La requisitoria del pubblico ministero.
Esplicazione della sua natura giurisdizionale, momento di attuazione del principio di oralità del processo
Relazione tenuta presso la Scuola Superiore della Magistratura di Scandicci ai magistrati ordinari in tirocinio nella loro prima settimana di formazione (“tirocinio generico penale”) il 21.2.2025
Sommario: 1. Introduzione: una prospettiva inedita – 2. La libertà del pubblico ministero – 3. La scatola vuota del processo accusatorio – 4. La struttura della requisitoria (ed emersione della natura giurisdizionale della funzione) – 5. La requisitoria quale momento di attuazione del principio di oralità del processo – 6. Post scriptum
La requisitoria esplica mirabilmente la natura giurisdizionale della funzione del pubblico ministero, ove egli trova quello spazio di libertà di cui non ha potuto godere nel corso dell'intero procedimento. Nella fase della discussione il pubblico ministero, finalmente autonomo, veramente autonomo, se saprà sfruttare bene, con rigore e onestà intellettuale, la sua libertà, avrà la possibilità di mostrarsi quale vero organo giurisdizionale.
E se tale è il contenuto della requisitoria – un contenuto giurisdizionale, appunto – essa non può che assumere un ruolo di sistema, e contribuire in maniera determinante alla realizzazione del principio di oralità del processo penale.
1. Introduzione: una prospettiva inedita
Ringrazio la Scuola Superiore della Magistratura, perché con questo confronto che mi si offre con voi, giudici di domani, mi viene data la preziosa possibilità di riflettere sul ruolo del pubblico ministero; in un momento storico in cui tanto se ne discute.
Vorrei quindi affrontare il momento della requisitoria, nella fase della discussione, muovendomi in una cornice teorico-generale. Partendo da questo frammento della sua complessiva e molto più ampia attività, vorrei portare voi, giudici di domani, a comprendere i contenuti della funzione giurisdizionale del pubblico ministero, che vengono esaltati proprio nella fase della discussione; e se tale è il contenuto della requisitoria – un contenuto giurisdizionale, appunto – essa non può che assumere un ruolo di sistema, e contribuire in maniera determinante alla realizzazione del principio di oralità del processo penale.
Me ne rendo conto: è una prospettiva inedita. La requisitoria è spesso vista come l'esaltazione del versante protagonistico della funzione requirente: fatalmente, è così. Di solito le notizie di stampa sui grossi processi si disinteressano dell'istruttoria, mentre la requisitoria arriva ad occupare sui giornali lo stesso spazio della lettura del dispositivo. Alle posizioni delle difese non si dà risalto, perché fa più notizia chiedere l'ergastolo che una assoluzione o, "in via gradata", il minimo della pena: il crucifige! dei tempi di Gesù Cristo non è mai passato di moda, anzi – come ha rilevato Gustavo Zagrebelsky – è parte integrante del sistema democratico.
Vi ho appena rappresentato una stortura, certo riconducibile a quella che viene definita "giustizia mediatica", e che nondimeno rischia di mettere in ombra il carattere epistemologico della requisitoria del pubblico ministero. Questa mi sembra allora l'occasione migliore per svolgere una riflessione più approfondita sul punto.
2. La libertà del pubblico ministero
La fase della discussione, se ci pensate bene, costituisce un buco nero procedimentale. Il codice, all'art. 523, afferma laconicamente che le parti «formulano e illustrano le rispettive conclusioni». L'unica regola astrattamente riconducibile alla requisitoria del pubblico ministero, e cioè alle sue «conclusioni», è l'art. 53: «nell'udienza, il magistrato del pubblico ministero esercita le sue funzioni con piena autonomia». Queste due regole esauriscono la disciplina delle discussioni: eppure non dicono nulla. La requisitoria non dipende da regole scritte, il requirere è di per sé, e in ogni ambito, impossibile da imbrigliare.
La fase della discussione, proprio perché non regolamentata in alcun modo, inaugura un tempo sospeso, in cui il pubblico ministero gode di una libertà assoluta. Una libertà che, come vedremo, deve essere ben utilizzata e di cui, per ampiezza, non gode nessun altro attore del processo: non l'avvocato, che deve sempre tenere conto degli interessi del suo assistito (ha un preciso dovere deontologico, al riguardo), e neppure il giudice, il quale solo dopo, e nella solitudine della camera di consiglio, si dovrà muovere nello stretto spazio degli elementi probatori acquisiti ed utilizzabili.
Il giudice prende in mano il processo solo alla fine, in camera di consiglio, e tira le fila; il pubblico ministero invece prende in mano il processo nella requisitoria e qui vi trova, finalmente, quello spazio di libertà di cui non ha potuto godere nel corso dell'intero procedimento.
Il pubblico ministero infatti nel corso del procedimento non è pienamente libero di determinarsi. E non mi riferisco tanto ai pesi e contrappesi, ai meccanismi interni dell'ufficio di Procura di verifica dell'oculatezza dell'azione penale, e delle azioni penali: il sostituto non può esercitare l'azione penale senza il visto del procuratore, tantomeno il procuratore può obbligare il sostituto a richiedere una misura cautelare; salvo ovviamente incorrere in sanzioni disciplinari.
Mi riferisco, ragionando in una prospettiva più sistematica, al principio dell'obbligatorietà dell'azione penale, sancito in Costituzione quale precipitato, in sede giudiziaria, del principio di uguaglianza, che appunto indica al pubblico ministero una strada "obbligata"; e per questa via, però, lo imbriglia sul piano interpretativo, perché l'ermeneusi del giudice sulla fondatezza della notizia di reato – o di una notizia di reato – è prevalente rispetto a quella del pubblico ministero.
Tale principio è garantito durante le indagini dal giudice per le indagini preliminari, che può ordinare iscrizioni, indagini suppletive o addirittura l'esercizio dell'azione penale mediante l'imputazione coatta. Ma anche nella fase preliminare e predibattimentale il controllo sull'obbligatorietà dell'azione penale è serrato: pensate alle modifiche dell'imputazione che il giudice può richiedere, pena l'improcedibilità.
Questa obbligatorietà per il pubblico ministero comincia – finalmente – a nebulizzarsi nel corso del dibattimento, così come è definito nel modello accusatorio, in cui il giudice è "vergine", e nulla conosce del procedimento. È un'asimmetria informativa che carica sulle spalle del pubblico ministero – sgravato ormai dai controlli legati all'esercizio (o al mancato esercizio) dell'azione penale – il thema probandum.
3. La scatola vuota del processo accusatorio
Se ci pensate il processo, nel modello accusatorio puro, è una scatola vuota, che può essere riempita solo dall'attività istruttoria condotta dal pubblico ministero, il quale all'apertura del dibattimento chiede provarsi l'ipotesi accusatoria di cui all'imputazione, che è l'unico dato misto – di fatto e di diritto – di cui il giudice dispone.
L'attività istruttoria è per sua natura corale: come prescrive l'art. 111 della Costituzione, «si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale»; ma è nella vita processuale concretamente trainata dal pubblico ministero, semplicemente perché è stato lui ad avere chiesto il processo. Lui o chi per lui. Quest'attività è ben più importante di quella d'indagine, ed anche più onerosa e responsabilizzante: da un lato, perché non è supportata dalla polizia giudiziaria, necessaria propaggine operativa del pubblico ministero alla ricerca delle prove di un reato; dall'altro perché egli, finalmente solo ai banchi dell'accusa, avverte l'euforia per una libertà fin lì mai pienamente goduta. E l'euforia è un sentimento che va governato, soprattutto in un'aula d'udienza.
Ragionando in astratto, il pubblico ministero può anche essere deciso a far naufragare il processo; quel processo che, magari, lui non ha voluto e gli è stato imposto da un giudice per una diversa valutazione sulla fondatezza del fatto di reato. Può scegliere che quella scatola rimanga vuota, boicottando le richieste di prova; o addirittura può chiedere fin dall'apertura del dibattimento una declaratoria favorevole all'imputato ai sensi dell'art. 129. Ma al di là di queste ipotesi estreme, e certo non auspicabili per la tenuta complessiva dell'ordinamento processuale, il pubblico ministero è libero di riempire la scatola vuota del processo come vuole, entro i limiti ovviamente del materiale probatorio raccolto e utilizzabile.
Ebbene, questo il punto: nella requisitoria il pubblico ministero deve dare conto di come ha speso la libertà che l'ordinamento, in sede processuale, gli ha conferito.
4. La struttura della requisitoria (ed emersione della natura giurisdizionale della funzione)
La requisitoria dovrebbe dunque, preliminarmente, avere un carattere ricostruttivo (dell'istruttoria) ed esplicativo (del materiale probatorio). Intendo dire che è una fase logicamente preliminare, perché solo dopo aver spiegato come è stata riempita quella scatola si può spiegare perché la si è riempita.
Quella scatola è stata riempita perché si voleva comprovare un fatto, e la sua sussunzione in una norma di legge. Quella scatola si è riempita per comprovare quell'unico dato "misto" – di fatto e di diritto – di cui il giudice disponeva fin dall'origine del processo: l'imputazione, la quale però è, in sé considerata, una mera elucubrazione del pubblico accusatore (o, più elegantemente, una ipotesi di lavoro). E se così è, dopo la ricostruzione dell'istruttoria e l'etichettamento, la catalogazione del materiale probatorio, per cui ogni elemento dell'imputazione, di ogni imputazione, deve trovare il suo riscontro, il fatto deve essere narrato e il diritto deve essere, infine, affermato.
Il fatto, ovverosia la narrazione del fatto, in cui il pubblico ministero sceglie sempre il suo punto di vista, il suo angolo prospettico, e lo fa anche quando non se ne accorge. Può scegliere di essere narratore onniscente, di essere narratore storico o addirittura sociologico, oppure di utilizzare la prima persona e adottare il punto di vista della persona offesa o dell'imputato; e può farlo per stigmatizzare, o per giustificare una determinata condotta. Può quindi modulare la sua narrazione affinché risulti funzionale alle sue richieste.
Ma la narrazione del fatto può essere – come spesso è – intrisa di soggettiva riprovevolezza, di considerazioni moralistiche, di giudizi di valore che invece il dato di legge non considera. L'indignazione morale è alla base del diritto penale, ma è accortamente tenuta fuori dalla sintassi del diritto penale.
Il pubblico ministero, quando affronta questo punto "narrativo" della requisitoria, è quindi un libero interprete delle vicende umane, ma non un libero giurista. Non è questa l'espressione di massima libertà del pubblico ministero a cui mi riferivo.
La massima espressione di libertà il pubblico ministero la trova nell'esercitare la sua vera natura giurisdizionale, e quindi nell'affrontare il diritto. La sussunzione del fatto nel diritto è il compimento della giurisdizione, cioè dello ius dicere. È a quel punto che si abbraccia la "fede nel diritto", per utilizzare una nota espressione di Calamandrei: è in base al diritto che si sta chiedendo la punizione dell'imputato oppure il suo proscioglimento (sulla scorta in questo caso del diritto processuale che verte sulle prove e sulle condizioni di procedibilità; mentre la condanna si fonda sulla fattispecie sostanziale indicata nella imputazione); e del diritto, il giurista nella veste di quell'attore del processo che formula le sue conclusioni, diventa sacerdote.
I "considerando" in diritto costituiscono quindi il momento più intenso dell'attività giurisdizionale del pubblico ministero, proprio perché egli ci arriva nel corso del procedimento gradualmente, affrancandosi prima dall'obbligatorietà dell'azione penale, che si tramuta – questo il punto – in un'obbligatorietà di ermeneusi, tanto che egli in udienza si presenta «con piena autonomia»; poi, dopo l'istruttoria, e dopo la narrazione del fatto, arriva alla quaestio iuris affrancandosi, il pubblico ministero, dalle scorie della soggettività che questa comporta. È in una tale libertà mai goduta che egli affronta – o dovrebbe affrontare – la parte in diritto; la sublimazione della scienza giuridica nella vicenda concreta. E questa libertà, finalmente anche ermeneutica, si esplica proprio davanti a voi, giudici di domani.
Anche se in molti processi la parte in diritto della requisitoria può apparire scontata, diffidate da quei pubblici ministeri che la omettono, perché le valutazioni giuridiche, di integrazione della norma nel fatto, distinguono la figura del poliziotto o del super-poliziotto, dello storico, del sociologo o del narratore, da quella del pubblico ministero. Almeno, così come emerge dall'attuale assetto costituzionale, in cui pubblico ministero e giudice sono parte di un'unica giurisdizione, di un unico ius dicere.
5. La requisitoria quale momento di attuazione del principio di oralità del processo
La requisitoria esplica dunque mirabilmente la natura giurisdizionale della funzione del pubblico ministero; ma al tempo stesso contribuisce alla realizzazione del principio di oralità del processo penale; e non solo per l'ovvia ragione che la requisitoria – così come l'arringa difensiva – è la quintessenza della retorica forense e giudiziaria, che di sola oralità può vivere.
Tutto ciò che nel corso dell'istruttoria non è stato "parlato", nella requisitoria deve parlare; si sopperisce così alla lettura processuale, che rende gli atti utilizzabili ai fini della decisione ma che, se ci pensate bene, collide con il principio di oralità del processo. Le dichiarazioni confluite nel fascicolo del dibattimento devono essere lette, o meglio recitate, almeno nelle loro parti salienti, perché quelle parole trovino adesso voce nel pubblico ministero, in procinto di formulare le sue richieste.
L'oralità crea un impatto emotivo ben diverso dalla scrittura: e poiché il penale è spesso sinonimo di umanità dolente, spetta al pubblico ministero chiudere il cerchio dell'oralità del processo, con la sua stessa voce. E talvolta essere l'unico artefice dell'oralità: pensate al processo abbreviato "secco", in cui tutto confluisce senza filtri nel fascicolo del giudice. La rinuncia all'oralità è una scelta dell'imputato, direte voi; ma l'adozione di una precisa strategia processuale non può mai intaccare il compendio di principi posto a garanza della genuinità della decisione del giudice; e di cui il pubblico ministero è ultimo garante. Garante, come parte pubblica, che il giudice entri in camera di consiglio con l'eco delle parole di accusa e difesa, nonché dello stesso imputato, cui è sempre riservata l'ultima parola (art. 523, co. 5).
Ma il pubblico ministero – tornando al dibattimento – ha anche il compito di dare voce non solo a ciò che è rimasto scritto per strategia processuale delle parti (si pensi alle acquisizioni di verbali previo consenso) o per necessità (si pensi al decesso di un testimone prima della sua audizione), ma anche – e forse soprattutto – a ciò che sempre, in un processo, rimane scritto; e senza alcuna specificazione, scripta manent: nel senso che non sempre il giudice dispone di quel contesto conoscitivo utile ad interpretare il dato asetticamente acquisito. Ci deve pensare, per l'appunto, il pubblico ministero; lo può fare con una memoria scritta, che il giudice porterà con sé nell'invalicabilità della camera di consiglio; lo deve fare nella sua requisitoria, che avrà quale canovaccio la stessa memoria.
Mi riferisco ai compendi documentali e alle intercettazioni.
In un processo in cui molta documentazione, anche tecnicamente complessa (si pensi a quella di tipo bancario o societario), è stata depositata e acquisita, non si può lasciare alla buona volontà del giudice la ricostruzione della vicenda; e anche laddove vi fossero delle consulenze, che rappresentano l'ausilio principale al giudizio attraverso altre discipline, è al pubblico ministero che spetta dare voce alla trama documentale che egli stesso ha tessuto. Il giudice, si dice, è peritus peritorum; più di lui, e prima di lui, però, deve esserlo il pubblico ministero.
Così come in un processo in cui sono state riversate le risultanze di una intensa attività tecnica, quelle conversazioni, almeno le più significative, dovrebbero essere fonte di prova nel senso proprio: dovrebbero cioè essere ascoltate in aula. Questo, mi rendo conto, non è quasi mai possibile: e allora sia il pubblico ministero a farsi filtro, ad ascoltare (o ri-ascoltare) quelle più rilevanti per afferrarne i toni e le sfumature (che sono a volte essenziali) e a dare conto nella requisitoria di questo ascolto. Mi è capitato più di una volta, e più di una volta ho chiesto l'assoluzione, perché l'ascolto mi ha convinto di una conversazione fraintesa, o male interpretata.
L'oralità nel processo è, per quanto riguarda il pubblico ministero, espressione della sua libertà, che si esalta nel corso della requisitoria. In questa fase egli, finalmente autonomo, veramente autonomo, se saprà sfruttare bene, con rigore e onestà intellettuale, la sua libertà, avrà la possibilità di mostrarsi a voi, giudici di domani, come vero organo giurisdizionale.
Un pubblico ministero capace di questo nel corso della requisitoria – capace quindi di ricostruire l'istruttoria e mettere in fila il materiale probatorio acquisito, distribuendolo nella topografia della imputazione, al fine di potere prima narrare il fatto per come è stato accertato e poi affermarne i suoi contenuti giuridici, sempre tenendo fede al canone di oralità, che è un canone di garanzia – compie un buon lavoro processuale ma soprattutto, in una prospettiva di sistema, si allinea perfettamente alla sua natura giurisdizionale, che è la stessa del giudice, senza che per questo egli ne sia influenzato rispetto alla decisione da prendere; ma voi giudici di domani avrete a quel punto – nella solitudine della vostra camera di consiglio – tutti gli elementi per rendere, senza il timore dell'incompletezza, lo ius dicere che vi è richiesto.
6. Post Scriptum.
Avevo appena chiuso questa mia relazione, che l’altro giorno, in udienza, venivo verbalmente aggredito da un imputato: si verificava uno spiacevole momento di turbolenza processuale. Non dovrebbe capitare, ma capita. Questo episodio mi consente di aggiungere una postilla al mio intervento.
Il processo, come ho detto, è un rito, e tutti gli attori (pubblico ministero, avvocato, giudice) ne sono i sacerdoti. Ogni fase di questo rito, specialmente le battute finali (requisitoria, arringa, camera di consiglio, che oggi stiamo esaminando), sono funzionali al compimento di quell’atto di giustizia che è il processo: e, badate bene, non può esserci democrazia senza giustizia.
A voi, giudici di domani, che di questo rito sarete i primi sacerdoti, rivolgo una preghiera: prendetevi cura di questo rito, e non consentite a nessuno di profanarlo, di dissacrarlo. Prendetevene cura come se fosse un pezzettino della nostra democrazia, e quindi un pezzettino della vostra vita.