ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Gli Uffici di sorveglianza ai tempi del virus
Cronaca di un’emergenza doppia
di Chiara Semenza
Alcuni interrogativi di una giovane magistrato di sorveglianza, alla prima funzione giurisdizionale, dinanzi alle novelle emergenziali, alla loro (in)tempestività e alle finalità perseguite esplicitamente, ma anche e inevitabilmente implicitamente.
Genova, 8 marzo 2020: attraverso ogni mezzo di comunicazione si parla più insistentemente del nuovo virus che dall’Oriente si è spinto in Occidente; chi lo paragona ad una influenza, chi prospetta il rapido contagio, sebbene con conseguenze non esiziali e chi invece inizia ad intravedere i profili di quella che proprio da quel giorno, anche dai nostri governanti, viene qualificata pandemia.
Interviene l’esecutivo che, con un decreto, intraprende misure straordinarie per prevenire il dilagare del contagio e per apprestare soluzioni ai diversi profili della vita comune, comune come è la realtà del carcere che, silente, costituisce parte significativa della nostra società.
Vengono previsti, quanto alla sorveglianza, differimenti delle udienze con soggetti non detenuti, modalità di collegamento a distanza in luogo delle ordinarie traduzioni, celebrazione necessaria di procedimenti con soggetti detenuti o internati e, con riguardo al trattamento intramurario, la sola (facoltativa ovvero rimessa al Magistrato di Sorveglianza) “sospensione” dei permessi premio e della semilibertà; null’altro.
Rimango delusa, nel decreto legge nessun dettagliato intervento riguardante l’esecuzione penale e così anche quel giorno, in dichiarata emergenza, nel silenzio, la quotidianità intramuraria deve andare avanti, peraltro con soluzioni efficaci da adottarsi in brevissimo tempo.
Iniziano le telefonate con i Direttori delle carceri, si avvia il confronto fra i colleghi ed i capi degli Uffici Giudiziari, si sfoglia l’ordinamento penitenziario e si inizia il vaglio delle posizioni dei singoli ristretti.
Le Direzioni penitenziarie, operose ed affannate, lamentano la criticità dei continui (inevitabili) accessi e uscite dagli Istituti: chi esce quotidianamente in regime di semilibertà per poi rientrare alla sera, chi si allontana un paio di ore in regime di lavoro all’esterno, chi ha ottenuto un permesso premio orario e chi invece giornaliero, dovendo talvolta spostarsi di città e magari attraverso affollati mezzi pubblici.
Il trattamento (per essere realmente tale e non esaurirsi in un semplice intermezzo) deve proseguire, anche nella criticità, ma come è possibile mantenerne l’operatività dinanzi ad un’emergenza sanitaria imprevista, dai contorni indefiniti, senza che neppure le Istituzioni abbiano ipotizzato rimedi per salvaguardarne il contenuto nel nuovo contesto emergenziale?
È così che all’esito di uno scambio continuo con le Direzioni, con il Corpo di Polizia penitenziaria, con gli educatori, con i Capi degli Uffici giudiziari, con i colleghi, e con il contributo insostituibile delle cancellerie, in poche ore vengono effettuate coraggiose, e in alcuni casi sperimentali, applicazioni delle norme penitenziarie: si cerca di rileggerne il significato, pur senza snaturarlo, con l’intento di applicare la legge, sempre, anche in piena pandemia.
I giorni proseguono affannosi e frenetici; attendo una normativa specifica -riguardante i detenuti, ma anche i soggetti in esecuzione penale sul territorio- che ritengo non possa ancora tardare ad arrivare. Solo il 17 marzo viene approvato un nuovo decreto legge che dedica due (!) articoli (123 e 124) a quelli che appaiono come rimedi al sovraffollamento carcerario nell’emergenza sanitaria: una nuova espiazione della pena al domicilio (con ampissime deroghe alle ordinarie restrizioni di legittimità e di merito) ed una dilatazione numerica dei giorni di licenza di cui godere in semilibertà, entrambi operativi sino al 30.6.2020.
Rileggo più volte le norme, sono una giovane magistrato ed è bene non mi fermi ad un primo vaglio della legge, ma cerchi di comprenderne il contenuto in modo dettagliato, confrontando i testi legislativi, individuando l’intento del legislatore, capendo il contesto in cui è stata approvata la novella e cercando di fornire un’interpretazione che non disattenda gli interessi (tutela della salute-certezza della pena) coinvolti.
Nonostante i diversi tentativi, l’impressione che univocamente ne derivo è che lo Stato, ed in questo caso l’Esecutivo, si sia ricordato dell’emergenza del sovraffollamento solo in questa circostanza, così che si potrebbe arrivare a dedurre che un sovrannumero di ristretti in Istituto è giustificabile in contesti ordinari, mentre solo in presenza di pandemia non lo è più.
Non solo, dinanzi alle ampissime esplicite deroghe alla fruibilità dell’esecuzione presso il domicilio, mi domando quale sia, oltre allo smaltimento delle carcerazioni, l’intento perseguito dal Legislatore. Perché se è vero che la tutela della salute rientra fra il novero dei diritti fondamentali (sempre che la soluzione paventata sia qualificabile come rimedio preventivo per la salute dei detenuti), è altrettanto vero che anche l’amministrazione Giustizia (in senso ampio) vi ricade, tanto che nella codificazione costituzionale la norma dedicata alla pena ed alla sua esecuzione precede (ancorché di poco) l’articolo dedicato alla salute del singolo e della collettività.
Mi interrogo; davvero il decreto legge non sarebbe potuto intervenire con un contenuto maggiormente rispettoso del percorso rieducativo e risocializzante dei detenuti? Realmente, in questa situazione di criticità (dalla durata allo stato indefinibile), le Istituzioni sono in grado di fronteggiare la pena (che deve essere certa ed indefettibile) quasi prendendone le distanze?
È leale delegare il compito di decidere le sorti delle esecuzioni penali, in questo scenario imprevedibile, alla magistratura di sorveglianza?
È di certo più agevole e meno pubblicamente criticabile di una depenalizzazione o dell’approvazione di un indulto.
Senza tralasciare l’omissione legislativa di qualsivoglia menzione ai soggetti in esecuzione penale sul territorio e alle conseguenze che questa emergenza apporterà al contenuto delle misure alternative che stanno conducendo.
Da giovane magistrato di sorveglianza, alla prima funzione giurisdizionale, so di avere ancora molto da imparare e sono conscia del fatto che occorreranno anni di servizio per rispondere agli interrogativi che mi sono posta. Nonostante la frenesia e l’incedere serrato di questi giorni, malgrado le difficoltà quotidiane (tangibili) dell’esecuzione penale, a discapito della carenza di personale e di risorse, la funzione giurisdizionale che ho scelto e che ogni giorno imparo a svolgere mi spinge a migliorare e per questo mi piace, in questo contesto più che mai, tantissimo.
Emergenza COVID-19. Intervista alla presidente della Consulta Marta Cartabia
di Roberto Conti
Presidente Cartabia, nel suo ultimo decreto presidenziale dedicato alle misure organizzative adottate dalla Corte costituzionale per la gestione dell’emergenza epidemiologica lei ha premesso la “necessità di operare in spirito di leale collaborazione con le altre istituzioni repubblicane nell’impegno comune a fronte della situazione presente”. Perché questa sottolineatura?
L’emergenza COVID-19 rappresenta ad ogni effetto un momento di crisi, e il momento della crisi è il momento della cooperazione. Come a livello personale è il tempo della solidarietà, così a livello istituzionale è tempo di rafforzare la cooperazione. Non dimentichiamoci che tra i principi costituzionali c’è anche quello della “leale collaborazione”: fra corti, fra stato e regioni, fra ministri, fra governo e parlamento, fra corti e legislatore, etc. Tutte le istituzioni sono chiamate, nella distinzione dei ruoli e nella separazione dei poteri, a una leale e reciproca collaborazione, massimamente con il Presidente della Repubblica. Se c’è un tema su cui riflettere – e su cui sto personalmente riflettendo – è proprio quello della cooperazione istituzionale, a partire dalla rivisitazione di alcuni contributi classici, come quelli di Vittorio Bachelet su coordinamento, cooperazione, intese, accordi. Si tratta di aspetti essenziali di tutto il diritto pubblico, che mettono l’accento sui profili “relazionali” delle istituzioni, capaci di prevenire il conflitto e di incrementare l’efficacia dell’azione pubblica, nel pieno rispetto dell’autonomia di ciascuno.
Quali sono i nodi che la Corte costituzionale si trova a dovere affrontare nell’immediato dal punto di vista organizzativo e quali potrebbero essere oggetto di interventi da parte della stessa Corte in forma di autoregolamentazione normativa o ope juris prudentiae?
Siamo stati colti tutti di sorpresa, tanto i cittadini quanto le istituzioni pubbliche: tutti abbiamo dovuto rapidamente adattare il nostro modo di agire a una situazione davvero sconvolgente, inedita e imprevedibile. Anche la Corte lo sta facendo, cercando di assicurare, come sempre ripete nella sua giurisprudenza, un ragionevole e proporzionato bilanciamento tra tutte le esigenze in gioco. In questo caso le esigenze da contemperare sono la tutela della salute di ciascuno, come diritto individuale e come bene della collettività, nonché la garanzia della continuità delle funzioni essenziali dello Stato, tra cui non può non essere annoverata la garanzia costituzionale affidata alle competenze della Consulta.
Concretamente, come avete contemperato queste due esigenze?
La prima preoccupazione è stata quella di creare condizioni di operatività della Corte che evitassero di esporre le persone a rischi di contagio e limitassero al massimo gli spostamenti, senza pregiudicare la funzionalità dell’istituzione. La prima attenzione è stata rivolta alle persone: ai giudici, agli avvocati, agli assistenti, a tutto il personale che fa funzionare la macchina della giustizia costituzionale. Improvvisamente ci siamo trovati a dover riorganizzare tutta l’istituzione per tutelare tutti e ciascuno, senza però fermare i motori della Corte. Non è stata un’operazione facile, per le caratteristiche della istituzione, anche se – mi preme sottolinearlo - il clima di unità della Corte, oserei dire di affiatamento fra tutti, ha molto semplificato il compito di chi si trova pro tempore al timone.
Molti giudici costituzionali vengono da fuori Roma
Esatto, e questa è stata la prima difficoltà. I giudici della Corte provengono da tutta Italia: al momento il Collegio è composto da colleghi residenti in Lombardia, Veneto, Toscana, Trentino-Alto Adige, Emilia Romagna, Lazio. Lo stesso accade con gli assistenti di studio, supporto fondamentale per il lavoro della Corte. Ma la cerchia delle persone che sono coinvolte e che arrivano da tutto il territorio nazionale è ancora più ampia perché, per la natura dei giudizi costituzionali, gli stessi avvocati che difendono davanti alla Corte costituzionale si muovono da ogni dove. Perciò i primi provvedimenti – in particolare il decreto del 12 marzo 2020 – sono stati volti a introdurre forme “telematiche” di comunicazione degli atti processuali, in deroga alle regole in vigore che richiedono che gli atti siano depositati materialmente nella Cancelleria della Corte. Contemporaneamente ci siamo adoperati per organizzare forme di smart work, o come si dice “lavoro agile”, per tutto il personale che svolge mansioni idonee. Per gli altri, che necessariamente debbono lavorare in presenza, abbiamo ridotto gli orari e previsto turnazioni, per ridurre al minimo i contatti di persona, senza però chiudere il Palazzo.
Così abbiamo introdotto un piccolo primo seme di processo telematico, un po’ improvvisato e di supporto all’emergenza, nelle forme più semplici e immediate da implementare, via PEC, a valere in via assolutamente transitoria. Contemporaneamente abbiamo ripreso in mano un progetto più organico di smaterializzazione del processo costituzionale da approvare a regime.
Il mio auspicio è che, sulla spinta dell’emergenza, sia il processo telematico sia forme di lavoro a distanza possano essere oggetto di una riforma stabile, valevole anche per il futuro. Su questo siamo al lavoro.
Il messaggio è che la Corte costituzionale non si ferma ma continua a lavorare. Con quali modalità per quanto riguarda le udienze?
Riguardo alle udienze pubbliche, ci siamo mossi con gradualità, nel solco di quanto previsto anche da altre Corti costituzionali e sovranazionali europee.
Dapprima abbiamo sospeso le sessioni di marzo e abbiamo continuato solo i lavori in camera di consiglio, predisponendo un’apposita aula, nella più ampia Sala Conferenze, utilizzando i vecchi arredi del processo Lockheed, in modo da poter assumere tutte le precauzioni suggerite, garantire le distanze fra i presenti e attrezzare tecnologicamente la camera di consiglio.
Poi, con il secondo decreto discusso in collegio il 23 marzo, abbiamo deciso di proseguire i lavori di deliberazione in camera di consiglio e di lettura sentenze anche “da remoto”. Lo stesso vale per le altre attività interne della Corte. Un bel cambiamento per una istituzione che non era avvezza a queste modalità di interazione.
Diversa la scelta per le attività pubbliche della Corte. Infatti, per quanto riguarda le udienze pubbliche al momento abbiamo scelto di non percorrere la strada della videoconferenza. I giudizi da trattare in pubblica udienza saranno di volta in volta rinviati per tutto il tempo che sarà necessario, consentendo però alle parti di richiedere che la decisione della causa possa passare in camera di consiglio senza trattazione orale. Per questa opzione, occorre però che tutte le parti siano d’accordo.
Quale risposta vi aspettate dagli avvocati?
Ci aspettiamo che in più di un caso gli avvocati si avvalgano di questa possibilità, considerato che il processo costituzionale è un processo prevalentemente scritto e, per alcuni tipi di cause, tutti gli argomenti utili alla decisione possono emergere esaustivamente dagli atti processuali depositati. In questa scelta ci siamo ispirati a quanto previsto per il processo amministrativo dall’art. 84 del dl n. 18 del 2020, applicabile ai giudizi costituzionali con i dovuti adattamenti in virtù dell’art. 22 della legge n. 87 del 1953. Tuttavia, rispetto al modello prescelto per il processo amministrativo abbiamo inteso valorizzare di più la volontà delle parti: nei giudizi costituzionali la trattazione in udienza pubblica può essere molto importante, sia per non comprimere il contraddittorio, sia per non sacrificare la pubblicità della trattazione di quelle cause che abbiano particolare rilievo pubblico. A questo proposito può valer la pena sottolineare che il Presidente può decidere comunque il rinvio dei giudizi per consentirne la trattazione nelle forme ordinarie, essendo uno dei suoi compiti proprio quello di governare il calendario dei lavori.
In una situazione di grave emergenza come quella che stiamo vivendo, potrebbero anche nascere conflitti tra poteri. In tal caso, la Corte sarebbe pronta ad intervenire?
Certamente. Tutte le regole dettate per l’emergenza non varranno se si dovesse presentare la necessità della trattazione immediata di un giudizio di particolare gravità: non si deve dimenticare che la Corte è custode della Costituzione, sia nella parte in cui si tutelano i diritti delle persone sia nella parte in cui si garantisce la separazione e l’equilibrio fra i poteri. A questo compito nessuna democrazia può rinunciare nemmeno temporaneamente, nemmeno in un periodo di emergenza. In ogni caso la Costituzione non lo consente.
Quando sarà possibile “recuperare” le cause rinviate?
La Corte si è già predisposta a intensificare le sue adunanze subito dopo la fine dell’emergenza, all’occorrenza anche nel periodo estivo, per “recuperare” le sessioni pubbliche che non si sono potute svolgere. Abbiamo già immaginato un calendario più intenso nei mesi di giugno, luglio e settembre. Speriamo di poter incrementare il lavoro anche prima.
Ritiene che il processo al quale la Sua presidenza ha dato vigoroso impulso con le modifiche regolamentari del gennaio 2020, tese a rendere più efficace e partecipato il processo, subirà un rallentamento in ragione dell’emergenza epidemiologica?
Direi e spererei di no. Le modifiche che abbiamo introdotto sulla partecipazione degli amici curiae, degli esperti e dei terzi interessati sono scritte in norme a regime e sono state condivise dal Collegio. È una buona cosa che quella riforma sia stata perfezionata prima dell’emergenza: resterà a beneficio della Corte nel futuro. Del resto, abbiamo già in calendario l’audizione di alcuni esperti – avremmo dovuto sentirli questa settimana, ma anche questo appuntamento è stato rinviato -; d’altronde, la partecipazione degli amici curiae si sta già attivando spontaneamente. Presumibilmente ci sarà una piccola battuta d’arresto, come per ogni altra attività: oggi tutto è rallentato; ma sono fiduciosa che la celebrazione partecipata dei processi costituzionali riprenderà appena le condizioni lo consentiranno.
Negli ultimi anni la Corte si è mostrata molto attenta alla comunicazione con l’opinione pubblica. Cosa accadrà in questo periodo?
Le attività ordinarie di comunicazione continueranno, con i consueti comunicati stampa e l’aggiornamento costante del sito, sia in lingua italiana che in lingua inglese. Continua anche la comunicazione attraverso i social. Abbiamo però dovuto sospendere l’appuntamento annuale con la stampa, previsto per il 9 aprile: una tradizione consolidata che si è mantenuta quasi ininterrottamente sin dai primi anni di attività della Corte. Anche in questo caso però troveremo un modo per riproporre un incontro con i media, non appena le circostanze lo consentiranno.
Stiamo vivendo momenti estremamente delicati, nei quali l’attuale contesto ha messo a nudo fragilità di vario ordine e grado. Il pensiero corre, soprattutto, alla popolazione anziana ed a quella dei reclusi in strutture penitenziarie. Si sente di fare giungere una sua riflessione a chi vive quelle condizioni?
Chi svolge la funzione di garanzia dei diritti costituzionali non può non avvertire una spiccata sensibilità per le persone che si trovano in condizioni di particolare fragilità: anziani, disabili, malati, i tanti malati anche di patologie diverse dal coronavirus, e tante persone sole o famiglie che si trovano o si troveranno in condizioni economicamente precarie. Tra le persone in condizioni di particolare delicatezza naturalmente non mancano i detenuti e tutti coloro che lavorano nel mondo del carcere: la polizia penitenziaria, l’amministrazione, gli educatori, il personale sanitario, i volontari. In queste comunità chiuse c’è una maggior esposizione al rischio e una minore disponibilità di mezzi di prevenzione. Ho visto che in queste settimane si sta sviluppando un importante dibattito in proposito, anche a livello giuridico e istituzionale, e lo sto seguendo con molto interesse. La Corte costituzionale, che negli ultimi anni ha imparato a conoscere da vicino il mondo del carcere, segue con molta attenzione e molta trepidazione ogni notizia che proviene dagli istituti di pena.
Se la sentirebbe di ipotizzare qualche soluzione? O comunque di dire qualcosa a chi sta vivendo ore ancora più drammatiche?
Per le funzioni che svolge, non è compito della Corte ideare o proporre soluzioni, né tanto meno assumere iniziative. Però, quando richiesta, la Corte è sempre pronta a difendere i diritti costituzionali di tutti. Quale messaggio posso far pervenire alle tantissime persone che si trovano in condizioni così drammatiche? Posso solo ripetere le parole di chi mi ha preceduto, il presidente Lattanzi: la Costituzione è lo “scudo” di tutti. E per parte mia posso aggiungere che la Corte c’è. A difesa di quei diritti e dell’intera Costituzione la Corte c’è.
L’emergenza che sta vivendo l’Europa e il mondo coinvolge sicuramente anche le Corti costituzionali di altri Paesi. Cosa ci può dire in proposito? Pensa che il processo di cooperazione fra le Corti nazionali e la Corte europea dei diritti dell’uomo potrebbe subire un rallentamento in ragione dello stato attuale?
Negli ultimi decenni si è sviluppata una virtuosa cooperazione tra le Corti, a livello nazionale e a livello sovranazionale. È un patrimonio che non dobbiamo permettere che si disperda, perché dal confronto con altri giudici su problematiche comuni sono nati nuovi strumenti giuridici, sono state messe a punto più precise tecniche di giudizio, si è rafforzata la tutela dei diritti e dello stato di diritto.
Negli ultimi anni, la Corte costituzionale italiana si è molto spesa per la costruzione di rapporti di cooperazione internazionale e intende continuare a farlo. Certo, per i prossimi mesi, con non poca mestizia, abbiamo dovuto cancellare, uno dopo l’altro, tutti gli incontri internazionali che erano già previsti in questi e nei prossimi mesi. Anche la Corte costituzionale aveva una agenda fitta: Riga, Praga, Budapest, Roma con la Corte tedesca a fine aprile, e poi abbiamo in programma per fine giugno un incontro quadrilaterale con Francia, Spagna e Portogallo. E poi a settembre Israele. Può darsi che questi incontri siano temporaneamente rinviati, così come è stato posposto il raduno delle Corti costituzionali europee previsto per maggio.
Tuttavia, molte delle relazioni tra le Corti sono state “istituzionalizzate”, sia con apposite procedure, sia attraverso l’istituzione di network di giudici, come la Conferenza delle Corti costituzionali europee e la Conferenza mondiale delle Corti costituzionali istituite grazie all’azione propulsiva della Commissione di Venezia nell’ambito del Consiglio d’Europa, della quale ho l’onore di far parte per l’Italia. Queste strutture giuridiche, spesso formalizzate per iniziativa italiana, consentiranno di riprendere i rapporti al termine dell’emergenza: tutti abbiamo sperimentato quanto proficua è ogni forma di interscambio fra Corti. Dentro la Corte italiana ci sono persone che stanno spendendo molte energie per coltivare i rapporti internazionali e da qualche anno abbiamo costituito anche un comitato di giudici che si occupa specificamente di questi aspetti. Sono certa che la ricchezza di relazioni costruita nel tempo non sarà spazzata via.
Gli operatori del diritto stanno affrontando, come la Corte costituzionale, un nuovo modo di esercitare le loro professioni. Pensa che da questa tragedia possa sorgere una consapevolezza maggiore verso i temi che riguardano la persona e l’ambiente, in una prospettiva sganciata dalla nazionalità?
In poche settimane stiamo vivendo una svolta epocale. Ne usciremo tutti cambiati. Molti lo hanno sottolineato in questi giorni: le crisi possono essere il preludio di una catastrofe oppure possono essere guardate come un’opportunità, come un fattore di grande progresso e innovazione. Nulla procede meccanicamente. C’è una riflessione della Arendt sulla crisi a cui sono molto affezionata e che può essere utile rileggere in questa contingenza: «Una crisi ci costringe a tornare alle domande; esige da noi risposte nuove o vecchie, purché scaturite da un esame diretto; e si trasforma in una catastrofe solo quando noi cerchiamo di farvi fronte con giudizi preconcetti, ossia pregiudizi, aggravando così la crisi e per di più rinunciando a vivere quell’esperienza della realtà, a utilizzare quell’occasione per riflettere, che la crisi stessa costituisce» (H. Arendt, Tra passato e futuro, Garzanti, Milano 1991, 229). La crisi e le domande. Questo è il tempo delle domande e della riflessione che nasce da esse. Oggi è il tempo delle domande autentiche e fondamentali, affinché “dopo” possa essere il tempo di una vera rinascita.
Amministrazione di sostegno e libertà di donare (nota a Corte cost.n.114/2019)
di Eugenia Serrao
SOMMARIO: 1. La sentenza di rigetto. – 2. La giurisprudenza di legittimità in tema di amministrazione di sostegno. – 3. La libertà di donare. – 4. La donazione come atto personalissimo. – 5. L’interesse esistenziale del donante. – 6. L’interesse esistenziale del beneficiario di amministrazione di sostegno. 7. Il potere-dovere di controllo dell’amministratore di sostegno. – 8. Il compito del giudice tutelare.
1. La sentenza di rigetto.
La Corte Costituzionale ha scelto la via della sentenza di rigetto per infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art.774, primo comma, primo periodo, cod. civ. promossa con ordinanza datata 19 febbraio 2018 del giudice tutelare del Tribunale di Vercelli. Il giudice a quo aveva fornito un’interpretazione secondo la quale la norma impugnata «non prevede che siano consentite, con le forme abilitative richieste, le donazioni da parte dei beneficiari di amministrazione di sostegno», precisando che la questione non era stata oggetto di specifiche pronunce della Corte di Cassazione.
2. La giurisprudenza di legittimità in tema di amministrazione di sostegno.
La pronuncia appena citata s’inserisce, peraltro, nel solco di un orientamento interpretativo, ripetutamente espresso dalla Corte di Cassazione, riguardante la sostanziale difformità di presupposti applicativi e di finalità degli istituti «incapacitanti» (interdizione ed inabilitazione), da un lato, e dell’amministrazione di sostegno, dall’altro. I primi tendenti a privare, in tutto o in parte, della capacità di agire coloro che, oltre a presentare una condizione d’infermità, non fossero in alcun modo in grado di provvedere alle proprie, pur minime, esigenze di vita; il secondo, al contrario, volto in positivo a valorizzare le residue capacità della persona, indipendentemente dal grado d’infermità (Cass. Sez.1, sent. del 26/07/2013, n.17962).
3. La libertà di donare.
Fin qui le questioni correlate alla conformità della norma ai principi espressi nella Carta costituzionale, calibrate sull’interpretazione dell’istituto sposata dalla giurisprudenza di legittimità.
4. La donazione come atto personalissimo. Occorre, qui, evidenziare che, sebbene al beneficiario di amministrazione di sostegno sia riconosciuta in linea di principio la «libertà di agire», che non spetta alla persona interdetta o inabilitata (ma non si dimentichi la capacità di testare dell’inabilitato desumibile a contrario dalla eccezionalità della norma dettata dall’art.591 cod. civ. rispetto alla regola della capacità, dunque dalla tassatività dell’elenco ivi contenuto), è anche vero che, argomentando dalla nullità del mandato a donare (art.778, primo comma, cod. civ.), la donazione è in dottrina inclusa nel novero dei cosiddetti atti personalissimi: atti giuridici, cioè, che non possono essere compiuti a mezzo di un rappresentante (cfr. art.777, primo comma, cod. civ.).
5. L’interesse esistenziale del donante. Se si supera il dualismo capacità del soggetto-interesse del soggetto, e si accede all’impostazione logica per cui i diversi profili che attengono al medesimo fatto giuridico sono tra loro concorrenti, si deve anche stabilire una gerarchia di valori. Nella gerarchia di valori di matrice costituzionale, gli interessi patrimoniali sono funzionali alla realizzazione dei valori esistenziali della persona, come in sostanza conferma la motivazione della sentenza in commento.
6. L’interesse esistenziale del beneficiario di amministrazione di sostegno.
In ogni caso, la natura non vincolante della sentenza di rigetto, in particolare della pronuncia di infondatezza non inquadrabile tra le «interpretative» di rigetto, sprona ad arare un ulteriore profilo, che merita particolare attenzione proprio con riguardo alla norma che disciplina l’incapacità di donare.
7. Il potere-dovere di controllo dell’amministratore di sostegno.
Se, dunque, si pone l’accento sul potere di controllo piuttosto che sul potere di rappresentanza o di assistenza spettanti all’amministratore, ecco che più agevole risulterà superare i suindicati punti di frizione.
8. Il compito del giudice tutelare.
L’attenzione può, ora, concentrarsi sul tema più stringente per l’interprete, al quale la sentenza in commento ha riconsegnato il compito di stabilire sulla base di quali valutazioni ed in presenza di quali presupposti di fatto il giudice tutelare debba orientarsi per decidere se al beneficiario di amministrazione di sostegno debba o meno estendersi, a norma dell’art.411, quarto comma, cod. civ., il divieto previsto dall’art.774, primo comma, cod. civ. E quale sia, in altre parole, l’interesse tutelato dalla predetta disposizione da bilanciare, ove con esso in conflitto, con l’interesse del beneficiario stesso.
Tale premessa è di fondamentale rilievo per comprendere la scelta dei giudici costituzionali di addivenire ad una sentenza di rigetto per infondatezza. La Corte Costituzionale pronuncia, infatti, la sentenza di rigetto per infondatezza quando risolve una questione di legittimità costituzionale semplice e chiara, da un lato limitandosi ad esaminare la disposizione di legge nel significato normativo individuato dal giudice a quo, dall’altro ritenendo comunque che l’interpretazione del giudice remittente non sia peregrina, inconsistente, in altre parole erronea.
La diversa strada da percorrere, ossia la pronuncia di una sentenza “interpretativa”, si sarebbe potuta intraprendere in quest’ultimo caso, per correggere l’interpretazione fornita alla norma dal giudice di merito. Ad analogo esito, si sarebbe giunti qualora la Corte Costituzionale avesse potuto fornire un’interpretazione secondo diritto vivente, correttiva dell’interpretazione della norma fornita dal giudice di merito.
Tenendo conto del fatto che, nel momento in cui la questione è stata rimessa alla decisione del giudice costituzionale, effettivamente poteva constatarsi l’assenza di un’interpretazione della norma impugnata consolidata nella giurisprudenza di legittimità, in guisa da non potersi dire già sussistente sul punto un diritto vivente ed essendo, tuttavia, già sottoposte al vaglio del giudice di legittimità questioni coinvolgenti la capacità di donare del beneficiario di amministrazione di sostegno (Cass. Sez.1, ord. del 21/05/2018, n.12460), la pronuncia della Consulta risulta apprezzabilmente rispettosa, da un lato, della funzione ermeneutica del giudice a quo e, dall’altro, della funzione nomofilattica della Corte di Cassazione.
Il giudice delle leggi rigetta la richiesta di una pronuncia additiva formulata dal giudice tutelare di Vercelli, secondo il quale l’art.774, primo comma, prima parte, cod. civ. sarebbe costituzionalmente illegittimo «nella parte in cui non prevede che siano consentite, con le forme abilitative richieste, le donazioni da parte del beneficiario di amministrazione di sostegno», escludendo che il divieto di donare ivi previsto si estenda al beneficiario di amministrazione di sostegno.
In difetto di espressa previsione normativa in un senso o nell’altro, la questione interpretativa s’incentrava sul significato normativo della locuzione «coloro che non hanno la piena capacità di disporre dei propri beni», così essendo indicati dalla norma i soggetti destinatari del divieto in parola.
La pronuncia premette un richiamo, questa volta, al diritto vivente che ha escluso l’applicazione analogica all’amministrazione di sostegno delle disposizioni codicistiche riguardanti l’interdizione e l’inabilitazione. La Corte di Cassazione (Cass. Sez.1, sent. del 11/05/2017, n.11536) aveva, infatti, espresso a chiare lettere che «i due istituti, l’uno diretto all’incapacitazione, l’altro al sostegno, ossia alla protezione di quei barlumi di capacità, quali che siano, non compromessi, lungi dal caratterizzarsi per l’analogia dell’uno con l’altro, si collocano su piani totalmente diversi» e che «una generalizzata applicazione delle limitazioni dettate per l’interdetto, per via di analogia, al beneficiario dell’amministrazione di sostegno è senz’altro da escludere», come peraltro desumibile a contrario dalla previsione dell’art.411, ultimo comma, cod.civ. In base a tale norma spetta, infatti, all’autorità giudiziaria disporre, nell’esclusivo interesse del beneficiario, talune limitazioni tipicamente previste per l’interdetto o per l’inabilitato, da ciò desumendosi che nessuna di dette limitazioni sia imposta in via generale ed astratta dal legislatore con riguardo a tale beneficiario.
La pronuncia in commento disvela l’ulteriore profilo per cui anche un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma non lascia margini di dubbio circa l’estraneità del beneficiario di amministrazione di sostegno al novero di «coloro che non hanno la piena capacità di disporre dei propri beni», ferma restando la possibilità di estendergli, ove necessario, tale limitazione ai sensi dell’art.411, quarto comma, primo periodo, cod. civ. Interessante il richiamo ai diritti inviolabili espressi nell’art.2 Cost., questa volta con riferimento alla dimensione sociale dell’individuo ed all’esplicazione della «libertà della persona di donare gratuitamente il proprio tempo, le proprie energie e…ciò che le appartiene».
Il diritto vivente espresso dall’autorità giudiziaria in funzione nomofilattica è, oltretutto, in linea con lo spirito della legge efficacemente delineato dalla stessa Consulta sin dal 2005. All’indomani dell’entrata in vigore della legge 9 gennaio 2004, n.6, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt.404, 405, numeri 3 e 4, 409, 413, ultimo comma, e 418, ultimo comma, cod. civ., la Corte Costituzionale aveva specificato che solo le misure dell’interdizione e dell’inabilitazione conferivano al destinatario del provvedimento «uno status di incapacità» (Corte Cost. n.440 del 9 dicembre 2005), potendosi oggi ritenere pacifico quanto ribadito nella pronuncia qui in commento a proposito del fatto che il provvedimento di nomina dell’amministratore di sostegno «non determina uno status di incapacità delle persone, a cui debbano riconnettersi automaticamente i divieti e le incapacità che il codice civile fa discendere come necessaria conseguenza della condizione di interdetto o di inabilitato».
Frutto di una visione «basagliana» della fragilità umana, la legge istitutiva dell’amministrazione di sostegno ha rivoluzionato il sistema normativo destinato a disciplinare la capacità di agire dei soggetti deboli. Nella giurisprudenza di legittimità, tale intervento riformatore è stato salutato con significativo favore e sin da subito reso accessibile a prescindere dal grado d’infermità dell’interessato (Cass. Sez.1, sent. del 12/06/2006, n.13584), fino ad intendere l’istituto quale efficace strumento di tutela della dignità della persona, ossia quale declinazione del principio espresso nell’art.2 Cost., con specifico riguardo all’idoneità della misura a conservare quanto più possibile la capacità di agire del destinatario e finanche quale espressione dell’esigenza di privilegiare, nel bilanciamento degli interessi in gioco, il principio di autodeterminazione del singolo (Cass. Sez.1, sent. del 27/09/2017, n.22602).
Con la misura dell’amministrazione di sostegno si è inteso porre in luce che, non il diritto positivo ma, soltanto gli oggettivi limiti causati da una concreta condizione di disabilità possono incidere sulla capacità della persona di compiere quelle manifestazioni di volontà, idonee a modificare la propria situazione giuridica, in cui si sostanziano gli atti giuridici, attribuendo all’autorità giudiziaria il compito istruttorio di verificare se ed in che misura la condizione limitativa dell’autonomia del singolo si debba estendere a tali atti.
Nelle more del giudizio incardinato dinanzi alla Consulta, interveniva una pronuncia della Corte di Cassazione sul tema in questione, sulla quale si tornerà infra, espressamente menzionata nella sentenza in esame (Cass. Sez.1, ord. 21/05/2018, n.12460), a conferma della linea interpretativa più volte richiamata nel corpo della motivazione e della corretta posizione assunta dal giudice costituzionale a fronte di un diritto vivente già chiaro sul generale tema della non incidenza dell’amministrazione di sostegno sullo status di capacità del beneficiario ma non ancora tale sulla specifica questione sollevata dal giudice a quo.
Ma la pronuncia in commento merita ulteriore attenzione anche per la qualificazione della capacità di donare quale espressione di una libertà riconosciuta a livello costituzionale in quanto funzionale all’adempimento dei doveri di solidarietà richiamati nell’art.2 Cost. L’affermazione per cui comprimere senza un’obiettiva necessità la libertà di donare costituirebbe un ostacolo allo sviluppo della personalità ed una violazione della dignità umana s’intreccia con il tema della solidarietà sociale per la possibilità di alimentare le relazioni sociali anche «grazie a gesti di solidarietà».
Si tratta di un’affermazione che pone in relazione la «libertà della persona di donare gratuitamente il proprio tempo, le proprie energie e, come nel caso in oggetto, ciò che le appartiene» con l’adempimento di doveri di solidarietà sociale. Il passaggio è di rilievo laddove sembra che il giudice costituzionale intenda ascrivere alla summenzionata capacità di donare, trasformata in diritto di libertà, il rango di diritto fondamentale; così, di fatto, ponendo le premesse per un giudizio di prevalenza nel bilanciamento del relativo interesse rispetto, ad esempio, ad interessi di natura patrimoniale[1]. D’altro canto, ove si volesse accedere al distinto profilo dell’adempimento di doveri di solidarietà sociale, e fatta salva la compatibilità di tale inquadramento con la costruzione dogmatica dell’atto di liberalità, la libertà del singolo cede il passo ai diritti individuali sociali in una visione tendente ad integrare l’individuo nella società in cui vive.
Tale riflessione non è nuova. Un’attenta dottrina[2] già aveva sottolineato il dovere di solidarietà familiare quale canone di matrice costituzionale del diritto ereditario, al quale la disciplina della donazione viene associata trattandosi di atti di pura attribuzione, anche per individuare la ratio della comune disciplina dell’incapacità naturale[3].
Ed anche per quanto riguarda la disposizione dell’art.774 cod.civ., si è detto, essa sarebbe ultronea ove la si interpretasse come regola che vieta la donazione a chi non ha la capacità di agire, giacchè questa è regola comune a tutti i contratti; il significato della disposizione non andrebbe, dunque, ricercato nel richiamo ai riflessi della carenza di un requisito soggettivo del negozio[4] quale la capacità di agire. Si tratta, piuttosto, di una disposizione che vieta la donazione con le forme abilitative richieste, ossia mediante la rappresentanza del tutore o l’assistenza del curatore, in ciò ponendo una regola che differenzia la donazione dagli altri contratti.
Secondo un’impostazione dottrinaria, il giudice tutelare, non potendo attribuire all’amministratore di sostegno il potere di compiere tali atti in rappresentanza del beneficiario, si troverebbe nella impossibilità di esercitare un’attività di controllo e sarebbe di fatto obbligato ad applicare al beneficiario proprio la limitazione prevista dall’art.774, primo comma, cod. civ.[5].
Nella prassi giurisprudenziale si rinvengono numerose pronunce che hanno ritenuto che l’amministratore di sostegno possa essere autorizzato a compiere in nome e per conto del beneficiario atti giuridici come il consenso ad atti terapeutici (Cass. Sez.1, sent. del 7/06/2017, n.14158), il consenso al ricovero in residenza psichiatrica (Trib. Modena 28/07/2016), l’impugnazione del matrimonio (Trib. Roma 4/03/2016), la proposizione della domanda di separazione o di divorzio (Trib. Catania 15/01/2015). Si tratta, a ben vedere, di manifestazioni di volontà suscettibili di produrre effetti nella sfera esistenziale dell’interessato, ed in particolare nella sfera che più strettamente attiene al diritto alla salute, alla vita familiare, all’abitazione, in una parola a diritti riconosciuti come fondamentali sia nell’ordinamento nazionale che nella giurisprudenza di livello sovranazionale.
Senonchè, il tema qui in esame impone la soluzione di un problema ulteriore, che attiene piuttosto all’esercizio del diritto. Per la soluzione di tale problema è poco conferente stabilire se l’amministratore di sostegno possa essere autorizzato a compiere in nome e per conto del beneficiario scelte che attengono a diritti fondamentali; si tratta, piuttosto, di sondare quale sia la ratio sottesa alle norme che vietano che taluni negozi siano compiuti a mezzo di un rappresentante.
Le persone fisiche che non hanno la piena capacità di disporre dei propri beni sono tradizionalmente individuate nelle tre categorie delle persone minori di età, interdette ed inabilitate. Tali persone non hanno la capacità di donare (art.774, primo comma, cod.civ.), né possono fare donazioni per il tramite del loro rappresentante legale (art.777, primo comma, cod. civ.) in ragione del carattere personale dell’animus donandi e del depauperamento che subirebbe il loro patrimonio. La donazione stipulata dalla persona incapace è annullabile, mentre è colpito con la più grave sanzione della nullità il mandato con cui si attribuisce ad altri la facoltà di designare la persona del donatario o di determinare l’oggetto della donazione (art.778, primo comma, cod. civ.). Il mandatario, secondo lo schema tipico del relativo contratto, non potrebbe compiere per conto del donante l’attività tipica del contratto di donazione; elemento ineliminabile che connota il mandato è, infatti, l’agire del mandatario nell’interesse del mandante con lo specifico scopo di cooperare, sotto un profilo giuridico, a far conseguire a quest’ultimo il risultato da lui voluto[6]. Tale cooperazione giuridica[7] non può, evidentemente, concretizzarsi nella manifestazione dello spirito di liberalità.
Dal complesso di norme indicate deriva la considerazione dell’impossibilità di delegare ad altri la manifestazione dello spirito di liberalità e, conseguentemente, l’inclusione della donazione nella categoria dei negozi personalissimi.
Una deroga al divieto di donare imposto alla persona incapace è prevista per le donazioni in occasione di nozze dall’art.777, secondo comma, cod. civ., da estendersi alle liberalità indirette disciplinate dall’art.809 cod. civ.[8] ed un correttivo al divieto di stipulare un mandato a donare è previsto qualora al mandatario sia delegato il solo potere di scelta tra più donatari o tra più beni tra quelli designati o indicati dal mandante. In entrambi i casi la legge sembrerebbe dunque ammettere che, in talune circostanze o entro determinali limiti, la manifestazione dell’animus donandi possa essere delegata al rappresentante legale ovvero al mandatario.
La donazione nulla, d’altro canto, è suscettibile di sanatoria (art.779, cod. civ.) purchè, si ritiene, possa comunque ricondursi ad una manifestazione di volontà del donante.
La disciplina così brevemente accennata richiama l’origine storica di questo istituto.
Per gli antichi, la donazione assunse rilevanza giuridica in ragione della primaria funzione di limitare (modus) l’entità degli atti a titolo gratuito destinati a persone estranee alla cerchia dei familiari. Di tale origine storica la norma che deroga al divieto di donare posto dall’art.774, primo comma, cod. civ. conserva l’economia. La donazione è consentita purché sia fatta dal rappresentante con le forme abilitative richieste (dagli artt.374-375 cod. civ. per il tutore e dall’art.394 cod. civ. per il curatore) in occasione di nozze ed in favore di discendenti dell’interdetto o dell’inabilitato. Lo stesso art.774, primo comma, cod. civ. consente al minore ed all’inabilitato, ma in questo caso senza necessità di delega per coerenza del sistema rispetto alla capacità di contrarre matrimonio, di fare donazione nelle loro convenzioni matrimoniali (artt.165-166 cod. civ., norme che in origine derogavano al divieto di donazioni fra coniugi sancito dall’art.781 cod. civ., dichiarato costituzionalmente illegittimo con sentenza Corte Cost. n.91 del 27 giugno 1973).
L’esigenza di porre un limite, talora correlato all’entità della donazione, talaltra all’appartenenza (rectius, alla non appartenenza) del donatario ad una determinata cerchia di persone, può ritenersi riconducibile all’elemento funzionale del negozio di cui si tratta, ove la gratuità e lo spirito liberale tendono a legarsi inscindibilmente e rilevano in quanto tali nella distinzione della donazione dagli altri atti a titolo gratuito.
Per altro verso, la nozione di liberalità «racchiude in sé l’idea di libertà, spontaneità, mancanza di qualsiasi coazione»[9]. Su tale premessa, si è detto che i doni fatti in occasione di ricorrenze o matrimoni non costituirebbero vere e proprie liberalità in quanto il vantaggio economico attribuito deriverebbe dall’esigenza di ottemperare a consuetudini o regole di buona convivenza sociale.
Preme, qui, richiamare la felice assonanza del significato di liberalità appena espresso con il passaggio della sentenza in commento laddove è sottolineata la «libertà di donare» come canale di sviluppo nella personalità e di rispetto della dignità umana; seguendo il medesimo lessico, d’altro canto, si verificherebbe una divaricazione tra princìpi espressi dalla Carta costituzionale, secondo il richiamo alla previsione dell’art.2 Cost. nella sua interezza presente nella sentenza che si annota, e sistema del diritto civile di livello ordinario, ove si negasse valore di liberalità agli atti a titolo gratuito compiuti per ottemperare a doveri di solidarietà sociale.
Se per gli antichi la donazione assumeva rilevanza giuridica per porre un limite all’atto di liberalità, ora la prospettiva è mutata e la capacità di donare è stata assunta come espressione di una libertà costituzionalmente garantita.
Il medesimo fatto giuridico riceve plurime qualificazioni ed è preso in esame dalle norme di diritto talora al fine di porre un limite, talaltra al fine di consentire l’esercizio di una libertà. La necessità della forma dell’atto pubblico ad substantiam, ad esempio, fornisce un limite all’atto di liberalità, mentre l’elemento dell’animus donandi segue l’opposta ratio della libera esplicazione dello spirito liberale dell’individuo.
Il contratto di donazione può, dunque, essere considerato dal punto di vista dell’interesse del donante, dal punto di vista dell’esercizio della libera volontà di disporre dei propri beni, dal punto di vista funzionale del depauperamento-arricchimento, dal punto di vista normativo-regolamentare come regola di condotta per i titolari degli interessi ad essa sottesi[10].
D’altro canto, per realizzare un interesse esistenziale, il titolare di diritti patrimoniali deve avere, oltre che l’interesse, la possibilità di manifestare la sua volontà mediante l’esercizio di tali diritti. Il proprietario di un bene immobile, ad esempio, può essere, e di solito è, titolare del diritto di disporne liberamente sia per realizzare un interesse di natura patrimoniale, sia per realizzare un interesse di natura esistenziale.
Un corretto inquadramento della facoltà di disporre del proprietario nella gerarchia dei valori espressi dalla Carta costituzionale consente, dunque, che il proprietario disponga di un bene in funzione del perseguimento di un interesse non patrimoniale.
Sotto altro profilo, per esercitare la predetta facoltà occorre la manifestazione di volontà di un soggetto che, per espressa previsione normativa, nel contratto di donazione non può essere altri che il titolare dell’interesse.
Profilo statico, come titolarità dell’interesse, e profilo dinamico, come manifestazione di volontà per l’esercizio del diritto, devono fare capo al medesimo soggetto. Ma la Consulta dice qualcosa di più: anche sotto il profilo funzionale il diritto di disporre di un proprio bene è riconosciuto in quanto sia consentito al titolare di realizzare fini di solidarietà sociale.
L’attività interpretativa del giudice, inclusa quella del giudice a quo, deve infatti essere condotta senza perdere contatto con il fatto e senza trascurare il confronto con il dinamismo dei comportamenti umani, fuori dal formalismo dei concetti e delle definizioni ed, anzi, immergendosi nella prassi e nella sua poliedricità al fine di ricondurla entro l’ambito della ratio del dato normativo. E se tale ratio ponga l’accento sull’interesse esistenziale piuttosto che su quello patrimoniale è questione che suscita molti dubbi, pur avendo il legislatore del 1942 dettato una disciplina peculiare per la donazione anziché limitarsi a rinviare alla disciplina dettata per il contratto in generale. Nell’art.774 cod. civ. si rinviene, infatti, la peculiare nozione di «piena capacità», a significare l’esigenza che il donante abbia la massima e più ampia sfera di capacità[11], senza alcuna distinzione tra atti di ordinaria e straordinaria amministrazione[12]. Senza discutere di capacità di agire, si potrebbe, tuttavia, a ragione, richiamare la necessità di segnare in questo campo alcuni limiti all’autonomia privata in funzione protettiva dei soggetti deboli; non tanto e non solo per negare loro quella libertà che il costituente garantisce nell’art.2 Cost., quanto piuttosto per garantire un’esplicazione equilibrata di tale libertà in funzione dell’eguaglianza sostanziale da promuovere ai sensi del successivo art.3 Cost.
Può affermarsi, senza tema di smentita, che l’interprete sia chiamato a rivisitare la ratio di istituti inquadrabili nella teoria generale del diritto civile, come i requisiti di forma del contratto, la rappresentanza, l’annullabilità, in ragione della peculiare condizione del beneficiario di amministrazione di sostegno. Se, in altre parole, il legislatore ha previsto che la donazione possa farsi esclusivamente per atto pubblico a pena di nullità (art.782 cod. civ.), con l’obiettivo di richiamare l’attenzione del donante sul depauperamento conseguente all’atto, vi è già nel sistema un’indicazione nel senso della necessità di proteggere la sfera patrimoniale del donante, da coniugare ora con le ulteriori finalità protettive, ed al contempo promotrici, della sfera esistenziale sottese alla disciplina dettata dagli artt.404 ss. cod. civ.
Per altro verso, la peculiare disciplina dettata in tema di annullabilità della donazione conclusa dall’incapace naturale (art.775, comma 1, cod. civ.), che risulta incondizionata, a differenza di quanto previsto dall’art.428, comma 2, cod. civ. per i contratti in generale[13], vale a rimarcare la speciale protezione che il legislatore ha inteso riconoscere agli interessi patrimoniali di colui che ponga in essere un atto puramente attributivo, da bilanciare con l’esigenza di favorire la libertà di donare del beneficiario di amministrazione di sostegno non solamente in quanto capace d’intendere e di volere, dunque in grado di manifestare un valido consenso, ma anche perchè semplicemente in grado di discernere la portata dell’atto.
Il regime normativo di un istituto come l’amministrazione di sostegno si sostanzia, peraltro, nella definitiva affermazione della funzionalizzazione dell’interesse patrimoniale agli interessi esistenziali del beneficiario, sia come singolo sia come membro di una collettività.
Non può, tuttavia, negarsi che, pur riconoscendo nell’interesse il nucleo centrale del diritto soggettivo[14], vi sia un punto di frizione tra titolarità di un diritto ed esercizio della facoltà di disporne qualora l’interessato non sia pienamente consapevole dei possibili effetti che la legge collega ad una determinata manifestazione di volontà. Basti ricordare che, tradizionalmente, il limite alla capacità di donare trovava la sua ratio nell’impossibilità per la persona inferma di mente di disporre dei propri beni con piena libertà e coscienza[15]. Al contempo, non si può negare che, pur riconoscendo la legge tutela giurisdizionale a favore di coloro che, nell’esercizio di un diritto, non siano pienamente consapevoli delle conseguenze giuridiche di una manifestazione di consenso (art.775 cod. civ.), vi è altresì un punto di frizione tra la possibilità di ottenere tutela e la previa applicazione di una misura generale di protezione quale l’amministrazione di sostegno. Anche nella prospettiva del diritto privato europeo, ove si è autorevolmente riconosciuta la centralità del valore della persona[16], si sottolinea come il principio di dignità sia il criterio di base per individuare la legittimità di interventi volti a proteggere la persona «contro se stessa», così ammettendo la necessità di un bilanciamento tra principio di autodeterminazione/consenso, da un lato, e protezione della dignità della persona, dall’altro[17].
E’ possibile, in altre parole, che il provvedimento di nomina di amministratore di sostegno che prevede il compimento di taluni atti di disposizione patrimoniale solo con l’assistenza o con la rappresentanza dell’amministratore sia intrinsecamente contraddittorio, ove non limiti al contempo la capacità del beneficiario di compiere atti di liberalità; ritenere che il beneficiario sia in grado di manifestare la sua volontà, irriducibilmente libera per definizione nell’espressione dell’animus donandi, appare inconciliabile con la previsione che il medesimo beneficiario necessiti di assistenza o addirittura di rappresentanza per il compimento di atti che, del pari, comportino manifestazioni di volontà. Unico caso in cui tale contraddizione trova composizione è quello in cui la nomina di un amministratore sia destinata a sostenere un beneficiario affetto da patologia che comporti una limitazione esclusivamente fisica.
Ci si trova, a ben vedere, in presenza di una situazione soggettiva complessa quando il titolare di un diritto che sia beneficiario di amministrazione di sostegno sia vincolato al rispetto di determinati obblighi (come ad esempio l’obbligo di richiedere l’autorizzazione al giudice tutelare ai sensi dell’art.374 cod. civ.) per poterlo esercitare ovvero, più in generale, sia assoggettato a controllo dell’amministratore di sostegno: accanto al potere di disporre di un bene si trova il potere di controllo da parte di un soggetto diverso dal titolare.
Sebbene per talune categorie di atti sia stabilito che il beneficiario necessiti di essere rappresentato o assistito dall’amministratore di sostegno, che pertanto manifesterà in sua vece o integrerà la volontà dell’interessato, laddove un singolo atto, di volta in volta e singolarmente individuato, non possa essere compiuto se non mediante diretta manifestazione di volontà del titolare del diritto, la preesistente nomina di un amministratore di sostegno consentirà di ritenere tale atto soggetto al controllo di quest’ultimo e, in definitiva, al controllo dell’autorità giudiziaria, che valuterà se la libertà di compiere quel determinato atto sia conforme all’interesse del beneficiario (Cass. Sez.1, 11/05/2017, n.11536 in materia di matrimonio) e adotterà, se del caso, gli opportuni provvedimenti (art.410 cod. civ.). Va, in proposito, espresso dissenso da quella dottrina che collega l’attività di controllo dell’autorità giudiziaria all’apposizione di limiti alla capacità di agire del beneficiario, essendo anzi tale attività maggiormente efficace e dinamica con riferimento agli ambiti in cui il beneficiario sia lasciato libero di agire.
La situazione soggettiva che fa capo all’amministratore di sostegno è, infatti, qualificabile in termini di potestà, ossia di ufficio di diritto civile il cui esercizio è necessario nell’interesse altrui, e si concreta in una situazione complessa fatta di poteri-doveri di amministrazione di beni, cura della persona, rappresentanza. La flessibilità di questa misura alle diverse esigenze della persona consente di modulare i poteri dell’amministratore in ragione del livello di non autosufficienza del beneficiario. Tanto maggiori saranno la capacità di discernimento, la capacità di analisi, di collegamento e di autodeterminazione del beneficiario, tanto minore sarà l’esigenza di controllare i suoi atti.
Il potere di controllo dell’amministratore di sostegno può valere, per quanto qui rileva, a verificare quale sia l’interesse del beneficiario in occasione di atti donativi, diretti o indiretti, che non sarebbero suscettibili di ricevere tutela giurisdizionale ai sensi dell’art.775 cod. civ., giacchè posti in essere in condizione non qualificabile in termini di «assoluta incoscienza dei propri atti» (Cass. Sez.6, ord. 19/02/2018, n.3934; Cass. Sez.2, sent. 23/12/2014, n.27351). Ma anche con riguardo alle ipotesi più tradizionalmente ascrivibili alla categoria dell’incapacità naturale (ubriachezza, stati passionali, infermità di mente parziale), la funzione di controllo rileva ai fini della prova processuale delle condizioni cognitive e volitive del beneficiario al momento dell’atto, frequentemente difficili da dimostrare persino in caso di atto pubblico rogato dal notaio con la presenza dei testimoni (Cass. Sez.2, ord. 28/10/2019, n.27489).
S’impone, preliminarmente, un chiarimento. Se si ritiene necessario considerare preminente l’interesse alla fruttuosa gestione del patrimonio, la distinzione tra atti a titolo gratuito tipici, come il comodato, o atipici, come la locazione senza corrispettivo, e donazione tipica non ha ragion d’essere. Spesso il beneficiario di amministrazione di sostegno è una persona con limitata capacità reddituale e con esigenze di cura e di assistenza dispendiose, per cui l’interesse patrimoniale coincide con l’interesse primario del beneficiario.
Da questo punto di vista, dunque, riconoscere al beneficiario di amministrazione di sostegno la capacità di donare, intesa in senso ampio come capacità di porre in essere negozi giuridici che producano un vantaggio economico a terzi senza corrispettivo e con depauperamento del beneficiario stesso, non comporta per quest’ultimo alcun ritorno in termini di «libertà». Potrebbe, anzi, rivelarsi scelta foriera di una condizione di ristrettezza e di bisogno, di per sè privativa di autonomia e libertà.
Non può, pertanto, essere percorribile in simili, e non rare, ipotesi, per il giudice tutelare, la scelta di privilegiare in concreto la libertà di donare astrattamente prefigurata dalla Consulta.
In tal senso, l’ordinanza della Corte di Cassazione sullo specifico tema della capacità di donare (Cass. Sez.1, ord. 21/05/2018, n.12460) ha ritenuto che la dicotomia capacità-incapacità sia destinata a riemergere anche in ambito di amministrazione di sostegno «in presenza di atti, come quelli personalissimi, rispetto ai quali, a fronte di una grave compromissione delle facoltà cognitive o volitive dell’autore, non sembrano agevolmente ipotizzabili forme di intermediazione o integrazione da parte di terzi, a meno che le stesse non si traducano nella prestazione di un consenso al compimento dell’atto, la cui necessità si porrebbe però in stridente contrasto con il carattere personale dello stesso e con la valorizzazione della capacità del beneficiario, cui tende l’istituto in esame».
La chiara finalità dell’istituto è, come detto, la funzionalizzazione del patrimonio alla realizzazione di interessi esistenziali dell’individuo, secondo una scala di valori che preveda al livello minimo la garanzia di condizioni di vita dignitose ed al livello massimo l’integrazione del beneficiario nella comunità sociale, anche mediante l’adempimento di doveri di solidarietà. Gli interessi esistenziali del beneficiario potranno pertanto essere soddisfatti, in linea generale, in proporzione alle sue disponibilità patrimoniali ed in rapporto alle sue «facoltà cognitive e volitive». A tal fine, sembra necessario divaricare la disciplina delle liberalità donative da quella delle liberalità non donative (art.809 cod. civ.), se non sotto il profilo del comune assoggettamento al limite posto dall’art.774 cod. civ. quantomeno sotto il profilo della possibilità che talune liberalità indirette siano compiute con l’assistenza dell’amministratore di sostegno.
Molto più impegnativo rimarrà, tuttavia, il compito (non agevolato dalla pronuncia da ultimo citata) di gestire l’interesse esistenziale in relazione a situazioni ambivalenti o di difficile emersione dovute a condizioni di fragilità psichica del beneficiario derivanti dall'età o da anomale dinamiche relazionali che ne potrebbero ridurre l’autodeterminazione o l’autonomia di critica e di giudizio.
[1] G.Pino, Il costituzionalismo dei diritti, Bologna, 2017, 116 ss.
[2] P. Perlingieri, La funzione sociale del diritto successorio, in Rassegna di diritto civile,1, 2009, 132.
[3] V. Pietrobon, Gli atti e i contratti dell’incapace naturale, in Contratto e impresa, 1987,773.
[4] Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1983,130.
[5] G. Bonilini, Commento all’art.591 cod. civ., in G.F. Basini-G.Bonilini-M.Confortini, Codice di famiglia,minori,soggetti deboli, Torino, 2014,I.
[6] G. Bavetta, voce Mandato, EdD XXV, 340.
[7] Pugliatti, Il rapporto di gestione sottostante alla rappresentanza, in Studi sulla rappresentanza, Milano, 1965, 196.
[8] Biondi, Le donazioni, in Tratt.dir.civ. diretto da F. Vassalli, XII-4. Torino, 1961.
[9] R. Casulli, voce Donazione in EdD XIII,968.
[10] P.Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale, Napoli, 1991, 248.
[11] C. Scognamiglio, Capacità di disporre per donazione, in Successioni e donazioni a cura di P. Rescigno, I, Cedam, 258.
[12] B. Biondi, Le donazioni, cit., 193.
[13] V. Pietrobon, Gli atti e i contratti dell’incapace naturale, in Contratto e impresa 1987, 765 ss.
[14] Perlingieri, cit. p.253.
[15] Degni, Della capacità di disporre per testamento, in Comm. al cod. civ., Libro delle successioni a causa di morte e delle donazioni, diretto da M. D’Amelio, Firenze, 1941.
[16] S.Rodotà, La persona, in Manuale di diritto privato europeo di C. Castronovo, 2007,I.
[17] P.Perlingieri, Il diritto privato europeo tra riduzionismo economico e dignità della persona, Europa e diritto privato, 2, 2010, 345.
Il diritto alla salute ai tempi del coronavirus e la scomparsa di una generazione tradita di Laura Cocucci.
recensione a “L’Ovulo Rosso nel Sottobosco” di Nico Cocucci
L’11 aprile 2020 sarebbe stato il suo compleanno, ma la crudeltà del coronavirus che qualche giorno prima gli aveva già portato via la moglie, gli ha impedito di superarlo.
“L’Ovulo Rosso nel Sottobosco” è il suo viaggio fantastico, lungo 100 anni e più.
Mio padre Nico Cocucci era un medico nato nel 1932, come tanti di questa generazione falcidiata dal virus, con i piedi nell’Ancien Regime e ha messo la testa, dato uno sguardo, nel futuro liquido, istantaneo, frammentato e pauroso dei Millennials.
Il Secolo lungo. Un inno alla vita. Al vorace bisogno di vita. Raccontare da dove veniamo e di cosa siamo stati e siamo testimoni, per essere ancora piu’ affamati.
Ci ha insegnato che la vita è misteriosa, paurosa e sempre bellissima. Anche nella morte. E se in questo viaggio - “turgido” si potrebbe dire – il pudore dà alle ultime pagine qualcosa di crepuscolare, sappiamo che in realtà non è mai stato così. Era un giacobino inguaribile. “Non sarò mai un moderato!” E allora…“Allons Enfant !”.
A causa della pandemia l’Italia si ritrova improvvisamente orfana di una intera generazione che se ne è andata in silenzio. Centinaia di anziani sono morti senza un saluto, senza un abbraccio, senza una carezza negli ospedali, nelle residenze sociosanitarie o in solitudine nelle proprie case, senza avere il tempo di raccontare la loro vita.
A differenza di quella dei nostri padri e dei nostri nonni la mia è stata invece una generazione felice. Siamo nati nel boom economico degli anni ‘60, abbiamo vissuto un lungo periodo di pace, abbiamo conosciuto benessere e serenità, abbiamo vissuto la piena attuazione della Carta Costituzionale italiana che riconosce il diritto alla salute come un diritto fondamentale dell’individuo.
Solo qualche giorno prima il Presidente Mattarella, in occasione del 70^ Anniversario della Giornata Mondiale della Salute, aveva pronunciato un discorso nel quale aveva affermato che tanti lutti e sofferenze hanno reso ancor più evidente il valore della salute componente essenziale del diritto alla vita. Aveva ribadito che “la qualità della vita e gli stessi diritti fondamentali della persona sono strettamente legati alla capacità e all’universalità del servizio alla salute” e aveva riconosciuto con autorevolezza che “i Servizi Sanitari Nazionali costituiscono capisaldi essenziali della comunità”.
Nel libro mio padre parla anche del suo impegno politico dedicato all’amministrazione dei principali ospedali milanesi che lo impegnò per circa venti anni. Con orgoglio espresso in forma dubitativa afferma “per tanti anni credo di avere contribuito alla trasformazione e alla costruzione della sanità pubblica a Milano”.
Spiega poi della decisione di interrompere questo impegno definito un servizio, a metà degli anni settanta con l’entrata in vigore della L. nr. 833/78, esprimendo feroci critiche sulla lottizzazione delle cariche nel sistema sanitario che negli anni a seguire portarono al sistema diffuso di corruzione politica disvelato da Tangentopoli.
Non vi è dubbio che la salute debba essere un diritto per tutti. Il bilanciamento tra diritto alla tutela della salute e criteri di economicità motivati dall’esigenza di contenimento delle spese e delle risorse non può essere inteso in maniera assoluta.
Verso un nuovo modello di tutela del diritto alla salute la Corte Costituzionale ha più volte affermato che l’ambito della garanzia costituzionale del “nucleo essenziale del diritto alla salute” copre la pretesa ad accedere a prestazioni indispensabili per dare risposta ad esigenze terapeutiche urgenti ed indifferibili.
Una società moderna, democratica e solidale dovrebbe sapersi prendere cura degli anziani anche in situazioni di emergenza garantendo tempi e qualità delle “prestazioni sanitarie”.
Senza dubbio dobbiamo coralmente ed incondizionatamente ringraziare gli straordinari medici, infermieri e tutto il personale sanitario che, con elevatissima professionalità ed incredibile spirito di servizio, hanno fatto l’impossibile per garantire il diritto alla salute e per salvare vite umane, in molti casi mettendo a rischio la propria vita.
Non va però dimenticato che, durante l’emergenza della pandemia, vi sono stati giorni in cui non vi erano sufficienti ambulanze per portare gli anziani in ospedale, le ambulanze disponibili arrivavano con comprensibile ritardo, i servizi di pronto soccorso ricevevano centinaia di pazienti ed in alcuni casi i medici sono stati costretti a decidere quali pazienti curare in terapia intensiva ed infine in molte residenze socio sanitarie il numero dei decessi ha raggiunto livelli allarmanti.
Sono molti i temi sui quali la società civile dovrà avviare una riflessione collettiva a partire dai tagli al sistema del welfare degli ultimi venti anni, al rapporto tra sanità pubblica e privata, ai rapporti tra Servizio Sanitario Nazionale e Sanità Regionale.
Ci ha lasciato una generazione di anziani che beneficiava di una aspettativa di vita altissima e che è stata “tradita” da un eccessivo ottimismo sulle capacità del nostro servizio sanitario.
Queste “Memorie Sparse” mio padre aveva chiesto a noi figli di farle conoscere. Questo è una edizione riveduta e corretta del suo manoscritto originale. C’è la sua storia che è poi la storia degli uomini che con le loro passioni, i loro ideali di libertà, di partecipazione e di giustizia sociale nel dopoguerra hanno contribuito alla crescita dell’Italia...ci sono le mie radici...le radici degli uomini che seppero dare libertà e dignità al nostro Paese.
Leggetelo se avete voglia e consideratelo come un “vaccino benefico”.
L' ovulo rosso del sottobosco
Atti urgenti d’indagine e sospensione dei termini della fase delle indagini preliminari di cui al d.l. 18/2020, intercettazione e altro.
di Francesca Urbani
sommario: 1. Decreto n. 18/20, sospensione dei termini e indifferibile urgenza - 2. Una lettura possibile - 3. Conclusioni.
1. Decreto n. 18/20, sospensione dei termini e indifferibile urgenza.
In questo momento di forte crisi nazionale determinata dal diffondersi dell’epidemia da “coronavirus”, il legislatore è intervenuto al fine di regolare uno dei settori più sensibili dell’ordinamento, ossia la giustizia. Questa, quale servizio pubblico essenziale preposto alla tutela di diritti fondamentali, ha richiesto un intervento che ne regolasse il funzionamento minimo-necessario, senza tuttavia porsi da ostacolo rispetto all’adozione delle misure di doveroso contenimento attualmente in vigore.
In un’ottica di bilanciamento, quindi, l’art. 83 del decreto legge 18/2020, nel disciplinare “Nuove misure urgenti per contrastare l’emergenza epidemiologica da COVID-19 e contenerne gli effetti in materia di giustizia civile, penale, tributaria e militare” prevede al comma 2 che: Dal 9 marzo 2020 al 15 aprile 2020 è sospeso il decorso dei termini per il compimento di qualsiasi atto dei procedimenti civili e penali. Si intendono pertanto sospesi, per la stessa durata, i termini stabiliti per la fase delle indagini preliminari, per l’adozione di provvedimenti giudiziari e per il deposito della loro motivazione, per la proposizione degli atti introduttivi del giudizio e dei procedimenti esecutivi, per le impugnazioni e, in genere, tutti i termini procedurali...”.
Se non sussistono particolari problemi in relazione agli atti non urgenti dei quali è sospesa l’esecuzione, più intricata risulta la questione relativa alla possibilità di compiere atti urgenti, considerato che il decreto-legge non prevede deroghe espresse alla disciplina della sospensione in relazione agli atti urgenti da assumere nel corso del procedimento, si pensi a titolo esemplificativo alle intercettazioni, alla possibilità di svolgere indagini per i reati di cui al c.d. “codice rosso” o ancora ai reati di “criminalità organizzata” non espressamente menzionati. 2. Una lettura possibile.
La soluzione a tale quesito richiede necessariamente da un lato un’analisi comparata con la disciplina prevista dall'art. 240 bis, successivamente modificato dal D.L. 8.6.1992, n. 306, conv. in L. 7.8.1992, n. 356 relativa alla sospensione dei termini nel periodo feriale, stante l’analogia di istituti; dall’altro lato una lettura complessiva della norma, e in particolare il riferimento di cui al comma 3 lett. c). Sotto il primo profilo, si osserva come l’art. 240 bis disp.att.c.p.p. preveda, in materia penale, la sospensione dei termini procedurali, compresi quelli previsti per le indagini preliminari, nel periodo tra il 1° agosto e il 31 agosto di ciascun anno. Come è noto, il riferimento generico ai “termini” impone di non operare alcuna distinzione fra termini dilatori, perentori ed ordinatori. Tanto premesso, è pacifico che tale sospensione dei termini riguardi, quanto ai soggetti, anche l'attività del pubblico ministero, sicchè sono sospesi i termini di durata massima delle indagini preliminari e quelli per il compimento delle indagini stesse di cui all'art. 407 c.p.p. (Cass. Pen. sez. IV, 14 luglio 2009, n. 32976, in Cass. pen. 2010, 12, p. 4310; Conf. Cass. Pen. sez. I, 16 dicembre 2004, n. 2837, in C.E.D. Cass., n. 230783; sez. V, 6 dicembre 1991, n. 2156, Rella, in C.E.D. Cass., n. 189546.). Tale “blocco” tuttavia è temperato dalla previsione contenuta nel quarto comma dell'art. 2, L. 7.10.1969, n. 742, con cui si è previsto che, “qualora nel corso delle indagini preliminari il pubblico ministero ritenga di dover procedere con la massima urgenza al compimento di atti che potrebbero essere sospesi, in conseguenza della sospensione feriale dei termini, può chiedere al giudice delle indagini preliminari di pronunciare ordinanza specificando le ragioni della massima urgenza e la natura dell'atto da compiere”. Il pubblico ministero, inoltre, può direttamente provvedere con decreto motivato alla declaratoria di urgenza, tutte le volte in cui debba compiere uno degli atti previsti dall'art. 360 c.p.p. Dello stesso potere sono dotati anche il difensore e l’imputato. È quindi rimessa alle parti, nei cui confronti sono riconosciuti i termini, la possibilità di derogare alla sospensione quando sussistano le predette ragioni di urgenza.
La ratio dell'istituto in esame è, infatti, quella di garantire agli avvocati e alle parti il libero godimento delle ferie ( A. Galati - Zappalà, in Diritto processuale penale, p. 313), evitando così la compressione dei diritti difensivi (Fois, 610). E in questo senso, si comprende l’affermazione di chi ha sostenuto che “tale sospensione non concerne tutti i termini processuali, ma soltanto quei termini a cui sia correlato l’esercizio di un’attività difensiva” (Gilberto Lozzi, in Lezioni di procedura penale, p. 166).
D’altronde anche la Cassazione, nel rigettare il ricorso della difesa nel quale lamentava l’assenza di presupposti per l’emanazione per l’ordinanza di urgenza nel periodo feriale ha affermato che “Come è noto tale provvedimento – (rectius ordinanza ex art. 240 bis disp.att.c.p.p.) non è impugnabile, ma deve essere notificato al difensore per consentirgli di preparare la difesa e garantire la presenza al processo. La omessa notifica della ordinanza comporta nullità di ordine generale, perché si riflette sulla assistenza e rappresentanza della difesa (vedi Cass. 2 aprile 1993, Pinzelli in Cass. Pen. 1994, 1921). Analogo discorso non può essere fatto nel caso in cui la notifica della ordinanza di urgenza sia rituale, ma siano discutibili i presupposti per la emissione del provvedimento. In tal caso, infatti, i diritti della difesa non vengono compromessi, poiché l'unico danno ravvisabile è il rientro anticipato dalle ferie del difensore. La possibilità di difesa non viene in siffatte situazioni affatto compromessa. Non essendo ravvisabile pertanto una ipotesi di nullità di ordine generale, la mancata previsione di una specifica nullità per le valutazioni errate in ordine alla sussistenza dei presupposti che legittimano la emissione del provvedimento ex art. 240 bis delle norme di coordinamento - valutazioni che non sono sindacabili perché il provvedimento non è impugnabile - non comporta la nullità eccepita.” (cfr. Cass. penale sez. V, 16/03/2001, (ud. 16/03/2001, dep. 24/05/2001), n.21243). Tale affermazione, quindi, è apprezzabile nella misura in cui, attraverso una lettura sostanziale dell’istituto della sospensione feriale, non ritiene sussista un divieto assoluto di svolgere atti di indagine, ma si imponga solo il rispetto delle formalità procedurali atte a garantire la partecipazione del difensore. Nel senso che non sia preclusi tutti gli atti di indagine si richiama un’importante pronuncia di merito che, analizzando nello specifico la questione, ha affermato che “La sospensione feriale dei termini non ha intrinsecamente a che vedere con la possibilità di svolgere indagini (quali audizioni di testimoni, perquisizioni, intercettazioni, acquisizione di atti e così via) ponendo solo un limite allo svolgimento di alcuni atti (sostanzialmente l'interrogatorio dell'indagato) ed altre scansioni temporali quali, ad esempio, le incombenze di cui all'art. 415 bis c.p.p. o il decorrere dei termini per una impugnazione. Si tratta infatti di una sospensione di attività volta a facilitare la difesa degli indagati e che comunque essenzialmente non preclude l'inizio o lo sviluppo delle indagini (Tribunale Milano sez. uff. indagini prel., 08/06/2006, in Foro ambrosiano 2006, 3, 330). Da ultimo si osserva come, a ulteriore conferma di come le esigenze che sottintendono la sospensione siano derogabili – anche in via interpretativa – in presenza di urgenza, la giurisprudenza di legittimità abbia unanimemente ritenuto che, pur in assenza di espressa previsione legislativa, la sospensione feriale non operi per i termini di convalida dell'arresto e del fermo, in considerazione della natura del procedimento: l'udienza di convalida costituisce, infatti, «un procedimento necessitato, composto da una pluralità di attività procedurali, da compiersi nell'osservanza rigorosa di strettissimi termini processuali» (Cass. pen., sez. I, 12.11.1990, Dragonetti, in ANPP 1991, p. 471). Inoltre, la disciplina in esame non trova applicazione neanche con riferimento al giudizio direttissimo, stante la specialità del rito, anche in assenza di espressa rinuncia (C., Sez. III, 20.4.2011, Alì, in Mass. Uff., 250388; C., Sez. IV, 5.11.2002, Russo, ivi, 223942; C., Sez. II, 3.5.1991, Rotili e altri, ivi, 188135. Contra: C., Sez. V, 16.2.1996, De Vita, in Mass. Uff., 204488). La disciplina della sospensione feriale, quindi, contempera due esigenze da un lato il principio costituzionale del diritto alle ferie di cui all’art. 36 Cost, dall’altro lato quella di garantire la continuità della giustizia, quale servizio essenziale per l’intera collettività a tutela di altrettanti diritti fondamentali, nei casi di “massima urgenza”.
È sotto questo ultimo profilo che, anche alla luce dell’analisi fatta, deve interpretarsi l’art. 83 D.L. 18/2020 che, da un lato prevede la possibilità per l’imputato o il difensore di rinunciare alla sospensione, dall’altro non prevede espressamente che tale facoltà possa essere esercitata da p.m. in fase di indagine in caso di urgenza. Tuttavia, operando una lettura costituzionalmente orientata della norma, anche in questo caso si deve ritenere che la stessa intenda contemperare l’esigenza della salute pubblica da un lato, e il corretto svolgimento della giustizia d’altro. D’altronde, come sopra richiamato le ipotesi di deroga della sospensione feriale sono state estese anche in via giurisprudenziale, laddove sussistevano ragioni di indifferibilità e urgenza tali da richiedere l’immediato svolgimento dell’atto e/o dell’udienza.
L’art. 83, D.L. 83/2020, infatti, non ha inteso paralizzare del tutto l’attività degli uffici giudiziari, ponendo solo il limite dell’assoluta urgenza, onde evitare il dilagarsi dell’epidemia da COVID-19. Non sarebbe altrimenti ragionevole ritenere che la salute pubblica di cui all’art. 32 Cost. possa essere un limite invalicabile anche in presenza di situazioni di assoluta urgenza per la tutela di beni costituzionali altrettanto importanti, quali quello dell’incolumità individuale, della libertà personale, della vita o della sicurezza pubblica. Si pensi, a titolo esemplificativo, ai reati regolati dal c.d. “codice rosso” rispetto ai quali, in alcuni casi, il tempestivo intervento delle forze dell’ordine e dell’autorità giudiziaria è elemento chiave per evitare il protrarsi delle conseguenze del reato. Inoltre, nel caso di maltrattamenti gravi o violenza sessuale da parte di persona convivente l’escussione della persona offesa, nei casi di particolare gravità, deve avvenire immediatamente senza che, in senso contrario, possa rilevare l’attuale stato epidemico. Né può opporsi che in questi casi si debba necessariamente procedere con incidente probatorio, di cui alla lett. c) dell’art. 83 co. 3, perché si imporrebbe al pubblico ministero una scelta investigativa che potrebbe anche pregiudicare in maniera irreversibile la tenuta probatoria dell’indagine.
Ad analoga conclusione si deve pervenire anche per ciò che concerne la possibilità di svolgere attività di intercettazione. E infatti, da un lato l’atto in questione non è partecipato e quindi in alcun modo potrebbe avere conseguenze negative in relazione allo scopo perseguito dal legislatore con il recente decreto, dall’altro lato la necessità di acquisire elementi probatori non altrimenti acquisibili (il cui presupposto è tra l’altro l’indispensabilità) non può essere pregiudicata dall’attuale situazione, laddove sussistano elementi da cui trarre l’urgenza nell’adottare i provvedimenti in questione.
Analizzato alla luce del regime della sospensione feriale e riconosciuta la possibilità di un’estensione di deroghe in via interpretativa, sotto altro profilo il comma 2, deve essere letto in combinato disposto con il comma 3, e in questo senso quest’ultima disposizione nel disciplinare le ipotesi in cui non opera la sospensione, alla lett. c), prevede che sono esclusi “i procedimenti che presentano carattere di urgenza, per la necessità di assumere prove indifferibili, nei casi di cui all’articolo 392 del codice di procedura penale. La dichiarazione di urgenza è fatta dal giudice o dal presidente del collegio, su richiesta di parte, con provvedimento motivato e non impugnabile”.
Si deve, quindi, ritenere che il concetto di “procedimenti che presentano carattere di urgenza” debba essere inteso nel senso di procedimenti che in generale, anche nella fase delle indagini preliminari, richiedano adozione di atti urgenti perché non altrimenti differibili con conseguenza che il riferimento all’art. 392 c.p.p. sia all’ambito applicativo e non alla “modalità di assunzione della prova”, che può avvenire anche in forme differenti. D’altronde, milita in questo senso il riferimento “al presidente del collegio”, senza tuttavia fare riferimento all’art. 467 c.p.p. Sussiste quindi la possibilità di adottare tutti gli atti anche di indagine ogni qual volta sussista una situazione oggettiva di periculum in mora, che postula la preminenza di un interesse superiore che è insito fisiologicamente per lo svolgimento dell’atto con la massima urgenza. Le ipotesi di esclusione della sospensione indicate dall’art. 83 D.L. 18/2020, quindi, non devono ritenersi tassative, ben potendo essere estese anche in via interpretativa, sussistendone i presupposti comuni.
Ciò a maggior ragione alla luce dell’omessa deroga espressa (prevista invece in tema di sospensione feriale) per i reati di cui all’art. 51 co. 3-bis c.p.p. per i quali, la particolare delicatezza impone che il sistema non si arresti automaticamente come altrimenti si arriverebbe a sostenere.
Osservando tra l’altro il recente D.L. 73/2018 in tema di “Sospensione dei termini e dei procedimenti penali pendenti dinanzi al Tribunale di Bari”, si può constatare alcune analogie. In particolare, anche nel decreto da ultimo citato non si prevede espressamente una procedura da seguire per poter comunque compiere atti urgenti nel corso delle indagini preliminari in caso di urgenza, tuttavia, analogamente a quanto sta accadendo in questi giorni, si è cercato di interpretare le norme alla luce della ratio ispiratrice che, lungi dal bloccare l’attività giurisdizionale tout court, trova il fondamento nell’ “assicurare il regolare e ordinato svolgimento dei procedimenti e dei processi penali nel periodo necessario a consentire interventi di edilizia giudiziaria per il Tribunale di Bari e la Procura della Repubblica presso il medesimo tribunale” trovando una soluzione alla “oggettiva impossibilità di celebrazione delle udienze penali derivante dalla sopravvenuta indisponibilità dei luoghi di svolgimento delle stesse”. In questo senso sarebbe stato del tutto ragionevole interpretare le disposizioni volte a garantire il buon funzionamento del sistema, in termini di blocco assoluto. 3. Conclusioni.
In conclusione, a prescindere da una valutazione in astratto sia per categoria di reati che per tipologia di atto, e ferma la necessità di sospendere in questo momento di forte crisi tutti gli atti differibili onde evitare il contagio da COVID-19 – sicuramente in questo momento esigenza assolutamente prioritaria –, si ritiene che sia comunque rimessa al pubblico ministero, analogamente a quanto avviene anche nel periodo feriale, la possibilità di svolgere tutti gli atti di indagini che presentino carattere di assoluta urgenza, ciò a maggior ragione laddove non si richieda la partecipazione della difesa, qualora questi siano posti a tutela di altrettanti interessi costituzionalmente protetti.
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