ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Privacy e lavoro nello scenario dell’emergenza da Covid-19
di Caterina Del Federico*
Sommario: Introduzione. 1. Le previsioni del DL 9 marzo 2020 in materia di trattamento dei dati personali. 2. Lo specifico profilo del trattamento dei dati personali dei lavoratori: il Protocollo condiviso e la conformità al Comunicato del Garante. 3. La dichiarazione dello European Data Protection Board. Conclusioni.
Introduzione
Lo stato di emergenza causato dal virus Covid-19, non solo in Italia e in Europa, ma nel Mondo, farà rilevare lacune esistenti in ogni ambito della società: nella politica, nell’economia, nella tecnologia, sicuramente anche nella legislazione.
Nell’odierno scenario emergenziale non si sta perdendo occasione per mettere la privacy - argomento di grande successo negli ultimi anni - al centro del dibattito. Ciò con riferimento ai più svariati aspetti: alle tecnologie utilizzate per tracciare gli spostamenti dei cittadini[2], all’utilizzo dei big data e dell’intelligenza artificiale quale strumento di ausilio al contrasto del virus[3], ancora, con riferimento al trattamento dei dati personali dei lavoratori[4].
Si cerca di testare l’adeguatezza del tessuto normativo italiano con riguardo a tale ultimo aspetto. Va sottolineato che il trattamento dei dati personali riguardanti informazioni legate al Covid-19 non ha ad oggetto “semplici” dati personali, ma dati “sensibili” in quanto riguardanti la salute dei cittadini, che rientrano nell’ambito dell’art 9 GDPR, rubricato “Categorie particolari di dati”[5].
1. Le previsioni del DL 9 marzo 2020 in materia di trattamento dei dati personali
Sul tema va senza dubbio richiamato il Decreto Legge n. 14 del 9 marzo 2020[6], che dedica l’art. 14, rubricato “Disposizioni sul trattamento dei dati personali nel contesto emergenziale”, a questo specifico profilo.
Nel DL è consentito chiaramente il trattamento dei dati personali, anche ove rientrassero nelle categorie particolari di dati ex art. 9 del GDPR, da parte dei soggetti operanti nel Servizio nazionale di protezione civile e dei “soggetti attuatori” del servizio stesso, degli Uffici del Ministero della salute e dell’Istituto Superiore di Sanità, delle strutture pubbliche e private che operano nell’ambito del Servizio sanitario nazionale e dei soggetti deputati a monitorare e a garantire le misure adottate. La comunicazione dei dati tra questi soggetti è permessa “per motivi di interesse pubblico nel settore della sanità pubblica e, in particolare, per garantire la protezione dell’emergenza sanitaria a carattere transfrontaliero determinata dalla diffusione del Covid-19 […]”. Mentre, la comunicazione dei dati a soggetti pubblici e privati diversi da quelli appena nominati, nonché la diffusione di dati non rientranti nelle categorie di cui agli artt. 9 e 10 del GDPR, è consentita dal Decreto solo “[…] nei casi in cui risulti indispensabile ai fini dello svolgimento delle attività connesse alla gestione dell’emergenza sanitaria in atto”.
L’art. 14 del Decreto prevede, altresì, che tali dati vengano trattati nel rispetto dei principi base previsti all’art. 5 del GDPR. Pertanto, le misure devono rispettare il criterio di proporzionalità in relazione alla necessità rispetto alla situazione emergenziale in corso.
È interessante notare che l’ultimo comma del Decreto prevede che al termine dello stato di emergenza “i soggetti di cui al comma 1 debbano adottare misure idonee al fine di ricondurre i trattamenti di dati personali, effettuati nel contesto dell’emergenza, all’ambito delle ordinarie competenze e delle regole che disciplinano i trattamenti dei dati personali”[7]. Le deroghe, dunque, hanno durata limitata all’emergenza.
Per quanto ad un primo sguardo sembrano emergere alcune discrepanze, si comprende come le deroghe siano state adottate in relazione alla situazione emergenziale in atto e, chiaramente, ogni Stato membro sta applicando le misure che ritiene più “consone” per il contrasto al Covid-19, ognuno con le proprie peculiarità.
2. Lo specifico problema del trattamento dei dati personali dei lavoratori: il Protocollo condiviso e la conformità al Comunicato del Garante
Con riguardo al trattamento dei dati personali in ambito lavorativo, va evidenziata la delicatezza del tema: non solo si tratta di una categoria particolare di dati ai sensi dell’art. 9 del GDPR perché legati all’ambito del lavoro, ma tali dati, considerati in relazione al virus Covid-19, riguardano la salute e quindi rientrano nel novero dei casi previsti all’art. 9 cit. anche in quanto ‘dati sensibili’. Ciò sembra quasi invocare l’esigenza di un doppio grado di tutela.
Su invito del Presidente del Consiglio dei ministri e dei ministri competenti, il 14 marzo è stato sottoscritto il Protocollo condiviso di regolazione delle misure e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro. Il Protocollo nasce in attuazione della misura, contenuta all’art. 1, comma 1, n. 9, del Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri dell’11 marzo 2020, che, in relazione alle attività professionali e alle attività produttive, raccomanda intese tra organizzazioni datoriali e sindacati.
Vi sono diversi riferimenti al diritto alla protezione dei dati personali nell’ambito dei rapporti di lavoro, un diritto fondamentale.
Il Protocollo prevede che al momento dell’accesso i lavoratori potranno essere sottoposti in tempo reale al controllo della temperatura corporea[8]. Come specificato in nota al Protocollo, “la rilevanza della temperatura corporea costituisce un trattamento di dati personali e, pertanto, deve avvenire ai sensi della disciplina privacy vigente”. Viene dunque suggerita la modalità con cui svolgere l’operazione: il dato va registrato solo se ciò risulti necessario a documentare le ragioni che hanno impedito l’accesso ai locali aziendali.
Nel Protocollo viene altresì esplicitato di fornire l’informativa sul trattamento dei dati personali ai sensi dell’art. 13 del GDPR, precisando che la stessa può omettere le informazioni di cui l’interessato è già in possesso e può essere fornita anche oralmente, come prevede lo stesso GDPR all’art. 12, par. 1.
Quanto ai contenuti dell’informativa, il Protocollo specifica che con riferimento alla finalità del trattamento potrà essere indicata la prevenzione dal contagio da Covid-19 e che la base giuridica del trattamento sarà l’implementazione dei protocolli di sicurezza anti-contagio ai sensi dell’art. art. 1, n. 7, lett. d) del DPCM cit., nonché l’art. 9, lett. b) del GDPR.
Con riferimento alla durata dell’eventuale conservazione dei dati va fatto riferimento al termine dello stato d’emergenza; mentre nel definire le misure di sicurezza tecniche e organizzative, adeguate a proteggere i dati, il Protocollo non fa specificazioni e si considera richiamato l’art. 32 del GDPR.
In relazione ai tempi di conservazione dei dati, in conformità con l’art. 13, par. 2, lett. a) del GDPR, viene fatto esplicito riferimento al “termine dello stato di emergenza”[9]. A tal proposito, si ricorda che, nel rispetto del principio di finalità ex art. 5, par. 1, lett. b), del GDPR, i dati possono essere trattati esclusivamente per prevenzione dal contagio da Covid-19 e non devono essere diffusi o comunicati a terzi al di fuori delle specifiche previsioni normative.
Su questo profilo non ci si può esimere dal richiamare il Considerando n. 46 del GDPR: “Alcuni tipi di trattamento dei dati personali possono rispondere sia a rilevanti motivi di interesse pubblico sia agli interessi vitali dell’interessato, per esempio se il trattamento è necessario a fini umanitari, tra l’altro per tenere sotto controllo l’evoluzione di epidemie e la loro diffusione o in casi di emergenze umanitarie, in particolare in casi di catastrofi di origine naturale o umana”.
Ebbene, risulta piuttosto chiaro che il trattamento dei dati personali per la finalità sopra evidenziata rappresenta un’esplicita deroga al divieto di trattare le categorie particolari di dati, ex art. 9, par. 1, del GDPR, riconducibile all’ipotesi prevista al par. 2, lett. b) dello stesso articolo.
Tale ultimo disposto normativo prevede che non si applicano le limitazioni di cui al par. 1 se “il trattamento è necessario per assolvere gli obblighi e esercitare i diritti specifici del titolare del trattamento o dell’interessato in materia di diritto del lavoro e della sicurezza e protezione sociale”. Ciò, nella misura in cui “sia autorizzato dal diritto dell’UE o degli Stati Membri o da un contratto collettivo ai sensi del diritto degli Stati Membri, in presenza di garanzie appropriate per i diritti fondamentali e gli interessi dell’interessato”.
Alla nota 2 del Protocollo, ancora, si specifica che qualora si richieda il rilascio di una dichiarazione attestante la non provenienza dalle zone a rischio epidemologico e l’assenza di contatti, negli ultimi 14 giorni, con soggetti risultati positivi al Covid-19, va prestata attenzione alla disciplina sul trattamento dei dati personali, poiché l’acquisizione della dichiarazione costituisce un trattamento di dati. A tal fine si applicano tutte le indicazioni sopra riportate[10].
Si suggerisce, in ogni caso, di raccogliere solo i dati necessari, adeguati e pertinenti rispetto alla prevenzione del contagio da Covid-19: il tutto nel rispetto dei principi base del GDPR.
Si torna, dunque, a ribadire quanto aveva già affermato il Garante per la protezione dei dati personali il 2 marzo ultimo scorso con un comunicato stampa in cui affermava il divieto per iniziative “fai da te” in relazione alla raccolta dei dati personali nell’emergenza Covid-19, richiamando il rispetto dei principi del GDPR e il carattere emergenziale del momento attuale[11].
3. La dichiarazione dello European Data Protection Board
Le attuali norme europee in tema di privacy e data protection, come è emerso, già consentono eccezioni in tema di sicurezza nazionale, salute pubblica inclusa. Si pensi, a titolo esemplificativo, al Considerando n. 16, agli artt. 6 e 9, al Considerando n. 46: le disposizioni consentono misure emergenziali.
I Governi, in base a tali norme sono autorizzati a prendere misure eccezionali che permettano alle autorità nazionali di avere accesso a dati sensibili come quelli inerenti alla salute.
È chiaro che tali misure debbano essere: necessarie, appropriate e proporzionate al contesto di una società democratica, limitate allo scopo e soprattutto provvisorie.
A confermare quanto detto è intervenuto il 16 marzo lo European Data Protection Board (EDPB)[12], dichiarando con chiarezza: “le norme sulla protezione dei dati (come il GDPR) non ostacolano le misure nazionali adottate nella lotta contro la pandemia di coronavirus”.
A titolo esemplificativo il GDPR, difatti, già prevedeva criteri giuridici che consentono ai datori di lavoro e alle autorità sanitarie competenti di trattare i dati personali nel contesto di epidemie, senza la necessità di ottenere il consenso dell’interessato.
Il documento richiama altresì l’art. 15 dell’e-privacy Directive[13], che permette agli Stati membri di introdurre misure legislative che limitano i diritti e gli obblighi di cui agli artt. 5 e 6 della stessa[14], se volte a garantire la salvaguardia della difesa, della sicurezza nazionale e di quella pubblica. Ebbene, certamente la tutela della salute pubblica rientra nell’accezione di sicurezza nazionale e, o, di pubblica sicurezza.
Conclusioni
Ci si trova in uno stato di “economia emergenziale”, come affermato più volte dal nostro Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte.
Ciò che rileva è che la legislazione di emergenza vada attuata a condizione che costituisca una misura necessaria, appropriata e proporzionata, anche nel tempo, all’interno di una società democratica.
Deve essere chiaro che una lotta efficace alla pandemia attuale non richiede alcun definitivo sacrificio in termini di protezione della privacy e dei dati personali. Tale sacrificio, difatti, come hanno dichiarato le Autorità, è limitato alla durata dell’emergenza e non può essere in alcun modo abusato dallo Stato.
A corroborare quanto detto si richiamano, da ultimo, le parole del Presidente del Garante Antonello Soro in un’intervista con l’ANSA: “i diritti possono, in contesti emergenziali, subire limitazioni anche incisive, ma queste devono essere proporzionali alle esigenze specifiche e temporalmente limitate. La forza della democrazia è anche nella sua resilienza: nella sua capacità cioè di modulare le deroghe alle regole ordinarie, in ragione delle necessità, inscrivendole in un quadro di garanzie certe e senza cedere a improvvisazioni. Il limite dell'emergenza è insomma nel suo non essere autonoma fonte del diritto ma una circostanza che il diritto deve normare, pur con eccezioni e regole duttili, per distinguersi tanto dalla forza, quanto dall'arbitrio”[15].
Si tenga presente, in un simile scenario, che “il diritto alla salute, ormai unanimemente riconosciuto anche dal punto di vista sostanziale oltre che formale, è l’unico fondamentale, essendo evidente a chiunque che soltanto la sua tutela può consentire il godimento degli altri”[16].
In conclusione, si ritiene che non vi siano, al momento attuale, particolari problematiche nel rapporto tra privacy e Covid-2019. I dati normativi, i Protocolli e i Decreti di questi giorni sono chiari e solidi sul punto e non bisogna far altro che attenervisi per il tempo necessario e compatibilmente con i principi democratici.
[1] Si segnala che il presente contributo è stato pubblicato il giorno 19 marzo 2020 sulla rivista online Ius in Itinere.
[2] A titolo esemplificativo, è quanto accade oggi in Israele. Sul punto si v. l’articolo del Sole 24 ore, nella rubrica “tecnologia e privacy” e intitolato Dall’antiterrorismo al coronavirus: così un’azienda israeliana traccia l’epidemia. L’articolo è stato visionato al link https://www.ilsole24ore.com/art/dall-antiterrorismo-coronavirus-cosi-un-azienda-israeliana-traccia-l-epidemia-ADFT74D in data 18.3.2020.
[3] È quanto successo in Cina nel periodo emergenziale, in sui tra le tante misure adottate si pensi a quella secondo cui sul posto di lavoro i dipendenti possono essere sottoposti a particolari controlli e a test sanitari in qualsiasi momento, oppure gli può essere richiesto di consegnare un travel verification report ovvero un registro degli spostamenti recenti da richiedere direttamente alla propria compagnia telefonica, che lo ricaverà dai dati GPS e WiFi e lo invierà al cliente per la presentazione in azienda. Si v., tra i tanti, In Coronavirus Fight, China Gives Citizens a Color Code, With Red Flag, in New York Times, visionato al link https://www.nytimes.com/2020/03/01/business/china-coronavirus-surveillance.html in data 18.3.2020.
[4] Da ultimo si v. il Protocollo emanato il 14 marzo 2020.
[5] Sul punto si v. lo specifico contributo di A. Cataleta, Categorie particolari di dati: le regole generali e i trattamenti specifici, in G. Finocchiaro (a cura di) La protezione dei dati personali in Italia: Regolamento UE n. 679/2016 e d.lgs. 10 agosto 2018, n. 101, Zanichelli, 2019.
[6] Si tratta del d.l. n. 14 del 9 marzo 2020, pubblicato in Gazzetta Ufficiale e vigente al 10 marzo 2020, recante Disposizioni urgenti per il potenziamento del Servizio sanitario nazionale in relazione all’emergenza Covid-19. Le sue disposizioni si applicano a soggetti pubblici e privati che operano nell’ambito del Sistema Sanitario Nazionale (SSN), fino al 3 aprile 2020.
[7] In tal senso l’ultimo comma dell’art. 14 d.l. 9 marzo cit.
[8] Punto 2 del Protocollo, rubricato “Modalità di ingresso in azienda”.
[9] Si v. la nota 1, punto 3 del Protocollo.
[10] Si v. la nota 1 del Protocollo.
[11] Il Comunicato stampa è consultabile sul sito del Garante al seguente link: https://www.garanteprivacy.it/web/guest/home/docweb/-/docweb-display/docweb/9282117.
[12] Statement of the EDPB Chair on the processing of personal data in context of the COVD-19 outbreak, consultabile sul sito ufficiale dello European Data Protection Board al link https://edpb.europa.eu/news/news/2020/statement-edpb-chair-processing-personal-data-context-covid-19-outbreak_it.
[13] Il riferimento è alla Direttiva 2002/58/CE del 12 luglio 2002, il cui testo è disponibile sulla Gazzetta ufficiale delle Comunità europee al seguente link: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32002L0058&from=EN.
[14] Rispettivamente rubricati “Riservatezza delle comunicazioni” e “Dati sul traffico”.
[15] La dichiarazione del Presidente del Garante è consultabile sul sito ufficiale al seguente link: https://www.garanteprivacy.it/web/guest/home/docweb/-/docweb-display/docweb/9292565.
[16] G. Villanacci, Il diritto alla salute e il principio di precauzione, al link: https://www.corriere.it/opinioni/20_marzo_17/diritto-salute-824fdea6-687c-11ea-9725-c592292e4a85.shtml, visitato in data 18.3.2020.
CEDU e cultura giuridica italiana
10) Cedu e processualpenalisti
Roberto Giovanni Conti intervista
Roberto E. Kostoris, ord. dir. proc. penale, Univ. Padova
Stefano Ruggeri, ord. di giustizia penale italiana, europea e comparata, Univ. Messina
1. Le domande. 2. La scelta del tema. 3. Le risposte. 4. Le repliche. 5.Le conclusioni
1. Le domande.
1.Quali sono, a suo giudizio, le sfide che attendono la Corte Edu nel prossimo futuro con particolare riguardo ai temi che ruotano attorno alle garanzie dell’imputato nel processo penale e, fra queste, al divieto di bis in idem?
2. Quali sono i principali nodi problematici sul tema dei rapporti fra le garanzie offerte dalla Carta UE dei diritti fondamentali e quelli derivanti dalla CEDU?
3. Quali sono i principi guida sul tema dell’esecuzione delle sentenze della Corte edu in materia penale a livello interno e nei confronti di soggetti diversi da quelli che hanno agito a Strasburgo?
2. La scelta del tema.
R.G. Conti
Le garanzie processuali offerte all’indagato imputato rappresentano un ottimo banco di prova dello stato di salute della CEDU nel diritto vivente che la Corte edu produce.
A riflettere sul tema, gravido di punti problematici, Giustizia Insieme ha invitato di processualpenalisti di fama, Roberto E. Kostoris e Stefano Ruggeri.
3. Le risposte.
1.Quali sono, a suo giudizio, le sfide che attendono la Corte Edu nel prossimo futuro con particolare riguardo ai temi che ruotano attorno alle garanzie dell’imputato nel processo penale e, fra queste, al divieto di bis in idem?
Roberto E. Kostoris
Sono molte le sfide che attendono la Corte edu, e sono soprattutto sfide che toccano una complessiva dimensione culturale.
E’ anzitutto una sfida culturale quella di riuscire a sviluppare un dialogo sempre più stretto e armonico con le altre Corti (Corte di giustizia, Corti costituzionali, giudici interni), nella prospettiva di sviluppare una comune cultura europea di tutela dei diritti umani. E’ una sfida culturale far penetrare questa cultura in tutti gli Stati aderenti alla Cedu, alcuni dei quali, non dimentichiamolo, si sono solo di recente affacciati alla democrazia, e dimostrano una certa refrattarietà verso i principi convenzionali, mentre altri vivono oggi involuzioni autoritarie (pensiamo alle condizioni in cui si trova la magistratura in Polonia, che, per la Corte edu impedirebbero addirittura l’applicazione delle regole dell’equo processo). In quest’ottica, è una sfida anche l’entrata in vigore del Protocollo 16 della Cedu, che consente ai giudici nazionali presentare un interpello preventivo alla Corte per ottenere da essa un advisory opinion non vincolante sull’interpretazione da dare a una norma Cedu rilevante per la decisione di un caso giudiziario pendente di fronte a loro: una risorsa preziosa che può evitare il successivo ricorso a Strasburgo, con risparmio di tempo ed energie, che può contribuire a deflazionare il carico della Corte e che può servire a diffondere ancor più una cultura europea delle garanzie, ma che alcuni vedono invece con sospetto, ritenendo che possa tradursi in un meccanismo di indebolimento della sovranità punitiva nazionale, esposta a intromissioni esterne mentre essa è ancora in funzione.
E soprattutto, sotto un profilo molto più generale, che coinvolge in modo diretto e profondo per primi noi italiani, è e continua ad essere una grande sfida culturale quella di innestare un’idea delle garanzie processuali, considerate nella loro dimensione concreta e fattuale, secondo un approccio tributario della logica di common law, di cui la Corte e la Cedu si fanno portatrici, in ordinamenti giuridici di civil law, come quelli dell’Europa continentale, strutturati in sistemi codificati retti da previsioni legislative astratte che hanno, invece, una visione formale delle garanzie. E’ questo un aspetto cruciale dell’incontro/scontro tra il diritto europeo e il diritto nazionale. Un incontro/scontro tra due visioni antitetiche del modo di concepire il diritto: quella ereditata dalla modernità giuridica, cioè dall’epoca delle codificazioni, che trova le sue ascendenze nel pensiero illuministico e che vede nel rispetto delle forme processuali che si inverano in ‘regole’ (le fattispecie normative) applicabili secondo la secca dicotomia della logica binaria (legittimo/illegittimo, valido/invalido) una garanzia dell’individuo contro l’arbitrio del giudice e quella, che potremmo definire pos-moderna, prepotentemente veicolata dal diritto europeo, che invece è governata da princìpi e si alimenta di una logica graduata (più adeguato, meno adeguato) nella prospettiva di non appagarsi di un astratto rispetto della norma, ma di porre in tensione quella norma con le peculiarità del caso. Entrambe queste concezioni presentano punti di forza e punti di debolezza: le garanzie codicistiche, oltre a tutelare, come si diceva, da una gestione arbitraria del potere repressivo, assicurano un maggiore rispetto della certezza del diritto, del principio di sottoposizione del giudice alla legge e del principio di uguaglianza, ma la loro rigidità non consente loro di adattarsi sempre alle peculiarità delle situazioni concrete sulle quali vanno ad incidere; caratteristiche simmetricamente opposte connotano invece le garanzie europee, la cui duttilità non può prescindere dall’ affidare ampi poteri creativi al giudice. La grossa sfida che resta aperta – e che, da questo punto di vista, coinvolge tutti gli attori attraverso il dialogo a cui prima facevo cenno – è dunque quella di riuscire a far convivere nel modo meno conflittuale e più produttivo queste due culture giuridiche e questi due differenti approcci applicativi, che, piaccia o no, sono e sempre più saranno destinati a intrecciarsi per effetto dell’osmosi sempre più forte tra diritto interno e diritto europeo (vorremmo precisarlo: non solo di quello di matrice convenzionale, ma anche di quello di matrice eurounitaria, che, da questo punto di vista, presenta caratteristiche morfologiche non molto dissimili).
A questa intrinseca difficoltà che caratterizza l’epoca di transizione giuridica in cui viviamo, si devono aggiungere almeno due considerazioni sulla tipologia delle garanzie Cedu che riguardano la posizione dell’imputato.
La prima è che si tratta comunque di garanzie “minime”.
E’ ovvio che non potrebbe essere diversamente per un sistema che si rivolge a una grande pluralità di ordinamenti giuridici diversi. Ma significa anche che quel dialogo e quel linguaggio comune in tema di garanzie europee di cui si auspica la diffusione, soprattutto attraverso lo strumento unificante dell’interpretazione convenzionalmente conforme, si potrà sviluppare solo con riferimento a quel plafond di base. Occorre allora essere consapevoli del fatto che, se la circolazione di una cultura delle garanzie convenzionali potrà portare certamente a un complessivo innalzamento degli standard medi di tutela sul continente europeo, con indubbi vantaggi per gli Stati che presentano ancora sistemi troppo carenti sul punto, gli ordinamenti che, come il nostro, conoscono invece garanzie di grado più elevato non avranno molto da guadagnare – e avranno invece forse qualcosa da perdere – in un ‘club’dove si comunica e si dialoga solo con riferimento a livelli minimali di garanzia. Nonostante la Cedu sia chiara nel far comunque salva l’applicazione delle tutele interne di grado più elevato (art.53), vi è il rischio che, a lungo andare, la circolazione dei modelli ‘deboli’ di garanzia possa portare anche al nostro stesso interno a una graduale svalutazione di quelli ‘forti’, che potrebbero essere vissuti come orpelli o come lussi eccessivi, in una paradossale convergenza di atteggiamento, sia dai detrattori della cultura europea delle garanzie, che propugnano nuove visioni della giustizia in chiave autoritaria, sia dai suoi sostenitori.
Si potrebbe dire allora che non è sempre tutt’oro quello che luccica nel cielo delle garanzie convenzionali.
A questa considerazione generale se ne lega un’altra che riguarda l’anatomia di una garanzia centrale nel sistema Cedu, come quella della fairness, cioè dall’equità processuale.
Per un verso, si tratta di un prezioso recupero per l’Europa continentale di un principio antico, passato dal mondo classico a quello medievale come strumento espressivo di un ordine giuridico valoriale, approdato poi, per il tramite dell’aequitas canonica, al diritto inglese (un passaggio cruciale che spesso si dimentica), divenuto lì un tratto caratteristico della common law e, infine, riapprodato nel continente europeo attraverso la Cedu in una declinazione specificamente processuale. Recupero prezioso perché l’equità processuale può rappresentare una“valvola respiratoria” del processo. Ma anche recupero problematico, perchè l’equità processuale rappresenta un parametro difficile da metabolizzare per noi giuristi di civil law, abituati a confrontarci con il quadro di garanzie formali a cui prima facevamo cenno, estremamente difficile da coordinare con un princìpio di questo genere. Anche perché la Corte edu rapporta la sua valutazione di equità a una specifica vicenda processuale, considerata nella sua concretezza, non prendendo in esame singoli atti processuali, secondo la logica frazionata che regola le nostre garanzie interne, ma l’intera vicenda considerata nel suo complesso, come un tutto unico (as a whole): in quest’ottica, la Corte valuta ai fini del giudizio di equità anche la presenza di eventuali “garanzie compensative” che abbiano potuto ‘controbilanciare’ la mancanza o la carenza di altre garanzie. Basta però questa semplice messa a fuoco per comprendere come un simile modus procedendi determini anche una completa relativizzazione del concetto stesso di equità. Un’impressione che si rafforza ancor più alla luce di certi disinvolti impieghi del concetto di garanzie compensative da parte della Corte edu, che ha ritenuto “compensate” garanzie processuali mancanti, per effetto della semplice applicazione di altre garanzie, comunque previste, con un chiaro saldo in passivo sul fronte delle tutele (Grande Camera, 13/9/2019, Ibrahim c. Regno Unito). Una logica riduttiva che trasforma quello che potrebbe presentarsi come un polmone respiratorio del sistema in una possibile causa di defict di garanzie. E una logica che sembra contagiare di recente anche la nostra Corte costituzionale (sent. 132/2019) quando, proprio prendendo spunto dalla giurisprudenza di Strasburgo, ha invitato il legislatore a introdurre eccezioni al principio della rinnovazione dell’escussione probatoria in dibattimento nel caso di sostituzione di un membro del collegio, prevedendo ‘meccanismi compensativi’, come la possibilità per il giudice (ma non il diritto per la difesa) di riconvocare il testimone davanti a sé per la richiesta di ulteriori chiarimenti.
Che non sia tutt’oro quello che luccica a Strasburgo possiamo constatarlo, infine, anche rispondendo all’ultima parte della domanda, dedicata al ne bis in idem convenzionale previsto dall’art.4 Prot. 7 Cedu.
Il problema su cui occorre focalizzarsi riguarda chiaramente la configurabilità di questa garanzia nei rapporti tra un procedimento penale e un procedimento amministrativo attivati per lo stesso fatto e nei confronti della stessa persona.
Dopo aver giustamente applicato al tema il concetto sostanziale di “materia penale” e di “sanzione penale” che essa ha elaborato, la Corte edu aveva in un primo tempo (sent. 4/3/2014, Grande Stevens c. Italia) enunciato una tesi che valorizzava la garanzia del divieto di doppio processo, facendo scattare il ne bis in idem di fronte all’irrogazione in via definitiva di una sanzione formalmente amministrativa, ma sostanzialmente penale, per i suoi contenuti particolarmente afflittivi, da determinare secondo i c.d. criteri Engel. Era una tesi che non escludeva in sé la possibilità per gli Stati di adottare il c.d. sistema del doppio binario (prevedere per uno stesso comportamento una doppia risposta sanzionatoria amministrativa e penale) ma che indubbiamente ne limitava in parte la concreta operatività. L’intervento in un nuovo giudizio (Grande Camera, 15/11/2016 A e B contro Norvegia) di ben sei Stati vincolati dal Prot. 7, preoccupati di incontrare restrizioni nel gestire le loro doppie risposte sanzionatorie, aveva indotto la Corte a mutare orientamento, escludendo come si sa il ne bis in idem quando i due processi penale amministrativo presentino una “sufficiente connessione nella sostanza e nel tempo”. Parametro però molto vago, indefinito e sostanzialmente arbitrario – come rilevava anche il giudice Pinto de Albuquerque nella sua corposa opinione dissenziente – che indebolisce e limita fortemente la garanzia del ne bis in idem. Il criterio della sufficiente connessione temporale sembra oltretutto ben poco pertinente: il ne bis in idem scatterebbe solo a condizione che il secondo processo – di regola quello penale – si sia concluso a eccessiva distanza da quello amministrativo. Una circostanza che, da un punto di vista logico, nulla ha a che spartire con il divieto di un doppio giudizio, il quale dovrebbe operare indipendentemente da valutazioni temporali (ciò che conta, infatti, è solo non sanzionare due volte la stessa condotta). Il parametro cronologico sembra qui utilizzato quasi come uno strumento improprio per sanzionare invece l’eccessiva durata del processo penale. Il criterio del legame sostanziale, anche per come poi è stato inteso dalla nostra giurisprudenza, consisterebbe invece, oltre che nella prevedibilità ex ante dei due procedimenti, nella proporzionalità della sanzione complessivamente irrogata rispetto ai fatti che intende punire. Un requisito, se si vuole, equitativo, ma del tutto indeterminato, e, pure esso, a ben vedere, estraneo al divieto di un doppio giudizio, per il quale conta che non venga applicata una doppia sanzione di carattere ‘penale’ e non venga svolto un doppio procedimento per lo stesso fatto nei confronti della stessa persona. E’ evidente che, mentre nella Grande Stevens il focus cadeva sulla garanzia dell’imputato a non essere processato e sanzionato due volte per lo stesso fatto, in A e B contro Norvegia il focus cade invece sull’interesse/diritto dello Stato a irrogare la doppia sanzione, che viene qui restaurato e rinsaldato, ponendovi il solo limite della sproporzione globale della pena e dell’eccessivo distacco temporale tra i due procedimenti. E ciò proprio mentre la cugina Corte di giustizia (Grande sez., 26/2/2013, Fransson) manifestava un orientamento antitetico nel sancire l’illegittimità dell’inflizione di una sanzione penale per un fatto già colpito da una sanzione formalmente amministrativa, ma sostanzialmente penale. Con buona pace di quell’aspirazione a una uniforme interpretazione delle garanzie fondamentali in ambito europeo a cui prima si faceva cenna.
La Corte europea ha ritenuto di giustificare del sistema del doppio binario sulla base di un fragile distinguo: mentre la sanzione amministrativa avrebbe una finalità deterrente, quella penale ne avrebbe invece una retributiva. Ciò però non corrisponde al vero, perché, a ben vedere, entrambe le sanzioni perseguono entrambe le finalità. Così stando le cose, se non si vuole eliminare del tutto il sistema del doppio binario (cosa che mai gli Stati saranno disposti a fare) il ne bis in idem in una sua accezione forte e decisa diventa la sola garanzia a disposizione per governare secondo giustizia il sistema.
Stefano Ruggeri
Si tratta di un interrogativo dalla portata pressoché abissale, il cui approfondimento richiede competenze ben superiori a quelle del solo studioso di giustizia penale, e certamente superiori alle mie personali conoscenze. Un primo piano d’indagine guarda all’immenso lavoro svolto dalla giurisprudenza di Strasburgo per rafforzare la tutela della persona accusata in materia penale, specie quando questa si trovi esposta a restrizioni di libertà fondamentali proprio per esser coinvolta in un’indagine penale, che di esse diviene spesso l’unica fonte di giustificazione. E penso alle difficilissime sfide che attendono la Corte europea con riferimento a nuove e particolarmente invasive forme d’ingerenza nel diritto al rispetto della vita privata e familiare, e ancor più al diritto alla (tele)comunicazione, per non parlare di diritti di più recente conio, ormai peraltro ampiamente riconosciuti, quale il diritto alla riservatezza informatica. Diritti, questi, tutti oggi esposti a ‘interferenze’ (per usare un’espressione certo atecnica ma che rimanda alla pregnante nozione anglosassone di interference with fundamental rights) nel processo penale e per il fatto che un procedimento penale esista e sia portato avanti.
Ma una simile prospettiva rivela, se non vado errato, un secondo e ancor più fecondo livello di approfondimento, che rivela l’enorme potenziale del quesito posto. In effetti, proprio la giurisprudenza europea dell’ultimo quarto di secolo ha contribuito, forse come nessun altro organo giurisdizionale in Europa, a un radicale cambio di concezione del modo d’intendere il fair trial, quale risultante persino dallo statutory ECHR law. Una concezione, quella evolutasi nella giurisprudenza di Strasburgo, fondata su un approccio globale alla fairness processuale, che fa di una simile nozione un formidabile prisma per guardare non solo alle dinamiche relative ai rapporti tra le fasi e i gradi del medesimo procedimento ma anche e soprattutto ai complessi nessi relazionali che s’instaurano tra le situazioni soggettive concernenti tutti i soggetti coinvolti nell’accertamento penale. Del resto, il confronto con le versioni linguistiche di altre Carte internazionali dei diritti evidenzia come l’international human rights law riconosca finanche alla persona accusata non tanto il diritto a un fair hearing, inteso quale diritto all’udienza e a un processo equo nei suoi confronti, quanto, e in maniera più significativa, il diritto a un procedimento complessivamente fair: il quale può considerarsi tale solo se è in grado di porsi quale luogo di bilanciamento degli interessi e diritti fondamentali – e con ciò autenticamente luogo di ascolto della voce – di tutte le persone in esso coinvolte. Se il processo penale può reputarsi, come efficacemente si sostiene, il barometro forse più eloquente del grado di civiltà di un popolo in un determinato contesto culturale ed epoca storica, la complessità dell’accertamento penale riflette oggi le nuove problematiche che la società moderna deve affrontare specie in un Paese, come il nostro, inserito in un’area fisiologicamente interculturale, quale quella dell’Unione: problematiche connesse precipuamente alla elevatissima mobilità delle persone e alla globalizzazione delle comunicazioni e delle attività economiche, facilitate dalla galoppante evoluzione della tecnologia e della scienza.
Ciò posto, l’esigenza di tutela delle garanzie dell’imputato nel procedimento penale si converte nel più generale problema della pozione di una parte all’interno di un fenomeno giuridico, qual è appunto il processo, che deve faticosamente cercare di preservare un equilibrio tra le situazioni giuridiche di tutti coloro che vi partecipino per scelta propria, o siano costretti a prendervi parte. Non c’è dubbio che l’accusato è, e continua ad essere, il primo a subire (per riprendere l’antica intuizione carneluttiana) la pena del processo, la sua forza sanzionatoria attuale: dalla quale deve quindi esser tutelato in relazione a tutte le misure e attività investigative che hanno un’immediata incidenza sui suoi diritti individuali. Ma non è il solo, anzi oggi la carica afflittiva del processo penale si manifesta in forma sempre più evidente e pervasiva nei confronti di una cerchia esponenzialmente crescente di destinatari. Basti pensare all’uso dei malwares per una serie di eterogenee attività investigative, che vengono ad oggi in larga misura ricondotte alla nebulosa e multiforme figura della perquisizione online; e oggi al delicatissimo tema delle intercettazioni mediante captatore informatico inoculato in un dispositivo mobile, che appunto per ciò riesce a captare un numero di conversazioni per definizione non preventivabile a priori. Eppure proprio la Corte europea – trattando delle condizioni qualitative che il fondamentale requisito della lawfulness deve rispettare anche e soprattutto nell’ambito delle intercettazioni di comunicazioni – ha rimarcato la necessità di definire la cerchia dei soggetti il cui diritto alla sfera privata può venir compromesso mediante tali attività d’indagine (Kruslin c. Francia).
Un’attenta analisi dell’evoluzione delle tecniche investigative, attraverso il prisma della giurisprudenza europea, potrebbe anzi portarci a riflettere sul senso della tradizionale distinzione tra parte e terzo in un contesto giuridico così complesso, come il processo penale, che mette oggi in crisi la linea di confine tra le due figure, quale risulta da altre esperienze processuali. Fino a quale soglia può oggi spingersi l’indagine penale nella sua capacità d’incidere su diritti individuali? Quali differenze possono apprezzarsi tra l’impatto che il procedimento penale ha sulla parte, e anzitutto sull’imputato, e la sua incidenza sul terzo? Proprio il crescente (in alcuni casi massivo) uso di nuovi mezzi d’indagine mette in luce forme sempre più invasive e occulte d’ingerenza su diritti individuali: forme che difficilmente inquadreremmo nelle classiche coazioni o restrizioni di diritti fondamentali (la dottrina tedesca parla di Grundrechtsseingriffe, esprimendo in modo altrettanto significativo il senso della interference with fundamental rights) e che, laddove dirette contro soggetti non gravati da alcun fumus delicti, risultano ancor più perniciose, e perciò bisognose di contenimento. Del resto, chi può oggi considerarsi autenticamente terzo in un sistema di giustizia penale così invasivo e pervasivo? Chi può ritenersi non partecipare alla sofferenza e ai rischi che l’accertamento penale comporta, pur non rivestendo la qualifica formale di parte e quand’anche non sia direttamente coinvolto da misure o attività processuali?
Anche in questo la giurisprudenza europea mi sembra possa insegnarci molto e molto possa ancora dire. Il pensiero corre all’attenta considerazione che la Corte di Strasburgo ha da decenni rivolto alla tutela del familiare (il next of kin) di particolari categorie di dichiaranti, quale ad esempio l’agente sottocopertura. Ed è significativo che proprio la necessità di ridurre i rischi di ripercussioni su diritti fondamentali di terzi abbiano condotto i giudici europei a ridefinire il volto di un diritto fondamentale ancora formalmente riconosciuto alla persona accusata in materia penale, quale il diritto al confronto tra accusato e accusatore. Dall’evoluzione della giurisprudenza di Strasburgo emerge così il poderoso sforzo finalizzato alla ricostruzione di un diritto fondamentale, riconosciuto non solo dal diritto internazionale ma anche dal diritto costituzionale di vari Paesi (non a caso, oltre che in Italia, il right to confrontation è consacrato dal Sesto Emendamento della Costituzione statunitense), nell’ottica di una complessiva considerazione di tutti gli interessi in gioco, e in particolare dei beni primari che possono essere compromessi da una cross-examination dibattimentale. Emblematica la virata giurisprudenziale realizzatasi a partire dalla storica sentenza della Grande Camera nei casi riuniti Al-Khawaja e Tahery c. Regno Unito: una virata giunta a conclusione di un braccio di ferro con la Corte suprema britannica, la quale diede un contributo decisivo a un cambio giurisprudenziale che, comunque lo si voglia leggere, ha condotto a un’ulteriore e ancor più significativa valorizzazione della voce della vittima e di tutti quei soggetti portatori di conoscenze non replicabili a giudizio. È peraltro significativo notare che il filone giurisprudenziale che da quella sentenza prese avvio, e che avrebbe avuto un’incidenza enorme su diversi sistemi di giustizia penale (quale l’italiano, coi casi Ben Moumen e Cafagna), non ha però portato la Corte europea a rinnegare la sole and decisive evidence doctrine, eretta per anni e in una varietà di situazioni a baluardo della delicata decisione concernente la responsabilità penale dell’accusato. Ma il lavoro della giurisprudenza europea in un ambito così complesso è tutt’altro che concluso: e così, nonostante l’estensione della Al-Khawaja doctrine al non meno impervio terreno della testimonianza anonima e nonostante un nuovo intervento della Grande Camera (nella sentenza Schatschaschwili c. Germania), non mi sembra ci sia ancora sufficiente chiarezza su ciò che debba intendersi per quei meccanismi compensativi del deficit di contraddittorio (counterbalancing factors) che possono consentire un temperamento del divieto di uso escluso o prevalente della untested evidence e assicurare la parità di armi tra le parti processuali, preservando la complessiva equità del procedimento penale. Un parametro, quello dei meccanismi compensativi, che può portare (e in diversi casi mi sembra abbia chiaramente portato) a pericolosi fenomeni d’indebolimento della tutela di diritti fondamentali, specie in casi aventi dimensione transnazionale.
Del resto sfide non meno difficili – e anch’esse legate alla necessità di una considerazione complessiva delle singole vicende processuali alla luce di interessi di tutti i soggetti coinvolti nell’accertamento penale – attendono la Corte europea pure con riguardo a un diritto fondamentale, quale quello espresso dal divieto di bis in idem, che pur sembrerebbe riflettere un’esigenza di tutela del solo accusato (significativamente nella sistematica del codice Rocco tale garanzia essenziale si trovava annoverata tra le previsioni concernenti l’imputato). Né l’esigenza di superare una visione accusato-centrica, per così dire, del diritto a non essere esposto a multiple persecuzioni penali risulta essere attenuata dalla concezione sostanzialistica di tale garanzia abbracciata dalla Corte europea: la quale concezione, pur con le aperture di recenti pronunce (da A e B c. Norvegia a Nodet c. Francia) mira ad assicurare un coordinamento delle risposte sanzionatorie provenienti da procedimenti di natura diversa, evitando così di far gravare sulla stessa persona una pluralità di soluzioni afflittive tra loro sconnesse ed eccessivamente onerose. In questo quadro – e al di là di tutte le perplessità che l’impostazione adottata da tale decisione solleva – un aspetto di grande importanza, che certo meriterà ulteriore approfondimento in futuri interventi giurisprudenziali, concerne la considerazione della capacità del procedimento non penale di tutelare adeguatamente e dar voce così a tutti quei soggetti coinvolti, i cui interessi e diritti fondamentali devono essere preservati in un processo penale che voglia dirsi autenticamente equo: a cominciare dalla persona offesa, sulla scia dell’attenzione rivolta anche dalla giurisprudenza di Lussemburgo alla vittima e al testimone proprio in alcune vicende giudiziarie riguardanti il ne bis in idem transnazionale (ad es., nella sentenza Kossowski). Forse la tesi della internationale Arbeitsteilung, elaborata dalla dottrina tedesca (Schomburg & Lagodny) per irrobustire la posizione della persona coinvolta nelle procedure di cooperazione giudiziaria internazionale, può fornire un interessante modello metodologico per una virtuosa divisione dei compiti e delle responsabilità tra le autorità competenti per procedimenti di natura diversa sulla eadem res, al fine di realizzare un coordinamento sempre orientato alla massima tutela di tutti coloro che a tali procedimenti sono chiamati a partecipare.
Roberto E. Kostoris
Come noto, la Cedu è più volte richiamata dal diritto dell’Unione europea.
Anzitutto attraverso la Carta dei diritti fondamentali (Carta di Nizza), che è fonte di diritto primario UE, l’Unione europea si è dotata di un testo dai contenuti pressoché equivalenti alla Cedu. Dal canto suo, l’art.6 TUE dispone che “i diritti fondamentali garantiti dalla Cedu e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”. Da ciò si era tratta la conclusione che in tal modo la Cedu si fosse ‘comunitarizzata’: una conclusione tecnicamente errata, perché l’area applicativa sia dell’art.6, sia della Carta dei diritti fondamentali resta circoscritta al solo diritto dell’Unione. La Cedu come atto in sé, almeno fintanto che l’Unione non vi avrà aderito (se mai vi aderirà), non può dirsi conseguentemente ‘comunitarizzata’ e quindi non si vede attribuite le caratteristiche di primazia del diritto UE, tra le quali, in primis, l’obbligo per il giudice nazionale di disapplicare le norme interne incompatibili. Indubbiamente però i contenuti dei diritti Cedu rientrano nel diritto dell’Unione. Ciò significa che le stesse garanzie sono riconosciute da due sistemi giuridici diversi: il diritto Cedu e il diritto dell’Unione, per quanto più specificamente ci interssa per il tramite della Carta di Nizza e sono conseguentemente gestite da due diversi sistemi di tutela, quello che fa capo alla Corte edu e quello che fa capo alla Corte di giustizia.
Qui sta un primo nodo problematico. Queste due diverse Corti non solo impiegano strumenti e procedure differenti per assicurare il rispetto dei diritti umani, ma, prima ancora, hanno esse stesse funzioni e obiettivi diversi. La Corte edu è infatti una Corte dei diritti umani: la sua funzione è quella di verificare il loro rispetto effettivo da parte dei vari Stati parte nell’ambito dei rispettivi ordinamenti. Il suo controllo è dunque di tipo “esterno” e presenta una naturale vocazione accertativa, il chè ha favorito la tendenza al riscontro di un alto numero di violazioni convenzionali. La Corte di giustizia si presenta invece come una Corte di integrazione europea; per questo tende a proteggere le posizioni giuridiche non in quanto tali, ma in funzione della realizzazione degli obiettivi comunitari, come l’effettività, la primazia e l’autonomia dell’ordinamento comunitario. Il suo è un controllo “interno” al sistema, e, dunque, a vocazione più conservativa.
Questa doppia giurisdizione sui diritti Cedu ha inevitabilmente sviluppato diverse declinazioni interpretative di una stessa materia, funzionali a sistemi giuridici diversi, che ha generato anche problemi di interferenza tra le giurisdizioni delle due Corti. Questi ultimi hanno alla fine trovato una soluzione di componimento con la “dottrina Bosphorus” (C. edu 30/6/2005 Bosphorus c. Irlanda), dove la Corte edu, pur ritenendosi astrattamente competente a giudicare la violazione dei diritti umani anche in materie di diritto dell’Unione, ha elaborato la tesi c.d. dell’”equivalenza”, secondo la quale “se l’organizzazione internazionale accorda ai diritti fondamentali una protezione sostanziale e processuale almeno equivalente a quella offerta dalla Cedu, ciò la esime dall’esercitare il suo sindacato”, concludendo, su quella base, che il sistema eurounitario di protezione dei diritti umani garantisse complessivamente tale condizione: una presunzione determinata certo dalla scelta politica di non voler intralciare il percorso di integrazione europea, non abdicando, al contempo, alle proprie prerogative istituzionali, che apriva comunque la via a un rapporto di crescente dialogo e interazione tra le due Corti europee e gli auspici di un “interpretazione parallela” da parte delle stesse dei diritti Cedu e dei diritti “corrispondenti”contenuti nella Carta di Nizza.
Per quanto riguarda invece il problema di fondo rappresentato dalla diversità di contesti in cui quei medesimi diritti si trovano ad operare, va ricordato che lo stesso art. 52.1 Carta di Nizza, per evitare che il principio di equivalenza tra diritti assicurati dalla Carta e diritti assicurati dalla Cedu possa in certi casi portare a vanificare gli obiettivi dell’Unione, consente al legislatore eurounitario di prevedere “eventuali limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla Carta”, sia pure nel rigoroso rispetto del principio di proporzionalità.
Ancora più significativa si è rivelata in proposito la gestione da parte della Corte di giustizia del principio c.d. della maggior tutela, secondo il quale nessuna disposizione della Carta può essere interpretata come limitativa o lesiva dei diritti riconosciuti, non solo dall’Unione e dalla Cedu, ma anche dalle Costituzioni degli Stati membri (art. 53). Tale principio, che è presente pure nella Cedu (art.53), e che, in quel contesto, sembra operare in sostanziale consonanza con gli obiettivi convenzionali, nell’ordinamento dell’Unione presenta sicuramente una maggior problematicità di attuazione, perché si deve coordinare con il principio del primato, dell’unità e dell’effettività del diritto eurounitario. Problematicità che è emersa con evidenza nel noto caso Melloni (C.giust. 26/2/2013, C-399/11 Melloni), dove si è affermato che il principio della prevalenza dello standard più elevato di tutela non autorizza a far prevalere in modo generalizzato le maggiori garanzie previste dalle Costituzioni nazionali quando ciò permetterebbe ad uno Stato membro di ostacolare l’applicazione di atti giuridici dell’Unione conformi alla Carta: una situazione questa che si può verificare con una certa frequenza. Al fondo di una simile impostazione sembra esserci l’idea che conta di più l’uniformizzazione (inevitabilmente attestata – anche qui – sui livelli più bassi di tutela) perché risponde all’esigenza di rendere più facilmente conseguibile un obiettivo primario dell’Unione come l’efficienza della cooperazione giudiziaria e del mutuo riconoscimento, che il grado e l’intensità delle tutele. In questa prospettiva, garanzie più elevate rischiano, nonostante il principio di maggior tutela, di diventare inopponibili quando venga in gioco una parallela garanzia europea di livello inferiore. Un trend che può rischiare di mettere in crisi la stessa possibilità di riconoscere uno spazio operativo ai c.d. contro-limiti nazionali. Un rischio che proprio da noi si è cominciato a toccare direttamente con mano nel notissimo caso Taricco e che è stato disinnescato solo dalla pronta reazione della nostra Corte costituzionale.
Tutto ciò insegna che il confine tra la prevalenza del principio della maggior tutela (fosse anche quella dei principi nucleari di un ordinamento nazionale, come i contro-limiti) e la prevalenza del principio del primato, dell’unità e dell’effettività del diritto dell’Unione è comunque mobile e flessibile, essendo spesso determinato da scelte di bilanciamento delle Corti di vertice dettate da ragioni politiche. Il diritto dell’Unione – e quindi le garanzie della Carta – si trovano insomma di fronte a un problema ignoto al diritto Cedu e alle sue garanzie: far coesistere le diversità degli ordinamenti degli Stati aderenti con l’unità e la primazia dell’ordinamento eurounitario al quale quegli stessi Stati hanno conferito porzioni della loro sovranità.
Stefano Ruggeri
La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea notoriamente attinge a piene mani all’eredità culturale della Convenzione europea; e uno sguardo alla normativa secondaria, a partire da quella che ha dato attuazione al Programma di Stoccolma, basta a confermare largamente questa conclusione. L’ECHR law è costantemente richiamato nella definizione a livello sovrannazionale di garanzie essenziali (dalla nozione di accusa in materia penale al diritto d’informazione, al diritto dell’imputato di esser presente a processo): e con esso, in particolare lo ius (che qui forse come mai è da intendere come estratto) sedimentato dall’esperienza giurisprudenziale di Strasburgo.
Ma l’EU law non ha semplicemente travasato in testi normativi, né la Carta UE dei diritti fondamentali si è limitata a recepire ed elevare al rango di diritto primario, un novero consistente di garanzie convenzionali della CEDU. Anche lì dove è più visibilmente apprezzabile una linea di continuità culturale tra i due ordinamenti, il risultato è ben più complesso di quel che appare a primo acchito. Per la sua stessa natura e vocazione, la Carta di Nizza-Strasburgo, in particolare, proietta i diritti fondamentali in una dimensione fisiologicamente transnazionale e in larga misura addirittura a-frontaliera, conferendo loro una portata pressoché paneuropea che non sempre è possibile apprezzare nel sistema CEDU, specie quando sono in gioco diritti inerenti all’equità procedimentale. In effetti, nonostante l’esiguità delle decisioni concernenti situazioni aventi dimensione transnazionale, l’evoluzione della giurisprudenza di Strasburgo, fin dai primi casi trattati dalla Commissione europea dei diritti dell’uomo, mostra le difficoltà che essa ha dovuto affrontare per superare una concezione territoriale e ancorata a singole giurisdizioni nazionali delle garanzie convenzionali. Il self-restraint che emerge dalla scelta di adottare un parametro in sé discutibile, quale quello del flagrant denial of justice (Drozd & Janousek c. Francia e Spagna, in linea con la sentenza Soering c. Regno Unito), evidenzia chiaramente quelle difficoltà, e lo sforzo vòlto a responsabilizzare gli Stati parte nell’assicurare il rispetto di fair trial rights in relazione a procedimenti complessi nei quali condotte idonee a ledere garanzie convenzionali sono state messe in atto o rischiano di essere messe in atto da autorità estere. Uno sforzo accentuatosi in più recenti pronunce, nelle quali i giudici di Strasburgo hanno rafforzato l’obbligo di ogni Paese contraente di realizzare una disamina preventiva del diritto straniero al fine di prevenire violazioni convenzionali extra limina (ad es., in Ilaşcu et al. c. Moldova e Russia). E sebbene la Corte europea non sia finora arrivata a sanzionare alcuno Stato per il fatto di non aver evitato violazioni di giusto processo da parte di un altro Paese, in Mamatkulov e Abdrurasulovic c. Turchia essa ha ipotizzato chiaramente questo scenario, spianando così la strada per futuri sviluppi in questa direzione.
Un simile risultato però non sempre è conseguibile, per via di limiti tracciati dallo stesso ECHR law. Così proprio nel delicato ambito del divieto di bis in idem già la Commissione europea aveva sottolineato in un caso riguardante l’Italia (Gestra c. Italia) come la formulazione dell’art. 4 del Protocollo VII non lasciasse spazio per interpretazioni di questa fondamentale garanzia in prospettiva transnazionale. Impostazione confermata dalla Corte in successive pronunce, in particolare nella decisione Krombach c. Francia, nella quale, pur dichiarando l’inammissibilità del ricorso, essa ha peraltro rimarcato la necessità di non arrestare la soglia di garanzia a quanto previsto dal solo diritto CEDU, che non esime gli Stati contraenti dagli obblighi che per essi derivano dal diritto dell’Unione o da strumenti di diritto internazionale, vòlti a rafforzare la tutela degli stessi diritti e delle libertà garantite dalla Convenzione. Il che, se non vado errato, dà prova dell’attenzione che i giudici di Strasburgo ancora una volta hanno rivolto all’esigenza di un’interpretazione sistematica delle garanzie convenzionali, e in fondo alla loro vocazione espansiva, persino lì dove, come nella fattispecie, il diritto scritto pone chiari limiti applicativi.
Sennonché sul fronte eurounitario la portata naturalmente transnazionale delle garanzie processuali non necessariamente comporta una “wider legal protection”, e in ogni caso pone le autorità nazionali e soprattutto la Corte di Lussemburgo di fronte a problemi ricostruttivi di difficile risoluzione. Il terreno del ne bis in idem fornisce nuovamente un significativo banco di prova: se indubbio è il contributo che anche i giudici di Lussemburgo hanno dato negli ultimi anni al riconoscimento della legittimità del doppio binario sanzionatorio, perimetrandone al contempo i confini, le difficoltà aumentano esponenzialmente in prospettiva transnazionale in relazione alla definizione della natura dei provvedimenti cui sia da riconoscere forza preclusiva nei confronti di ulteriori iniziative processuali in altri Stati membri. Qualunque approccio restrittivo rischia infatti di frustrare il principio del riconoscimento reciproco che, anche nella sua più recente versione temperata, rimane la cornerstone della cooperazione giudiziaria tra gli Stati UE, e la cui capacità precettiva si rafforza proprio lì dove un dato provvedimento decisorio (e il relativo procedimento) non esiste, o non esiste negli stessi termini, nel diritto dello Stato di esecuzione. Nella sua essenza il principio del mutuo riconoscimento riflette insomma una chiara aspirazione alla tolleranza, all’accettazione della diversità della cultura giuridica di un altro Paese dell’Unione, purché ovviamente ciò non importi un abbassamento degli standard di garanzie i quali soli possono fare dell’area UE un autentico spazio di libertà, sicurezza e giustizia. Ma quest’accettazione non può tradursi in una blind trust, e richiede anzitutto una compiuta conoscenza di ciò che merita riconoscimento. La difficoltà sta proprio nella comprensione della cultura giuridica altrui, e ad essa non è estranea la stessa Corte di Lussemburgo che ha dovuto affrontare complesse indagini ricostruttive per definire se e in che misura un dato provvedimento all’interno del procedimento penale (ad es. una conclusione archiviativa del procedimento, specie se di competenza del pubblico ministero) o addirittura in un procedimento dalla diversa natura (ad es., una conclusione negoziata davanti a un’autorità non giurisdizionale, come la transactie in Belgio o Paesi Bassi) sia da intendere come dotata di portata decisoria tale da potere precludere successive persecuzioni penali in altri Stati membri: valutando la posizione ordinamentale dell’organo competente (specie se si tratta un organo non rientrante nella magistratura e non dotato della funzione di ius dicere), se l’accertamento si sia esteso ai merits of the case, e così via (cfr. Gözütok e Brügge, Miraglia, Gasparini, ecc.).
È verosimile che le soluzioni che emergono dalla giurisprudenza di Lussemburgo siano da aggiornare in ragione dell’evoluzione dei sistemi europei di giustizia penale. Ma un approccio orientato alle specificità dei casi concreti, se oculatamente condotto, è la risposta più sapiente per affinare ed estendere le soglie di tutela di diritti individuali, la cui definizione è illusorio poter affidare una volta per tutte alla legge scritta. E lo conferma il fatto che il poderoso sforzo di armonizzazione normativa compiuto negli ultimi anni dalle istituzioni dell’Unione per rafforzare alcune garanzie processuali essenziali, pur lì dove è stato chiaramente ispirato dall’intento di dare attuazione a previsioni fondamentali consacrate dalla Carta di Nizza-Strasburgo, non sempre ha prodotto un effettivo irrobustimento della tutela individuale rispetto agli standard raggiunti dall’ECHR law. Emblematico il problema delle procedure in absentia. Uno sguardo all’evoluzione della disciplina UE dalla Decisione-quadro 2009/299/GAI alla Direttiva 2016/343/UE, e in particolare alla genesi di quest’ultimo provvedimento normativo, rivela una chiara tendenza a prosciugare, se così può dirsi, garanzie fondamentali sedimentate nella giurisprudenza europea in decenni, sclerotizzandole in formule che annidano considerevoli rischi per la persona imputata. Così, per esempio, prevedere che basti a salvare la fairness di un procedimento in absentia la presenza di un legale, quantunque non nominato dall’imputato, una volta che questi sia stato informato del procedimento personalmente o mediante altro mezzo stabilito dalla legge: insomma, prevedere che la presenza dell’imputato possa essere surrogata dalla comparizione di un difensore sfornito di qualunque nomina fiduciaria può finire per legittimare il mantenimento o la reintroduzione di procedure contumaciali, nella loro versione più illiberale. Del resto, lo sforzo di armonizzazione prodotto dalla Direttiva 2016/343/UE in questa delicatissima problematica ha condotto a un approccio minimalista che risulta deludente anche con riguardo ai requisiti che per il legislatore eurounitario dovrebbero garantire la conoscenza del procedimento e, con esso, dell’accusa in materia penale, requisiti che comprendono anche un’adeguata informazione circa le conseguenze della scelta per l’imputato di rimanere assente dalla scena processuale. E l’assenza di qualsivoglia indicazione normativa al riguardo sembra così allontanare la disciplina attuale non solo da quelle condizioni qualitative più volte sottolineate dalla Corte di Strasburgo (ad es., in Jones c. Regno Unito) ma anche dall’esigenza di una conoscenza ufficiale, soluzione ormai riconosciuta dalla giurisprudenza di Lussemburgo con riguardo alle ipotesi in cui il problema dell’assenza dell’imputato s’iscriva all’interno di un procedimento di consegna internazionale (Dworzecki).
3. Quali sono i principi guida sul tema dell’esecuzione delle sentenze della Corte edu in materia penale a livello interno e nei confronti di soggetti diversi da quelli che hanno agito a Strasburgo?
Roberto E. Kostoris
Nel prevedere che “Le Alte Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte nelle controversie nelle quali sono parti”, l’art. 46 Cedu pone un preciso obbligo dello Stato di dare esecuzione alle decisioni di condanna della Corte edu che abbiano riconosciuto la violazione da parte sua di uno dei diritti garantiti dalla Convenzione. Si tratta dell’unico obbligo esplicitamente menzionato nel testo della Cedu. Esso può riguardare il caso deciso in senso stretto, perché la Corte ha censurato il comportamento dello Stato e dei suoi organi limitatamente a una specifica e isolata vicenda giudiziaria, o può interessare in senso più ampio le carenze strutturali di un ordinamento statale, delle quali la concreta vicenda giudiziaria portata all’attenzione della Corte non rappresenta che una diretta conseguenza.
Mentre in quest’ultimo caso, attraverso una sentenza (o meglio, una procedura) “pilota” è la stessa Corte edu a indicare allo Stato condannato le “concrete misure di carattere generale” (inclusa se del caso la modifica di una certa prassi interpretativa) da adottare per porre rimedio al difetto sistemico denunciato e per impedire così il futuro reiterarsi della violazione, nel primo caso, come ha precisato la stessa Corte edu (13/7/2000, Scozzari e Giunta c. Italia), allo Stato condannato incombe solo un “obbligo di risultato”, nel senso che egli è libero – sotto il controllo del Comitato dei Ministri, a cui spetta la supervisione dell’ottemperanze alle sentenze di Strasburgo (art. 46 Cedu e Prot. 14 par. 2 e 3) – di scegliere all’interno del proprio ordinamento i mezzi da utilizzare per farvi fronte. Quanto al contenuto di quell’obbligo, l’art. 41 Cedu prevede in via prioritaria che vengano “riparate le conseguenze derivanti dalla violazione”, e, solo se il diritto dello Stato non lo consenta, o lo consenta solo in modo imperfetto, sia accordata dalla Corte edu (ma, per noi, a livello interno in prima battuta dalle Corti d’appello a seguito della “legge Pinto”) un’”equa soddisfazione” economica alla vittima della violazione, “equa soddisfazione” che può anche concorrere con la riparazione.
Concentrando l’attenzione su quest’ultima, a partire dalla Raccomandazione R( 2000) 2 del Comitato dei Ministri, gli Stati sono stati sollecitati a prevedere possibilità appropriate di “riesame del caso, compresa la riapertura del processo”, adottabili quando siano state violate garanzie Cedu sia di tipo penale sostanziale, sia di tipo processuale. E rispetto a queste ultime e, in particolare, rispetto alle violazioni riguardanti l’equità processuale, la Corte edu (sent. 11/12/2007, Cat Berro c. Italia) ha tendenzialmente individuato nella riapertura del processo la forma elettiva di ristoro.
La particolare delicatezza dell’operazione è dovuta al fatto che per riesaminare il caso e riaprire il processo occorre superare un giudicato penale interno. La sostanziale latitanza del nostro legislatore – tuttora perdurante - aveva indotto in un primo tempo la nostra giurisprudenza di legittimità a farsi meritoriamente carico del problema, elaborando soluzioni pretorie fortemente creative, ma non immuni da palesi forzature sistematiche; poi, come noto, è intervenuta la Corte cost. (sent. 113/2011) con una pronuncia additiva, che ha ‘aggiunto’ alla revisione ordinaria prevista dall’art. 630 c.p.p. una nuova – e del tutto atipica -forma di revisione ‘europea’, (che della revisione classica conserva, per la verità, ben poco), volta a consentire la riapertura del processo per conformarsi a una sentenza di condanna della Corte edu che abbia accertato una violazione dell’equità processuale. Una revisione ovviamente non orientata, come quella ordinaria, a ottenere un esito proscioglitivo, ma solamente la restitutio in integrum a favore della vittima, consistente – per usare le parole della stessa Corte edu - nel porre quest’ultima “in una situazione equivalente a quella in cui si sarebbe trovata se la violazione non fosse intervenuta” (sent. 17/9/2009, Scoppola c.Italia). E, soprattutto, una revisione capace di estrinsecarsi nelle forme applicative più diverse, quindi dotata della massima flessibilità, per adattarsi alle peculiarità del caso, cioè al tipo di violazione riscontrata, lasciando al giudice – a cui è affidata la gestione concreta di questo rimedio - il compito di valutare, di volta in volta, quale soluzione applicare. In questa prospettiva, la riapertura del processo, che, oltretutto, può essere finalizzata anche solo al compimento di singoli atti, non costituisce un esito obbligato, ma va impiegata solo quando appaia necessaria per sanare le conseguenze della violazione (Corte cost. sent. 113/2011). Ciò non accadrebbe quando il risultato della restitutio in integrum possa essere garantito in altro modo: si pensi al caso dell’immediata liberazione di chi risulti ingiustamente detenuto.
Dal canto suo, la riapertura del processo pone il problema – lasciato aperto dall’affermazione della Consulta che quest’ipotesi di revisione “comporta una deroga – imposta dall’esigenza di rispetto di obblighi internazionali- al principio per cui i vizi processuali restano coperti dal giudicato” - di verificare in quali termini le violazioni convenzionali di iniquità processuale – che implicano una valutazione concreta del caso considerato nella sua globalità – possano ridondare in violazioni processuali secondo le regole interne, che presuppongono invece la mancata integrazione di specifiche fattispecie nel quadro di un sistema chiuso di invalidità.
A questo proposito, potrebbe essere opportuno distinguere tra violazioni probatorie e violazioni difensive. Quanto alle prime, il pensiero può correre al caso di dichiarazioni non ripetibili rese fuori del contraddittorio con la difesa: pienamente utilizzabili secondo la nostra disciplina interna; utilizzabili solo se abbiano avuto un peso non “determinante” secondo la giurisprudenza europea. Una condanna per iniquità processuale a tale riguardo dovrebbe comportare solo il ripristino del canone violato, convertendosi sul piano interno in una regola di valutazione della prova: il giudice sarebbe cioè vincolato solo a non basare il suo convincimento in modo decisivo su quegli elementi.
Assai più complessa, invece, la soluzione per le violazioni difensive, posto che è proprio a tale proposito che si registrano le maggiori frizioni ‘strutturali’ tra regole interne e regole convenzionali: da un lato ci troviamo, infatti, di fronte alla violazione di “diritti” lesi ‘in concreto’ secondo l’approccio sostanziale/fattuale ricordato, dall’altro di fronte a invalidità corrispondenti alla mancata integrazione di una fattispecie, cioè di un modello legislativo astratto, non dimenticando che, in questo contesto, le violazioni difensive o ridondano in cause di nullità, o non presentano alcuna rilevanza invalidante e che, dal canto loro, le nullità, che formano un sistema chiuso e sono tradizionalmente insensibili al concetto di lesività concreta. La situazione all’evidenza più complessa si potrebbe verificare quando l’iniquità rilevata dalla Corte edu non trovi rispondenza in vizi processuali secondo la legge interna: il giudice nazionale ha proceduto ritualmente, ma cionondimeno si è consumata una situazione ‘concretamente’ lesiva dei diritti della difesa secondo la Corte edu. Qualcuno ritiene che, facendo parte la Cedu del nostro ordinamento a seguito delle leggi di ratifica ed esecuzione, occorrerebbe ritenere le norme interne integrate dai precetti europei, giungendo a sostenere su questa base che la forza precettiva dell’art. 187 c.p.p. si completerebbe alla luce dell’art.6 Cedu, ‘così come interpretato’ da Strasburgo. Tesi suggestiva, ma difficilmente governabile, perché estendere l’ambito delle nullità a situazioni non tipiche purchè concretamente lesive colpirebbe al cuore il principio di tassatività, aprendo la porta alla più assoluta incertezza applicativa. Né si potrebbe pensare che il rimedio consista nella semplice somministrazione in via equitativa da parte del giudice della riapertura della provvidenza negata, senza eliminare le conseguenze negative che la sua mancanza ha riverberato sul processo e che sono caducabili secondo le regole interne solo attraverso il meccanismo dell’invalidità (principale o derivata). Il rimedio, comunque complesso e oneroso, resterebbe quello di sollevare di volta in volta questione di legittimità costituzionale ex art. 117 Cost. della norma considerata nella parte in cui per mancanza di una previsione di nullità impedisca un pieno ripristino dell’equità violata. Il chè dà un saggio delle difficoltà applicative a cui può dar luogo la revisione europea.
Quando invece venga in gioco la violazione di garanzie penali sostanziali, non occorrerebbe procedere attraverso un simile strumento, essendo sufficiente, se la legge già consenta di ottenere l’effetto sperato, come nel caso in cui vada solo modificato il trattamento sanzionatorio, intervenire sul titolo esecutivo con incidente di esecuzione.
In questa cornice di riferimento si può, infine, esaminare la possibilità di dare esecuzione alle sentenze di condanna della Corte europea anche nei confronti di soggetti diversi dal ricorrente vittorioso a Strasburgo che si trovino però nella sua identica situazione (quelli che vengono chiamati i suoi “fratelli minori”).
Sul punto la nostra giurisprudenza è stata altalenante, anche negli interventi delle Sezioni Unite.
Credo però che convenga non tanto inoltrarsi nei meandri dei casi affrontati, quanto piuttosto ragionare per problemi generali.
a) Anzitutto occorre porre in evidenza che anche a questo proposito ci ritroviamo di fronte a un problema di incontro/scontro tra logiche e valori di diversa matrice: da una parte, la fissità del giudicato unita ad un’interpretazione restrittiva dell’obbligo dello Stato condannato di ottemperare alle sentenze della Corte edu: entrambi aspetti che tutelano il valore della sovranità statuale; dall’altro, una concezione sostanziale dell’ “ingiustizia” che deriverebbe dal fatto di non estendere il dictum europeo a posizioni identiche, formalmente diverse solo per il fatto di non riguardare soggetti che sono ricorsi davanti alla Corte edu: obiettivo quest’ultimo in linea invece con i valori della tutela effettiva delle garanzie propria della giurisprudenza di Strasburgo, e di cui si coglie anche una traccia normativa nell’art. 61 reg. Cedu.
In questo caso la particolarità sta nel fatto che il bilanciamento tra questi valori sfugge alla Corte edu, che si pronuncia solo di fronte a ricorsi individuali e, quindi, si trova di fronte solo soggetti ricorrenti, ma compete invece ai nostri giudici interni, davanti ai quali soltanto hanno possibilità di dolersi i c.d. “fratelli minori”. Questi giudici sono tenuti però, nel dare soluzione al problema, che è un problema di ambito di ottemperanza a un giudicato di Strasburgo, ad adottare criteri interpretativi convenzionalmente orientati.
b) In tale prospettiva, la logica sostanziale a cui si informa il diritto Cedu impone di ritenere che, di fronte alla palese ingiustizia che deriverebbe da un diverso trattamento in presenza di un’assoluta identità di situazioni, il giudicato interno diventi recessivo anche rispetto ai titolari delle medesime, cioè ai “fratelli minori”. E’ un passaggio importante, perché estende a tali situazioni l’obbligo dello Stato di conformarsi alle sentenze di condanna della Corte edu (art. 46 Cedu).
c) Resta però da chiarire quali siano le condizioni richieste per una simile operazione e quali strumenti operativi siano utilizzabili per realizzarla.
Sotto il primo aspetto, si faceva cenno a un’ identità di posizioni, posto che, diversamente, sarebbe necessario un nuovo ricorso a Strasburgo. Come misurare però tale identità’? La premessa – che esprime un’evidente tautologia, ma che è utile come spesso lo sono le tautologie – è che si tratti di una situazione che non sia esclusiva del ricorrente, ma che dipenda, dunque, da un problema più generale/strutturale di più o meno ampia portata dell’ordinamento. Di qui il quesito se la estensibilità ai “fratelli minori” degli effetti della sentenza europea presupponga che quest’ultima presenti i caratteri di una sentenza pilota e sia stata emessa in esito alla relativa procedura, o se essa, pur non assumendo formalmente questa veste, abbia comunque segnalato il carattere generale della violazione riscontrata (cfr. l’art. 61 reg. Cedu. e, da ultima, Cass. Sez.Unite, 24/10/2019 n. 1168 sul caso Contrada). Indubbiamente, tali condizioni ‘certificherebbero’ ufficialmente la presenza del problema strutturale, semplificando il compito del giudice interno. Ma non è detto che la Corte edu possa avere sempre una precisa percezione del carattere più generale del problema, il quale potrebbe emergere nelle sue reali dimensioni anche in tempi successivi alla sua pronuncia. Quest’ultima prospettiva non è presa in considerazione dalla giurisprudenza, che, nelle sue posizioni di maggior apertura sul tema (Cass. Sez.Unite 19/4/2012, Ercolano), richiede comunque che la sentenza sia qualificata come pilota per estendere il giudicato europeo ai “fratelli minori”. E’ una scelta che certamente privilegia il valore dell’intangibilità del giudicato interno, ma che può pregiudicare le esigenze di giustizia sostanziale che si vogliono tutelare.
La giurisprudenza favorevole all’estensione dell’efficacia del dictum europeo ai “fratelli minori” tende a richiedere anche che esso sia espressione di un “orientamento consolidato”. E’ comprensibile che non si voglia rischiare di travolgere un numero indefinito di giudicati interni sulla base di decisioni della Corte edu prive di precedenti ed esposte a mutamenti di giurisprudenza. Ma va rilevato che il requisito del consolidamento giurisprudenziale – che comunque non è mai stato definito in modo sufficientemente appagante (la Corte costituzionale ne ha fornito solo delle esemplificazioni nella sent. 49/2015) – non è richiesto per eseguire una singola sentenza di condanna della Corte edu; diventa allora arbitrario pretenderlo per ottemperare a un obbligo che – come quello di cui stiamo discutendo - si ponga in diretta dipendenza da essa. Per di più, quel requisito sembra quasi confliggere con l’altro requisito richiesto, costituito dal carattere pilota della sentenza. Le sentenze pilota implicano un obbligo per lo Stato di eliminare il difetto strutturale rilevato, obbligo la cui esecuzione viene strettamente monitorata. Non di rado è sufficiente, dunque, una sola sentenza pilota per ottenere il risultato voluto, senza la necessità di farvi seguire altre condanne tali da poter dar luogo a un ‘orientamento consolidato’. Anzi, va rilevato che le sentenze pilota mirano proprio a evitare il ripetersi di violazioni seriali; esse sono dunque funzionalmente vocate ad escludere il formarsi di un ‘consolidamento giurisprudenziale’. Non sembra casuale, del resto, che i due requisiti del consolidamento giurisprudenziale e del carattere pilota di una decisione della Corte edu siano stati indicati come alternativi e non come cumulativi dalla Corte costituzionale ( sent. 49/2015) al fine di far assurgere alla giurisprudenza di Strasburgo il valore di parametro interposto di costituzionalità o per generare un obbligo di interpretazione conforme.
d) Veniamo infine a qualche considerazione conclusiva sul requisito dell’identità di posizione dei “fratelli minori” rispetto a quella del “fratello maggiore”, ricorrente vittorioso. E’ una situazione che, teoricamente, è riferibile ad ogni violazione dei diritti Cedu. E’ ovvio, però, che, mentre essa è molto più facile da misurare e accertare rispetto a violazioni in materia penale sostanziale (anche se pure su questo versante, come insegna la vicenda Contrada, possono registrarsi pareri assai discordi) , lo è molto meno, se non per nulla, rispetto a quelle processuali che riguardino l’equità del procedere. Simili violazioni, lo si è detto più volte, pur inerendo a princìpi che la Corte non manca di inserire a premessa del suo ragionamento, dipendono in larga misura da valutazioni eminentemente legate alle caratteristiche della concreta vicenda giudiziaria, valutata nel suo complesso anche alla luce di eventuali ‘garanzie compensative’. Tale insieme di circostanze rende pressochè impossibile operare un raffronto tra posizioni che consenta di verificarne l’assoluta ‘identità’. Su questo si deve convenire con il costante orientamento della giurisprudenza.
Alla luce di questi rilievi, occorre dunque concludere che lo strumento tecnico elettivo per superare il giudicato interno rispetto ai “fratelli minori” diventa essenzialmente l’incidente di esecuzione, attraverso il quale si può rimuovere un vizio di natura sostanziale, purchè si tratti, come ha precisato la Cassazione (Sez. Unite, 19/4/2012, Ercolano) di un’ operazione “a rime obbligate”, e non la riapertura del processo mediante ‘revisione europea’, utilizzabile quando siano in gioco violazioni processuali.
Stefano Ruggeri
A fronte di un acclarato contrasto tra una decisione penale e il sistema delle garanzie riconosciute dalla Convenzione, il principale rimedio è notoriamente costituito dalla c.d. “revisione europea”, istituto innestato nel corpo normativo concernente la revisione dalla sent. 113/2011 della Corte costituzionale. Esso non è certamente l’unico rimedio, dato che ad es. la strada della rescissione del giudicato può essere battuta anche nelle ipotesi di violazioni convenzionali, sia pur nello specifico ambito applicativo di questa peculiare impugnazione. Ma, a parte tali rimedi impugnatori, manca ad oggi una disciplina organica che in sede di cognizione contempli uno strumento, o un sistema di strumenti, flessibilmente orientato a soddisfare le molteplici istanze che scaturiscono dalle diverse violazioni convenzionali accertate a Strasburgo.
In effetti, uno sguardo all’attuale assetto normativo rivela l’intrinseca frammentarietà del nostro sistema di giustizia penale e la sua incapacità di ricomporre sempre e in modo compiuto la legalità convenzionale a livello interno, e addirittura colmare la distanza, che talora pare crescere irrimediabilmente, tra legalità convenzionale e legalità costituzionale. Finanche la soluzione introdotta dalla Consulta conserva un ambito applicativo delimitato, mirando a porre rimedio ai soli vizi concernenti l’equità del procedimento: e persino in quest’ambito, quantunque amplissimo, la Corte costituzionale, come si sa, ha demandato alle autorità procedenti la verifica circa l’adeguatezza della riapertura del procedimento, prevista per la revisione ordinaria, instaurando così un meccanismo che richiede la cooperazione costante delle autorità procedenti per l’individuazione della soluzione più idonea a soddisfare i parametri di legalità convenzionale e costituzionale. Un’attenta disamina delle caratteristiche del caso che ha determinato la condanna di Strasburgo costituisce pertanto un momento di fondamentale importanza all’interno del rimedio previsto dalla Corte costituzionale, che esalta il ruolo del giudice gravandolo a un tempo di un difficile onere cognitivo e del compito di ricercare il miglior bilanciamento di tutti gli interessi in gioco. Un compito oggi divenuto ancor più complesso in quanto esteso alla delicata valutazione riguardante la necessità di estendere le soluzioni adottate dalla Corte europea alle vicende processuali di coloro che versino in una situazione identica a quella oggetto di scrutinio dei giudici di Strasburgo. Come opportunamente rileva il prof. Kostoris, l’individuazione dell’identità della vicenda implica, pur a fronte di indirizzi giurisprudenziali consolidati, un’attenta disamina delle dinamiche che hanno condotto la Corte europea a una data declaratoria di responsabilità rispetto a una specifica vicenda processuale, che coinvolge specifici soggetti, e che in sé rappresenta dunque un unicum.
Anche nei riguardi dei soggetti che abbiano agito a Strasburgo, comunque, mi sembra che l’individuazione della soluzione volta per volta più idonea a dare attuazione all’assetto decisorio incontrato dai giudici europei non possa essere demandata ai soli giudici nazionali ma spesso si arricchisca mediante (e talora addirittura necessiti) un nuovo confronto con la Corte europea. Così è avvenuto in una pluralità di casi, anche riguardanti il nostro Paese, come in passato il noto caso F.C.B. Anche di recente l’evoluzione del contenzioso con Strasburgo ha contribuito a perimetrare e ridefinire il volto e i confini della revisione europea, confermando che la riapertura del procedimento non realizza sempre necessariamente un’adeguata restitutio in integrum. Degni di nota mi sembrano gli sviluppi del noto caso Drassich, che hanno portato a una reinvestitura della Corte europea per un asserito contrasto con la Convenzione, ancora una volta per contrasto con l’art. 6, sul presupposto che una riqualificazione giuridica del fatto in peius nel corso del giudizio in cassazione avrebbe menomato il diritto di difesa del ricorrente, privandolo specificamente del diritto di difendersi personalmente. Nella recente sentenza Drassich c. Italia (n. 2) i giudici di Strasburgo riconoscono l’inadeguatezza della riapertura del procedimento che, se realizzata nel grado in cui si è verificata la violazione convenzionale, porterebbe a un nuovo giudizio in cassazione, strutturalmente e funzionalmente inidoneo a consentire la partecipazione personale dell’imputato.
La soluzione, per la verità, non è del tutto in linea col costante richiamo da parte della Corte europea all’effettività delle garanzie convenzionali: il diritto di difesa può certo esplicarsi in molte forme ma è discutibile che esso possa essere compiutamente tutelato attraverso un contributo puramente argomentativo, quale quello realizzato mediante memorie difensive. Questa decisione sembra anzi sollevare più di un dubbio sul fatto che la ricollocazione dell’ipotesi fattuale in una diversa casella legale, se ciò può portare a un aggravamento del regime sanzionatorio, sia un’operazione che possa essere condotta in vitro. Un confronto con la pur diversa situazione della reformatio in peius in sede impugnatoria, che si proietti verso una condanna in seconda istanza basata solo su una rivalutazione di prove già assunte e sulla cui scorta l’imputato sia stato prosciolto in primo grado, evidenzia quanto necessario sia soddisfare appieno le istanze difensive riattivando il diritto alla prova della persona accusata. E sebbene la soluzione adottata dal legislatore italiano non sia del tutto in linea con l’impostazione seguita dai giudici di Strasburgo e non importi comunque con perfetto determinismo il riesame dell’accusatore in udienza pubblica ma richieda sempre un oculato bilanciamento di tutti quegli interessi che vanno considerati in prima istanza, essa fornisce un modello metodologico che non può essere ignorato nella fattispecie della riqualificazione giuridica dell’ipotesi fattuale, sospingendo verso la ricerca di meccanismi di attuazione delle sentenze della Corte europea diversi dalla riapertura del procedimento nella fase o nel grado in cui si è prodotta la violazione convenzionale. Del resto può essere interessante notare che la stessa esigenza di dar seguito alla giurisprudenza europea che aveva stigmatizzato la possibilità che l’impugnazione contra reum potesse condurre a una condanna su base cartolare e senza rinnovazione del contraddittorio istruttorio condusse il legislatore spagnolo nel 2015 a battere una strada ben diversa da quella prescelta dalla normativa italiana. Estendendo al giudizio di secondo grado un modello elaborato dal Tribunal Supremo con riferimento alla cassazione di una sentenza di assoluzione per erronea valutazione di prove dichiarative (STS 392/2015), la Ley 41/2015 ha mantenuto la possibilità di appellare il proscioglimento contra reum, imponendo tuttavia come soluzione all’erronea valutazione non la riassunzione della prova in secondo grado ma l’annullamento della sentenza impugnata con conseguente regressione del procedimento e il rinvio del caso al giudice a quo (792 comma 2 LECrim). Tale soluzione presenta il vantaggio non solo di salvaguardare il diritto al confronto dell’accusato e il principio d’immediatezza ma anche di escludere il rischio di frammentazione dell’attività istruttoria (e con essa dello stesso accertamento penale) tra gradi diversi di giudizio, rischio cui invece dà adito il modello adottato dalla riforma italiana del 2017.
Insomma, il diverso taglio di ogni violazione della Convenzione accertata dalla Corte di Strasburgo impone una considerazione differenziata di rimedi che vadano al di là dell’indennizzo individuale: e certo il diritto comparato fornisce un prezioso strumento d’indagine, presentandoci una varietà di soluzioni che non possono essere riduttivamente ricondotte neppure alla rinnovazione del giudizio che ha dato luogo al vizio convenzionale. In effetti, se il riesame del caso rappresenta in molte situazioni una soluzione ottimale, non va dimenticato, come ha recentemente ribadito la Corte europea (Moreira Ferreira c. Portogallo), che la Convenzione non assicura, persino in materia penale, il diritto alla riapertura del processo. Né essa costituisce sempre la via migliore per ricucire lo strappo con l’ECHR law, come opportunamente sottolineò la Corte costituzionale già nella sentenza n. 113 e come essa ha più di recente rilevato anche in materia extrapenale (sent. 93/2018).
4. Le repliche
Stefano Ruggeri
La lettura delle osservazioni svolte dal prof. Kostoris mi ha fornito, come tante altre volte in passato, una preziosa occasione per apprendere, e per misurare a un tempo i limiti delle mie conoscenze: e di ciò desidero ringraziarlo pubblicamente.
Nel merito mi ritrovo in moltissime delle notazioni fatte, a cominciare dalla complessa sfida culturale che attende non tanto la giurisprudenza della Corte EDU quanto l’evoluzione del diritto vivente in Europa in generale, e del diritto giurisprudenziale specie in Paesi, come il nostro, tradizionalmente fondati sul primato della legge scritta. In effetti, il confronto con la giurisprudenza di Strasburgo ci ha insegnato – e certo ancor più saprà insegnarci in futuro – a guardare alla norma processuale non già in termini di validità o legittimità bensì in termini di effettività delle garanzie, così come consacrate da un dato parametro convenzionale o ricavabili da una lettura del sistema convenzionale nella sua interezza. Proprio in questa prospettiva la Corte di Strasburgo ha giocato un ruolo essenziale nella ricostruzione di diritti fondamentali, riconosciuti dalla Convenzione a certi soggetti processuali, precipuamente all’accusato, in nome di una considerazione sistematica delle vicende processuali sottoposte al suo scrutinio, con riguardo sia alla gestione complessiva di un processo ormai concluso con le sue dinamiche interne sia soprattutto alla tutela degli interessi di tutti i soggetti coinvolti nell’accertamento penale.
Se a quest’ultimo riguardo la strada spianata (seppur non sempre percorsa con piena coerenza) dai giudici europei appare ampiamente condivisibile e ad essa è da ascrivere il merito di aver supplito alla mancata introduzione, pur da più parti auspicata, di uno statuto generale di garanzie di soggetti diversi dall’accusato (anzitutto della vittima e di soggetti terzi, quale principalmente il testimone, nelle sue molteplici vesti e ruoli), lo stesso non può dirsi per l’adozione di una visione globale della vicenda processuale nelle dinamiche interne tra le sue diverse fasi e gradi. Opportunamente il prof. Kostoris rileva come non pochi rischi siano connessi al riconoscimento di meccanismi compensativi, rischi che si accentuano laddove si tollerino violazioni convenzionali in ragione di rimedi adottati in successivi stadi del procedimento. Ciò è avvenuto in una molteplicità di casi, nei quali la Corte ha ritenuto di salvare persino patenti violazioni di diritti fondamentali riconosciuti dalla Convenzione laddove le autorità nazionali competenti abbiano saputo colmare tali deficit di garanzie nel successivo corso del procedimento.
Per parte mia ho pure cercato di segnalare in altre occasioni quanto pericoloso sia un simile approccio alle garanzie convenzionali. Il quale ben poco si attaglia soprattutto al delicato terreno della giustizia penale transnazionale, specie nei casi in cui sia stata attivata una procedura di cooperazione giudiziaria internazionale, che per definizione s’inserisce all’interno di un procedimento instaurato in un altro Paese (il trial country), e anzi – per riprendere la metaforica figura invocata da Wolfgang Schomburg e Otto Lagodny dell’internationales arbeitsteiliges Verfahren, figura peraltro significativamente accolta dalla giurisprudenza costituzionale tedesca – costituisce una parte di un procedimento assai più complesso, in cui una corretta divisione dei compiti rappresenta una condizione essenziale per indagare e perseguire penalmente in modo virtuoso vicende criminose aventi dimensione transnazionale. Appunto per ciò il compito assegnato a una singola autorità nazionale è un momento fondamentale e irripetibile: il che solleva più di un dubbio sul fatto che condotte dalle quali discendano violazioni procedimentali possano essere tollerate in vista dell’adozione di compensazioni future, le quali rappresentano un’eventualità non solo imprevedibile ma che in tesi sfugge al controllo dell’autorità cui è stata richiesta una certa misura di cooperazione internazionale, e persino talora dell’intero Stato in cui tale cooperazione si sia realizzata. Né il Paese nel quale si stia svolgendo il processo penale può essere ritenuto responsabile di mancanze avvenute in altro Stato, a meno che naturalmente la condotta delle proprie autorità nazionali non sia di per sé censurabile per il fatto di dar luogo a rischi di future violazioni di diritti consacrati nella CEDU, ovvero contribuisca ad aggravare il risultato di mancanze ascrivibile ad autorità estere al punto di configurare un’ulteriore violazione convenzionale: ciò che non si può escludere si realizzi anche nell’ambito della prova transnazionale, come sapientemente intuito già dalla Commissione europea nel caso P.V. e come confermato dalla Corte di Strasburgo in un numero sia pur esiguo di casi, anche riguardanti il nostro Paese (ad es., già in A.M. c. Italia).
D’altra parte mi sembra si possa ragionevolmente dubitare che la dottrina dei meccanismi compensativi, almeno se intesa in termini di compensazione riferita a uno stadio successivo del procedimento, valga ad assicurare la tenuta assiologica di garanzie convenzionali anche in procedimenti puramente nazionali. Sebbene la Corte abbia ripetutamente applicato la tesi dei fattori compensativi, adottando anzi talora un approccio funzionale (come efficacemente lo definì Stefan Trechsel) che guarda alle concrete ripercussioni di una violazione convenzionale, al punto da addossare sul ricorrente oneri dimostrativi che non gli competono, mi sembra comunque significativo segnalare che la giurisprudenza europea ha invece adottato un’impostazione ben più rigorosa in relazione ad alcune fondamentali garanzie, quale l’imparzialità della giurisdizione (ad es., in De Cubber c. Belgio) o (anche se qui non sempre con la dovuta linearità) il privilege against self-incrimination (v., ad es., Saunders c. Regno Unito). E mi domando, poi, se e come la giurisprudenza europea potrà mantenere un simile approccio globale all’equità processuale laddove sarà investita in via preventiva di questioni concernenti violazioni di fair trial rights in materia penale. In effetti, una visione diacronica del giudizio penale la Corte ha potuto adottare e sviluppare in quanto adita in via contenziosa una volta esperite le vie impugnatorie interne, ciò che le ha fornito un angolo visuale in grado di guardare, come si diceva, alla complessiva gestione di una specifica processuale, per così dire, a valle. Sennonché una simile prospettiva manca per definizione nell’esercizio della giurisdizione consultiva, non essendo per nulla agevole definire in una molteplicità di casi quali standard di tutela siano da ritenere in linea con la Convenzione: il che potrebbe anche finire per frustare quella funzione di orientamento verso i valori convenzionali che la giurisprudenza europea ha svolto, e dovrà continuare a svolgere, nei riguardi delle autorità nazionali degli Stati contraenti.
Condivido poi in buona misura le perplessità sollevate dal prof. Kostoris con riguardo all’impostazione seguita dalla Corte europea in A e B c. Norvegia e ripresa da successiva giurisprudenza della stessa Corte. Un’impostazione certo ben poco in linea con quella seguita dalla Corte di Giustizia in Fransson, ma che ha inevitabilmente condizionato l’evoluzione della giurisprudenza di Lussemburgo: la quale, se ha talora temperato il doppio binario sanzionatorio in materia di abusi di mercato alla luce della rilevanza eurounitaria del ne bis in idem (Di Puma e Zecca), talaltra ha invece temperato lo stesso divieto di bis in idem finendo così per allinearsi in buona misura ai parametri della Corte EDU (Menci, Garlsson Real Estate et al.). D’altra parte, se quest’evoluzione giurisprudenziale non ha mai scalzato la necessità di contenere gli effetti afflittivi del doppio binario sanzionatorio, quali evidenziati nella sentenza Grande Stevens, continuo a ritenere che le sfide più consistenti che la Corte EDU e, anzi più in generale, tutte le giurisdizioni chiamate a contribuire alla definizione di un European human rights criminal law (includendo sia la Corte di Giustizia sia le giurisdizioni superiori e le giurisprudenze costituzionali nazionali) dovranno affrontare nel prossimo futuro non concernono solo la considerazione della posizione dell’accusato, ma anche, e ancor più a fondo, la giustificazione di sottoporre alla pena di un nuovo processo (per riprendere ancora una volta l’impostazione carneluttiana) un novero ben più cospicuo di persone. Il che imporrà un’attenta verifica della capacità del giudizio già conclusosi in via extrapenale di esprimere non tanto una valutazione di merito (del resto, neppure richiesta sul piano interno perché una decisione possa spiegare forza preclusiva, che è infatti riconosciuta, sia pur con significative varianti, sia alla sentenza di proscioglimento per estinzione del reato sia addirittura alla pronuncia d’improcedibilità) quanto un accertamento autenticamente partecipato: una verifica resa estremamente complessa dalla proiezione transnazionale fisiologicamente conferita al divieto di bis in idem dalla Carta di Nizza-Strasburgo.
Concordo infine con le critiche mosse dal prof. Kostoris alla tesi del vincolo discendente per il giudice nazionale dall’esistenza di un indirizzo giurisprudenziale consolidato a Strasburgo, quale richiesto dalla nostra giurisprudenza costituzionale. E mi è sembrato assai opportuno il richiamo alla sent. 49/2015: la quale peraltro, se non interpreto in modo erroneo il percorso motivazionale di tale pronuncia, ha menzionato le sentenze-pilota e l’orientamento consolidato in una prospettiva unitaria e non già disgiuntiva, dal momento che la pilote judgment procedure presuppone comunque l’esistenza di un contenzioso seriale e mira appunto all’emanazione di una decisione valevole per tutti i repetitive cases.
Non sono un costituzionalista e non credo che problemi così complessi possano essere affrontati da una singola prospettiva d’affaccio, per così dire, al moderno intreccio dei rapporti interordinamentali in Europa, ancor meno da quello, assai angusto, di una disciplina che è ancora in larga misura una Cenerentola. D’altra parte, per quanto animata dalla necessità (in buona parte misura dettata da ragioni essenzialmente pragmatiche) di perimetrare il vincolo della giurisprudenza europea nei confronti del giudice nazionale, l’impostazione seguita dalla nostra Corte costituzionale si espone, e anzi già ha condotto, a gravi obiezioni di ordine teorico-generale, soprattutto per il fatto di non avere fornito la benché minima giustificazione (sul piano sia logico sia soprattutto assiologico) di un simile contenimento del vincolo. E del resto mi sembra si possa legittimamente dubitare che tale fondamento sussista rispetto al nostro come ad altri sistemi costituzionali europei: poiché, se un vincolo indubbiamente dispiega l’intero ECHR law, per mezzo delle leggi di ratifica della Convenzione e dei suoi Protocolli addizionali, ed esso discende non già dallo statutory ECHR law bensì dall’ECHR case-law, come da oltre un decennio ha segnalato la stessa giurisprudenza costituzionale, è chiaro che il vincolo produce tanto la decisione seriale quanto quella isolata. Naturalmente il riconoscimento della portata e anzi dell’esistenza stessa di una norma giurisprudenziale prescrittiva presuppone una delicata e complessa opera ricostruttiva. Occorre stabilire la dimensione di un dato giurisprudenziale, che a sua volta rilegge, e spesso riscrive significativamente, un dato convenzionale, e con esso il sistema convenzionale nel suo complesso: operazione tutt’altro che agevole perché implica non solo un’attenta interpretazione dei dati normativi esaminati dalla Corte di Strasburgo ma anche l’accurata comprensione della rilevanza che le circostanze fattuali di una specifica vicenda hanno avuto sullo scrutinio della Corte stessa. Insomma, se il vincolo in astratto discende dalla CEDU nell’interpretazione fatta dal suo giudice naturale, l’individuazione della sua esistenza e della sua rilevanza in concreto coinvolge un ulteriore e non meno delicato momento interpretativo.
Il che mi pare sollevi ulteriori dubbi, oltre a quelli giustamente avanzati dal prof. Kostoris, sulla possibilità di circoscrivere l’estensione della giurisprudenza europea ai c.d. “fratelli minori” ai soli casi in cui sussista un orientamento consolidato, e, per le ragioni anzidette, alle ipotesi di decisioni-pilota, che anch’esse per definizione esprimono l’esigenza di fissare un determinato orientamento giurisprudenziale per un numero più o meno consistente di casi analoghi. A ben vedere, mi sembra costituiscano problemi distinti quello affrontato dalla sent. 49/2015 e quello dell’estensione ultra partes delle decisioni della Corte: nel primo caso, si pone (comunque lo si risolva) un problema d’interpretazione della norma che il giudice nazionale è chiamato ad applicare nella vicenda processuale in esame, nonché di risoluzione di un eventuale conflitto tra dati normativi appartenenti a ordinamenti distinti; mentre nel secondo il giudice nazionale è chiamato a verificare se e in che misura debba darsi esecuzione, come correttamente è formulato il quesito postoci dal Cons. Conti, a una pronuncia della Corte in un processo concernente altri soggetti ma in identico caso. Il primo problema, se non vado errato, pone insomma una questione di definizione del parametro normativo per risolvere una specifica vicenda processuale, mentre il secondo muove direttamente da un concreto dato giurisprudenziale e impone di verificare se ed entro che limiti esso fornisca la regola di condotta – e integri dunque la norma nel suo senso più completo – di risoluzione di un caso diverso nei soggetti ma uguale nell’oggetto. Il che mi sembra una ragione più che sufficiente per ritenere questo vincolo discendente finanche da un’isolata pronuncia di Strasburgo, a fronte della quale il giudice nazionale, specie in una materia delicatissima quale quella penale, non potrà esimersi dalla disamina della sua prescrittività rispetto ad altre persone che versino nella medesima situazione che ha condotto alla condanna da parte della Corte europea.
Roberto E. Kostoris
Non vorrei allungare ulteriormente le dimensioni di quest’intervista, avendo già occupato molto spazio nella risposta alle domande iniziali. Mi limito dunque solo a un telegrafico rilievo.
Mi sembra senz’altro da condividere l’osservazione di Stefano Ruggieri che la Corte edu, quando sia adita per un interpello preventivo ai sensi del Prot. 16, non potrà prendere in considerazione il parametro delle ‘garanzie compensative’, dato che esse sono rapportabili solo a una specifica vicenda giudiziaria valutata ‘nel suo complesso’; valutazione che ovviamente può essere effettuata solo a valle e non a monte di quella vicenda. Mi pare allora che si profili al riguardo una chiara alternativa: o si dovrà ritenere per questo motivo a priori esclusa la possibilità di un interpello preventivo avente ad oggetto l’equità processuale, ove si consideri tale garanzia come inscindibilmente legata al globale contesto fattuale di un caso giudiziario, il chè potrebbe tuttavia depotenziare in modo sensibile l’ impiego del nuovo strumento consultivo, dato che i ricorsi più frequenti a Strasburgo riguardano proprio le violazioni dell’art. 6 Cedu, oppure l’equità – almeno quando se ne discuta in un simile contesto - sarà destinata a subire una sorta di ‘irrigidimento interpretativo’ che la depuri da ogni componente ricollegabile all’ as a whole test; similmente, del resto, a quanto sembra già accadere nel diritto eurounitario, dove l’equità è insistentemente richiamata negli atti dell’Unione, ma come referente ‘normativo’ in sé, avulso da qualsiasi collegamento con altri contesti.
Va però sottolineato che questo specifico problema fa cogliere in controluce un aspetto più generale che riguarda il mutamento di fisionomia della Corte edu che l’ introduzione dell’interpello preventivo potrebbe favorire: questo strumento è, infatti, suscettibile di potenziare il suo ruolo di giudice delle leggi, il quale coesiste e si intreccia con quello di giudice dei casi concreti quando essa è chiamata ad agire in via contenziosa: intreccio di ruoli che ha sempre contrassegnato l’ ibrida e particolarissima natura della Corte di Strasburgo, rendendola un unicum nell’ambito dei modelli giurisdizionali (nonostante la Corte costituzionale non se ne sia ben avveduta nelle sentenze gemelle 348 e 349 del 2007, quando è caduta nell’equivoco di attribuire alle sue interpretazioni delle norme Cedu il valore di parametri interposti di costituzionalità, dimenticando quanto esse siano condizionate dalla concretezza dei contesti giudiziari in cui sono state rese).
L’interpello preventivo sembra, dunque, aggiungere un ulteriore elemento di problematicità alla già complessa fisionomia della Corte edu, poiché disegna una divaricazione dei suoi ruoli a seconda che essa sia chiamata a pronunciarsi in via consultiva o in via contenziosa: solo giudice delle leggi nel primo caso; giudice delle leggi e dei casi concreti nel secondo. Se questo è lo scenario che ci si pone davanti, non è escluso che, in proporzione al ‘successo’ che la via consultiva sia in grado di riscuotere e, soprattutto, in proporzione alla diminuzione del carico della via contenziosa che questa sia in grado di favorire, lo strumento dell’advisory opinion possa propiziare una sempre maggior omologazione della Corte edu alle altre Corti di vertice europee e nazionali a vocazione nomofilattica, rendendo correlativamente meno pregnante e significativo proprio quel ruolo più tipico e caratterizzante che l’ha sempre contrassegnata di giudice dei casi concreti.
5.Le conclusioni
R.G.Conti
Davvero poco resta da aggiungere a chi ha avuto l’onore di rivolgere ai due universitari alcuni interrogativi che hanno dato il là a riflessioni profonde e di straordinaria acutezza da parte dei due nostri autorevoli interlocutori, capaci di dialogare tra loro in modo fecondo anche nelle vivaci repliche.
Ne esce, indossando l’abito del pratico, una sensazione di grande fermento fra gli studiosi del processo penale, ancora una volta originata dalla indiscutibile incidenza della Convenzione europea dei diritti dell’uomo su un terreno, qui quello del processo penale, coltivato per anni con un concime domestico che, oggi, ci si accorge, al di là delle diversità di opinione, non essere più sufficiente a dissodare e nutrire un humus che vive di plurime contaminazioni pandemiche – oggi termine amaramente entrato nel linguaggio comune – inarrestabili.
I tentativi del diritto vivente di governare questo fenomeno continuano a prodursi e ad offrire delle tessere che andranno a comporre un mosaico allo stato ancora non ben definito.
Permane, in maniera palmare, un sentire che non può ancora dirsi comune fra i diversi decisori, a volte rivolto a sopravvalutare i parametri di riferimento per ciascuna Corte in danno di quelli “esterni”, altre a tentare una conciliazione fra i diritti “viventi e non” di diversa matrice, altre ancora a sganciarsi completamente dall’idea che l’un parametro sia diverso dall’altro e che sia invece necessario configurare in maniera unitaria un diritto che prima delle influenze dei diversi parametri risolta ancora indistinto.
Viviamo in questa prospettiva un periodo di notevole liquidità, nel quale il decisore domestico accarezza a volte l’idea di dovere o potere doppiare l’attività svolta dall’altro decisore, indossandone i panni e addirittura ipotizzando soluzioni diverse rispetto a quelle adottate dall’altro pur di legittimare il proprio operato.
Il che, a ben considerare, potrebbe essere segnale di rottura del dialogo o, tutto al contrario, dimostrazione di volere comunque attivare dei canali di confronto a distanza. Canali che, ad oggi, non sono pienamente operativi a causa della mancata attuazione del Protocollo n.16 annesso alla CEDU. Impasse che l’attuale contesto storico non sembra peraltro destinato nel breve a lasciare il passo ad orizzonti capaci di rendere attivo lo strumento della richiesta di parere preventivo alla Grande Camera della Corte edu almeno in ambito interno, con tutte le gravide implicazioni che tale strumento produrrà proprio rispetto a possibili violazioni di natura processuale.
Sembra peraltro emergere, a tratti, un atteggiamento di maggiore prudenza della Corte edu su temi nevralgici quali ad esempio quelli correlati al tema dell’interpretazione del precedente della Corte edu e della portata, vincolante o meno, di quella decisione. Le vicende dei c.d. “fratelli minori” e del bis in idem sono esemplari.
Il che apre degli scenari nuovi e in parte inediti, per governare i quali l’apporto della dottrina sembra indispensabile per gestire un panorama complicato e complesso che gli operatori del diritto.
Grazie davvero a Roberto E. Kostoris e Stefano Ruggeri per il tempo dedicato alla cura di questi temi che, chiamando in causa i diritti dell’uomo, non possono essere emarginati nelle seconde linee, ma vanno sempre posti al primo posto di una società governata, anche in questo periodo, dalla cultura dei diritti. Guai a pensare che l’emergenza possa fare accettare un futuro privo dei diritti, senza i quali verrebbe meno la stessa persona umana nella sua dignità.
Il carcere nello specchio di un’emergenza
di Mauro Palma
sommario: 1. Guardare dentro oggi. - 2. Lo sguardo di sempre. - 3. Lo sguardo dell’urgenza.
Il rischio di contagio all’interno di un’istituzione chiusa e densa quale è il carcere e le manifestazioni anche violente che si sono sviluppate nei primi giorni di marzo costituiscono uno specchio per leggere la realtà attuale della detenzione e il recente abbandono di una effettiva progettualità nell’esecuzione delle pene. Questa premessa deve essere alla base di una implementazione significativa delle pur limitate misure di decongestione del carcere finora adottate.
Sommario: 1. Guardare dentro oggi. - 2. Lo sguardo di sempre. - 3. Lo sguardo dell’urgenza.
1. Guardare dentro oggi.
Difficile parlare del carcere in questi giorni. Tentare di descrivere la sensazione di ‘doppia detenzione’ che pervade corridoi e stanze e che aggiunge al senso di restrizione, proprio della situazione contingente dell’essere in quel luogo, quello del nemico invisibile e intangibile che il contagio rappresenta e che potrebbe entrare in quei corridoi e in quelle stanze.
Difficile, soprattutto perché la necessaria urgenza di approntare difese rispetto alla rapidità attuale del propagarsi della positività al Covid-19 deve coniugarsi con l’efficacia di ogni strumento che si intende predisporre: deve essere in grado di ridurre quella densità umana di cui il carcere è concreta rappresentazione. Una riduzione necessaria perché situazioni chiuse e dense, abitate da una popolazione che spesso – troppo spesso – è connotata dall’accentuata vulnerabilità sono luoghi di potenziale esplosione non solo del contagio, ma anche della rabbia e di una reazione che nella sua stessa violenza assume una connotazione autodistruttrice.
Questi giorni hanno visto proprio gli effetti di una rabbiosa risposta a un messaggio che è entrato in modo strisciante nei luoghi di detenzione: quello del prospettarsi di una improvvisa e stretta chiusura, con blocco delle persone che entravano e uscivano dal carcere per semilibertà o accesso al lavoro esterno e drastica interruzione dei colloqui visivi e degli apporti che associazioni e cooperative offrono alla realizzazione di programmi che diano concretezza alla finalità costituzionale della pena detentiva. Un blocco annunciato a cui si contrapponeva visibilmente l’assenza di misure volte a tutelare gli ‘interni’ dal possibile contagio prodotto dagli ‘esterni’ che continuavano a entrare negli istituti per funzioni di sicurezza o di amministrazione senza alcuna misura di controllo. Questa asimmetria prospettata – prima ancora che vissuta – ha dato la sensazione plastica di una lettura esterna del mondo detentivo non soltanto come non appartenente al complessivo quadro sociale, ma come un universo carico di una morbilità intrinseca che coinvolgeva le persone ristrette e anche quelle a loro legate.
A nessuno è sfuggito il fatto che talune proposte e qualche improvvida iniziativa locale siano andate in questa direzione prima ancora che il decreto dello scorso 8 marzo venisse emanato. Così come è stato evidente che in alcuni ambiti si sia ragionato in via analogica con la previsione del primo comma dell’articolo 41-bis, come se l’emergenza richiedesse la sospensione del trattamento. Non è sfuggito, per esempio, al Garante nazionale che un Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria già dal 24 febbraio avesse disposto la «sospensione fino al 1° marzo di ogni attività trattamentale, di natura culturale, ludico o sportiva per cui sia previsto l’accesso della comunità esterna» negli Istituti di competenza oltre che «la sospensione dei colloqui detenuti/familiari». Quasi che la comunità esterna, oltre che i congiunti delle persone detenute, fossero il solo veicolo di possibile contagio, a differenza degli operatori interni sui quali continuava a non essere eseguito alcun controllo.
Questo pre-allarme è stato uno dei fattori che ha determinato l’insorgere della violenta protesta non appena è stato firmato il decreto che sospendeva i colloqui fino al 22 marzo e che incoraggiava fortemente il ricorso all’utilizzo di strumenti di comunicazione a distanza, oltre che incentivare in durata e numero i colloqui telefonici: in fondo una misura ridotta rispetto ai rumors precedenti, ma la tensione era già alta e la notizia di un caso di contagio nell’Istituto di Modena ha avviato la più dura e cruenta protesta degli ultimi trent’anni. Ne sono stati coinvolti quarantanove Istituti e l’esito sono stati tredici morti tra le persone detenute e quasi sessanta agenti di Polizia penitenziaria feriti, in modo non grave, e un nutrito gruppo di evasi dall’Istituto di Foggia, al momento quasi tutti riportati in carcere. Ben undici delle persone decedute erano straniere: nomi e numeri a cui è difficile associare una storia e che un po’ frettolosamente sono state archiviate come decedute a seguito di loro comportamenti. Nessun elemento vi è per sostenere ipotesi diverse da quelle fin qui formulate dalle autorità che indagano, ma colpisce la rapida dimenticanza delle loro storie – a uno mancavano solo alcune settimane prima del termine dell’esecuzione penale – il loro non essere nemmeno menzionate nel riportare gli episodi al Parlamento, il loro essere solo un numero. Tredici, ben superiore anche a eventi drammatici del passato nel periodo di insorgenze carcerarie che si connettevano con una realtà esterna in sommovimento. Oggi, nella calma esterna accentuata dalle strade deserte e da quel tempo sospeso che il ritrovarsi all’interno di un contagio di cui noi stessi siamo portatori comporta, sembrano poca cosa. Forse sembra contare di più il capire se e come la criminalità organizzata si sia inserita nelle maglie di queste proteste, perché ciò attenua la nostra responsabilità rispetto a un sistema detentivo che anche senza epidemie ci interroga sulla sua compatibilità con quanto il Costituente volle definire in termini di utilità, funzionalità e, quindi, d’intrinseca legittimità dell’esecuzione penale.
2. Lo sguardo di sempre.
Quest’ultimo aspetto riporta alla descrizione del carcere precedente alla contingente emergenza. La si può analizzare seguendo tre direttrici: la prima, la più usuale, è quella dell’affollamento, oltre i parametri definiti sin dal 1975 e soprattutto in taluni Istituti oltre il tollerabile; la seconda è quella sensatezza del tempo che scorre nella privazione della libertà e la sua commensurabilità con il fluire del tempo esterno; la terza è quella del possibile recupero di una finalità rieducativa, seppure tendenziale, nel contesto attuale.
Sono tre direttrici che si intersecano tra loro e che vanno considerate come variabili di sfondo rispetto alle quali leggere la connessione con l’emergenza attuale. Per avere così una chiave di lettura anche del decreto legge che porta proprio la data di ieri, 17 marzo 2020. Perché queste tre direttrici, lette congiuntamente, aprono a una riflessione che investe il ruolo che un ordinamento democratico assegna alle pene, il loro necessario non restringersi alla detenzione, la loro continuità con lo scorrere della vita prima e dopo la commissione del reato e le modalità di espiazione della relativa sanzione. In sintesi una riflessione sulla sensatezza e sulla ‘produttività’ del sistema sanzionatorio.
L’aver posto gli apici al termine ‘produttività’ non è casuale, proprio per l’ambiguità che questo riferimento può determinare. Eppure le sanzioni penali devono corrispondere a una utilità sociale ed è giusto verificare se tale utilità si raggiunga o quantomeno si adombri nell’attuale sistema: se, quindi, l’attuale esecuzione delle pene raggiunga o meno tale obiettivo. Certamente, infatti, la risposta al reato non può restringersi alla mera simmetria – o quasi – di quanto commesso, né proporsi solo in termini di prevenzione rispetto alla reiterazione del reato o di monito per altri potenziali autori. In primo luogo, perché la tipologia prevalente dei reati commessi da chi attualmente è ristretto in carcere nel nostro paese – e analogamente in quello di altri paesi economicamente e socialmente simili – è quella della serialità: forte è la connessione con scelte soggettive, con stili di vita, spesso criminalizzati in quanto assunti come non coerenti con il modello di normalità pre-definito. È questo il caso dei reati relativi all’uso di sostanze stupefacenti, in termini sia direttamente di possesso e piccolo spaccio, sia di azioni commesse per procurarsele. Così come frequente è la presenza di autori di reati connessi alla marginalità sociale e a vite quotidianamente condotte ai limiti della legalità; situazioni numericamente accentuate negli ultimi anni col ridursi della presenza di strutture di appoggio e, di fatto, anche di orientamento verso la legalità. Tutte situazioni, queste, che determinano nell’attuale sistema detenzioni sostanzialmente brevi e frequentemente ripetute – situazioni che chiariscono il riferimento alla mancata ‘produttività’.
Qui, i numeri aiutano: alla data odierna 4567 persone scontano in carcere una pena – non un residuo di una pena maggiore – inferiore ai due anni, senza altre pendenze; di questi, 1545 scontano una pena inferiore a un anno. Questo dato per un verso ci interroga e per altro verso apre alla prospettiva che si vuole intraprendere in questo momento per venire incontro all’ineludibile esigenza di alleggerire la densità detentiva. Una densità ancora più accentuata oggi che, dopo le rivolte, più di mille posti sono divenuti indisponibili e si sono aggiunti ai quasi quattromila che già erano tali.
Il numero interroga su cosa rappresenti quel residuo interno di persone che avrebbero potuto godere di modalità alternative che l’ordinamento prevede. Rappresenta qualcosa che in primo luogo sintetizzo con il termine povertà. Povertà non solo materiale o di dimora, ma anche di strutture sociali che sostengano la difficoltà, la capacità di comprendere, la possibilità di accedere a strumenti che non rendano i diritti delle mere enunciazioni. La loro presenza in carcere è l’immagine, quindi, di altre assenze, esterne a esso. Ma, in secondo luogo, rappresenta anche la tendenza a cedere anche inconsapevolmente alle paure che negli ultimi anni sono state coltivate da più parti alla ricerca di consenso: le cautele verso le misure alternative – che se sotto il profilo normativo non si sono ampliate come si sperava, non sono neppure state ridotte – sono il rischio di un cedimento alla logica consensuale nella loro concessione. Altrimenti è difficile spiegare come mai nell’ultimo anno si sono ridotti gli ingressi in carcere dalla libertà di circa mille unità e al contempo è aumentato il numero delle presenze di milleduecento unità: si entra e non si esce.
Parallelamente, queste linee di riflessione intersecano la variabile tempo. Il legame tra tempo interno e tempo esterno va rapidamente perdendosi. Non solo perché il ritmo del secondo è fortemente accelerato, mentre quello del primo si ripete immutato, facendo sì che una unità di tempo sottratto alla libertà oggi contenga un quantitativo molto maggiore di esperienze perse di quanto non ne contenesse nel passato, quando il quantum di pena per un dato reato venne normativamente definito; determinando così una maggiore difficoltà di reinserimento effettivo ed attivo nel contesto sociale esterno. Ma anche perché il tempo nel carcere di oggi è sostanzialmente, salvo alcune lodevoli eccezioni, un contenitore di ‘intrattenimento’ più o meno adeguato, ma che sempre rimane proiettato all’oggi e al dentro senza interrogarsi sul domani e il fuori. Il carcere ha perso una ipotesi e rimane soltanto sottrazione: molti si sforzano di rendere accettabile, decorosa e rispettosa tale sottrazione, ma senza una ipotesi progettuale in grado in primo luogo di restringere la sua ampiezza ai soli casi di effettiva necessità e possibile utilità, resta una pena, appunto, meramente sottrattiva.
3. Lo sguardo dell’urgenza.
In questo panorama si inserisce lo sguardo dell’urgenza che la situazione attuale richiede. E che può paradossalmente essere un’occasione: per ridurre i numeri, per tornare a interrogarsi sul perché del carcere e sul suo limite.
C’è molto cammino da fare, andando a passo svelto perché così richiesto dall’impellenza del presente, ma anche con passo ben direzionato perché deve essere chiara la necessità di ridare sensatezza al cammino, di ricomprendere l’orientamento dei passi. In questa ipotesi il decreto di ieri è soltanto un primo piccolo passo in avanti che sarà ben direzionato se in sede applicativa saprà cogliere il senso del suo andare e non si restringerà nella timidezza.
Il decreto interviene su due istituti esistenti: il primo è la semilibertà, prevedendo la possibilità di licenza e, quindi, il non rientro in carcere di quelle 1060 persone detenute che già spendono l’intera giornata fuori di esso, così recuperando per un arco di tempo un discreto numero di posti potenzialmente utili in caso di diffondersi della necessità di spazi dove separare persone; il secondo è l’esecuzione della pena detentiva presso il domicilio in una forma accelerata, che affianca quella esistente per un periodo che si suppone copra la necessità di far fronte all’epidemia, con una procedura più snella e con dei ‘paletti’ più forti proprio a compensare tale maggiore fluidità di adozione del provvedimento. Lo scontro su questi ‘paletti’ non è stato di poco conto e taluni lasciano tuttora perplessi, soprattutto relativamente all’incidenza di aspetti disciplinari sulla complessiva decisione. Questi – vale la pena ricordarlo – sono anche il frutto di timori sorti dopo le recenti insorgenze in carcere e della conseguente volontà di non apparire cedevoli di fronte alle proteste: di nuovo uno sguardo miope di fronte a una necessità di saper guardare lontano.
Resta fermo l’elemento decisionale del magistrato. Che dovrà saper comprendere il senso della norma sia nella sua prospettiva immediata di prevenire una situazione che avrebbe riflessi gravi sulla popolazione ristretta e anche su quella al di qua del muro di cinta, sia nella prospettiva di lungo periodo per riaprire una condivisione di responsabilità con i territori affinché il carcere non sia il luogo dove si addensano le contraddizioni che in essi non trovano risposta. Certamente colpisce il vincolo della disponibilità del controllo elettronico – quasi a dare all’impresa appaltatrice il perno della decisione sulla libertà – ma tranquillizzano da tempo le Sezioni unite della Cassazione che più di tre anni fa hanno chiarito come l’indisponibilità del controllo tecnologico non possa essere motivo per evitare una circostanziata valutazione e l’adozione di una misura che ne faccia a meno.
Non credo che il fatto che un passo sia considerato ancora limitato, piccolo, possa non indurre a percorrerlo con apertura verso i successivi. L’essenziale è, come sempre, la chiarezza della direzione.
Avvocati dopo il coronavirus: il cambio di paradigma.
di Cataldo Intrieri
Rispondo volentieri al gentile invito di Paola Filippi e Roberto Conti a raccontare l’esperienza di un avvocato nei giorni sospesi del Corona -virus, con l’ovvia premessa che questo è il punto di vista non della categoria ma di uno dei 200.000 e passa, tappato da due settimane in un condominio del Trieste Salario.
Oltre ad una migliore comprensione di cosa possa avere spinto in passato molti assistiti a violare i domiciliari credo che il sentimento comune sia quello di chi sta sperimentando la scossa tellurica di ciò che Thomas Kuhn chiamava un “ cambio di paradigma”. La mutazione dei parametri di riferimento sociali e lavorativi.
Passato un primo momento di illusoria fiducia in rapido ritorno alla normalità la pubblicazione del Decreto Legge Curitalia (il degrado della legislazione eè bene illustrato dalla scelta dei nomi dei provvedimenti) ci ha brutalmente messo di fronte alla realtà . Ed al futuro prossimo venturo.
Innanzitutto abbiamo capito che lo Stato non darà alcun paracadute.
Non sono previste misure ne’ facilitazioni ne’ garanzie per accesso al credito per chi si dovesse trovare in difficoltà.
Financo l’” una tantum” di 600€ non verrà corrisposta agli avvocati .
Eppure come mi racconta il collega Giulio Lazzaro responsabile dell’Osservatorio dell’Unione Camere Penali sul patrocinio dei non abbienti basterebbe che si sbloccassero in tempo rapido ed accettabile le liquidazioni dei decreti di pagamenti per le difese a carico dello Stato . Ce ne sono vecchi di due anni. Stiamo parlando per il 2019 di una spesa approvata di circa 180 mln di € per un importo pro-fattura di circa 1000,00.
L’una tantum del Curitalia costa da sola circa 3 miliardi di euro.
Soldi già stanziati e presenti nelle disponibilità degli uffici dei tribunali ma che non vengono materialmente erogati per la cronica mancanza di personale degli uffici giudiziari ed anche oggi che l’attività e’ ferma non si registra alcuna accelerazione delle procedure.
Lazzaro mi riferisce che le banche che praticano lo sconto delle fatture riconosciute procedono al pagamento dell’80% delle somme riconosciute trattenendo un aggio di ben il 20% .
Ho letto con piacere i messaggi di solidarietà di alcuni magistrati e li ho diffusi sui social dove sono stati molto apprezzati.
Sicuramente per molti colleghi sarebbe altrettanto gradito un concreto intervento dei dirigenti degli uffici, come talvolta è avvenuto e Lazzaro mi cita il presidente del Tribunale di Livorno.
Molti avvocati prestano meritoriamente la loro opera in difesa delle categorie più svantaggiate.
Non parliamo solo di ordinari frequentatori di patrie galere, oggi il patrocinio dello Stato investe la tutela di soggetti vulnerabili come le vittime di abusi ed atti di violenza oppure i migranti che chiedono asilo. Il nucleo base dei diritti umani, un aspetto fondamentale che spesso viene mortificato con liquidazioni di poche centinaia di euro. E si parla anche di giovani , bravissimi colleghi in una realtà professionale sempre più difficile.
Ma tutti noi avvocati siamo scivolati dentro l’emergenza di cui l’aspetto economico costituisce una parte ma non è tutto.
Siamo stati espulsi dai luoghi abituali in cui per decenni ci siamo mossi , dalle aule come dagli studi , e costretti ad un domicilio coatto abbiamo scoperto le potenzialità lavorative e comunicative dei mezzi di comunicazione informatici e telematici oltre l’uso sedimentato dall’abitudine e dalla frivolezza delle comunicazioni social.
Non più “ dei” mezzi di lavoro come altri ma “i” mezzi di lavoro.
Skype business e Whereby sono diventati gli unici mezzi di contatto con cui riusciamo ad organizzare il lavoro , parlare coi colleghi , coi clienti ed ora coi magistrati e gli uffici giudiziari.
Abbiamo capito nel nostro lavoro che non sarà sufficiente “ riaccendere la luce nella stanza” oppure rientrare nei tribunali come dopo un “ allarme bomba”.
Sarà lunga e difficile , potremo rientrare contingentati, entrare negli uffici a determinate ore e prenotandoci.
L’idea dei capannelli nel cortile in una bella giornata, lo struscio pigro nei corridoi , l’indugiare in sala avvocati . Abitudini scontate che oggi sembrano i segni di un’altra epoca .
Giorno dopo giorno ci chiediamo cosa succederà , cerchiamo di dare un minimo di fiducia agli assistiti ed ai familiari .
Ci sono circa 60.000 detenuti la gran parte in attesa di giudizio per cui diventa difficile fare delle previsioni. I rinvii già oggi sono per la fine dell’anno .
Ovviamente l’ideologia giustizialista ed apertamente reazionaria di un governo non legittimato da una maggioranza elettorale scarica i costi della paralisi sui nemici simbolici : i detenuti, i rifiuti, gli imputati presunti colpevoli .
Se non vogliono vedere dilatata l’attesa di un esito processuale devono farne richiesta .
È un diritto di cui lo Stato dovrebbe farsi carico ed invece è un onere per chi è accusato e limitato nella libertà .
Una situazione, va detto con estrema chiarezza, inaccettabile che pone un enorme problema di coscienza a carico dei difensori e dei magistrati.
Non sarà possibile ritornare in tempi rapidi ad una condizione di sicurezza che renda agibili come prima le aule di giustizia .
Salvo non si voglia mettere a rischio la salute oltre che degli imputati di avvocati magistrati e personale amministrativo il ricorso a modalità a distanza appare una necessità .
Alcuni miei colleghi ritengono che ciò sarebbe una grave rinuncia ai principi di oralità ed immediatezza che una serie di prassi e sentenze già stanno erodendo .
Argomentazione seria ma che deve essere soppesata con esigenze di analogo grado come il diritto ad un processo in tempi ragionevoli ed alla tutela della salute.
Si tratta di estendere una modalità oggi limitata solo ai casi di imputati detenuti.
Si può stabilire (e forse non occorre neanche una legge ma un protocollo) che la scelta sia rimessa al difensore ed all’imputato ogni qualvolta la situazione sanitaria non offra sufficienti garanzie ma non nascondiamoci dietro un dito: un contraddittorio imperfetto e’ sicuramente preferibile ad un contraddittorio negato.
La mia modesta e personale opinione si conclude con una specifica richiesta ai miei gentili interlocutori , lettori di questa rivista.
Sia ben chiaro che parlo per me stesso e da “cane sciolto “.
Rinunciate signori magistrati per quest’anno ai termini feriali. Facciamo insieme un sacrificio in nome di quella giustizia che malediciamo come irraggiungibile ma per cui molti di noi hanno impiegato la loro vita.
Sia pure in modo imperfetto, ricorrendo alla tecnica ed al processo a distanza ripartiamo quanto prima. Stabiliamo delle regole per l’emergenza , ma ripartiamo presto .
Come i medici e gli infermieri al fronte non possiamo negare ai più deboli un servizio essenziale come non possiamo negare ai più giovani e svantaggiati il diritto al lavoro, ve lo dico senza ipocrisia e così senza ipocrisia va data una risposta .
I latini direbbero : “ Hic Rhodus... più semplicemente gli eredi dicono : “ le chiacchiere stanno a zero” . Fatemi sapere .
Le disposizioni emergenziali del DL 17 marzo 2020 n. 18 per contenere il rischio di diffusione dell’epidemia di COVID19 nel contesto penitenziario
di Fabio Gianfilippi
Sommario: 1.Disposizioni emergenziali e carcere. - 2.L’esecuzione domiciliare in deroga: requisiti e preclusioni. - 3.La nuova misura alla prova del sovraffollamento e del rischio sanitario. - 4.Le licenze straordinarie per i semiliberi.
1.Disposizioni emergenziali e carcere.
Il DL “cura Italia” approvato ieri contiene, all’interno di una vasta congerie di interventi legati alle più varie necessità connesse all’emergenza che stiamo attraversando, anche alcune disposizioni relative al carcere (art. 123 e 124), che si aggiungono a quelle, per la verità di portata assai limitata, contenute nel DL 8 marzo 2020 n. 11.
2.L’esecuzione domiciliare in deroga: requisiti e preclusioni.
L’innovazione più significativa è la previsione di una misura, temporanea ed emergenziale, di detenzione domiciliare, secondo la terminologia usata nella rubrica, per i condannati a pena non superiore a 18 mesi, anche residui.
La nuova misura opera mediante alcune deroghe, previste con l’intento di incrementarne la concessione e semplificare l’istruttoria necessaria, con alcuni correttivi conseguenti, rispetto alla esecuzione domiciliare della pena non superiore a 18 mesi introdotta, anche in quel caso per ragioni emergenziali, con legge 26 novembre 2010 n. 199, poi in seguito modificata e ampliata e da ultimo stabilizzata nell’ordinamento con il D.L. 23 dicembre 2013 n. 146.
Si prevede che siano eseguite presso il domicilio o in altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza, le pene residue non superiori a 18 mesi. Il primo fondamentale requisito per usufruire della misura è dunque la disponibilità di un domicilio. Se la pena, anche residua, supera i sei mesi, occorre applicare all’interessato un dispositivo di controllo, ed è condizione dirimente che l’interessato presti il consenso all’attivazione del dispositivo. Inoltre quando, nel corso dell’esecuzione della misura concessa, la soglia di pena espianda scende al di sotto dei sei mesi la procedura di controllo viene disattivata.
Quest’ultima scelta si collega direttamente alla consapevolezza di dover operare con strumenti di controllo insufficienti per numero, e dunque della necessità da un lato di contingentarne l’uso allo stretto indispensabile, e dall’altro di intervenire mediante un apposito provvedimento del Capo DAP d’intesa con il capo della Polizia-Direttore Generale della Pubblica Sicurezza, che indirizzi le risorse verso gli istituti penitenziari maggiormente gravati e con evidenze di rischio epidemiologico più alto.
L’esecuzione in questi casi è quindi subordinata al concreto reperimento del mezzo di controllo ed è data priorità all’esecuzione in favore dei condannati che presentino un residuo pena inferiore.
Viene prevista, analogamente a quanto accade per la misura adottata ai sensi della L. 199/2010, una serie di eccezioni all’applicazione, che esclude innanzitutto i condannati per uno dei delitti inseriti nell’art. 4-bis ord. penit..
Si riproporrà, in questa sede, l’annosa querelle relativa alla possibilità di sciogliere il cumulo in caso di compresenza di titoli di condanna che comprendano quote di pena legate a reati di 4-bis e quote invece riferibili a reati comuni. La cassazione ha assunto nel tempo posizioni negative con riferimento all’esecuzione domiciliare ex L. 199 (cfr. indirizzo inaugurato con sent. Cass. 13.01.2012 n. 25046) ma larga parte della giurisprudenza di merito, sulla scorta del principio generale deducibile dall’insegnamento della cassazione (cfr. SU 30.06.1999, Ronga), lo ritiene possibile anche in questa ipotesi. Una simile strada appare percorribile pure con riferimento alla nuova misura, tanto più che, a fronte delle condizioni emergenziali che la determinano, deve ritenersi urgente darle la massima applicazione, tenendo anche conto della scelta operata dal legislatore di non esprimersi espressamente per la non operabilità dello scioglimento del cumulo (come accaduto nell’art. 41-bis co. 2 ult. parte ord. penit.) oppure di non utilizzare formule, pure leggibili in altre disposizioni in materia di misure alternative, che lo escludano (cfr. art. 94 Dpr 309/90: non concedibile ai condannati a pena superiore ai 4 anni, se relativa a “titolo esecutivo comprendente reato di cui all’art. 4-bis”; vd. anche l’orientamento della S.C. sul punto: sent. cass. 13.09.2016 n. 51882).
All’esclusione dei reati contenuti nell’elenco del 4-bis, si aggiunge, in controtendenza rispetto al proposito che la misura debba espandere l’ambito di applicabilità dell’esecuzione domiciliare, quella dei delitti di maltrattamenti in famiglia (art. 572 cod. pen.) e di atti persecutori (art. 612-bis cod. pen.), che.
Sempre similmente all’esecuzione domiciliare di cui alla L. 199, sono esclusi i destinatari di declaratoria di delinquenza abituale, professionale o per tendenza e chi sia sottoposto al regime di sorveglianza particolare, con l’aggiunta di un riferimento, che appare ultroneo, per il quale ciò non accade ove “sia stato accolto il reclamo previsto dall’articolo 14-ter della medesima legge”, ipotesi nella quale evidentemente il regime non è già più in essere.
Il legislatore aggiunge con il DL 18/2020 ulteriori deroghe, che appaiono inedite: al posto del requisito di una positiva condotta penitenziaria, deducibile dalla necessità di acquisire una relazione sul punto dall’istituto penitenziario (cfr. art. 1 co. 4 sec. per. L. 199), si richiede qui che l’istante non sia stato sanzionato per una serie di fattispecie di rilevanza disciplinare per comportamenti francamente violenti: la promozione o la mera partecipazione a disordini o sommosse, l’evasione e i fatti previsti dalla legge come reato, commessi in danno di compagni, operatori penitenziari o visitatori, fattispecie quest’ultima che forse, a differenza delle altre tre, avrebbe meritato una valutazione caso per caso e nel contesto della più generale condotta penitenziaria tenuta, piuttosto che una assoluta preclusione.
Di stretta attualità è poi l’ulteriore esclusione legata all’essere destinatari di un rapporto disciplinare per aver preso parte alle sommosse iniziate il 7 marzo 2020. Per tali episodi non si è potuto infatti ancora provvedere ai sensi dell’art. 81 reg. es., ma si voleva comunque evitare che i detenuti che avevano a tal punto perturbato l’ordine potessero beneficiare della misura oggi prevista. Deve però immaginarsi che, al di là del rapporto disciplinare, ove nelle prossime settimane il procedimento dovesse concludersi e, ad esempio, condurre alla non irrogazione di una sanzione, perché sia riconosciuto che il detenuto non ha apportato un proprio contributo alla sommossa, la preclusione dovrebbe intendersi superata da quell’accertamento. Allo stesso modo ove il magistrato di sorveglianza dovesse annullare nel merito il provvedimento disciplinare eventualmente irrogato, ove adito ai sensi degli art. 35-bis e 69 co. 6 lett. a) ord. penit.
Il magistrato di sorveglianza dispone la misura, salvo che ravvisi gravi motivi ostativi alla sua concessione. Si tratta di una formula di non semplice interpretazione.
Rispetto alla misura di esecuzione domiciliare ordinaria, la nuova disposizione emergenziale oggi in commento restringe infatti, per come visto, il campo di applicazione da un lato, mentre dall’altro elimina il riferimento chiave contenuto nell’art. 1 L. 199/2010 al più significativo accertamento che deve essere compiuto dal magistrato di sorveglianza in quella sede e cioè che l’esecuzione domiciliare si appalesi misura inidonea a fronte di una concreta possibilità di darsi alla fuga, oppure di recidiva nel delitto. La stessa relazione comportamentale richiesta da quella disposizione, qui può essere omessa, divenendo essenziale solo la verifica dell’assenza di sanzioni disciplinari nell’anno antecedente.
Si tratta di modifiche volte a semplificare l’istruttoria necessaria e a favorire applicazioni più celeri.
La residuale formula ostativa alla concessione della misura di cui al DL 18/2020 non può che essere quindi letta alla luce di questi espressi obbiettivi della legge, che precludono una valutazione prognostica sugli elementi appena sopra ricordati. Deve cioè trattarsi di un accertamento minimale, da compiersi allo stato degli atti, che ad esempio potrebbe riguardare la contemporanea sussistenza di provvedimenti cautelari, non solo in carcere, deducibili dalla posizione giuridica del condannato e certamente ostativi alla concessione. Sembra doversi escludere, in questa chiave, che si debbano richiedere informazioni circa carichi pendenti che comunque non hanno condotto all’irrogazione di misure cautelari, poiché si tratta di disporre misure domiciliari, dunque già di per sé significativamente contenitive, e che saranno presidiate, in particolare per le pene comprese tra i sei ed i diciotto mesi, anche mediante gli strumenti di controllo elettronici.
L’iniziativa sembra essere dell’interessato, come fa intendere il riferimento all’istanza, contenuto nel primo comma della disposizione, ma di fatto all’intera fase istruttoria provvede l’istituto penitenziario che, per consentire la più celere applicazione della misura, senza gravare sugli uffici di sorveglianza, già in grande difficoltà da tempo, ed ora ulteriormente in affanno in relazione all’emergenza sanitaria, verifica la pena residua dell’interessato, l’assenza delle preclusioni di cui abbiamo parlato, la disponibilità del condannato ad essere controllato mediante strumenti adeguati (ove con fine pena non inferiore a sei mesi) e trasmette il verbale di accertamento di idoneità del domicilio, da valutarsi anche rispetto alle esigenze di tutela della persona offesa dal reato. L’elemento di più significativa novità rispetto allo schema della Legge 199 sta nel fatto che tale ultimo accertamento è prioritariamente effettuato dalla medesima polizia penitenziaria e, solo eventualmente, da altri (ad esempio ove già presente agli atti in relazione a precedenti richieste). Nel caso di condannato sottoposto ad un programma di recupero dalla tossico o alcoldipendenza è inoltre previsto che sia allegata la documentazione richiesta dall’art. 94 Dpr 309/90.
Una speciale attenzione è infine dedicata al condannato minorenne. Per il suo caso infatti non è prevista la necessità di disporre l’uso del “braccialetto elettronico”, anche quando la pena residua da espiare sia compresa tra i sei ed i diciotto mesi, mentre l’ufficio di servizio sociale minorenni, competente per territorio in relazione al domicilio, in raccordo con l’equipe educativa dell’istituto penitenziario, provvede a redigere, in trenta giorni dalla comunicazione che la misura è in corso, un programma educativo (art. 3 Dlgs 2 ottobre 2018 n. 121) che viene portato all’attenzione del magistrato di sorveglianza per l’eventuale approvazione.
Nell’ultimo comma dell’art. 1 è previsto infine un rinvio generale alle disposizioni contenute nell’art. 1 L. 199/2010, in quanto compatibili. Quest’ultima norma, a sua volta, rinvia per il procedimento all’art. 69-bis ord. penit.
Il magistrato di sorveglianza decide quindi con ordinanza adottata in camera di consiglio, senza la presenza delle parti, non prima di cinque giorni dalla richiesta di parere al pubblico ministero, ed anche nell’ipotesi che lo stesso non sia emesso. E’ prevista la possibilità per il difensore, l’interessato e il pubblico ministero, di proporre, entro dieci giorni dalla comunicazione, reclamo al Tribunale di sorveglianza, che provvede ai sensi dell’art. 678 cod. proc. pen.
In forza del rinvio operato, inoltre, deve ritenersi applicabile anche a questa nuova misura il divieto di cui all’art. 58- quater ord. penit., di concessione per tre anni dall’avvenuta revoca di una misura alternativa o dal momento di in cui è ripresa l’esecuzione della custodia o della pena dopo una condotta di evasione.
3.La nuova misura alla prova del sovraffollamento e del rischio sanitario.
Il discostamento della misura in deroga dallo schema di cui alla L. 199/2010 (in rubrica per altro denominata detenzione domiciliare, con una scelta non operata, a ragione, in quella sede, per distinguerla opportunamente dalla misura alternativa in senso proprio, che richiede la sussistenza di ben altri requisiti, tra i quali una valutazione legata ai risultati dell’osservazione di personalità condotta in istituto penitenziario), appare comunque esiguo perché possa dal nuovo istituto derivare una sensibile implementazione delle uscite dal sistema penitenziario, oggi prioritaria per ripristinare migliori condizioni detentive e, riducendo il tasso di sovraffollamento, rendere meno grave il pericolo di diffusione del contagio negli stabilimenti penitenziari, in cui c’è il rischio che non possa garantirsi il distanziamento sociale minimo che è oggi imposto a tutti i cittadini.
C’è però da attendersi qualche passo avanti dall’affidamento alla polizia penitenziaria dell’istruttoria sin qui resa più complessa dalla pluralità di attori normalmente coinvolti e dalla rarefazione, specialmente nel presente periodo emergenziale, delle forze in campo (si pensi agli uffici esecuzione penale ma anche ai molteplici impegni delle forze di polizia sul territorio).
E c’è da immaginare che, così come avvenne dopo l’introduzione della legge 199/2010, vi sia una risposta immediata da parte degli istituti penitenziari in grado di consentire un primo, anche se limitato, numero di scarcerazioni, quasi che una nuova norma, pur sovrapponibile in larga parte ad un’altra già esistente, fosse per questo più cogente. In realtà già oggi le direzioni degli istituti penitenziari dovrebbero, non solo a istanza di parte, istruire richieste di esecuzione domiciliare delle pene detentive non superiori a diciotto mesi e, se ciò in alcuni casi non è più di recente accaduto, deve ritenersi un ulteriore frutto amaro dei tassi di sovraffollamento che da tempo affliggono di nuovo il sistema penitenziario e che l’attuale situazione epidemiologica sta ulteriormente evidenziando.
D’altra parte sembra anche urgente prendere atto che il mondo penitenziario, nel tempo dell’emergenza sanitaria, vede progressivamente ridursi la sua capacità di contribuire alla risocializzazione del reo, poiché ciò che normalmente riempie la giornata del condannato, ove anche tutto funzioni normalmente per il meglio, è oggi di fatto sospeso (scuola, attività svolte dai volontari, percorsi terapeutici intramurari, sostegno psichiatrico, persino, almeno in alcuni istituti), per non aggravare il già elevato rischio di portare dentro il carcere il contagio, e ciò conduce con sé inevitabilmente un rarefarsi delle attività di osservazione e trattamento. Elementi in grado di incidere, più in generale, anche sul requisito del grave pregiudizio derivante dal protrarsi della detenzione che, sorregge i provvedimenti provvisori emessi dal magistrato di sorveglianza ai sensi dell’art. 47 co. 4 ord. penit.
La misura sin qui descritta, per come detto di natura emergenziale è destinata a durare dall’entrata in vigore del decreto al prossimo 30 giugno 2020. La formula è analoga a quella che fu utilizzata con la L. 199/2010, nel periodo in cui la stessa era concepita come misura temporanea. Deve quindi intendersi che sino a quella data potranno essere concesse misure domiciliari al maturare dei requisiti e che le stesse resteranno in vigore anche oltre e sino al fine pena, salvo comportamenti negativi del condannato destinatario.
Il DL 18/2020 prevede comunque mere deroghe all’ormai ordinaria esecuzione domiciliare di cui alla L. 199/2010, che continua a rimanere una opzione percorribile per quei casi che non possano rientrare nella previsione di cui al DL varato ieri. Si pensi all’ipotesi di indisponibilità dei dispositivi di controllo, quando dalla documentazione il magistrato di sorveglianza sia comunque in grado di escludere la sussistenza concreta del pericolo di fuga o di reiterazione del delitto.
4.Le licenze straordinarie per i semiliberi.
Si inserisce nel solco delle disposizioni già contenute nel DL n. 11 dell’8 marzo 2020 quanto previsto nell’art. 124.
Con il primo DL citato, infatti, si consentiva alla magistratura di sorveglianza di sospendere, sino al 30 giugno 2020, la concessione di permessi premio e del regime di semilibertà, tenuto conto delle evidenze rappresentate dall’autorità sanitaria. Nel DPCM varato in pari data, inoltre, all’art. 2 (misure per il contrasto e il contenimento sull’intero territorio nazionale del diffondersi del virus COVID-19), co. 1 lett. u) venivano consegnate indicazioni in materia di protocolli sanitari per i nuovi giunti, modalità di effettuazione dei colloqui con i familiari sostitutivi dei visivi, sino al permanere del divieto di effettuarli in relazione all’emergenza, e si raccomandava, infine, di “limitare i permessi e la libertà vigilata o di modificare i relativi regimi in modo da evitare l’uscita e il rientro dalle carceri, valutando la possibilità di misure alternative di detenzione domiciliare”.
Quest’ultimo periodo della lett. u) appariva da subito segnato dall’uso di termini atecnici (il riferimento alla libertà vigilata forse rimanda al regime applicabile al semilibero in licenza ex art. 52 co. 2 ord. penit.) e da una difficoltà di riconoscerne i destinatari, se non le finalità, all’evidenza di limitare il rischio di contagio derivante dai frequenti rientri dall’esterno all’interno di persone per ciò solo maggiormente esposte.
Da quel compendio di disposizioni si è comunque tratta la convinzione che i programmi di trattamento dei semiliberi, ma anche degli ammessi al lavoro in art. 21 ord. penit., non ricordati dalle norme, ma in posizione assolutamente identica quanto alla quotidianità penitenziaria, dovessero essere sottoposti a verifica e, alla luce del susseguirsi di disposizioni emergenziali ormai estese a tutto il territorio nazionale, condurre alla eventuale sospensione, in particolare ove le attività lavorative svolte fossero comunque interrotte, come previsto dal DPCM 11 marzo 2020, perché non essenziali.
Per evitare il rientro in carcere di chi potesse continuare a svolgere l’attività lavorativa sono state sperimentate in vari uffici di sorveglianza concessioni di licenze della durata di 15 giorni e, per i detenuti in art. 21, permessi ugualmente di 15 giorni (il massimo consentito dal disposto dell’art. 30- ter co. 1 ord. penit.).
Tali provvedimenti, tuttavia, si scontrano inevitabilmente con la realtà di una epidemia che richiede maggior tempo per essere riassorbita e con una normativa che prevede comunque un tetto massimo di giorni di permesso premio o di licenza fissato in 45 annui.
La disposizione oggi introdotta consente di superare questo ostacolo, prevedendo che le licenze concesse al semilibero possano durare sino al prossimo 30 giugno, anche in deroga al limite complessivo fissato dall’art. 52 co 1.
L’obbiettivo della norma è, ancora una volta, di ridurre i frequenti rientri in istituto penitenziario e si apprezza anche perché consente di non compromettere i percorsi risocializzanti, mediante il lavoro, che una eventuale sospensione del regime di semilibertà altrimenti comporterebbe.
Sembra che le licenze che si possono chiedere non debbano essere necessariamente continuative e tuttavia, per realizzare il massimo contenimento del rischio, la soluzione di continuità appare decisamente da evitare.
Resta invece non risolto il nodo relativo alla concessione dei permessi premio, per i quali, come si è visto, il DL n. 11/2020 prevedeva una opportuna valutazione da parte del magistrato di sorveglianza ai fini di una eventuale sospensione. Lo strumento però avrebbe potuto, ove se ne fosse estesa la concedibilità a periodi superiori ai 45 giorni annui, almeno in casi valutati individualmente dall’a.g., costituire, come la licenza, un’altra valvola di uscita, seppur temporanea, da un carcere sovraffollato e perciò meno utile alla costruzione di percorsi rieducativi e oggi a più forte rischio di diffusione del contagio.
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