ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Questo contributo è parte del percorso intrapreso da questa Rivista per ricordare Giacomo Matteotti a cento anni dal suo assassinio, avvenuto il 10 giugno 1924. Il IV convegno di Giustizia Insieme, "La magistratura e l'indipendenza", Roma 12 aprile 2024 è stato dedicato alla memoria di Giacomo Matteotti. Per gli altri contributi già pubblicati si veda Giacomo Matteotti: il suo e il nostro tempo di Licia Fierro, Discorso alla Camera del Deputati del 30 maggio 1924 di Giacomo Matteotti, "Il delitto Matteotti" e quel giudice che voleva essere indipendente (nel 1924) di Andrea Apollonio, Una risalente (ma non vecchia) vicenda processuale: il pestaggio fascista in danno dell’on. Giovanni Amendola del 26 dicembre 1923 di Costantino De Robbio, La magistratura al tempo di Giacomo Matteotti di Giuliano Scarselli, A margine del Processo Matteotti: la coerenza di un magistrato in tempo di regime di Costantino De Robbio, Giacomo Matteotti. Il giurista di Giovanni Canzio, Note su Giacomo Matteotti ed il penale costituzionale: la legalità dalla crisi dello Stato liberale alla «dominazione fascista» di Floriana Colao, Il metodo per la riforma fiscale, preziosissima eredità di Giacomo Matteotti di Francesco Tundo.
Io il mio discorso l’ho fatto. Ora voi preparate il discorso funebre per me. Giacomo Matteotti, 30 maggio 1924, dopo aver pronunciato il suo ultimo, appassionato, coraggioso, discorso alla Camera dei Deputati, ormai divenuta un bivacco di manipoli. Il 10 giugno successivo Matteotti è stato rapito ed ucciso. Questo è il martire dell’antifascismo, quindi tout court della democrazia e della libertà, che è conosciuto da tutti.
Francesco Tundo, con La riforma tributaria. Il metodo Matteotti, Bologna, 2024 e con questo scritto per Giustizia Insieme illumina una parte dell’attività politica di Giacomo Matteotti che è molto meno noto, ma per nulla meno importante.
La “questione fiscale” infatti è da sempre al centro del discorso pubblico degli aggregati umani, dall’evangelico dare a Cesare quello che è di Cesare al no taxation without representation della rivoluzione americana.
Perciò non può affatto sorprendere che un politico fine e profondo come Matteotti -in una convulsa fase di transizione che ha portato la Nazione nel baratro del ventennio fascista ed al suo tragico epilogo bellico, poi a quello catartico, ma ugualmente drammatico, della Liberazione- non sentisse l’importanza di tale nodo strategico e non lo vivesse da protagonista.
Tundo lo spiega in modo molto puntuale ed approfondito, mettendo in risalto i passaggi fondamentali del pensiero di politica fiscale di Matteotti, dall’esperienza nel governo degli Enti locali a quella parlamentare, conclusasi con il suo barbaro assassinio.
Ed è al crepuscolo di questa esperienza umana e politica che si coglie la grandezza dello statista socialista. Come ricorda Tundo, per nulla a caso, «La prima legge presentata in Aula dal Governo fascista è una legge tributaria, anzi una legge per la riforma tributaria, che determina l’esautorazione del Parlamento a beneficio del Governo e, di fatto, apre il varco alla dittatura» (F. TUNDO, op. cit., 105).
Matteotti è sulla barricata, come non poteva non essere. Perché è con questa legge che Mussolini chiede i “pieni poteri” di triste memoria. Ai tempi del premierato un monito chiaro. E il parlamentare socialista, senza paura, in Aula dichiara «In nessun Parlamento d’Europa sono stati dati al Governo i pieni poteri in materia di tributi. I parlamenti traggono anzi la loro origine proprio dal concetto di limitare i poteri del Principe o del potere esecutivo nel prelevamento delle imposte» (F. TUNDO, op. cit.,110).
Vero, verissimo: questa è la storia dell’evoluzione dei sistemi politici, dalle monarchie assolute a quelle parlamentari ed infine ai moderni sistemi democratici occidentali.
Come Tundo ci spiega, le idee di politica tributaria di Giacomo Matteotti risentono inevitabilmente del tempo storico nelle quali vengono sostenute e vanno pertanto contestualizzate, storicizzate. Tuttavia non possono aversi dubbi che all’Assemblea costituente, nella Commissione dei ’75, Matteotti sarebbe stato uno dei padri degli artt. 23, 53 della Costituzione della Repubblica italiana e degli artt. 2, 3 della stessa, principi supremi sui quali si fondano.
La ferocia fascista ha impedito che ciò accadesse, ma è stato lo stesso Matteotti a dire «Uccidete me, ma l’idea che è in me non la ucciderete mai». Con questo contributo di Francesco Tundo la Rivista vuole dunque farne vivere le idee e onorarne una volta di più la memoria.
Licenziamenti e Jobs Act, l’intervento della Corte Costituzionale sui casi di nullità
Riflessioni a margine della sentenza della Corte Costituzionale 22 febbraio 2024, n. 22
di Chiara Colosimo
Abstract
L’autrice riflette sull’ultimo intervento della Corte Costituzionale in materia di tutele per i casi di licenziamenti illegittimi e, nello specifico, sulla pronunzia del 22 febbraio 2024, n. 22, che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 2, co. 1, D. Lgs. 23/2015, limitatamente all’avverbio «espressamente» che aveva l’effetto di restringere la platea dei casi di nullità sanzionabili con la reintegrazione, introducendo un’illegittima distinzione tra nullità testuali e nullità virtuali le quali ultime, nel regime dei contratti a tutele crescenti, erano così rimaste prive di disciplina. Nelle riflessioni conclusive si osserva come il sistema sanzionatorio “riscritto” dal Giudice delle Leggi risulti più coerente e rispettoso della ratio sottesa al disegno del Legislatore Delegante, la cui volontà – di fatto – pare essersi pienamente attuata solo in virtù dell’intervento della Consulta.
The author reflects on the latest ruling of the Constitutional Court on the subject of protections for cases of illegitimate dismissals and, specifically, on the pronouncement of 22 February 2024, no. 22, which declared the illegitimacy of art. 2, co. 1, Legislative Decree. 23/2015 limited to the adverb “expressly”, which had the effect of restricting the number of cases of nullity punishable by reinstatement, introducing an unlawful distinction between textual nullity and virtual nullity, the latter being, thus, in the regime of Legislative Decree. 23/2015, unregulated. In the concluding remarks it is observed how the penalty system ‘rewritten’ by the Judge of Laws is more coherent and respectful of the underlying ratio of the design of the Delegating Legislator, whose will - in fact - seems to have been fully implemented only by the decision of the Consulta.
Sommario: 1. Premessa - 2. Le criticità della disciplina prevista dal Jobs Act - 3. La necessità di un intervento del Giudice delle Leggi - 3.1. La questione di legittimità costituzionale - 3.2. La decisione della Consulta - 4. Concludendo.
1. Premessa.
Il capitolo delle nullità guarda a una molteplicità di fattispecie che possono essere esaminate da due differenti punti di vista.
Sotto un profilo prettamente soggettivo, debbono essere considerate le condotte che ledono il lavoratore nella sua individualità, sia essa manifestazione di una caratteristica intrinseca dell’essere (si pensi, per esempio, al diritto antidiscriminatorio), sia essa espressione di vita familiare o sociale (si guardi, in questo senso, tra le altre, alla tutela della genitorialità); in prospettiva propriamente oggettiva, vi rientrano i comportamenti che hanno l’attitudine a entrare in conflitto con l’ordinamento giuridico, quale aperta contraddizione dei principi che lo governano ovvero tentativo di piegarne le regole per conseguire finalità illegittime (il riferimento è, in primis, ai casi di frode alla legge).
La disciplina delle nullità è stata interessata dalla profonda opera di riscrittura delle tutele avverso i licenziamenti illegittimi, avviata dal Legislatore con la riforma di cui alla Legge 92/2012 e proseguita, poi, con l’introduzione della disciplina prevista dal Decreto Legislativo 23/2015.
Nella ridefinizione complessiva delle fattispecie realizzata con il rinnovato art. 18 Legge 300/1970, a mezzo dell’art. 1, co. 42, lett. b), Legge 92/2012, si è stabilito che il giudice deve dichiarare la nullità del licenziamento – riconoscendo al lavoratore la tutela reintegratoria “forte” ([1]) – ove il recesso risulti “discriminatorio ai sensi dell’articolo 3 della legge 11 maggio 1990, n. 108, ovvero intimato in concomitanza col matrimonio ai sensi dell’articolo 35 del codice delle pari opportunità tra uomo e donna, di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, o in violazione dei divieti di licenziamento di cui all’articolo 54, commi 1, 6, 7 e 9, del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, e successive modificazioni, ovvero perché riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge o determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell’articolo 1345 del codice civile…” ([2]).
Il Legislatore del Jobs Act, per quanto in via oltremodo sintetica, ha tratteggiato un precetto simile all’art. 2, co. 1, D. Lgs. 23/2015 ([3]), sanzionando con la nullità – e, dunque, mediante reintegrazione con indennità piena – il licenziamento “…discriminatorio a norma dell’articolo 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, ovvero perché riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge...”; peraltro, diversamente da quanto previsto all’art. 18, co. 7, Legge 300/1970, l’art. 2, co. 4, D. Lgs. 23/2015 estende il medesimo regime al caso in cui sia accertato il “difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68”.
Si è detto, un precetto analogo, non identico.
La differenza, oltre a quella appena tratteggiata e il diverso richiamo normativo in punto di discriminazione, è da individuarsi nel fatto che lo Statuto dei Lavoratori sanziona, con il primo comma dell’art. 18, i licenziamenti nulli in quanto riconducibili “ad altri casi di nullità previsti dalla legge” (con estensione, dunque, della tutela reintegratoria a tutti i casi di licenziamento intimato in violazione di una norma imperativa), mentre, con l’art. 2, il Decreto Legislativo 23/2015 sanziona – rectius, sanzionava – i licenziamenti nulli in quanto riconducibili agli “altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge”: avverbio, quest’ultimo, che “rimanda alla distinzione di carattere generale fra nullità testuali e nullità virtuali” ([4]).
2. Le criticità della disciplina prevista dal Jobs Act.
Sul differente tenore letterale delle due disposizioni, si è acceso un intenso dibattito.
Da un lato, risultava agevole ritenere che i casi di nullità testuali, specificamente richiamate dall’art. 18 Legge 300/1970, potessero rientrare nella clausola di cui all’art. 2 D. Lgs. 23/2015; dall’altro, tutt’altro che immediata si prospettava la riflessione sul precipitato oggettivo dell’avverbio «espressamente» destinato, con ogni evidenza, a operare – sotto un profilo prettamente logico-sistematico – quale norma limitativa e di chiusura.
Sicché, vi è stato chi ha ritenuto di valorizzare la differenza tra le due disposizioni in commento sottolineando come l’art. 18 Legge 300/1970 non richieda l’espressa previsione legale della nullità; si è affermato, in particolare, che l’intenzione del Legislatore del Jobs Act sarebbe stata quella di impedire un’interpretazione estensiva delle ipotesi riconducibili alla massima tutela reintegratoria, escludendo le nullità virtuali e la violazione di norme imperative non accompagnate da una espressa sanzione di nullità, e riconducendovi esclusivamente le nullità esplicitamente contemplate dalle norme in materia di licenziamenti.
In questa specifica prospettiva, si è sostenuto che “l’intenzione del legislatore del 2015 [sarebbe] stata proprio quella di escludere dall’ambito di applicazione dell’art. 2 i casi in cui la nullità del licenziamento è meramente virtuale, e ciò allo scopo di evitare che, anche in futuro, si possa verificare quello che è in effetti accaduto dopo l’entrata in vigore della riforma Fornero, e cioè una sorta di “travaso”, realizzato principalmente dalla giurisprudenza, di fattispecie di licenziamento ingiustificato nell’area di quello nullo, travaso evidentemente voluto al fine di espandere l’altrimenti esiguo spazio riservato dalla legge alla tutela più forte” ([5]).
Con differente approccio interpretativo, tuttavia, alcuni Autori hanno inteso valorizzare la ratio sottesa agli interventi normativi del decennio ([6]) – e, soprattutto, le preminenti esigenze di ragionevolezza dell’opzione legislativa ([7]) – per ritenere necessariamente ricomprese le nullità virtuali, precipitato della disposizione di cui all’art. 1418 c.c.
Autorevole Dottrina, nello specifico, ha affermato che “…l’avverbio “espressamente” contenuto nell’articolo 2 sulla tutela della reintegrazione non sembra sufficiente a porre nel nulla l’intera disciplina della nullità del codice, perché non indica una diversa disciplina, come appunto prevede l’articolo 3 in caso di licenziamento ingiustificato. In conclusione… deve essere preferita una interpretazione sistematica e non meramente letterale dell’articolo 2 del decreto legislativo n. 23/2015, confortata anche dall’evoluzione del diritto vivente, per riconoscere ugualmente la reintegrazione per tutte le ipotesi di violazione di nonne imperative. Non può bastare, infatti, il solo avverbio “espressamente” per derogare al regime della nullità previsto di regola, dall’articolo 1418, primo comma, c.c.” ([8]).
Di fatto, l’art. 2 D. Lgs. 23/2015 non consentiva nessuna interpretazione esente da criticità.
Tuttavia, se la lettura estensiva era destinata a confliggere con un rilievo evidentemente testuale, l’interpretazione restrittiva presentava ben più rilevanti problematiche di ordine costituzionale e sistematico, tanto avuto riguardo all’ambito della delega ([9]), quanto in prospettiva prettamente sostanzialista, identici essendo disvalore e antigiuridicità della condotta a dispetto della data di assunzione del lavoratore ([10]): criticità difficilmente superabili sulla base del rilievo che le ipotesi di nullità, ove estranee all’ambito di applicazione dell’art. 2 D. Lgs. 23/2015, sarebbero potute rientrare nella tutela di diritto comune cui sarebbe conseguita – di fatto – una reazione sanzionatoria analoga ([11]).
Quest’ultima soluzione, peraltro, avrebbe restituito un sistema di tutele severamente frammentato e, dunque, incoerente rispetto alla ratio degli interventi legislativi voluti e attuati con la Legge 92/2012 e il Decreto Legislativo 23/2015.
Pertanto, una lettura della nuova normativa coerente con la finalità propria della legislazione dell’ultimo decennio, e soprattutto con il perimetro costituzionale di riferimento, induceva a far rientrare nell’ambito oggettivo di applicazione dell’art. 2, co. 1, D. Lgs. 23/2015, altresì, le nullità virtuali e la disciplina generale in materia di invalidità degli atti negoziali ([12]); questo, anche in considerazione del rilievo secondo cui le nullità di cui all’art. 1418 c.c. sarebbero anch’esse esplicitamente previste dalla disciplina codicistica, inequivoco risultando – sotto questo punto di vista – il tenore letterale della disposizione ([13]).
Il riferimento, d’altronde, era a casi in cui “la nullità, pur non «espressamente» prevista dalla legge con specifico riferimento alla materia del licenziamento, deriva dall’applicazione dei principi generali del diritto civile, ovvero dalle norme di cui agli artt. 1418 c.c., 1343 c.c. e 1345 c.c.; si tratta, altresì, di fattispecie non riconducibili alla mancanza di giustificazione del licenziamento ai sensi dell’art. 3, co. 2, in quanto le situazioni inquadrabili in siffatte norme civilistiche si connotano per una diversa categoria di disvalore giuridico, di volta in volta consistente nella contrarietà a norme imperative (art. 1418 c.c.), nell’illiceità della causa (art. 1343 c.c.), nell’illiceità del motivo (art. 1345 c.c.) ed, infine, nella fronde alla legge (quando l’atto «costituisce il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa»: art. 1344 c.c.).” ([14]).
Dibattito di analogo tenore si è sviluppato nella giurisprudenza di merito.
Da un lato, si è escluso di poter “…ritenere “espressamente” prevista la nullità nei diversi casi nei quali la stessa viene fatta discendere – pur in assenza di una espressa previsione o divieto di licenziamento – dalla natura inderogabile della norma che si assume violata – e quindi attraverso l’art. 1418 c.c.” ([15]).
Si è osservato, peraltro, che “non vi [sarebbero] elementi né di ordine letterale né logico-sistematico per potere supporre che il legislatore abbia inteso introdurre una doppia limitazione escludendo dalla tutela più intensa, oltre alle nullità virtuali e cioè quelle sancite non testualmente ma per violazione di norma imperativa ai sensi dell’art. 1418, primo comma, c.c. anche le ipotesi di nullità testuale non sanzionate come tali dal corpus di diritto speciale rappresentato dal testo del decreto o da altre norme settoriali dell’ordinamento lavoristico. Invero, secondo motivazione condivisa ai sensi dell’art. 118 disp. att. c.p.c. da precedente di questo Tribunale su fattispecie identica (sentenza n. 347/2018…)...” mentre la prima esclusione… potrebbe apparire necessaria nell’ottica di attribuire un significato all’avverbio espressamente che segna la differenza rispetto alla fattispecie definitoria dei confini della tutela forte del primo comma dell’art. 18 St. lav., altrettanto non può dirsi per la seconda perché non vi sono indicazioni che consentano di porre le nullità che derivano dal diritto dei contratti su un piano diverso da quelle coniate dal diritto speciale”...)” ([16]).
Dall’altro, si è sostenuto che – ricorrendo un’ipotesi di “nullità, per violazione di una norma imperativa (non si tratta di un consiglio, ma di un divieto a tutela di fondamentali interessi sociali, financo teso alla tenuta del “contratto sociale” stesso, minacciata dall’emergenza causata dal COVID-19), diretta proprio a proibire (in quelle determinate circostanze) l’adizione del licenziamento (art. 1418 c.c.: “Il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente”)” – il rimedio avrebbe dovuto essere “individuato nell’art. 2,1. comma del D. Lgs. n. 23/2015 che prevede la massima sanzione (reintegra e risarcimento) in relazione ai casi di “nullità del licenziamento perché discriminatorio a norma dell’articolo 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, ovvero perché riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge”, dovendosi fare riferimento al dato testuale codicistico sopra riportato e che vale a qualificare espressamente nullo il contratto (qui il licenziamento in forza del richiamo di cui all’art. 1324 c.c.) contrario a norme imperative (qual è la disposizione sopra esaminata)” ([17]).
In questa prospettiva, si è anche sottolineato che “…la nullità dell’atto di licenziamento in esame discende dal combinato disposto della norma generale dell’art. 1418, comma 1, cod. civ. che colpisce gli atti (ex art. 1324 Cod. civ.) contrari a norme imperative, identificata, nel nostro caso, dall’art. 1, L. n. 604/1966. Le conseguenze immediate della disposizione, dunque, dovrebbero essere quelle della c.d. «nullità di diritto comune». Sennonché lo stesso art. 1418, comma 1, cod. civ., fa salvi i casi in cui «la legge disponga altrimenti». Nel caso che ci occupa… una tale disposizione speciale esiste e va identificata proprio nell’art. 2, D.Lgs. n. 23/2015. È infatti all’art. 2, D.Lgs. n. 23/2015 che la legge affida la regolazione dei casi di nullità del licenziamento, abbracciando nel proprio ambito, tra gli altri, gli «altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge», tra cui devono essere ricomprese le nullità c.d. “virtuali” per contrasto con norme imperative. L’art. 2, D.Lgs. n. 23/2015 si presta ad accogliere tutti i casi di nullità” ([18]).
3. La necessità di un intervento del Giudice delle Leggi.
La questione è approdata, inevitabilmente, al vaglio della Corte Costituzionale che l’ha recentemente risolta dichiarando “l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), limitatamente alla parola «espressamente»” ([19]).
Le ragioni poste a fondamento della declaratoria di illegittimità si presentano alquanto inedite, soprattutto ove si consideri la più recente giurisprudenza costituzionale, ma si tratta di una soluzione vincolata in ragione del thema decidendum circoscritto dal Giudice remittente.
3.1. La questione di legittimità costituzionale.
Il giudizio si è avviato a seguito di un’ordinanza di rimessione della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, co. 1, D. Lgs. 23/2015 esclusivamente con riferimento all’art. 76 Costituzione ([20]).
La questione muove dall’impugnazione della sentenza con cui la Corte di Appello di Firenze ha dichiarato la nullità del licenziamento – invero, della destituzione di un lavoratore ai sensi del Regio Decreto 148/1931 – condannando la datrice di lavoro al pagamento di una mera indennità risarcitoria; alla suddetta condanna è pervenuta la Corte fiorentina sul presupposto che l’art. 2, co. 1, D. Lgs. 23/2015 contemplerebbe la reintegrazione, oltre che per il licenziamento discriminatorio, solo per gli “altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge”: ipotesi ivi ritenuta insussistente in quanto, nel caso esaminato, la nullità non era espressa, ma riconducibile a categorie di ordine generale.
Proponendo ricorso per cassazione, il lavoratore ricorrente ha lamentato la violazione e la falsa applicazione dell’art. 76 Costituzione, dell’1, co. 7, lett. c), Legge Delega 183/2014, degli artt. 2 e 3 D. Lgs. 23/2015, e degli artt. 1418 e 2058 c.c., dolendosi dell’erroneità dell’interpretazione della Corte territoriale, ove volta a limitare l’ambito di applicazione della tutela reintegratoria ai soli casi di nullità espressa e non a tutti i casi di nullità, anche se derivanti dall’art. 1418 c.c.
Il ricorrente ha prospettato, sia il profilo dell’eccesso di delega, sia l’irragionevolezza e incoerenza dell’enfatizzazione dell’avverbio «espressamente».
Il Supremo Collegio ha condiviso il giudizio della Corte di Appello in merito alla nullità del licenziamento sul presupposto che “le fasi del procedimento disciplinare non possono essere omesse o concentrate, e, di conseguenza, la nullità di una sanzione disciplinare, per tale tipo di violazione, rientra nella categoria delle nullità di protezione, in quanto fondata sullo scopo di tutela del contraente debole del rapporto”, così che “tale violazione non è assimilabile a quelle procedurali (di cui all’art. 18, comma 6, legge n. 300/1970, come modificato dall’art. 1, comma 42, Legge n. 92/2012)”; in particolare, ha rammentato che il “regime di nullità (di protezione) emerge da ricostruzione sistematica ed è riconducibile al regime generale delle nullità disciplinato dagli artt. 1418 ss. c.c., sicché tale qualificazione (di nullità di protezione) comporta l’integrazione dell’ipotesi di nullità per contrarietà a norma imperativa, cui di norma si applica la tutela reintegratoria (cfr. Cass. n. 32681/2021)” ([21]).
Tuttavia, la Corte di Cassazione ha prospettato un possibile contrasto tra la delimitazione della tutela reintegratoria ai soli casi di nullità “espressamente previsti della legge” e l’art. 1, co. 7, lett. c), della Legge Delega 183/2014 che richiedeva al Legislatore Delegato la “previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio, escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per l’impugnazione del licenziamento”; ha sottolineato, in particolare, che “la necessaria coerenza tra legge delegante e legge delegata appare nel caso in esame dubbia per la previsione di una limitazione di tutela non prevista nella norma delegante e di individuazione incerta” ([22]).
Nel farlo, ha escluso la possibilità di optare per una soluzione interpretativa costituzionalmente orientata, in quanto non sarebbe stato comunque possibile pervenire all’abrogazione dell’avverbio che è, peraltro, “lemma che non si presta ad interpretazioni semantiche diverse da quella limitativa dei casi di nullità cui ricollegare la tutela reintegratoria, con ciò generandosi le incompatibilità ed incongruenze con la legge-delega di cui sopra” ([23]).
È un sospetto di illegittimità costituzionale che il Supremo Collegio ha ritenuto non manifestamente infondato per due distinti ordini di ragioni.
Da un lato, per una questione afferente al tenore letterale della Legge Delega, che “sembra comprendere nell’area della reintegrazione tutti i licenziamenti nulli e discriminatori, e delegare l’individuazione di specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato (ma non per questo nullo, cui ulteriormente ricollegare il diritto alla reintegrazione; in altri termini, la limitazione del diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare non implica l’ulteriore limitazione alle nullità espresse dalla legge, perché, in senso letterale, la delega esclude dalla limitazione l’area dei licenziamenti nulli (tutti) e discriminatori, oltre a specifiche ipotesi di licenziamenti disciplinari non nulli da individuarsi in sede delegata” ([24]).
Dall’altro, per una ragione di ordine logico-sistematico, in quanto “la restrizione ai soli casi di nullità espressa – nel senso di esplicitata come sanzione della violazione del precetto primario – finisce con il forzare il valore della coerenza del sistema, e a non considerare operante, anche ai fini di cui all’art. 2, comma 1, del d. lgs. n. 23 del 2015, il principio generale che ricollega la conseguenza della nullità alla violazione di norme imperative dell’ordinamento civilistico; in realtà, la differenza tra nullità espressamente previste e nullità da ricollegare a categorie civilistiche generali può risultare il precipitato non di una diversità ontologica o valoriale, ma di peculiare ragioni storiche, sistematiche o di stratificazione normativa, con esiti casuali e non razionali, così realizzando un’eterogenesi dei fini ordinatori della disciplina delegante; senza considerare che anche l’art. 1418 c.c. è norma espressa” ([25]).
Sennonché, nonostante i duplici e autonomi rilievi formulati, il Giudice di Legittimità ha ritenuto di sollevare la questione solo avuto riguardo al primo profilo: “questa Corte:… ritiene rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, d. lgs. 4 marzo 2015, n. 23, in riferimento all’art. 76 Cost., nella parte in cui prevede che il giudice, “con la pronuncia con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio… ovvero perché riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge, ordina al datore di lavoro… la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto””, e solleva “questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 76 Cost. ed altri eventuali parametri derivati, della delimitazione della tutela reintegratoria ai casi di nullità “espressamente previsti della legge”, per contrasto con la norma della legge-delega (legge 10 dicembre 2014, n. 183, art. 1, comma 7, lett. c), che dispone che il legislatore delegato preveda per le nuove assunzioni, la limitazione del “diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato”” ([26]).
In questo modo, la Corte di Cassazione ha vincolato la Consulta precludendole in nuce qualsivoglia riflessione in ordine alla legittimità della norma rispetto ai criteri di ragionevolezza e uguaglianza di cui all’art. 3 Costituzione; come noto, d’altronde, è la sola ordinanza di rimessione a determinare il thema decidendum, indicando la norma censurata e il parametro costituzionale di riferimento: il «thema decidendum» “con riguardo alle norme censurate, va identificato tenendo conto della motivazione delle ordinanze» (sentenza n. 238 del 2014…)” ([27]), così che “l’oggetto del giudizio di costituzionalità in via incidentale è limitato alle sole norme e parametri indicati, pur se implicitamente, nell’ordinanza e… non possono essere presi in considerazione questioni o profili di costituzionalità diversi, tanto se siano stati dedotti ma non fatti propri dal giudice a quo, quanto se ampliano o modificano il contenuto delle stesse ordinanze” ([28]).
Dunque, “la perimetrazione del thema decidendum – corrispondente al petitum dell’ordinanza di rimessione – limita anche la cognizione e il possibile intervento della Corte, la quale in questo senso non può andare ultra petita” ([29]).
La rilevanza della questione, per come così circoscritta, è stata sostenuta dal lavoratore – parte ricorrente nel giudizio principale – che ha anche sottolineato l’incoerenza degli effetti derivanti da una rigida interpretazione dell’avverbio «espressamente»: a parità di gravità del vizio e del contrasto con valori fondamentali dell’ordinamento, sarebbero rimasti esclusi dalla tutela reintegratoria di cui all’art. 2 D. Lgs. 23/2015 tutti i licenziamenti affetti da una nullità non espressamente prevista, ma comunque contrari a una norma inderogabile di protezione.
Costituendosi nel giudizio di legittimità, per contro, la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha insistito sulla manifesta infondatezza della questione sostenendo, tra l’altro, per quanto qui di interesse, che l’art. 2, co. 1, D. Lgs. 23/2015 sarebbe pienamente coerente con la Legge Delega 183/2014, precipitato dei principi e dei criteri direttivi dalla medesima delineati, e corretta attuazione della ratio alla stessa sottesa: l’estensione della tutela reintegratoria a fattispecie in cui la nullità del licenziamento è rimessa alla valutazione dell’interprete sul carattere imperativo della norma violata frusterebbe, questa è la tesi, l’obiettivo del contingentamento delle ipotesi di reintegrazione, costituendo la mancanza di flessibilità in uscita dall’impresa un elemento di disfunzione del sistema.
Ha affermato, più nello specifico, che le nullità virtuali – non riconducibili a una casistica predeterminata – sarebbero risultato della mutevole attività ermeneutica dell’interprete, espressione, a sua volta, dei differenti contesti storici e sociali circa la natura imperativa della norma di riferimento.
3.2. La decisione della Consulta.
La scelta del Supremo Collegio di limitare il vaglio della Corte Costituzionale al solo parametro di cui all’art. 76 Costituzione sorprende per due distinte ragioni.
Da un lato, perché la giurisprudenza della Consulta non conosce – soprattutto, nella sua storia più recente – un numero rilevante di pronunzie di illegittimità dichiarata sotto il profilo dell’eccesso di delega; invero, proprio in materia di tutele avverso licenziamenti illegittimi, il parametro di cui all’art. 76 Costituzione ha vissuto anche vicende avverse.
Dall’altro, un sindacato esteso ai profili di ordine logico-sistematico rispetto alla coerenza complessiva del sistema – e, quindi, di potenziale conflitto con i canoni di ragionevolezza, uguaglianza e bilanciamento tra contrapposti interessi – avrebbe potuto costituire strumento prezioso nell’interpretazione complessiva della disciplina in commento, anche in prospettiva della risoluzione degli ulteriori possibili profili di criticità residui (primo fra tutti, quello relativo all’interpretazione e all’applicazione dell’inciso “direttamente dimostrata in giudizio” di cui all’art. 3, co. 2, D. Lgs. 23/2015).
Ciò posto, ritenuta la rilevanza della questione ([30]) ed esclusa la manifesta infondatezza della medesima ([31]), con sentenza 22 febbraio 2024, n. 22, la Consulta conclude per l’illegittimità costituzionale della previsione “limitatamente alla parola «espressamente»”.
Analizzando la progressiva evoluzione della materia – per come delineata dalla riforma di cui alla Legge 92/2012, prima, e dal Decreto Legislativo 23/2015, poi – il Giudice delle Leggi evidenzia come la volontà del Legislatore sia quella di riservare la tutela reale ai soli licenziamenti viziati dalle violazioni più gravi: è un’impostazione, questa, che caratterizza non solo il rinnovato art. 18 Legge 300/1970, ma altresì, per quanto rafforzata da una più stretta delimitazione delle ipotesi di reintegrazione, il regime delle cosiddette “tutele crescenti”.
Al riguardo, la Corte Costituzionale ha opportunamente evidenziato come, “in linea di continuità con la legge n. 92 del 2012, anche il legislatore del 2015 [abbia] mantenuto, ai fini dell’applicabilità della tutela reintegratoria, la distinta previsione del «licenziamento discriminatorio, nullo e intimato in forma orale», secondo la ripartizione chiaramente enunciata nella rubrica dell’art. 2 del decreto legislativo stesso” ([32]), e ha rammentato, altresì, come il Legislatore del 2012 abbia collocato il licenziamento nullo – quale fattispecie di carattere generale, distinta da quella del licenziamento discriminatorio ([33]) – “in cima alla piramide della gravità delle violazioni che comportano la illegittimità del recesso datoriale, raggruppandole nella disciplina unitaria di cui ai primi tre commi di tale disposizione” ([34]).
Proprio il riformato art. 18, co. 1, Statuto Lavoratori, d’altronde, attrae a sé specifiche ipotesi di nullità del licenziamento (discriminatorio, intimato in concomitanza di matrimonio, correlato alla genitorialità, frutto di motivo illecito determinante) e si completa con una norma di chiusura – destinata a garantire la piena coerenza del sistema – da individuarsi nel richiamo a ogni altra ipotesi di licenziamento “riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge”.
In questo contesto, tuttavia, secondo la Consulta, l’effetto dell’introduzione dell’art. 2 D. Lgs. 23/2015 sarebbe quello di “sdoppiare” l’unitaria fattispecie di carattere generale delineata dall’art. 18 Legge 300/1970, distinguendo tra il licenziamento espressamente nullo, da un lato, e il licenziamento nullo privo di espressa previsione di nullità, dall’altro: proprio in questo si concretizzerebbe la funzione selettiva svolta dall’avverbio «espressamente», impiegato per individuare e circoscrivere le ipotesi di nullità riconducibili ai casi di reintegrazione. Sotto questo specifico profilo, la Corte Costituzionale condivide l’approccio interpretativo del Supremo Collegio nella parte in cui ha ritenuto che il carattere «espresso» della nullità esige che detta sanzione sia esplicitamente prevista quale conseguenza della violazione di una data norma imperativa (si pensi, per esempio, all’art. 51, co. 5, D. Lgs. 151/2001); diversamente argomentando, si giungerebbe a privare di qualsivoglia effetto l’avverbio «espressamente» con conseguente, e inammissibile, interpretatio abrogans.
Viene, così, necessariamente in rilievo – quale strumento di selezione delle ipotesi di nullità tutelate dalla reintegrazione – la distinzione tra nullità testuali e nullità virtuali, le quali ultime impongono all’interprete di verificare se l’ordinamento, nell’introdurre la norma imperativa, abbia altresì inteso farne derivare la nullità dell’atto ad essa contrario.
Tuttavia, se questo è, allora la questione di illegittimità sollevata con riferimento all’art. 76 Costituzione è fondata.
Questo afferma il Giudice delle Leggi rammentando, in primo luogo, come l’art. 1, co. 7, lett. c, Legge 183/2014 avesse demandato al Legislatore delegato di prevedere, “per le nuove assunzioni, [un] contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio, escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per l’impugnazione del licenziamento”, ed evidenziando come “il criterio direttivo, nella parte che rileva ai fini della presente questione, segn[i] i confini della tutela reintegratoria del lavoratore nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo delineando, in negativo, un ambito di esclusione, che vede la tutela solo indennitaria per i licenziamenti economici che risultino illegittimi, e, in positivo, uno di inclusione, riservato distintamente ai licenziamenti nulli e discriminatori e ad alcune specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato” ([35]).
Nel quadro così delineato, l’eccesso di delega investe la distinzione tra differenti ipotesi di nullità cui correlare forme di tutela oggettivamente diverse, relegando alla tutela meramente indennitaria i casi di nullità virtuale: distinzione non contemplata dalla Legge 183/2014 e, soprattutto, contraria al criterio direttivo che intendeva sanzionare con la reintegrazione tutti i casi di “licenziamenti nulli”.
Vero, infatti, che la delega legislativa può atteggiarsi in via oltremodo differente e “…non esclude ogni discrezionalità del legislatore delegato, la quale può essere più o meno ampia, in relazione al grado di specificità dei criteri fissati nella legge delega”, così che è sempre necessario, “per valutare se il legislatore abbia ecceduto da tali margini di discrezionalità, …individuare la ratio della delega, per verificare se la norma delegata sia con questa coerente” ([36]).
Parimenti vero, cionondimeno, che, “…ai sensi dell’art. 76 Cost., il legislatore delegante, nel conferire al Governo l’esercizio di una porzione della funzione legislativa, è tenuto a circoscriverne adeguatamente l’ambito, predeterminandone i limiti di oggetto e di contenuto, oltre che di tempo” e che, secondo il consolidato orientamento della Corte Costituzionale, “…la legge delega, fondamento e limite del potere legislativo delegato, non deve contenere enunciazioni troppo generali o comunque inidonee a indirizzare l’attività normativa del legislatore delegato, ma ben può essere abbastanza ampia da preservare un margine di discrezionalità, e un corrispondente spazio, entro il quale il Governo possa agevolmente svolgere la propria attività di “riempimento” normativo, la quale è pur sempre esercizio delegato di una funzione “legislativa”” ([37]).
Sicché, tenuto conto del grado di specificità dei principi e criteri direttivi, così come della maggiore o minore ampiezza dell’oggetto della delega, muovendo da una lettura interpretativa fedele tanto alla lettera quanto alla ratio della legge, ed evidenziando come “tra l’elemento letterale e quello funzionale-teleologico esista un rapporto inversamente proporzionale: meno preciso e univoco è il primo, più rilevante risulta il secondo” ([38]), il Giudice delle Leggi giunge al giudizio di illegittimità costituzionale per quattro distinti ordini di ragioni.
Sotto il profilo prettamente letterale, in primo luogo, la Consulta evidenzia come nel criterio direttivo di riferimento non sia contemplata, in alcun modo, la distinzione tra nullità «espressamente» previste e nullità derivanti alla violazione di norme imperative, ma prive dell’espressa previsione come conseguenza della loro violazione: il riferimento utile all’applicazione della tutela reintegratoria è esclusivamente e generalmente a tutti i “licenziamenti nulli”. Osserva, peraltro, come un’eventuale distinzione – inedita rispetto al complessivo quadro normativo di riferimento – avrebbe richiesto una previsione “(questa sì)” ([39]) espressa.
Sempre in prospettiva letterale, poi, il tenore dell’art. 1, co. 7, Legge Delega risulterebbe ancor più inequivoco in ragione dell’ulteriore ipotesi reintegratoria ivi prevista e della “…successiva limitazione a «specifiche fattispecie» riferita esclusivamente al «licenziamento disciplinare ingiustificato»; quindi il criterio direttivo ha previsto sì una distinzione, ma solo per il licenziamento disciplinare (per giustificato motivo soggettivo)”; così, “se il legislatore delegante avesse voluto una qualche distinzione anche tra le nullità l’avrebbe parimenti prevista, come per il licenziamento disciplinare” ([40]).
Da un punto di vista logico-sistematico, la Corte ritiene che la limitazione alla nullità testuale sia “eccentrica rispetto all’impianto della delega che mira ad introdurre per le «nuove assunzioni» una disciplina generale dei licenziamenti di lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, a copertura integrale per tutte le ipotesi di invalidità” ([41]): si porrebbe, dunque, in contraddizione con la volontà del Legislatore Delegante di regolare con la nuova disciplina tutti i licenziamenti illegittimi, riservando ai casi di nullità la reazione sanzionatoria più severa e riconoscendo tutela meramente indennitaria a tutte le altre ipotesi di illegittimità.
In questo contesto, il Legislatore Delegato non poteva ritenersi legittimato a operare una distinzione interna tra differenti fattispecie di licenziamento nullo.
Di fatto, peraltro, la previsione introdotta all’art. 2, co. 1, D. Lgs. 23/2015 restituisce un quadro regolatorio incompleto e incoerente rispetto ai criteri direttivi cristallizzati nella Legge 183/2014: la portata letterale e sistematica dell’avverbio «espressamente», difatti, lascia privi di regolamentazione – nulla avendo previsto, al riguardo, il Jobs Act – i licenziamenti nulli derivanti da fattispecie sfornite dell’espressa previsione della nullità, ma comunque estranee alle ipotesi regolate dagli artt. 3ss. D. Lgs. 23/2015.
Infine, sempre da un punto di vista sistematico, la Consulta valorizza “l’inedito ribaltamento della regola civilistica dell’art. 1418, primo comma, cod. civ., che prevede la nullità come sanzione della violazione di norme imperative e la esclude qualora si rinvenga una legge che disponga diversamente; qui la previsione “diversa” serve, all’opposto, a derogare alla nullità che consegue alla violazione di norme imperative” ([42]).
Ecco, quindi, che “l’eccesso di delega per violazione del sopra richiamato criterio direttivo trova riscontro sia nell’univoca “lettera” di quest’ultimo, che ammette distinzioni per i licenziamenti disciplinari, ma non anche per quelli nulli, sia nell’interpretazione sistematica per la contraddittorietà di una distinzione che non si accompagni, diversamente che per i licenziamenti disciplinari, alla previsione del tipo di tutela applicabile alla fattispecie esclusa dal regime della reintegrazione” ([43]).
4. Concludendo.
Nell’affermare l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, co. 1, D. Lgs. 23/2015 limitatamente alla parola «espressamente», il Giudice delle Leggi chiarisce che, “per effetto di tale pronuncia il regime del licenziamento nullo è lo stesso, sia che nella disposizione imperativa violata ricorra anche l’espressa (e testuale) sanzione della nullità, sia che ciò non sia espressamente previsto, pur rinvenendosi il carattere imperativo della prescrizione violata e comunque «salvo che la legge disponga diversamente». Occorre, però, pur sempre che la disposizione imperativa rechi, in modo espresso o no, un divieto di licenziamento al ricorrere di determinati presupposti” ([44]).
Il quadro normativo restituito all’interprete risulta, a dispetto del limitato thema decidendum oggetto di pronunzia, pienamente rispettoso dei fondamentali parametri di ragionevolezza e uguaglianza di cui all’art. 3 Costituzione.
Il capitolo delle nullità racchiude in sé la reazione dell’ordinamento alle condotte datoriali connotate dal più elevato grado di antigiuridicità e riprovevolezza: a parità di disvalore e contrarietà alla legge della condotta, allora, non vi era modo di legittimare una differente reazione sanzionatoria per il sol fatto del diverso riferimento temporale di inizio della relazione lavorativa.
Il sistema sanzionatorio “riscritto” dalla Corte Costituzionale, peraltro, risulta altresì più coerente e rispettoso della ratio sottesa al disegno del Legislatore Delegante, la cui volontà – di fatto – parrebbe essersi pienamente attuata solo in virtù dell’intervento della Consulta: nonostante il criterio direttivo fondamentale della Legge 183/2014 fosse quello di dar vita a “un testo organico semplificato delle discipline delle tipologie contrattuali e dei rapporti di lavoro”, difatti, il Decreto Legislativo 23/2015 aveva delineato un regime parziale e incompleto.
Il rilievo induce a riflettere in merito al dibattito, sempre più acceso, sugli effetti – complessivamente considerati – delle molteplici pronunzie della Consulta in materia di licenziamenti illegittimi, della sostanziale ridefinizione di plurime e fondamentali norme cui si è recentemente assistito. Il riferimento, in particolare, è alle obiezioni di quella Autorevole Dottrina ([45]) che ritiene che il quadro normativo così ricostruito sarebbe foriero di grandi incertezze e, peraltro, non coerente con quello voluto dal Legislatore delle Leggi 92/2012 e 183/2014 che avrebbe assistito, con il susseguirsi delle pronunzie di illegittimità costituzionale, alla progressiva demolizione della riforma avviata nello scorso decennio, con severa frustrazione – rectius, negazione – dei principi che vi erano sottesi.
Invero, si è detto, l’intervento di cui alla sentenza 22 febbraio 2024, n. 22, parrebbe aver prodotto il risultato opposto, riportando a unità e coerenza l’attuazione dell’originario disegno legislativo; vi è da chiedersi se questo non sia, in prospettiva ben più ampia, l’effetto sulla complessiva moderna fisionomia della disciplina dei licenziamenti illegittimi, proprio in ragione dell’evoluzione voluta e tratteggiata nel passaggio dall’originario art. 18 Statuto dei Lavoratori alla Riforma Fornero e, poi, dalla Riforma Fornero al Jobs Act.
Il tema, tanto provocatorio e stimolante, quanto ampio e complesso, non può trovar spazio in questo primo (e, inevitabilmente, parziale) esame delle ricadute dell’ultimo intervento della giustizia costituzionale; non vi è tuttavia dubbio che, una volta ancora, la materia del licenziamento sia rimasta fedele a sé stessa, dimostrando di esser ben lontana dal conoscere stabilità, ma pur sempre capace di offrire spunti continui di approfondimento e riflessione.
([1]) Ossia, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro – indipendentemente dal motivo formalmente addotto e quale che sia il numero dei dipendenti del datore di lavoro – oltre al risarcimento con un’indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, e in ogni caso non inferiore a cinque mensilità, dedotto il solo aliunde perceptum.
([2]) Si è opportunamente osservato che “la funzione aggregante del riformato art. 18, co. 1, consente pertanto di ricondurre alla tutela lavoristica tutti i licenziamenti affetti da nullità, con ciò evitando che, con il rimedio civilistico ex art. 1418 c.c. venga meno il diritto all’erogazione di un risarcimento minimo di 5 mensilità in favore del lavoratore licenziato, oppure il diritto del lavoratore a ottenere quindici mensilità in caso di rifiuto alla reintegrazione” (in questo senso, Borelli S., Guariso A. e Lazzeroni L., Le discriminazioni nel rapporto di lavoro, in Aa.Vv. (a cura di Barbera M. e Guariso A.), La tutela antidiscriminatoria. Fonti, strumenti, interpreti, Torino, 2019, 224).
([3]) Previsione che trova applicazione nei soli confronti dei lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri, e che siano stati assunti con decorrenza 7 marzo 2015 (data di entrata in vigore del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23).
([4]) Carinci M.T., Il licenziamento nullo perché discriminatorio, intimato in violazione di disposizioni di legge o in forma orale, in Aa.Vv. (a cura di Carinci M.T. e Tursi A.), Jobs Act. Il contratto a tutele crescenti, Torino, 2015, 51.
Per una riflessione sulla “funzione delle categorie civilistiche nel diritto del lavoro”, si veda Santoro Passarelli G., La regolazione del mercato del lavoro dopo il Jobs Act – Parte II - Sulle categorie del diritto del lavoro “riformate”, in Diritto delle Relazioni Industriali, 2016, 1, 7ss.
Per un’analisi approfondita delle tipologie di nullità, si veda Bellocchi P., La nullità del licenziamento nel decreto legislativo n. 23/2015, inDiritto delle Relazioni Industriali, 2018, 1, 145ss.; l’Autrice propone di riflettere su “nullità speciali vs. nullità generali”, osservando che “il giudizio circa la nullità del licenziamento, sul terreno dell’applicazione di un rimedio di diritto speciale qual è la reintegra (ex articolo 2 come ex articolo 18), deve essere condotto non secondo le cause generali di nullità dei contratti ai sensi dell’articolo 1418 c.c., ma nella sedes materiaedella normativa giuslavoristica, ricercando e distinguendo specifiche fattispecie di nullità del recesso”, e sostiene che “Non a caso il motivo illecito di cui all’articolo 1345 c.c. è correttamente la previsione di chiusura dell’articolo 18, costituendo il ponte tra la legislazione speciale sui licenziamenti (cui si riferiscono i vizi di nullità precedenti, quelli testuali da discriminazione e da matrimonio e maternità/paternità, e quegli altri non meglio specificati) e i vizi di diritto comune, quale il motivo illecito (e, per estensione, la frode alla legge pur non richiamata). A questa opzione di fondo contraria ad ogni interferenza tra nullità specifiche e nullità generali si è attenuto l’articolo 2, confermandola ed anzi, come si vedrà nel par. successivo, rafforzandola. Gli altri casi di nullità nascono cioè da altre norme dell’ordinamento (non necessariamente extra-codicistiche, come dimostrano l’articolo 2110 c.c. o l’articolo 2112 c.c.), per l’appunto speciali, in quanto deputate alla regolamentazione di situazioni particolari: devono essere ricercati ratione materiae nel contesto delle discipline specifiche che in vario modo limitano il potere di licenziamento, tipizzando (se non sanzioni) fattispecie di recesso inibito. È su questo terreno che il legislatore delegante intende intervenire, senza la storica frattura conseguente alle soglie occupazionali” (Bellocchi P., cit., 156-157ss.). Ne consegue che “…la prescrizione “espressamente” non è in realtà spiegabile se riferita alla enunciazione formale del vizio di nullità del recesso, ma proprio e solo se riferita al precetto primario. Con essa il legislatore delegato ha inteso individuare tutte le norme che, nel disegno di ricomposizione del sistema sanzionatorio sotteso al decreto legislativo n. 23/2015, si occupano del potere di licenziamento stabilendo limiti speciali al suo esercizio. Sono i casi in cui la legge esclude espressamente che una determinata situazione possa integrare una valida giustificazione del recesso: si potrebbe parlare di un divieto di licenziamento giustificato, ossia fondato su talune motivazioni. La maggior parte di essa si ricava, a contrario, dai disposti che garantiscono al lavoratore il diritto alla conservazione del posto. Si tratta delle ipotesi in cui, per dirla con terminologia di Roppo, l’espressa qualificazione legislativa in termini di nullità non solo non è necessaria ma creerebbe altrettanti casi di nullità testuale superflua, essendo il vincolo sostanziale al potere di licenziamento univoco ed autosufficiente” (Bellocchi P., cit., 158).
([5]) Così, Pasqualetto E., Il licenziamento discriminatorio e nullo nel “passaggio” dall’art. 18 Stat. Lav. all’art. 2, d. lgs. n. 23/2015, inAa.Vv. (a cura di Carinci F. e Cester C.), Il licenziamento all’indomani del d.lgs. n. 23/2015, 2015, 56; l’Autrice riflette in termini di “netto ripudio della teoria della nullità virtuale in materia di licenziamenti ad opera dell’art. 2 del d.lgs. n. 23/2015”, Pasqualetto E., cit., 60. In questo stesso senso, Treu T., Jobs Act: prime riflessioni sui decreti attuativi, in Guida al Lavoro, 2015, 3, 12ss. Contra, Musella C., I licenziamenti discriminatori e nulli, in Aa.Vv. (a cura di Ferraro G.), I licenziamenti nel contratto “a tutele crescenti”, Padova, 2015.
([6]) Ossia, attuare una completa e organica riorganizzazione del sistema delle tutele per i casi di licenziamento illegittimo, così favorendo fondamentali esigenze di certezza del diritto.
([7]) Le quali dovrebbero garantire “l’uniformità delle tutele, superando le possibili obiezioni d’irrazionalità d’un duplice regime diacronico”, in questo senso, Basilico M., Il licenziamento nullo, Aa.Vv. (a cura di Di Paola L.), Il licenziamento. Dalla Legge Fornero al Jobs Act, Milano, 2016, 112-113, che opportunamente riflette sullo “assetto ancora più frastagliato ed incerto negli effetti” cui si perverrebbe in ragione di una “lettura restrittiva della clausola legislativa” di cui all’art. 2 D. Lgs. 23/2015 e che, del tutto condivisibilmente, riferisce l’uso dell’avverbio “espressamente” alla formulazione oltremodo sintetica impiegata dal legislatore del Jobs Act. Medesimo orientamento è proprio di Carinci M.T., Il licenziamento nullo perché discriminatorio, intimato in violazione di disposizioni di legge o in forma orale, in Aa.Vv. (a cura di Carinci M.T. eTursi A.), Jobs Act. Il contratto a tutele crescenti, Torino, 2015, 27ss.; Bertoncini M., Il regime di cui al decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, in Aa.Vv. (a cura di Colosimo C.), La cessazione del rapporto di lavoro, Santarcangelo di Romagna, 2021, 356ss.
([8]) Santoro Passarelli G., L’evoluzione del diritto vivente e i problemi applicativi del Jobs Act, in Diritto delle Relazioni Industriali, 2022, 4, 1080.
([9]) Come noto, l’art. 1, co. 7, lett. c), Legge 183/2014 aveva demandato al legislatore delegato di limitare “il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato…”.
([10]) Vi è chi ha affermato che “tale interpretazione letterale, che rigorosamente restringe il campo di applicazione della nullità e, conseguentemente, il rimedio reintegratorio previsto dall’art. 2, co. 1, deve tuttavia essere attentamente vagliata, e contemperata con esigenze di interpretazione sistematica, la cui obliterazione conduce a risultati aberranti”, così Perulli A., La disciplina del licenziamento individuale nel contratto a tutele crescenti. profili critici, in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, 2015, 3, 431.
([11]) Ossia, la riammissione in servizio con il pagamento di tutte le retribuzioni medio tempore maturate, dalla data della messa in mora all’effettivo reintegro.
([12]) Si rammenti che è principio consolidato quello per cui la nullità opera – non solo ove prevista espressamente – ma, altresì, in tutti i casi in cui ricorra la violazione di una norma imperativa (ex multis, Cass. Civ., Sez. II, 18 novembre 1997, n. 11450): come opportunamente osservato, “bisognerebbe, quindi, sostenere che la norma lavoristica ha inteso derogare a tale principio, richiedendo sempre in forma espressa la comminazione della sanzione”, così Speziale V., Il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti tra costituzione e diritto europeo, in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, 2016, 1, 118.
([13]) L’art. 1418 c.c. prevede, difatti, che “il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente. Producono nullità del contratto la mancanza di uno dei requisiti indicati dall’articolo 1325, l’illiceità della causa, la illiceità dei motivi nel caso indicato dall’articolo 1345 e la mancanza nell’oggetto dei requisiti stabiliti dall’articolo 1346. Il contratto è altresì nullo negli altri casi stabiliti dalla legge”. In questo senso, Speziale V., cit., 117ss.; vedi anche Trib. Perugia, 15 marzo 2019.
([14]) Perulli A., La disciplina del licenziamento individuale nel contratto a tutele crescenti. profili critici, in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, 2015, 3, 432; sulla base delle suddette premesse, l’Autore riflette in ordine all’impiego delle categorie civilistiche generali e sulle possibili ricadute in punto di tutele.
([15]) Ad esempio, Cass. Civ., Sez. Lav., 23 giugno 2000, n. 8582, in materia di diritto alla prosecuzione del rapporto per raggiungere il massimo contributivo, ex art. 6 Legge 54/1982. Così, App. Firenze, 11 febbraio 2021, n. 134.
([16]) Trib. Perugia, Sez. Lav., 15 marzo 2019, n. 58, parte motiva.
([17]) Trib. Ravenna, Sez. Lav., 7 gennaio 2021, n. 578, parte motiva; in questo senso, sempre in relazione alla normativa emergenziale Covid-19, Trib. Mantova, Sez. Lav., 11 novembre 2020, n. 112.
([18]) App. Milano, Sez. Lav., 16 maggio 2022, n. 481; in ordine alla suddetta affermazione, il Collegio osserva: “La tesi qui propugnata trova un solido supporto nella sentenza delle Sezioni Unite che, pur trattando la materia del licenziamento per superamento del periodo di comporto, fissa principî applicabili anche al caso che ci occupa. Afferma Cass., SS.UU., 22 maggio 2018, n. 12568 che «mentre l’oggetto dell’accertamento giurisdizionale va calibrato in ragione del motivo di licenziamento enunciato, l’individuazione dell’eventuale sanzione applicabile (nullità, inefficacia, annullamento etc.) va pur sempre parametrata al fatto come in concreto emerso all’esito del giudizio, a prescindere dall’originaria prospettiva di parte datoriale. […] L’opzione ermeneutica della mera inefficacia non può suffragarsi neppure adducendo che, ad ogni modo, la fattispecie legittimante il recesso (vale a dire il superamento del periodo di comporto) si potrebbe realizzare successivamente: a ciò agevole obiettare che i requisiti di validità del negozio vanno valutati al momento in cui viene posto in essere […] e non già al momento della produzione degli effetti […]. Deve altresì escludersi che il licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto, ma anteriormente alla sua scadenza, sia meramente ingiustificato, tale dovendosi invece considerare solo quello che venga intimato mediante enunciazione d’un giustificato motivo o d’una giusta causa che risulti, poi, smentita (in punto di fatto e/o di diritto) all’esito della verifica giudiziale. […] Né per definire come meramente ingiustificato il licenziamento intimato prima dello spirare del termine massimo di comporto si dica che, esclusa tale ipotesi, quel che residua è un licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo e, come tale, ingiustificato: si tratta d’un mero artificio dialettico che trascura il dato di fatto che il licenziamento è stato pur sempre intimato per il protrarsi delle assenze del lavoratore sul presupposto giuridicamente erroneo (perché contrastante con l’art. 2110 cod. civ., comma 2) che ciò sia consentito ancora prima dello spirare del termine massimo di comporto. Diversamente opinando, qualunque licenziamento nullo (perché discriminatorio, viziato da motivo illecito determinante o lesivo di norma imperativa di legge) verrebbe pur sempre a collocarsi nell’area della mera mancanza di giustificazione. Deve, invece, darsi continuità alla giurisprudenza di questa S.C. che considera nullo il licenziamento intimato solo per il protrarsi delle assenze dal lavoro, ma prima ancora che il periodo di comporto risulti scaduto […]. Muovendo dall’interpretazione, dell’art. 2110 cod. civ., comma 2, […] va evidenziato che il carattere imperativo della norma, in combinata lettura con l’art. 1418 cod. civ., non consente soluzioni diverse». In conclusione, quindi, il D.Lgs. n. 23/2015 si presta ad una ricostruzione sistematica nella quale la norma generale di chiusura del sistema è data dall’art. 2, e non dall’art. 3, comma 1, che, viceversa, è dedicato alla regolazione di una fattispecie precisa e limitata. Tale fattispecie è quella del licenziamento per giustificato motivo o giusta causa che non vengano adeguatamente dimostrate in giudizio. Un licenziamento ad nutum, viceversa, sarà valido ed efficace se adottato nei casi e limiti consentiti dall’ordinamento; in difetto di tali condizioni, invece, sarà un licenziamento illecito e, come tale, nullo. La sua sanzione, nell’ambito delle «tutele crescenti» sarà pertanto quella propria prevista dall’art. 2”.
([19]) Corte Cost., 22 febbraio 2024, n. 22.
([20]) A mente del quale “l’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti”.
([21]) Cass. Civ., Sez. Lav., 7 aprile 2023, n. 9530, pt. 4 e 5.
([22]) Cass. Civ., Sez. Lav., 7 aprile 2023, n. 9530, pt. 15.
([23]) Cass. Civ., Sez. Lav., 7 aprile 2023, n. 9530, pt. 11.
([24]) Cass. Civ., Sez. Lav., 7 aprile 2023, n. 9530, pt. 9.
([25]) Cass. Civ., Sez. Lav., 7 aprile 2023, n. 9530, pt. 10.
([26]) Cass. Civ., Sez. Lav., 7 aprile 2023, n. 9530, pt. 16.
([27]) Corte Cost., 18 luglio 2019, n. 97, parte motiva. Nello stesso senso, ex plurimis, Corte Cost., 21 luglio 2016, n. 203; vedi anche, Corte Cost., 16 luglio 2016, n. 169; Corte Cost., 6 maggio 2011, n. 162.
([28]) Corte Cost., 18 luglio 2014, n. 211, parte motiva.
([29]) Così, Amoroso G. e Parodi G., Il giudizio costituzionale, Milano, 2020, 161.
([30]) In quanto “nel giudizio principale ricorre, secondo il diritto vivente, una fattispecie di licenziamento nullo per violazione di norme imperative (art. 53 e 54 citati), senza che in esse sia prevista “espressamente” la nullità dell’atto (il licenziamento) come conseguenza di tale violazione” (Corte Cost., 22 febbraio 2024, n. 22, pt. 3.2.).
([31]) Posto che la Corte di Cassazione “ha diffusamente motivato in ordine alle ragioni per le quali, a suo giudizio, la norma censurata sia suscettibile del sollevato dubbio di legittimità costituzionale; chiara anche, nel petitum dell’ordinanza di rimessione, l’indicazione sul tipo di intervento richiesto, limitato alla caducazione dell’avverbio “espressamente”, dal cui inserimento nella disposizione censurata sarebbe derivato l’eccesso di delega” (Corte Cost., 22 febbraio 2024, n. 22, pt. 3.3.).
([32]) Corte Cost., 22 febbraio 2024, n. 22, pt. 4.1.
([33]) Cfr. Corte Cost., 22 febbraio 2024, n. 22, pt. 4.6.
([34]) Corte Cost., 22 febbraio 2024, n. 22, pt. 4.4.
([35]) Corte Cost., 22 febbraio 2024, n. 22, pt. 6.1.
([36]) Corte Cost., 8 luglio 2020, n. 142, pt. 3; si vedano anche le sentenze Corte Cost., 20 maggio 2020, n. 96, e Corte Cost., 30 gennaio 2018, n. 10.
([37]) Corte Cost., 11 maggio 2017, n. 104, pt. 3.1; ex multis, Corte Cost., 11 aprile 2008, n. 98, e Corte Cost., 23 maggio 1985, n. 158.
([38]) Rammenta la Consulta che “il controllo sul superamento dei limiti posti dalla legge di delega va, infatti, operato partendo dal dato letterale per poi procedere ad una indagine sistematica e teleologica per verificare se l’attività del legislatore delegato, nell’esercizio del margine di discrezionalità che gli compete nell’attuazione della legge di delega, si sia inserito in modo coerente nel complessivo quadro normativo, rispettando la ratio della norma delegante (sentenze n. 250 e n. 59 del 2016; n. 146 e n. 98 del 2015; n. 119 del 2013) e mantenendosi comunque nell’alveo delle scelte di fondo operate dalla stessa (sentenza n. 278 del 2016). È infatti costante l’affermazione secondo cui «per valutare se il legislatore abbia ecceduto [i] margini di discrezionalità, occorre individuare la ratio della delega per verificare se la norma delegata sia stata con questa coerente» (sentenza n. 153 del 2014 e, nello stesso senso, tra le altre, sentenze n. 175 del 2022; n. 231 e n. 174 del 2021; n. 184 del 2013; n. 272 del 2012 e n. 230 del 2010; inoltre, con riferimento alla materia penale, sentenza n. 105 del 2022).”, Corte Cost., 22 febbraio 2024, n. 22, pt. 8.
([39]) Corte Cost., 22 febbraio 2024, n. 22, pt. 9.
([40]) Corte Cost., 22 febbraio 2024, n. 22, pt. 9.
([41]) Corte Cost., 22 febbraio 2024, n. 22, pt. 10.
([42]) Corte Cost., 22 febbraio 2024, n. 22, pt. 10.2.
([43]) Corte Cost., 22 febbraio 2024, n. 22, pt. 10.3.
([44]) Corte Cost., 22 febbraio 2024, n. 22, pt. 11.
([45]) Per un approfondimento della materia – tenuto conto dei vari approcci della Dottrina – si vedano, Santoro-Passarelli G., L’evoluzione del diritto vivente e i problemi applicativi del Jobs Act, in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, 2022, 4, 1073ss.; Armone G., Le tutele contro i licenziamenti illegittimi nella giurisprudenza costituzionale, in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, 2022, 3, 411ss.; Preteroti A., Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo dopo le sentenze della Corte costituzionale: nuove soluzioni (applicative) generano nuovi problemi (di sistema), in Lavoro Diritti Europa, 2022, 3; Menegon D., La tutela dal licenziamento illegittimo nella disciplina del contratto a tutele crescenti: spunti di riflessione per un intervento coerente con la giurisprudenza costituzionale, in Lavoro Diritti Europa, 2024, 1. Si considerino, altresì, Del Punta R.,Genesi e destini della riforma dell’art. 18, in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, 2023, 3, 275ss.; saggio tratto da Lavoro Diritti Europa, 2022, 2; Caruso B., Il rimedio della reintegra come regola o come eccezione? La Cassazione sui licenziamenti disciplinari nel cono d’ombra delle decisioni della Corte Costituzionale, in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, 2022, 3, 301ss.; Perrone F., L’espansione del principio lavorista nelle sentenze costituzionali n. 59/2021 e n. 125/2022 sul giustificato motivo oggettivo di licenziamento, in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, 2022, 3, 395ss.
(Immagine: Fernand Leger, Les Constructeurs, particolare, olio su tela, 1950)
Segue da Il nuovo Tribunale persone minori e famiglie: cosa occorrerebbe fare entro il 17 ottobre 2024 perché possa funzionare (parte prima) paragrafi da 1 a 1.2.3. eIl nuovo Tribunale persone minori e famiglie: cosa occorrerebbe fare entro il 17 ottobre 2024 perché possa funzionare (parte seconda) paragrafi da 2 a 3.10.
Il nuovo Tribunale persone minori e famiglie: cosa occorrerebbe fare entro il 17 ottobre 2024 perché possa funzionare
PARTE TERZA
di Domenico Pellegrini
Sommario: 1. Premessa: riepilogo sintetico delle attività preliminari per l’avvio del TPMF e ipotesi di cronoprogramma - 1.1. Ipotesi di cronoprogramma - 1.2. Ipotesi circa il fabbisogno di risorse - 1.2.1. Ipotesi 1: lo studio del Dog - 1.2.2. Ipotesi 2: un calcolo secondo i carichi esigibili - 1.2.3. Osservazioni su fabbisogno, aumento dei carichi di lavoro e gestione pendenze ante 17 ottobre 2024 - 2. Analisi delle attività necessarie per l'avvio del nuovo TPMF - 2.1. Le scadenze previste dal D.lgs 149/2022 - 3. I profili ordinamentali del nuovo TPMF - 3.1. Istituzione del TPMF - 3.2. Composizione del nuovo TPMF: i magistrati ordinari (art. 50) - 3.3. Il settore penale della sezione distrettuale - 3.4. Istituzione dei Presidenti di sezione - 3.5. L’ufficio per il processo nel TPMF - 3.5.1. Costituzione e composizione dell’ufficio per il processo presso le sezioni distrettuali e le sezioni circondariali - 3.5.2. I funzionari addetti all’ufficio per il processo - 3.5.3. Funzioni e compiti dei giudici onorari di pace (art. 14) - 3.5.4. Funzioni e compiti dei giudici onorari esperti (art. 15) - 3.6. Composizione del nuovo TPMF: aspetti critici nell’assegnazione dei giudici esperti - 3.7. Composizione del nuovo TPMF: aspetti critici nell’assegnazione dei giudici onorari di pace - 3.8. Composizione del nuovo TPMF: aspetti critici nell’assegnazione degli addetti all’Ufficio per il Processo - 3.9. Composizione del nuovo TPMF: il personale amministrativo - 3.10. Composizione del nuovo TPMF: i dirigenti amministrativi - 4. Le competenze del nuovo TPMF - 4.1. Funzioni e attribuzioni del TPMF - 4.1. La ripartizione degli affari tra la sezione distrettuale e le sezioni circondariali (art.50.5 O.G.) - 4.1.1. Tipologie di procedimenti già di competenza del Tribunale per i Minorenni che diventano di competenza della sezione circondariale - 4.2.2. Tipologie di procedimenti del Tribunale Ordinario che passano alla competenza delle sezioni circondariali del TPMF - 4.2.3. Tipologie di procedimenti del TM che restano di competenza della sezione distrettuale del TPMF - 4.2.4. Nuove competenze della sezione distrettuale - 4.2.5. Ripartizione degli affari tra sezione distrettuale e sezione circondariale e questioni di competenza (ART. 50.5 u.c.) - 5. L'organizzazione tabellare del TPMF - 5.1. La composizione dell’organo giudicante (art.50.4) - 5.2. I criteri tabellari di assegnazione dei giudici alle sedi circondariali - 5.3. L’assegnazione dei giudici per singoli procedimenti - 5.4. La previsione tabellare degli incarichi di coordinamento - 6. La definizione dei procedimenti pendenti - 6.2. Sintesi dei flussi lavorativi da TO a TPMF - 6.3. I rapporti tra TO e TPMF Sez. Circondariale - 6.4. I rapporti tra TO e TPMF Sez. distrettuale - 6.5. I rapporti tra TPMF sez. distrettuale e sez. circondariale - 6.6. La duplicazione del Giudice Tutelare: aspetti problematici - 6.7. La riorganizzazione dei Tribunali Ordinari - 6.8. La riorganizzazione delle Corti di Appello - 7. Requisiti per l'avvio del nuovo TPMF - 7.1. Il fabbisogno organico complessivo - 7.1.1. Il metodo di calcolo del fabbisogno delle sezioni circondariali e distrettuali e delle Procure nello studio del DOG: magistrati - 7.1.2. Il metodo di calcolo del fabbisogno delle sezioni circondariali secondo i carichi esigibili: magistrati - 7.1.3. Il metodo di calcolo del fabbisogno delle sezioni circondariali e distrettuali e delle Procure nello studio del DOG: personale amministrativo - 7.2. Applicazione degli istituti di flessibilità - 7.3. Le dotazioni informatiche - 7.4. Le elaborazioni statistiche.
4. Le competenze del nuovo TPMF
4.1. Funzioni e attribuzioni del TPMF
Secondo l’art. 50.1. O.G. il TPMF
a) esercita la giurisdizione in primo e in secondo grado, in materia civile nei procedimenti aventi ad oggetto lo stato e la capacità delle persone, la famiglia, l'unione civile, le convivenze, i minori;
b) esercita la giurisdizione in primo grado in materia penale e nella materia della sorveglianza;
c) esercita le funzioni di giudice tutelare;
d) esercita nei modi stabiliti dalla legge le altre funzioni ad esso deferite.
Non rientrano nella competenza del tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie i procedimenti aventi ad oggetto la cittadinanza, l'immigrazione e il riconoscimento della protezione internazionale.
4.2. La ripartizione degli affari tra la sezione distrettuale e le sezioni circondariali (art.50.5 O.G.)
a) Presso la sezione circondariale del tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie sono trattati i procedimenti previsti dagli articoli 84, 90, 250, quinto comma, 251, 317-bis, secondo comma, 330, 332, 333, 334, 335, 371, secondo comma, e 403 del codice civile, dai titoli I e I-bis della legge 4 maggio 1983, n. 184, e dall'articolo 31 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, nonché tutti i procedimenti civili riguardanti lo stato e la capacità delle persone, la famiglia, l'unione civile, le convivenze e i minori, unitamente alle domande di risarcimento del danno connesse per l'oggetto o per il titolo, e i procedimenti di competenza del giudice tutelare.
b) Presso la sezione distrettuale del tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie sono trattati, nella materia civile, i procedimenti di primo grado attribuiti alla competenza del tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie diversi da quelli indicati al primo comma, nonché i giudizi di reclamo e di impugnazione avverso i provvedimenti pronunciati dalla sezione circondariale. Sono inoltre trattati presso la sezione distrettuale tutti i procedimenti attribuiti al tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie nella materia penale e nelle altre materie previste dalla legge.
4.2.1. Tipologie di procedimenti già di competenza del Tribunale per i Minorenni che diventano di competenza della sezione circondariale
4.2.2. Tipologie di procedimenti del Tribunale Ordinario che passano alla competenza delle sezioni circondariali del TPMF
4.2.3. Tipologie di procedimenti del TM che restano di competenza della sezione distrettuale del TPMF
4.2.4. Nuove competenze della sezione distrettuale
4.2.5. Ripartizione degli affari tra sezione distrettuale e sezione circondariale e questioni di competenza (ART. 50.5 u.c.)
La ripartizione degli affari tra la sezione distrettuale e la sezione circondariale o tra diverse sezioni circondariali dello stesso tribunale non dà luogo a questioni di competenza.
5. L'organizzazione tabellare del TPMF
5.1. La composizione dell’organo giudicante (art.50.4)
La sezione circondariale del tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie giudica in composizione monocratica.
Va osservato che la norma di cui all’art. 403 c.c. prevede una conferma della convalida con provvedimento collegiale (con necessaria previsione tabellare con collegio composto per i circondariali più piccoli con giudici assegnati ad altre sezioni circondariali) ed un reclamo presso la Corte d’Appello.
Per ragioni sistematiche, visto che i reclami ai provvedimenti del circondario ricadono sulla sezione distrettuale, anche il reclamo sul provvedimento ex art. 403 c.c. dovrà essere di competenza della sezione distrettuale. Il legislatore dovrà pertanto valutare una modifica della norma attribuendo il reclamo alla sezione distrettuale.
Peraltro si pone un ulteriore problema per i provvedimenti ex art 403 cc collegati a procedimenti di adottabilità. Se la convalida monocratica è attribuita al circondario (e quindi a giudice che non conosce la procedura “principale”) il reclamo avverso la conferma collegiale verrebbe disposto innanzi al giudice che sta procedendo sull’adottabilità. Se è invece attribuita al giudice che procede, la sezione distrettuale, il reclamo avverso il provvedimento collegiale di conferma dovrebbe essere proposto innanzi al medesimo giudice con evidenti problemi di incompatibilità in tutte le sedi medio-piccole. Peraltro, posto che l’appello nelle procedure di adottabilità rimane di competenza della Corte d’Appello, anche il reclamo ai provvedimenti ex art 403 cc potrebbe essere dello stesso giudice.
La sezione distrettuale giudica:
a) in composizione collegiale con collegio composto da due magistrati e due giudici onorari esperti:
· nei procedimenti previsti dai titoli II, III e IV della legge 4 maggio 1983, n. 184;
· in materia penale;
· nelle altre materie attribuite alla sua competenza;
b) in composizione collegiale con il numero di tre componenti;
· in materia civile;
c) in composizione monocratica per gli atti di competenza del giudice delle indagini preliminari;
d) in composizione collegiale con collegio composto da un magistrato e da due giudici onorari esperti della stessa sezione nell'udienza preliminare e nel giudizio abbreviato richiesto dall’imputato in seguito a un decreto di giudizio immediato;
e) in composizione monocratica per le funzioni di giudice di sorveglianza ed in composizione collegiale (2 togati e 2 onorari) per il Tribunale di Sorveglianza.
5.2. I criteri tabellari di assegnazione dei giudici alle sedi circondariali
In base all’art. 50 O.G. sono le tabelle che stabiliscono la assegnazione del giudice alla sede distrettuale o alla sede circondariale.
I giudici possono quindi essere assegnati:
a. solo alla sezione distrettuale
b. solo ad una sezione circondariale
c. alla sezione distrettuale e a una sezione circondariale
d. a più sezioni circondariali
e. alla sezione distrettuale e a più sezioni circondariali
CONSIDERAZIONI
Nella predisposizione delle tabelle occorre tenere presente:
a) il criterio legislativo (art. 50 O.G. penultimo comma) secondo cui: A ciascuna sezione deve essere destinato un numero congruo di giudici;
b) le competenze di ciascuna sezione (distrettuale e circondariali);
c) le riserve in materia penale previste dagli artt. 50 bis e 51 O.G.;
d) il problema delle incompatibilità nei giudizi di reclamo e impugnazione;
e) la gestione distrettuale dei procedimenti pendenti ereditati dal TM.
A tale proposito va evidenziato che:
a) le sezioni distrettuali acquisiscono le competenze (già proprie della Corte di Appello) di giudice del reclamo e delle impugnazioni (la stima dei flussi di lavoro ad oggi è alquanto aleatoria essendo cambiato il rito del processo di famiglia);
b) nelle sezioni distrettuali vengono gestiti integralmente i procedimenti penali (per cui occorre prevedere il Giudice delle Indagini preliminari, il Giudice dell’Udienza preliminare (collegiale) e il Giudice del dibattimento (collegiale) oltre il Giudice di sorveglianza;
c) le sezioni distrettuali continueranno a gestire i procedimenti già di competenza del Tribunale per i Minori iscritti in data antecedente al 17 ottobre 2024;
d) le sezioni circondariali acquisiscono le competenze in materie delicate (procedimenti ex art. 330 e 333 c.c.) e soprattutto connotati da particolare urgenza (procedimenti ex art. 403 c.c.) che impongono la creazione di turni di reperibilità;
e) nel caso l’organizzazione del TPMF preveda che il giudice sia addetto contemporaneamente alla sezione distrettuale e a quella circondariale, si dovrà tenere conto, nel determinare il numero di giudici della sezione distrettuale, delle possibili incompatibilità in sede di reclamo e giurisdizione.
È evidente che nella formazione delle tabelle c’è una scelta di fondo da fare: creare un corpus magistratuale distrettuale distinto da quello assegnato ai circondari (che si occupi di reclami, penale, arretrato vecchio rito TM) o distribuire il lavoro complessivo tra tutti i giudici del TPMF con assegnazione tanto al distrettuale che al circondariale?
I Presidenti nelle proposte tabellari dovranno inoltre tener conto che i sensi dell’art 2 del D. Lvo 28 luglio 1989, n° 272 “nei tribunali per i minorenni l’assegnazione degli affari è disposta in modo da favorire la diretta esperienza di ciascun giudice nelle diverse attribuzioni della funzione giudiziaria minorile”. L’alternativa sarà pertanto tra una parziale promiscuità delle funzioni o una rotazione ragionata degli affari.
La scelta ha specifici riflessi:
a) nel settore penale: assegnare ai collegi penali solo giudici che prestano servizio nella sezione distrettuale o anche in quelle circondariali?
b) nella gestione dell’arretrato vecchio rito del Tribunale per i Minorenni: assegnazione solo ai giudici distrettuali o a più giudici anche circondariali?
Poiché appare opportuno, per quanto possibile, garantire la continuità del giudice nella trattazione del singolo procedimento, andrà valutato se i giudici distrettuali provenienti dal TM sono in grado di gestire, oltre l’arretrato, anche le nuove competenze in materia di reclami e impugnazioni (peraltro perdendo nel contempo le competenze in materia di procedimenti ex art. 403 c.c. che ad oggi sono estremamente impegnative per i TM).
La scelta di separare in modo radicale la composizione magistratuale delle sezioni distrettuali da quelle circondariali, in un ufficio ove non vige più il limite di permanenza decennale, potrebbe produrre, nel tempo, una differenziazione non ottimale tra giudici del reclamo e giudici del merito, differenziazione che oggi proprio per la previsione del limite decennale non si ravvisa in altri uffici simili (come ad esempio nel caso del Tribunale del Riesame ovvero nel Tribunale di Sorveglianza nel quale i giudici di sorveglianza partecipano anche alla composizione del collegio distrettuale).
Per quanto attiene ai giudici delle sezioni circondariali, poiché non in tutte le sezioni sarà possibile garantire la presenza di più di un giudice, occorrerà comunque garantire un meccanismo di supplenza per gli atti urgenti. Invero il giudice circondariale dovrà provvedere non solo sulle richieste ex art. 473-bis.15 c.p.c. o su quelle di competenza del giudice tutelare ma, soprattutto, sui procedimenti ex art. 403 c.c. di nuova attribuzione.
Il meccanismo di supplenza potrebbe essere garantito attraverso una coassegnazione di più giudici su più sedi in modo da evitare che in un circondario sia presente un solo giudice e così garantire una turnazione sostenibile delle reperibilità nei fine settimana.
5.3. L’assegnazione dei giudici per singoli procedimenti
L’art. 50 prevede che i giudici possono svolgere funzioni presso la sezione distrettuale e presso una o più sezioni circondariali del medesimo tribunale, anche per singoli procedimenti,
I criteri devono essere determinati dalle tabelle previste dall’articolo 7-bis.
È da chiarire se l’assegnazione a più sezioni per singoli procedimenti significa per tipologia di procedimenti (es. tutelare) oppure per procedimenti individuati con criteri predeterminati (pari/dispari etc) oppure solo in rifermento ad un singolo procedimento individuato con numero di registro generale.
Un’ipotesi inoltre potrebbe essere costituita dalla trasformazione di una procedura in precedenza aperta ex art 330/333 cc (di competenza del circondario) e trasformata dal PM a seguito di ricorso ex art 8 l. 184/83, in procedura di adottabilità di competenza della sezione distrettuale. Ciò al duplice fine di: a) evitare una dispersione del patrimonio conoscitivo; b) evitare fenomeni di forum shopping.
L’assegnazione per tipologie di procedimenti potrebbe permettere la creazione di una specializzazione interna inter-circondariale (es. giudice tutelare) nonché la trattazione comune tra più sezioni di alcune tipologie di procedimenti (es. procedure consensuali) con una ottimizzazione delle risorse.
5.4. La previsione tabellare degli incarichi di coordinamento
Le tabelle indicano:
a) la sezione o le sezioni circondariali che il presidente di sezione è incaricato di dirigere;
b) il magistrato addetto alla direzione della sezione circondariale a cui è attribuito il compito di organizzare il lavoro della sezione circondariale in cui non sono istituiti posti di presidente di sezione. In tale caso le tabelle indicano specificamente gli incarichi di coordinamento conferiti, consistenti nella direzione delle sezioni circondariali, nel coordinamento di uno o più settori dei servizi o di gestione del personale, in ogni altra attività collaborativa in tutti i settori nei quali essa è ritenuta opportuna.
6. La definizione dei procedimenti pendenti
1.1 Decorrenza delle norme ordinamentali relative al TPMF
Le disposizioni previste dalla sezione settima del capo IV:
a) hanno effetto decorsi due anni dalla data della pubblicazione del presente decreto nella Gazzetta Ufficiale (ossia dal 17 ottobre 2017);
b) si applicano ai procedimenti introdotti successivamente a tale data.
1.2. Definizione dei procedimenti pendenti davanti al TM al 16 ottobre 2024
I procedimenti civili, penali e amministrativi pendenti davanti al tribunale per i minorenni alla data di cui al comma 1 proseguono davanti alla sezione distrettuale del tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie con l'applicazione delle norme anteriormente vigenti.
1.3. Definizione dei procedimenti pendenti davanti al TO al 16 ottobre 2024
I procedimenti civili pendenti davanti al tribunale ordinario al 16 ottobre 2024 sono definiti da questo sulla base delle disposizioni anteriormente vigenti.
1.4. L’impugnazione dei procedimenti pendenti davanti al TO dal 17 ottobre 2024
L'impugnazione dei provvedimenti, anche temporanei, è regolata dalle disposizioni introdotte dal presente decreto: ossia è di competenza del TPMF.
1.5. Definizione dei procedimenti pendenti davanti al TO al 31 dicembre 2029
I procedimenti civili pendenti davanti al TO alla data del 1° gennaio 2030 proseguono davanti alla sezione circondariale del tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie.
1.6. Udienze fissate per date successive al 17 ottobre 2024 e al 1 gennaio 2029
L'udienza fissata davanti al tribunale per i minorenni per una data successiva al 17 ottobre 2024 si intende fissata davanti al tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie per i medesimi incombenti
L’udienza fissata davanti al tribunale ordinario per una data successiva al 1° gennaio 2030 si intende fissata davanti al tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie per i medesimi incombenti
I procedimenti sono trattati dagli stessi magistrati ai quali erano in precedenza assegnati, salva l'applicazione dell'articolo 174, secondo comma, del codice di procedura civile.
6.2. Sintesi dei flussi lavorativi da TO a TPMF
CONSIDERAZIONI
L’art. 49 ha previsto due meccanismi molto diversi per sezione distrettuale e sezione circondariale del TPMF:
a) la sezione distrettuale eredita l’intero arretrato del TM che continua a gestire con le precedenti norme (sia in tema di rito che in tema di composizione dell’organo giudicante);
b) la sezione circondariale non eredita arretrati dal TO (solo il 1 gennaio 2030 erediterà i procedimenti non ancora definiti dal TO).
Di conseguenza davanti alla sezione distrettuale del TPMF i procedimenti saranno trattati con tre riti diversi:
a) procedimenti iscritti prima del 28 febbraio 2023: si applica il rito precedente alla riforma Cartabia e la composizione del collegio è quella antecedente alla riforma Cartabia;
b) procedimenti iscritti dal 28 febbraio 2023 fino al 16 ottobre 2024: si applica la riforma Cartabia; a seguito delle proroghe legislative la composizione del collegio e l’attività dei giudici esperti è rimasta quella antecedente al 28 febbraio 2023;
c) procedimenti iscritti dal 17 ottobre 2024: si applica la riforma Cartabia; la composizione del collegio muta con esclusione (nel civile) dei giudici esperti.
6.3. I rapporti tra TO e TPMF Sez. Circondariale
Poiché il discrimine in ordine alla competenza è la data di iscrizione si ravvisano pochi casi di eventuale connessione tra le domande. Infatti:
a) le domande di separazione e di divorzio iscritte prima o dopo il 17 ottobre 2024 saranno trattate da giudici diversi a seconda della data di iscrizione;
b) nel caso di domande cumulative di separazione e divorzio iscritte prima del 17 ottobre 2024 resterà invece comunque competente il Tribunale ordinario;
c) la competenza sulle modifiche ex art. 473-bis.39 c.p.c. sarà determinata dalla data di iscrizione: qualora penda però procedimento antecedente al 17 ottobre 2024 presso il TO questo ufficio sarà competente per tutte le domande presentate in corso di causa;
d) la competenza sulle domande ex art. 473-bis.38 c.p.c. sarà determinata dalla data di iscrizione.
6.4. I rapporti tra TO e TPMF Sez. distrettuale
Il testo dell’art. 38 disp. att. c.c. necessita di una attenta revisione che tenga conto del nuovo assetto ordinamentale e dell’eventuale necessità di un regime transitorio.
L’articolo 38 fa esplicito riferimento al Tribunale per i Minorenni e al Tribunale Ordinario prevedendo un particolare procedimento di trasferimento della competenza in caso di contemporanea pendenza, superando il criterio della priorità a favore dell’attrazione verso la causa separativa.
Per i procedimenti instaurati dopo l’avvio della riforma ordinamentale non vi saranno problemi se la causa instaurata per prima sarà la vicenda separativa, perché, come già ora accade, una domanda di decadenza o di limitazione della responsabilità genitoriale sarà introdotta come nuova domanda trattandosi di un diritto indisponibile.
Se invece è stata instaurata una procedura ex art 333/330 cc da parte del PM ed una parte privata instaurerà una nuova procedura separativa (o ex art 337 ter cc per i figli nati fuori dal matrimonio), il giudice dovrà valutare la riunione dei due procedimenti applicando gli strumenti ordinari. Se le due procedure sono state instaurate innanzi a 2 giudici diversi si dovrà valutare se il criterio prevalente è la precedente iscrizione (criterio ritenuto prevalente nelle ipotesi di riunione) o se si debba applicare analogicamente il criterio fissato dall’art 38 disp att cc con prevalenza della vicenda separativa.
Probabilmente opportuna una norma transitoria per l’ipotesi dei procedimenti pendenti innanzi all’attuale Tribunale per i Minorenni ex art 330/333 cc con instaurazione di una causa separativa successivamente all’entrata in vigore della riforma ordinamentale innanzi ad una sezione circondariale del TPMF, trattandosi di ipotesi non prevista dall’art 38 disp att, trattandosi di uffici diversi.
6.5. I rapporti tra TPMF sez. distrettuale e sez. circondariale.
Va ricordato che la assegnazione degli affari tra sezione distrettuale e circondariale e tra sezioni circondariali non da origine a questioni di competenza.
Peraltro l’attuale formulazione dell’art. 38 disp. Att. cpc. appare obsoleta in quanto:
a) la sezione circondariale del TPMF è competente di fatto per tutte le procedure che oggi davano origine a litispendenza tra TM e TO;
b) solo le procedure di adottabilità restano al TPMF sez. distrettuale: ma in questo caso si deve ritenere che eventuali domande di separazione o divorzio o di regolamentazione dei rapporti tra genitori e figli (per gli aspetti economici) siano di competenza del TPMF sez. distrettuale per connessione o se debbano continuare a trovare applicazione i principi statuiti dalla Corte di Cassazione (Cass Sez. 6 - 1, Ordinanza n. 14842 del 15/07/2015 (Rv. 636192 - 01) anche in considerazione della diversa composizione del giudice e del diverso rito.
6.6. La duplicazione del Giudice Tutelare: aspetti problematici
La previsione normativa sulla gestione delle pendenze determinerà una duplicazione dei giudici tutelariin ogni circondario: un GT per gestire le pendenze fino ad esaurimento (31.12.2029) e un GT per gestire i nuovi processi presso il TPMF.
La norma sconta una evidente non comprensione dell’attività del GT che è soprattutto di gestione di procedure aperte che durano anni. Invero la definizione delle procedure di amministrazione di sostegno o tutele dipende, normalmente, da eventi naturali e non dall’attività del giudice che, viceversa, è chiamato a gestire e controllare tali procedure finché sono aperte.
Peraltro, duplicare i giudici tutelari, crea problemi organizzativi di non poco conto quali:
a) la necessità di gestire di fatto due cancellerie per procedure identiche;
b) la difficoltà per l’utenza di fare riferimento a giudici diversi (tra TO e sezione circondariale) che potrebbero essere collocati anche in uffici diversi;
c) la difficoltà per la sezione circondariale di calibrare esattamente le risorse per la gestione del ruolo dei giudici tutelari che all’inizio sarà limitato ma progressivamente aumenterà superando il ruolo in carico al TO (con problema inverso per il TO);
d) la necessità per il TO di gestire anche i reclami (laddove non si ritenga che i reclami contro i provvedimenti del GT, indipendentemente se riguardino procedure pendenti o meno al 17 ottobre 2024, siano di competenza della sezione distrettuale: in questo secondo caso, però, si porrà il problema di gestire l’acquisizione degli atti alla sezione distrettuale da due sistemi informatici di primo grado diversi);
e) la necessità di duplicare tutti i servizi (informazione al pubblico, orari di sportello, rapporti con i servizi sociali etc.).
Inoltre diverrà difficile, se non impossibile, coordinare procedure che riguardino membri della stessa famiglia (ad es. marito e moglie o genitore e figlio) se iscritte prima o dopo il 17 ottobre 2024 e quindi di competenza di due diversi uffici (con iscrizione su due registri informatici diversi).
A tali aspetti va aggiunto il rilievo che, ove non sia previsto il passaggio dei giudici onorari al nuovo TPMF, i giudici ordinari si dovranno sobbarcare un lavoro di gran lunga maggiore di quello attuale.
Stante la peculiarità del ruolo del giudice tutelare si impone una riflessione sull’opportunità di mantenere tale dicotomia.
6.7. La riorganizzazione dei Tribunali Ordinari
Il mantenimento delle pendenze al 16 ottobre 2024 presso il TO impone a tale ufficio di mantenere una previsione tabellare (e quindi di destinare risorse magistratuali e amministrative) per la trattazione di tali cause almeno fino al 31.12.2029.
L’assegnazione di tali risorse potrà diminuire nel tempo con la definizione dell’arretrato.
Aspetto problematico è dato dall’eventuale trasferimento al TPMF dei magistrati che trattavano la materia di famiglia: sussiste il rischio che i procedimenti pendenti debbano essere riassegnati a giudici in precedenza non specializzati nella materia di famiglia.
Tale problema potrebbe essere molto acuto per il settore del giudice tutelare che rappresentano una specializzazione nella specializzazione.
Nei tribunali ordinari nei quali è costituita una sezione famiglia con un presidente di sezione questi ultimi non saranno trasferiti al nuovo TPMF non essendo previsto un trasferimento né a domanda, né d’ufficio: sicchè gli stessi resteranno nei tribunali ordinari (non potendo neppure dimettersi dall’incarico di presidente di sezione per fare domanda di trasferimento come giudice) per cui, inizialmente, rischiano di dover gestire ruoli corposi con pochi giudici mentre successivamente dovranno essere adibiti ad altri incarichi con il diminuire del carico di lavoro, con conseguente perdita della specializzazione e professionalità maturata.
6.8. La riorganizzazione delle Corti di Appello
La riforma investirà anche le Corti di Appello sotto due profili:
a) la modifica della competenza sull’appello relativo ai nuovi procedimenti trattati dal TPMF;
b) il mantenimento della competenza sull’appello relativo ai procedimenti iscritti presso il TO antecedentemente al 17 ottobre 2024
I nuovi procedimenti iscritti al TPMF saranno per lo più di competenza circondariale (come illustrato al § 4) e conseguentemente l’impugnazione contro i conseguenti provvedimenti (sia in sede di reclamo che in sede di appello) saranno di competenza della sezione distrettuale del TPMF.
La Corte di Appello resterà competente solo per gli appelli contro i provvedimenti pronunciati collegialmente dal nuovo TPMF quale giudice di primo grado (oltre alla competenza penale).
Pertanto si assisterà ad una drastica riduzione dei carichi di lavoro verso la Corte di Appello con conseguente necessità di rivedere il numero di giudici assegnati tabellarmente alla materia delle persone, minori e famiglia.
Nel contempo, però, in base alla norma che prevede il permanere della competenza dei TO per le cause iscritte prima del 17 ottobre 2024 la Corte di Appello resterà competente per le impugnazioni di tutti i provvedimenti del TO emessi in relazione ad un procedimento iscritto prima del 17 ottobre 2024.
Poiché il TO rimane competente per tali procedimenti fino al 31.12.2029 si può prevedere che la Corte di Appello continuerà a gestire le impugnazioni relative a provvedimenti di famiglia ben oltre tale data, quantomeno per 2 o 3 anni (considerati i tempi medi di definizione dei procedimenti in Corte di Appello).
Nella revisione delle tabelle si verificherà quindi la necessità di mantenere una presenza di giudici specializzati per gestire le residue cause giudicate dal TO in primo grado.
In tale revisione si dovrà anche tenere conto del fatto che le modifiche alle condizioni di divorzio o di regolamentazione dei rapporti tra genitori e figli, ove non definite perché impugnate con ricorso in Cassazione, non saranno di competenza del nuovo TPMF (anche se proposte dopo il 17 ottobre 2024) ma della Corte di Appello.
Di fatto a fronte della diminuzione dell’organico delle Corti di Appello (per contribuire alla formazione dell’organico del nuovo TPMF) si assisterà ad un flusso di lavoro verso la Corte probabilmente invariato per tutto il 2024 e 2025 con una progressiva discesa solo negli anni successivi.
Peraltro, poiché è ovvio pensare che le nuove tabelle delle CDA prevederanno una diminuzione sensibile dei giudici specializzati in famiglia è anche possibile che molte cause (soprattutto di appello nei confronti di provvedimenti del TO resi dopo il 17 ottobre 2024) siano assegnate a giudici non specializzati: circostanza che contraddice la necessità di specializzazione che la riforma ha voluto affermare.
La sostanziale creazione di due circuiti giudiziari per le cause di famiglia a seconda dell’iscrizione ante o post 17 ottobre 2017, determinerà la conseguenza che separazioni e divorzi vengano giudicate in due circuiti distinti. Ed invero mentre le separazioni introdotte prima del 17 ottobre verranno decise dal collegio TO con appello alla CDA, i divorzi introdotti il 17 ottobre 2024 dopo verranno decisi dal TPMF circondariale con appello al TPMF distrettuale. Oggi i Tribunali cercano di coordinare la contemporanea pendenza delle cause iscritte in momenti diversi e la stessa riforma, prevedendo la possibilità di assegnare allo stesso giudice le due cause, soluzione che non sarà più possibile per il futuro.
7. Requisiti per l'avvio del nuovo TPMF
7.1. Il fabbisogno organico complessivo
Nel 2022 il Dipartimento dell’Organizzazione Giudiziaria del Ministero della Giustizia (DOG) aveva condotto un primo studio per determinare l’organico del personale di magistratura necessario per l’avvio del TPMF.
Il risultato complessivo di tale studio proponeva la seguente dotazione organica:
Nello studio del DOG si evidenziava una dotazione complessiva e le modalità di recupero di tali risorse in parte dalle piante organiche degli uffici giudiziari e in parte da un aumento del personale di magistratura.
Partendo invece dalle iscrizioni nazionali in materia di famiglia e dai procedimenti in gestione al giudice tutelare (tutele/ads/curatele/vigilanze) e dividendo il numero di iscrizioni/gestioni per i carichi esigibili definiti dal CSM si è calcolato il seguente fabbisogno organico:
Si ritiene accettabile il dato mediano in base al quale ogni giudice deve definire almeno 314 procedimenti in un anno (con un peso del settore consensuale pari al 10% del contenzioso) o gestire 1800 tutele o ads: in base a tale dato nelle sezioni circondariali occorrono 634 giudici.
Per quanto attiene al personale amministrativo nello stesso studio il DOG evidenziava i seguenti fabbisogni:
Per quanto attiene ai dirigenti fabbisogno complessivo è stato quantificato in 65 unità complessive.
7.1.1. Il metodo di calcolo del fabbisogno delle sezioni circondariali e distrettuali e delle Procure nello studio del DOG: magistrati
SEZIONI CIRCONDARIALI
La valutazione del DOG si basava su una rilevazione del personale giudicante assegnato nei tribunali ordinari alla trattazione delle macroaree famiglia e tutelare con la Direzione generale dei magistrati.
Da tale rilevazione emerge una forte complicazione nei calcoli a causa
a) dell’assenza in numerosi presidi, anche di dimensioni complessive apprezzabili, di personale assegnato in via esclusiva al settore;
b) dell’elevata percentuale di magistrati assegnati in via promiscua.
È stato quindi adottato un criterio diverso ricercando il rapporto, nei tribunali ordinari, tra magistrati concretamente assegnati al settore famiglia e la complessiva pianta organica dell’ufficio: per la costruzione di tale parametro sono stati considerati solo i tribunali per i quali non si rileva, oltre ai magistrati assegnati in via esclusiva al settore (e quindi specializzati), l’assegnazione di ulteriore personale.
Per tali uffici (7 in totale) è stato, quindi, osservato che il rapporto esistente tra le unità assegnate in via esclusiva al settore famiglia e la pianta organica complessiva dell’ufficio risulta approssimativamente pari a una unità ogni dieci posti previsti in organico.
Pertanto il DOG aveva valutato il fabbisogno complessivo delle sezioni circondariali in misura pari a circa il 10% (500 unità) dei posti complessivamente assegnati in organico ai tribunali ordinari (5.424 unità)
In ordine alla assegnazione delle risorse il DOG aveva osservato che la riduzione della dotazione di risorse dei tribunali ordinari determinerebbe, negli uffici di piccole e medie dimensioni, un concreto rischio di paralisi giurisdizionale, atteso che la risorsa a cui è assegnata la trattazione di famiglia è spesso addetta anche ad altre funzioni.
Non potendo pertanto dotare tutte le 140 sezioni circondariali di un minimo di tre magistrati, stante le prevedibili limitate risorse disponibili, il DOG prevedeva un incrementato a 607 unità complessive da gestirsi a livello distrettuale.
Ove si dovesse ritenere di prevedere l’assegnazione a ciascuna sezione distrettuale delle risorse necessarie a formare, in autonomia, il collegio giudicante, il fabbisogno di personale risulterebbe sensibilmente più elevato e si attesterebbe in circa 670 unità.
SEZIONI DISTRETTUALI
Per determinare la pianta organica delle sezioni distrettuali il DOG aveva valutato che queste sostanzialmente subentrano ai tribunali per i minorenni di cui ereditano l’attuale competenza penale.
Nel settore civile, invece a fronte della devoluzione di competenze in favore delle sezioni circondariali la riforma prevede l’attribuzione delle impugnazioni dei provvedimenti che definiscono il giudizio emessi dalle sezioni circondariali nonché dei provvedimenti provvisori con contenuti decisori.
Di conseguenza era stato assunto come modello di riferimento, quanto a composizione numerica e dotazione organica, il rapporto oggi esistente tra numero di magistrati di secondo grado e numero di magistrati di primo grado, pari ad 1 magistrato di appello ogni 3,4 magistrati di tribunale.
L’attuale dotazione assegnata ai tribunali per i minorenni (214 unità) riprodurrebbe, con un lieve esubero, tale rapporto in relazione alle previsioni organiche (607 unità) individuate per le sezioni circondariali.
Peraltro l’incremento delle competenze attribuite alla sezione circondariale impone un adeguamento delle sezioni distrettuali per evitare situazione di criticità nella gestione dei flussi di lavoro analoga a quella già riscontrata in passato nelle corti di appello a seguito degli incrementi di competenza disposti da riforme legislative, anche alla luce della permanenza presso la sezione distrettuale della competenza quale giudice di primo grado in composizione collegiale.
Perciò era stato previsto un aumento di organico rispetto all’attuale dotazione dei tribunali minorili nella misura di 60 unità (corrispondenti a circa una unità ogni 3,5 previste in aumento per le esigenze delle sezioni circondariali)
PROCURE
Anche per la Procura della Repubblica presso il TPMF era stato previsto un incremento, pur contenuto, rispetto alle attuali dotazioni delle procure minorili. Tenuto conto che tra gli uffici minorili si rileva, allo stato, un rapporto di 1 magistrato requirente ogni 1,8 magistrati giudicanti, l’incremento necessario è stato quantificato in misura tale da mantenere invariata tale proporzione e fissato, quindi, in 32 unità complessive.
Con la riforma Cartabia il Pubblico Ministero è diventato parte a tutti gli effetti, e non solo organo che promuoveva l’intervento del T.M., con tutta una nuova serie di oneri in termini di notifica che con gli attuali organici amministrativi non è in grado di fronteggiare.
7.1.2. Il metodo di calcolo del fabbisogno delle sezioni circondariali secondo i carichi esigibili: magistrati
Si propone di seguito il risultato di uno studio condotto invece sulla base delle iscrizioni nazionali in materia di famiglia e dei carichi esigibili.
Si è tenuto conto delle iscrizioni annue nazionali presso i TO (fonte DGSTAT) di procedimenti:
Si è poi tenuto conto del numero di tutele/curatele/ads/vigilanze pendenti a fine anno che rappresentano i procedimenti che ciascun giudice tutelare deve gestire durante l’anno.
Per semplicità il calcolo è stato effettuato sui dati del 2022 (non essendo ancora disponibili quelli del 2023).
Si sono poi considerati i carichi esigibili definiti dal CSM secondo la seguente tabella:
Per il tutelare si è preferito utilizzare come parametro il ruolo sostenibile di un GT, da un minimo di 1000 procedimenti ad un massimo di 4000.
Si è quindi diviso il numero di procedimenti iscritti/gestiti per i carichi esigibili.
In tale calcolo si è ritenuto che un procedimento consensuale abbia un peso pari a 1/10 dell’omologo procedimento contenzioso e quindi si è applicato il seguente calcolo per il settore consensuale fabbisogno = totale iscrizioni/carico esigibile * 1/10).
Si ottiene il seguente fabbisogno di giudici per le sezioni circondariali:
Si ritiene accettabile il dato mediano in base al quale ogni giudice deve definire almeno 314 procedimenti in un anno (con un peso del settore consensuale pari al 10% del contenzioso) o gestire 1800 tutele o ads: in base a tale dato nelle sezioni circondariali occorrono 634 giudici.
7.1.3. Il metodo di calcolo del fabbisogno delle sezioni circondariali e distrettuali e delle Procure nello studio del DOG: personale amministrativo
In ordine al personale amministrativo il DOG rilevava come una dotazione organica “esclusiva” esista solo e soltanto nell’attuale tribunale dei minorenni e nella relativa procura della repubblica; per contro nei tribunali e nelle corti di appello, così come nelle relative procure della repubblica nei grandi uffici non esiste personale esclusivamente addetto alla materia, collegio, sezione della famiglia neanche nei gradi uffici, essendo molto variegata la situazione degli ordini di servizio relativi.
Il DOG aveva quindi valutato che l’attuale dotazione degli attuali uffici giudicanti e requirenti minorili costituisce, per le sezioni distrettuali e per il nuovo ufficio requirente, la dotazione di base, da incrementare in ragione del numero di magistrati complessivamente ipotizzato in aumento (rispettivamente 60 e 32) a tali strutture.
Per le sezioni circondariali del TPFM, poiché costituiranno un nuovo e totalmente distinto ufficio rispetto al tribunale circondariale, non potranno avvalersi del personale in servizio presso il tribunale ordinario, perché pur potendosi immaginare una sede principale e una secondaria per il personale amministrativo: invero non esiste l’istituto della “condivisione del personale” nel pubblico impiego e nel CCNL, che determinerebbe la duplicazione dei vertici di riferimento, con le relative conseguenze su tutti gli altri istituti contrattuali.
Per le sezioni circondariali il DOG aveva pertanto tenuto conto della necessità di garantire la disponibilità di un contingente minimo di 4 unità, nucleo minimo senza il quale un ufficio non può proprio operare, da aumentarsi in base al dimensionamento della dotazione organica dei magistrati nelle sezioni circondariali, e soprattutto dei flussi di iscrizioni e pendenze della sede circondariale, nucleo minimo così composto:
- una unità di personale dell’area III (direttore amministrativo o funzionario addetto al coordinamento);
- due unità dell’area II (cancellieri, assistenti od operatori), addetti ai registri, alla segreteria, all’udienza ecc.
- una unità dell’area I (ausiliari, addetti alla movimentazione fascicoli e alle restanti incombenze area prima).
Le risultanze dell’elaborazione individuavano un fabbisogno complessivo di 3.338 unità di personale delle aree, di cui 2.130 da reperire da un incremento della dotazione organica, e le restanti da attribuire in compensazione, e possono così essere sintetizzate:
a) per quanto attiene al personale dirigenziale amministrativo, atteso che già gli attuali uffici giudiziari patiscono una scopertura di circa il 50% rispetto all’attuale dotazione organica, il DOG aveva ritenuto necessario prevedere la posizione dirigenziale presso ogni sezione distrettuale nonché presso le sezioni circondariali di maggiori dimensioni per i distretti con più di tre circondari di tribunale;
b) quanto agli uffici requirenti, la previsione del posto di dirigente è stata limitata alle sole sedi di maggiori dimensioni, in corrispondenza delle posizioni dirigenziali attualmente previste per le procure della Repubblica presso i tribunali per i minorenni.
Il fabbisogno complessivo di personale dirigenziale è stato, quindi, quantificato in 65 unità complessive, di cui 18 recuperabili dagli organici degli uffici giudicanti e requirenti minorili (nello specifico 13 dagli uffici giudicanti e 5 da quelli requirenti) ed ulteriori 47 dall’incremento della relativa dotazione organica.
7.2. Applicazione degli istituti di flessibilità
Come già evidenziato l’art. 49 prevede che sino al 31 dicembre 2029 al fine di assicurare la completa definizione delle misure organizzative relative al personale e ai locali, il funzionamento delle sezioni circondariali del tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie può essere assicurato anche avvalendosi, mediante istituti di flessibilità, del personale amministrativo di altri uffici del distretto individuato con provvedimenti del direttore generale del personale e della formazione, sentiti gli uffici interessati, e per il personale di magistratura ordinaria e onoraria, mediante applicazione di istituti di flessibilità individuati dal Consiglio superiore della magistratura.
La norma, di non semplice applicazione, prevede di fatto l’applicazione di giudici ordinari (e onorari) e di personale amministrativo alle sezioni circondariali del TPMF prelevati da altri uffici del Distretto (Corte di Appello, Tribunale Ordinario, Tribunale di Sorveglianza).
Il CSM dovrà individuare quali istituti di flessibilità prevedere e quali criteri per la loro applicazione. Non è chiaro chi poi disporrà l’applicazione dei magistrati al TPMF.
Per il personale amministrativo sono necessari provvedimenti del DG personale ma evidentemente dovrà essere necessaria una contrattazione preventiva in sede sindacale.
7.3. Le dotazioni informatiche
Con l’entrata in vigore del rito unico anche per il TM è stato previsto (solo però da luglio 2023) l’utilizzo del processo civile telematico.
Peraltro, per venire incontro alle specifiche esigenze degli affari minorili, il SICID è stato adeguato con una serie di patches che non sono state integralmente riversate anche sul SICID dei Tribunali ordinari.
Attualmente TM e TO utilizzano SICID: ma le due versioni sono diverse e non dialogano tra loro.
Occorre quindi prevedere l’adozione di una unica versione di SICID per il nuovo TPMF (con migrazione dei dati dell’attuale TM).
Il Sicid del TPMF dovrà essere integrato, a partire dal 17 ottobre 2024, con ulteriori funzioni per la gestione dei reclami e delle impugnazioni al TPMF in qualità di giudice di secondo grado, funzioni oggi completamente assenti nel Sicid di merito.
Ed ovviamente dovrà essere prevista la condivisione dei dati tra SICID circondariale e SICID distrettuale.
In base alle modalità di gestione delle pendenze andrà valutata eventuale migrazione dei dati da TO a TPMF. Ove fosse scelta l’opzione di trasferire al TPMF anche i procedimenti del TO pendenti al 16.10.2024 si dovrà prevedere una migrazione dei dati onde permettere l’utilizzo di un nuovo sistema presso il nuovo TPMF.
Il sistema informatico tuttora non gestisce il trasferimento del procedimento ex art 38 disp. att. c.c. che, nel nuovo ufficio, non sarà più da TM a TO, ma all’interno della medesima sezione circondariale (art 38 che dovrà essere modificato con normativa primaria).
7.4. Le elaborazioni statistiche
Con nota del 3 ottobre 2023 la DGSTAT comunicava ai TM che, a seguito delle modifiche intervenute nei registri informatici dei procedimenti civili ed alla dismissione del SIGMA, dal III trimestre 2023 era sospeso l'invio del modello statistico civile acquisito tramite le maschere pubblicate sul sito Webstat.
La DGSTAT evidenziava di aver avviato con DGSIA l’analisi finalizzata all’acquisizione dei dati statistici dai nuovi registri, nell’ambito della sperimentazione del nuovo Datalake in ambito civile, che permetterà di elaborare i dati direttamente a livello nazionale. Evidenziava ancora la DGSTAT che trattandosi di un’evoluzione complessa, su sistemi ancora in fase di definizione e con una struttura difforme, non sarà possibile assicurare continuità nella fornitura dei dati statistici. Il nuovo sistema di estrazione dati dovrebbe essere completato e collaudato entro fine anno, fino ad allora, questa Direzione non avrà la possibilità di elaborare i flussi dei Tribunali per i Minorenni.
Ad oggi il sistema di estrazione dei dati statistici non è stato ancora rilasciato e il TM non è in grado di estrarre alcun dato da Sicid: ciò oltre a rendere impossibile la conoscenza degli attuali flussi di lavoro, rischia di pregiudicare anche l’attività del futuro TPMF in quanto non appare possibile determinare i flussi di lavoro in base al nuovo rito e, una volta avviata la sezione circondariale del TPMF, neppure quest’ultima potrà estrarre dei dati statistici.
L’assenza di dati statistici, gli ultimi noti si fermano al 30.6.2023 e quindi allo stato non sono noti gli effetti della riforma Cartabia sui flussi civili ed in assenza di dati sui flussi di lavoro successivi all’entrata in vigore della riforma Cartabia i Dirigenti non potranno elaborare il Documento Organizzativo Generale, sul quale si deve fondare la proposta tabellare del nuovo ufficio.
Anche tale problema andrà risolto entro il 17 ottobre 2024 e comunque prima dell’avvio della procedura per la formazione delle nuove tabelle.
(Immagine: Henri Matisse, Portrait de la famille du peintre, olio su tela, 1911, Museo de l'Hermitage, San Pietroburgo)
Intervento tenuto al convegno “La Riforma della Giustizia - La separazione delle carriere”, patrocinato da Giuffrè Editore, a Naso (ME) il 17 maggio 2024.
Partecipo con grande piacere a questo convegno su una riforma costituzionale di tale importanza. Proprio qui, a Naso, paese abbarbicato sui Nebrodi, che pure ha dato i natali ad Antonino Giuffré: da qui si è avviata la straordinaria avventura dell'editore Giuffré, sui cui libri e manuali, tutti noi, siamo cresciuti. Mi piace ricordarlo, in questa temperie storica, anche per il metodo di cui l'editore Giuffré si è reso portatore nel corso dei decenni: un metodo di approfondimento delle questioni giuridiche e di sistema serio, rigoroso, tecnico-scientifico; di alto profilo culturale, insomma.
Questo metodo è oggi ampiamente recessivo. Oggi, anche le questioni più importanti, quale quella di cui stiamo discutendo, che è volta a modificare per sempre il patto su cui si fonda la nostra società democratica, vengono spogliate della loro dignità tecnico-scientifica, strappate dal loro naturale alveo del dibattito socio-culturale, strappate persino al fisiologico dibattito parlamentare, e affrontate con strumenti ben più semplificati: slogan, tweet, annunci, e talvolta persino l'ironico dileggio di chi la pensa diversamente.
Fuor di metafora, la classe politica attuale, ed in particolare quella della maggioranza governativa, mi sembra non più disposta a confrontarsi, né tantomeno ad argomentare. L'argomentazione guarda all'altro, oggi non si guarda neppure a se stessi.
Se questo è il segno dei tempi, ne prendo atto. Ma lasciatemi dubitare che sia questa la cifra distintiva dell'eredità culturale di Antonino Giuffré, il quale ha voluto nel logo della casa editrice il proverbiale motto latino "Multa paucis". Dire molto in poco, dire molte cose in poche parole: utilizzare le parole giuste, quelle che scendono in profondità. Oggi, invece, non si dice nulla nel fiume sgrammaticato di parole dette a sproposito. Sono di questo tenore le argomentazioni di chi vorrebbe cambiare la Costituzione.
Ne faccio una questione di metodo, non di principio. Ricordo una frase misconosciuta di Giorgio Marinucci, non a caso contenuta proprio in un volume edito da Giuffré: <<Nessuno è innocente davanti alla politica>>.
<<Nessuno è innocente davanti alla politica>>.
Ma come noi tutti non siamo innocenti davanti alla politica, la politica non può dirsi innocente davanti alla Costituzione, scritta quando il sangue di vincitori e vinti della tremenda stagione fascista non era ancora rappreso. La politica non è mai innocente quando esercita il potere di riformare la Costituzione. Se questo è l’intento della politica, il minimo che possa fare è mettersi in ascolto, sforzarsi di comprendere le ragioni di chi la pensa diversamente, di chi può dare un apporto tecnico al dibattito: adoperarsi per trovare un punto di sintesi e la massima condivisione possibile.
E non mi sento di assicurare che sia questo l'intento del Ministro della Giustizia. Lo scorso fine settimana ero a Palermo, al congresso della magistratura associata. Il Ministro della Giustizia è comparso non nella giornata di apertura, come tutte le altre autorità, ma il sabato, per soli 31 minuti (cronometrati) e ha tenuto un discorso a braccio che spaziava dalla droga Fentanyl alla Dichiarazione di Bordeaux. Un discorso - un fiume di parole - del tutto privo di contenuti, terminato il quale, è andato via, senza ascoltare una sola parola pronunciata da altri fuorché lui. Eppure in quella sala congressi era riunita tutta la magistratura: la destinataria di una riforma epocale, mai compiuta prima - e bisognerebbe chiedersi il perché. È questa la politica che, pur intendendo esercitare il potere di riformare la Costituzione, si mette in ascolto?
Nessuno è innocente davanti alla politica, ma la politica non è innocente davanti alla Costituzione, perché dietro alla Costituzione c’è il Presidente della Repubblica, che è la nostra Guida; ci sono i poteri dello Stato, c’è la collettività tutta.
Lasciate allora che utilizzi - retoricamente - lo stesso metodo utilizzato dal Ministro della Giustizia. Consentitemi di svuotare il mio intervento di ogni contenuto. Per quel cittadino che voglia essere interessato a sapere come la penso sulla separazione delle carriere, rinvio alla mozione finale del congresso dell’Associazione Nazionale Magistrati che è stata approvata domenica scorsa e che spiega molto bene la nostra - e mia personale - contrarietà a questa riforma. Reperibile on-line, oppure qui al tavolo: ho portato qualche copia cartacea della mozione.
Non dirò una sola parola sulla riforma costituzionale della separazione delle carriere. Non è mancanza di rispetto nei confronti dell’auditorio o degli illustri relatori, è invece un tentativo - disperato, me ne rendo conto - di far comprendere all’auditorio e agli illustri relatori come la politica, attraverso le sue massime rappresentanze istituzionali, non abbia alcuna intenzione di ascoltare, di soffermarsi, di ponderare. Come la politica, in questa fase storica, voglia essere divisiva, non inclusiva.
La separazione delle carriere non la spiego a nessuno; e a nessuno spiegherò le ragioni della mia convinta contrarietà a questa riforma. Pare che sia questo il segno dei tempi.
Forse la politica crede di essere non solo innocente davanti alla Costituzione, ma di esserne padrona, al punto da poterla riformare unilateralmente, a piacimento; completamente dimenticando la fatica del dialogo e del compromesso vissuta nell’Assemblea Costituente, che ha dato frutti preziosi. <<I Costituenti hanno redatto la nostra Carta per i giovani, per le generazioni allora future. Anche per questo si basa su un impianto di valori e di principi, tradotti in norme capaci di applicarsi a quanto interverrà nel corso del tempo>>. L’ha detto il Capo dello Stato qualche giorno fa. Quella Costituzione è stata scritta in modo tale che quando mia figlia Beatrice - che ha due mesi ed è lì con la sua mamma ad ascoltarci - sarà grande, ed io non ci sarò più, potrà ancora leggerla e riconoscersi in essa. E vorrei che Beatrice possa dire che quella stessa Carta è stata resa viva, mantenuta e preservata con l’impegno del suo bisnonno, di suo nonno e del suo papà.
Non vorrei dunque spendere neppure una parola sulla riforma costituzionale della separazione delle carriere, che riscriverebbe un pezzo fondamentale della Costituzione con spirito divisivo, non inclusivo.
Piuttosto, lasciate che concluda il mio intervento con due brevi storie.
Prima storia - Tempo fa entrava nella mia stanza un avvocato dicendomi che il suo cliente era disperato: la sentenza con cui era stata dichiarata la rettifica di sesso dal Tribunale, così faticosamente ottenuta dopo un percorso esistenziale ed anche chirurgico molto lungo, non era ancora stata trascritta nei registri dello stato civile del comune. Quella sentenza doveva ancora essere vistata dal pubblico ministero, e quindi da me. Quella sentenza era ferma perché nel mio ufficio, come in molti altri uffici italiani, la piattaforma ministeriale del pubblico ministero di lavorazione dei provvedimenti del giudice civile (c.d. “Consolle Civile”) non era funzionante. Quell’uomo permaneva nel limbo burocratico di una sessualità negata, a causa di un inaccettabile e quasi permanente disservizio del sistema giustizia.
Seconda storia - Tempo fa veniva iscritta una notizia di reato a carico di una mamma, a seguito di una denuncia sporta dal papà di una bimba. All’esito dell’istruttoria da me condotta, il reato contestato si è rivelato insussistente. Nel frattempo, nel parallelo procedimento civile per separazione e affidamento della prole, i giudici - considerata la grave accusa pendente - limitavano provvisoriamente la genitorialità della mamma. Per molte notti non ho chiuso occhio, perché sapevo che con la mia richiesta di archiviazione, e la conseguente archiviazione disposta dal giudice, quella mamma avrebbe riacquistato ciò che le era più caro: la piena genitorialità. E invece quella richiesta di archiviazione è stata a lungo ferma nel mio pc, perché le continue disfunzioni della piattaforma ministeriale di lavorazione delle archiviazioni (c.d. “APP”) non mi consentivano di depositare correttamente la mia richiesta.
Ora, chiediamo a quell’uomo che ha visto negati i suoi diritti, e a quella mamma cui la genitorialità è stata compressa, perché il magistrato non era stato messo nelle condizioni di poter operare, se oggi i cittadini chiedono a gran voce la riforma costituzionale della separazione delle carriere, oppure se pretendono che gli sforzi della politica convergano verso il reale efficientamento della macchina della giustizia.
"Multa paucis", ma anche "Intelligenti pauca".
Alcuni chiarimenti in merito all’autotutela doverosa di cui all’art. 21 nonies, comma 2 bis, l. n. 241 del 1990 (nota a Cons. Stato, Sez. II, 2 novembre 2023, n. 9415)
di Federica Campolo
Sommario: 1. Il caso di specie. – 2. La nozione di autotutela doverosa. – 3. Le critiche all’interpretazione del Giudice di primo grado. - 4. La decisione del Consiglio di Stato e brevi osservazioni conclusive.
1. Il caso di specie.
La pronuncia del Consiglio di Stato, Sez. II, 2 novembre 2023, n. 9415, che decide su tre differenti ricorsi in appello riuniti, risulta di particolare interesse per l’ampia ricostruzione che svolge del controverso istituto della c.d. “autotutela doverosa”[1], del quale effettua un’importante analisi interpretativa.
L’intricata vicenda che ha offerto al Consiglio di Stato l’occasione di fornire dei chiarimenti sull’applicabilità dell’autotutela doverosa è, sinteticamente, la seguente.
La proprietaria di un immobile, di seguito identificata come sig.ra A, proponeva ricorso ai sensi degli artt. 31 e 117 c.p.a. innanzi al T.A.R. Puglia, per domandare l’accertamento del silenzio inadempimento – e il conseguente dovere del Comune di Barletta di emanare un provvedimento espresso – formatosi su due diffide da questa presentate. Le diffide avevano a oggetto, rispettivamente, la richiesta di attivazione dei controlli e l’annullamento in autotutela di alcuni titoli edilizi, che avevano autorizzato rilevanti interventi su di un manufatto costruito in adiacenza alla proprietà della ricorrente e dei quali rivendicava l’illegittimità. Gli interventi avevano comportato la sopraelevazione del manufatto rispetto all’immobile della sig.ra A, che, in precedenza, lo sovrastava[2].
Tale ricorso faceva seguito all’avvenuto passaggio in giudicato della sentenza della Corte d’Appello di Bari, che aveva condannato la vicina di casa, di seguito identificata come sig.ra B, e il suo progettista per il reato di cui all’art. 481 c.p. “Falsità ideologica in certificati commessa da persone esercenti un servizio di pubblica necessità” oltre che il tecnico comunale incaricato dell’istruttoria per il reato di cui all’art. 479 c.p. “Falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici”. In tale sede il Giudice penale aveva rilevato che la qualificazione delle opere, dapprima come manutenzione leggera, in seguito come ristrutturazione leggera, fosse falsa, trattandosi, invece, di una nuova costruzione, da ritenersi, pertanto, abusiva ai sensi dell’art. 44, comma 1, lett. b) del d.P.R. n. 380 del 2001[3][4].
Il T.A.R Puglia accoglieva il ricorso, condividendo la tesi sostenuta dalla sig.ra A secondo cui, la disposizione di cui all’art. 21 nonies, comma 2 bis della l. n. 241 del 1990[5], applicabile nel caso di specie, configurasse una forma di autotutela doverosa. Questa avrebbe comportato l’obbligo per l’Amministrazione di annullare il titolo edilizio formatosi sulla base di dichiarazioni false o mendaci, attestate da una sentenza penale passata in giudicato. Concludeva, pertanto, il Giudice di prime cure affermando che l’Amministrazione, sollecitata dal privato interessato, fosse tenuta a emanare un provvedimento espresso, capace di riportare lo stato dei luoghi a una situazione di conformità con la normativa urbanistica e edilizia.
La sentenza veniva appellata dal Comune sulla base, essenzialmente, dell’asserita illegittimità del riconoscimento di tale specifica forma di autotutela doverosa, di cui disconosceva in radice la configurabilità[6].
Di converso, la sig.ra A si costituiva in giudizio per domandare il rigetto dell’appello e la conferma della sentenza del T.A.R, affermando, in particolare, dovesse ritenersi esclusa ogni esigenza di tutela dell’affidamento in presenza di un istante mendace, risultando l’interesse pubblico all’annullamento in autotutela, in tali ipotesi, in re ipsa.
Il Consiglio di Stato, sez. VI respingeva l’istanza cautelare dell’appellante, ritenendo che la sentenza del T.A.R Puglia si fosse limitata a prevedere l’obbligo di provvedere da parte del Comune sulla domanda formulata dalla parte ricorrente in primo grado, senza vincolare il contenuto del successivo provvedimento.
A seguito di tale decisione cautelare, la sig.ra A avanzava al T.A.R Puglia istanza di nomina di un commissario ad acta, che si sostituisse all’Amministrazione, ai sensi dell’art. 117, comma 3, c.p.a. Il commissario ad acta procedeva, dunque, all’annullamento dei titoli edilizi riferiti all’intervento abusivo, intimando la demolizione di quanto eccedente la ristrutturazione legittima. Tra i titoli oggetto di annullamento erano ricompresi anche i permessi di costruire in sanatoria, estranei al contenuto del giudicato penale[7].
Avverso tali provvedimenti presentavano reclamo al T.A.R. Puglia sia la sig.ra A sia la dante causa della sig.ra B, chiedendo il loro annullamento, la prima in quanto asseritamente elusivi della pronuncia di primo grado, la seconda lamentando l’eccessiva estensione contenutistica dei provvedimenti adottati, che avrebbero travalicato anche il perimetro del giudicato penale.
Il T.A.R respingeva entrambi i reclami.
Avverso tale ultima pronuncia veniva proposto appello da entrambe le parti che avevano presentato il sopra richiamato reclamo.
La sig.ra A., più precisamente, contestava i provvedimenti adottati dal commissario ad acta rilevando che, poiché la sentenza da attuare imponeva di riportare lo stato dei luoghi alla legalità, l’unico modo per conformarsi al dettato del Giudice amministrativo sarebbe stato quello di ordinare la demolizione dell’intero corpo di fabbrica e non, invece, della sola parte eccedente la ristrutturazione legittima. Il commissario ad acta con la sua decisione avrebbe acconsentito a una indebita fiscalizzazione dell’abuso edilizio, in violazione dell’art. 38 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Venivano ribadite dalle parti le differenti posizioni già espresse in merito all’istituto dell’autotutela doverosa.
2. La nozione di autotutela doverosa.
Prima di giungere alla decisione sul caso sopra descritto, il Collegio effettua un’attenta ricostruzione dell’autotutela doverosa, il cui corretto inquadramento è posto come nodo centrale da sciogliere o, meglio, usando le parole del Giudice, vero “punctum dolens” della controversia.
Va evidenziato, per meglio comprendere la problematicità della questione, che, con riferimento in termini generali all’annullamento in autotutela, la giurisprudenza amministrativa riconosce pacificamente la legittimità del silenzio serbato dall’Amministrazione sull’istanza del privato, in ragione, essenzialmente, della sua natura discrezionale[8]. Pertanto, l’asserita illegittimità del silenzio serbato dall’Amministrazione potrebbe configurarsi solo nel caso si ritenesse l’art. 21nonies, comma 2 bis, disciplinante un’ipotesi di autotutela doverosa, nei termini precisati nel prosieguo.
Il Consiglio di Stato, sul punto, ha individuato due ordini di problemi da risolvere: in primo luogo, la riconducibilità o meno del caso di specie alla categoria dell’autotutela doverosa, in secondo luogo, in caso di risposta affermativa, la sua esatta estensione.
Nel delimitare la portata dell’autotutela doverosa il Giudice ha ritenuto fondamentale stabilire se questa fosse da limitare all’an, cioè da intendersi come comportante l’obbligo per l’Amministrazione di avviare il procedimento e fornire un riscontro all’istanza del privato ovvero se fosse da estendere – utilizzando una terminologia probabilmente non del tutto appropriata – al quomodo[9], per cui vi sarebbe l’obbligo in ogni caso di adottare un provvedimento caducatorio[10].
Nel fornire una nozione di autotutela doverosa il Consiglio di Stato osserva, in prima battuta, la contraddittorietà di tale locuzione, in ragione della discrezionalità che, come noto, caratterizza l’emanazione dei provvedimenti di secondo grado da parte delle Amministrazioni. Chiarisce il Collegio che si ha autotutela doverosa in tutte quelle ipotesi, tassativamente individuate dal legislatore ovvero definite chiaramente in via giurisprudenziale, in cui il potere di riesame dei propri atti da parte delle Amministrazioni è dovuto[11].
Questo istituto si è affermato prima ancora della riforma attuata nel 2005[12] alla legge sul procedimento, che, come noto, ha introdotto il Capo IV-bis, dedicato alla disciplina dell’efficacia e invalidità del provvedimento amministrativo, normando in termini generali l’istituto dell’autotutela. Una delle sue prime applicazioni è contenuta all’art. 6, comma 17 della l. n. 127 del 1997[13], che individuava l’obbligo per gli enti locali di autoannullare i propri provvedimenti di inquadramento del personale illegittimi.
Ulteriore esempio di autotutela doverosa, citato nella pronuncia in esame, si trova all’art. 94 del d.lgs. n. 159 del 2011[14], per cui, in talune ipotesi correlate a tentativi di infiltrazioni mafiose, devono essere revocate le autorizzazioni e le concessioni o sciolti i contratti già stipulati.
Ancora, tra le ipotesi di più frequente applicazione vi è l’art. 19, comma 4, della l. n. 241 del 1990, disciplinante l’esercizio doveroso dei poteri inibitori da parte delle pubbliche amministrazioni, decorso il termine per l’adozione dei provvedimenti di cui al comma 3 o comma 6 bis, nei casi in cui vi siano i presupposti dettati dall’art. 21 nonies per l’annullamento d’ufficio[15].
Attenta dottrina ha delineato la sottocategoria dell’autotutela doverosa “parziale”, in cui cioè si assiste a una semplice dequotazione del termine di cui all’art. 21 nonies – ragionevole o di 12 mesi, nel caso di autorizzazione o attribuzione di vantaggi economici – per procedere all’annullamento d’ufficio[16]. Ne è un esempio l’autotutela doverosa di cui al caso di specie, ma anche l’art. 39 del d.P.R. n. 380 del 2001, che estende a 10 anni dall’adozione di deliberazioni e provvedimenti comunali autorizzativi di interventi illegittimi la possibilità di annullarli da parte delle regioni.
Un’ipotesi di autotutela doverosa largamente diffusa in passato, ma oggi espunta dall’ordinamento, è quella di cui all’abrogato art. 1, comma 136, della l. n. 311 del 2004[17], che obbligava le Amministrazioni, fatti salvi alcuni temperamenti per i provvedimenti incidenti su rapporti contrattuali, ad annullare i provvedimenti illegittimi, al fine di garantire un risparmio di spesa pubblica[18].
Svolta una ricostruzione generale sull’istituto controverso, il Consiglio di Stato si concentra, infine, sull’ipotesi di cui all’art. 21 nonies, comma 2 bis[19].
Viene ulteriormente chiarito che trattasi di un caso di autotutela doverosa parziale, per cui è consentito all’Amministrazione di esercitare il potere di annullamento in autotutela oltre i termini fissati dal legislatore. Nel caso in esame è corretto, secondo l’interpretazione del Giudice d’appello, parlare di autotutela doverosa proprio perché, pur a distanza di anni, la legge impone il riesame del provvedimento.
L’attenzione è, poi, posta sulla formulazione letterale della disposizione.
In particolare, l’impiego dell’espressione “possono essere annullati”, rende chiaro come al ricorrere dei casi di “false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato” non venga imposto alle Amministrazioni senz’altro l’annullamento dei provvedimenti. La disposizione in analisi, pertanto, nell’interpretazione offerta dalla pronuncia in commento, impone il riesame del provvedimento, senza tuttavia vincolarne gli esiti.
Affinché, in questi casi, si debba procedere con l’emanazione di un provvedimento in autotutela è, infatti, essenziale che sia verificata la sussistenza degli ulteriori presupposti di cui al comma 1 dell’art. 21 nonies. Tra questi, diversamente dall’ipotesi generale di cui all’art. 21 nonies, comma 1, della l. n. 241 del 1990[20], non rientra la valutazione degli interessi dei destinatari del provvedimento, dal momento che non si pongono esigenze di tutela nei confronti di soggetti che abbiano ottenuto un vantaggio sulla base di dichiarazioni false o mendaci[21].
In realtà, nel caso di specie, in apparente contraddizione, la pronuncia in commento chiarisce che sarebbe stato necessario tenere in considerazione il subentro nella proprietà della figlia della sig.ra B, “in apparenza estranea ai fatti di causa, non potendosene presumere la connivenza per il solo fatto del rapporto di filiazione con la precedente proprietaria”.
In questo modo, la pronuncia in commento va a sottolineare come la conservazione della discrezionalità nell’esercizio dei poteri di cui all’art. 21 nonies, comma 2 bis svolge un’essenziale funzione garantista nel caso, non infrequente nella pratica, in cui non vi sia coincidenza tra autore del reato e destinatario dell’autotutela, venendo così in considerazione il suo affidamento incolpevole[22].
In tale prospettiva, il Collegio evidenzia come tra gli elementi oggetto di valutazione in queste ipotesi assuma un significato pregnante il fattore temporale. In considerazione del lungo lasso di tempo che può intercorrere tra l’emanazione di un provvedimento favorevole e l’accertamento in sede penale della dichiarazione falsa o mendace, secondo il Consiglio di Stato l’Amministrazione non potrà esimersi dal valutarne l’incidenza, tornando così a espandersi l’operatività della ragionevolezza del termine.
3. Le critiche all’interpretazione del Giudice di primo grado.
Come accennato nella ricostruzione in fatto, il Giudice di prime cure aveva accolto il ricorso valorizzando la tesi per cui, nel caso di specie, ci si troverebbe dinnanzi a un’ipotesi di autotutela doverosa, che impone all’Amministrazione l’adozione di un provvedimento espresso.
A sostegno di tale lettura, è stata offerta un’elencazione di disposizioni normative. Si è fatto riferimento, in particolare, all’art. 27 del d.P.R. n. 380 del 2001, richiamato dall’art. 19 bis della l. n. 241 del 1990, che pone sull’Amministrazione precisi doveri di diligenza. È stato richiamato, inoltre, il combinato disposto degli artt. 75 del d.P.R. n. 445 del 2000 con gli artt. 537, 651 e/o 654 c.p.p. disciplinanti gli effetti del giudicato penale sull’attività amministrativa. Infine, veniva fatta leva sulla portata compulsiva delle possibili ripercussioni risarcitorie in caso di accertata responsabilità erariale dei dipendenti del Comune.
Il Consiglio di Stato, chiarito come l’ipotesi di cui all’art. 21 nonies, comma 2 bis costituisca un caso di autotutela doverosa, da intendersi non come individuante un obbligo di emanare senz’altro un provvedimento di secondo grado, ma solo nel senso di imporre la valutazione dell’istanza di autotutela presentata dal privato interessato, oltre i termini di legge, verificando la sussistenza dei presupposti di cui al suo primo comma, offre ampie riflessioni volte a superare l’interpretazione del T.A.R.
In primo luogo, viene esaminato l’art. 75 del d.P.R. n. 445 del 2000 e confrontato con l’art. 21 nonies, comma 2 bis della l. n. 241 del 1990[23].
L’art. 75 del d.P.R. n. 445 del 2000, come noto, stabilisce che, qualora emerga, all’esito di un controllo, la non veridicità del contenuto di una dichiarazione, il dichiarante decade automaticamente dai benefici conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non veritiera.
Secondo il Collegio è errato estendere tale automatismo al caso di cui all’art. 21 nonies, comma 2 bis della l. n. 241 del 1990. Eliminando i profili di discrezionalità insiti in tale ultima disposizione, attraverso una rigida applicazione dell’art. 75, verrebbe infatti snaturato l’istituto dell’autotutela, benché conseguente a un accertamento penale.
Una simile lettura porterebbe, infatti, a una sostanziale interpretatio abrogans dell’art. 21 nonies, comma 2 bis“derubricandolo a mero richiamo a un meccanismo sanzionatorio rinvenibile aliunde”, che si mostra incompatibile con il dato letterale già sopra evidenziato, in relazione all’utilizzo del verbo servile potere.
Secondo l’interpretazione offerta nella pronuncia in commento, la clausola di salvaguardia contenuta all’art. 21 nonies, comma 2 bis della l. n. 241 del 1990 “fatta salva l’applicazione delle sanzioni penali nonchè delle sanzioni previste dal Capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 245” evoca più propriamente un cumulo di sanzioni/conseguenze della declaratoria falsa, ma non la sovrapposizione delle due ipotesi, con conseguente assorbimento di quella più rigorosa di cui all’art. 75, comma 1, in quella meno rigorosa di cui all’art. 21 nonies, comma 2 bis.
Passando all’argomento legato ai profili di responsabilità erariale, va chiarito che la lettura del T.A.R., per cui questi contribuirebbero a sostenere l’automatismo caducatorio insito nell’art. 21 nonies, comma 2 bis, deriva dall’ultimo periodo del suo comma 1, in forza del quale “rimangono ferme le responsabilità connesse all’adozione al mancato annullamento del provvedimento illegittimo”. Tale disposizione, in ragione della sua collocazione sistematica, sarebbe applicabile a tutti i casi di autotutela[24].
Secondo il Giudice d’appello, tuttavia, tale lettura non è condivisibile. La citata disposizione di cui all’ultimo periodo del comma 1 dell’art. 21 nonies, pur costituendo una clausola di salvaguardia, che contribuisce a limitare la discrezionalità dell’Amministrazione, non può essere intesa come capace di rendere doveroso l’annullamento in autotutela.
Questa, infatti, impone all’Amministrazione semplicemente di tenere in considerazione, in fase di valutazione discrezionale, la necessità di evitare effetti pregiudizievoli per la stessa, mirando quindi a prevenire comportamenti negligenti nell’esercizio della funzione pubblica.
Infine, viene posto a vaglio critico il richiamo all’art. 27 del d.P.R. n. 380 del 2001, sempre finalizzato a sostenere la doverosità dell’annullamento d’ufficio a seguito dell’accertamento penale. Si ricorda che la sig.ra A aveva presentato due differenti istanze al Comune, l’una di autotutela ex art. 21 nonies, comma 2 bis, l’altra di esercizio dei poteri di vigilanza, ai sensi dell’art. 27 del d.P.R. n. 380 del 2001.
Nel confutare tale argomento il Consiglio di Stato pone in risalto la sostanziale differenza sussistente tra attività di controllo del territorio e attività di controllo sulla legittimità degli atti, profili profondamente intricati e spesso indebitamente sovrapposti[25].
Chiarisce il Consiglio di Stato che l’art. 27 citato, rubricato “Vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia” costituisce uno strumento conferito per dare effettività alle scelte di pianificazione urbanistica e “attiene alla verifica, effettuabile senza limiti di tempo, della conformità degli interventi al regime di edificabilità dei suoli, per come cristallizzati nei titoli edilizi, ove rilasciati, ovvero all’illecita realizzazione in assenza degli stessi di modifiche che in qualche modo impattino sul territorio”. Il controllo sulla legittimità e quindi l’esercizio del potere di autotutela, invece, implica esclusivamente la possibilità di annullamento dei provvedimenti, sussistendone i presupposti di legge.
Secondo il Collegio, nonostante la difficoltà ermeneutica che comporta distinguere tra le due ipotesi, si tratta questo di uno sforzo che il Comune è chiamato necessariamente a compiere “così da distinguere i profili di illegittimità, rilevabili ex post nei limiti dell’autotutela, da quelli di illiceità, stigmatizzabili in qualunque momento”.
Evidenzia, infine, che il Giudice di primo grado ha sostanzialmente sovrapposto le richieste di autotutela e di controllo, operando così un’indebita commistione dei due diversi piani, arrivando “a giustificare la doverosità della prima in ragione della sussistenza dei compiti di controllo”.
4. La decisione del Consiglio di Stato e brevi osservazioni conclusive.
A seguito della complessa ricostruzione del fatto, nonché della definizione dell’istituto dell’autotutela doverosa, capace di chiarirne la portata applicativa, il Consiglio di Stato procedeva all’accoglimento del ricorso del Comune di Barletta.
Il Collegio, in particolare, mostrava di non condividere la decisione del Giudice di primo grado che, di fatto, aveva imposto l’annullamento in autotutela dei titoli edilizi sopra descritti, evidenziando che nel giudizio avverso il silenzio non è consentito al Giudice, in presenza di attività discrezionale, valutare la fondatezza della pretesa azionata. Ciò in quanto, come sopra chiarito, i poteri di autotutela di cui all’art. 21 nonies, comma 2 bis della l. n. 241 del 1990 sono caratterizzati da discrezionalità, imponendo doverosamente solo l’esame dell’istanza del privato, ma non l’emanazione di un provvedimento di annullamento in secondo grado.
Chiariva, quindi, che il Comune era tenuto a riscontrare l’istanza di autotutela della sig.ra A, potendo poi stabilire, nell’esercizio della propria discrezionalità, se procedere o meno all’annullamento d’ufficio dei titoli edilizi.
Nell’esercizio dei poteri di vigilanza di cui all’art. 27 del d.P.R. n. 380 del 2001, invece, era obbligato, in ogni caso, ad attivare il relativo procedimento sanzionatorio, dando riscontro alla richiedente dell’eventuale adozione di provvedimenti demolitori ovvero della loro mancata adozione.
Va osservato che, nonostante nella pronuncia in commento il Consiglio di Stato abbia dato credito all’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale dell’istituto dell’autotutela doverosa, di fatto, nel definirne i confini, ne ha condivisibilmente evidenziato la sua ontologica inconsistenza.
Non condividendo l’automatismo caducatorio nelle ipotesi di cui all’art. 21 nonies, comma 2 bis della l. n. 241 del 1990 ed evidenziando la natura discrezionale insita nelle valutazioni propedeutiche all’eventuale emanazione del provvedimento di annullamento in autotutela, infatti, il Giudice ha riportato tale disposizione nell’ordinaria categoria dell’annullamento d’ufficio.
Anche nei casi di cui al citato art. 21 nonies, comma 2 bis, l’Amministrazione è chiamata a effettuare un bilanciamento tra l’interesse al ripristino della legalità violata e quello alla conservazione del titolo. Uniche differenze rispetto alle ipotesi di autotutela “tradizionali” sono legate, da un lato, al superamento dei limiti temporali dettati dal comma 1 dell’art. 21 nonies, dall’altro, al ridotto onere motivazionale – in caso si decidesse di optare per l’annullamento – conseguente all’assenza di una posizione di affidamento in capo al privato e alla presunzione della sussistenza dell’interesse pubblico.
Per quanto suggestivo possa apparire il richiamo a una forma di autotutela doverosa, è evidente come questa ricostruzione possa risultare fuorviante, inducendo, come nel caso della sentenza del T.A.R Puglia, a vincolare l’Amministrazione in ogni caso a esercitare i propri poteri di annullamento d’ufficio, andando così ad arbitrariamente forzare il testo legislativo[26].
Certo è che la sentenza in commento, pur avendo fornito un’interpretazione della disposizione controversa coerente con il dato letterale – oltre che con la dottrina maggioritaria – e capace di contemperare i diversi interessi in gioco attraverso il “salvataggio” della discrezionalità, avrebbe forse preferibilmente potuto spingersi fino a contestare in radice la configurabilità, in tali ipotesi, dell’autotutela doverosa.
Come evidenziato, l’unica vera doverosità presente nel caso di specie si ritrova nell’elemento dell’an, cioè nel necessario avvio di un procedimento di secondo grado, il cui esito, tuttavia, non è vincolato dal giudicato penale. Questa lettura va a uniformarsi a quell’interpretazione dottrinale, nell’opinione di chi scrive del tutto condivisibile, che, come sopra accennato, imporrebbe all’Amministrazione in ogni caso di autotutela di emanare un provvedimento espresso a seguito dell’istanza del privato portatore di un interesse qualificato[27].
[1] Sull’autotutela doverosa, in dottrina, tra i più recenti contributi, si vedano, ex multis, N. Posteraro, Il dovere di provvedere a fronte di una richiesta di annullamento in autotutela, in M.A. Sandulli (a cura di), Principi e regole dell’azione amministrativa, 2023, 359-361; M. Giavazzi, Legalità, certezza del diritto e autotutela: riflessioni sulla funzionalizzazione dell’annullamento d’ufficio all’effet utile, in CERIDAP, 4, 2020; F.V. Virzì, La doverosità del potere d’annullamento d’ufficio, in www.federalismi.it, 14, 2018; S. Tuccillo, Autotutela: potere doveroso?, ivi, 16, 2016; N. Posteraro, Sulla possibile configurazione di un’autotutela doverosa (anche alla luce del codice dei contratti pubblici e della Adunanza Plenaria n. 8 del 2017), ivi, 20, 2017; G. Manfredi, Annullamento doveroso?, in P.A. Persona e Amministrazione, 2017; C. Deodato,L’annullamento d’ufficio, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017, 1190 ss.
[2] Più precisamente, come si legge nella ricostruzione in fatto svolta dal Consiglio di Stato, le autorizzazioni edilizie rilasciate avevano ammesso che alla palazzina, originariamente articolata su tre piani fuori terra e uno seminterrato, venisse aggiunto un piano, costruendovi in adiacenza un ulteriore locale, coperto integralmente da un lastrico solare, così da trasformare la residua parte della terrazza in una specie di portico chiuso su tre lati, reso accessibile mediante un “torrino”, funzionale all’allocazione delle scale.
[3] L’art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, rubricato “Sanzioni penali”, al suo comma 1, lett. b) prevede che “Salvo che il fatto costituisca più grave reato e ferme le sanzioni amministrative, si applica […]” “b) l’arresto fino a due anni e l’ammenda da 5164 a 51645 euro nei casi di esecuzione dei lavori in totale difformità o assenza del permesso o di prosecuzione degli stessi nonostante l’ordine di sospensione”.
[4] Si precisa che entrambi i capi di imputazione si riferivano a una d.i.a. del 2007 per lavori di manutenzione straordinaria e a un permesso di costruire in sanatoria del 2008, che ne mutava l’inquadramento riconducendoli a una ristrutturazione leggera.
[5] L’art. 21 nonies, comma 2 bis prevede che “I provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertante con sentenza passata in giudicato, possono essere annullati dall’amministrazione anche dopo la scadenza del termine di dodici mesi di cui al comma 1, fatta salva l’applicazione delle sanzioni penali, nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, 445”.
[6] Secondo la difesa civica, questa lettura troverebbe conferma sia nella giurisprudenza costituzionale sia nella formulazione dell’art. 21 nonies, comma 2 bis, che espressamente parla di potere e non di dovere delle Amministrazioni “di annullare i provvedimenti conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato”, anche dopo la scadenza del termine di cui al suo comma 1. Inoltre, inconferenti sarebbero i richiami – effettuati da controparte a sostegno della tesi dell’autotutela doverosa – all’art. 27 del d.P.R. n. 380 del 2001, che farebbe riferimento al diverso compito di vigilanza sul territorio gravante sul Comune, sia all’art. 654 c.p.p., che estende la portata del giudicato penale al solo responsabile civile (o parte civile) che abbia preso parte al procedimento penale, diversamente dal caso di specie, in cui il Comune se ne è mantenuto estraneo.
[7] Successive alla già citata d.i.a. del 2007 e al permesso di costruire del 2008 sono due sanatorie rilasciate nel 2011. La prima finalizzata ad azzerare l’originario procedimento sovrapponendone un altro, la seconda, invece, assentita in variante al permesso di costruire del 2008 e successiva d.i.a. in variante, più volte modificata.
[8] Si segnala, tra le più recenti pronunce in tal senso, Cons. Stato, Sez. V, 9 gennaio 2024, n. 301, in Red. Giuffrè, 2’24, secondo cui “In caso di presentazione di istanza di autotutela, l’amministrazione non ha l’obbligo di pronunciarsi in maniera esplicita in quanto la relativa determinazione costituisce una manifestazione tipica della discrezionalità amministrativa, di cui è titolare in via esclusiva l’amministrazione per la tutela dell’interesse pubblico; non è quindi configurabile un obbligo di provvedere a fronte di istanze di riesame di atti precedentemente emanati, conseguente alla natura officiosa e ampiamente discrezionale, soprattutto nell’an, del potere di autotutela ed al fatto che, rispetto all’esercizio di tale potere, il privato può avanzare solo mere sollecitazioni o segnalazioni prive di valore giuridicamente cogente”.
In dottrina, recentemente, si sono affermate talune posizioni contrarie a questo consolidato indirizzo. Cfr. M. Sinisi, La nuova azione amministrativa: il “tempo” dell’annullamento d’ufficio e l’esercizio dei poteri inibitori nel caso di s.c.i.a. Certezza del diritto, tutela dei terzi e falsi miti, in www.federalismi.it, 24, 2015 e M. Allena, La facoltatività dell’instaurazione del procedimento di annullamento d’ufficio: un “fossile vivente” nell’evoluzione dell’ordinamento amministrativo, ivi, 8, 2018. Alcune delle argomentazioni offerte, in tal senso, come si dirà nel prosieguo, sono state utilizzate dalla sig.ra A. e poi dal T.A.R Puglia, a sostegno della natura doverosa dell’autotutela di cui all’art. 21 nonies, che vincolerebbe, inoltre, come sopra chiarito, l'Amministrazione ad annullare i provvedimenti viziati.
[9] Sulla distinzione, in tema di autotutela doverosa, tra diversi profili si veda N. Posteraro, Sulla possibile configurazione di un’autotutela doverosa, cit., 4 ss. L’ A., invero, ritiene più corretto fare riferimento alla doverosità nel quid, anziché nel quomodo, per riferirsi all’obbligo di adottare un dato provvedimento. C. Deodato, L’annullamento d’ufficio, cit., 1193 fa riferimento al doveroso rispetto del quomodo nell’autotutela intendendo, con tale espressione, le regole d’azione cogenti.
[10] Va precisato che, come accennato nella ricostruzione in fatto, il T.A.R. Puglia, riconoscendo la natura doverosa dell’autotutela di cui all’art. 21 nonies, comma 2 bis, ritenuta applicabile al caso di specie, ne aveva altresì esteso la portata al quomodo, così inteso. Il Giudice di primo grado aveva fatto discendere tale interpretazione dalle seguenti disposizioni: l’art. 75 del d.P.R. n. 445 del 2000, relativo alla decadenza dei benefici conseguiti tramite dichiarazioni menzognere, richiamato dall’art. 21 nonies della l. n. 241 del 1990; l’art. 27 del d.P.R. n. 380 del 2001, rubricato “Vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia”; gli artt. 19 e 20 della l. n. 241 del 1990, in materia, rispettivamente, di s.c.i.a. e silenzio assenso. Venivano valorizzati, inoltre, i profili legati alla responsabilità amministrativa, che esponendo l’Amministrazione ad azioni di rivalsa per i danni erariali dei propri dipendenti, imporrebbero di determinarsi espressamente al fine di evitarli. Infine, il giudicato penale esplicherebbe i propri effetti ai sensi degli artt. 537, 651 e/o 654 c.p.p, obbligando all’assunzione di una posizione in forma espressa.
[11] Sulla configurabilità, in termini generali, dell’autotutela doverosa, tra le più recenti pronunce si vedano Cons. Stato, Sez. VI, 15 marzo 2021, n. 2207, in Riv. giur. ed., 2021, 2, 467; Id, 31 dicembre 2019, n. 8920, ivi, 2020, 1, 97; Id, 29 maggio 2019, n. 3576, in Red. Giuffrè, 2019 e Cons. Stato, Ad. Plen., 17 ottobre 2017, n. 8, in Riv. giur. ed., con nota di N. Posteraro.
[12] L. 11 febbraio 2005, n. 15, recante “Modifiche ed integrazioni alla legge 7 agosto 1990, n. 241, concernenti norme generali sull’azione amministrativa”.
[13] L. 15 maggio 1997, n. 127 “Misure urgenti per lo snellimento dell’attività amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo”, pubblicata in G.U. n. 113 del 17 maggio 1997 – Suppl. Ordinario n. 98. L’art. 6, comma 17, prevede che “Entro il 30 settembre 1998 gli enti locali sono tenuti ad annullare i provvedimenti di inquadramento del personale adottati in modo difforme dalle disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica 25 giugno 1983, n. 347, e successive modificazioni ed integrazioni, e a bandire contestualmente i concorsi per la copertura dei posti resisi vacanti per effetto dell’annullamento. […]”
[14] D.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 “Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136”. Più precisamente, l’art. 94 del d.lgs. n. 159 del 2011, al suo comma 2 stabilisce che “Qualora il prefetto non rilasci l'informazione interdittiva entro i termini previsti, ovvero nel caso di lavori o forniture di somma urgenza di cui all'articolo 92 comma 3 qualora la sussistenza di una causa di divieto indicata nell'articolo 67 o gli elementi relativi a tentativi di infiltrazione mafiosa di cui all'articolo 84, comma 4, ed all'articolo 91, comma 6, siano accertati successivamente alla stipula del contratto, i soggetti di cui all'articolo 83, commi 1 e 2, salvo quanto previsto al comma 3, revocano le autorizzazioni e le concessioni o recedono dai contratti fatto salvo il pagamento del valore delle opere già eseguite e il rimborso delle spese sostenute per l'esecuzione del rimanente, nei limiti delle utilità conseguite”. In giurisprudenza si veda, ex multis, Cons. giust. Amm. Sicilia, 30 marzo 2020, n. 223, in www.giustizia-amministrativa.it, che afferma che “L’amministrazione, qualora l’informativa antimafia sia stata rilasciata dopo la conclusione di un contratto o dopo l’erogazione di un contributo, ha il dovere imprescindibile di revocare il contributo già erogato, con efficacia ex tunc, essendo in questa ipotesi l’interesse pubblico alla revoca in re ipsa. Infatti, la revoca del contributo costituisce un vero e proprio dovere dell’amministrazione che è tenuta a porre rimedio alle sfavorevoli conseguenze derivate all’erario per effetto di una erogazione non dovuta di contributi pubblici, non sussistendo in questo caso uno specifico obbligo di motivazione, atteso che l’interesse pubblico all’adozione dell’atto è “in re ipsa” quando ricorre un indebito esborso di denaro pubblico con vantaggio ingiustificato per il privato”.
[15] In giurisprudenza si rimanda, ex multis, a Cons. Stato, Sez. IV, 11 marzo 2022, n. 1737, con la nota di N. Posteraro, Alcune considerazioni critiche su due questioni inerenti alla tutela del terzo leso da una SCIA a partire da una recente pronuncia del Consiglio di Stato, in Dir. proc. amm., 4, 2022, 957, in cui si legge che “L’autotutela di cui al comma 4 dell’art. 19 della legge n. 241/1990 presenta alcune peculiarità rispetto al generale potere di autotutela, in quanto, mentre di regola si assume che questo sia ampiamente discrezionale nell’apprezzamento dell’interesse pubblico che può imporne l’esercizio e non coercibile (al punto che la p.a. non ha neanche l’obbligo di rispondere a eventuali istanze con cui il privato ne solleciti l’esercizio), ciò non vale in questo caso laddove, anche per l’intima connessione di tale potere col più generale dovere di vigilanza che incombe al Comune sull’attività edilizia ai fini dell’ordinato assetto del territorio, a fronte di un’istanza di intervento ai sensi dell’art. 19, comma 4, l’Amministrazione ha il dovere di rispondere, essendo la sua discrezionalità limitata solo alla verifica della sussistenza o meno dei presupposti di cui all’art. 21 nonies”. Più recentemente si veda, anche, Cons. Stato, Sez. IV, 30 giugno 2023, n. 6837 con la nota di P. Otranto, Quando “tempus non regit actum”. Ancora sulla c.d. “autotutela” in materia di s.c.i.a., in questa Rivista, 20 dicembre 2023.
[16] Cfr. N. Durante, L’autotutela doverosa, in www.giustizia-amministrativa.it, 2022.
[17] L. 30 dicembre 2004, n. 311, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria)”, in G.U. Serie Generale n. 306 del 31 dicembre 2004. L’art. 1, comma 136 citato stabiliva che “Al fine di conseguire risparmi o minori oneri finanziari per le amministrazioni pubbliche, può sempre essere disposto l’annullamento di ufficio di provvedimenti amministrativi illegittimi, anche se l’esecuzione degli stessi sia ancora in corso. L’annullamento di cui al primo peridio di provvedimenti incidenti su rapporti contrattuali o convenzionali con privati deve tenere indenni i privati stessi dall’eventuale pregiudizio patrimoniale derivante, e comunque non può essere adottato oltre tre anni dall’acquisizione di efficacia del provvedimento, anche se la relativa esecuzione sia perdurante”.
Nel vigore di tale disposizione la giurisprudenza aveva elaborato il principio di diritto per cui “l’interesse pubblico all’annullamento d’ufficio dell’illegittimo inquadramento di un pubblico dipendente è in re ipsa e non richiede specifica motivazione, in quanto l’atto oggetto di autotutela produce un danno per l’Amministrazione consistente nell’esborso di denaro pubblico senza titolo, con vantaggio ingiustificato per il dipendente, né in tali casi rileva il tempo trascorso dall’emanazione del provvedimento di recupero dell’indebito” (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. III, 20 giugno 2012, n. 3595, in Foro amm. – CdS, 2012, 6, 1550.)
[18] Il sopra richiamato caso di abrogazione di un’ipotesi di autotutela doverosa è preso a esempio dal Consiglio di Stato per evidenziare come, nel tempo, sia mutato l’approccio verso il tema del riesame degli atti amministrativi, in ragione del differente contesto socio-economico. Nella pronuncia viene esplicato che attualmente si sta affermando una visione responsabilizzante delle Amministrazioni pubbliche, per cui viene attribuita una maggiore importanza alla completezza dell’istruttoria sulle istanze del privato, dato che va a dequotare l’impiego dei provvedimenti di secondo grado.
[19] Sull’art. 21 nonies, comma 2 bis, in dottrina si vedano, ex multis, M. Sinisi, Il potere di autotutela caducatoria, in M.A. Sandulli (a cura di), Principi e regole dell’azione amministrativa, cit., 565 ss.; M.A. Sandulli, Edilizia, in Riv. giur. ed., 2022, 3, 171; Id, Controlli sull’attività edilizia, sanzioni e poteri di autotutela, ivi, 18, 2019; V. Di Iorio, Osservazioni a prima lettura sull’autotutela dopo la l. n. 124/2015: profili di incertezza nell’intreccio tra diritto amministrativo e diritto penale, in www.federalismi.it, 21, 2015; M.A. Sandulli, Gli effetti diretti della l. 7 agosto 2015, n. 124 sulle attività economiche: le novità in tema di s.c.i.a., silenzio-assenso e autotutela, in www.federalismi.it, 17, 2015, 9.
[20] Il comma 1 dell’art. 21 nonies della l. n. 241 del 1990 stabilisce che “Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole, comunque non superiore a dodici mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell'articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge. Rimangono ferme le responsabilità connesse all'adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo”.
[21] In tal senso anche Cons. Stato, Sez. IV, 18 marzo 2021, n. 2329, in Riv. giur. ed., 2021, 3, 921; T.A.R. Campania, Salerno, Sez. II, 5 gennaio 2021, n. 18, ivi, 2021, 2, 559; T.A.R Lombardia, Brescia, Sez. I, 12 giugno 2018, n. 574, ivi, 2018, 4, 1100 per cui “L’interesse pubblico all’eliminazione, ai sensi dell’art. 21 nonies l. n. 241 del 1990, di un titolo abilitativo illegittimo è in re ipsa, a fronte di falsa, infedele, erronea o inesatta rappresentazione, dolosa o colposa, della realtà da parte dell’interessato, risultata rilevante o decisiva ai fini del provvedimento ampliativo, non potendo l’interessato vantare il proprio legittimo affidamento nella persistenza di un titolo ottenuto attraverso l’induzione in errore dell’amministrazione procedente”.
[22] Cfr., M. Sinisi, Il potere di autotutela caducatoria, cit., 566.
[23] Per un’interpretazione del rapporto tra art. 21 nonies della l. n. 241 del 1990 e art. 75 del d.P.R. n. 445 del 2000 cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 15 marzo 2021, n. 2207, cit.
[24] In tal senso in dottrina si è espressa, ad esempio, M. Sinisi, La nuova azione amministrativa: il “tempo” dell’annullamento d’ufficio e l’esercizio dei poteri inibitori nel caso di s.c.i.a. Certezza del diritto, tutela dei terzi e falsi miti, in www.federalismi.it, 24, 2015.
[25] Afferma il Consiglio di Stato, nella sentenza in commento, che “nella pratica, accade spesso che il richiamo all’imprescindibilità dei poteri di vigilanza divenga il grimaldello attraverso il quale legittimare controlli postumi, ovvero spostare in avanti il dies a quo di decorrenza del termine di silenzio assenso dilatando a dismisura il concetto di requisiti formali e sostanziali che la domanda deve possedere per poter essere valutata”.
[26] In tal senso, M. Giavazzi, Legalità, certezza del diritto e autotutela: riflessioni sulla funzionalizzazione dell’annullamento d’ufficio all’effet utile, cit., afferma che “è da escludere che esistano, nel diritto interno, fattispecie di annullamento d’ufficio doveroso, atteggiandosi sempre l’atto di autotutela come provvedimento discrezionale, sia pure con diversi gradienti di discrezionalità in funzione del differente grado di rilevanza costituzionale degli interessi pubblici a tutela dei quali quell’atto interviene, potendosi al più immaginare che, in particolari vicende, vi sia una presunzione (iuris tantum) della ricorrenza di un interesse pubblico alla rimozione prevalente rispetto a quello che milita alla sua conservazione”.
[27] Questa interpretazione, oltre a risultare maggiormente in linea con il mutamento della relazione pubblico-privato, potrebbe garantire una consistente riduzione del contenzioso. In questa prospettiva, di interesse sono le conclusioni offerte da M. Allena, La facoltatività dell’instaurazione del procedimento di annullamento d’ufficio, cit., 24-25, per cui “in un sistema democratico in cui l’amministrazione è al servizio dei cittadini (art. 98 Cost.), va superata una visione strettamente unilaterale dell’autotutela decisoria. […] Tuttavia, appaiono maturi i tempi per superare l’idea che tale istituto serva essenzialmente a garantire l’interesse della p.a. in quanto tale, rendendole più facile e immediata la possibilità di eliminare i propri atti illegittimi, senza alcuna (o, comunque, estremamente limitata) attenzione per l’interesse del cittadino che tale illegittimità subisce”.
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