ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La rivolta nelle carceri: la “miccia” dell’emergenza sanitaria accende il “fuoco” delle rivendicazioni dei detenuti.
Intervista di Michela Petrini a Riccardo Arena
Michela Petrini: all’emergenza del Covid 19 si aggiunge l’emergenza nelle carceri. Fin dall’inizio si è temuto che il contagio si espandesse anche oltre le mura degli istituti penitenziari e, per tale motivo, il Governo ha adottato le misure (divieto di colloqui, limitazioni nei permessi premio e del regime di semilibertà) considerate idonee a prevenire la diffusione del virus tra i detenuti. Ritiene che le predette misure siano state precedute da una corretta comunicazione relativa alle finalità sottese alle restrizioni imposte, oppure vi sia stato un difetto di informazione nei confronti dei detenuti e dei loro familiari che possa aver ingenerato il sospetto dell’adozione di provvedimenti con finalità repressiva o punitiva?
Riccardo Arena: la comunicazione, come spesso capita nelle carceri, è certamente mancata anche perché sono pochissime, nei penitenziari, le figure chiamate a svolgere questo ruolo. E così in tante carceri, i detenuti hanno saputo dell’interruzione dei colloqui senza essere rassicurati, né sulle vere ragioni che avevano giustificato la misura né sul momento in cui questa misura sarebbe cessata. Una situazione che ha chiaramente contribuito ad alimentare la già presente esasperazione, anche se francamente non credo che la sospensione dei colloqui da sola sia stata così determinante per causare un numero tanto elevato di rivolte.
Michela Petrini: le misure di prevenzione sopra indicate, unitamente all’adozione di protocolli (misurazione della temperatura e – solo ove ritenuto necessario - prelievo con tampone), volti al controllo delle condizioni di salute nei soggetti che, a vario titolo, fanno ingresso all’interno delle carceri, possono ritenersi presidi sufficienti a contenere il rischio di contagio, oppure si tratta di una sfida già persa anche alla luce delle notizie di stampa inerenti un possibile contagio di un detenuto ristretto nell’istituto di Modena?
Riccardo Arena: purtroppo il rischio di contagio nelle carceri è e resta elevatissimo e le misure adottate fino ad ora mi sembrano del tutto insufficienti rispetto alla reale gravità della situazione. Il punto è che esattamente come sta succedendo per noi cittadini liberi, anche nelle carceri l’emergenza per il coranovirus non è stata governata, non è stata affrontata in modo serio e soprattutto non sono state messe in campo misure capaci di prevenirne la diffusione. Infatti, i controlli su chi viene arrestato si limitano alla misurazione della febbre, mentre ancora oggi non sappiamo chi nelle carceri è positivo o chi è negativo e questo semplicemente perché né gli agenti penitenziari né i detenuti sono stati sottoposti ai tamponi. Insomma, quando l’epidemia ha iniziato a diffondersi in Italia, occorreva subito concentrasi anche su luoghi chiusi come le carceri dove è più facile la diffusione del virus. Ma, tranne la sospensione dei colloqui con i familiari, poco o nulla è stato fatto. Un’omissione grave, visto che il sistema sanitario presente nelle carceri è pressocchè inesistente.
Michela Petrini: nella prospettiva di valorizzare qualsivoglia misura o provvedimento volto a prevenire il rischio di contagio o, quantomeno, a limitarne l’espansione, può ritenersi condivisibile la scelta di alcuni magistrati di applicare nella fase precautelare e cautelare la misura degli arresti domiciliari anche per reati molto gravi, oppure di stabilire modalità di esecuzione della pena (definitiva) diverse dalla detenzione in carcere?
Riccardo Arena: credo di sì, anche perchè a differenza dell’indulto, si tratterebbe di provvedimenti mirati, adottati caso per caso, che consentirebbero di selezionare chi merita di uscire e chi non lo merita. Infatti, sono tantissimi i detenuti che in base alla pena da scontare potrebbero già oggi essere sottoposti alla detenzione domiciliare, sempre che ovviamente abbiano un domicilio. Basti pensare che sono 8.682 le persone detenute che hanno un residuo di pena inferiore ad un anno, mentre sono 8.146 le persone detenute che devono scontare da uno a due anni. Insomma, un ampio numero di persone che pesano sul sistema carcerario e che comunque sarebbero destinate ad uscire presto. Ecco credo che su questi numeri ora, come in passato, si ponga la nuova sfida per la magistratura soprattutto di sorveglianza
Michela Petrini: i gravissimi e recenti episodi di protesta negli istituti penitenziari sono da ricollegare alle criticità della situazione contingente, oppure, come sostenuto da Marcello Bortolato, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, “il virus ha scoperchiato una pentola che era già in ebollizione?”
Riccardo Arena: non credo che la causa delle rivolte sia nella mera sospensione dei colloqui con i familiari. Casomai questo provvedimento è stato utilizzato in modo strumentale per tentare di avanzare altre richieste che nulla centrano con il contagio; tuttavia, ha ragione il Cons. Bortolato, le carceri erano già una polveriera che, lasciata abbandonata a se stessa per l’ennesima volta, alla fine è esplosa.
Michela Petrini: quanto pesa la situazione di sovraffollamento e quanto l'assenza di opportuni provvedimenti da parte del Governo e del Ministro della Giustizia? Quali sono i numeri? Quali sono le rivendicazioni?
Riccardo Arena: la situazione del sovraffollamento è drammatica e ci riporta ai numeri che c’erano prima della sentenza Torreggiani. Oltre 61.200 persone detenute stipate in circa 47.000 posti effettivi e rinchiuse in carceri vecchie e che cadono a pezzi. Quindi, non solo si costringono le persone detenute a vivere in celle sovraffollate dove spesso mancano i famosi 3 mq a testa per potersi muovere, ma si tollera il sovraffollamento in luoghi inidonei alla detenzione. Un contesto che umilia le persone, che vanifica le finalità della pena e che mette a rischio la nostra tanto declamata sicurezza.
Michela Petrini: è accettabile che le proteste divampate nelle carceri per la vicenda Covid 19 si siano trasformate in richieste di provvedimenti clemenziali rivendicati con sommosse che hanno messo a rischio l'incolumità degli agenti penitenziari? Si ricordano sommosse analoghe e, se si, in quali occasioni?
Riccardo Arena: intanto la violenza va condannata sempre. Quanto alle richieste di provvedimenti clemenziali legati al diffondersi del virus, mi sembrano richieste del tutto irrazionali e non capisco il nesso che ci possa essere tra Coronavirus e sovraffollamento. Ora, è comprensibile la paura e l’esasperazione di chi sta in carcere in un momento tanto drammatico, tuttavia la richiesta di un indulto avanzata oggi da alcuni detenuti non mi convince e temo che possa essere meramente strumentale. Infatti, un conto è una protesta non violenta che chiede un indulto a causa del sovraffollamento in luoghi osceni, della mancanza di intravedere un futuro migliore, della negazione del diritto alla salute. Altra cosa è chiedere di uscire dal carcere perché c’è l’emergenza Coronavirus. Domando: facciamo uscire i detenuti in modo indistinto senza sapere chi è infetto e chi non lo è? Ed ancora. E se uno è positivo, lo lasciamo tornare a casa libero di contagiare gli altri? Francamente quella dell’indulto mi sembra una richiesta che oggi è priva di razionalità. Più serio sarebbe chiedere di fare i tamponi ai detenuti e agli agenti che vivono o che lavorano nelle carceri delle regioni a rischio e dopo, una volta che si hanno i dati oggettivi, studiare misure adeguate da adottare caso per caso.
Michela Petrini: quali saranno, secondo lei, gli effetti delle proteste in atto, sul piano individuale e in ordine alla situazione delle carceri in Italia?
Riccardo Arena: ma…in questo impazzimento generale, dove governa il comunicato e non il contenuto, tutto può succedere…
di Daria Passaro
Sommario: 1. Lo spazio d’azione dell’amministratore di sostegno nel rifiuto delle cure. La legge n. 219/2017 nel mirino della Corte Costituzionale. - 2. La sentenza del Giudice delle Leggi n. 144 del 2019: un sistema “a doppia tutela”. La veste del giudice tutelare. - 3. L’intervento nel giudizio di costituzionalità. Negazioni, contraddizioni e recenti aperture.
1. Lo spazio d’azione dell’amministratore di sostegno nel rifiuto delle cure. La legge n. 219/2017 nel mirino della Corte Costituzionale.
L’istituto dell’amministrazione di sostegno, introdotto dalla legge n. 6/2004 è rivolto alla persona che, per effetto di un’infermità ovvero di una menomazione psico-fisica, si trovi nell’impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi personali e patrimoniali. Precisamente, la stessa potrà essere assistita da un amministratore di sostegno (ADS), nominato dal giudice tutelare del luogo in cui il beneficiario ha la residenza o il domicilio.
La figura dell’ADS esprime una specifica concezione dell’ordinamento civile diretta a sradicare dal concetto di malattia il sostrato di piena disabilità. Si tratta di un’innovazione di non poco momento volta a evitare l’isolamento del disabile e a promuovere la sua integrazione nel tessuto sociale, valorizzandone le possibilità, più o meno estese, di autodeterminazione e relegando a residualità le tradizionali e maggiormente incisive misure dell’interdizione e dell’inabilitazione, dalla portata fortemente limitativa.
L’amministrazione di sostegno configura la massima realizzazione di un concetto di flessibilità che, a superamento di vetuste concezioni, accende i riflettori sulla residuale capacità d’agire del soggetto beneficiario, tessendo una trama di misure di protezione attente alle reali necessità del soggetto. La ratio è di immediata percezione: evitare di elidere, per quanto possibile, l’autonomia personale di soggetti affetti da incapacità motorie o psichiche.
L’essenza spiccatamente “a misura d’uomo” dell’istituto e la connaturata flessibilità a cui è ispirato hanno fisiologicamente dato vita ad annose questioni circa i limiti e l’estensione dei poteri dell’amministratore di sostegno. Dove si spingono le sue funzioni? Dove finisce il ruolo di sostegno dell’ADS e dove comincia quello di tutela del giudice? Nell’universo, dai confini ancora incerti e tutti da disegnare, del fine vita, è possibile contemplare per l’amministratore un potere di rifiuto delle cure, nell’interesse del proprio amministrato?
A tal proposito, con ordinanza del 24 marzo 2018 il giudice tutelare Tribunale di Pavia ha sollevato una complessa questione di legittimità costituzionale, investendo l’articolo 3, commi 4 e 5, della l. 219/2017, legge in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento (DAT). L’assunta incostituzionalità si radicherebbe nella parte in cui la stessa norma stabilisce che l’amministratore di sostegno, la cui nomina preveda l’assistenza necessaria o la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, in assenza di disposizioni anticipate, possa rifiutare, senza bisogno alcuno di autorizzazione da parte giudice tutelare, le cure necessarie al mantenimento in vita dell’amministrato. Un vero e proprio diritto a rifiutare trattamenti anche salvavita, dai confini poco visibili ad occhio nudo.
Il contrasto si verificherebbe, invero, con gli artt. 2, 3, 13 e 32 della Costituzione, determinandosi in capo all’ADS un’arbitraria attribuzione del potere di decidere della vita e della morte del soggetto incapace.
Letteralmente, il comma 5 dell’articolo 3, l. 219/17, sancisce espressamente che, in caso di opposizione del medico all’interruzione delle cure, sia possibile l’intervento del giudice tutelare, mentre, a contrario, detto intervento non sia prefigurato nell’ipotesi in cui il medico non si opponga.
Il giudice rimettente ha fondato la sollevazione di costituzionalità sull’assunto in base al quale la libertà di rifiutare le cure presuppone il ricorso a valutazioni di vita e di morte, squisitamente soggettive e personalistiche, foriere di questioni etico-religiose. Il nesso è immediato. L’amministratore non può e non deve decidere “al posto” dell’incapace, stante il diritto personalissimo a rifiutare le cure, riflesso dell’indisponibilità e intrasferibilità del bene vita.
Lo sguardo attento del giudice a quo osserva che, affinché la determinazione circa il rifiuto delle cure sia espressione dell’interessato e non di chi lo rappresenta, la medesima debba risultare da apposite DAT o, in mancanza, dall’accurata ricostruzione della volontà dell’incapace. Un processo di ricerca tanto serio quanto complesso, che recherebbe con sé la necessità di servirsi dell’imprescindibile intervento del giudice, in qualità di soggetto terzo e imparziale, capace di tutelare la persona umana nella sua intima essenza, lungi da qualsivoglia annichilimento del diritto a decidere sulla propria vita, per mano d’altri.
In assenza del braccio protettivo del giudice-tutelare-garante dei diritti personalissimi, l’attribuzione all’ADS di un potere ipoteticamente incondizionato e incontrollato attinente alla vita e alla morte, si tradurrebbe in una concreta etero-determinazione, un dominio potenzialmente totale, dai marcati contorni incostituzionali.
La censura di incostituzionalità trasparirebbe, in particolar modo, con l’articolo 2 della Carta Costituzionale, determinandosi il pieno disconoscimento dell’inviolabilità del diritto alla vita, da intendersi come concreta negazione ad altri della possibilità di violarlo in qualsiasi forma. Un contrasto che si assume insanabile, visto l’intervento giudiziale come meramente ipotetico e accidentale, subordinato alla sussistenza di un eventuale dissidio tra medico e amministrato circa l’interruzione dei trattamenti salvavita per l’interessato.
Il giudice rimettente, inoltre, intravede nelle norme stigmatizzate un netto contrasto, ai limiti del paradosso, con l’articolo 3 della Costituzione, imperniato sul principio di uguaglianza, altresì nella declinazione di non irragionevolezza. A ben vedere, si verificherebbe un’incoerenza sistematica nella disciplina dell’istituto dell’amministrazione di sostegno, laddove ai sensi dell’articolo 411 del codice civile si prevede la necessaria autorizzazione del g.t. per il compimento degli atti ex artt. 374 e 375 c.c. attinenti alla sfera patrimoniale. Ebbene, a detta del giudice di Pavia, sarebbe totalmente irrazionale non prevedere tale autorizzazione in caso di manifestazione del rifiuto delle cure, finendo l’ordinamento per apprestare ad interessi d’ordine patrimoniale una salvaguardia superiore a quella relativa ai diritti fondamentali, in spregio a quella gerarchia dei beni costituzionalmente presidiati che può e deve guidare il legislatore nella predisposizione delle tutele.
Eppure, la rilevata ipotesi di incostituzionalità sarebbe ancor più evidente se si focalizzasse l’attenzione sulla ratio della legge n. 219/17, dalla portata fortemente riformatrice, nata con l’intento di valorizzare il consenso informato nella relazione medico-paziente, quale precipitato della volontà del singolo. Come può venire meno la stessa attenzione all’intimo animus dell’individuo, laddove si tratti di soggetti incapaci? Ad una maggiore incapacità, a rigor di logica, dovrebbe corrispondere una maggior tutela dell’elemento volontaristico, oltremodo in soggetti che manifestano una impossibilità di esternarlo.
2. La sentenza del Giudice delle Leggi n. 144 del 2019: un sistema “a doppia tutela”. La veste del giudice tutelare.
Dinanzi alle prepotenti spinte e alle abili censure mosse dal giudice a quo, la Corte Costituzionale ha, pur tuttavia, ritenuto che le questioni di legittimità costituzionale non fossero fondate. Il pronunciato della Corte, con sentenza n. 144 del 13 giugno 2019, ha difatti sancito la assoluta conformità a Costituzione dell’articolo 3, commi 4 e 5, della Legge sul consenso informato e sulle DAT.
In occasione di tale decisione, la stessa ha contribuito a meglio ribadire l’intrinseca essenza e i fini della legge n. 219/2017, nonché i corrispondenti ruoli e limiti dell’amministratore di sostegno e del giudice tutelare. A riprova di come il Giudice delle Leggi, in sede di sindacato, abbia sì ritenuto infondata la questione ma, sostanzialmente, ne abbia recepito le preoccupazioni.
La Corte costituzionale, principaliter, ha rilevato che l’asserito contrasto con la Carta Fondamentale poggiasse su un presupposto interpretativo erroneo, osservando, in primo luogo, come la legge del 2017 nascesse per dare attuazione al principio del consenso informato nell’ambito della relazione di cura e fiducia tra paziente e medico. Trattasi di quel diritto a ricevere le opportune informazioni che trova fondamento costituzionale proprio negli artt. 2, 3, 13 e 32 della Carta, attinenti al diritto alla vita, alla salute, alla libertà personale; norme fondamentali che il giudice di Pavia, erroneamente, assume violate.
In secondo luogo, la legge n. 219/17 ha introdotto il rivoluzionario istituto delle DAT nonché, all’articolo 3, la disciplina applicabile nel caso in cui il paziente sia una persona non pienamente capace di agire, bensì minore di età, interdetta, inabilitata o, per quel che in questa sede rileva, beneficiaria di amministrazione di sostegno.
Tanto premesso, la disposizione di cui all’art. 3 stabilisce da un lato che, quando la nomina dell’amministratore di sostegno preveda l’assistenza necessaria o la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, «il consenso informato è espresso o rifiutato anche dall’amministratore di sostegno ovvero solo da quest’ultimo, tenendo conto della volontà del beneficiario, in relazione al suo grado di capacità di intendere e di volere» (art. 3, comma 4); dall’altro, che, in mancanza di DAT, se l’amministratore di sostegno rifiuta cure che il medico reputa invece appropriate e necessarie, la decisione è rimessa al giudice tutelare, su ricorso dei soggetti legittimati a proporlo (art. 3, comma 5). Le norme in esame, dunque, sono tese a disciplinare ed analizzare casi particolari di espressione o di rifiuto del consenso informato, anche -ma non solo- allorquando questo riguardi trattamenti sanitari necessari alla sopravvivenza.
Ebbene, nell’ottica della Corte Costituzionale, l’inciampo interpretativo del giudice rimettente consiste nel non aver colto il dettaglio per cui le norme incriminate non disciplinano le modalità di conferimento e di esercizio dei poteri dell’ADS in ambito sanitario, situazioni regolate, per contro, dagli artt. 404 ss. del codice civile. Ne deriva che, se le norme oggetto di sindacato costituzionale non forniscono la disciplina dell’istituto dell’amministrazione di sostegno, l’esegesi delle stesse deve essere condotta alla luce della normativa codicistica, al fine di individuare e comprendere con certezza i poteri spettanti al giudice tutelare al momento della nomina dell’amministratore.
Dall’interpretazione “costituzionalmente orientata” della l. 6 del 2004, emerge che l’ambito dei poteri dell’ADS è correlato alle caratteristiche del caso concreto, secondo quanto stabilito dal giudice tutelare in sede di provvedimento di nomina; quest’ultimo fornisce, in particolare, indicazioni circa l’oggetto dell’incarico e gli atti a potere dell’amministratore, in nome e per conto del beneficiario.
A detta del giudice delle Leggi, l’istituto de quo si presenta come uno strumento il cui primario obiettivo è proteggere senza mortificare la persona affetta da disabilità, consentendo al G.T. di adeguare la misura alla situazione concreta della persona interessata, variandola nel tempo, sì da garantire all’amministrato la massima tutela possibile con minor sacrificio della propria capacità di autodeterminazione. Dunque, un istituto duttile ispirato alla flessibilità, plasmato dal giudice sulla base delle esigenze dell’incapace, ove la tendenza a limitare nella minor misura possibile la capacità di agire del disabile marca una profonda differenza con i classici istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione.
Il fulcro del ragionamento addotto dalla Corte Costituzionale a fondamento del rigetto della questione sollevata, è radicato nell’affermazione per cui il beneficiario di ADS ben può essere privato della capacità di porre in essere atti personalissimi, ivi compreso il rifiuto delle cure, quando ciò tuteli i suoi interessi; nondimeno, tale privazione esige un’espressa disposizione da parte del giudice tutelare, in sede di provvedimento di apertura dell’amministrazione ovvero successivamente. In questa direzione, il quadro normativo concernente l’amministratore di sostegno consente alla Corte di sancire l’erroneità del presupposto interpretativo delle censure avanzate dal giudice di Pavia: contrariamente a quanto sostenuto, le norme censurate non attribuirebbero “ex lege” ad ogni ADS munito di rappresentanza esclusiva in ambito sanitario altresì il potere di esprimere o meno il consenso informato ai trattamenti di sostegno vitale. Solo il giudice tutelare, allora, con decreto di nomina, è in grado di individuare poteri e limiti dell’incarico coperto dall’amministratore in nome e per conto del beneficiario, allo stesso giudice spettando, in tal guisa, il compito di circoscrivere i poteri in ambito sanitario sulla base del caso di specie e delle concrete condizioni di salute del disabile. Una decisione, quella del G.T, circa il conferimento o no del potere di rifiutare le cure, che deve rispondere e corrispondere alle circostanze concrete e allo stato di salute del soggetto in quel preciso momento.
Conseguentemente, il giudice costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità sollevate, sottolineando che un’attenta esegesi dell’art. 3, commi 4 e 5, della legge n. 219 del 2017, posti i principi che conformano l’amministrazione di sostegno, porta a negare con convinzione che il conferimento della rappresentanza esclusiva in ambito sanitario rechi con sé, anche e necessariamente, nonché automaticamente, il potere di rifiutare i trattamenti sanitari necessari al mantenimento in vita, incluse alimentazione e idratazione artificiali.
Le norme censurate si limitano a disciplinare, si ribadisce, il caso specifico in cui l’amministratore di sostegno sia stato investito anche di tale potere, da intendersi come il potere non di occuparsi ordinariamente della salute del soggetto, ma di adottare, eventualmente, le decisioni estreme di sospensione o rifiuto delle cure. Lungi da qualsiasi attribuzione automatica o obbligo di conferimento, spetta sempre e solo al giudice tutelare attribuire detto potere in sede di nomina o successivamente, allorché lo richieda il decorso della patologia del beneficiario.
Indubbiamente, una legge ed un’interpretazione costituzionalista che lasciano un margine, più o meno ampio, di discrezionalità ai giudici. L’auspicio che, nella prassi, il G.T. autorizzi la sospensione dei trattamenti vitali nei soli casi di accanimento terapeutico, non esime dal riflettere sul sistema delineato, che appare ispirato alla “doppia tutela”: su un versante, il ruolo dell’amministratore di sostegno, che esprime la “voce” del beneficiario, sull’altro, l’onnipresente giudice tutelare, incaricato di effettuare un controllo costante, una protezione a monte in sede di nomina dell’ADS, nonché a valle, potendo modificare le proprie determinazioni in qualsiasi momento, sulla base del concreto interesse del disabile.
Immediato il nesso con il più ampio tema dei poteri del giudice, garante della dignità umana, specie nel rapporto col legislatore. Una problematica che investe particolarmente il mondo del biodiritto, ove il progresso medico e tecnologico avanza velocemente e pone questioni etico-giuridiche su cui il giudice (comune o costituzionale che sia) è chiamato a intervenire con prontezza, risolvendo casi specifici, concreti e attuali, mentre il legislatore spesso fatica a stare al passo.
Il contesto del biodiritto e del finevita, si pensi ai casi mediatici di Eluana Englaro, Piergiorgio Welby e Dj Fabo, impone al giudice di vestire spesso il suo abito più coraggioso, quello pseudo-normativo, risultato di complessi bilanciamenti tra diritti fondamentali, con conseguenze sì circoscritte al caso pratico ma dalla incisiva ridondanza.
La stessa legge n. 219/17 comprende espressi poteri attribuiti all’interprete e al giudice, al fine di scongiurare possibili vuoti di tutela. Dal momento che al centro della suddetta si pone il consenso ai trattamenti sanitari come massima proiezione del fondamentale diritto all’autodeterminazione, il rifiuto delle cure costituisce “l’altro lato del consenso” e impone, per ciò solo, l’intervento del giudice tutelare, nei termini di cui si è detto.
Per quanto riguarda lo spazio specifico riservato al giudice nella legge sul consenso informato del 2017, la stessa prevede espressamente due tipi di intervento del G.T.: nell’ipotesi in cui l’amministratore di sostegno rifiuti le cure, contro l’opposizione del medico (art. 3, comma 5), e nell’ipotesi di contrasto tra medico e fiduciario nominato con le DAT (art. 4, comma 5). Tuttavia, il silenzio del legislatore su altri casi di intervento giudiziale può essere interpretato come impossibilità di pronosticare tutte le possibili eventualità della vita reale, una voluta lacuna legislativa che inevitabilmente richiederà la funzione “integratrice” di tutela del giudice.
Se tale può ritenersi il quadro generale, allora il giudice tutelare, per effetto della l. 219/17 ha subito una rivoluzione senza precedenti, divenendo una figura centrale nella protezione della persona umana e delle scelte terapeutiche a lei destinate; compito tanto significativo quanto complesso, che presuppone, oltre ad una approfondita conoscenza del diritto positivo e della giurisprudenza nazionale e sovranazionale, una capacità di comprendere gli aspetti umani più fragili, un’attitudine a percepire i contorni etici più delicati. Solo a tali condizioni il giudice può indossare le vesti di “garante” della dignità umana, nella vita e, soprattutto nelle decisioni di morte.
Quale debba essere il miglior modello di giudice, adatto a svolgere tali funzioni? Presumibilmente, un uomo sensibile, tanto attento ai confini etico-giuridici quanto carico di umana empatia, a difesa di soggetti malati, vulnerabili, incapaci di autotutelarsi o difendersi dalla sopraffazione. In tutta probabilità, uno degli abiti più scomodi e difficili da indossare per un giudice.
3. L’intervento nel giudizio di costituzionalità. Negazioni, contraddizioni e recenti aperture.
Nel corso del giudizio costituzionale sfociato nella sentenza n. 144/2019, hanno comunemente depositato un atto di intervento le associazioni Unione Giuristi Cattolici Italiani (UGCI)- Unione Locale di Piacenza e Unione Giuristi Cattolici di Pavia, chiedendo l’accoglimento delle questioni avanzate dal giudice rimettente.
Tali associazioni, in riferimento alla propria legittimazione ad intervenire, hanno ritenuto sussistente un “prevalente interesse etico” tale da consentire la più larga partecipazione nel giudizio di costituzionalità da parte di associazioni che figurassero come “espressioni della società civile”.
In particolare, l’UGCI ha evidenziato che, a livello statutario, l’Unione nasce con lo scopo di contribuire all’attuazione dei principi dell’etica cristiana nella scienza giuridica, nonché nell’attività legislativa, giurisdizionale e amministrativa; di favorire la tutela della persona umana e di richiamare l’attenzione dei giuristi sui problemi giuridici derivanti dalla rapida e incessante evoluzione sociale, al fine di trovare soluzioni rispondenti al bene comune. Lo stesso dicasi per lo Statuto dell’Unione di Pavia che ha recepito le finalità statutarie dell’UGCI, onde garantire una concezione di diritto che assicurasse la giustizia tra gli uomini, oltremodo attraverso un’adeguata preparazione spirituale, culturale, professionale e deontologica dei giuristi.
Da tali premesse, fatte proprie nell’atto di intervento depositato, parrebbe evidente il concreto interesse delle associazioni intervenienti a contribuire e ad interloquire nella questione portata alla attenzione della Corte, non solo per la pregnanza morale della stessa, ma anche per all’attinenza ai temi della salute, della vita e della morte, dei diritti fondamentali presidiati nella Carta Costituzionale. Come asserito dalle intervenienti, il prevalente interesse etico della questione all’esame della Corte indurrebbe agevolmente ad ammettere una più ampia partecipazione di enti ed associazioni, titolari, per ciò solo, di interessi direttamente coinvolti nella disciplina normativa censurata.
Nel merito, le intervenienti osservavano come la normativa stigmatizzata fosse foriera di abusi, potendo degenerare nel rifiuto delle cure e nella “soppressione” arbitraria di pazienti incapaci; tale problema, a detta delle stesse, si presenterebbe anche in caso di regolari DAT, vista l’impossibilità pratica di ricostruire la volontà del soggetto per mezzo di una mera fictio iuris.
La posizione di netta condanna, avanzata dalle associazioni de qua in sede di atto di intervento, poneva vizi di costituzionalità ancora più radicali di quelli prospettati dal giudice di Pavia, finendo col dubitare in ogni caso della legittimità costituzionale della privazione di trattamenti sanitari salvavita, con o senza la presenza di DAT.
Nonostante prima facie fossero valide le ragioni addotte dalle associazioni menzionate, il Giudice delle Leggi ha dichiarato inammissibile l’intervento dell’UGCI- Unione Locale di Piacenza e Unione Giuristi Cattolici di Pavia. A fondamento dell’inammissibilità, la constatazione per cui al giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale possono partecipare, secondo la legge n. 87 del 1953, le parti del giudizio a quo e il Presidente del Consiglio dei ministri; altri interventi sono ammissibili solo allorquando i terzi siano titolari di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio, e non meramente regolato, al pari di ogni altro, dalle norme censurate.
Stando alla Corte, nel caso di specie, le associazioni intervenienti non possono essere considerate titolari di tale interesse qualificato, posto che il giudizio di costituzionalità non è destinato a produrre nei loro confronti effetti immediati, né indiretti. Le stesse, pertanto, non vanterebbero una posizione giuridica suscettibile di pregiudizio da parte della sopravvenuta decisione giurisdizionale, bensì un generico interesse legato al perseguimento dei propri scopi statutari.
Nondimeno, la negazione dell’intervento associazionista da parte della Corte pone una serie di rilevanti interrogativi e di possibili contraddizioni, attesa la difficoltà di discernere quali e quanti terzi possano interloquire in un giudizio costituzionale che, in questi termini, appare essere “a porte chiuse”.
A tal proposito, si richiamano alcune decisioni con cui la Corte ha ammesso l’intervento di terzi in qualità di enti rappresentativi di interessi collettivi; proprio in ragione del carattere rappresentativo dell’interesse collettivo direttamente coinvolto dalla questione, è stato in varie occasioni consentito l’ingresso di enti o associazioni di categoria. In effetti, la Corte Costituzionale ha ammesso l’intervento di ordini professionali in giudizi relativi ai doveri e diritti del professionista. Si pensi alla sent. 456/1993 che ha reso possibile la costituzione in giudizio della Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e odontoiatri, o alla sent. n. 171/1996 che ha visto la partecipazione del Consiglio Nazionale Forense in sede di sindacato costituzionale. A riprova di come sia ravvisabile una posizione giuridica “qualificata” altresì in soggetti “associativi”, per loro natura diretti alla tutela di interessi collettivi.
Ad oggi, l’orientamento “negazionista” portato avanti dalla Corte apre la strada a nuove riflessioni, ispirate anche al noto caso Dj Fabo. A tal riguardo, con sentenza n. 242 del 25 settembre 2019, il Giudice delle Leggi ha dichiarato l’art. 580 cod. pen., sull’aiuto al suicidio, costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge n. 219 del 2017, agevola l’esecuzione del proposito suicidario, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, causa di sofferenze fisiche o psicologiche ritenute intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli; sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente.
In questa sede, la riflessione è imperniata sulla espressamente prevista necessità di previo parere fornito da tale comitato etico nelle ipotesi di aiuto al suicidio. La Corte intervenuta nel caso Fabo, in relazione alla (non) punibilità dell’aiuto al suicidio prestato da Marco Cappato, ha prioritariamente sancito che la verifica delle condizioni legittimanti l’aiuto al suicidio deve restare affidata, in assenza di apposita disciplina legislativa, a strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale, le quali verificheranno le relative modalità di esecuzione così da evitare abusi in danno di persone vulnerabili e da garantire la dignità del paziente.
Tanto non è stato ritenuto sufficiente dal giudice delle Leggi in sede di aiuto al suicidio: la delicatezza del bene vita richiede, secondo la Corte, l’intervento di un organo collegiale terzo, munito di adeguate competenze, atto a tutelare situazioni di particolare vulnerabilità. Ciò premesso, in attesa dell’intervento del legislatore, detto compito è stato affidato ai comitati etici territorialmente competenti. Questi comitati, da intendersi quali organismi di consultazione e di riferimento per i problemi di natura etica che possano presentarsi, rivestono funzioni consultive intese a garantire la tutela dei diritti e dei valori della persona in confronto alle sperimentazioni cliniche di medicinali o all’uso di questi e dei dispositivi medici. Si tratta, evidentemente, di funzioni a salvaguardia di soggetti vulnerabili.
Ad una più attenta analisi, se nella delicata materia dell’aiuto al suicidio è stata contemplata la necessaria “partecipazione” di comitati “terzi” rispetto ai casi che nella prassi si presentano, allora risulta difficile comprendere come, nel poco precedente giudizio di costituzionalità di cui alla sent. n. 144 del giugno 2019, si sia negata l’interlocuzione delle Associazioni di cui sopra; in una materia, inoltre, che egualmente coinvolge la l. 219/17 e il fine vita, seppure dal punto di vista dei poteri del rifiuto delle cure da parte dell’ADS. Forse, se la questione di costituzionalità sollevata dal giudice di Pavia avesse trovato risposta in un momento successivo alla pronuncia circa l’aiuto al suicidio, l’atto delle intervenienti sarebbe stato ammesso.
Il rilievo decisivo, tuttavia, nasce dalle recentissime modifiche regolamentari in materia di giudizi dinanzi alla Consulta. Per vero, con delibera dell’8 gennaio 2020, sono state apportate modifiche alle norme che regolano i giudizi davanti alla Consulta. Il nuovo articolo 4-ter delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale prevede che qualsiasi formazione sociale senza scopo di lucro e qualunque soggetto istituzionale, quando siano portatori di interessi collettivi o diffusi attinenti alla questione in discussione, potranno presentare brevi opinioni scritte per fornire alla Corte elementi utili alla miglior valutazione del caso sottoposto al suo vaglio. Inoltre, è stata prevista la possibilità per la Corte di convocare esperti di chiara fama, qualora ritenga necessario acquisire informazioni su specifiche discipline; confronto con gli esperti che si svolgerà in camera di consiglio, alla presenza delle parti. Infine, si è stabilito che nei giudizi in via incidentale, potranno intervenire, oltre alle parti di quel giudizio e al Presidente del Consiglio dei ministri, anche altri soggetti, purché titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato a quel giudizio.
Attraverso queste recenti revisioni, la Consulta si è resa disponibile all’ascolto della società civile. A conferma di tali aperture, lo scorso 27 febbraio 2020, con ordinanza n. 37, in merito alle condizioni di ammissibilità dell’intervento del terzo nel giudizio davanti alla Corte Costituzionale, è stata dichiarata ammissibile la richiesta di intervento dell’Ordine dei giornalisti (CNOG) nel giudizio di costituzionalità sollevato dal Tribunale di Salerno con ordinanza del 9 aprile 2019, avverso le norme che puniscono con pena detentiva il reato di diffamazione a mezzo stampa da parte del giornalista e del direttore responsabile. Una questione complessa in cui, comprensibilmente, il CNOG non resterà a guardare.
Appare quasi lapalissiano come, se la questione di costituzionalità sollevata dal giudice di Pavia fosse stata decisa in tempi attuali, alla luce delle sopravvenute modifiche, l’atto di intervento dell’UGCI e seguenti sarebbe stato, con ogni probabilità, ammesso. E chissà se la pronuncia della Corte, circa i poteri dell’amministratore di sostegno nel rifiuto delle cure, non sarebbe stata totalmente diversa. Ai posteri le “ardue sentenze”.
Riferimenti bibliografici
BENELLI, F., Il contraddittorio nel processo sulla legge, Pisa, 2007.
FRATINI, M., CHINÈ, G., ZOPPINI, A., Manuale di diritto civile, Neldiritto Editore, 2019.
LODDO, P., L’amministratore di sostegno, Cedam, 2019.
LUPO, E., Recensione a Scelte di vita o di morte: il giudice è garante della dignità umana? Relazione di cura, DAT e “congedo dalla vita” dopo la L. 219/2017, di Roberto Giovanni Conti, Aracne, 2019.
MONACO G., La concretezza del giudizio incidentale sulle leggi, Milano, 2016.
NAPOLI, G.E., Strumenti di protezione della persona, Napoli, 2017. NOCCELLI, M., La cura dell’incapace tra volontà del paziente, istituti di tutela ed organizzazione del servizio sanitario., 2018.
PULITANO, D., Il diritto penale di fronte al suicidio, Milano, 2018;
ROMBOLI R., Il Giudizio costituzionale incidentale come processo senza parti, Milano, 1985.
RIFERIMENTI GIURISPRUDENZIALI
Emergenza dei profughi siriani, lontana dagli occhi, vicina al cuore.
Card.Francesco Montenegro
Nove anni di conflitto siriano hanno messo in ginocchio non solo un paese ma un’intera regione che oggi deve a fare i conti con milioni di profughi che premono ai confini dell’Unione Europea. La Giordania, la Turchia, il Libano si trovano a distanza di tempo ancora sotto il peso di un’umanità sospesa tra il desiderio di rientrare nel proprio paese e la necessità di trovare un luogo sicuro, lontano da un’area di crisi come quella medio orientale. Per questo lo sguardo è rivolto alla vicina Europa che in tanti cercano di raggiungere, in ogni modo, anche a rischio della vita.
Le immagini che ci sono giunte in questi anni, a partire dalla crisi migratoria del 2015, testimoniano non solo la difficile condizione di chi fugge dalla guerra, ma anche l’incapacità da parte della comunità internazionale di governare fenomeni complessi che richiedono invece lucidità e lungimiranza. Purtroppo, sembra che queste vengono a mancare, infatti le scelte adottate da diversi paesi, alcuni dei quali appartenenti all’Unione europea, pongono molti interrogativi, a partire da una corretta applicazione del diritto internazionale e dei relativi trattati e convenzioni.
Il caso ungherese è paradigmatico in quanto il paese magiaro, di fronte alla richiesta esplicita della Commissione Europea di aderire a un meccanismo di redistribuzione dei migranti giunti nel 2016 in Italia e in Grecia, in ossequio all’art.80 del TFUE (Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea) relativo al principio di solidarietà tra Stati membri nel settore dei controlli alle frontiere, dell'asilo e dell'immigrazione, è apparso da subito riluttante. L’impressione è che la nozione generale di solidarietà non sia entrata a far parte del vocabolario giuridico di questo paese. L’Ungheria, infatti, ha risposto negativamente alla richiesta della Commissione, non accogliendo sul proprio territorio nemmeno un profugo giunto nel sud Europa ma, al contrario, ha predisposto delle barriere anti immigrati lungo i confini con la Serbia e la Croazia. Inoltre nel 2017 ha approvato una legge che prevede la detenzione obbligatoria di tutti i richiedenti asilo compresi i minori non accompagnati, per i quali è stata prevista la detenzione all’interno di container di metallo, in campi circondati da filo spinato, fino al termine del procedimento della richiesta di protezione internazionale. Si tratta di una palese violazione del diritto internazionale e dell’Unione Europea, secondo cui la detenzione di rifugiati e richiedenti asilo può essere giustificata solo sulla base di un numero limitato di ragioni, e solo se si considera necessaria, ragionevole e adeguata[1], mentre i minori non dovrebbero mai essere detenuti in quanto la detenzione non costituisce in alcuna circostanza il miglior interesse di un minore.
Sulla violazione di norme nazionali, internazionali ed umanitarie c’è anche il caso dei minori non accompagnati che vengono respinti dalla Francia verso l’Italia. Il ripristino dei controlli alle frontiere interne, deciso dal governo francese alla fine del 2015, in concomitanza con la crisi migratoria di quegli anni, ha avuto come effetto anche la violazione di norme a protezione dei minori stranieri non accompagnati richiedenti asilo. Com’è noto, ai sensi del Regolamento Dublino e della giurisprudenza della Corte di Giustizia europea, i minori non accompagnati che presentano domanda d'asilo in Francia, non possono essere rinviati in Italia: a differenza degli adulti, infatti, ai MSNA non si applica il criterio del paese di primo ingresso. Nel caso in cui invece il minore non manifesti la volontà di presentare domanda d'asilo in Francia (spesso perché non adeguatamente informato di tale diritto), e venga fermato nella zona di frontiera, le autorità francesi potranno respingerlo in Italia. La normativa francese stabilisce però precise garanzie che devono essere rispettate nel caso di respingimento di un Msna: in particolare deve essere nominato un tutore provvisorio (c.d. "administrateur ad hoc") e il respingimento non può essere effettuato prima del termine di 24 ore (c.d. "jour franc"). Mi risulta che tali norme e garanzie vengono normalmente disattese dalla polizia di frontiera francese senza che si abbia un efficace intervento dell’autorità giurisdizionale.
È evidente, dunque, che il rapporto fra diritti umani e immigrazione è senza dubbio controverso, soprattutto in questa particolare fase storica in cui le nostre società stanno affrontando un’accentuata mobilità umana. Per comprendere questa difficile relazione ritengo sia necessario volgere lo sguardo al passato e tornare al dibattito che anticipò la stesura della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo nel secondo dopoguerra. Erano anni nei quali si avvertiva l’urgenza di trovare uno strumento giuridico “globale”, in grado di evitare quelle catastrofi umanitarie conseguenti a conflitti sanguinosi che avevano causato milioni di morti e altrettanti sfollati e profughi. Come si legge nel preambolo della Dichiarazione, si tratta di "barbarie che offendono la coscienza dell'umanità" e che giustificano per questo la costruzione di un percorso volto a trovare un terreno comune su cui consolidare le fondamenta dei cosiddetti diritti umani.
Se oggi l’idea di un diritto universale, ovvero valido per tutti gli uomini, è dato per acquisito, nei fatti però non è così. E non è stato così neanche nel passato, quando si è iniziato a lavorare alla stesura della dichiarazione dei diritti dell’uomo. Sul piano teorico e politico infatti non vi è accordo unanime circa la pretesa universalità dei diritti umani. Per questo motivo la necessità di trovare un loro fondamento è necessario se si vuole giustificarne non solo la loro universalità ma anche un ampio riconoscimento sul piano pratico. Su questo aspetto, però, sono molte le tesi avanzate e nessuna in grado di giungere a un fondamento che possa attribuire universalità ai diritti umani. Neanche il fondamento divino, così come si ritrova, ad esempio, nella Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d'America dove si legge che “tutti gli uomini sono stati creati uguali; che il Creatore li ha investiti di certi diritti inalienabili; che tra questi sono la vita, la libertà e la ricerca della felicità”. Per alcuni critici, infatti, il limite di questo fondamento sta nel fatto che si ispira a una visione di Dio creatore che si ritrova solo in alcune religioni e non in altre. Questo farebbe venire meno il valore universalistico della dichiarazione dei diritti umani. Soprattutto gli antropologi hanno spesso respinto qualsiasi tipo di paradigma universalista, in quanto non essendo in grado di dare ragione della multiforme variabilità delle culture, queste difficilmente potranno riconoscersi in un unico sistema di riferimento.
Il rapporto dicotomico tra universalismo e relativismo culturale ha quindi caratterizzato nei decenni il dibattito intorno alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e in particolare su un aspetto: presentare come naturali e universali dei principi che scaturivano in un determinato contesto e periodo storico, peraltro su iniziativa e per mano solo di alcuni paesi, in particolare dell’area euro-americana. Inevitabilmente questo significava non considerare le differenze culturali, religiose e sociali dei diversi contesti in cui i diritti sarebbero stati poi “praticati”, con inevitabili conseguenze[2].
La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, nonostante il contesto in cui sia nata e le mediazioni a cui sia stata sottoposta, può essere comunque considerata come il desiderio di unificare il mondo prescrivendo linee direttrici che tutte le strutture governative dovrebbero osservare, in un percorso che scriverebbe un nuovo diritto naturale dell'umanità. Il rischio, però, è che vi sia lo scivolamento verso una vera e propria “religione dei diritti umani”, capace di trasformare un documento sui diritti soggettivi in qualcosa di ben diverso.
Certamente alcuni sforzi sono stati fatti, ma la questione rimane e si complica dovendo fare i conti con società globalizzate nelle quali l’incontro tra storie e culture molto diverse non sempre riesce a trovare una giusta sintesi a cui si vuole forzatamente giungere attraverso documenti o dichiarazioni internazionali. Peraltro, come abbiamo visto in premessa, gli stessi paesi che rivendicano la paternità della dichiarazione dei diritti dell’uomo o della più recente Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, si rendono poi responsabili della loro non applicazione. E questo appare più vero se riferito alle questioni migratorie. La sentenza con la quale la Corte Europea dei diritti umani ha condannato l’Italia nel 2012 ne è una testimonianza viva. La Grand Chamber ha stabilito, nel caso Hirsi Jamaa e altri contro Italia, che il respingimento verso Tripoli dei 24 ricorrenti (appartenenti a un gruppo di circa 200 persone, molti somali e eritrei come i ricorrenti stessi) operato dalle navi militari italiane, costituiva violazione dell'art. 3 (tortura e trattamento inumano) della Convenzione europea dei diritti umani, perché la Libia non offriva alcuna garanzia di trattamento secondo gli standard internazionali dei richiedenti asilo e dei rifugiati e li esponeva anzi ad un rimpatrio forzato.
Si tratta di un caso fra tanti che denuncia come la visione, per alcuni romantica, dei diritti umani si infrange contro politiche e prassi che poco hanno a che fare con la tutela dei diritti soggettivi delle persone. L’esternalizzazione delle frontiere, l’innalzamento di muri, la chiusura dei confini all’interno dell’Europa sono la testimonianza di un umanesimo mancato. Come dire che l’universalità dei diritti umani è subordinata agli interessi particolari degli Stati. Ci ricorda Papa Francesco: “Noi figli, di quel sogno (chiamato Europa), siamo tentati di cedere ai nostri egoismi e costruire recinti particolari”. Per questo motivo, continua il Santo Padre, “Sogno un’Europa in cui essere migrante non sia delitto bensì un invito a un maggior impegno con la dignità di tutto l’essere umano. Sogno un’Europa che promuove e tutela i diritti di ciascuno, senza dimenticare i doveri verso tutti. Sogno un’Europa di cui non si possa dire che il suo impegno per i diritti umani è stata la sua ultima utopia”[3].
La vicenda dei siriani contro cui la polizia greca ha lanciato lacrimogeni nel tentativo di non farli entrare nel paese per esercitare il loro diritto alla richiesta di protezione internazionale o addirittura gli spari della guardia costiera greca contro dei gommoni carichi di profughi, ci ricordano come l’applicazione dei diritti umani sia spesso disattesa e non trova, malgrado tutto, un’adeguata attenzione neanche da parte degli organismi giurisdizionali.
Pensiamo alla norma che in Europa impone ai richiedenti asilo di rimanere nel primo luogo di ingresso, quello in cui presentano la richiesta di protezione internazionale (Regolamento Dublino)[4]. A queste persone spesso non viene data la possibilità di ricongiungersi con parenti o congiunti che si trovano in altri Paesi dell’Europa, così come previsto dallo stesso regolamento. Ritardi, inefficienze e talvolta mancanza di volontà sono i primi nemici di una corretta applicazione del diritto internazionale dei diritti umani che spesso, nella cultura giuridica, non viene purtroppo preso in giusta considerazione.
D’altronde, il positivismo giuridico è sempre apparso poco incline a utilizzare le norme internazionali prodotte in materia di diritti umani. Spesso si dubita della reale giuridicità di queste norme. L'esistenza di una norma di diritto internazionale generale che vincola gli Stati al rispetto dei diritti umani viene generalmente ammessa, ma non la sua applicazione in quanto considerata eccessivamente generica. Peraltro tali norme restano comunque in larga misura inefficaci dal punto di vista dell'effettività giuridica, in assenza di un'adeguata strumentazione istituzionale capace di garantirne l'applicazione a livello internazionale.
Penso, dunque, che l’immigrazione possa considerarsi un’occasione preziosa per cercare di costruire un modo di leggere da un punto di vista giuridico non formalista le norme di un particolare sistema dell'ordinamento giuridico internazionale, quelle del diritto internazionale dei diritti umani. In particolare, in un contesto dinamico e in costante divenire come quello attuale, attraversato da conflitti profondi e segnato da situazioni diffuse di crisi, dobbiamo riscoprire la forza del diritto internazionale dei diritti umani nella sua capacità di costruire un quadro di riferimento certo per la tutela giuridica e giurisdizionale dei diritti umani.
[1] Articolo 31, Convenzione del 1951 Convention; Articolo 18(1), Direttiva del Consiglio dell’Unione europea 2005/85/CE del 1° dicembre 2005 recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato.
[2] Ernesto Galli della Loggia, I diritti umani “campo di identità” dell'Occidente? Convegno Storia, Politica e Religione - 25 ottobre 2004 “ll problema è che le altre culture, gli altri protagonisti della scena internazionale non credono che i diritti umani siano procedurali, e pensano viceversa che, come in effetti è difficile negare, siano frutto di una determinata cultura, e proprio di quella dell’Occidente. Quindi non vedono affatto nei “diritti umani” quella sorta di identità metanazionale di cui tutti potrebbero fruire, bensì molto spesso, e proprio nelle sedi internazionali, vedono in quei diritti uno strumento dell’imperialismo ideologico dell’Occidente. [...]”
[3] Discorso di Papa Francesco alla cerimonia di conferimento del premio Carlo Magno, maggio 2016
[4] REGOLAMENTO (UE) N. 604/2013 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 26 giugno 2013 che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo o da un apolide.
La giustizia di fronte all’emergenza coronavirus. Le misure straordinarie per il processo amministrativo.
Fabio Francario
Sommario: 1. Premesse - 2. Sospensione dei termini processuali - 3. Rinvio ex lege o con disposizione presidenziale della trattazione dei ricorsi e delle domande cautelari - 4. Possibilità di trattazione, a richiesta e comunque senza discussione in camera di consiglio, delle istanze cautelari durante il periodo di sospensione dei termini processuali - 5. Trattenimento in decisione di ricorsi e domande cautelari senza discussione in udienza pubblica o camerale, salvo che non venga espressamente chiesta anche da una sola delle parti e con possibilità di collegamento da remoto - 6. Peculiari modalità di deposito di atti e documenti
1. Premesse
Il decreto legge 8 marzo 2020 n. 11 prevede misure straordinarie e urgenti per contrastare l’emergenza epidemiologica da COVID-19 e contenere gli effetti negativi sullo svolgimento dell’attività giudiziaria anche con specifico riferimento al processo amministrativo.
Le disposizioni che interessano il processo amministrativo sono recate dall’art. 3.
In deroga alla disciplina generalmente dettata dal d. lgs. 104/2010., le nuove norme introducono misure che nel loro complesso prevedono:
-la sospensione dei termini processuali;
-il rinvio ex lege o con disposizione presidenziale della trattazione dei ricorsi e delle domande cautelari;
-la possibilità di trattazione, a richiesta e comunque senza discussione in camera di consiglio, delle istanze cautelari durante il periodo di sospensione;
-il trattenimento in decisione di ricorsi e domande cautelari senza discussione in udienza pubblica o camerale, salvo che non venga espressamente chiesta anche da una sola delle parti e con possibilità di collegamento da remoto;
-peculiari modalità di deposito di atti e documenti.
2. Sospensione dei termini processuali.
La prima misura introdotta consiste nella sospensione dei termini processuali nel periodo compreso tra l’8 marzo 2020, data di pubblicazione in GU del decreto, e il 22 marzo 2020. La sospensione dei termini processuali è generalmente disciplinata, con riferimento al periodo feriale, dall’art 54 deld lgs. 104/2010, al quale fa rinvio il comma 1, primo cpv, dell’art 3. La disciplina generale della sospensione dei termini processuali nel periodo feriale, in ragione del principio di effettività della tutela giurisdizionale e, con esso, della esclusione della possibilità di ammettere soluzione di continuità nella tutela cautelare, esclude che la sospensione si applichi anche ai procedimenti cautelari (art 54, comma 3, cod. proc. amm.). In linea con il suddetto principio generale, il decreto legge 11/2020 prevede che la tutela cautelare rimanga fruibile anche nel periodo di sospensione dallo stesso introdotto, sebbene soltanto nella forma del rito monocratico di cui all’art 56 d. lgs 104/2010 (v. infra).
Nessun particolare problema si pone per i termini che si pongono ad es. per la notifica o il deposito del ricorso. Questi s’interrompono e riprenderanno a decorrere al termine del periodo di sospensione.
Il problema sussiste invece per i termini che, calcolati a ritroso da un’udienza già fissata dopo la scadenza del periodo di sospensione, verrebbero a scadere durante il periodo della sospensione, ad es. per il deposito memorie e documenti. In tal caso, infatti, differentemente dall’ipotesi generale della sospensione feriale, le parti non hanno previamente avuto contezza dell’esistenza del periodo di sospensione e sarebbero nell’impossibilità di compiere quelle attività processuali i cui termini sarebbero già scaduti. Il problema dovrebbe trovare soluzione nell’esercizio del potere presidenziale di riordino dei calendari e dei ruoli d’udienza previsto dal successivo comma 2 (v. infra) e comunque nella facoltà di chiedere la rimessione in termini contemplata dal comma 7 con riferimento all’esercizio del suddetto potere presidenziale. Ove l’udienza non sia già stata rinviata d’ufficio, l’istanza di rimessione potrebbe infatti determinarne anche il rinvio al fine di consentire il rispetto del contraddittorio.
3. Rinvio ex lege o con disposizione presidenziale della trattazione dei ricorsi e delle domande cautelari
Dal momento che la sospensione dei termini processuali viene introdotta con riferimento ad un periodo in cui risultano già fissate udienze pubbliche e camerali (tanto cautelari, quanto dei riti speciali), il primo comma dell’art 3, al secondo cpv, ne dispone il rinvio “d’ufficio a data successiva al 22 marzo 2020”. Come chiarisce il Comunicato del 9 marzo dell’ “Ufficio stampa e comunicazione istituzionale della giustizia amministrativa”, si tratta di una “misura drastica ma necessaria al fine di consentire su tutto il territorio nazionale comportamenti coerenti con gli obbiettivi di contenimento del virus in questa prima fase in cui ci si attende il picco epidemiologico” e volta ad ottenere che “nessuna udienza sarà celebrata”. Il rinvio viene disposto ex lege per le udienze già calendarizzate fino al 22 marzo, ivi comprese le camere di consiglio previste per la discussione delle domande cautelari, che, a richiesta della parte, potranno essere eventualmente esaminate soltanto ai sensi dell’art. 56d.lgs 104/2010.
L’art 3 prevede poi che i presidenti titolari delle sezioni del Consiglio di Stato, il presidente del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana e i presidenti dei tribunali amministrativi regionali e delle relative sezioni staccate possano adottare “linee guida vincolanti per la fissazione e la trattazione delle udienze coerenti con le eventuali disposizioni dettate dal Presidente del Consiglio di Stato” e possano altresì disporre il rinvio delle udienze “a data successiva al 31 maggio 2020, assicurando in ogni caso la trattazione delle cause rinviate entro la data del 31 dicembre 2020 in aggiunta all’ordinario carico programmato delle udienze fissate e da fissare entro tale data”. I rinvii a mezzo dei suddetti decreti presidenziali a data successiva al 31 maggio vanno comunque disposti dopo avere sentito sia l’autorità sanitaria regionale che il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati della città ove ha sede l’Ufficio e, differentemente dal rinvio disposto ex lege per le udienze calendarizzate fino al 22 marzo, in tal caso non riguarda le udienze camerali per le domande cautelari e i ricorsi elettorali, che potranno svolgersi secondo le modalità indicate dal successivo comma 4. Analoga possibilità è prevista per le cause rispetto alle quali la ritardata trattazione potrebbe produrre grave pregiudizio alle parti, ma in tal caso è necessario che l’urgenza sia previamente dichiarata dai presidenti di cui al comma 2 con decreto non impugnabile.
4. Possibilità di trattazione, a richiesta e comunque senza discussione in camera di consiglio, delle istanze cautelari durante il periodo di sospensione dei termini processuali.
La sospensione dei termini processuali, in linea con il principio generale, non opera con riferimento alle domande cautelari. E’ tuttavia previsto il mutamento del rito, nel senso che durante il periodo di sospensione, e cioè fino al 22 marzo, le domande cautelari possono essere trattate solo seguendo il rito monocratico di cui all’art 56d lgs 104/2010, e sempre che vi sia un’espressa richiesta di parte in tal senso. La trattazione collegiale sarà in tal caso fissata “in data immediatamente successiva al 22 marzo 2020”. La misura assicura così il rispetto tanto del principio che non ammette soluzioni di continuità nella possibilità di fruizione della tutela cautelare, quanto dell’esigenza di evitare di tenere qualunque tipo di udienza dall’entrata in vigore del decreto legge fino al 22 marzo 2020.
5. Trattenimento in decisione di ricorsi e domande cautelari senza discussione in udienza pubblica o camerale, salvo che non venga espressamente chiesta anche da una sola delle parti e con possibilità di collegamento da remoto
Misure a carattere derogatorio vengono previste non solo con riferimento al periodo della sospensione dei termini processuali, che termina il 22 marzo, ma anche con riferimento ad un secondo periodo, che si suppone di transizione verso il ripristino della normalità, di durata fino al 31 maggio 2020.
Fino al 31 maggio 2020 si prevede in sostanza un procedimento semplificato per la decisione delle controversie, sia nel merito che per la cautela, che di regola esclude anche in tale periodo la discussione in udienza pubblica o camerale: “tutte le controversie fissate per la trattazione, sia in udienza camerale sia in udienza pubblica, passano in decisione sulla base degli atti” (art 3, comma 4). Differentemente dal primo periodo temporale destinato a concludersi il 22 marzo, nel quale opera la sospensione e nel quale la tutela cautelare può essere concessa solo e unicamente secondo il rito monocratico di cui all’art 56 d. lgs 104/2010, in questo secondo periodo che va fino al 31 maggio 2020 è comunque possibile che, a richiesta di almeno una delle parti, la causa venga trattata in udienza camerale o in udienza pubblica. A tal fine è necessaria la presentazione di apposita istanza che va notificata alle altre parti costituite e va depositata almeno due giorni liberi prima della data fissata per la trattazione. Sempre il già citato comma quarto si preoccupa di precisare che “i difensori sono comunque considerati presenti a tutti gli effetti”, anche se non sia stata richiesta la discussione.
In ogni caso, in deroga all’articolo 87, comma 1, d. lgs 104/2010 “fino al 31 maggio 2020 le udienze pubbliche sono celebrate a porte chiuse” (art 3, comma 6).
Nel caso in cui sia stata chiesta la discussione, il comma 5 dell’art 3 consente ai presidenti (titolari delle sezioni del Consiglio di Stato, il presidente del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana e i presidenti dei tribunali amministrativi regionali e delle relative sezioni staccate) di organizzare lo svolgimento delle udienze pubbliche e camerali che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti mediante collegamenti da remoto con modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e l’effettiva partecipazione dei difensori alla trattazione dell’udienza. In tal caso, sempre secondo il citato comma 5, “il luogo da cui si collegano magistrati, personale addetto e difensori delle parti è considerato aula di udienza a tutti gli effetti di legge”. La decisione deve essere ovviamente giustificata dalla situazione concreta di emergenza sanitaria e il verbale deve dare atto delle modalità con cui si accerta l’identità dei soggetti partecipanti e la libera volontà delle parti.
6. Peculiari modalità di deposito di atti e documenti
Il decreto legge prevede infine che, durante il periodo della sospensione dei termini processuali, ovvero entro il 22 marzo 2020, i presidenti titolari delle sezioni del Consiglio di Stato, il presidente del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana e i presidenti dei tribunali amministrativi regionali e delle relative sezioni staccate, per quanto di rispettiva competenza, possano adottare le misure organizzative necessarie per consentire il rispetto delle indicazioni igienico-sanitarie fornite dal Ministero della salute, anche d’intesa con le Regioni, e le prescrizioni di cui all’allegato 1 al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 8 marzo 2020, al fine di evitare assembramenti all’interno degli uffici giudiziari e contatti ravvicinati tra le persone. Oltre alle già ricordate linee guida per la fissazione e la trattazione delle udienze e al rinvio delle udienze a data successiva al 31 maggio 2020, le misure organizzative possono prevedere la limitazione dell’accesso agli uffici giudiziari ai soli soggetti che debbono svolgervi attività urgenti; la limitazione dell’orario di apertura al pubblico degli uffici o, in ultima istanza e solo per i servizi che non erogano servizi urgenti, la sospensione dell’attività di apertura al pubblico; la predisposizione di servizi di prenotazione per l’accesso ai servizi, anche tramite mezzi di comunicazione telefonica o telematica, curando che la convocazione degli utenti sia scaglionata per orari fissi, e adottando ogni misura ritenuta necessaria per evitare forme di assembramento; la sospensione dell’obbligo del deposito di almeno una copia del ricorso in forma cartacea sia sospeso.
Tali misure devono armonizzarsi con le disposizioni di coordinamento dettate dal Presidente del Consiglio di Stato o dal Segretariato generale della Giustizia Amministrativa e devono essere comunque adottate dopo aver sentito l’autorità sanitaria regionale e il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati della città ove ha sede l’Ufficio.
di Roberta Palmisano
Sommario: 1.Premessa. - 2.Principi sovranazionali e normativa degli altri Paesi europei. - 3.La normativa italiana. - 4.Considerazioni.
1. Premessa.
La possibilità di mantenere il contatto con il mondo esterno è fondamentale per i detenuti perché questi contatti sono di vitale importanza per contrastare gli effetti dannosi del carcere. Il mantenimento di buone relazioni familiari contribuisce a ridurre il tasso di recidiva e il sostegno delle famiglie e dell’ambiente di provenienza aiuta il reinserimento nella comunità. Il mantenimento di contatti regolari con il genitore in carcere è fondamentale per lo sviluppo dei bambini, per le loro opportunità di vita e per arginare la possibilità che essi crescendo, vengano a loro volta in contatto con l’area penale.
Nel periodo che stiamo vivendo, in cui la gestione di pericoli di cui non conosciamo l’evoluzione ci preoccupa, ovviamente più forte e incontenibile si fa l’esigenza del detenuto di ricevere informazioni e aggiornamenti quotidiani dal proprio nucleo familiare e anche di condividere con esso paure e preoccupazioni.
2. Principi sovranazionali e normativa degli altri Paesi europei.
La Raccomandazione R (2006)2 del Comitato dei Ministri agli Stati membri sulle Regole penitenziarie europee, adottate dal Consiglio dei Ministri l’11 gennaio 2006, al punto 24 prescrive: “I detenuti devono essere autorizzati a comunicare il più frequentemente possibile – per lettera, telefono, o altri mezzi di comunicazione - con la famiglia, con terze persone e con i rappresentanti di organismi esterni, e a ricevere visite da dette persone” e al punto 4: “Le modalità delle visite devono permettere ai detenuti di mantenere e sviluppare relazioni familiari il più possibile normali”.
Il 21 dicembre 2010, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato le Regole delle Nazioni Unite per il trattamento delle donne detenute e le misure non detentive per le donne autrici di reati, note come le “Regole di Bangkok” (a riconoscimento del ruolo determinante svolto dal Regno di Tailandia nella loro elaborazione), riconoscono il ruolo centrale di entrambi i genitori nella vita del bambino. Esse contengono previsioni specifiche che riguardano i contatti con la famiglia. In vari Paesi europei quali ad esempio Francia, Svezia, Croazia, l’Austria, la Danimarca, l’Olanda, la Norvegia, il Belgio, la Svizzera e il Portogallo, la possibilità di incontrare i familiari in spazi adeguati e senza il controllo visivo e auditivo è una realtà consolidata da anni.
In Spagna si è autorizzati a fare 5 telefonate alla settimana, senza limiti di tempo ad un massimo di 10 numeri telefonici preventivamente autorizzati. Si telefona da 2 cabine telefoniche e presso ogni sezione ci sono due cabine; l’uso di una scheda telefonica e la digitazione del numero di identificazione (NIS) dà il via libera verso i numeri di telefono autorizzati. Il Regolamento penitenziario albanese prevede otto telefonate e quattro colloqui al mese: uno dei colloqui è prolungato fino a cinque ore, per i detenuti sposati e con figli, e le visite prolungate possono essere svolte in ambienti riservati.
Inghilterra, Galles e Scozia è stabilito un piano di assistenza finanziaria per consentire alle famiglie a basso reddito di visitare i loro parenti in carcere. Sono rimborsate le spese di viaggio, pasti e pernottamento per i coniugi, partner, ascendenti, discendenti, parenti collaterali e adottivi, le persone con le quali il detenuto viveva in un rapporto consolidato immediatamente prima della detenzione e comunque le persone che hanno in via esclusiva effettuato visite al detenuto per un periodo di quattro settimane. Sono finanziate due visite ogni 28 giorni con un massimo di 26 visite in un anno.
In Scozia, per ovviare alle difficoltà di relazioni familiari dei detenuti reclusi lontano dal loro luogo di origine è stato istituito un servizio di video-chiamata che consente visite-virtuali della durata di un’ora in aggiunta al numero di colloqui di cui il detenuto ha già usufruito.
3. La normativa italiana.
Gli artt. 29 e 31 della Costituzione tutelano i rapporti parentali e le relazioni affettive e salvaguardano i rapporti familiari e i doveri del genitore.
In coerenza con i principi costituzionali il mantenimento delle relazioni familiari è elemento fondamentale del trattamento rieducativo. L’art. 15 della legge 354/75 prevede che il trattamento del condannato e dell’internato è svolto agevolando opportuni rapporti con la famiglia. Ai rapporti con la famiglia è dedicato l’art. 28 dell’ordinamento penitenziario secondo cui “particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie”. L’art. 14 quater comma 4 prescrive che le restrizioni del regime di sorveglianza particolare non possano riguardare i colloqui con il coniuge, il convivente, i figli, i genitori, i fratelli.
L’art. 18 della legge 26 luglio 1975 n. 354 disciplina i colloqui con i congiunti ed esprime un “principio generale amplissimo”. La norma prevede che i colloqui si svolgano in appositi locali sotto il controllo a vista e non auditivo del personale di custodia e rimanda al dpr 230/2000 (Regolamento d’esecuzione) per la disciplina delle modalità e delle cautele.
Gli articoli 37 e 39 del Regolamento prevedono limitazioni numeriche rispettivamente per i colloqui visivi (sei colloqui al mese della durata massima di un’ora, quattro al mese per i detenuti in regime di 4-bis) e per i colloqui telefonici (conversazioni telefoniche della durata di dieci minuti una volta a settimana - e due al mese per i detenuti in regime di 4-bis con ascolto e registrazione). Sono disciplinati casi particolari e situazioni eccezionali per cui questi limiti possono essere superati. L’art. 37 comma 11 prevede che qualora risulti che i familiari non mantengono rapporti con il detenuto o l’internato, la direzione ne fa segnalazione al centro di servizio sociale per gli opportuni interventi.
L’art. 61 del Regolamento “Rapporti con la famiglia e progressione del trattamento” alla lett b) espressamente prevede la possibilità di trascorrere parte della giornata insieme ai familiari in appositi locali o all’aperto e di consumare un pasto in compagnia.
Nella maggior parte dei casi tutelare l’affettività significa tutelare i rapporti genitori detenuti-figli. La legge n°54 del 08/02/2006 “Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli” ha introdotto ufficialmente il principio della bigenitorialità inteso come diritto del minore a mantenere rapporti con entrambi i genitori e il decreto legislativo del 28 dicembre 2013, n. 154 “Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell'articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219”, all’art. 55 ribadisce che il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale. Nel caso di detenzione di uno dei due genitori quindi i figli mantengono il diritto alle relazioni con entrambi i genitori e non devono essere discriminati.
Per tutelare i bambini e gli adolescenti che vivono la condizione di avere padre, madre o entrambi i genitori in carcere, il 21 marzo 2014 è stato sottoscritta dal Ministro della Giustizia, dall’Autorità
Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza e dall’Associazione Bambinisenzasbarre la Carta dei figli dei genitori detenuti, documento unico in Europa, che afferma i diritti fondamentali del minore il cui genitore sia recluso (oltre 100.000 in Italia).
La Carta impegna il sistema penitenziario all'accoglienza dei minori e istituisce un Tavolo permanente per il monitoraggio sull'attuazione dei suoi principi. Tra i punti fondamentali è sancito che di fronte all'arresto di uno o di entrambi i genitori, il mantenimento della relazione familiare costituisce un diritto del bambino, al quale va garantita la continuità di un legame affettivo fondante la sua stessa identità e un dovere/diritto del genitore di mantenere la responsabilità e continuità del proprio stato. La preservazione dei vincoli familiari svolge un ruolo importante per il genitore detenuto anche nella sua reintegrazione sociale e nella prevenzione della recidiva. L’impegno per l’Amministrazione penitenziaria è quello di creare un ambiente che accolga adeguatamente i bambini trovando il giusto equilibrio tra le esigenze di sicurezza e i necessari contatti familiari e grande rilevanza è data alla formazione del personale che sappia accogliere i bambini e i loro familiari.
Quanto alle norme amministrative va menzionata la circolare con cui è stata introdotta per i detenuti di media sicurezza la possibilità di chiamare telefoni mobili (nota Dap n. 0177644 del 2010). L’applicazione della circolare, limitata ai casi in cui il detenuto non abbia da almeno 15 giorni alcun tipo di colloquio con i congiunti e dichiari di non poterli contattare se non tramite cellulare, è comunque farraginosa e molto spesso è complesso l’accertamento relativo all’intestazione di utenze mobili straniere. Soltanto in alcuni istituti-pilota ha trovato poi applicazione la possibilità di utilizzare schede telefoniche per effettuare le chiamate “senza ricorrere ad apposite richieste e lunghe attese” (nota Dap n. 0258759 del 2015) e quella di utilizzare collegamenti audiovisivi, via Skype o mediante “la piattaforma Microsoft Lync” per “permettere ai detenuti di mantenere e sviluppare relazioni familiari il più possibile normali” (nota Dap n. 366755 del 2015).
4. Considerazioni.
Allontanarsi dai propri affetti determina profondi cambiamenti nella persona, nell’identità, quasi sempre negativi. Valorizzare i legami personali ha grande importanza nel percorso di recupero: gli affetti e le responsabilità che ogni rapporto affettivo comporta contribuiscono in modo fondamentale a impiegare il tempo della pena per costruire un individuo responsabilmente pronto a reinserirsi nella società al suo termine.
L’estensione e la portata dei diritti dei detenuti può subire restrizioni unicamente in vista delle esigenze di sicurezza e in assenza di tali esigenze le limitazioni acquisiscono un valore afflittivo suppletivo rispetto alla privazione della libertà personale, non compatibile con l’art. 27 terzo comma della Costituzione.
Il principio da applicare non può che essere quello per cui il sacrificio imposto al singolo non deve eccedere quello minimo necessario per le esigenze di sicurezza sociale e penitenziaria.
Il numero limitato di telefonate attualmente consentito ha alimentato il “mercato illecito” di telefoni cellulari all’interno degli istituti. Molte delle fattispecie disciplinari e degli episodi di corruttela che hanno luogo in carcere hanno ad oggetto l’introduzione illecita di apparecchi cellulari e il più delle volte i telefoni sono acquisiti illegalmente dai detenuti al solo scopo di poter contattare i propri cari.
I detenuti che provengono dalla libertà, come ognuno di noi, sono abituati a vivere con il telefono cellulare in mano e a sentire i propri familiari più volte al giorno. Non vi è alcun dubbio che negli ultimi anni le comunicazioni ed in particolare le comunicazioni telefoniche sono aumentate esponenzialmente e questo ha cambiato radicalmente le abitudini di vita.
A fronte di questi sostanziali cambiamenti di vita, le abitudini di vita intramuraria non possono rimanere così distanti.
Ho sempre ritenuto che non vi siano ragioni per impedire in carcere, perlomeno ai detenuti definitivi per i quali ragioni di sicurezza non lo vietano, l’uso del proprio telefono cellulare opportunamente “bloccato” e abilitato a comporre esclusivamente i numeri autorizzati per un numero di chiamate limitate (che però il detenuto ha il diritto di effettuare nei tempi ritenuti pi opportuni) per evitare che le disponibilità eccessive di alcuni possano far scattare meccanismi di prevaricazione.
Il commento alla Raccomandazione R (2006)2 del Comitato dei Ministri agli Stati membri sulle Regole penitenziarie europee evidenzia che: "Le autorità carcerarie dovrebbero essere attente al fatto che la tecnologia moderna offre nuovi modi di comunicare per via elettronica. E poiché questi modi sono in continuo sviluppo, emergono anche nuove tecniche per controllarli così che è possibile utilizzarli in modo che essi non pregiudichino le esigenze di sicurezza”.
Se in tempi ordinari soprattutto per i detenuti stranieri, la cui famiglia vive nel Paese di origine, la limitazione dei colloqui telefonici è difficilmente sopportabile, in questo periodo, in cui il contesto di emergenza sanitaria in cui viviamo genera in noi un’ansia generalizzata e in cui siamo sovraesposti alle informazioni, è inumano pensare che un detenuto debba contenere le proprie preoccupazioni e i momenti di sconforto (magari anche notturni) senza condividerli con i propri familiari.
Più volte il legislatore ha affrontato il problema della riforma dell’ordinamento penitenziario relativamente alla possibilità per il soggetto detenuto di coltivare, anche a distanza, i propri affetti ma le immagini e le notizie delle proteste e delle ingiustificate violenze che in queste ore hanno messo a ferro e fuoco alcuni istituti penitenziari italiani, ci fanno capire che questo è il tempo limite per introdurre al più presto tutte le misure necessarie, anche meramente organizzative.
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