca – che hanno le più spiccate competenze tecnico-scientifiche per la realizzazione dei lavori di scavo. In aggiunta, la prassi ministeriale richiede al concessionario, al momento della sottoscrizione della concessione, di dichiarare in ogni caso di non avere formalmente titolo al riconoscimento del premio, ovvero di rinunciarvi espressamente. La rinuncia al premio di rinvenimento è diventata, nei fatti, una sorta condizione “amministrativa”, necessaria al rilascio della stessa concessione[9]. Addirittura, anche nel caso in cui le istanze di concessione siano relative ad aree di proprietà di privati, la consuetudine è quella di richiedere da parte di questi ultimi la rinuncia al premio ovvero di prevedere la corresponsione dello stesso da parte del concessionario in luogo dell’Amministrazione[10].
4. L’applicazione delle garanzie partecipative al procedimento per la determinazione del premio
Una questione particolarmente interessante affrontata nella sentenza della Sez. VI del Consiglio di Stato 31gennaio 2024, n. 920 riguarda l’applicazione delle garanzie partecipative al procedimento amministrativo volto alla valutazione dell’an e del quantum del premio.
La partecipazione dei privati, in questo contesto, tendenzialmente non è supportata dall’Amministrazione, sulla scorta dello spiccato tecnicismo della discrezionalità esercitata. Il Giudice amministrativo ha ritenuto illegittimo questo modus agendi, rilevando opportunamente che – pur in assenza di un espresso riferimento normativo – anche in tale sede non può che trovare applicazione il principio generale che impone di integrare la normativa di settore con le regole che garantiscono la partecipazione al procedimento da parte del soggetto inciso dall’attività autoritativa. Nel caso del procedimento amministrativo per la determinazione del premio, si è, peraltro, in presenza di un procedimento complesso (che il Ministero è tenuto ad avviare non solo su istanza di parte, ma anche d’ufficio, laddove – ricevuta la denuncia di ritrovamento – disponga di tutti gli elementi necessari per concluderlo), che incide sulla sfera giuridica del privato sia in termini oppositivi che pretensivi.
Vero è che gli strumenti di partecipazione al procedimento non devono essere applicati in maniera meccanica, né possono ridursi a «mero rituale formalistico»[11]. Ciò non toglie che, anche dinnanzi a provvedimento di natura vincolata o di spiccato valore tecnico-scientifico, l’apporto del soggetto privato interessato possa assumere una certa rilevanza. La pretesa partecipativa può, infatti, riguardare ragionevolmente l’accertamento e la valutazione dei presupposti sui quali si dovrà poi basare la determinazione amministrativa di natura tecnica.
Il Consiglio di Stato, su questo punto si è espresso chiaramente: la partecipazione del soggetto destinatario del premio deve essere sempre garantita e deve essere effettiva: attraverso la comunicazione di avvio del procedimento, exart. 7 della l. 241/1990, in caso di avvio d’ufficio; ovvero garantendo l’esercizio dei diritti ex artt. 10 e 10-bis della l. 241/1990, in caso di procedimento avviato su istanza di parte. E alla partecipazione consegue, naturalmente, in capo all’Amministrazione l’onere di esaminare e valutare gli elementi che il privato introduca nel procedimento[12].
5. La natura indennitaria del premio e il regime fiscale
Uno degli aspetti più interessanti che la sentenza in commento esamina riguarda l’inquadramento della natura giuridica del premio. Posta l’esclusione di una funzione “remunerativa” o “compensativa” connessa al presunto depauperamento subito dal privato (inteso come perdita di proprietà o come perdita alla remunerazione ex art. 930 c.c. per lo scopritore non proprietario)[13], il punto di vista offerto dal Consiglio di Stato considera la vicenda focalizzandosi sull’interesse oppositivo del privato rispetto all’attività autoritativa di incameramento del bene. Al premio viene, così, riconosciuta natura indennitaria, a titolo di ristoro non di una perdita economica, ma del pregiudizio che deriva dall’esercizio del potere amministrativo su di un bene che, sebbene per motivi di superiore interesse pubblico è destinato allo Stato, viene comunque ritrovato nell’ambito di una proprietà privata[14].
Connessa a tali considerazioni è la questione relativa ai profili fiscali e di tassazione della somma rilasciata a titolo di premio di rinvenimento. La società ricorrente aveva, infatti, assunto l’illegittimità della ritenuta alla fonte a titolo di imposta, applicata dal Ministero sugli importi da corrispondere. Il TAR per la Lombardia – dopo aver confermato la giurisdizione amministrativa sul punto, per il fatto che la volontà dell’Amministrazione di operare la ritenuta risultava espressa nello stesso provvedimento amministravo di determinazione del premio – si era determinato per la legittimità della ritenuta, facendo rientrare il premio per il ritrovamento di un reperto archeologico nell’ampia categoria dei “premi comunque diversi da quelli su titoli”, soggetti a una ritenuta alla fonte a titolo di imposta ai sensi dell’art. 30 del d.P.R. n. 600/1973.
Il Giudice non aveva espressamente individuato l’aliquota da applicare, facendo, invece, generico riferimento allo stesso art. 30 del d.P.R. n. 600/1973. Poiché detta norma prevede l’aliquota del 10% «per i premi delle lotterie, tombole, pesche o banchi di beneficenza autorizzati a favore di enti e comitati di beneficenza», del 20% «sui premi dei giuochi svolti in occasione di spettacoli radio-televisivi competizioni sportive o manifestazioni di qualsiasi altro genere nei quali i partecipanti si sottopongono a prove basate sull’abilità o sull’alea o su entrambe» e del 25% «in ogni altro caso», quest’ultima avrebbe dovuto ritenersi la percentuale da applicare al premio per la scoperta fortuita di un reperto archeologico.
Il Consiglio di Stato ha, però, censurato questa interpretazione, partendo dalla considerazione, sopra richiamata, per la quale il premio di rinvenimento non ha natura retributiva, ma costituisce un ristoro per un’attività svolta nell’interesse pubblico. Esso non può, dunque, essere associato ad altri premi acquisiti per vincita, pronostico, scommessa, derivanti quindi dalla sorte[15]. Di talché, in assenza di un’espressa previsione normativa in tal senso, non si considera possibile l’applicazione analogica della normativa del d.P.R. n. 600/1973.
[1] Cfr., E. Furno, Art. 92 – Premio per i ritrovamenti, in Commentario al Codice dei beni culturali e del paesaggio, a cura di G. Leone e A.L. Tarasco, Padova, 2006, 602 ss.; Id. Art. 92, in Codice dei beni culturali e del paesaggio, a cura di M.A. Sandulli, Milano, 2019, 886; G. Zagaria, R. Zagaria, F. Gargallo, Art. 92 e Art. 93, in Codice dei beni culturali e del paesaggio, a cura di M.A. Sandulli, Milano, 2012, 748 ss. Sul tema sia consentito rinviare anche a S. Gardini, Il premio per il rinvenimento dei beni culturali, in corso di pubblicazione su Aedon, n. 2/2024, che prende in considerazione e approfondisce anche la pronuncia annotata nel presente scritto.
[2] Cfr., Cons. Stato, Sez. VI, sentenza 10 giugno 2021, n. 4466, in www.giustizia-amministrativa.it. Il Ministero aveva dettato dei criteri per la determinazione dei premi da assegnare ai privati in caso di ritrovamento di reperti archeologici, autolimitando così la discrezionalità che le norme gli attribuiscono, con la circolare del 23 dicembre 1999. La più recente Circolare n. 29 del 18 giugno 2021 ha introdotto, tra i parametri di valutazione, i seguenti elementi: A - spese a carico dello Stato; B - partecipazione degli interessati; C - spese a carico degli interessati, da graduate in misura percentuale rispetto ai parametri di legge.
[3] Cfr., D.P.C.M. 18 novembre 2010 n. 231 (“Determinazione del premio per i ritrovamenti – art. 93 del Codice”).
[4] Cfr., D.P.C.M. n.169 del 2019 e Circolare n. 3 del 29 gennaio 2020 della Direzione Generale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio.
[5] Cfr., Cass. Civile Sez. I, sentenza del 7 giugno 2005, n. 11796. L’orientamento è stato confermato da Cass. Civile, Sez. Un., 7 marzo 2011, n. 5353, in Foro It., 1-2011, 3098.
[6] Cfr., Cons. di Stato, Sez. VI, 7 maggio 2015 n. 2302, in www.giustizia-amministrativa.it: «l’art. 92 (Premio per i ritrovamenti) del Codice è riferibile esclusivamente al privato “proprietario dell’immobile dove è avvenuto il ritrovamento”, nella ratio (non di indurlo alla ricerca, ma) di premiarlo per avere consegnato il bene scoperto fortuitamente alle autorità competenti (Cons. Stato, VI, 4 giugno 2004, n. 3492), tra le quali, a riprova del compito pubblico spettante all’ente, vi è anche il sindaco (art. 90, comma 1). Non è ipotizzabile per l’ente territoriale il diverso comportamento, che la norma intende per converso disincentivare, di non rendere noto il ritrovamento».
[7] Cfr., Cons. di Stato, Sez. VI, 5 gennaio 2024, n. 207, in www.giustizia-amministrativa.it. Ad avviso del Giudice amministrativo, come già accennato, solo una tale interpretazione dell’art. 92 Cod. b.c.p. risulterebbe conforme con la funzione sociale che la proprietà privata è chiamata a svolgere nell’ordinamento italiano
[8] «…[l]a parte proprietaria dell’immobile risulta qualificabile come scopritore della cosa, attraverso le attività materiali di esecuzione del titolo edilizio di cui è titolare la stessa società proprietaria, destinataria diretta e primaria altresì delle prescrizioni della Soprintendenza». Cfr., Cons. di Stato, Sez. VI, 31 gennaio 2024, n. 920, punto 4.9, in www.giustizia-amministrativa.it.
[9] «(…) ove non ricorrano le succitate condizioni, il Concessionario prende formalmente atto di non avere titolo al riconoscimento del premio. In tutti gli altri casi, ferma comunque la valutazione in capo al Ministero delle istanze di Concessione di ricerca, si ritiene opportuno acquisire formale rinuncia al premio di rinvenimento da parte del Concessionario, come previsto dalla citata Circolare 14, prot. 10749 del 31 marzo 2021, di questa Direzione Generale, onde evitare aggravi per l’Amministrazione». Cfr., Ministero della Cultura, Direzione Generale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio, Servizio II, Circolare n. 29 del 18 giugno 2021, in www.beniculturali.it.
[10] Cfr., Direzione Generale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio, Circolare n. 47 del 16 novembre 2022, in www.beniculturali.it.
[11] Così: Cons. di Stato, Sez. VI, n. 2350/2013; Id. n. 1056/2013, in www.giustizia-amministrativa.it
[12] «Nel caso di specie, se in termini giuridici i principi riassunti smentiscono l’affermazione formulata dall’amministrazione secondo cui “per il procedimento di determinazione del premio, non è prevista la partecipazione dell’interessato”, in termini applicativi il coinvolgimento del privato è stato tardivo – a distanza di alcuni anni dal ritrovamento e dall’avvio dell’iter – oltre che insufficiente, in assenza della adeguata valutazione degli elementi forniti dalla parte stessa. A quest’ultimo proposito, emerge dagli atti che l’accesso dell’esperto numismatico di Officine Immobiliari è stato consentito nei giorni 2 e 3 marzo 2021, mentre il Ministero della Cultura ha adottato il provvedimento recante l’attribuzione del premio di rinvenimento il successivo 9 marzo; tale evidente compressione dei tempi ha reso nella sostanza impossibile una adeguata partecipazione e una conseguente doverosa valutazione». Cfr., Cons. di Stato, Sez. VI, 31 gennaio 2024, n. 920, punti 7.3 e 7.4, in www.giustizia-amministrativa.it.
[13] Cfr., Cass. civ., sez. un., 11 marzo 1992, n. 2959, in Giur. civ., 1-1993, 2229).
[14] «Orbene nel caso di specie, a parte la coincidenza terminologica, va esclusa la natura di premio in termini di vincita, pronostico, scommessa, derivanti quindi dalla sorte, in quanto trattasi di indennizzo a titolo di ristoro per gli effetti derivanti dall’attività autoritativa di incameramento di un bene che, pur ritrovato nell’ambito di una proprietà privata, per motivi di superiori interessi pubblici è destinato allo Stato. Non si tratta di un premio per una vincita, rimessa alla sorte, ma di un ristoro per un’attività svolta nello stesso interesse pubblico». Cfr., Cons. di Stato, Sez. VI, 31 gennaio 2024, n. 920, punto 6.3, in www.giustizia-amministrativa.it.
[15] La giurisprudenza aveva già avuto modo di esprimersi in tali termini. Si segnala, in questa direzione CGARS, 12 aprile 2007, n. 353, in www.giustizia-amministrativa.it: «[i]l premio di rinvenimento di beni archeologici non può essere assimilato in ogni modo ai premi del lotto e delle lotterie, né agli altri premi residuali contemplati dall'art. 30 d.p.r. 600/73 e non è quindi soggetto alla ritenuta del 25%. La sua ratio non è infatti quella di implementare le entrate dell’erario, ma di creare una convenienza reale (non simbolica) per i soggetti, che a vario titolo si trovino a contatto con beni archeologici, a non occultare i ritrovamenti e a non cedere alla tentazione del commercio illegale dei relativi reperti».
In memoria di Giacomo Matteotti, del suo contributo alla costruzione della democrazia nel nostro paese, del suo sacrificio, e nel ricordo del suo discorso del 30 maggio 1924 che dopo cento anni ancora ci illumina, invitiamo chi ci legge a recarsi alle urne sabato 8 e domenica 9 giugno 2024. È ora di riappassionarsi alla politica.
Discorso minimo sulle passioni di Licia Fierro
Passione viene dal greco pàthos che significa emozione.
Passione è dunque ogni stato d’animo che, in quanto scatenato da eventi esterni, si manifesta come ira, piacere, dolore, gioia, tristezza, odio ecc…Secondo alcune correnti del pensiero antico queste reazioni travolgenti impediscono di fatto alla volontà una scelta, essa le subisce (in latino pati=subire).
Da secoli sussiste la vexata quaestio dell’etica: se le passioni debbano essere considerate naturali, se esse siano utili, quale sia il rapporto tra passione e ragione e quale il ruolo della volontà.
Senza l’impulso, senza quella che Aristotele definisce la parte appetitiva dell’anima nessuna azione sarebbe possibile: nessuno di noi risponderebbe mai alle sollecitazioni esterne, cioè praticamente l’uomo sarebbe privo di reazioni. E tuttavia se la ragione non guidasse le nostre emozioni, noi ne saremmo le prime vittime. Non credo sia per tutti praticabile l’apatia (la completa inibizione delle passioni) così cara agli stoici, né mi pare accettabile la condanna delle passioni in quanto considerate in toto come irrazionali e quindi di impedimento all’uomo nella realizzazione del suo fine superiore (così teorizzava una parte non esigua della filosofia medievale).
Mi appello a Sant’Agostino il quale non disdegna nulla dell’uomo in quanto creatura di Dio, tanto meno la corporeità, e non crede perciò che le passioni siano il frutto cattivo del corpo. Nel De Civitate Dei così scrive «…la volontà si trova in tutte le nostre emozioni, anzi esse non sono altro che atti di volontà.
Cosa sono il desiderio e la gioia se non atti della volontà di assenso a ciò che vogliamo? E il timore e la tristezza se non atti di volontà dissenzienti da ciò che non vogliamo?. Siamo dunque noi a decidere dell’uso delle passioni che in sé stesse non sono né buone né cattive.
Non posso giustificarmi affermando che è naturale l’odio nei confronti del nemico e perciò mi abbandono ad esso senza limiti.
Non posso desiderare tutti gli onori e le ricchezze utilizzando ogni mezzo per raggiungerli compresi quelli che, ahimé, trovo pubblicizzati o peggio ancora inseriti in vademecum dell’uomo di successo venduti come best-sellers. In questi casi, ormai, è quasi scomparso il rossore o la vergogna che pure sono affezioni dell’anima.
Mi riferisco, in concreto, anche a molti opportunisti i quali al giorno d’oggi sono soliti praticare i salotti televisivi e in ogni sede utile sponsorizzano sé stessi e le loro non sempre pregevoli opere come fossero disinteressati profeti di verità e di autentica passione civile.
Qualcuno adesso mi accuserà di moralismo, ma per parare il colpo aggiungo che molte passioni “negative” sono pure il frutto indotto anzi etero diretto della civiltà post-industriale avanzata che ha prodotto un solco sempre più profondo tra le componenti emotive autonome della personalità e i bisogni “costruiti” ma presentati come naturali (in questo campo la scuola di Francoforte, e in essa soprattutto Marcuse e Fromm, hanno spaziato in lavori bellissimi e più che mai attuali).
Tutte le passioni devono comunque essere conosciute perché possiamo indirizzarle, orientarle in senso costruttivo.
Amo con trasporto, mi impegno nel lavoro con passione, curo i miei interessi e ne traggo soddisfazione: questa è una persona appassionata che agisce con mente pura e perciò è veramente libera. Ne conoscete di uomini e donne di tal fatta? Non dico i santi sugli altari, dico gli uomini di questo tempo, quelli pochi o tanti che si lasciano consumare dalla passione per quello in cui credono. Le persone malate nel corpo eppure travolgenti nelle azioni, i medici che operano in zone abbandonate e lontane senza smania di successo, gli uomini di Dio che percorrono ogni giorno chilometri a piedi per raggiungere altri esseri umani bisognosi di conforto.
Che cosa li spinge se non l’impulso, il desiderio di rispondere che se di per sé è immediato, emotivo, poi diventa sempre più scelta consapevole illuminata dalla ragione.
E così la volontà non è più facoltà astratta ma diventa strumento che indirizza l’azione verso la giustizia.
La collaborazione virtuosa tra persone capaci di costruire progetti e di impegnarsi per realizzarli ha dato frutti copiosi in ogni campo: dalla ricerca scientifica, all’economia, alle arti di vario genere.
Di una tale “cultura della passione” dovrebbe nutrirsi la politica perché gli uomini che scelgono di farla siano capaci di restituirle senso e di trascinare le persone a credere davvero nel perseguimento del bene comune. A questo proposito in una discussione tra amici non molte sere fa c’era chi sosteneva che le forti passioni, anche quelle degli uomini migliori, sono l’espressione dell’amor proprio o peggio ancora del narcisismo.
Per quanto si possa essere consapevoli del pericolo, al di là delle degenerazioni o dei facili psicologismi, mi piace ripetere con F. De La Rochefoucauld «non si desidera mai ardentemente ciò che si desidera solo con la ragione».
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