ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. Giorgio La Pira, l’attualità del suo pensiero e delle sue opere. 2. Giorgio La Pira in Assemblea costituente, i diritti sacri, naturali e inviolabili dell’uomo. 3. Giorgio La Pira e la priorità della coscienza individuale sulla legge formale, la proiezione del film “Non uccidere”. 4. Segue: l’impegno a tutela del lavoro, la vicenda Pignone. 5. Segue: l’impegno per la tutela della casa, gli sfratti a Firenze. 6. La realizzazione della nuova centrale del latte. 7. Giorgio La Pira e l’impegno per la pace. 8. Giorgio La Pira e il valore della vita, Spes contra spem.
1. Giorgio La Pira, l’attualità del suo pensiero e delle sue opere
È un grande piacere per me ricordare un illustre personaggio del secolo che abbiamo alle spalle quale Giorgio La Pira, proprio qui a Pozzallo, nella sua città natale[1].
Premetto che non ho titoli per ricordare Giorgio La Pira, e quindi mi appresto a rendere questo omaggio con la massima modestia.
Il mio vuol essere solo un ricordo; non c’è né storia, né diritto né scienza in quello che andrò ad esporre.
D’altronde, lo stesso Giorgio La Pira abbandonava la c.d. produzione scientifica giovanissimo, ovvero trentenne, visto che gli ultimi suoi studi di diritto romano, del quale era titolare di cattedra nell’Università di Firenze, risalgono alla prolusione del 1934[2] e ad un successivo saggio del 1938[3]; poi si occupò solo dell’uomo, nei suoi bisogni terreni e nella sua spiritualità; ed è su questo suo impegno che io voglio far cadere l’attenzione, poiché è essa, e solo essa, la ragione per la quale noi, ancora oggi, con riverenza, lo ricordiamo.
Se qualcuno, poi, dovesse chiedersi per quale motivo un giurista positivo, quale io posso essere considerato, si mette a fare simili cose, risponderei che riaffermare i diritti inalienabili e primi della persona, attraverso il pensiero e l’opera di Giorgio La Pira, è di questi tempi quanto più necessario, poiché viviamo in un’epoca ove la pace e le libertà individuali sono di nuovo, purtroppo, a rischio.
E inoltre, ricordare Giorgio La Pira è per me in ogni caso un piacere perché a lui mi lega, oltre all’ossequio che porto al suo rigore morale, il suo essere stato fiorentino.
Voi sapete che Giorgio La Pira, siciliano di Pozzallo, ha amato però profondamente la città di Firenze, e non ha mai perso occasione per lodarla.
Dal Natale del 1952, sindaco di Firenze da solo un anno, Giorgio La Pira prese l’abitudine di rivolgersi ai ragazzi delle scuole elementari con una lettera, accompagnata da un piccolo panettone e da un libretto, curato da Piero Bargellini, anch’egli poi sindaco di Firenze nel periodo dell’alluvione del 1966, autore di quattro volumi su La splendida storia di Firenze, volumi che si trovavano all’epoca in molte case fiorentine[4].
Scriveva Giorgio La Pira nella lettera del 1952: “Vi auguro di nuovo tanto bene, ragazzi cari per questo Natale……..Tutto il vostro essere cresca spiritualmente e fisicamente robusto, come pianticella saldamente radicata in questo giardino del mondo che è Firenze…….Di questa città incomparabile, radicata sui monti santi della grazia e della bellezza, voi siete, ragazzi cari, le pietre vive più preziose”[5].
2. Giorgio La Pira in Assemblea costituente, i diritti sacri, naturali e inviolabili dell’uomo
Il primo ricordo di Giorgio La Pira non può non risalire al 1946 e alla sua partecipazione all’Assemblea costituente[6].
Giorgio La Pira fece infatti parte della prima sottocommissione dei 75, ovvero di quella sottocommissione che si occupò dei diritti fondamentali.
2.1. Il tema da ricordare è dunque quello dei diritti naturali, inalienabili dell’uomo, che lo Stato non può toccare, ma solo riconoscere e proteggere, e ciò in contrapposizione allo Stato fascista, che viceversa, per tutto il ventennio, aveva calpestato e negato le libertà della persona.
Giorgio La Pira nell’adunanza del 9 settembre 1946 dichiarava: “E’ necessario che alla costituzione sia premessa una dichiarazione dei diritti dell’uomo, ciò in conformità anche a tutta la tradizione giuridica cosiddetta occidentale. Ma oltre che in omaggio alla tradizione, una dichiarazione dei diritti dell’uomo deve essere ammessa soprattutto come affermazione solenne della diversa concessione dello Stato democratico, che riconosce i diritti sacri, inalienabili, naturali del cittadino, in opposizione allo Stato fascista, che con l’affermazione dei diritti riflessi, e cioè con la teoria che lo Stato è la fonte esclusiva del diritto, negò e violò alla radice i diritti dell’uomo”[7].
Dunque, per Giorgio La Pira esistono dei diritti, che egli arriva a qualificare sacri, che preesistono allo Stato, e che lo Stato non può negare senza commettere abuso, poiché sono diritti che l’uomo ha per natura, o, nella concezione religiosa di Giorgio La Pira, per volontà di Dio, e non diritti che l’uomo ha in quanto concessi dallo Stato.
Uno Stato democratico, infatti, rifiuta la teoria dei diritti c.d. riflessi, tipici dei sistemi totalitari e della filosofia hegeliana dello Stato.
Al riguardo Giorgio La Pira ancora esponeva: “Esiste una base filosofica, che sia a fondamento di questa teoria dei diritti riflessi? Alla domanda si può rispondere affermativamente, in quanto la teoria dei diritti riflessi corrisponde alla concezione hegeliana, che vede lo Stato come un tutto e l’individuo come elemento integralmente subordinato alla collettività, in contrapposto all’altra concezione che, pur rispettando l’esigenza della collettività, vede la persona come un ente dotato di una sua interiore autonomia e quindi considera la libertà e i diritti subiettivi non come concessione, ma come conseguenza di questa interiore autonomia”[8].
2.2. Dunque, la persona è dotata di una sua autonomia, e l’individuo non è integralmente subordinato alla collettività.
La posizione di Giorgio La Pira, peraltro, era interamente condivisa dalle forze politiche del cattolicesimo progressista, delle quali lui faceva parte, e sotto questo profilo merita altresì ricordare l’intervento di Giuseppe Dossetti, avvenuto nell’adunanza della prima sottocommissione sempre il 9 settembre 1946.
Disse Giuseppe Dossetti: “Si vuole o non si vuole affermare l’anteriorità della persona di fronte allo Stato? Questo concetto fondamentale dell’anteriorità della persona, che dovrebbe essere gradito alle correnti progressiste qui rappresentate, può essere affermato con il consenso di tutti”[9].
Sono questi, dunque, i cardini della nuova Repubblica, e di quello che poi sarà lo stesso art. 2 della Costituzione: diritti naturali inalienabili e anteriorità della persona allo Stato.
Tuttavia per Giorgio La Pira i diritti della persona non potevano essere solo quelli dell’individuo, tipici della rivoluzione francese del 1789, ma dovevano necessariamente estendersi anche a quelli della collettività, o dei gruppi intermedi, che segnavano così il passaggio dallo Stato liberale allo Stato sociale.
Al riguardo Giorgio La Pira completava il suo intervento asserendo ancora: “Può con questo dirsi completato il quadro dei diritti dell’uomo? Evidentemente no; per completarlo è necessario tener conto delle comunità fondamentali, nelle quali l’uomo si integra e si espande, cioè dei diritti delle comunità…….si arriva così alla teoria del c.d. pluralismo giuridico, che riconosce i diritti del singolo e i diritti delle comunità e con questo dà una vera integrale visione dei diritti imprescrittibili dell’uomo”[10].
Questa era quindi la posizione di Giorgio La Pira su questo delicatissimo tema: i diritti di libertà, individuali e collettivi, seppur in una logica di solidarietà, sono sacri e inalienabili, e la loro soppressione o compressione, per qualunque ragione pretesa, si porrebbe al di là e fuori dall’idea di Stato democratico, il quale, contrapponendosi ai regimi totalitari, rifiuta, e deve rifiutare, le teorie dei diritti riflessi.
2.3. Giorgio La Pira avrà modo di specificare questi concetti anche in periodi successivi, e qui desidero ricordare quanto egli disse il 26 maggio 1956 nel suo discorso di chiusura della campagna elettorale: “V’è un insanabile contraddizione fra due civiltà, la civiltà che ha il vessillo della bandiera comunista e la civiltà che ha un altro vessillo, che, pur essendo cristiano, abbraccia tutti gli uomini che amano la libertà e hanno il gusto della spiritualità e dei valori supremi dell’uomo; sono due mondi contrapposti: uno materialista e l’altro spirituale: sono due tipi di governo e di reggimento della cosa pubblica: l’uno fondato sulla libertà economica, politica, sociale, culturale, religiosa, da correggere, magari, da integrare, ma sempre libertà nelle sue fondamentali strutture di governo e di democrazia; e l’altro che non ammette nessuna libertà: ne’ libertà economica, ne’ libertà politica, ne’ religiosa”[11].
Probabilmente, la contrapposizione che qui ci propone Giorgio La Pira è troppo netta, troppo radicale; tuttavia essa rimarca la sua distanza dal comunismo, la sua solidarietà umana che non rinuncia mai ai valori della libertà, la sua giustizia sociale che non sfocia mai in autoritarismo statuale; perché, appunto, lo Stato viene dopo la persona, in quanto esistono, lo si ripete ancora con le sue parole, i diritti sacri, inalienabili, naturali del cittadino, in quanto la nostra democrazia vede la persona come un ente dotato di una sua interiore autonomia e quindi considera la libertà e i diritti subiettivi non come concessione, ma come conseguenza di questa interiore autonomia.
3. Giorgio La Pira e la priorità della coscienza individuale sulla legge formale, la proiezione del film “Non uccidere”
La seconda vicenda che desidero ricordare risale al 18 novembre 1961[12].
Siamo a Firenze, Giorgio La Pira è sindaco della città per la seconda volta.
3.1. In quel periodo circolava un film di un registra francese, certo Claude Autant-Lara, che si intitolava Tu ne tueras point (“Tu non ucciderai”), e che trattava dell’obiezione di coscienza al servizio militare.
In quegli anni, ancora, nessuna normativa sull’obiezione di coscienza esisteva in Italia, visto che il primo riconoscimento dell’obiezione di coscienza arrivava oltre dieci anni dopo con la legge 15 dicembre 1972 n. 772, cui poi susseguivano le ulteriori leggi 8 luglio 1998 n. 230 e 14 novembre 2000, n. 331.
Il film, già vietato in Francia, era stato bloccato anche a Roma, e ne era interdetta la diffusione.
Giorgio La Pira desiderava tuttavia proiettarlo e farlo conoscere, in quanto lo giudicava di particolare valore morale e utile per aprire un dibattitto sul tema.
Per evitare la censura Giorgio La Pira ha l’idea di proiettarlo in forma privata.
Organizza, così, una sorta di sala cinematografica al Parterre di Firenze, e offre una visione del film solo alle persone da lui espressamente invitate.
Giorgio La Pira fa ciò a tutela di due valori: quello della libertà di manifestazione del pensiero e quello della libertà di coscienza contro la guerra e gli obblighi militari.
La sala si racconta fosse gremita, e gli invitati erano magistrati, giuristi, politici, giornalisti, perfino militari.
3.2. L’iniziativa di Giorgio La Pira, soprattutto in considerazione del fatto che lo stesso aveva un incarico istituzionale, trovò non poche reazioni critiche: tra queste si ricordano quelle dell’allora Ministro della difesa Giulio Andreotti, del direttore dell’Osservatore romano Raimondo Mazzini, e poi di giornalisti, di politici, perfino di componenti del consiglio comunale di Firenze quali Bettino Ricasoli[13].
Addirittura, il ministro dell’interno Scelba emanò una circolare comunicata al Consiglio dei Ministri il 22 novembre 1961, nella quale si prescriveva il divieto di iniziative analoghe per il futuro[14].
Giorgio La Pira rimase assai amareggiato da queste critiche, che a lui sembravano offendere la libertà di coscienza.
Scrisse addirittura a Papa Giovanni XXIII: “Beatissimo Padre, si può andare avanti così? Il retroterra non è il film Non uccidere; è la politica interna italiana, e direi soprattutto il fatto che Firenze sostenga da anni queste tesi: la guerra è impossibile: alla pace non può essere contrapposta altra alternativa che la pace”[15].
Rispose a Giulio Andreotti, asserendo che non capiva: “quale sia il fondamento della tua meraviglia, del tuo stupore e del tuo giudizio”[16], e soprattutto rispondeva al consigliere comunale democristiano Bettino Ricasoli, con un puntiglio che merita di essere ricordato: “Caro Bettino, sarai persuaso anche tu che la lettera (la sua lettera di protesta) è stata scritta senza adeguata responsabile meditazione: perciò la restituisco. Non abbiamo violato nessuna norma giuridica e nessuna norma morale; abbiamo solo affermato il grande principio strutturalmente antitotalitario in base al quale lo Stato non può violare le coscienze e l’intelligenze. E’ il principio cardine della libertà: lo sottoscriverebbe anche il Bettino Ricasoli di ieri! Per queste ragioni non posso permettere che il Bettino Ricasoli di oggi scriva la lettera che ha scritto”[17].
3.3. Giorgio La Pira, per la proiezione del film, verrà denunciato in base all’art. 688 c.p. e in base all’art. 68 della legge di polizia, visto che la proiezione era avvenuta senza la licenza del Questore.
Difeso dagli avvocati Giorgio Della Pergola e Paolo Barile (principi del foro fiorentino dell’epoca, l’ultimo allievo dello stesso Piero Calamandrei), Giorgio La Pira si difese negando di aver diffuso il film in pubblico, e nell’interrogatorio del 14 dicembre 1961 asserì che infatti tutti i partecipanti erano stati da lui invitati, che le autorità erano state preventivamente avvertite, che il film era stato proiettato per sollecitare un dibattito sul tema della pace, e che infine doveva considerarsi incostituzionale ogni censura non riconducibile alla tutela del buon costume.
Il Tribunale di Firenze rimise gli atti alla Corte costituzionale, la quale tuttavia, con ordinanza del 7 febbraio 1963 n. 11, li rinviò al Tribunale di Firenze, per essere stata emanata nel frattempo in materia la nuova legge 21 aprile 1962 n. 161.
Il Tribunale di Firenze, infine, giudicando Giorgio La Pira in forza di questa nuova legge, lo assolveva “perché il fatto non costituisce reato”[18].
Il 29 novembre 1963 Giorgio La Pira scriveva all’arcivescovo di Firenze Ermenegildo Florid: “ormai tutto è passato: resta, in questa crisi, la grande luce di S. Agostino: in necessariis unitas, in dubiis libertas, in omnibus caritas”[19].
3.4. Perché ricordare questa vicenda?
Perché essa rappresenta in modo eloquente la posizione di Giorgio La Pira nel contrasto fra legge scritta e coscienza individuale, tra autorità e libertà.
E’ un esempio concreto di coerenza pratica di quanto egli, quindici anni prima, aveva sostenuto teoricamente in Assemblea costituente.
La legge morale e i diritti inalienabili dell’uomo, tra i quali certamente Giorgio La Pira ricomprendeva la pace e la libertà di pensiero, non possono non prevalere sulla legge formale, quando questa li contrasti.
Ancora una volta si riafferma la persona, come un ente dotato di una sua interiore autonomia.
4. Segue: l’impegno a tutela del lavoro, la vicenda Pignone
Giorgio La Pira impegnerà tutta la sua vita nella difesa degli ultimi, secondo i valori del Vangelo.
Scriveva di lui Piero Bargellini: “Quando scendeva dalla cattedra universitaria, non si recava a discutere in un caffè o a conversare in un salotto, ma andava a visitare i poveri della San Vincenzo……Era considerato l’amico dei poveri, per i quali aveva organizzato, a San Procolo, anche una Messa domenicale”.
Continuava poi Piero Bargellini: “Restavano ancora da risolvere due gravi e dolorosi problemi: quello della disoccupazione e quello dell’abitazione. Disoccupati e sfrattati accorsero in Palazzo Vecchio dove si era insediato l’amico dei poveri”[20].
Merita allora ricordare quanto Giorgio La Pira fece per i disoccupati e gli sfrattati, in difesa del lavoro e in difesa della casa.
4.1. Sul tema del lavoro va senz’altro ricordata la vicenda della Pignone.
La Pignone, in origine, era una industria metalmeccanica dell’area fiorentina.
Nel periodo della guerra si era ingrandita producendo armi, ma dopo la guerra stentava a trovare una propria identità, e la riconversione nel campo dei telai tessili immaginata dalla proprietà, la Snia Viscosa, non aveva prodotto alcun benefico risultato.
La Pignone riduceva allora il personale, e nel novembre del 1953 annunciava la chiusura degli stabilimenti, nonché il licenziamento di 1750 operai.
Precisamente il 17 novembre 1953 la società veniva messa in liquidazione, e il 18 novembre Giorgio La Pira, in difesa dei lavoratori, inviava una lettera a tutti i vescovi d’Italia.
Il 21 novembre successivo i dipendenti occupavano la fabbrica.
Il giorno dopo, 22 novembre, gli occupanti venivano denunciati in sede penale.
Quello stesso giorno, alle 11,30, i lavoratori occupanti si trasferivano nel piazzale antistante la fabbrica, per assistere ad una Messa celebrata da don Bruno Borghi, prete operaio della Pignone nel 1951; li raggiungeva Giorgio La Pira, e al termine della Messa si intratteneva con loro per esaminare i problemi più urgenti[21].
4.2. Giorgio La Pira scrisse ad una miriade di persone, tra le quali, addirittura, al Pontefice Pio XII: “Beatissimo Padre, l’atto temuto si è verificato: 1750 licenziamenti alla Pignone (totalità dei lavoratori e chiusura dell’azienda)……Qui c’è da salvare qualcosa di più saldo: la fiducia nella democrazia: fiducia non affidata solo alle leggi elettorali, quanto alla reale capacità di risolvere i veri problemi degli uomini: lavoro e casa”[22].
E poi scrisse all’amico Amintore Fanfani: “Caro Amintore, Marinotti ha deciso di chiudere la Pignone………E’ una decisione irresponsabile, illegittima ed ingiustificata: quando capiranno questi proprietari che la vita dei lavoratori non è nelle mani loro?”[23]
4.3. Ma la lettera principale, a mio sommesso parere, è quella che Giorgio La Pira inviava ad Edilio Rusconi, allora direttore del diffusissimo settimanale “Oggi”, che lo aveva attaccato in modo denigratorio per quanto egli stava facendo in difesa dei lavoratori.
Rispondeva Giorgio La Pira: “La Pira? Un imbecille per non dire altro, un visionario, un comunista bianco; lasciatelo cantare, tanto non concluderà nulla”[24].
E poi: “Ma cosa ha fatto? Nessuno lo sa con precisione; tutti sanno che ha fatto cose gravissime: - si figuri, ha fatto occupare dagli operai licenziati la fabbrica del Pignone; ha fatto celebrare la messa per gli occupanti, ha fatto stanziare due milioni per assisterli”[25].
E poi, di nuovo, proprio su quel rapporto tra legge scritta e legge morale: “La legge scritta? Noi siamo seguaci di S. Tommaso d’Aquino – il dottore della Chiesa per definizione – caro Rusconi. Ella non sa: quando la legge scritta fosse in intimo contrasto con quella naturale, allora non è più lex, sed corruptio legis (I,II,95,2; I,II,96,6) non tiene, non vincola non habet legis vigorem”[26]. Ed inoltre: “Anche le creature più alte dell’antichità pagana sentirono vivo questo dramma del contrasto fra la lettera della legge che uccide e lo spirito della giustizia che vivifica: ricorda Antigone? Vi sono leggi di natura, da Dio derivata, che nessuna legge umana può violare”…Non licet tibi……..ibant gaudentes a conspectu concilii quoniam digni habiti sunt pro nomine Jesu contumeliam pati”[27].
4.4. Giorgio La Pira, però, non si limitò a scrivere lettere e a fare teoria, ma si mosse anche concretamente per salvare l’azienda, e questo è l’altro importante aspetto; Giorgio La Pira non era solo un sognatore, era un uomo concreto.
Decise allora di prendere contatti con un altro suo importante amico, Enrico Mattei, presidente ENI, al quale gli propose di rilevare l’azienda.
L’idea era quella di convertire la Pignone nella produzione di turbine, idonee per l’estrazione del petrolio.
Ovviamente la cosa, a questo punto, poteva interessare Enrico Mattei, il quale avrebbe potuto salvare la Pignone non solo alla luce di quello spirito di solidarietà cristiana fatta avanti da Giorgio La Pira, ma anche per una buona ragione imprenditoriale.
Si stavano creando le basi, dunque, per salvare il lavoro a 1750 famiglie.
Dopo varie trattative, tutte seguite attentamente da Giorgio La Pira, la sera del 13 gennaio 1954, al Ministero del lavoro, verrà raggiunto l’accordo con i rappresentanti sindacali dei lavoratori e ENI, e finalmente si potrà comunicare l’acquisto del pacchetto azionario della Pignone[28].
Nascerà la Nuova Pignone, officina meccanica e fonderie, produttrice di turbine idonee all’estrazione di petrolio, con la partecipazione dell’ENI, presieduta da Enrico Mattei, al 60%, e la partecipazione altresì della vecchia proprietà, la SNIA VISCOSA al 40%[29].
5. Segue: l’impegno per la tutela della casa, gli sfratti a Firenze
Un egual impegno sociale Giorgio La Pira poneva in difesa della casa; considerava la casa, insieme al lavoro, un diritto inalienabile della dignità umana; e, da sindaco, voleva fermamente che nessuno, a Firenze, potesse rimanere senza un tetto.
5.1. Giorgio La Pira, anche su questo problema, intervenne, però, potremmo dire di nuovo, a modo suo, sopra le righe.
Requisì ville deserte e case sfitte, seppur la legge lo consentisse solo in ipotesi di calamità naturali.
Ma a chi gli citava articoli di legge, Giorgio La Pira tranquillo rispondeva: “Per questa povera gente la calamità è già avvenuta. Lo sfratto è come il terremoto e l’aumento delle pigioni oltre il livello delle possibilità economiche è peggiore d’un alluvione”[30].
Poi ebbe l’ardire di scrivere ai Pretori, competenti per materia all’epoca in tema di locazioni e di sfratti: “Signor Pretore…………io sono proprio preoccupato per questo crescere quotidiano di sfratti e per questa inquietudine – legittima – che va creandosi nella popolazione più povera……….La prego con tutta l’anima di aiutarmi, cioè a dare tutte le proroghe necessarie affinché ci sia dia tempo di provvedere a quella costruzione di case minime per le quali siamo impegnati un po’ tutti”[31].
5.2. Questo, era, dunque l’impegno concreto di Giorgio La Pira: ampliare la città di Firenze con la costruzione di case popolari da poter assegnare ai cittadini in difficoltà economiche in modo che nessuno a Firenze potesse rimanere senza casa.
Di nuovo, una perfetta sintesi tra sentimenti di carità cristiana e senso pratico per la risoluzione dei problemi.
Nel Verbale del Consiglio comunale del 16 ottobre 1952 risulta che Giorgio La Pira disse: “Venendo a parlare delle case, dirò che si è già iniziata la costruzione di case minime a Novoli ed a Varlungo, e presto si inizierà quella al Galluzzo. Vi sono poi le case per gli sfrattati, case vere e proprie e non baracche, che importano una spesa di 96 milioni. Vi è stato aggiunto anche un asilo, che è già in costruzione. In complesso quindi a Firenze noi facciamo investimenti per l’edilizia popolare in questa misura: mille alloggi comunale; mille alloggi per conto del Ministero degli Interni; millecinquecento alloggi Ina-Casa”[32].
5.3. Il problema è che, nel frattempo, Giorgio La Pira immaginava di risolvere provvisoriamente il problema con la requisizione degli alloggi vuoti a Firenze, e per questo ricevette molte critiche e vi furono numerosi contenziosi nei quali il Comune di Firenze restò soccombente.
Il giornale fiorentino La Nazione ricordava la posizione del Ministro dell’Interno su ciò, in base alla quale si doveva riaffermare il principio dell’inviolabilità della legge, ovvero del fatto che un Comune può requisire un immobile solo in ipotesi di calamità naturali.
E qui torniamo, ancora, al rapporto tra legge e coscienza.
Giorgio La Pira rispondeva così al direttore de La Nazione il 12 febbraio 1955: “Egregio direttore, sa lei quante sono le abitazioni sfitte in Firenze? Sono cauto se le dico che si va ben oltre le mille! E davanti a questo spreco di vuoti ecco il dramma di migliaia di famiglie già sfrattate o con l’incubo dello sfratto! Un sindaco che per paura dei ricchi e dei potenti abbandona i poveri, sfrattati, licenziati, disoccupati, è come un pastore che per paura del lupo abbandona il suo gregge. Posso io fare questo? Lei certamente risponderà di no: ed io pure”[33].
6. La realizzazione della nuova centrale del latte
Una ultima vicenda relativa all’impegno sociale di Giorgio La Pira riguarda la realizzazione della nuova centrale del latte di Firenze; essa è stata oggetto addirittura di uno studio monografico[34].
6.1. Ed infatti, appena insediato quale sindaco, Giorgio La Pira avverte la necessità di organizzare un servizio pubblico di distribuzione del latte per consentire a tutta la popolazione, e soprattutto alle classe sociali più disagiate, di poter godere di questo alimento, fino ad allora marginale nei consumi familiari[35].
Giorgio La Pira intende realizzare questo progetto con la creazione di una vera e propria “Centrale del latte”, e come in altre occasioni riesce a coniugare perfettamente i sentimenti di carità cristiana con il senso pratico.
Chiede aiuto, come in altre occasioni, all’amico Amintore Fanfani, che fa arrivare a Giorgio La Pira un finanziamento tramite il Ministero dell’Agricoltura; e poi, soprattutto, riceve l’aiuto di Lodovico Montini, fratello di Giovanni Battista Montini, futuro Papa Paolo VI, che riuscì ad ottenere per Giorgio La Pira un finanziamento addirittura dall’America.
Scriveva Giorgio La Pira a Lodovico Montini: “Caro Montini, il latte va benissimo; ormai da un mese i bambini delle scuole di Firenze ricevono ogni giorno questo sostanziale alimento: sono felici! Ora aspetto i denari: mandami, in anticipo, 15 milioni” [36].
Già nel 1952, così, “fra il 21 gennaio e il 31 maggio, prende avvio l’esperimento pilota della distribuzione di latte in 85 scuole elementari fiorentine”[37]; inizia la distribuzione quotidiana del latte ai bambini nelle scuole, agli operai pendolari nelle fabbriche, ai carcerati; sarà anche questo un forte legame tra il sindaco Giorgio La Pira e la sua città.
6.2. Giorgio La Pira ebbe ad esternare infatti il 19 febbraio 1952: “L’esperimento del latte è in pieno, felice sviluppo……E’ una idea elementare di vasta ripercussione, feconda per i suoi risultati fisici, spirituali, politici ed anche economici. Ringraziamo il Signore che ci ha permesso di condurre a termine, a Firenze, questa bella iniziativa assistenziale e fraterna…..Il latte sarà come l’asse attorno al quale potrà svilupparsi tutta una nuova azione assistenziale di dimensioni nazionali”[38].
7. Giorgio La Pira e l’impegno per la pace
Non si può, infine, ricordare Giorgio La Pira senza rimarcare il suo grande impegno per la pace e contro le guerre, impegno al quale egli dedicò enormi energie fino alla fine dei suoi giorni[39].
7.1. Nel 1952 iniziano a Firenze i Convegni internazionali per la pace e la civiltà cristiana; saranno in tutto cinque, dureranno fino al 1957; ad essi Giorgio La Pira invita esponenti politici di tutti i paesi, nella convinzione che il dialogo sia la base imprescindibile per la pace nel mondo.
Nel 1955 Giorgio La Pira prende un’ulteriore iniziativa, che è quella di invitare a Palazzo Vecchio i sindaci delle città capitali del mondo, per siglare un patto di amicizia tra loro; sosteneva che le città avessero la possibilità di svolgere un ruolo centrale per la pace, e dovevano così unirsi in un patto di salvaguardia della stessa.
Nel 1958 iniziano i Colloqui mediterranei, e invita a parteciparvi arabi e israeliani, convinto parimenti che nessuna pace potesse darsi nel mondo se non lavorando sulla pace nel mediterraneo, crocevia di più culture e più religioni, crocevia di diversi sistemi economici e politici, che tuttavia avevano lo specifico dovere di dialogare tra loro e collaborare.
Si è detto di Giorgio La Pira che “negli anni successivi si fece sempre più intenso il suo impegno a favore della pace, come testimoniano le lettere a Nikita Krusciov e al Presidente del Consiglio dell’URSS, il sostegno alla causa dell’indipendenza algerina, e soprattutto i pellegrinaggi, che lo condussero nel cuore medesimo dei popoli cristiani d’Europa”[40].
7.2. Soprattutto, nei giorni tra il 24 – 28 aprile 1965, a Firenze, al Forte di Belvedere, Giorgio La Pira organizza un Symposium sul Vietnam.
Oltre ai laburisti inglesi, era presente l’ex presidente del Consiglio francese Jules Moch, l’osservatore sovietico Modest Rubinstein dell’Accademia delle scienze di Mosca ed alcuni esponenti di organizzazioni internazionali[41].
Disse in quell’occasione Giorgio La Pira: “Il problema vietnamita è arrivato a rappresentare una vera minaccia per la pace mondiale…..Naturalmente i conflitti sono due. Uno è il conflitto che si svolge all’interno del Vietnam fra vietnamiti. L’altro è il conflitto sul Vietnam fra coloro che appoggiano una delle parti contendenti e coloro che appoggiano l’altra. E’ quest’ultimo conflitto che mette in pericolo la pace mondiale. Il primo invece è un conflitto del tutto normale, a cui si possono trovare molti paralleli e precedenti nel corso della storia”[42]
Ovviamente, anche per questa iniziativa Giorgio La Pira fu fortemente criticato.
Giorgio La Pira lo ricorderà in una lettera inviata allo stesso Papa Paolo VI: “Quante accuse ci furono fatte e quanti insulti sulla stampa “indipendente” italiana…..si disse: “e’ cosa comunista!” E’ l’accusa –così ingiusta- che viene, da 15 anni, fatta alle cose di Firenze”[43].
7.3. Infine, il 2 giugno 1965 è in programma la sessione della Tavola Rotonda Est-Ovest a Belgrado sulla questione del disarmo e sul ruolo di un’Europa inedita: denuclearizzata e pacificata.
Giorgio La Pira resta a Firenze e affida a Mario Primicerio il testo del suo intervento da presentare alla tavola rotonda: “La via della pace è costituita da quello che noi abbiamo chiamato a Mosca il “sentiero di Isaia”, cioè la via del disarmo…….convertire, cioè, in investimenti di pace gli investimenti di guerra, trasformare in aratri le bombe, in astronavi di pace i missili di guerra”[44]
7.4. Non v’è bisogno di sottolineare quanto il pensiero di Giorgio La Pira sulla pace e sul disarmo sia attualissimo a fronte dei fatti che stiamo, purtroppo, di nuovo in questo periodo vivendo.
Non v’è bisogno di sottolineare quanto sia importante il monito di Giorgio La Pira verso i potenti del mondo, che hanno il dovere di non trasformare un conflitto interno in un conflitto internazionale, prendendo posizione a favore, oppure contro, una parte, poiché è sempre quest’ultima posizione che trasforma una guerra locale in una guerra di tutti, è quest’ultimo conflitto che mette in pericolo la pace mondiale.
E non v’è bisogno di sottolineare che, se si vuole la pace, come correttamente sosteneva Giorgio La Pira, si deve seguire il sentiero di Isaia, ovvero si deve perseguire il disarmo.
Se si pensa, ad esempio, alla nostra Europa, che con la recente legge francese 1 agosto 2023 n. 703, avente ad oggetto la programmazione militare per gli anni 2024 – 2030, ha invece aumentato le spese militari del 40%, nonché aumentato l’impiego di forze umane, che consentirà di raggiungere il numero di 275.000 militari entro il 2030, ai quali si aggiungeranno 105.000 riservisti entro la fine del 2035, va da sé di quanto si sia lontani da quel sentiero di Isaia predicato da Giorgio La Pira.
8. Giorgio La Pira e il valore della vita, Spes contra spem.
Arriviamo, così, all’ultimo periodo della vita di Giorgio La Pira.
8.1. Già malato, l’amico Giorgio Giovannoni gli chiede di accompagnarlo a Livorno per salutare una nave in partenza della Croce Rossa carica di medicinali per i profughi palestinesi nel Libano.
Giorgio La Pira così risponde all’amico: “Vedi, questa che ho addosso non è una malattia qualsiasi è la malattia. Però quella che si cerca in Palestina non è una pace qualsiasi, è la pace.
Andiamo dunque a salutare quella nave”[45].
8.2. Moriva a Firenze poco dopo, il 5 novembre 1977.
Gli operai del Nuovo Pignone portarono la bara a spalla, da Piazza della Signoria, lungo via Calzaiuoli, fino alla cattedrale di Santa Maria del Fiore, ove il Cardinale Giovanni Benelli tenne la Messa funebre.
Il 4 agosto 1977 Giorgio La Pira aveva fatto testamento nominando “suo erede universale il Convento di S. Marco in Firenze”[46].
Nel 1986 l’arcivescovo di Firenze Silvano Piovanelli apriva il processo diocesano per la causa della sua beatificazione.
Sepolto inizialmente nel cimitero di Rifredi, veniva successivamente trasferito nella Basilica di San Marco, dove ancora oggi si trova, a seguito del suo riconoscimento a venerabile.
8.3. La sua vita fu sempre illuminata da questo principio: Spes contra spem, la speranza, anche ove non c’è niente da sperare.
Relazione tenuta a Pozzallo (RG) il 17 maggio 2024, in un incontro organizzato dall’Università degli studi di Siena con il Comune e l’Ordine degli avvocati di Pozzallo, e con la partecipazione degli alunni delle scuole superiori di Pozzallo e Ispica.
[1] Su Giorgio La Pira si veda principalmente U. DE SIERVO – G. GIOVANNONI – G. GIOVANNONI, Giorgio La Pira sindaco, Cultura nuova editrice – Comune di Firenze, 1988, diviso in tre volumi, un primo (1951 – 1954), un secondo (1955 – 1957) e infine un terzo (1961 – 1965); e poi G. SPINOSO – C. TURRINI, Giorgio La Pira: i capitoli di una vita, University Press Firenze, 2022, anch’esso diviso in tre volumi.
[2] G. LA PIRA, La genesi del sistema della giurisprudenza romana, in Studi Virgili, Siena, 1934, 159 e ss.
[3] Lo ricorda anche P. GROSSI, Stile fiorentino, Milano, 1986, 199, il quale alla nota 13 ebbe a scrivere al riguardo di Giorgio La Pira: “Come romanista, l’unico saggio successivo fondato su ricerche originali verte su La personalità scientifica di Sesto Pedio, ed è pubblicato in bull. Dell’Istituto di diritto romano, XLV (1938). Altrimenti ripeterà stancamente temi e prospettive già consolidati, senza aggiungervi alcunché”. Si veda anche C. PARENTI, Spunti di riflessione su maestri di luce: Luigi Lombardi Vallauri e Giorgio La Pira, in Scritti per Luigi Lombardi Vallauri, Padova, 2016, II, 1123 e ss.
[4] P. BARGELLINI, La splendida storia di Firenze, Vallecchi editore, Firenze, 1964.
[5] In U. DE SIERVO – G. GIOVANNONI – G. GIOVANNONI, Giorgio La Pira sindaco, cit. I, 199.
[6] Mi piace ricordare, con riferimento all’intervento in Assemblea costituente da parte di Giorgio La Pira, quanto è stato scritto in G. SPINOSO – C. TURRINI, Giorgio La Pira: i capitoli di una vita, cit., I, 626: “La mattina dell’8 settembre La Pira è stato alla messa di San Procolo, alla badia fiorentina, a festeggiare i suoi poveri. In serata è dovuto partire per Roma. Lo attende un compito impegnativo l’indomani 9 settembre: presentare la sua Relazione sui principi relativi ai rapporti civili alla I sottocommissione del 75”. Avrebbe voluto un articolo in costituzione del seguente tenore: “Nello Stato italiano che riconosce la natura spirituale, libera, sociale dell’uomo, scopo della Costituzione è la tutela dei diritti originari ed imprescindibili della persona umana e delle comunità naturali nelle quali essa organicamente e progressivamente si integra e si perfeziona” (cit., pag. 628).
[7] V. La Costituzione della Repubblica italiana nei lavori preparatori dell’Assemblea costituente, Roma, 1971, VI, 316.
[8] V. La Costituzione della Repubblica italiana nei lavori preparatori dell’Assemblea costituente, cit., 316.
[9] V. La Costituzione della Repubblica italiana nei lavori preparatori dell’Assemblea costituente, cit., 322.
[10] V. La Costituzione della Repubblica italiana nei lavori preparatori dell’Assemblea costituente, cit., 316.
[11] U. DE SIERVO – G. GIOVANNONI – G. GIOVANNONI, Giorgio La Pira sindaco, cit., II, 193.
[12] La vicenda è ricordata da U. DE SIERVO – G. GIOVANNONI – G. GIOVANNONI, Giorgio La Pira sindaco, cit., II, 105 e ss.; e poi G. SPINOSO – C. TURRINI, Giorgio La Pira: i capitoli di una vita, cit., II, 1251 e ss.
[13] V. infatti, U. DE SIERVO – G. GIOVANNONI – G. GIOVANNONI, Giorgio La Pira sindaco, cit., II, 106/7
[14] V. ancora DE SIERVO – G. GIOVANNONI – G. GIOVANNONI, Giorgio La Pira sindaco, cit., II, 106.
[15] G. SPINOSO – C. TURRINI, Giorgio La Pira: i capitoli di una vita, cit., II, 1253.
[16] DE SIERVO – G. GIOVANNONI – G. GIOVANNONI, Giorgio La Pira sindaco, cit., II, 106.
[17] DE SIERVO – G. GIOVANNONI – G. GIOVANNONI, Giorgio La Pira sindaco, cit., II, 107.
[18] V. il resoconto in G. SPINOSO – C. TURRINI, Giorgio La Pira: i capitoli di una vita, cit., II, 1254: “Il sindaco di Firenze verrà dunque prosciolto in istruttoria “perché il fatto non costituisce reato”, ma dovrà attendere fino al gennaio del 1964”.
[19] G. SPINOSO – C. TURRINI, Giorgio La Pira: i capitoli di una vita, cit., II, 1255.
[20] P. BARGELLINI, La splendida storia di Firenze, cit.. IV, 238.
[21] G. SPINOSO – C. TURRINI, Giorgio La Pira: i capitoli di una vita, cit., II, 866.
[22] U. DE SIERVO – G. GIOVANNONI – G. GIOVANNONI, Giorgio La Pira sindaco, cit., II, 257.
[23] G. SPINOSO – C. TURRINI, Giorgio La Pira: i capitoli di una vita, cit., II, 864.
[24] U. DE SIERVO – G. GIOVANNONI – G. GIOVANNONI, Giorgio La Pira sindaco, cit., II, 253.
[25] U. DE SIERVO – G. GIOVANNONI – G. GIOVANNONI, Giorgio La Pira sindaco, cit., II, 251.
[26] U. DE SIERVO – G. GIOVANNONI – G. GIOVANNONI, Giorgio La Pira sindaco, cit., II, 250.
[27] Non ti è lecito………..Uscivano felici dal Tribunale perché avevano avuto l’onore di sopportare offese per il nome di Gesù”.
[28] G. SPINOSO – C. TURRINI, Giorgio La Pira: i capitoli di una vita, cit., II, 869.
[29] Ancora G. SPINOSO – C. TURRINI, Giorgio La Pira: i capitoli di una vita, cit., II, 894.
[30] P. BARGELLINI, La splendida storia di Firenze, cit.. IV, 238.
[31] U. DE SIERVO – G. GIOVANNONI – G. GIOVANNONI, Giorgio La Pira sindaco, cit., I, 159.
[32] V. al riguardo, P.L. BALLINI, Giorgio La Pira. Sindaco di Firenze, ambasciatore di pace, Pagliai Polistampa, 2024, 71.
[33] P.L. BALLINI, Giorgio La Pira. Sindaco di Firenze, ambasciatore di pace, cit., 76.
[34] V. infatti L. PAGLIAI, Giorgio La Pira e il piano latte, Edizioni polistampa, 2010.
[35] U. DE SIERVO – G. GIOVANNONI – G. GIOVANNONI, Giorgio La Pira sindaco, cit., II, 121 e ss.
[36] V. U. DE SIERVO – G. GIOVANNONI – G. GIOVANNONI, Giorgio La Pira sindaco, cit., II, 121.
[37] Così, L. PAGLIAI, Giorgio La Pira e il piano latte, cit., 125.
[38] Richiamato da L. PAGLIAI, Giorgio La Pira e il piano latte, cit., in quarta di copertina.
[39] V., fra i molti, M. GIOVANNONI, Il professore Giorgio La Pira amico della Cina, in AA.VV., Chang’an e Roma, Padova, 2019, 37 e ss.;
[40] Così, A. MATTONE, La Pira, Giorgio, in Dizionario biografico dei giuristi italiani, I, 2013, 1152. Si veda anche T. ALEXEEVA, Diritto romano attuale e costituzione: prospettive geopolitiche, Padova, 2020, 138, sui rapporti tra la Costituzione sovietica e la Costituzione della Repubblica romana.
[41] G. SPINOSO – C. TURRINI, Giorgio La Pira: i capitoli di una vita, cit., III, 1508.
[42] P.L. BALLINI, Giorgio La Pira. Sindaco di Firenze, ambasciatore di pace, cit., 173.
[43] G. SPINOSO – C. TURRINI, Giorgio La Pira: i capitoli di una vita, cit., III, 1509.
[44] P.L. BALLINI, Giorgio La Pira. Sindaco di Firenze, ambasciatore di pace, cit., 173.
[45] In www.TOSCANAOGGI.IT.
[46] G. SPINOSO – C. TURRINI, Giorgio La Pira: i capitoli di una vita, cit., III, 1847.
Lo scritto riprende alcuni dei temi trattati nel corso della relazione tenuta al convegno sul tema “Diritto d'amore” tenutosi a Roma nei giorni 25, 26 e 27 gennaio 2024 organizzato dall'Associazione Cammino. Si tratta della quinta di una serie di pubblicazioni sulla nostra Rivista in tema di "diritto d'amore" per condividere le riflessioni emerse in occasione del Convegno. Si veda Diritto d'amore e responsabilità civile di Alessandra Cordiano, Diritto, biodiritto e amore di Roberto Giovanni Conti, Diritti d'amore e rapporti familiari di Mirzia Bianca, Il diritto d’amore in una prospettiva multidisciplinare di Gabriella Luccioli.
Amori “tossici” e diritto di libertà affettiva
una riflessione metagiuridica sulla violenza di genere e domestica
di Filippo Romeo
Sommario: 1. Amori “tossici”. Una prima riflessione metagiuridica sull’universo delle relazioni personali e familiari. - 2. La violenza domestica e gli ordini di protezione contro gli abusi familiari. - 3. Violenza di genere e processo alla luce della Riforma Cartabia. Vittimizzazione secondaria e coordinamento tra giudice civile e penale. - 3.1. Non mediabilità della violenza domestica nel processo di famiglia. – 3.2. Rifiuto del figlio di incontrare i genitori e ascolto diretto del minore. – 3.3. Le allegazioni di violenza e la possibilità di ricorrere agli ordini di protezione. – 4. Una breve riflessione conclusiva.
1. Amori “tossici”. Una prima riflessione metagiuridica sull’universo delle relazioni personali e familiari.
Questo breve scritto - muovendo dagli insegnamenti di Cesare Massimo Bianca - si propone di sviluppare una riflessione “metagiuridica” sull’universo delle relazioni personali e familiari attraverso una sorta di lente “speciale”: il diritto d’amore. In particolare, si affronterà il tema degli i “amori tossici”. Nell’approcciare l’argomento occorre sottolineare che “nel quadro di un rapporto di coppia l’amore indica una relazione paritaria fondata sul rispetto. Quando non c’è rispetto e prevale la sopraffazione ci troviamo davanti ad un amore ferito, ad un amore malato”[1]. Ben si comprende, pertanto, l’importanza del “confine”. La linea di demarcazione segnata dal rispetto, ove superata, ci consegna una relazione affettiva connotata da elementi di “tossicità”[2].
In stretta aderenza con quanto appena evidenziato, evocative suggestioni si colgono in un recente libro dedicato al tema degli “amori tossici”. L’Autrice, in particolare, esordisce affermando che “l’amore ha bisogno di confini perché è un ballo a due. Nella danza di coppia il confine non è rigido ma è chiara la linea di rispetto, bordo invisibile eppure preciso: la giusta distanza permette di danzare senza soffocarsi né schiacciarsi i piedi, ma anche di essere abbastanza prossimi per poter andare allo stesso ritmo. Il confine in una relazione è come il ballo: una metafora dello scambio. Si va insieme, non come specchio reciproco, ma in modo che ciascuno dei due possa passare nel posto dell’altro e tornare al proprio, superando il confine con levità, disegnando variazioni soggettive i cui movimenti si incontrano senza fondersi”[3].
Questa suggestiva metafora, tuttavia, si scontra con la realtà di tutti i giorni. Nella vita quotidiana con l’altro, infatti, non esiste una procedura certa per “gestire la distanza”, così come avviene nel ballo. Peraltro, i rapporti interpersonali risultano oggi oltremodo complessi e di non facile gestione. Le molteplici e mutevoli dinamiche di coppia appaiono connotate dalla persistenza di un tessuto di legami tra ex coniugi o ex conviventi chiamati ad interpretare congiuntamente il ruolo di genitori e ad esercitare correttamente la responsabilità genitoriale[4]. Le relazioni familiari, infatti, nonostante la rottura del menage sono destinate a durare nel tempo e non sempre è facile conciliare le esigenze della famiglia originaria con quelle delle nuove famiglie che, nel frattempo, hanno preso forma[5].
Inoltre, non sempre risulta possibile regolare la complessa trama di relazioni familiari che si sviluppa nel corso del tempo. Il vivere insieme - anche alla luce dell’irrequietezza esistenziale che sembra scandire la vita degli adulti - non è più inquadrabile all’interno di un modello precostituito[6]. In questo scenario, sempre più spesso - e i tanti fatti di cronaca lo confermano in modo inequivocabile - la “coreografia dell’Io con l’Altro”, finisce con il risultare imperfetta, sgraziata e sovente tragica[7].
Peraltro, l’immaturità e l’egoismo dei genitori impediscono sovente di attuare l’interesse del minore che - a ben vedere - passa non solo attraverso il “diritto alla bigenitorialità” ma anche attraverso l’intrecciarsi di plurimi legami affettivi[8]. Si impone “un adattamento del diritto vigente al fine di attribuire rilievo a rapporti fondati su relazioni meramente affettive mediante l’individuazione di regole funzionali ad istituire una gerarchia tra ruoli genitoriali inevitabilmente destinati a sovrapporsi”[9]. Anche in questo caso, in assenza di regole di diritto, ben si comprende l’importanza del “confine” per gestire in modo equilibrato la presenza di un “terzo genitore” nella non sempre lineare trama di rapporti familiari che convergono intorno al minore[10].
Ciò premesso, evitando approcci di matrice qualunquista, occorre tracciare una linea di demarcazione netta tra il “conflitto” e la “violenza”[11]. Ciò che differenzia la relazione conflittuale dalla relazione violenta è l’esercizio del “potere”: la violenza, infatti, si connota per la condizione di supremazia dell’uomo nei confronti della donna[12]. Il conflitto, pertanto, si trasforma in violenza quando l’uomo si pone in posizione di “asimmetria” rispetto alla donna e tende a dominarla (rectius sottometterla) anche attraverso l’uso intenzionale della forza fisica[13].
Ben si comprende - anche alla luce del vertiginoso aumento dei casi di violenza in famiglia - come nell’ambito delle relazioni di coppia i “confini” vengano sovente abbattuti[14]. Prende pervicacemente forma l’amore “tossico” che si modula sull’appropriazione psicofisica del partner, si nutre della sua vitalità fino a giungere all’atto estremo della sopraffazione: non è un caso che nel nostro Paese i casi di femminicidio hanno raggiunto numeri allarmanti.
Nella ricostruzione di questo scenario non può sottacersi che l’uccisione della (ex) partner costituisce la punta di un iceberg sommerso, fatto di reiterate violenze, vessazioni, umiliazioni subite - all’interno delle mura domestiche - dalle vittime e dai figli minorenni sotto forma di violenza assistita[15]. Tale aspetto è altrettanto grave. Al riguardo, non si può sottacere che i bambini testimoni di violenza subiscono un vulnus alla salute psicofisica non inferiore a quello dei bambini vittima di violenza diretta. Inoltre - circostanza che non può essere sottovalutata - si trasmette ai bambini una modalità dialogica distorta che è destinata a riproporsi: violenza genera violenza e la perpetua[16].
L’amore “tossico” - passando sovente attraverso l’idealizzazione del partner - si connota per la presenza di “confini perturbati”: confini abbattuti nell’invasione simbiotica dell’amore assoluto. Rispetto all’amore assoluto l’abbandono - si pensi al fenomeno del c.d. ghosting - non è un’opzione accettabile. Come una catena impossibile da spezzare, l’amore assoluto sfocia nella violenza. Ancor peggio, in nome dell’amore assoluto si arriva a uccidere: quante volte - nell’ipocrita tentativo di giustificare il brutale gesto compiuto - abbiamo sentito dire “la amavo così tanto che non potevo vivere senza”.
L’assoluto è sempre il male dell’amore, rivelandosi intriso d’odio. La tossicità viene “dall’amore che vuole farsi Uno”. Ben si comprende - nella consapevolezza che “Due non possono mai fare Uno, se non nella sopraffazione dell’altro” - l’importanza del confine: quest’ultimo, infatti, come meglio vedremo, può salvare la vita.
Tuttavia, molto spesso, la donna non arriva a comprendere in tempo utile di essere vittima di una dipendenza affettiva e (conseguentemente) di poter cadere in una trappola mortale[17]. La questione è estremamente delicata. Il fenomeno della violenza intrafamiliare, infatti, è multiforme e il soggetto violento agisce su tutti i piani - psicologico, economico, fisico - con un obiettivo costante: innescare un vortice di violenza al fine di “intrappolare” la donna. Bloccando ogni via di fuga, il partner violento è animato dall’unico scopo di possedere il controllo della donna, come nel c.d. gaslighting[18].
2. La violenza domestica e gli ordini di protezione contro gli abusi familiari.
L’ampiezza e la trasversalità della violenza di genere - fenomeno non riconducibile esclusivamente a contesti degradati, ma anche ad ambienti familiari agiati e di classe sociale elevata - ha spinto il legislatore, nel corso del tempo, a cercare di adeguare la disciplina giuridica di matrice civilistica alla luce delle questioni di genere legate alla violenza domestica e assistita. Già a partire dal lontano 2001 - novellando il codice civile con l’inserimento degli artt. 342-bis e 343-ter - il legislatore aveva attenzionato il fenomeno della violenza domestica anche sul piano dei rimedi civilistici, introducendo gli “ordini di protezione” contro gli abusi familiari.
A distanza di vent’anni, il legislatore delegato, con la legge n. 206/2021, torna ad occuparsi di violenza domestica e di genere all’interno del processo civile. Attraverso il d.lgs. 22 ottobre 2022, n. 149 - nella più ampia cornice della Riforma Cartabia del processo civile - viene operato un incisivo e sistematico intervento, introducendo nel nuovo Titolo IV-bis, una sezione intitolata “Della violenza domestica e di genere” (artt. 473-bis.40 ss. c.p.c.)[19]. La ratio di tali norme - come meglio vedremo - è quella di dotare il giudice delle controversie familiari di più ampi poteri nonché di strumenti specifici per garantire adeguate forme di tutela alle vittime di violenza ed evitare il fenomeno della c.d. “vittimizzazione secondaria”[20].
In questo scenario, la Riforma Cartabia ha fatto confluire - limitandosi ad apportare qualche apprezzabile novità - la normativa codicistica degli ordini di protezione contro gli abusi familiari all’interno della Sezione VII (artt. 473-bis.69 - 473-bis.71 c.p.c.) del nuovo Titolo IV-bis.
Invero, l’intervento del legislatore del 2001 risulta - ancora oggi - apprezzabile e ciò grazie alla flessibilità e all’ampiezza della misura di protezione, sia sotto il profilo personale che patrimoniale. La disciplina, in linea con quanto avviene in altri ordinamenti europei, si connota:
Inoltre, è espressamente previsto che il giudice possa emettere un “ordine di non avvicinamento”, intimando all’autore della condotta pregiudizievole di tenersi distante dai luoghi abitualmente frequentati dai familiari vittime degli abusi, dai luoghi di lavoro e dalle scuole dei figli (art. 473-bis.70, comma 1°, c.p.c.). Proprio in queste circostanze il legislatore cerca - non solo metaforicamente - di porre un confine invalicabile e di “gestire” la distanza per proteggere le vittime di violenza[22].
Non meno rilevanti appaiono le misure economiche previste a carico del soggetto violento o abusante ed a favore del nucleo familiare che per effetto dell’ordine di allontanamento rimane privo di mezzi adeguati di sostentamento (art. 473-bis.70, comma 2°, c.p.c.). In tali casi, infatti, il giudice dispone che il familiare allontanato corrisponda un assegno periodico a favore delle persone conviventi[23].
Infine, l’art. 473-bis.69, comma 1°, c.p.c. ha introdotto - novità di sicuro rilievo - la possibilità di adottare misure di protezione anche quando la convivenza è cessata. Tale soluzione è certamente apprezzabile, atteso che i comportamenti violenti, in moltissimi casi, vengono posti in essere proprio quando la convivenza è venuta meno, spesso quale reazione alla rottura della stessa. Ancora una volta, ben si comprende la rilevanza - non solo metaforica - del confine fisico. Quest’ultimo può essere in grado di salvare la vita alla donna vittima di violenza.
3.Violenza di genere e processo alla luce della Riforma Cartabia. Vittimizzazione secondaria e coordinamento tra giudice civile e penale.
Ciò detto, occorre rilevare che il già richiamato Titolo IV-bis, Capo III, Sezione I del codice di rito contiene un complesso di disposizioni che “si applicano nei procedimenti in cui siano allegati abusi familiari o condotte di violenza domestica o di genere posti in essere da una parte (della coppia) nei confronti dell’altra o da un genitore nei confronti dei figli minori” (art. 473-bis 40 ss.)[24].
La disciplina dedicata alla violenza domestica o di genere fa emergere l’attenzione per la tutela della vittima al di là dell’ambito penalistico. Al riguardo, l’obiettivo primario è quello di evitare - trasformando il processo in un’altra forma di violenza - l’odioso fenomeno della c.d. vittimizzazione secondaria. In particolare, la nuova normativa - applicabile ogni qual volta vengano allegati atti di violenza - crea una “corsia preferenziale” che, grazie all’abbreviazione dei termini a comparire, dovrebbe consentire al giudice di accordare una più tempestiva tutela alle vittime di violenza[25].
I principi direttivi elaborati dal legislatore della Riforma appaiono allineati alle disposizioni normative vigenti nell’ordinamento italiano - e in particolare con le novità introdotte dal Codice Rosso - anche con riferimento alla trasmissione da parte del giudice penale al giudice civile degli atti relativi a procedimenti penali per reati di violenza, in cui sono stati assunti provvedimenti cautelari nei confronti di una delle parti del procedimento in corso avente ad oggetto la separazione dei coniugi, l’affidamento dei figli minori, la responsabilità genitoriale.
L’importanza del “coordinamento istituzionale” tra il giudice civile e il giudice penale non esclude, tuttavia, la valorizzazione:
Al riguardo, il legislatore impone di delimitare il mandato conferito al consulente. Tale precisazione appare importante e opportuna. Sovente, infatti, si registrano casi in cui, senza che ciò faccia parte del mandato del giudice, la relazione del consulente si spinge fino ad esprimere giudizi sulla personalità dei genitori ovvero sulla loro idoneità genitoriale ai fini dell’adozione del provvedimento di affidamento e/o collocamento dei figli minori[28].
Invero, tale prassi appare molto pericolosa poiché i giudici - pur potendosi discostare dalle indicazioni contenute nella relazione - tendono a recepire acriticamente le conclusioni del consulente. A tal riguardo, occorre ricordare che nell’ambito del processo di famiglia la consulenza è sempre di tipo psicologico. Allo psicologo, in qualità di consulente del giudice, verrà attribuito il difficile compito di valutare le relazioni all’interno della famiglia anche al fine di fare venire alla luce eventuali violenze perpetrate da un genitore. L’operazione non è semplice perché l’autore delle condotte violente riesce spesso a mascherare tali comportamenti; le vittime di violenza hanno difficoltà a denunciare le condotte del familiare[29]. Dietro la difficoltà a denunciare si cela, oltre al legame affettivo, anche il timore di essere posti sullo stesso piano del perpetuatore della violenza, con possibili ripercussioni sui provvedimenti di affidamento dei figli minori.
Altro aspetto di primaria importanza attiene al fatto che la Riforma ha dato vita ad un complesso di disposizioni che, in virtù dell’esigenza di tutelare la vittima della violenza o degli abusi, accordano ad essa una corsia preferenziale di tutele improntata ai principi di “tempestività” e di “cautela”: ben si comprende, in questa prospettiva, l’importanza di dare alle vittime risposte adeguate in tempi rapidi.
A quest’ultima finalità è diretta la disposizione che prevede una speciale tipologia di ascolto, volta a tutelare in modo particolare il minore vittima di violenza o abusi. L’art. 473-bis.45 c.p.c. aggiunge all’ascolto già regolato dagli articoli 473-bis.4 e 473-bis.5 c.p.c. un ascolto che deve essere condotto “personalmente” e “senza ritardo” dal giudice, evitando ogni contatto del minore con la persona indicata come autore della violenza o abusi. La norma prevede al comma 2° una tutela ulteriore del minore vittima di violenza, evitando di procedere all’ascolto quando il minore è stato già ascoltato nell’ambito di un altro procedimento anche penale e le risultanze dell’adempimento acquisite agli atti sono ritenute sufficienti ed esaustive. Tale disposizione - sicuramente apprezzabile nell’ottica di evitare peculiari forme di vittimizzazione secondaria - è diretta ad evitare al minore un ulteriore trauma che potrebbe derivare da un ascolto superfluo.
3.1. Non mediabilità della violenza domestica nel processo di famiglia
Altra disposizione diretta ad evitare la “vittimizzazione secondaria” è l’art. 473-bis.43 c.p.c. dedicato al tema della mediazione familiare. Il divieto di iniziare il percorso di mediazione familiare quando è stata pronunciata la sentenza di condanna, anche in primo grado, è diretto a tracciare una distinzione netta tra mera “conflittualità” e “atti di violenza” o “abusi familiare”.
Il legislatore della Riforma - in linea con quanto stabilito nell’art. 48 della Convenzione di Istanbul e diversamente dalla scelta fatta in materia di ordini di protezione - ha ritenuto che la violenza non consenta, in nessun caso, di garantire una condizione di equilibrio tra le parti nella costruzione del setting di mediazione[30].
La stessa ratio è ascrivibile al secondo comma ove si prevede che il mediatore interrompa immediatamente il percorso di mediazione familiare intrapreso , se nel corso di esso abbia notizia di abusi o di violenze. Il giudice può comunque invitare le parti a rivolgersi a un mediatore familiare se nel corso del giudizio ravvisa l’insussistenza delle condotte allegate (art. 473-bis.42 ult. comma, c.p.c.)[31].
3.2. Rifiuto del figlio di incontrare i genitori e ascolto diretto del minore
A tale disposizione deve accostarsi quella sul rifiuto del figlio di incontrare il genitore (art. 473-bis.6 c.p.c.), la quale dà luogo a un procedimento istruttorio da parte del giudice per indagare le ragioni sottese al rifiuto e al disagio del minore[32]. Anche in questo caso il giudice deve procedere “senza ritardo” ad ascoltare il minore[33].
La questione assume particolare rilievo rispetto ai minori in età adolescenziale: in questi casi il figlio tende ad esprime il suo rifiuto in maniera molto netta ma, molto spesso, non vuole o non riesce a spiegare le cause che stanno alla base della sua decisione e che generalmente affondano nella relazione affettiva. In simili situazioni risulta molto importante l’ascolto diretto del minore da parte del giudice.
A tal riguardo, com’è noto, la riforma ha escluso l’ascolto delegato al CTU, ai servizi sociali nonché ai giudici onorari. Invero, in molte circostanze, i giudici hanno mostrato di “temere” l’ascolto. Certamente non è facile trovare giusto approccio al fine di verificare l’attendibilità del minore e distinguere così il “vero” dal “falso”. Il bambino, infatti, rappresenta un inventato vissuto all’interno del quale occorre selezionare i dati tipizzanti del racconto, riuscendo a cogliere le “credenze assertive” del minore. Inoltre, non sempre agevole appare verificare se il racconto del minore è “impermiabile” al conflitto dei genitori, evitando così il “contagio dichiarativo”.
Preso atto di ciò, nulla vieta che il giudice possa farsi assistere al momento dell’ascolto da un ausiliario esperto: si pensi ad uno psicologo infantile o dell’età evolutiva. Non è dato dubitare che nei casi di violenza domestica un tale affiancamento potrebbe risultare importante, considerata la difficoltà di fare emergere la violenza perpetrata all’interno del nucleo familiare e di “decifrare” le (complesse) dinamiche familiari.
In ogni caso, occorre segnalare che pochi Tribunali dispongono di un’aula destinata all’ascolto dei minori attrezzata con sistemi audiovisivi e vetri unidirezionali[34]. Anche in considerazione di questa circostanza, il legislatore ha espressamente previsto che, qualora la registrazione audiovisiva non sia possibile, il giudice provvederà a redigere un verbale descrivendo “dettagliatamente il contegno del minore”.
Il legislatore, inoltre, ha sancito che “prima di procedere all’ascolto, il giudice indica i temi oggetto dell’adempimento ai genitori, agli esercenti la responsabilità genitoriale, ai rispettivi difensori e al curatore speciale del minore, i quali possono proporre argomenti e temi di approfondimento e, su autorizzazione del giudice, partecipare all’ascolto” (art. 473-bis.5, comma 3°, c.p.c.). La questione è estremamente delicata. Invero, se la partecipazione dei difensori all’audizione - da intendere, in ogni caso, in termini di mera presenza - può trovare una “giustificazione” dal punto di vista processuale, la partecipazione dei genitori rischia di “inquinare” le dichiarazioni del minore. Pertanto, occorre affidarsi alla sensibilità dei giudici nel fare in modo di evitare situazioni di imbarazzo nel minore al momento dell’ascolto[35]. Non è dato dubitare, infatti, che l’ascolto deve svolgersi in modo tale da garantire l’esercizio effettivo del diritto del minore di esprimere liberamente la propria opinione, e quindi con tutte le cautele e le modalità atte ad evitare interferenze, turbamenti e condizionamenti, ivi compresa la facoltà di vietare l’interlocuzione con i genitori[36].
3.3. Le allegazioni e la possibilità di ricorrere agli ordini di protezione
La disciplina, inoltre, prevede un complesso di disposizioni dirette ad accelerare il procedimento come l’abbreviazione dei termini fino alla metà, l’ammissione di “mezzi di prova anche al di fuori dei limiti previsti dal codice civile, nel rispetto del contraddittorio e del diritto alla prova contraria” (art. 473-bis.42, comma 1°, c.p.c.). Si palesa l’esigenza di dare a questi procedimenti una “corsia preferenziale” nell’esclusivo interesse della vittima. Unica avvertenza: le allegazioni delle condotte devono essere precise e circostanziate, al fine di evitare abusi e strumentalizzazioni.
Preso atto che il termine “allegazioni” potrebbe avere una portata ampissima - potendosi fare riferimento non solo a violenze allegate o denunciate ma anche a fatti di violenza semplicemente segnalati o riferiti - si deve osservare che può risultare pericoloso giungere ad escludere un rapporto significativo tra il genitore presunto violento e il figlio minore in presenza di fatti solo segnalati o riferiti. Prescindere da un approfondimento istruttorio e da un accertamento del giudice, comporterebbe una ricaduta inaccettabile sui principi del giusto processo e dunque sul diritto di difesa e sul principio del contraddittorio[37].
Il tema è molto delicato. Anche nell’ottica di tutelare la relazione “genitore-figlio”, occorre verificare i fatti di violenza da parte del giudice delle controversie familiari. L’accertamento giudiziale pieno, infatti, è irrinunciabile ove si debbano assumere provvedimenti riguardanti: l’affidamento o il collocamento dei figli minori; la regolamentazione della responsabilità genitoriale; la limitazione o la cessazione della responsabilità genitoriale.
Quando si ravvisa la fondatezza delle “allegazioni” il giudice deve adottare i provvedimenti più idonei a tutelare la vittima. A tal riguardo, appare apprezzabile la scelta del legislatore di richiamare esplicitamente gli “ordini di protezione” tra le misure idonee da adottare a tutela delle vittime di condotte violente all’interno dei nuclei familiari.
4. Una breve riflessione conclusiva
Alla luce di quanto evidenziato, non si può fare a meno di esprimere un giudizio positivo per le nuove previsioni in tema di violenza di genere e violenza domestica[38]. Da questo punto di vista - la Riforma Cartabia ci consegna un processo della famiglia regolato non solo da fredde norme processuali ma anche da regole etiche che devono ispirare e guidare il lavoro di tutti gli operatori del diritto a vario titolo coinvolti nella (non facile) “gestione” delle relazioni affettive connotate da elementi di “tossicità”.
In quest’ottica, non posso fare a meno di sottolineare l’importanza della specializzazione. In materia di diritto di famiglia servono giudici, avvocati e consulenti altamente specializzati anche al fine di poter “governare” correttamente le complesse dinamiche relazionali soprattutto nella fase patologica del rapporto di coppia. Risulta fondamentale poter contare sulla professionalità di operatori del diritto “coraggiosi” e disposti a lavorare in stretta sinergia. Fermo restando il precipuo rispetto dei ruoli e delle specifiche competenze - oggi più che in passato - non si può prescindere dall’idea di lavorare tutti insieme per arginare un fenomeno che ormai ha assunto una dimensione dilagante. Per porre un serio argine alla violenza di genere e domestica occorre lavorare su due fronti. Da un lato è necessario fornire agli operatori del diritto strumenti sempre più adeguati a combattere questa piaga sociale garantendo l’accesso alla giustizia e la tutela delle vittime. Dall’altro - aspetto altrettanto importante - occorre continuare a discutere di questi temi e inculcare l’idea che l’amore, nel quadro di una relazione paritaria, si deve sempre fondare sul rispetto[39].
Ciò detto, quando l’amore finisce occorre guardare oltre: la coppia può fissare nuove regole e nuovi confini attraverso lo strumento negoziale. Al di fuori dei casi di violenza domestica, la negoziazione assistita dagli avvocati in separazione e divorzio appare oggi strumento imprescindibile per pianificare il conflitto familiare in tempi rapidi e certi nell’interesse di tutti i soggetti coinvolti nella crisi familiare, ivi compresi i figli. Pertanto, partendo dall’idea che la composizione dei conflitti è un valore, non solo etico-sociale, occorre farsi parte attiva - nel quadro di una vera e propria sfida culturale - per garantire una piena affermazione della c.d. “giurisdizione forense”[40].
Lo scritto riproduce - sia pur con qualche modifica e talune integrazioni il testo della relazione svolta in occasione del Convegno “Diritto d’Amore” (Roma, 25-27 gennaio 2024) organizzato in occasione dei venticinque anni di Cammino – Camera Nazionale Avvocati per le persone, per i minorenni e per le famiglie.
[1] Riprendo in questa sede le parole pronunciate dalla Presidente Gabriella Luccioli durante il suo intervento conclusivo al Convegno “Diritto d’Amore” (Roma, 25-27 gennaio 2024).
[2] Come meglio vedremo, quando la relazione non è paritaria e l’uomo si pone in una posizione di prevaricazione rispetto alla donna si sconfina nella violenza.
[3] Cfr. L. Pigozzi, Amori tossici. Alle radici delle dipendenze affettive in coppia e in famiglia, Milano, Rizzoli, 2023, p. 11.
[4] Tra i diritti enunciati con la Riforma della filiazione assume un ruolo prioritario il diritto del figlio all’assistenza morale. Viene sancito, in buona sostanza, il diritto del figlio di “essere amato” dai suoi genitori. Com’è noto, in sede di approvazione della legge delega l’espressione letterale “diritto del figlio di essere amato dai genitori” - fortemente auspicata dal Prof. Cesare Massimo Bianca - non ha trovato ingresso nella Riforma. Tuttavia, non è dato dubitare che assistere moralmente il proprio figlio altro non significa che averne cura amorevole. Il dato è tutt’altro che irrilevante: in un ordinamento che storicamente ha mostrato poca attenzione ai fatti di sentimento, il diritto all’amore dei genitori assurge a diritto fondamentale del minore. Pertanto, l’interesse del minore, a ricevere affetto dai genitori, si oggettivizza in un valore rilevante per l’ordinamento giuridico, differenziandosi così, dall’interesse all’affetto nelle relazioni tra adulti, che resta giuridicamente irrilevante. Sul tema del diritto all’amore vedi C.M. Bianca, Diritto civile, Vol. 2.1, VII ediz. A cura di M. Bianca e P. Sirena, Milano, Giuffrè, 2023, p. 380 ss. Spunti di sicuro interesse si rinvengono – nel solco dell’insegnamento del Maestro - in P. Spaziani, Il diritto all’assistenza morale (art. 315 bis c.c., come inserito dall’art. 1, comma 8, L. N. 219/2012), in La riforma della filiazione, a cura di C.M. Bianca, Padova, Cedam, 2015, p. 67 ss.
[5] A tal riguardo non si può fare a meno di ricordare come i ripetuti conflitti tra ex coniugi ovvero tra ex conviventi mettano a serio repentaglio la salvaguardia dei diritti dei figli, i quali rischiano di rimanere intrappolati dai sentimenti negativi, dalle frustrazioni dei genitori. Molti genitori sembrano dimenticare che i figli sono i primi a subire la disgregazione della famiglia e a rimanere depauperati dalla separazione dei genitori. In questo scenario connotato da una genitorialità “tossica” prende forma e si innesta il tema della tutela del minore nel processo civile. Su tali profili sia consentito rinviare a F. Romeo, I diritti del minore nelle controversie familiari fra novità giurisprudenziali e prospettive di riforma, in Familia, 2021, p. 646.
[6] Il diritto di famiglia, infatti, è chiamato oggi a confrontarsi con un’articolata e complessa molteplicità di situazioni interpersonali soggette a modificazioni continue. Gli effetti di queste inedite dinamiche familiari - espressione ed estrinsecazione della personalità degli individui - vanno ben oltre ogni forma di tipizzazione (anche extraconiugale) e sovente neppure raggiungono la soglia del giuridicamente rilevante. Il quadro appena tratteggiato è reso ancora più complesso dalla globalizzazione e dal che ha prodotto l’abbattimento delle barriere geografiche e la circolazione di modelli culturali del tutto diversificati. Le criticità e le difficoltà tipiche delle famiglie straniere, con cui è oramai imprescindibile confrontarsi, richiederebbero di dotarsi di un bagaglio minimo di competenze interculturali, tradizionalmente estranee al mondo giuridico. Su tali profili spunti di sicuro interesse si rinvengono in A. Cordiano, Funzioni e ruoli genitoriali nelle famiglie allargate e ricomposte: una comparazione tra modelli normativi e alcune riflessioni evolutive, in www.comparazionedirittocivile.it, 2012, p. 1 ss. ed ivi, in particolare, 4 ss.
[7] Quando il “conflitto” si tramuta in “violenza” appare arduo gestire la distanza. Non a caso - come meglio vedremo - la Riforma Cartabia del processo civile dedica ampio spazio ai temi della violenza domestica e di genere (v. infra § 2 e § 3). Si può quindi affermare che l’amore si traduce in diritto quando viene inteso come fatto di sentimento che genera disvalore (i.e. amore “tossico”).
[8] Molte volte i genitori appaiono accecati dal rancore e dall’odio. I figli - sovente usati come scudi umani - vengono deprivati del diritto ad essere amati.
[9] Cfr. E. Al Mureden, Le famiglie dopo il divorzio tra libertà, solidarietà e continuità dei legami affettivi, in Famiglia e Diritto, 2021, p. 26.
[10] Ci muoviamo nell’ambito delle cc.dd. famiglie allargate o ricomposte In tali tipologie familiari uno o entrambi i partnerprovengono da una precedente unione e convivono con in figli nati da una o da entrambe le relazioni e, sovente, con i figli nati da quella attuale. La complessità della situazione scaturisce dal fatto che le funzioni parentali di cura e di assistenza - talvolta quasi integralmente mantenute dai genitori biologici - sono, molto spesso, esercitate in maniera condivisa, delegando al genitore sociale compiti sostanziali di cura morale e materiale della prole, senza che a ciò corrisponda un formale e giuridico riconoscimento.
[11] Invero, non è inusuale - soprattutto tra i non addetti ai lavori - che i termini “conflitto” e “violenza” vengano utilizzati come sinonimi. Come meglio vedremo, la distinzione appare una necessità imprescindibile. Al momento della disgregazione del nucleo familiare è fisiologico il conflitto. Quest’ultimo si palesa con manifestazione anche “violente” ascrivibili al malessere, alla sofferenza, alla rabbia che la separazione sovente porta con sé, ma produce delle dinamiche relazionali che mantengono i confliggenti in condizioni paritetiche e non che sfociano necessariamente in atti di violenza.
[12] Occorre sempre ricordare che la violenza contro le donne rappresenta “una delle espressioni più pronunciate dello squilibrio di potere tra donne e uomini, costituendo allo stesso tempo una violazione dei diritti umani e uno dei principali ostacoli all’uguaglianza di genere” (cfr. Consiglio d’Europa, Strategia per l’uguaglianza tra donne e uomini 2014-2017, Strasburgo, febbraio 2014, p. 5). In quest’ottica, appare utile richiamare le definizioni di «violenza contro le donne» e di «violenza domestica» contenute nell’art. 3 della Convenzione di Istanbul (Convenzione sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica adottata dal Consiglio d'Europa l'11 maggio 2011, è entrata in vigore il 1° agosto 2014). Con la prima definizione si designa “una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro la donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di tali atti la coercizione o privazione arbitraria della libertà personale, sia nella vita pubblica che privata”. Con la seconda definizione si suole fare riferimento a “tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima”. Il richiamato art. 3 della Convenzione di Istanbul, pertanto, tratteggia un rapporto di prevaricazione che pone le donne in una posizione di totale subordinazione rispetto agli uomini. Il concetto di violenza - come palesato dal dato normativo - trascende l’aggressione fisica ed include anche vessazioni psicologiche, ricatti economici, minacce, violenze e persecuzioni di vario genere, fino a sfociare nella forma estrema e drammatica del femminicidio. Non è un caso che, ancora oggi, si registra un senso di impunità diffusa: le risposte degli Stati nell’affrontare questa violenza - spesso basate su stereotipi patriarcali del rapporto tra uomo e donna - non sempre appaiono adeguate e l’accesso alla giustizia non sempre facile.
[13] Purtroppo, occorre rilevare che in molti procedimenti di affidamento della prole, di decadenza della responsabilità genitoriale, di competenza ordinaria e minorile, caratterizzati da violenza domestica (fisica, psicologica o economica) e assistita su minori, si è riscontrata una certa tendenza a derubricare la violenza all’ordinario e fisiologico conflitto familiare. Sul punto vedi A. Cordiano, Violenze assistite, domestiche di genere nelle disposizioni del nuovo procedimento in materia di persone, minorenni e famiglie, in Il diritto di famiglia e delle persone, 2023, p. 654 s. laddove - a conferma di quanto appena rilevato - si richiamano le risultanze dell’importante lavoro svolto dalla Commissione d’inchiesta sul femminicidio, istituita al Senato in composizione bicamerale nella precedente legislatura. Peraltro, non si può fare a meno di rilevare - ma sul punto si tornerà nel prosieguo del discorso - che il processo di derubricazione della violenza in conflitto può determinare odiose forme di vittimizzazione secondaria.
[14] La violenza - come confermano le scienze empiriche - è caratterizzata da ciclicità e che tende a (ri)proporsi o ad acutizzarsi in occasione di eventi a vario titolo traumatici, come accade nelle crisi separative o per le scelte in ordine all’affidamento dei minori.
[15] La violenza assistita è quella patita da un figlio quando assiste alla violenza - nelle sue varie estrinsecazioni - perpetrata da un genitore nei confronti dell’altro. Tale forma di violenza rientra nella violenza domestica.
[16] Occorre guardare alla violenza di genere e alla violenza domestica e assistita, come un fenomeno sociale con gravi ripercussioni transgenerazionali. Peraltro, i minori che assistono alla violenza all’interno del nucleo familiare, corrono il serio rischio - problema impossibile da sottovalutare - di soffrire di disturbi del comportamento e di disturbi emotivi. Attesa l’escalation di violenza a cui stiamo assistendo negli ultimi anni, la questione sta assumendo le fattezze di una vera e propria piaga sociale.
[17] La violenza all’interno della coppia comincia con episodi occasionali ed è molto importante sin da subito non sottovalutare certi comportamenti a cui spesso, soprattutto nelle prime fasi della relazione, non è dato molto peso. Saper riconoscere i segnali iniziali di una relazione maltrattante è importante per metterle fine prima che questa diventi un “labirinto” da cui è difficile uscire.
[18] Le donne che finiscono in una spirale di violenza si sentono sempre più isolate, intrappolate e senza via d’uscita. Peraltro, dai racconti delle vittime di violenza è possibile capire come alcuni atteggiamenti abbiano connotato quel rapporto sin dal suo inizio.
[19] La disciplina si applica alla fattispecie generale degli abusi familiari, che ricomprende le ipotesi di violenza nelle due varianti della violenza diretta o assistita e le ipotesi di abusi in senso stretto.
[20] Sull’odioso fenomeno della “vittimizzazione secondaria” v. infra § 3.
[21] L’allontanamento si esegue fissando la dimora in un luogo diverso dalla casa familiare, a distanza tale da evitare occasioni di interferenza con la vita familiare dei conviventi. Quando si oltrepassa il “confine” e non si riesce a “gestire la distanza” interviene il giudice fissando la distanza minima.
[22] Anche in questa circostanza sarà il giudice, nell’emettere un ordine di non avvicinamento, ad intimare all’autore della condotta pregiudizievole di tenersi distante dai luoghi abitualmente frequentati dai familiari vittime degli abusi, dai luoghi di lavoro e dalle scuole dei figli. Sul contenuto degli ordini di protezione vedi C.M. Bianca, Diritto civile, Vol. 2.1, La famiglia, VII ediz., a cura di M. Bianca e P. Sirena, 2023, p. 603 ss.
[23] L’assegno a favore del coniuge e dei figli si determina secondo i criteri previsti in caso di separazione. Il giudice fissa le modalità di corresponsione della somma e può disporre - aspetto sicuramente importante - che essa sia versata direttamente agli aventi diritto dal datore di lavoro del familiare allontanato, detraendola dalla retribuzione ad esso spettante (sul punto vedi C.M. Bianca, op. ultima cit., p. 605).
[24] Dal tenore letterale dell’art. 473-bis.40 c.p.c. si coglie la scelta effettuata dal legislatore: non delimitare in nessun modo l’ambito di applicazione delle disposizioni speciali. In tal modo, saranno ricomprese nell’ambito di applicazione delle nuove norme tutte le forme di violenza. Pertanto, in presenza di tutte le forme di violenza (fisica, psicologica, economica) - in aderenza a quanto previsto dalla Convenzione di Istanbul - il giudice potrà attivare quella “corsia preferenziale” idonea ad intercettare e contrastare senza indugio la violenza o gli abusi consumati all’interno del nucleo familiare. Fondamentale, infatti, risulta l’esigenza di evitare la “sottovalutazione” dei fatti di violenza lamentati con il rischio (concreto) di non riuscire ad interrompere il c.d. ciclo della violenza.
[25] Su tali profili vedi M.G. Albiero, I fatti di violenza e il processo, in C. Cecchella (a cura di), La riforma del processo e del giudice per le persone, per i minorenni e per le famiglie, Torino, Giappichelli, 2023, p. 305 s., ove si sottolinea come la “specialità” delle disposizioni si coglie anche negli ampissimi poteri di impulso del giudice, il quale “già dalle prime fasi processuali dovrà accertare la fondatezza o meno delle allegazioni di violenza, anche solo a livello di fumus”. Sul delicato tema delle “allegazioni” vedi infra 3.3.
[26] Del resto, la Corte di Cassazione ha più volte affermato che il giudice civile non è vincolato ai provvedimenti adottati dal giudice penale e deve accertare autonomamente con pieni poteri istruttori, le allegazioni di fatti di violenza, escludendo così ogni automaticità (tra le tante vedi Cass. 19 maggio 2020, n. 9143 ove si rileva che il giudice civile deve “accertare i fatti con pienezza di cognizione, sottoponendoli al proprio vaglio critico e senza essere vincolato dalle soluzioni e dalle qualificazioni adottate dal giudice penale”).
[27] Si pensi ai casi di violenza psicologica. In tali circostanze l’apporto del CTU appare veramente utile anche al fine di vagliare la compatibilità di condotte e stati psicofisici rispetto alla prospettazione di un quadro assimilabile ad una dinamica di violenza. Ovviamente, rimane ferma la discrezionalità del giudice nella valutazione del fatto, nella sua interpretazione e nelle conseguenti decisioni.
[28] L’esigenza di delimitare il mandato conferito trova coerente spiegazione nell’ottica di evitare che il consulente possa “sostituirsi” al giudice.
[29] Non è dato dubitare che le vittime di violenza di genere e, soprattutto, le vittime di violenza domestica incontrano molte difficoltà - anche in relazione al legame affettivo con l’autore della violenza - a denunciare.
[30] La condizione di equilibrio tra le parti rappresenta una precondizione fondamentale per assumere scelte libere e non condizionate e, dunque, pienamente consapevoli.
[31] Il principio di “non mediabilità” della violenza di genere e domestica nel processo di famiglia, pertanto, sembra debba intendersi come non assoluto. Sul punto vedi M.G. Albiero, I fatti di violenza e il processo, cit., p. 317.
[32] Non è dato dubitare che dietro il rifiuto si annida una compromissione della relazione “genitore-figlio”.
[33] Il giudice - in base a quanto previsto dall’art. 473-bis.6, comma 2° - deve procedere allo stesso modo quando “sono allegate o segnalate condotte tali da ostacolare il mantenimento di un rapporto equilibrato e continuativo tra il minore e l’altro genitore o la conservazione di rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale”.
[34] Su tali questioni vedi G. Bertoli, L’ascolto della persona di età, in C. Cecchella (a cura di), La riforma del processo e del giudice per le persone, per i minorenni e per le famiglie, Torino, Giappichelli, 2023, p. 265 ss. ed ivi in particolare p. 268.
[35] Sul punto vedi G. Bertoli, L’ascolto della persona di età, cit., p. 268.
[36] Il giudice, durante l’ascolto, deve avere nei confronti del minore quella cura e quell’attenzione che non hanno dato i genitori.
[37] Appare importante che l’allegazione sia ampia e dettagliata e ciò al fine di evitare che la previsione di un procedimento più “veloce” e connotato da più ampi poteri officiosi e inquisitori del giudice della famiglia possano divenire - snaturandone la ratio - strumento di abuso del processo, determinando l’applicazione di provvedimenti limitativi della responsabilità genitoriale in presenza di allegazioni non del tutto fondate (rectius infondate).
[38] Come già evidenziato merita sicuro apprezzamento l’aver dato alle controversie familiari contrassegnate da fatti di violenza, una corsia preferenziale, con l’abbreviazione dei termini processuali e con la previsione di specifiche disposizioni per evitare fenomeni di vittimizzazione secondaria. Altrettanto apprezzabile risulta la scelta del legislatore di intervenire in modo deciso rispetto al delicato tema del rifiuto del figlio minorenne di incontrare uno dei genitori ovvero rispetto all’esigenza di delimitare - pur senza sminuirne il ruolo - compiti e funzioni del consulente. Non è dato dubitare che attraverso un accertamento giudiziale pieno, affidato ad un giudice specializzato supportato, ove necessario, da ausiliari esperti sul tema della violenza domestica la Riforma potrà contribuire a dare risposte più efficaci alle vittime di violenza.
[39] Nei rapporti di coppia la coreografia “dell’Io con l’Altro” per non apparire sgraziata (rectius tragica) non può essere totalizzante. L’amore “sano”, fondato sul rispetto, ha bisogno di confini, di bordi che dovrebbero restare porosi, mobili, morbidi e consentire il passaggio di ciò che li nutre, come fa la membrana di una cellula, definita ma non assoluta, stabile ma non necrotizzata.
[40] Con la procedura di negoziazione, infatti, l’avvocato è chiamato a condurre il proprio assistito verso una soluzione concordata, svolgendo in tal modo una funzione applicativa e interpretativa del diritto al pari del giudice, nel rispetto delle norme imperative e dell’ordine pubblico.
Immagine: dettaglio di Paola Gandolfi, Reportage, olio su tela, 2023.
Abstract: il presente lavoro mira a offrire un commento ad una interessante ordinanza istruttoria del 8 marzo 2024 in cui si affronta il tema delle modalità con cui può e deve essere consentito allo straniero, cui è riconosciuta la protezione sussidiaria, l’esercizio in sicurezza di un suo diritto fondamentale come quello di contrarre matrimonio in Italia.
Sommario: 1. La questione affrontata nel provvedimento giudiziale - 2. Il matrimonio dello straniero in Italia, ammissibilità e controlli - 3. La condizione dello straniero, cui è riconosciuta la protezione sussidiaria, in Italia - 4. La soluzione del caso di specie.
1. La questione affrontata nel provvedimento giudiziale
Una interessante ordinanza istruttoria - datata otto marzo 2024 - pone all’attenzione dell’interprete la delicata questione delle modalità con cui può (e deve) essere garantito al migrante, nel paese di accoglienza, il godimento in sicurezza dei propri diritti fondamentali.
La vicenda in questione origina, più nello specifico, dal rifiuto manifestato da un comune rispetto alla richiesta di un cittadino straniero – titolare dello status di protezione sussidiaria- alla propria richiesta di pubblicazioni matrimoniali poiché questi non era stato in grado di ottemperare a quanto previsto dall’art. 116 del c.c. e quindi di presentare all’Ufficiale di Stato Civile una dichiarazione dell’autorità competente del proprio paese dalla quale risulta che nulla osti alle suddette pubblicazioni matrimoniali.
Lo straniero – nel contestare la decisione dell’Ufficiale di Stato Civile – evidenzia come in ragione del suo status di soggetto cui è riconosciuta la protezione sussidiaria non solo è impossibilitato a fare rientro fisico nel paese d’origine – dato il timore di essere rintracciato dai suoi agenti persecutori – ma anche che qualsiasi contatto intrattenuto con le autorità del suo paese lo avrebbe potuto esporre al pericolo di essere individuato dai suoi persecutori in Italia.
Di fatti egli si era trovato costretto a migrare dal suo paese di origine proprio perché era stato minacciato da un gruppo armato paramilitare che gli avrebbe imposto il pagamento di un “pizzo” per l’esercizio della propria attività, vincolo cui poi egli si sarebbe sottratto così trovandosi nella necessità di chiudere l’attività e lasciare la propria zona di origine, temendo ripercussioni sulla propria incolumità.
In ragione di tali fatti, considerate anche le fonti consultate ed il racconto dettagliato del richiedente, la Commissione Territoriale cui lo stesso aveva rivolto la sua domanda di protezione internazionale aveva riconosciuto che in caso di rientro nel suo paese di origine sarebbe stato esposto al rischio di subire “trattamenti inumani o degradanti qualificabili come danno grave ai sensi dell'articolo 14, lettera B, D. Lgs 251/2007”.
Il Tribunale, investito della questione, si trova a dover bilanciare da un lato il diritto del nubendo ad esercitare un proprio diritto fondamentale (tutelato inter alia anche dall’art. 12 della CEDU) dall’altro la necessità di garantire un controllo pubblicistico sulla condizione soggettiva del nubendo soprattutto perché questi aveva dichiarato di essere già sposato nel suo paese d’origine, il tutto senza esporlo a possibili pericoli per la sua incolumità fisica.
2. Il matrimonio dello straniero in Italia, ammissibilità e controlli
Il nostro ordinamento consente allo straniero di contrarre matrimonio in Italia, tanto con un cittadino italiano, tanto una persona di diversa nazionalità purché però egli presenti all'ufficiale di stato civile una dichiarazione dell'autorità competente del proprio Paese, dalla quale risulti che, secondo le leggi cui è sottoposto, nulla osta al matrimonio (art. 116, 1° co.). Questo perché la capacità matrimoniale dipende dalla legge nazionale del nubendo (v. art. 27 della L. n. 218/1995).
Data quindi la non facile applicazione e interpretazione della legge straniera il legislatore italiano ha scelto di recepire la valutazione compiuta in altro ordinamento e adeguarsi ad essa.
Tuttavia la giurisprudenza si è trovata – già prima del precedente in commento – ad affrontare la questione relativa all’impossibilità per il nubendo di presentare il nullaosta proveniente dalle autorità del proprio paese d’origine.
In particolare, lo straniero si può trovare nell’oggettiva impossibilità di presentare la documentazione de quaquando manchi un'autorità nazionale competente a certificare la capacità matrimoniale dei propri cittadini. In questi casi, la giurisprudenza ha ritenuto che possa essere autorizzata la pubblicazione, previo accertamento del contenuto della legge nazionale dello straniero, e del fatto che sussistano le condizioni per rilasciare il nulla osta (v. T. Treviso 15.4.1997)
Oppure sono state autorizzare le pubblicazioni anche in presenza di un esplicito diniego dell’autorità nazionale allorché si accerti giudizialmente che tale diniego è fondato su delle norme straniere che non rispettano l'ordine pubblico internazionale (v. art. 16, della L. n. 218/1995). Un caso frequente è dato dai provvedimenti con cui l'autorità competente subordinava il rilascio del nullaosta alla conversione all'Islam del coniuge (v. T. Taranto 13.7.1996).
Nella presente fattispecie, però, non può dirsi che vi sia una oggettiva impossibilità per il nubendo di procurarsi il nullaosta, né tantomeno si è in presenza di un diniego contrario all’ordine pubblico.
Non solo, deve anche evidenziarsi che sempre l'art. 116 c.c. al secondo comma, stabilisce che lo straniero, che voglia contrarre matrimonio in Italia, debba rispettare alcune norme previste dalla legge italiana; tra le quali vi è soprattutto quella relativa alla libertà di stato. Si tratta di norme che il legislatore ritiene di ordine pubblico e che, quindi, devono essere applicate a tutti i matrimoni celebrati in Italia.
L’acquisizione della documentazione dalle autorità nel paese d’origine diviene quindi un passaggio imprescindibile non solo ai fini della verifica della capacità matrimoniale ma soprattutto ai fini del controllo di natura pubblicistica sulle condizioni necessarie per contrarre matrimonio, in considerazione anche del fatto che è lo stesso nubendo ad avere dichiarato di essersi sposato nel suo paese.
3. La condizione dello straniero, cui è riconosciuta la protezione sussidiaria, in Italia
Delineato quindi il quadro dei controlli che devono essere svolti al fine di consentire allo straniero di contrarre matrimonio in Italia, ci si deve soffermare sulla condizione dello straniero in Italia, ed in particolare di quello cui è riconosciuto lo status di protezione sussidiaria.
Al riguardo occorre evidenziare che già nell’impianto Costituzionale vi sono due norme fondamentali che garantiscono allo straniero il pieno ed effettivo godimento dei diritti fondamentali in Italia.
In primo luogo, vi è l’art. 2 della Carta, che pone l'obbligo per lo Stato di riconoscere e garantire i diritti fondamentali “dell'uomo”; cioè il nucleo fondamentale di diritti essenziali è riconosciuto dal nostro ordinamento alla persona in quanto tale e quindi anche ai cittadini stranieri. L'art. 10, poi, al secondo comma nel delegare al legislatore ordinario il compito di disciplinare la condizione giuridica dello straniero prevede che tale normativa “debba essere conforme alle norme e ai trattati internazionali”.
Tali principi trovano poi applicazione nell’art. 2 del Testo Unico Immigrazione laddove è previsto esplicitamente che “lo straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato gode dei diritti in materia civile attribuiti al cittadino italiano, salvo che le convenzioni internazionali in vigore per l'Italia e il presente testo unico dispongano diversamente.” (cfr. Art. 2 D. Lvo 286 del 1998).
Su versante sovranazionale il pieno godimento dei diritti fondamentali è garantito – inter alia - dall’art. 14 Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo il quale esplicitamente prevede che “il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione.”
Ciò premesso, l’art. 116 del codice civile – che, come detto, consente allo straniero di contrarre matrimonio in Italia previa la presentazione del nullaosta dell’autorità nazionale – sembra essere una norma perfettamente coerente con detti principi, e dei quali è declinazione specifica per la materia matrimoniale. L’obbligo di presentazione della documentazione, infatti, è funzionale solo ed esclusivamente a compiere i controlli che vengono svolti dall’ufficiale di Stato Civile anche sul cittadino, e che sono funzionali a garantire l’applicazione di norme (come ad esempio quella sulla libertà di stato) ordine pubblico.
Sicché non può dirsi che in linea generale ed astratta l’art. 116 c.c. determini una qualche discriminazione diretta a danno dello straniero. Anzi – in una condizione di perfetta e speculare reciprocità – obbliga lo straniero a presentare della documentazione assolutamente analoga a quella che è tenuto a presentare il cittadino.
Ciò posto però è da considerarsi che l’applicazione di questa norma apparentemente neutra possa determinare, date le peculiarità di un caso di specie, una forma di discriminazione c.d. indiretta. In altre parole, può avvenire che una disposizione come l’art. 116 c.c. apparentemente neutra, metta una persona, in ragione della sua peculiare condizione, in una posizione di svantaggio rispetto ad altre persone, rendendo particolarmente difficoltoso l’esercizio del diritto in essa consacrato.
Ora, l’applicazione rigorosa dell’art. 116 c.c. nel caso in cui a richiedere le pubblicazioni matrimoniali sia uno straniero che gode dello status di protezione sussidiaria potrebbe proprio generare questo effetto.
Non può infatti richiedersi ad un soggetto che è fuggito dal proprio paese avendo il timore di essere perseguitato di farvi rientro al fine di richiedere documentazione amministrativa. Ma non solo allorché il riconoscimento della protezione sussidiaria ex art. 14, lett. b), del d.lgs. n. 251 del 2007, consegua ad una minaccia portata da un soggetto privato, non può nemmeno chiedersi al migrante di mettersi in contatto a distanza con le autorità nazionali al fine di richiedere la documentazione necessaria.
Questo perché nel caso in cui la minaccia venga portata da un agente privato lo status della protezione sussidiaria può essere riconosciuto solo “qualora risulti che le autorità statuali non contrastino tali condotte o non forniscano protezione contro di esse” (cfr. da ultimo Cass. Civ. Sez. 1 - , Ordinanza n. 6984 del 15/03/2024).
Sicché proprio l’incapacità delle forze statuali di opporsi alle organizzazioni criminali private che controllano il territorio e di garantire ai propri cittadini una adeguata protezione mettendoli in condizione di esercitare i propri diritti rappresenta un impedimento per lo straniero. Egli infatti – in simili fattispecie – ha il legittimo il timore tanto di rivolgersi alle autorità del suo paese, o comunque di ricevere da queste un trattamento non rispondente alla tutela dei suoi diritti.
Tale timore è stato anche esplicitamente preso in considerazione dal Legislatore tanto è vero l’art. 24 comma 2 del D.Lvo 251 del 2007 prevede che “quando sussistono fondate ragioni che non consentono al titolare dello status di protezione sussidiaria di chiedere il passaporto alle autorità diplomatiche del Paese di cittadinanza, la questura competente rilascia allo straniero interessato il titolo di viaggio per stranieri”, con ciò evitando contatti tra lo straniero e le autorità del suo paese.
4. La soluzione del caso di specie
Date queste premesse l’ordinanza in questione cerca di trovare il giusto contemperamento tra gli opposti interessi mediante una lettura costituzionalmente orientata delle norme processuali ed in particolar modo dei poteri officiosi del giudice civile.
Infatti, il provvedimento in esame parte proprio dall’affermazione delle due contrapposte esigenze cioè da un lato non è esigibile che il cittadino straniero entri in contatto con le autorità consolari e diplomatiche del paese di origine; e dall’altro che ai fini della decisione sull’accoglimento o meno della richiesta di pubblicazioni è comunque necessario indagare l’effettiva assenza di impedimenti matrimoniali in capo al ricorrente.
Ne consegue quindi che è lo stesso giudice – mediante una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 213 c.p.c. alla luce dell’art. 10 comma 3 Cost. – a richiedere le informazioni all’ambasciata ed al consolato del paese di origine del nubendo.
Nel fare ciò il giudice adotta le misure concrete volte alla protezione dei dati personali del richiedente impedendo che si venga a sapere dove lo stesso risiede, mediante un provvedimento di divieto di rivelazione del luogo di residenza e del domicilio anche della compagna alle autorità nazionali con cui la suddetta ambasciata ed il suddetto consolato dovranno relazionarsi.
Lo strumento quindi mediante il quale il giudice trova un punto di equilibrio tra le due contrapposte esigenze nel caso di specie è dato dallo strumento probatorio officioso di cui all’art. 213 c.p.c.
Al riguardo occorre osservare, per vero, che la giurisprudenza (v. su tutte Cass. Civ. n. 1484/2014), ha da sempre sostenuto che il potere officioso previsto dall'art. 213 può essere attivato solo quando sia necessario acquisire informazioni relative ad atti o documenti che la parte sia impossibilitata a fornire in giudizio.
L’impossibilità in questo frangente viene interpretata in senso soggettivo come inesigibilità e lo strumento probatorio officioso diviene il modo con cui lo Stato italiano garantisce ed assicura l’effettivo esercizio della libertà matrimoniale allo straniero.
Tale soluzione, del resto, è coerente con il principio di cooperazione istruttoria sancito dall’articolo 4 della direttiva 2011/95/UE e dall’articolo 8 del d.lgs n. 25/2008 che governa l’intera materia della protezione internazionale e che – nel caso di specie – viene applicato dal giudice anche oltre i confini del processo relativo all’impugnazione dei dinieghi rilasciati dalle Commissioni Territoriali per il riconoscimento della Protezione Internazionale.
Si tratta a tutta evidenza di un supporto che il giudice officiosamente dà alla parte, supplendo mediante i suoi poteri officiosi, ad un suo deficit probatorio.
Tale carenza però è determinata dalla posizione di particolare vulnerabilità che il migrante ha all’interno di un processo. È infatti inesigibile richiedere a coloro che fuggano dal timore di un danno grave alla persona – nel caso di specie già riconosciuto da una decisione amministrativa – la produzione di documenti o comunque di atti reperibili nel proprio paese d’origine per le ragioni che si sono individuate in precedenza.
Al fine quindi di garantire alla parte processualmente debole il pieno ed effettivo esercizio dei propri diritti giudiziali è compito del giudice – mediante i propri poteri officiosi – riequilibrare le posizioni processuali, riportando la c.d. parità delle armi tra le due posizioni contrapposte in giudizio. Del resto – in un’ottica complessiva – si può notare come anche in altre fattispecie ove sono previsti poteri istruttori officiosi essi sono volti alla tutela della parte processualmente più debole (ad esempio il lavoratore, il minore, o il consumatore).
Estendere quindi il principio della cooperazione istruttoria anche oltre i confini del processo relativo al riconoscimento della protezione internazionale – sempre se ne sussistono analoghe esigenze di tutela della parte debole - è quindi coerente, non solo con i principi costituzionali in materia di condizione giuridica dello straniero (Art. 10 Cost.), ma anche con il principio di effettività della tutela giurisdizionale, garantito dagli artt. 24, 103 e 113 Cost. e dall’art. 19 T.U.E: e 47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, che impone di mettere la parte processualmente “debole” in una posizione di parità processuale rispetto alla parte pubblica, di modo che possa esercitare in modo “effettivo” i suoi diritti fondamentali trovando riscontro alle sue istanze di tutela qualora a seguito di un’istruttoria eventualmente “cooperata” risultino fondate.
Immagine: Theodore Robinson, Il corteo nuziale, 1892, Terra Foundation for American Art, Chicago.
«Non potendo eliminare con un sol colpo il flagello della guerra si cercò inizialmente di attenuarne i rigori inutili. L’interesse reciproco dei belligeranti li spinse perciò ad osservare, nella condotta delle ostilità, certe “regole del gioco": curare i feriti, proteggere donne e bambini[1].»
L’idea, nata a seguito dell’esperienza della Seconda guerra mondiale e delle gravi conseguenze del conflitto sulle popolazioni, era quella di creare, nell’ambito del diritto internazionale, un diritto che in tempo di conflitto armato, prevedesse la protezione delle persone che non prendono parte alle ostilità, ai beni che possono essere coinvolti e che ponesse limiti all’impiego di mezzi e metodi ai conflitti guerra.
Il diritto dei trattati di Ginevra e dell’Aja del 1948 e i protocolli addizionali del 1977 avevano codificato questi principi individuando i concetti di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio imponendo agli Stati , nel divenire parti della Convenzione di Ginevra del 1949, di rispettare quelle “regole del gioco”, sia perseguendo i responsabili delle violazioni al diritto internazionale umanitario (DIU), attraverso la propria giurisdizione penale oppure applicando il principio della giurisdizione universale[2]; sia infine rispondendone direttamente come Stati davanti alla giustizia internazionale.
Quello che accade nei conflitti in corso e il numero esponenziale delle vittime civili legittima la domanda se il diritto internazionale umanitario esista ancora o se quella idea di civiltà, forse utopistica, che fosse possibile una condivisione generalizzata della tutela dei diritti fondamentali anche in situazione di guerra, possa essere ancora perseguita.
Le reiterate violenze contro le donne e i bambini durante tutti i conflitti contemporanei farebbe pensare di no.
È di questi giorni la notizia che il Global Survivors Fund, lanciato nel 2019[3] per aiutare i sopravvissuti delle violenze sessuali legate ai conflitti ad avere accesso ai risarcimenti ed ottenere un sostegno economico, medico e psicologico, sarà attuato per la prima volta quest’anno in Ucraina in conseguenza alle richieste di centinaia di persone, per ora 500, prevalentemente donne e bambini, che hanno denunciato stupri di guerra ai loro danni da parte delle milizie russe.
Il riferimento a “coloro che sono sopravvissuti” testimonia tragicamente che allo stupro non sempre si sopravvive; e fa riflettere la tipologia delle vittime, individuate in particolare nelle donne e nei bambini, e cioè proprio coloro la cui tutela costituiva il nucleo ideale del DIU.
La notizia, con il suo evidente riferimento ad un crimine efferato, arma da guerra potente e a buon mercato, usata prevalentemente sul corpo delle donne su vasta scala nei conflitti di tutti i tempi ma praticata anche in quelli contemporanei, ha un unico aspetto positivo, che è quello di squarciare il velo che da sempre pesa su questo terribile fenomeno, finora non concretamente accertato e punito ma che certamente integra un crimine di guerra e contro l’umanità, atteso che nella lista, pur non esaustiva, individuata dall’art 8 dello Statuto della Corte Penale Internazionale[4] tale è ritenuto il danno all’integrità fisica e alla salute dei civili durante i conflitti.
Anche la fame (e il connesso rischio di carestia), come i fatti recenti mostrano all’evidenza, è un’arma di guerra, anche questa antica e a buon mercato e colpisce i civili non belligeranti e tra essi soprattutto donne e bambini.
L’UNICEF, l’Agenzia delle Nazioni Unite per l’Infanzia, ha rilevato che in Palestina, a causa del conflitto, già da fine febbraio, il 90% dei bambini sotto i due anni e il 95% delle donne incinte o che allattano si trovano in condizione di “grave povertà alimentare”. E Save the Children ha dichiarato che le famiglie di Gaza sono costrette a mangiare foglie e resti di cibo contaminate dai topi per cercare di sopravvivere, e che il rischio morte per fame incombe su tutti i bambini che vivono attualmente a Gaza (1 milione circa).
Integrano gravi violazioni del diritto umanitario internazionale bloccare le consegne di acqua, cibo e carburante, radere al suolo intere aree agricole, così privando la popolazione della possibilità di accedere alla raccolta di essenziali fonti di sostentamento, impedire o rallentare l’assistenza umanitaria bloccando i convogli di aiuti e impedendo loro di accedere nei luoghi di distribuzione, colpendo i civili assembrati per approvvigionarsi, bloccare le forniture di elettricità e ostacolare ogni possibile sforzo per ripararli lasciando consapevolmente la popolazione civile senza nessuna fonte di energia; infine la distruzione degli ospedali dove sono ricoverate centinaia e centinaia di feriti e di malati[5].
La Corte Penale Internazionale ha già individuato tali azioni come crimini di guerra e contro l’umanità in relazione al conflitto russo ucraino, in particolare per la deportazione illegale di bambini dai territori occupati[6].
Ora, secondo lo Stato del Sud Africa queste violazioni perpetrate nel corso della guerra israelo-palestinese, molte delle quali imputate a Israele, integrano gli estremi del genocidio ai danni del popolo palestinese.
Il Sud Africa, infatti, ha presentato ricorso alla Corte Penale Internazionale contro Israele per violazione della Convenzione per la prevenzione e repressione del crimine di genocidio (1951), sulla base della clausola che consente agli stati parte (tra cui sia il Sud Africa che Israele) di sottoporre alla Corte qualsiasi controversia che riguardi l’applicazione del DIU. Il Sud Africa ha accusato Israele di aver commesso plurime violazioni del diritto umanitario tra cui la più grave sarebbe la commissione di genocidio, diretta o per incitamento, o comunque per complicità, mancanza di prevenzione e di repressione dell’azione di singoli o gruppi.
Anche se difficile che la Corte possa addivenire ad una condanna per genocidio atteso che la normativa dettata dalla Convenzione è particolarmente rigida, richiedendo la prova dell’intento specifico e unico di sopprimere un gruppo o di una comunità, in fase cautelare la Corte ha emesso un’ordinanza con cui ha imposto a Israele di cessare ogni condotta di violazione del diritto umanitario e di ostacolo o blocco o impedimento degli aiuti umanitari, ordinando altresì l’invio di report sull’implementazione di queste misure.
Il ricorso e la successiva ordinanza, che sembra allo stato aver avuto qualche successo, sono stati letti come la manifestazione del risveglio della comunità internazionale in relazione all’applicazione del DIU, se non altro perché hanno comportato l’apertura di un’istruttoria che coinvolge le parti coinvolte e le obbliga a fornire spiegazioni.
E tuttavia, come dimostrato dalle audizioni istruttorie fatte dalla Corte, le giustificazioni addotte dalle parti in causa, accusati di essere responsabili di queste gravi violazioni, si fondano prevalentemente sul diritto ad agire con l’uso della forza per tutelare un proprio presunto diritto o per reagire all’attacco altrui
Per contro, il nucleo centrale del DIU, nato con lo scopo di limitare le sofferenze causate dalla guerra proteggendo e assistendo al meglio possibile le sue vittime, è che esso si rivolge alla realtà della guerra senza considerare le ragioni o la legittimità del ricorso alla forza, applicandosi alle parti che combattono indipendentemente dalle ragioni del conflitto, a prescindere dal fatto che la causa sostenuta dall’una o dall’altra parte sia giusta e senza che sia dato alcun rilievo alla parte cui le vittime appartengono.
E ciò sulla base della considerazione di fatto- sempre verificata, come appunto anche nei conflitti in corso - che nel caso di conflitto armato internazionale l’accertamento di quale sia lo Stato responsabile della violazione del principio del divieto del ricorso all’uso della forza sancito dalla Carta delle Nazioni Unite è pressoché irrilevante.
Per definizione, infatti, l’applicazione del DIU non è condizionato dall’accertamento di siffatta responsabilità poiché ciò porterebbe immediatamente al sorgere di una controversia e paralizzerebbe l’applicazione del DIU consentendo a ciascuno degli avversari di sostenere di essere vittima di un’aggressione e di aver solo reagito all’aggressione altrui.
Di questo “risveglio” ci sono anche altri segnali.
Tra questi la richiesta dell’Unione Europea, come soggetto della Comunità Internazionale autonomo rispetto agli Stati che la compongono, di avviare un’indagine indipendente sui cadaveri e le fosse comuni a Gaza. E, ancora di maggior rilievo, la richiesta del Procuratore Generale presso la Corte Penale Internazionale di spiccare mandati di arresto verso i capi di Hamas e i leader israeliani, premier e ministro della difesa.
Nel suo comunicato il Procuratore ha dichiarato che sulla base delle evidenze raccolte ed esaminate dal suo ufficio ci fondati motivi di ritenere Hamas responsabile di sterminio, omicidio, stupro e altri atti di violenza sessuale come crimini di guerra e contro l’umanità nell’ambito dell’attacco contro la popolazione di Israele. E continua, nella seconda parte del documento, elencando le accuse di crimini di guerra rivolte ai vertici di Israele tra cui lo sterminio e la persecuzione di civili e la fame come metodo di guerra, nonché di aver privato intenzionalmente e sistematicamente la popolazione civile di Gaza di beni indispensabili alla sopravvivenza umana.
Oggi più che mai, si legge nella parte finale del comunicato, dobbiamo dimostrare collettivamente che il diritto internazionale umanitario, la base fondamentale della condotta umana durante i conflitti, si applica a tutti gli individui ed equamente. “Dimostreremo così concretamente che la vita di tutti gli esseri umani ha lo stesso valore”.
Le reazioni “politiche” di questi giorni sono perplesse o piene di distinguo o nettamente contrarie e solo in pochissimi casi favorevoli.
E tuttavia, com’è stato autorevolmente detto, non bisogna dimenticare che la posta in gioco, oltre al rispetto della vita umana, da tutelarsi “trasversalmente” ovunque e quale che sia la parte in causa, è anche la credibilità del diritto internazionale.
[1] Jean Pictet, autore di Etudes et Essais sur le Droit International Humanitaire e le Principes de la Croix Rouge, uno degli ideatori dei Protocolli addizionali (1977) alla Convenzione di Ginevra del 1949.
[2] Chi commette gravi infrazioni al diritto internazionale umanitario può essere punito a prescindere dalla sua nazionalità e dal luogo in cui è stato commesso il fatto.
[3] Il Global Survival Fund è stato lanciato dai premi Nobel per la pace Denis Mukwege e Nadia Murad.
[4] L’art 8 dello Statuto della CIG contiene una lista generalmente accettata delle violazioni al DIU e sulle azioni che costituiscono crimine di guerra che, ancorché non esaustivo, indica come crimini di guerra la tortura dei civili, l’omicidio intenzionale, la deportazione, la distruzione di beni civili pubblici e privati, gravi violazioni all’integrità fisica e alla salute dei civili.
[5] Al Jazeera, il primo aprile, ha mostrato le immagini dell’Ospedale di Shifa a Gaza, punto di riferimento e di cura essenziale per la zona, con le sue 26 camere operatorie e i suoi 750 letti di degenza, già al collasso prima dell’attacco per il gran numero di feriti ricoverati, completamente raso al suolo e bruciato.
[6] Fonte ISPI (Istituto Studi per le Politiche Internazionali): Israele Hamas e la CPI: questione di giustizia. 21.5.2024
Immagine: Rifugiati e personale all'esterno dell'Ospedale Al-Shifa a Gaza City. Fonte AFP/Getty Images.
Abusi edilizi e autotutela: l’onere della prova in capo al privato. Nota a Cons. Stato, II, 1 febbraio 2024, n. 1016.
di Clara Napolitano
Sommario: 1. I fatti: il rilascio del permesso di costruire, l’annullamento in autotutela, l’ordine di demolizione. La quæstio giuridica all’esame del Consiglio di Stato. – 2. L’autotutela: il modello generale dell’annullamento d’ufficio. – 3. Le peculiarità dell’autotutela edilizia. – 4. L’annullamento d’ufficio del permesso di costruire a fronte della falsa – o incerta – rappresentazione della realtà: l’onere della prova procedimentale. – 5. Il principio di vicinanza della prova: rilievo processuale e, prima ancora, procedimentale.
1. I fatti: il rilascio del permesso di costruire, l’annullamento in autotutela, l’ordine di demolizione. La quæstiogiuridica all’esame del Consiglio di Stato.
Nella sentenza in commento, il Consiglio di Stato si pronuncia in merito all’impugnazione, da parte del ricorrente, del provvedimento di annullamento d’ufficio del permesso di costruire precedentemente rilasciatogli dall’Amministrazione comunale e della conseguente ordinanza di demolizione dei manufatti ritenuti abusivi dalla stessa p.A.
Questi i fatti.
Il privato chiedeva al Comune il rilascio di un permesso di costruire piuttosto curioso: un p.d.c. «per presa d’atto», in modo da «acquisire una legittimazione postuma di una serie di modiche apportate alle predette unità e certamente risalenti a tempo immemorabile e comunque a prima del 1942»[1]. In quella istanza, il privato dichiarava, dunque, che gli immobili che intendeva regolarizzare erano stati così realizzati prima del 1942, ovvero prima dell’adozione della legge urbanistica fondamentale – la l. n. 1150/1942 – e, dunque, prima che fosse necessario un qualsivoglia titolo edilizio per la loro edificazione. Il permesso, pertanto, chiesto il 29 aprile 2016, era rilasciato il 14 luglio 2016.
La vicenda, probabilmente, non avrebbe avuto ulteriori sviluppi se non si fosse aperto – poco prima dell’istanza stessa – un procedimento parallelo di verifica dello stato dei luoghi, sollecitato dalla confinante controinteressata.
Era infatti accaduto che l’anno precedente, nel 2015, quello stesso privato avesse presentato al Comune una SCIA e – di poi, nell’arco dello stesso 2016 – una serie di C.I.L. in relazione ad alcuni manufatti localizzati in altra parte di quegli stessi immobili. L’Amministrazione comunale, effettuati i relativi sopralluoghi, avrebbe poi emanato una ordinanza di demolizione di quei manufatti, ritenuti abusivi, e, al contempo, aperto un procedimento di verifica del seguente permesso di costruire del 2016.
Il Comune aveva infatti notato – tra le altre cose – che tra la planimetria allegata alla SCIA del 2015 e quella allegata all’istanza di p.d.c. del 2016 c’erano discrete incongruenze le quali lasciavano intendere che tra il 2015 e il 2016 fossero state realizzate opere abusive che, poi, l’istante avrebbe voluto sanare tramite il permesso di costruire per «presa d’atto», retrodatando la planimetria al periodo ante 1942.
Prima di giungere all’esito del procedimento di autotutela sul permesso di costruire, l’Amministrazione comunale sollecitava più volte il privato a chiarire e attestare – comprovandola agli atti – la risalenza delle opere al periodo antecedente al 1942: stante l’assenza di un qualunque riscontro, la conclusione del procedimento diventava pressoché obbligata nel senso dell’annullamento d’ufficio del permesso di costruire precedentemente rilasciato[2].
Il provvedimento era pertanto oggetto d’impugnazione al Tar, che rigettava il ricorso sulla scorta della seguente motivazione: «secondo la giurisprudenza amministrativa l’onere di provare la data di realizzazione dell’immobile abusivo spett(a) a colui che ha commesso l’abuso e ... solo la deduzione, da parte di quest’ultimo, di concreti elementi – i quali non possono limitarsi a sole allegazioni documentali a sostegno delle proprie affermazioni – trasferisce il suddetto onere di prova contraria in capo all’amministrazione»; sicché «il soggetto che contesta la legittimità dell’ordinanza sindacale di demolizione di un manufatto abusivo ha l’onere di fornire per lo meno un principio di prova in ordine al tempo di ultimazione di quest’ultimo, se asserisce che è stato realizzato prima della legge n. 1150/‘42 (nel centro abitato), ossia quando per tali tipi di costruzione non era prescritta alcuna licenza edilizia»[3].
Non dandosi per vinto, il privato-ricorrente proponeva appello: il Consiglio di Stato, con la sentenza in commento, confermava la decisione del Tar in tutti i suoi aspetti, rilevando che la pur articolata ricostruzione dei fatti e degli interventi edilizi operata dall’appellante «non contrasta in alcun modo il ragionamento svolto dal primo giudice, ancorato ad una pluralità di elementi che risultano correttamente desunti e condivisibili».
La questione giuridica concerne, dunque, il rapporto tra privato e p.A. in relazione all’onere della prova nel caso di abusi edilizi: posto che, come si vedrà, vige granitico il principio per cui spetta al privato l’onere di provare che gli interventi edilizi sine titulo sono risalenti a un torno di tempo anteriore al 1942 (così legittimandone l’esecuzione priva di titoli abilitativi di sorta), fino a che punto quest’onere può spingersi, alla luce dei principi di correttezza e buona fede nel rapporto con la p.A.?
2. L’autotutela: il modello generale dell’annullamento d’ufficio.
Il tema che sta sullo sfondo della vicenda concerne l’esercizio del potere di autotutela – nella forma dell’annullamento d’ufficio – in materia edilizia.
È ben noto l’assetto generale del potere sancito – dal 2005 – dall’art. 21-nonies, l. n. 241/1990. Solo per ripercorrere per apicibus la sua parabola evolutiva[4], basterà ricordare che in origine il potere di annullare d’ufficio i propri provvedimenti era considerato attributo immanente e permanente del più generale potere-dovere della p.A. di curare l’interesse pubblico. La natura giuridica del potere medesimo – se fosse espressione del potere originario di provvedere (e ri-provvedere, seppur in senso demolitorio) sul medesimo interesse pubblico; o se, viceversa, fosse espressione di un potere proprio di “annullamento” – erano questioni, tutto sommato, orbitanti rispetto alla certezza che annullare d’ufficio gli atti, motivatamente e in misura proporzionata, fosse comunque un potere immanente nella pubblica Amministrazione, che non necessitava d’esser sancito legislativamente.
L’ancoraggio al dato normativo è avvenuto, come anticipato, nel 2005, interpolando nella legge generale sul procedimento amministrativo alcune disposizioni sull’autotutela esecutiva (art. 21-ter) e altre sull’autotutela decisoria (art. 21-quinquies e 21-nonies in particolare, ma anche art. 21-quater concernente la sospensione del provvedimento): sono gli anni di una rinnovata attenzione al principio di legalità, ed è dunque essenziale che il potere non sia più immanente, ma espressamente regolato da disposizioni di legge, a tutela anche (o forse, soprattutto) del privato che ne subisce gli effetti giuridici[5].
Ne deriva una formulazione della norma che restituisce un potere ancora fortemente discrezionale[6]: l’Amministrazione può decidere se aprire un procedimento di annullamento d’ufficio di un proprio precedente provvedimento illegittimo[7]; quando farlo[8]; se annullare o meno[9]. Sono pochissime le ipotesi di Reduzierung auf Null della discrezionalità, generalmente ricondotte al diritto europeo e ad altre scarne evenienze nelle quali il mantenimento in vita del provvedimento illegittimo è «semplicemente insopportabile» (unerträglich)[10].
Senonché, dal 2011 in poi l’esigenza di reagire alla crisi economica attraverso un’adeguata politica di incentivazione degli investimenti, tale da rendere il Paese più appetibile, ha, coerentemente, indotto il legislatore a rivedere la disciplina dell’autotutela sugli atti amministrativi incidenti sull’esercizio delle attività economiche, spingendolo a prestare sempre maggiore attenzione alla tutela dell’affidamento determinato dal conseguimento dei titoli abilitativi. In quest’ottica, i successivi interventi legislativi si sono mossi nella logica di dare maggior fiducia agli investitori. In particolare, la l. 11 novembre 2014, n. 164 (di conversione del d.l. 11.9.2014, n. 133, c.d. decreto Sblocca Italia) e poi, soprattutto, la l. 7 agosto 2015, n. 124 (c.d. legge Madia) e i suoi decreti attuativi (in particolare cc.dd. SCIA-1 e SCIA-2), si sono mossi in una logica – per un verso – di semplificazione amministrativa, ampliando la possibilità di ottenere titoli abilitativi per silentium o sulla base di un mero decorso temporale a fronte della presentazione di autocertificazioni; per altro verso, di irrigidimento dei poteri di autotutela, limitati fortemente nei presupposti ma soprattutto nell’arco temporale d’esercizio[11].
Sicché, l’annullamento d’ufficio ha, sì, mantenuto una dimensione discrezionale, restando tuttavia confinato alle sole ipotesi di provvedimenti illegittimi sotto il profilo sostanziale e comunque limitato nel tempo a 18 mesi dall’adozione di quei provvedimenti, oltre i quali v’è una prevalenza automatica dell’affidamento legittimo del privato e il provvedimento autorizzatorio non è più annullabile[12]. Nondimeno, il termine d’esercizio del potere è stato ulteriormente abbreviato[13]: 12 mesi, nell’attuale formulazione normativa, frutto del d.l. 31 maggio 2021, n. 77 (c.d. decreto Semplificazioni-bis). È peraltro in cantiere un nuovo d.d.l. Semplificazioni, il cui schema è stato sottoposto al Consiglio dei Ministri il 26 marzo 2024, per cui il termine d’esercizio del potere di annullamento d’ufficio sarà ridotto ulteriormente a 6 mesi[14].
L’unica eccezione alla (sempre maggiore) perentorietà del termine sta nella possibilità che il privato non sia effettivamente titolare di un affidamento legittimo meritevole di tutela sulla stabilità del titolo abilitativo per aver egli stesso dolosamente o colposamente indotto in errore l’Amministrazione o aver dato falsa o mendace rappresentazione della realtà: lo stabilisce il comma 2-bis dell’art. 21-nonies, in base al quale «i provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, possono essere annullati dall'amministrazione anche dopo la scadenza del termine di diciotto mesi di cui al comma 1, fatta salva l'applicazione delle sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445». La disposizione, per il vero non particolarmente perspicua[15], ha dato la stura a un corposo orientamento giurisprudenziale che – spesso proprio in materia edilizia – legittima il potere di autotutela “tardivo” dell’Amministrazione a fronte di false rappresentazioni della realtà da parte del privato senza che neanche sia richiesto l’accertamento penale[16].
3. Le peculiarità dell’autotutela edilizia.
Ora, il modello generale di autotutela (nel senso dell’annullamento d’ufficio) – pur se fortemente ridimensionato nei tempi d’esercizio – è comunque basato su un ampio potere discrezionale dell’Amministrazione, che trova limite nell’affidamento del privato (laddove legittimo) e spinge la p.A. a dover minuziosamente motivare il suo atto di secondo grado per giustificarne gli effetti giuridici demolitori.
Rispetto a questo quadro, l’autotutela edilizia presenta due peculiarità:
Il distacco sotto il primo profilo rispetto al modello generale è prefigurato – seppur prudentemente – dall’Adunanza Plenaria n. 7/2018[17]: pronunciatasi su una fattispecie anteriore all’introduzione del termine di 18/12 mesi (profilo che dunque resta fuori da quanto adesso si dirà), la Plenaria ha offerto un archetipo dell’autotutela edilizia piuttosto rigoroso.
Anzitutto, la motivazione.
Pur non aderendo supinamente alla teoria della motivazione in re ipsa[18], il Collegio sostiene che l’obbligo di motivazione del provvedimento di annullamento d’ufficio di un titolo edilizio è senz’altro attenuato in ragione dei peculiari e rilevanti interessi pubblici sottesi all’adozione di un simile provvedimento[19].
Ma lo è ancor di più laddove l’illegittimità sia stata provocata dalla falsa rappresentazione della realtà da parte del privato (o costui abbia contribuito a falsarla, non contraddicendo l’Amministrazione ma restando inerte davanti a un suo errore): non essendoci alcun legittimo affidamento da proteggere e da bilanciare con gli interessi pubblici[20].
Quanto, poi, al profilo della doverosità: la norma speciale sull’autotutela edilizia (art. 39, d.P.R. n. 380/2001) e una certa lettura giurisprudenziale dell’art. 21-nonies configurano il potere di annullamento d’ufficio come doveroso in quanto espressione – più che di una potestà discrezionale – di un potere di vigilanza sull’edificazione corretta del territorio[21].
4. L’annullamento d’ufficio del permesso di costruire a fronte della falsa – o incerta – rappresentazione della realtà: l’onere della prova procedimentale.
S’è visto che l’annullamento d’ufficio del titolo abilitativo edilizio è senz’altro agevolato – quanto meno sotto il profilo motivazionale, oltre che rispetto al lasso temporale d’esercizio – quando non vi sia un ragionevole convincimento sulla stabilità del titolo da parte del privato: ciò accade, appunto, quando dai documenti – nonché dal contegno di questi – sia evincibile una mistificazione dello stato di fatto.
Non bisogna dimenticare che, sullo sfondo della vicenda qui in commento, campeggiano i principi di correttezza, collaborazione e buona fede che governano ormai pacificamente il rapporto amministrativo, codificate all’art. 1, comma 2-bis, l. n. 241/1990, introdotto dalla l. n. 120/2020. Ne ha dato ampio spaccato l’Adunanza Plenaria, con la sentenza (da ultimo) 21 novembre 2022, n. 19[22]: «il procedimento amministrativo – forma tipica di esercizio della funzione amministrativa – è il luogo di composizione del conflitto tra l’interesse pubblico primario e gli altri interessi, pubblici e privati, coinvolti nell’esercizio del primo. Per il migliore esercizio della discrezionalità amministrativa il procedimento necessita pertanto dell’apporto dei soggetti a vario titolo interessati, nelle forme previste dalla legge sul procedimento del 7 agosto 1990, n. 241. Concepito in questi termini, il dovere di collaborazione e di comportarsi secondo buona fede ha quindi portata bilaterale, perché sorge nell’ambito di una relazione che, sebbene asimmetrica, è nondimeno partecipata ed in ragione di ciò esso si rivolge all’amministrazione e ai soggetti che a vario titolo intervengono nel procedimento».
La stessa Plenaria ha delineato i limiti di tutela dell’affidamento del privato, sempre alla luce dei detti principi: «deve innanzitutto premettersi che l’affidamento tutelabile in via risarcitoria deve essere ragionevole, id est incolpevole. Esso deve quindi fondarsi su una situazione di apparenza costituita dall’amministrazione con il provvedimento, o con il suo comportamento correlato al pubblico potere, e in cui il privato abbia senza colpa confidato. […] per cui un affidamento incolpevole non è pertanto predicabile innanzitutto nel caso estremo […] in cui sia il privato ad avere indotto dolosamente l’amministrazione ad emanare il provvedimento. In conformità alla regola civilistica ora richiamata altrettanto è a dirsi se l’illegittimità del provvedimento era evidente ed avrebbe pertanto potuto essere facilmente accertata dal suo beneficiario».
Insomma, il privato contribuisce senz’altro – nel bene e nel male – al contenuto del provvedimento finale: nel caso in cui contribuisca nel male, gli è riconosciuta tutela nel caso questa circostanza sia avvenuta senza assoluta sua colpa e in modo per lui non riconoscibile.
Che fare, allora, nel caso di cui alla sentenza in commento? Come comportarsi, cioè, quando – a fronte della segnalazione del controinteressato al permesso di costruire – l’Amministrazione si avvede di incongruenze nelle planimetrie e chiede – invano – al beneficiario i relativi chiarimenti?
Nel caso di specie, l’Amministrazione si avvede che la consistenza dell’immobile in planimetria potrebbe non essere, effettivamente, risalente a un periodo ante 1942: la retrodatazione non è sufficientemente provata. O, meglio: lo era nel momento della richiesta del permesso; le allegazioni, tuttavia, a fronte della minuziosa segnalazione del controinteressato e del successivo sopralluogo, non bastano più e necessitano di prove più circostanziate.
Vale, insomma, il principio per cui «va posto in capo al proprietario (o al responsabile dell’abuso) assoggettato a ingiunzione di demolizione l’onere di provare il carattere risalente del manufatto, collocandone la realizzazione in epoca anteriore alla c.d. legge ponte n. 761 del 1967 che con l’art. 10, novellando l’art. 31, l. n. 1150 del 1942, ha esteso l’obbligo di previa licenza edilizia alle costruzioni realizzate al di fuori del perimetro del centro urbano; tale conclusione vale non solo per l’ipotesi in cui si chiede di fruire del beneficio del condono edilizio, ma anche – in generale – per potere escludere la necessità del previo rilascio del titolo abilitativo, ove si faccia questione, appunto, di opera risalente ad epoca anteriore all’introduzione del regime amministrativo autorizzatorio dello ius aedificandi; tale criterio di riparto dell’onere probatorio tra privato e amministrazione discende dall’applicazione alla specifica materia della repressione degli abusi edilizi del principio di vicinanza della prova poiché solo il privato può fornire, in quanto ordinariamente ne dispone, inconfutabili atti, documenti o altri elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione del manufatto, mentre l’amministrazione non può, di solito, materialmente accertare quale fosse la situazione all’interno dell’intero suo territorio»[23].
L’onere della prova per evitare la sanzione (o appunto l’annullamento d’ufficio – a questo punto, doveroso – del permesso di costruire “per presa d’atto”) grava, dunque, sul privato: ciò in quanto, secondo la giurisprudenza, è solo costui che può avere accesso a una documentazione comprovante la risalenza dell’intervento edilizio. Il Giudice amministrativo esclude che l’Amministrazione possa – da sé – fare quelle verifiche risalenti nel tempo e acquisire la certezza della datazione dell’intervento.
Ciò non implica, ovviamente, che anche laddove vi siano legittimi dubbi sull’epoca di realizzazione, l’Amministrazione possa provvedere senza interpellare il privato: il soggetto pubblico non può deflettere dal suo compito di provvedere – e, se del caso, sanzionare – prima di aver coinvolto il privato nel procedimento decisionale.
Laddove l’Amministrazione così agisse, sarebbe certo illegittimo il provvedimento conseguente. È il caso, per esempio, dell’illegittimità di un ordine di demolizione di un manufatto ritenuto abusivo, la cui edificazione ante normativa era invece stata provata dal privato con allegazioni fotografiche precise[24], considerate apoditticamente non sufficienti dalla p.A. comunale.
Nel caso di specie, al contrario, il Comune aveva dato prova di voler ascoltare le deduzioni del privato, chiedendogli più volte di comprovare la datazione dei presunti abusi edilizi precedentemente al 1942. Il privato, inerte e silenzioso rispetto alle sollecitazioni, aveva solo dedotto inizialmente in una relazione tecnica che «certamente» l’immobile aveva quella precisa conformazione da prima del 1942, senza però alcuna allegazione fotografica né altro tipo di testimonianza.
Lo stato storico dell’immobile, dunque, versava in una incertezza: risoltasi, però, anche a fronte del contegno inerte e silenzioso del privato, nella più che plausibile consapevolezza della non retro-databilità degli interventi edilizi.
5. Il principio di vicinanza della prova: rilievo processuale e, prima ancora, procedimentale.
L’orientamento giurisprudenziale per cui è il privato, a dover provare all’Amministrazione la datazione degli interventi, è sorretto anche dal principio (di natura processuale) di vicinanza della prova, di cui agli artt. 63 e 64 c.p.a.
Ciò in quanto, come afferma la giurisprudenza, «la prova circa il tempo di ultimazione delle opere edilizie è posta sul privato e non sull’Amministrazione, atteso che solo il privato può fornire (in quanto ordinariamente ne dispone e, dunque, in applicazione del principio di vicinanza della prova) inconfutabili atti, documenti o altri elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione del manufatto; mentre, l’Amministrazione non può, di solito, materialmente accertare quale fosse la situazione all’interno del suo territorio. Tale prova deve, inoltre, essere rigorosa e deve fondarsi su documentazione certa e univoca e comunque su elementi oggettivi, dovendosi, tra l’altro, negare ogni rilevanza a dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà o a semplici dichiarazioni rese da terzi, in quanto non suscettibili di essere verificate»[25].
Ora, l’applicazione di questo principio nel processo amministrativo – specie nel giudizio impugnatorio – mira a temperare la forte asimmetria che c’è tra la parte pubblica e quella privata: discostandosi dall’allegazione formalistica di cui all’art. 2967 c.c. e guardando, invece, alla prova tramite allegazione dei documenti nella cui disponibilità è ciascuna parte[26].
Ovviamente, in fattispecie come questa si dà per assodata l’idea che sia il privato, a detenere “ordinariamente” documenti e reperti in grado di radicare la ragionevole certezza dell’epoca di realizzazione degli interventi edilizi: documenti che poi, in sede di giudizio, dovrebbero anche essere prodotti. Senz’altro è possibile ricostruire la storia di un immobile dagli atti notarili, per esempio; forse, nei casi fortunati, si ritrovano fotografie in grado di testimoniare quelle stesse circostanze. Non è detto, però, che sia sempre agevole.
Nondimeno, non si vede altra strada che questa: l’Amministrazione, oggettivamente, salvo caso fortuito, non è in grado di ritrovare, neanche nei propri archivi, la prova della consistenza di un immobile negli anni anteriori all’instaurazione di qualunque obbligo di licenza edilizia. Tuttavia, se ne può trovare, almeno, il primo titolo storicamente accertabile: in un’epoca nella quale non si faceva uso di autocertificazioni, probabilmente i documenti in possesso delle Amministrazioni possono fornire una prova piuttosto fedele.
In questo modo, probabilmente, si può semplificare l’attività probatoria del privato, conducendo in maniera meno incerta a un esito sanzionatorio-annullatorio del permesso di costruire o, al contrario, a un’archiviazione del procedimento, con mantenimento dell’edificato.
Laddove la prova della realizzazione degli immobili nel periodo precedente il 1942 non sia raggiunta, prevarranno senz’altro le tutele degli interessi pubblici alla regolare edificazione del territorio: l’annullamento d’ufficio del permesso di costruire sarà – ça va sans dire – doveroso.
[1] È quanto contenuto nel ricorso di parte, come mostra la sentenza di primo grado, Tar Puglia, Lecce, I, 15 giugno 2021, n. 926.
[2] Questa la motivazione del provvedimento ex art. 21-nonies, l. n. 241/1990:
«è stato disposto (…) l’avvio di procedimento amministrativo finalizzato alla verifica di legittimità del Permesso di Costruire n. 61/2016 (del) 14 luglio 2016 in quanto la consistenza dichiarata risulta essere superiore e diversa rispetto a quella indicata come stato di fatto nella SCIA n. 3/2015’ (…)
- in data 17 ottobre 2018, prot. n. 0054634, questo Ufficio ha inoltrato un primo sollecito, alle parti, a voler dimostrare l’effettiva consistenza e l’appartenenza degli ambienti che costituiscono incongruenza tra gli elaborati allegati alla SCIA n. 3/2015 e il PdC n. 61/2016;
- in data 14 febbraio 2019, prot. n. 0008834, questo Ufficio ha inoltrato un secondo sollecito, alle parti, a dare riscontro a richiesto con la precedente nota;
Dato atto che non risultano pervenute risposte dalle parti interessate.
Considerato: - che il titolo edilizio (PdC n. 61/2016 del 14 luglio 2016), per la connotazione particolare ‘per presa d’atto’ di immobile già esistente, necessariamente basa il suo presupposto principale sulla specifica attestazione delle parti aventi titolo in merito alla sua consistenza planivolumetrica e, susseguentemente, alla verifica da parte dell’ufficio, con riferimento alle caratteristiche tipologiche costruttive dell’immobile ed ai riscontri cartografici in atti; - che il mancato riscontro del richiedente, più volte sollecitato, fa venire meno il suddetto presupposto principale ai fini della validità del PdC n. 61/2016 … a maggior ragione in presenza di altro titolo edilizio (SCIA n. 3/2015) - sempre a nome dello stesso richiedente - che presenta la stessa porzione di immobile in modo differente nella sua consistenza; - che alla luce delle considerazioni sopra riportate, fatta salva ogni valutazione in merito, sugli aventi titolo per la porzione di immobile in argomento, e/o sulle interconnessioni con altri procedimenti urbanistico - edilizi in itinere, sempre riferiti all’immobile in argomento, appare inconfutabile la mancata puntuale definizione della effettiva consistenza dell’immobile oggetto del PdC n. 61/2016.
(…)
Determina l’annullamento del Permesso di Costruire…».
[3] Cfr. i rinvii giurisprudenziali a Tar Puglia, Lecce, I, 21 luglio 2020, n. 767; v. anche Cons. Stato, II, 5 febbraio 2021, n. 1109 e 8 maggio 2020, n. 2906, secondo cui «è a carico esclusivamente del privato l’onere della prova in ordine alla data della realizzazione dell’opera edilizia al fine di poter escludere al riguardo la necessità di rilascio del titolo edilizio (…) Tale onere discende attualmente dagli articoli 63, comma 1, e 64, comma 1, c.p.a. in forza dei quali spetta al ricorrente l’onere della prova in ordine a circostanze che rientrano nella sua disponibilità».
[4] La bibliografia sul punto è ovviamente sterminata. Sia sufficiente qui ricordare le ricostruzioni di M. Immordino, I provvedimenti amministrativi di secondo grado, in F.G. Scoca (a cura di), Diritto amministrativo, Torino, 2014, pp. 337 ss. Sulle problematiche sollevate dall’istituto dell’annullamento, cfr. anche S. D’Ancona, L’annullamento d’ufficio tra vincoli e discrezionalità, Napoli, 2015. Sulle incongruenze della disciplina della revoca, P.L. Portaluri, Note sull’autotutela dopo la legge 164/14 (qualche passo verso la doverosità?), in Federalismi.it, 2014; su una lettura dei poteri di autotutela demolitoria che consente di trovare tratti comuni tra revoca e annullamento d’ufficio, A. Gualdani, Verso una nuova unitarietà della revoca e dell’annullamento d’ufficio, Torino, 2016. Si v. anche M. Allena, L’annullamento d’ufficio, Napoli, 2017. Per il profilo europeo sia consentito il rinvio anche a C. Napolitano, Autotutela amministrativa. Nuovi paradigmi e modelli europei, Napoli, 2018; da ultimo, M. Giavazzi, Legalità, certezza del diritto e autotutela: riflessioni sulla funzionalizzazione dell’annullamento d’ufficio all’effet utile, in Ceridap, n. 4/2020.
[5] V. in proposito, B.G. Mattarella, Autotutela amministrativa e principio di legalità, in Riv. it. dir. pubbl. com., pp. 1223 ss.; F. Francario, Autotutela amministrativa e principio di legalità, in Federalismi.it, n. 20/2015.
[6] Si ricorda la primigenia formulazione dell’art. 21-nonies, l. n. 241/1990: «Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell’articolo 21-octies può essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall’organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge».
[7] È granitico l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale il potere di annullamento d’ufficio non può essere coartato dal privato, il quale – laddove l’Amministrazione non dia corso alla sua istanza – non potrà trovare tutela avverso il silenzio inadempimento della p.A., non configurandosi un obbligo di procedere e, dunque, un silenzio inadempimento: «Non sussiste in capo all’Amministrazione l’obbligo di pronunciarsi in maniera esplicita sull’istanza del privato diretta a sollecitare l’esercizio del potere di autotutela su un diniego di condono reso in ragione delle caratteristiche con il sito protetto e del conseguente parere negativo della Soprintendenza. Il potere di autotutela è infatti incoercibile dall’esterno attraverso l’istituto del silenzio-inadempimento ai sensi dell’art. 117 c.p.a., salvo i casi normativamente stabiliti di autotutela doverosa e casi particolari legati ad esigenze conclamate di giustizia» (ex multis, Cons. Stato, VI, 6 aprile 2022, n. 2564).
[8] Il rapporto tra annullamento d’ufficio e decorso del tempo, prima della sua formalizzazione in un lasso temporale specifico, era dettato esclusivamente dalla possibilità di ritenere consolidato l’affidamento legittimo del privato (per uno spaccato rispetto alla norma vigente all’epoca, F. Caringella, Affidamento e autotutela: la strana coppia, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2008, pp. 425 ss.). Per la giurisprudenza, sempre nell’applicazione della norma ratione temporis vigente, « L’annullamento d’ufficio di un titolo edilizio, intervenuto ad una distanza temporale considerevole dal provvedimento annullato, deve essere motivato in relazione alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale all’adozione dell’atto di ritiro anche tenuto conto degli interessi dei privati destinatari del provvedimento sfavorevole; il mero decorso del tempo, di per sé solo, non consuma peraltro il potere di adozione dell’annullamento d’ufficio; l’onere motivazionale gravante sull’Amministrazione può ritenersi attenuato in ragione della rilevanza e autoevidenza degli interessi pubblici tutelati» (Cons. Stato, VI, 20 settembre 2021, n. 6405 su fattispecie anteriore alla riforma normativa del 2015).
[9] Il potere di annullamento d’ufficio è ampiamente discrezionale nel merito, tanto da richiedere una motivazione spesso accurata in relazione all’interesse pubblico – concreto e attuale, diverso dal mero ripristino della legalità violata – da proteggere e alla sua prevalenza rispetto al contrario affidamento del privato. Per esempio, Cons. Stato, VI, 28 dicembre 2021, n. 8641: «I presupposti dell’esercizio del potere di annullamento d’ufficio dei titoli edilizi sono costituiti dall’originaria illegittimità del provvedimento, dall’interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione (diverso dal mero ripristino della legalità violata), tenuto conto anche delle posizioni giuridiche soggettive consolidate in capo ai destinatari; l’esercizio del potere di autotutela è dunque espressione di una rilevante discrezionalità che non esime, tuttavia, l’Amministrazione dal dare conto, sia pure sinteticamente, della sussistenza dei menzionati presupposti: in ambito edilizio la motivazione esigibile deve essere integrata dall’allegazione del vizio che inficia il titolo edilizio, dovendosi tenere conto, per il resto, del particolare atteggiarsi dell’interesse pubblico in materia di tutela del territorio e dei valori che su di esso insistono, che possono indubbiamente essere prevalenti, se spiegati, rispetto a quelli contrapposti dei privati, nonché dall’eventuale negligenza o malafede del privato che ha indotto in errore l’Amministrazione».
[10] Si tratta della nota giurisprudenza derivante da Corte giust. UE, i-21 Germany GmbH (C-392/04) and Arcor AG & Co. KG (C-422/04) v Bundesrepublik Deutschland, 19 settembre 2006, che fa applicazione dell’art. 48 VwVfG. L’orientamento fu fatto proprio da una pronuncia rimasta isolata (peraltro in tema di edilizia): TRGA Trento, 16 dicembre 2009, n. 305, in Giur. merito, n. 5/2010, su cui v. A. Cassatella, Una nuova ipotesi di annullamento doveroso?, in Foro amm. TAR, n. 3/2010, pp. 802 ss.
[11] M.A. Sandulli, Autotutela, in Il libro dell’anno del diritto, Treccani, 2016. La limitazione temporale dell’esercizio del potere di annullamento d’ufficio ha ripercussioni singolari sulla SCIA, nella quale il decorso del termine – stante una certa mobilità del dies a quo – è di per sé incerto, non essendovi estranee neanche vicende nelle quali il privato abbia segnalato uno stato dei fatti non veritiero: sul punto v., da ultimo, P. Otranto, Quando tempus non regit actum. Ancora sulla c.d. “autotutela” in materia di s.c.i.a.: dichiarazioni non veritiere, interesse pubblico in re ipsa e termine ragionevole per l’esercizio del potere inibitorio postumo (nota a Cons. Stato, sez. IV, 30 giugno 2023, n. 6387), in questa Rivista.
[12] Ex multis, Tar Campania, VIII, 02 novembre 2020, n. 4956: «Con riguardo ai titoli edilizi, i presupposti per l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio devono rispondere ai requisiti di legittimità codificati nell’art. 21 nonies, l. n. 241 del 1990, consistenti nell’illegittimità originaria del titolo e nell’interesse pubblico concreto e attuale alla sua rimozione, diverso dal mero ripristino della legalità, da compararsi con i contrapposti interessi dei privati, entro un termine ragionevole, termine che l’art. 6, l. n. 124 del 2015 ha da ultimo fissato in diciotto mesi. Pertanto, nonostante l’esercizio del potere di autotutela sia espressione di rilevante discrezionalità, l’Amministrazione non è comunque esentata dal dare conto, sia pure sinteticamente, della sussistenza dei summenzionati presupposti».
[13] Ci si limita a segnalare la forte abbreviazione del termine in era Covid-19. Il d.l. 19 maggio 2020, n. 34 ha infatti disposto (con l’art. 264, comma 1 lettera b) che «Al fine di garantire la massima semplificazione, l’accelerazione dei procedimenti amministrativi e la rimozione di ogni ostacolo burocratico nella vita dei cittadini e delle imprese in relazione all’emergenza COVID-19, dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino al 31 dicembre 2020: [...] b) i provvedimenti amministrativi illegittimi ai sensi dell’art. 21-octies della legge 7 agosto 1990, n. 241, adottati in relazione all’emergenza Covid-19, possono essere annullati d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro il termine di tre mesi, in deroga all’art. 21-nonies comma 1 della legge 7 agosto 1990, n. 241. Il termine decorre dalla adozione del provvedimento espresso ovvero dalla formazione del silenzio assenso. Resta salva l’annullabilità d’ufficio anche dopo il termine di tre mesi qualora i provvedimenti amministrativi siano stati adottati sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, fatta salva l’applicazione delle sanzioni penali, ivi comprese quelle previste dal capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445».
[14] Cfr. Schema di disegno di legge recante disposizioni per la semplificazione e la digitalizzazione dei procedimenti in materia di attività economiche e di servizi a favore dei cittadini e delle imprese, approvato dal Consiglio dei Ministri del 26 marzo 2024 (alla pagina: http://www.astrid-online.it/static/upload/protected/sche/schema-ddl-semplificazione-cdm-26-marzo-2024.pdf) e relativa Relazione illustrativa (alla pagina: http://www.astrid-online.it/static/upload/protected/rela/0000/relazione-illustrativa-26-marzo-ddl-semplificazioni-cdm.pdf) e Relazione tecnica (alla pagina: http://www.astrid-online.it/static/upload/protected/rela/0000/relazione-tecnica-ddl-semplificazioni-26-marzo-2024_--002-.pdf).
[15] Si è molto discusso sul valore del mendacio e del falso, sulle figure di reato contemplate, sulla necessità di una sentenza penale di condanna per l’accertamento del reato. Tra tutti si v. M.A. Sandulli, Poteri di autotutela della pubblica Amministrazione e illeciti edilizi, in Federalismi.it, n. 14/2015.
[16] Per esempio, Tar Campania, VII, 2 marzo 2023, n. 1337: «La falsa rappresentazione dei fatti da parte del privato, configurabile anche in presenza, come nella specie, del solo silenzio su circostanze rilevanti, comporta l’inapplicabilità del termine di diciotto mesi per l’annullamento d’ufficio introdotto, nell’art. 21-nonies, l. n. 241/1990, dall’art. 6, l. 7 agosto 2015 n. 124, senza che, a tal fine, sia neppure richiesto alcun accertamento processuale penale»; oppure Tar Lazio, Latina, I, 21 ottobre 2022, n. 807: «La falsa rappresentazione dei fatti da parte del privato, che comporta l’inapplicabilità del termine di diciotto mesi per l’annullamento d’ufficio, si configura quando l’erroneità dei presupposti del provvedimento non è imputabile (neppure a titolo di colpa concorrente) all’Amministrazione, ma esclusivamente al dolo (equiparabile, per solito, alla colpa grave) del privato, dato che anche sul cittadino incombe pur sempre un obbligo di comportamento corretto ed in buona fede in adempimento dei doveri di solidarietà imposti dall’art. 2 Cost. Non sussistono, tuttavia, significativi profili di colpa grave ovvero di dolo del privato quando: da un lato, i non perspicui riferimenti normativi ben possono giustificare un’imprecisa ricostruzione dei requisiti posseduti; dall’altro lato, in presenza di inequivoca indicazione da parte dell’interessata, nonostante la consapevolezza dell’insufficienza del titolo la P.A. lascia trascorrere del tempo, così da far maturare un più che plausibile affidamento sulla validità del percorso seguito (nella specie, è stata ritenuta conseguenza di errore materiale la compilazione della domanda di condono nel 1986, laddove si è indicato come a uso ‘attività sportiva’ un manufatto di fatto utilizzato per ‘attività commerciale’, trattandosi di circostanza facilmente verificabile in ogni momento dall’Amministrazione e comunque nella specie corretta dall’istante nel 2009)».
[17] Si rinvia in proposito ai commenti di E. Zampetti, Osservazioni a margine della Plenaria n. 8 del 2017 in materia di motivazione nell’annullamento d’ufficio, in Riv. giur. ed., n. 2/2018, pp. 404 ss.; N. Posteraro, Annullamento d’ufficio e motivazione in re ipsa: osservazioni a primissima lettura dell’Adunanza Plenaria n. 8 del 2017, in Riv. giur. ed., n. 5/2017, pp. 1103B; L. Bertonazzi, Annullamento d’ufficio di titoli edilizi: note a margine della sentenza dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 8/2017, in Dir. proc. amm., n. 2/2018, pp. 730 ss.; C. Pagliaroli, La motivazione del provvedimento di annullamento in autotutela di concessione edilizia in attesa della pronuncia del Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, in Riv. giur. ed., n. 2/2017, pp. 379 ss.; Id., La “storia infinita” dell’annullamento d’ufficio dei titoli edilizi: nessun revirement da parte dell’Adunanza plenaria, in Riv. giur. ed., n. 1/2018, pp. 92 ss.
[18] Ad. Plen., n. 8/2017: «In base a un primo orientamento, allo stato maggioritario, l’annullamento d’ufficio di un titolo edilizio illegittimo (in specie se rilasciato in sanatoria) risulta in re ipsa correlato alla necessità di curare l’interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata. Ciò, in quanto il rilascio stesso di un titolo illegittimo determina la sussistenza di una permanente situazione contra ius, in tal modo ingenerando in capo all’amministrazione il potere-dovere di annullare in ogni tempo il titolo edilizio illegittimamente rilasciato. […] questa Adunanza plenaria ritiene che le generali categorie in tema di annullamento ex officio di atti amministrativi illegittimi trovino applicazione (in assenza di indici normativi in senso contrario) anche nel caso di ritiro di titoli edilizi in sanatoria illegittimamente rilasciati, non potendosi postulare in via generale e indifferenziata un interesse pubblico in re ipsa alla rimozione di tali atti. Conseguentemente, grava in via di principio sull’amministrazione (e salvo quanto di seguito si preciserà) l’onere di motivare puntualmente in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla rimozione dell’atto, tenendo altresì conto dell’interesse del destinatario al mantenimento dei relativi effetti».
[19] Ad. Plen., n. 8/2017, cit.: «È ora possibile […] domandarsi se l’onere motivazionale comunque gravante sull’amministrazione nel caso di annullamento in autotutela del titolo edilizio in precedenza adottato possa restare in qualche misura attenuato in ragione della rilevanza degli interessi pubblici tutelati. Al quesito deve essere fornita risposta in senso affermativo alla luce della pregnanza degli interessi pubblici sottesi alla disciplina in materia edilizia e alla prevalenza che deve essere riconosciuta ai valori che essa mira a tutelare. Vero è infatti che – per le ragioni dinanzi esposte – il decorso del tempo onera l’amministrazione che intenda procedere all’annullamento in autotutela di un titolo edilizio illegittimo di motivare puntualmente in ordine alle ragioni di interesse pubblico sottese all’annullamento e alla valutazione degli interessi dei destinatari e dei controinteressati. È parimenti vero, però, che tale onere motivazionale non muta il rilievo relativo da riconoscere all’interesse pubblico e la preminenza che deve essere riconosciuta al complesso di interessi e valori sottesi alla disciplina edilizia e urbanistica. Si pensi (e solo a mo’ di esempio) al titolo edilizio illegittimamente rilasciato in area interessata da un vincolo di inedificabilità assoluta o caratterizzata da un grave rischio sismico: in tali ipotesi la motivazione dell’atto di ritiro potrà essere legittimamente fondata sul richiamo all’inderogabile disciplina vincolistica oggetto di violazione, ben potendo tale richiamo assumere un rilievo preminente in ordine al complesso di interessi e di valori sottesi alla fattispecie. Nelle ipotesi di maggiore rilievo, quindi (e laddove venga in rilievo la tutela di preminenti valori pubblici di carattere - per così dire - ‘autoevidente’), l’onere motivazionale gravante sull’amministrazione potrà dirsi soddisfatto attraverso il richiamo alle pertinenti circostanze in fatto e il rinvio alle disposizioni di tutela che risultano in concreto violate le quali normalmente possano integrare le ragioni di interesse pubblico che depongono nel senso dell’esercizio del ius poenitendi. Non pare quindi condivisibile la tesi (talora affermata dalla giurisprudenza anche di questo Consiglio) secondo cui, anche in sede di motivazione dell’annullamento in autotutela di titoli edilizi illegittimi, occorrerebbe riconoscere maggiore rilevanza all’interesse dei privati destinatari dell’atto ampliativo e minore rilevanza all’interesse pubblico alla rimozione dell’atto, i cui effetti si sarebbero ormai prodotti in via definitiva».
[20] Sempre Ad. Plen., n. 8/2017: «La giurisprudenza di questo Consiglio ha condivisibilmente stabilito al riguardo che non sussiste l’esigenza di tutelare l’affidamento di chi abbia ottenuto un titolo edilizio - anche in sanatoria - rappresentando elementi non veritieri, e ciò anche qualora intercorra un considerevole lasso di tempo fra l’abuso e l’intervento repressivo dell’amministrazione […]. La giurisprudenza di questo Consiglio ha inoltre stabilito (in modo parimenti condivisibile) che non può essere configurato alcun affidamento legittimo, in specie ai fini risarcitori, il quale risulti fondato su un provvedimento illegittimo. Si è osservato al riguardo che può essere non più opportuno far luogo all’annullamento in autotutela, in considerazione del tempo trascorso e degli interessi dei destinatari e dei controinteressati; ma quando tali condizioni sono rispettate non vi è spazio per la tutela patrimoniale […]. Ebbene, se le acquisizioni in parola risultano valide ai fini risarcitori e a fronte di illegittimità imputabili all’amministrazione, esse risulteranno tanto più condivisibili nel caso in cui l’illegittimità dell’atto sia stata determinata dalla non veritiera prospettazione dei fatti rinveniente dal soggetto che si sarebbe in seguito avvantaggiato dell’errore dell’amministrazione. In tali ipotesi […] l’amministrazione potrà adeguatamente motivare l’adozione dell’atto di annullamento sul mero dato dell’originaria, non veritiera prospettazione. Nelle medesime ipotesi, infatti (e anche a prescindere dai profili di rilevanza penale), l’oggettiva falsità della prospettazione dei fatti rilevanti e la sua incidenza ai fini dell’adozione dell’atto illegittimo non consentiranno di configurare una posizione di affidamento legittimo e consentiranno all’amministrazione di limitare l’onere motivazionale alla dedotta falsità, non sussistendo un interesse privato meritevole di tutela da porre in comparazione con quello pubblico (comunque sussistente) al ripristino della legalità violata».
[21] Ex multis, CGARS, 26 maggio 2020, n. 325: «Il potere di annullamento regionale del permesso di costruire, di cui all’art. 39, d.P.R. n. 327 del 2001, è una forma di autotutela speciale, riconducibile all’art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990, salva la specialità del termine decennale di esercizio, che è tuttora vigente»; Tar Campania, IV, 6 aprile 2020, n. 1338: «L’Amministrazione comunale può esercitare il potere di vigilanza sulle attività urbanistico-edilizie nei termini di cui all’art. 21-nonies l. n. 241/1990 senza dover comparare gli interessi privati coinvolti e l’(eventuale) affidamento al mantenimento di opere abusive maturato dal privato per effetto del (solo) decorso del tempo».
[22] Sulla quale sia consentito il rinvio a C. Napolitano, Potere amministrativo e lesione dell'affidamento: indicazioni ermeneutiche dall'Adunanza Plenaria, in Riv. giur. ed., n. 1/2022.
[23] Ex multis, Cons. Stato, II, 26 gennaio 2024, n. 858. La fattispecie concreta in questa sentenza consisteva nell’individuazione di abusi edilizi nel territorio circostante il centro abitato, sul quale la legge-ponte del 1967 aveva stabilito che le costruzioni dovessero avere un titolo edilizio. La medesima circostanza vale per gli edifici situati nel centro abitato, ma avendo come parametro normativo di riferimento la l. n. 1150/1942.
[24] Tar Friuli-Venezia Giulia, I, 10 novembre 2022, n. 476: «Il provvedimento ha ordinato la demolizione della tettoia sul presupposto della sua abusività, così assumendo che, ai fini della sua edificazione, fosse necessario munirsi di un titolo edilizio. Non affronta però la questione relativa alla data di realizzazione dell'opera e al correlato regime giuridico, che appare invece centrale nella presente vicenda. A tale proposito, i ricorrenti rappresentano che l'opera è stata edificata in data antecedente all'emanazione della c.d. legge ponte (l. 765 del 1967) e al primo piano regolatore del Comune di Lignano, entrato in vigore solo nel 1972. A comprova di tale affermazione, hanno prodotto documentazione fotografica (doc. 9) che, pur se di modesta qualità, consente di scorgere la tettoia di cui si discute e farla risalire ad una data antecedente quantomeno al 1969 (data del timbro postale sulla cartolina riprodotta nelle prime pagine del documento 9), se non addirittura al 1965 (come desumibile dall'indicazione "Lig 65/166" sul retro della cartolina, nonché dalla cartolina di cui al pag. 13 del documento, benché si tratti in questo caso di una data apposta dal compilatore della cartolina e non di un timbro postale). Anche nell'immagine aerea di cui al doc. 15, tratta dal sito del patrimonio culturale della Regione Friuli-Venezia Giulia, si intravede il manufatto, anche se la data dello scatto è indicata solo approssimativamente (tra il 1965 e il 1970). Tali elementi costituiscono rilevanti principi di prova circa l'anteriorità dell'opera al 1967 e quindi del suo risalire ad un'epoca in cui l'attività edilizia non era soggetta all'obbligo generalizzato di "chiedere apposita licenza al sindaco", introdotto solo dall'art. 10, l. 765 del 1967 (che ha riformulato l'art. 31 della l. 1150 del 1942). Il Tribunale ritiene, pertanto, che la circostanza fosse meritevole di considerazione da parte del Comune. Il Comune ha poi evidenziato che, anche assumendone l'edificazione in data anteriore alla legge ponte, la tettoia avrebbe comunque dovuto essere previamente assentita ai sensi dell'art. 31 della l. 1150 del 1942, nella versione vigente ratione temporis, che richiedeva in ogni caso la licenza edilizia per gli interventi da realizzarsi "nei centri abitati". Non è, però, dimostrato che l'edificio si trovasse, già all'epoca di realizzazione dell'opera, in area qualificabile come "centro abitato", mancando l'evidenza di una sua perimetrazione ad opera di provvedimenti precedenti al primo piano regolatore. In assenza di una sua formale identificazione ad opera dell'autorità, la nozione di "centro abitato" deve ricollegarsi a dati fattuali ed empirici (Cons. St., sez. IV, 19 agosto 2016, n. 3656), che dovevano essere esaminati e valutati dall'amministrazione alla luce del contesto esistente al momento dell'intervento. Conclusivamente, il Tribunale ritiene che, a fronte di elementi che militano a favore di una realizzazione della tettoia ante 1967, era onere dell'amministrazione operare una più approfondita istruttoria circa la data di edificazione e la sua effettiva abusività (Cons. St., sez. VI, 19 ottobre 2018, n. 5988)».
[25] Ex multis, Tar Campania, VI, 17 novembre 2022, n. 7097 (corsivo nostro).
[26] F. Saitta, Vicinanza alla prova e codice del processo amministrativo: l'esperienza del primo lustro, in Riv. trim. dir. proc. civ., n. 3/2017, pp. 911 ss.: «nel processo, la vicinanza può costituire una regola probatoria idonea a contrapporre allo schema, evidentemente formale, dell'onere secondo allegazione di cui all'art. 2697 c.c., nel quale le parti restano identificate senza residui dalla posizione processuale che vanno ad assumere nel relativo giudizio, uno schema sostanziale nel quale, avendosi riguardo alla specifica realtà della fattispecie controversa, il carico probatorio viene ponderato “tenuto conto in concreto della possibilità per l'uno e l'altro soggetto di provare fatti e circostanze che ricadono nelle rispettive sfere d'azione”. Il principio di “vicinanza alla prova” […] costituisce uno strumento più evoluto, in quanto assiologicamente meglio orientato e non ordalico, di risolvere il problema del divieto di non liquet: la vicinanza, infatti, flessibile per propria natura, implica – ed al contempo rende possibile – che il giudice risolva comunque la lite senza ricorrere all’éscamotage di soluzioni preconfezionate ed astratte dalla fattispecie concreta configurato dal formalistico criterio di cui all'art. 2697 c.c., intrinsecamente inidoneo a selezionare il reale. Tale principio, dunque, si configura, da un lato, come un corollario dei doveri di correttezza, buona fede e diligenza nell'adempimento delle obbligazioni (artt. 1175, 1176, comma 2º, e 1375 c.c.) e, dall'altro, come una derivazione del principio costituzionale del giusto processo e delle regole generali del codice di rito civile (in primis, il dovere di lealtà e probità di cui all'art. 88, inteso come onere delle parti, vicine alla fonte di prova, di collaborare allegando tempestivamente e nel rispetto delle regole di correttezza i mezzi istruttori, in un'ottica di economia processuale e di ragionevole durata del giudizio). Esso, quindi, “viene ad assumere il ruolo di correttivo (se non altro) delle applicazioni più rigide e pesanti del formalismo caratteristico della regola della prova secondo allegazione. Un ruolo, a nostro avviso, anzi necessario – sotto il profilo costituzionale, prima di tutto il resto – per combattere e smorzare le asprezze, in effetti notevoli, che il modello dell'onere viene propriamente a proporre”».
To install this Web App in your iPhone/iPad press icon.
And then Add to Home Screen.