Le vittime di mafia sono lo specchio tridimensionale di una umanità dolente, al di fuori dello spazio e del tempo che ha mestamente segnato le diverse vicende ed i relativi contesti criminali. In Italia, secondo dati da fonti aperte, sono mille e tredici creature. Centodiciannove donne. Centoventidue minori, fra zero mesi e quattordici anni. Cinquecento undici quelli senza giustizia. Tutte insieme assurgono a simbolo impotente della prova più grande cui gli uomini sono sottoposti quando, nell’attimo della fine, hanno la consapevolezza agghiacciante di non poter chiedere aiuto. E penso a Ifigenia, la sciagurata primogenita di Agamennone, sacrificata al potere assoluto di una insensata divinità, il cui urlo si perpetua. Solo qualche giorno fa, Don Ciotti, in visita a Palermo, ha rammentato che l’ottanta per cento delle famiglie delle vittime di mafia non conosce ancora la verità su quei sacrifici. Inevitabile, dunque, per me uno sforzo introspettivo. Quasi una necessità che avverto come magistrato che si è occupata e si occupa di processi di criminalità organizzata. Provo a riavvolgere il nastro. Senza continuità temporale, per salti, come in certi film dove il passato ed il presente si intersecano restituendoti, solo nell’ultimo fotogramma, il senso di un percorso che, prima che fisico, è ideale.
E come sacro caleidoscopio di figure frastagliate, a colori intensi, tornano alla mente alcune fra le vittime di mafia che ho incontrato in questi anni, ben miscelate fra le righe delle carte processuali e, inevitabilmente, riflesse, in modo indelebile, nelle pieghe del mio percorso esistenziale. Di fronte a me tre varietà cromatiche. Quasi mi accecano. Il viola sconfortato dei drappi funebri, l’azzurro senza respiro delle notti che paiono prive della speranza salvifica di un’alba rigeneratrice, il nero che inghiotte ogni riflesso, indosso agli abiti tristi di chi sopravvive. Tutto sapientemente schizzato di rosso amaranto. Quello del sangue che si fa grumo e non scolorisce. Mai.
Chiudo gli occhi. Mi appaiono volti sfigurati, resti di corpi straziati, lamiere accartocciate, gettate via come carta straccia, sulla via, da chi passa, quasi per caso. Colpevole, indifferente o cieco, non è dato ancora sapere tutto. Fermo immagine. Mi appare il cratere sull’autostrada, così vicino al mare odoroso di maggio. A seguire, come tragico grano di Rosario, il palazzo sfregiato, pezzi di carne immolati per un sacrificio che mortifica incessante le coscienze dei gusti da quella domenica di luglio. A dispetto del tempo. A dispetto del resto. Volti che non sono più volti, ma restano sui muri delle stanze come sacre sembianze. Che ti cambiano la vita. Capovolgendola.
Ed i luoghi, dove lo scempio si è compiuto, mostrano un dolore impotente, ancora attaccato, per sempre abbarbicato, a quei lembi sconfortati di pianeta terra che, se potessero parlare, ci restituirebbero storie intatte, senza più buchi oscuri. Luoghi mesti, come palcoscenici antichi dove si consumano tragedie. Anche quei luoghi vittime della insensata guerra scatenata dalla scelerata logica di odio che ha annientato il respiro di uomini, donne, bambini. E di fronte a noi, silente, rimane la follia del male mafioso e le sue brutali motivazioni si mostrano nella loro più oscena e deforme nudità.
Le mogli, a volte, muoiono insieme con i loro uomini. Alcune le immagino, fotogrammi mai sbiaditi, nel disperato eroico tentativo di fare da scudo ai loro amori. E vedo braccia e gambe come adagiate nel sangue e non mi pare di osservare differenze fra quelle carni di uomo e di donna, tratte proprio dalla stessa sostanza, la biblica costola che indissolubilmente lega chi muore a chi resta.
E poi le spose che sopravvivono. Mi appaiono come anime bucherellate. La luce entra nello spazio più intimo, come attraverso piccoli fori dolenti. Non hanno sorriso anche quando sorridono. Piangono ancora. Senza lacrime. Statue di amarissimo sale. Potranno perdonare, ma sono in incessante attesa che chi ha ucciso si inginocchi. Ed è un’attesa lenta, incompiuta. Un’attesa che stride. Al di là, da venire.
Gli occhi dei figli dei morti di mafia non sono come gli altri occhi. Sono lucidi e brillano, riflettono strutture a frammenti di gocce preziose. Sono occhi da abbracciare. Occhi ai quali urlare più forte che quel loro dolore è il nostro dolore, davvero collettivo e condiviso. Nutrito del medesimo sdegno. Dobbiamo restituire a quegli occhi tutte le risposte. Continueremo a provarci, finché noi stessi avremo respiro.
A volte ci siamo riusciti a dare a quegli occhi qualche riverbero che profuma di risposte. E quei grazie che riflettono i volti dei figli, allorché le nubi dell’incerto si dissolvono, si snodano, nella mia mente, nelle pieghe dei cold case. Schegge di drammi esistenziali che mi è sempre interessato ricomporre, con pazienza. Vecchi rapporti, carte ingiallite battute a macchina. Riprendono piano piano vita, nelle dichiarazioni incrociate e riscontrate dei collaboratori di giustizia. Vicende umane che, lentamente, completano la loro trama terrena, cristallizzata nelle motivazioni di una sentenza. E tornano alla mia memoria due sorelle. Donne adesso. Un tempo ragazze. Siamo più o meno coetanee. Città diverse. Stessa generazione. Medesima adolescenza, quella che, a tratti, descrivono nei lunghi verbali. Spensieratezza, mare, sole, i diciotto anni magnifici. Ma le loro vite si schiantano quando il padre viene ucciso, innanzi agli occhi della madre, in un giorno qualunque. Un dolore che le flagella, per anni. Oltre al dolore, il venticello sferzante delle bugie, volto ad appannare la memoria di un uomo perbene. Vittima moltiplicata. Vittime moltiplicate. A volte è così e, si sa, il carbone si nu tinge mascaria. Ma poi, inaspettata, dopo vent’anni, arriva la verità, intatta nella busta di plastica che, in un vecchio archivio, custodiva un reperto balistico, utile alla comparazione. Si chiama riscontro alle propalazioni accusatorie, ma sostanzia, altresì, il frutto maturo della tenacia. Tenacia di quelle figlie. Proiezione di un amore assoluto. Che non si arrende.
E poi c’è quella ragazza che assiste all’assassinio del padre, in un giorno di festa, Epifania di lacrime. Donna capace di trasformare lo strazio in dolcezza composta eppure, ad un tempo, titanica, racchiusa in un sorriso lieve che non scorderanno quanti l’hanno conosciuta, in questa terra che sorprende quando, pur nel vortice dello scempio, qualcuno è capace di rispondere alla volgarità del male mafioso con la gentilezza del bene cortese, che diviene esempio collettivo. Sola strada per l’autentica redenzione.
E poi un’immagine tutta mia. Altro cold case. Una sera, al termine di una lunghissima processione di testi per l’omicidio di un uomo, padre di dodici figli, ucciso da loro, dai mafiosi, tanti anni prima. Sentenza di condanna. Sono passati più di vent’anni da quella morte. Ma adesso gli assassini hanno un nome. Sono stanca. Mi capita sempre dopo la lettura di un dispositivo. Il mio sguardo lo avverto senza espressione mentre mi si avvicina un ragazzo. E mi accorgo che proprio lui, nel corso delle udienze, è stato seduto in disparte. Attento, fra il pubblico. In religioso silenzio. Lo avevo notato. Quasi ad assistere ad una liturgia. Adesso mi sta di fronte. Ha gli occhi umidi. Neppure un accenno di sorriso, ma gli leggo fra le labbra un’emozione che quasi lo trasfigura: «Avevo sei mesi quando è stato ammazzato, sono l’ultimo dei dodici figli. Grazie a questo processo io ho conosciuto mio padre.» Non aggiunge altro. Io non dico nulla. Ci stringiamo la mano. Non poteva sapere, quel giovane uomo, che mi stava consegnando un frammento di memoria preziosissimo, che mi accompagna da allora e che porterò con me, ne sono certa, oltre i confini del mio tempo terreno.
Rivedo i bambini. Soffia l’alito del sacrificio di Abramo nella riflessione di Kierkegaard. «Io ho solo un amico, è l’eco: e perché è mio amico? Perché io amo il mio dolore e l’eco non me lo toglie. Io ho un solo confidente, è il silenzio della notte. E perché è il mio confidente? Perché il silenzio tace.» Inghiottiti nel buio. Ai bambini il buio fa paura. Come fa paura il dolore. E nel lungo trascorrere dei giorni, in luoghi umidi e senza più fiato, il male si incarna tremendo per quello scorrere di tempo senza tempo che si tramuta in anni. Fino a prosciugare, impietoso, un corpo in fieri, lasciando tutti noi senza respiro. L’uomo mafioso deumanizza un altro uomo. Deumanizza un uomo - bambino. Come può accadere? Evidentemente, qualcuno può concepire e realizzare questo orrore. La mafia ha potuto. E potrebbe, ancora. Non scordiamolo mai. Come io stessa non dimenticherò mai gli occhi di quella donna, figlia e sorella. Il giorno della sentenza, mentre afferrava un altro pezzo di verità, mi sembrava guardare in un punto indefinito, come sembianza nobile di un quadro d’autore. Scampata alla devastazione per un soffio. Qualcuno le chiama coincidenze. O forse sono Dio incidenze che segnano la prima stazione della via crucis di una creatura di dieci anni che ancora solleva un peso immane. Da allora, quando il mostro mafioso polverizzava due gemellini e riduceva a brandelli sua madre. In una mattina di aprile, che pure profumava di mare e di sole che provava a scaldare.
E poi quella bambina. Pochi mesi. Sono passati ormai più di trent’anni da quella notte di maggio. Chissà come sarebbe adesso se non fosse stata inghiottita in un boato volto a squarciare bellezze antiche, per sfregiare l’essenza preziosa ed il risalente antico orgoglio del nostro Paese. Orgoglio di Patria prima ancora di essere Patria.
Ed ancora, nella clessidra del tempo, scorgo le sembianze sfumate di quel bimbo mai nato, che non ha conosciuto questo mondo confuso e che mi pare stringa fra le manine incompiute, pur nel ventre di sua madre, una lunga barba bianca che scintilla in due occhi celesti come il cielo quando è pulito. E brilla nella notte più buia, che pare non avere fine.
E poi ci sono i bambini salvati. Con un pallone da calcio ed una merenda semplice, di quelle che sanno di pane caldo e marmellata fatta in casa, da un sacerdote coraggioso. Sfida la mafia con un sorriso, lo uccidono quando compie gli anni. Ma non ha paura. Lui fa paura. Vittima di mafia, Santo che riscatta gli anni di una Chiesa a tratti indifferente, a volte pavida, ma capace di riscattarsi nelle più remote periferie, dove risplende.
Santo, come quel giudice ragazzino che ci consegna una camicia insanguinata insieme ad una coscienza immacolata. Ancora egli chiede: «Picciotti, cosa vi ho fatto?». Non gli rispondono, gli sparano come fosse un animale. Gli rispondiamo noi: «Il tuo dovere hai fatto e qui si può morire solo perché si fa il proprio dovere.»
È bello essere giovani, hai il mondo nelle mani. Ed a volte, si sa, i giovani contestano i padri, perché vogliono provare a riparare meccanismi inceppati. Come quel ragazzo che si ribella alla sua stessa genia mafiosa. Lo uccidono per questo e, ancora una volta, un macigno di menzogne sul suo corpo esile. Credono di averlo messo a tacere, di aver spento per sempre la voce coraggiosa e potente della sua radio emotiva. Ma viene fuori il vero, perché, a volte, il tempo è davvero gentiluomo, e gli occhi di sua madre, minuta e titanica, in quel manto nero, riprendono un po' di vita. Vita liquida, come speranza. Per tutti noi, ancora una volta, a dispetto del resto.
Ma la mia mente ancora vagheggia, fra le schegge dei processi. E vedo locali incendiati, la fatica di vite distrutte dalle fiamme che prepotenti e volgari si allungano fra le lacrime di chi non ha più la forza di credere che uno spazio scurissimo possa, di nuovo, impastarsi di luce, che qualcosa possa autenticamente mutare. Eppure vanno avanti, attraversano fiamme che bruciano la pelle e denunciano, si ribellano. Non pagano. Non si piegano. E risorgono.
E ricordo, poi, un giorno di novembre. In aula. L’esame dell’imprenditore vittima del male. Un male consumato in uno storico locale, nel cuore della città vecchia. Di fronte, poco distanti, i mafiosi lo guardano. «Confermerà?» mi chiedo, mentre sfoglio i miei appunti, pronta alle contestazioni, come di rito. Ma lui conferma. Conferma e indica nomi, fatti, circostanze, precisissimo perfino nei dettagli, senza timore. E quei miei appunti non servono più. Li ripongo nei cassetti della memoria, come a rammentare che la fiducia nello Stato può essere assai più forte della paura.
Vittime di mafia sopravvissute allo scempio ne ho conosciute tante nelle lunghe giornate di istruttorie, che paiono senza fine. Sono morti che camminano. Così si definiscono. «Sono morto anche io …Sarebbe stato meglio morire… Continuo a sentire quel boato, nelle mie notti senza luce…». Le pronunciano di frequente queste frasi. E poi i loro silenzi e quelle indefinibili sfumature di immane sofferenza racchiuse in un identico non detto.
Perché si muore? E poi perché non si muore nell’attimo del boato? Oppure si muore, comunque, ogni giorno, nel ricordo che crudele sostanzia e restituisce un tormento senza fine? Non ho risposte, mentre ne vorrei avere.
E quel sangue color amaranto corrode ancora. Fa male sulla pelle, come a bruciare le nostre coscienze, per svegliarle, quando provano ad assopirsi. Vorrei anestetizzare quel dolore. Ma è un pensiero che mi sfiora solo un attimo. A ben vedere, è giusto che resti intatto quel dolore. Perché il dolore è un tratto essenziale degli esseri umani, che tutti ci unisce. Nessuno ne può essere immune. E ci rende davvero fratelli. Le vittime di mafia devono continuare a farci male. Solo se continueremo a sentire quel dolore lancinante sulla nostra pelle, come dolore nostro fino alle più intime essenze, noi non dimenticheremo. E la loro memoria potrà restare nostra memoria e passerà alle generazioni che verranno, come lo scudo più resistente al replicarsi dell’orrore. Perché le mafie, attraverso il profilo orgoglioso e composto della nostra postura di magistrati, possono e devono essere sconfitte. Non ci devono essere più morti. Mai più. Per Ifigenia può esserci un’altra strada. Ifigenia deve essere salvata.