ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
I Tribunali portoghesi al tempo del coronavirus
di Amélia Catarino Correia de Almeida, Presidente del Tribunale distrettuale di Lisbona dal 2014
1. Nei tribunali portoghesi i primi segni di cambiamento sono iniziati a marzo.
I presidenti dei tribunali distrettuali hanno cominciato a predisporre piani di emergenza per fronteggiare la situazione legata a COVID-19. Prima di tutto sono state divulgate le informazioni utili e predisposte stanze di isolamento, distribuiti disinfettanti, guanti e mascherine protettive. Dopo una settimana abbiamo iniziato a predisporre le misure per il contenimento del virus.
L'11 marzo, tutto è cambiato.
Il governo ha rilasciato una dichiarazione contenente le linee guida per prevenire la diffusione del Covid-19 nei tribunali, limitando l'accesso alle sole persone espressamente convocate per partecipare alle udienze o alle attività istruttorie.
Si è iniziato a privilegiare l’accesso telefonico ai servizi, e solo gli utenti che non sono in grado di avere risposte alle loro domande telefonicamente o tramite il computer possono accedere agli edifici del tribunale.
Sono stati identificati i diversi settori del tribunale e il numero minimo di impiegati assegnati a questi settori, per garantire l'adempimento dei servizi urgenti.
Nella prima fase, tutti i giudici e i dipendenti dei tribunali appartenenti a gruppi a rischio o con vulnerabilità sono stati rimandati a casa. Gli addetti hanno iniziato a svolgere il loro lavoro da remoto, da casa, con i loro personal computer con accesso ai servizi dei tribunali o con i computer portatili loro assegnati e con software specifici.
Ora, con le scuole chiuse, tutti i bambini di età inferiore ai 12 anni sono in casa. Il numero degli amministrativi in tribunale è stato ridotto a quasi 1/3, considerato sufficiente per gestire i fascicoli urgenti.
I giudici hanno una connessione VPN e l'accesso alla piattaforma CITIUS, dove tutti i file sono digitalizzati e accessibili, on line, e inviano i file da casa, come se fossero nei loro uffici.
Considerando l'evoluzione della situazione e la preoccupazione per la diffusione del contagio manifestato sia dai magistrati che dagli altri soggetti processuali, il Consiglio superiore della magistratura ha deciso di adottare misure di gestione eccezionali per gli uffici di primo grado.
Deve darsi corso solo agli atti procedurali e alle attività istruttorie relative ai diritti fondamentali o relative a minori a rischio, o a misure educative urgenti, a processi con imputati detenuti e a tutti gli altri processi o attività, di qualsiasi giurisdizione, che i giudici, secondo il loro prudente apprezzamento, individuano come necessari per prevenire danni irreparabili.
Sotto la responsabilità dei giudici, e secondo il loro prudente apprezzamento, possono svolgersi a distanza anche altre tipologie di attività.
Tali attività sono garantite dai giudici titolari del procedimento.
Se il giudice è impedito per motivi di salute o altri motivi legalmente previsti, verrà sostituito in base alle norme predeterminate per le sostituzioni in vigore in ciascun tribunale distrettuale.
2. Il 18 marzo 2020, con il decreto del Presidente della Repubblica nº. 1-A / 2020. in Portogallo è stato dichiarato lo stato di emergenza. Attraverso la risoluzione nº XXII/2020 del Consiglio dei Ministri sono state stabilite le misure eccezionali in vigore durante lo stato di emergenza.
Da allora, siamo in regime feriale. Questo regime avrà termine in una data che verrà indicata in un successivo decreto legge che dichiarerà la fine dell’emergenza.
Questa situazione eccezionale è anche una causa di sospensione dei periodi di prescrizione per tutti i tipi di processi e procedure.
Dalla dichiarazione di emergenza anche il Consiglio superiore della magistratura ha adottato misure di gestione eccezionali.
In primo grado si dà corso solo agli atti procedurali e alle attività istruttorie riguardanti i diritti fondamentali. Devono essere svolti tutti gli atti urgenti che riguardano il mancato rispetto dello stato di emergenza, oltre a tutti gli atti urgenti da svolgersi il sabato, nei giorni festivi che cadono di lunedì e, in caso di più giorni festivi consecutivi, il secondo giorno festivo.
Devono inoltre essere assicurate tutte le attività giudiziarie necessarie a garantire il rispetto del periodo massimo di 48 ore di predetenzione, le attività relative ai minori a rischio o alla supervisione educativa urgente. Devono svolgersi anche le attività istruttorie ed i processi relativi a procedimenti con indagati e imputati detenuti o sottoposti a misure detentive. In questi casi tali attività devono essere svolte nel rispetto delle raccomandazioni delle autorità sanitarie, a seguito di un giudizio di proporzionalità che tiene conto del tempo di privazione della libertà, della durata della misura di esecuzione applicata e delle esigenze di sicurezza sanitaria.
Tutti gli altri atti, istruttori o processuali, di qualsiasi giurisdizione, possono essere compiuti quando il giudice, secondo il suo prudente apprezzamento, lo ritenga necessario, o quando siano necessari per tutelare diritti fondamentali o per prevenire danni irreparabili. Tutte le attività giudiziarie devono svolgersi preferibilmente mediante videoconferenza, videochiamata o altri mezzi di comunicazione a distanza. Se è necessario l’ascolto in presenza, perché essenziale per la scoperta della “verità materiale” o per tentare la conciliazione della controversia, è possibile procedervi a condizione che sia garantito il rispetto delle regole di sicurezza sanitaria. l fine di garantire la distanza di sicurezza è previsto che tali attività si svolgano nelle aule giudiziarie più grandi.
Se ciò non è possibile è stato previsto che le parti vengano divise in due o più gruppi, collocati in tribunali diversi collegati tra loro da una videoconferenza, consentendo un'immediatezza mitigata ma sicura.
Sebbene sia stato applicato il regime feriale, si è compreso che sarebbe più sicuro per tutti che ciascun giudice assicuri la trattazione dei propri casi urgenti nel proprio tribunale, invece di organizzare turni di lavoro in un unico tribunale con un maggiore afflusso di parti.
Pertanto, il piano di turni di lavoro a cui si fa riferimento nel piano di emergenza sarà attivato solo quando non è possibile ricorrere alle regole ordinarie delle sostituzioni legali dei giudici, con l’eccezione dei casi delle festività giudiziarie pasquali, del sabato o delle festività, in cui il regime del turno di lavoro è quello precedentemente stabilito.
Tutte le altre attività sotto la responsabilità dei giudici possono essere svolte a distanza, in particolare attraverso il sistema VPN.
Al fine di controllare la diffusione del virus e garantire la riduzione dei contagi, consentendo di rimanere a casa, per la celebrazione dei processi e lo svolgimento di attività istruttoria in Tribunale sono stati previsti presìdii con turni di 7 giorni per svolgere l’attività giudiziaria e seguire gli adempimenti; il turno va dal più giovane al più anziano, dopodiché subentra un altro gruppo con lo stesso numero di componenti.
Al Tribunale di Sorveglianza di Lisbona tutte le consulenze tecniche e le audizioni dei detenuti che, in condizioni normali, implicherebbero lo spostamento del Giudice, del Pubblico Ministero e dell'Ufficiale giudiziario nell'Istituto penitenziario sono ora garantite dalla videoconferenza.
Nelle Corti d'Appello è ora sospesa la assegnazione dei casi non urgenti.
I giudici della Corte d'Appello non hanno più sessioni faccia a faccia. Le sentenze sono firmate digitalmente e inviate alla Corte per la notifica alle parti. Non ci sono più attività in compresenza se non per i procedimenti con imputati detenuti o per casi di violenza domestica e relativi a minori e giovani a rischio.
Alla Corte Suprema di Giustizia i criteri sono gli stessi della Corte d'Appello.
È il momento del Coronavirus.
Sappiamo quando è iniziato, ma non sappiamo quando o come finirà.
L’attacco frontale ai diritti dei migranti e al diritto del mare non è casuale
di Yasha Maccanico
Innanzitutto vorrei ringraziare la Commissione per i diritti umani del Consiglio dell’ordine degli avvocati di Milano per l’invito a questo importante convegno.
Ringrazio anche chi è intervenuto prima di me, sia per i chiarimenti che riguardano il diritto del mare che per la loro attività, in mare e nei tribunali, che si contrappone a una volontà degli stati di imporre una visione regressiva in materia di gestione dell’immigrazione volta a minare dei principi fondamentali del diritto, dei diritti umani e dei valori costituzionali. Mi concentrerò sulle politiche europee e sui loro effetti problematici a livello strutturale negli stati membri.
La maggior parte delle questioni legali che pensavo di sollevare sono state trattate in modo esaustivo dagli interventi di chi mi ha preceduto. Quindi, mi soffermo su un tema nel quale è specializzata l’organizzazione per la quale lavoro da oltre vent’anni, Statewatch, la cui sede è a Londra, che si occupa di studiare i documenti ufficiali europei nel campo della giustizia e affari interni, collegandoli con l’implementazione di queste politiche a livello nazionale negli stati membri.
Penso che ci siano tre punti fondamentali da sottolineare per quanto riguarda l’impostazione europea delle politiche d’immigrazione, a partire dalla sospensione dell’operazione Mare Nostrum nel 2014 e dal successivo lancio dell’Agenda Europea sull’Immigrazione, improntata a imporre una visione e delle pratiche regressive per favorire l’efficacia di tali politiche.
Il primo punto è il tentativo, in seguito alla constatazione che i diritti umani e il funzionamento ordinario dello stato di diritto ostacolavano l’efficacia delle politiche di (contro) immigrazione, di escludere i cosiddetti migranti irregolari o economici dal beneficiare delle garanzie offerte da questi due strumenti. Questa intenzione si è manifestata attraverso la creazione artificiale di una situazione emergenziale in due stati di primo approdo, l’Italia e la Grecia, spingendole a violare anche le proprie leggi e norme costituzionali, in particolare per ciò che riguarda le norme su asilo, discriminazione, uso della forza e condizioni di accoglienza. Anche la CEDU ha dovuto prendere atto delle difficoltà di questi paesi nel concedere che la Grecia era parzialmente giustificata per le pessime condizioni in cui erano tenuti dei minorenni dovuto alla situazione che si trovava ad affrontare, senza considerare che tale situazione era causata dalle politiche che tendevano intenzionalmente a concentrare il problema lì. Se si considera che la popolazione europea è di 500 milioni di persone, senza bloccare coloro che arrivavano nelle regioni di sbarco, non si sarebbe potuto parlare di emergenza o crisi. Questo approccio comporta la subordinazione dei diritti umani alle impostazioni politiche, ed era necessario continuare a sostenere una situazione emergenziale per permettere la violazione delle regole.
Il secondo punto, è che le attuali politiche d’immigrazione hanno molto meno a che vedere con la gestione dell’immigrazione che con lo sviluppo espansivo delle strutture di sicurezza comunitarie, all’interno, ma anche al di là delle frontiere dell’Unione Europea. In una intervista al Messaggero di pochi giorni fa sul tema dei migranti, Avramopoulos si è dichiarato “orgoglioso per l’enorme sistema operativo che abbiamo istituito: dal potenziamento della Guardia di frontiera e costiera europea al massiccio sostegno infrastrutturale”.[1] L’obiettivo era e continua a essere quello di espandere le attività e aumentare le spese e le risorse dedicate a questo settore. In questo momento, comporta lo spiegamento di mezzi aerei e dei droni per coordinare la GC libica dal cielo in modo che l’assenza di assetti navali protegga l’UE e i suoi stati da eventuali accuse di omissione di soccorso negli eventi SAR.
Il terzo punto, è che gli attacchi continui e anche aggressivi contro delle norme basilari del diritto del mare, dei diritti umani e dell’ordinaria decenza non sono casuali, così come le azioni eccessive di alcuni governi non rappresentano delle aberrazioni, ma rientrano nel progetto impostato e portato avanti da almeno 25 anni a livello europeo. Pur volendo evitare di fare nomi e di attribuire responsabilità specifiche in questa sede, si può fare una eccezioni nei casi del Commissario Dimitris Avramopoulos e del Direttore Esecutivo di Frontex, Fabrice Leggeri, dato il loro ruolo di rappresentanti della Commissione Europea e dell’Agenzia per il controllo delle frontiere esterne dell’UE.
Oltre ai quadri normativi di riferimento, questi attacchi si stanno rivolgendo anche a chi, dalla società civile, si oppone alle politiche di morte e tortura dei migranti per fini strategici collegati alle politiche comunitarie, che danno copertura anche a molti eccessi degli stati membri attraverso una duplice giustificazione: 1) annullare i cosiddetti “pull factor”; e 2) combattere il modello commerciale dei trafficanti.
La chiave di lettura che propongo si concentra sulla distanza tra le dichiarazioni formali di rispetto per i diritti umani, per i diritti dei rifugiati, per il principio del non respingimento, e per il principio di solidarietà tra gli stati membri dell’Unione Europea, e la sostanza degli interventi che vengono attuati. Tali interventi promuovono degli eccessi attraverso degli sforzi sempre più distruttivi per imporre la volontà dell’UE e dei suoi stati, nonostante la certificazione da varie fonti incluse le Nazioni Unite della loro illegalità [all’inizio delle procedure negli hotspot, vennero descritte come un sistema di scrematura grossolana in base alla nazionalità, ovvero l’essenza stessa della discriminazione].
Gli hotspot e il sistema di gestione dei cosiddetti flussi di rifugiati e migranti (che in realtà sono persone) impostati a livello comunitario erano presuntamente degli sforzi europei per sostenere due stati membri (l’Italia e la Grecia) che avevano richiesto assistenza. In pratica, questi due paesi venivano assistiti nel perfezionamento di un sistema (quello impostato dal regolamento di Dublino) che li pone in una situazione di forte svantaggio strutturale. Il primo obiettivo reale era quello di salvare la banca dati Eurodac, visto che una forma di resistenza che questi due paesi avevano attuato comportava il salvataggio delle persone che rischiavano di affogare in mare e la mancata acquisizione sistematica delle impronte digitali di chi giungeva in territorio europeo. Infatti, la mancata registrazione di chi arrivava rendeva più agevoli gli spostamenti verso altri paesi comunitari, facendo scemare la situazione emergenziale nei paesi di primo approdo. La reazione da parte di altri paesi membri all’interno del Consiglio, della Commissione e di Frontex fu molto critica. In più, vennero annacquati dei principi fondamentali legati allo spazio Schengen e alla libertà di movimento per permettere la reintroduzione delle frontiere che erano state abolite tra gli stati membri.
[primo documento: l’ottavo rapporto biannuale sul funzionamento dell’Area Schengen].[2] Nella sesta pagina del rapporto, viene dichiarato che (traduzione mia dall’inglese): “Anche se nel 2013 i legislatori sono stati d’accordo sul fatto che i flussi migratori, da sè, non potevano giustificare la reintroduzione dei controlli alle frontiere interne, l’avviso della Commissione è che il flusso incontrollato di grandi numeri di persone non documentate o inadeguatamente documentate non registrate nel momento del loro primo ingresso nell’UE (il riferimento all’acquisizione delle impronte e alla registrazione nella banca dati Eurodac è piuttosto evidente), può costituire una minaccia seria per le politiche pubbliche e la sicurezza interna e, quindi, può giustificare l’applicazione di questa misura straordinaria che è disponibile nel SBC (il regolamento dello Schengen Borders Code, Manuale per le Frontiere Schengen).
Attraverso il concetto di “interoperabilità”, questa banca dati che doveva essere un modo di attuare il sistema di Dublino (anche se l’acquisizione sistematica delle impronte digitali e della registrazione era imposta per tutti gli immigrati cosiddetti irregolari, visto che avrebbero potuto richiedere asilo in seguito) è al centro di un piano per unificare tutte le banche dati europee nel comparto di giustizia e affari interni.[3]
La volontà di subordinare i diritti delle persone che arrivavano all’acquisizione delle impronte digitali diventò esplicita con la pubblicazione di un “non-paper” dal titolo “no registration no rights” [secondo documento][4] da parte della Commissione su richiesta di Juncker. L’intento esplicito di subordinare i diritti umani alle procedure previste per gestire l’immigrazione venne presentato come un esempio di cooperazione pragmatica nella gestione dei flussi per quanto riguarda i controlli di frontiera, l’asilo e i rimpatri. Di fatto, escludeva i migranti che non erano stati registrati dalla famiglia umana attraverso l’introduzione di un prerequisito, in nome dell’efficacia della gestione dei migranti e rifugiati, e per neutralizzare gli effetti dei loro comportamenti “non cooperativi”. Insieme alle questioni legate all’identificazione (per la quale i rapporti di monitoraggio dell’implementazione dell’approccio hotspot invitavano l’Italia a legiferare per permettere l’uso della forza), gli altri due punti fondamentali dell’Agenda Europea sull’Immigrazione riguardavano l’efficacia delle espulsioni (tramite un attacco alla direttiva sui rimpatri, le cui garanzie e salvaguardie sono fortemente ridimensionate nell’attuale fase di riscrittura della stessa) e una grandissima attività per limitare i cosiddetti “spostamenti secondari” dei migranti dall’Italia e dalla Grecia verso altri stati membri. Il trattenimento a oltranza nei campi o hotspot sulle isole greche, i trasferimenti dei cosiddetti irregolari dal nord Italia verso il sud e il rilassamento delle regole per la reintroduzione delle frontiere interne facevano parte di un piano per trasformare questi due paesi in recinti per le persone frettolosamente classificate come migranti economici in base alle procedure per le relocation. Per quanto riguarda l’acquisizione delle impronte digitali, un rapporto di monitoraggio sulla implementazione degli hotspot in Italia del dicembre del 2015 fu alquanto esplicito nel segnalare le priorità:
“Bisogna accelerare degli ulteriori sforzi, anche al livello legislativo, per fornire una base legale più solida per attuare le attività degli hotspot, in particolare per permettere l’uso della forza per l’acquisizione delle impronte digitali e per includere delle misure per una detenzione più lunga per quei migranti che resistono all’acquisizione delle impronte. L’obiettivo di un tasso di acquisizione delle impronte del 100% per i migranti che arrivano deve essere raggiunto senza ritardi.” [terzo documento][5]
Le relocations verso altri stati membri dovevano dare prova della solidarietà in ambito europeo, ma non si sono realizzate (ne erano previste 160.000, ma ce ne sono state solo 33.582, 21.729 dalla Grecia e 11.582 dall’Italia, dei numeri insignificanti, al 5 febbraio 2018) [quarto documento][6], non solo a causa dell’opposizione da parte di alcuni paesi come l’Ungheria e la Polonia a ricevere anche numeri minimi di rifugiati, ma soprattutto per dei criteri stabiliti arbitrariamente per escludere la quasi totalità di chi arrivava. In Italia, si usò il criterio secondo il quale solo le persone provenienti da paesi per i quali il 75% delle richieste di asilo avevano avuto un esito positivo durante un periodo precedente potevano essere candidate per i trasferimenti. Questo escludeva quasi tutte le persone che arrivavano in Italia, tranne gli eritrei. In Grecia, questo metodo non poteva funzionare dato l’arrivo di molte persone dalla Siria e dall’Iraq, quindi venne fissata una data arbitraria (il 21 marzo 2016) dopo la quale tutti coloro che arrivavano andavano rispediti in Turchia in base all’accordo tra l’UE e la Turchia. Un aspetto importante dell’opera di mistificazione attuata dalla Commissione e rafforzata da Frontex in questo contesto riguarda l’interpretazione dell’esclusione dalle relocation come conferma del fatto che la quasi totalità di coloro che arrivavano erano migranti economici. Quindi, il fallimento dei bassissimi numeri di trasferimenti previsti fu presentato come un effetto del fatto che il numero necessario era stato sovrastimato, e i successivi documenti ignoravano il fatto che decine di migliaia di persone riuscivano a ottenere l’asilo dopo che avevano già ricevuto degli ordini di espulsione negli hotspot in base a questi criteri.
La fase attuale, a livello europeo, prevede la riscrittura della direttiva sui rimpatri in base alla interpretazione della protezione dei diritti umani, dei minori, dei soggetti vulnerabili e dei malati come meri ostacoli strumentali per l’esecuzione dei rimpatri. In più, l’uso della detenzione come una eccezione da applicare per periodi brevi viene neutralizzata da una estensione delle condizioni che la permettono, e da un maggiore uso dei periodi più lunghi che erano previsti come casi eccezionali (fino a un anno e mezzo). Il terzo tassello è l’esternalizzazione delle politiche contro l’immigrazione irregolare verso i paesi terzi come la Libia, il Marocco o l’Egitto (con degli effetti devastanti che spingono tali paesi verso l’istituzionalizzazione del razzismo e l’esercizio di forme arbitrarie di potere). I finanziamenti forniti a dei governi e regimi che stanno attuando delle forti svolte autoritarie contro gli stranieri e per reprimere i propri cittadini dissidenti (Turchia ed Egitto) sono un corollario di questo approccio. Sul quarto pilastro di queste politiche, la creazione del CEAS, il sistema europeo comune di asilo che è arenato da alcuni anni dovuto alle resistenze di vari governi degli stati membri, è meglio stendere un velo pietoso. L’agenzia che doveva incaricarsi di armonizzare le procedure per permettere l’accesso al riconoscimento dell’asilo o di altre forme di protezione, EASO, è stata incaricata di agire in coordinamento con Frontex e con le autorità statali in questo campo per gestire delle procedure di esclusione su grande scala in base a dei criteri che sono in costante evoluzione.
Per quanto riguarda la distanza tra le dichiarazioni formali e la realtà delle azioni intraprese, sottolineerei come un tentativo di un ministro italiano a marzo del 2019 per giustificare le sue azioni richiamandosi a delle impostazioni della Commissione, suscitò una reazione sdegnata. La portavoce della Commissione, Natasha Bertaud, disse chiaramente che la Libia non è un porto sicuro e che nessuno scafo europeo poteva legalmente riportare delle persone in Libia, vista la situazione nei suoi campi di detenzione. Però esisteva una lettera di Paraskevi Michou (direttrice generale per l’immigrazione e gli affari interni presso la Commissione) che confermava a Leggeri la legalità degli sforzi per coordinare le attività della Guardia Costiera libica e la legalità della zona SAR dichiarata dalla Libia. In più, documentava il fatto che la GC libica non era in condizione di gestire la sua zona SAR, e che beneficiava dell’apporto datole dall’Italia. Queste sono prove della partecipazione di Frontex e dell’Italia a dei refoulement, anche perché la lettera sosteneva che la presenza dell’OIM e dell’ACNUR in Libia era una garanzia di rispetto dei diritti umani, mentre le due organizzazioni avevano ripetutamente dichiarato il contrario [quinto documento][7]. In concreto, la lettera forniva delle prove della complicità dell’operazione EUNAVFOR MED e dell’Italia nel compimento di attività che potevano essere considerati “refoulement” (p. 2):
“… voglio segnalare che l’Italia, anche se non può essere considerata un ‘MRCC vicino’, perché non ha un confine con la zona SRR della Libia, sta sostenendo notevolmente la Libia durante gli incidenti SAR, in particolare, agendo come ‘staffetta per le comunicazioni’.”
e
“Molti dei recenti avvistamenti dei migranti nella zona SRR libica sono stati forniti dai mezzi aerei di EUNAVFOR MED e sono stati notificati direttamente al RCC libico responsabile per la sua regione”.
Il fatto che sia l’Italia che la missione EUNAVFOR MED Operazione Sophia partecipano alla cattura e restituzione ai campi di maltrattamento e detenzione libici da parte della cosiddetta guardia costiera libica sono evidenti indizi di partecipazione ai refoulement proibiti dal diritto internazionale. Non era previsto che la lettera fosse resa pubblica, ma il ministro italiano doveva trovare qualche modo di implicare la Commissione per giustificare le sue azioni, come aveva già fatto in una serie di direttive emesse per contrastare lo sbarco dei naufraghi soccorsi dalle navi delle ONG.[8] Non aveva torto, visto che l’impostazione dell’Agenda Europea punta a smontare una serie di principi normativi, sia sulla terraferma europea che in mare, presuntamente per mettere in crisi il modello usato dai trafficanti e per fare diminuire il numero degli arrivi.
La divulgazione di tale lettera contraddiceva la smentita formale della Commissione riguardo all’illegalità delle attività europee e dei suoi stati membri che portassero a fare sbarcare le persone in Libia. Fornisce delle basi solide per documentare la collusione europea nei refoulement verso luoghi dove si praticano dei maltrattamenti sistematici. Se possible, però, era ancora più grave la constatazione che la Libia non era in condizione di effettuare le attività SAR per le quali si era attribuita la responsibilità attraverso la dichiarazione di una zona SAR di propria competenza.
La faccenda si fa ancora più complicata se si considera un documento sulla operazione EUNAVFOR MED pubblicato da un media libico, Address Libya, ad agosto di quest’anno, nel quale si parla dell’obiettivo di “obbligare la guardia costiera e marina libiche a diventare l’attore primario e a prendere possesso della sua area di responsabilità”, per potere compiere l’obiettivo di trovare una soluzione legalmente pulita per gli immigrati soccorsi nelle acque territoriali libiche, a partire dall’agosto del 2016. La coercizione e l’intenzione di rendere formale una situazione irregolare è palese, anche nei documenti ufficiali, in questo caso, riservati. Il ritiro dei mezzi UE in un ruolo di “seconda linea”, parte a giugno del 2017 [sesto documento, pp. 3-4].[9] Questa era la soluzione prevista al problema che l’Unione Europa avesse una qualche responsabilità per la sorte delle persone salvate in mare, visto che le prime due possibili soluzioni, ovvero una richiesta di intervento da parte del governo libico o una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU non erano praticabili. La missione di Frontex era riuscita a risolvere il problema legato all’obbligo di soccorso in mare, ritirando i suoi mezzi navali per non correre il rischio che la responsabilità per degli eventuali naufragi che potessero avvenire fosse addossata alla sua missione. Lo spiegamento dei mezzi aerei e l’ostruzione delle attività delle ONG permette di ipotizzare che tutti coloro che riescono a partire dalle coste libiche siano catturati e restituiti ai luoghi dove vengono maltrattati. I precedenti interventi in questo convegno forniscono abbondanti dati riguardo a questa questione.
Mi vorrei soffermare sul fatto che, sia per le condizioni di accoglienza e le procedure intraprese negli stati membri che per gli avvenimenti in ambito SAR nel Mediterraneo, la regia della Commissione e di Frontex è palese, ma non hanno responsabilità formali. Le istruzioni tendenti a subordinare i diritti e il dovere di tutela verso le persone che arrivavano in Italia e in Grecia erano raccomandazioni, rafforzate dall’esborso di fondi comunitari per l’accoglienza e per le procedure intraprese negli hotspot per salvare la banca dati Eurodac e per minimizzare la quantità di relocation. La richiesta d’aiuto dei due paesi di primo approdo rafforzava la posizione della Commissione nel richiedere delle violazioni del diritto interno e comunitario (in violazione del suo ruolo di guardiano dei trattati europei), mentre Frontex si è affacciata in Italia dalla sua task force regionale con sede a Catania per fomentare le insinuazioni e accuse contro le ONG, tacciate di rappresentare un fattore di attrazione (pull factor). Però, qualsiasi azione intrapresa era la responsabilità dello stato membro responsabile. In modo simile, da cronista, le mie comunicazioni con l’ufficio stampa della Commissione riguardanti la lettera usata per giustificare le azioni del governo italiano (in particolare il divieto di sbarco o di transito e le accuse di favoreggiamento dell’immigrazione illegale) hanno confermato due importanti circostanze. In primo luogo, la lettera della Direttrice Generale Michou era autentica, anche se contraddiceva le dichiarazioni formali della Commissione sul fatto che la Libia non era un luogo sicuro di sbarco e che, quindi, i mezzi europei non dovevano partecipare a eventuali refoulement. In secondo luogo, la Commissione era determinata nel dichiarare che non ha responsabilità in materia delle attività SAR nel Mediterraneo; semmai, le responsabilità sarebbero dello stato membro responsabile per una operazione.
Questa è una situazione molto comoda, anche perché se uno stato membro fosse accusato di una violazione in questo contesto, potrebbe giustificarsi in base alle indicazioni ricevute dalla Commissione o da Frontex. Nel caso in cui tale stato stesse attuando delle pratiche illegittime decise dai governi degli stati membri all’interno del Consiglio, sarebbe necessario accusare tutti gli stati membri responsabili per tali deliberazioni.
In tale contesto, mi sento di ringraziare Omer Schatz per l’azione intrapresa presso la Corte Penale Internazionale contro l’UE e alcuni suoi stati membri. Tale azione tende a provare a sancire che le decisioni di lasciare morire le persone in mare attraverso l’omissione di soccorso istituzionalizzata e i refoulement effettuati per procura dalla guardia costiera libica per restituire le persone migranti a delle condizioni disumane e degradanti rappresentano dei crimini contro l’umanità, al di là dei pretesti addotti per giustificarle, ovvero la lotta contro l’immigrazione irregolare e contro i trafficanti.
In conclusione, mi permetto di segnalare che i recenti sviluppi in questo campo portano a delle feroci polemiche su dei punti basilari del diritto che erano incontestabili fino a pochi anni fa e che sono stati reiterati negli interventi dei giuristi esperti di diritto del mare che mi hanno preceduto. Il tentativo di fare prevalere gli obiettivi strategici delle politiche d’immigrazione sui diritti delle persone in quanto esseri umani, è un sintomo dei problemi collegati a una spinta promossa a vari livelli (nazionale, sovranazionale e intergovernativo) per imporre l’autorità e i poteri esecutivi degli stati e dell’UE attraverso dei mezzi di legittimazione reciproci e di responsabilità collettiva. Il mezzo discorsivo per fare prevalere questa impostazione consiste nel presentare qualsiasi esito diverso dalla morte, la detenzione nei centri di detenzione e maltrattamento e, una volta giunti in Europa, l’indigenza per strada e un’ineludibile espulsione di persone frettolosamente escluse dal diritto d’asilo, come connivenza con i trafficanti, pull factor e/o mezzo strumentale per aggirare le politiche d’immigrazione. Questo implica che i diritti sono un problema perché possono essere usati in modo strumentale per mettere in difficoltà le politiche pubbliche (il dettaglio della riscrittura della direttiva sui rimpatri ne è la prova più evidente,[10] insieme al nuovo regolamento per espandere le attività, le risorse e i poteri di Frontex, ridenominata la European Border and Coast Guard, EBCG [11]).
Invece di concentrarci sugli eccessi di alcuni governi, è importante riconoscere che la spinta a violare le regole viene dall’impostazione comunitaria che ha reso il perfezionamento di queste politiche una priorità assoluta, mantenuta nel tempo. Le polemiche che si susseguono su delle questioni legali piuttosto elementari ne sono semplicemente un corollario che dimostra come dei pretesti per violare le leggi si possono trovare anche rispetto alle questioni più fondamentali come il diritto alla vita e/o il divieto della tortura. L’Agenda Europea promossa da Avramopoulos e la Commissione Europea sancisce che l’UE ha deciso che le politiche restrittive in questo campo prevalgono sulle cornici normative e sul diritto internazionale, nazionale e comunitario. Però, la funzione di tali iniziative come impostazioni strategiche di “policy” sono difficilmente perseguibili attraverso il diritto, perché non sono nè leggi nè attività concrete. Un attento studio dei documenti ufficiali dell’UE in questo campo, e del loro rapporto con le iniziative intraprese dagli stati membri risulta indispensabile per chiarire sia queste dinamiche che la distanza tra le dichiarazioni formali e gli interventi concreti in questo campo. Più che la violazione di alcuni principi legali per promuovere l’efficacia del proibizionismo in questo campo, parrebbe che le politiche d’immigrazione siano diventate il mezzo attraverso il quale diventa possibile per gli stati di neutralizzare i limiti ai loro poteri. Gli effetti di tali approcci coercitivi non colpiscono solo i migranti (cosa che è già abbastanza grave) ma anche chi li aiuta, e c’è stato perfino un governo che ha scelto di normalizzare delle pratiche di vessazione in mare a oltranza come mezzo per fare pressione sugli altri stati membri per ottenere delle garanzie sulla destinazione finale di chi sbarca. Questa è la chiave di lettura che propongo, ed è anche il motivo per cui considero che, al di là della materia specifica dell’immigrazione, l’opposizione a queste politiche non è “buonismo”, ma autodifesa dei valori e della civiltà europei, dell’UE e dei suoi stati membri, a partire dai diritti e dallo stato di diritto. Infatti, dalla sospensione di Mare Nostrum e dal lancio dell’Agenda Europea, sia l’UE che i suoi stati (particolarmente l’Italia) sono stati regolarmente accusati di gravi violazioni da parte di diversi organi dell’ONU, e particolarmente dai relatori speciali e dagli esperti in materia di diritti umani, senza che si siano degnati di mettere in dubbio la direzione di marcia che hanno intrapreso.[12] La scelta di agire al di fuori della legalità internazionale appare palese.
Va segnalato che alcune misure adottate contro le ONG e la solidarietà che possono sembrare delle aberrazioni dovuto agli eccessi di alcuni governi, rientrano nella strategia impostata per gestire questo fenomeno. Le multe per favoreggiamento dell’ingresso irregolare sono previste nella Direttiva sul Favoreggiamento dell’ingresso, del transito e del soggiorno illegali del 2002.[13] La Decisione Quadro del Consiglio del 28 Novembre del 2002 sul rafforzamento della cornice penale contro tali fenomeni reitera che tali sanzioni penali devono essere “efficaci, proporzionate e dissuasive”.[14] La Direttiva sulle sanzioni per i trasportatori (2001/51/CE) approvata l’anno precedente prevedeva delle multe di un minimo di 500.000 euro per i casi gravi in cui veniva stabilita una somma complessiva per dei numeri consistenti di arrivi irregolari (art. 4(1.c)) o di una somma tra i 3.000 e 5.000 euro per ogni persona trasportata (art. 4(1.a-b).[15] Anche se è vero che tale direttiva prevede che gli stati membri possano tollerare l’aiuto fornito per motivi umanitari senza scopo di lucro, tale possibilità è discrezionale. Sia le istituzioni europee che i governi di alcuni stati membri operano per fare rientrare le attività umanitarie nell’ambito di queste misure punitive, equiparando il salvataggio in mare che comporta lo sbarco in un luogo sicuro come favoreggiamento dell’immigrazione irregolare o addirittura come connivenza con i trafficanti. Nella fase attuale, l’aiuto a chi rischia di naufragare, di morire nelle Alpi mentre prova ad attuare un “movimento secondario” o a chi si trova in una situazione di indigenza, viene considerato un problema per le politiche pubbliche. Il codice di condotta per le ONG, la restrizione delle possibilità di ricorso contro il diniego dell’asilo, la rimozione delle garanzie fornite dalla Direttiva sui Rimpatri e una intensificazione delle operazioni di rintraccio e di rimpatrio, sono parte dell’impostazione a livello europeo. Infatti, nonostante gli eccessi sia verbali che nelle attività concrete per contrastare gli arrivi, la Commissione non ha contrastato delle misure che, sostanzialmente, la aiutavano a imporre il suo modello, al di là di alcune dichiarazioni critiche formali.
[1] Il Messaggero, Migranti, Dimitris Avramopoulos: “A Malta solo un documento, un accordo per ora non c’è”, 30.9.2019, https://www.ilmessaggero.it/politica/migranti_dimitris_avramopoulos_malta_accordo-4766136.html
[2] Communication from the Commission to the European Parliament and the Council, Eighth biannual report on the functioning of the Schengen area, 1 May – 10 December 2015, Strasbourg, 15.12.2015 COM(2015) 675 final. https://ec.europa.eu/home-affairs/sites/homeaffairs/files/e-library/documents/policies/borders-and-visas/schengen/docs/eighth_biannual_report_on_the_functioning_of_the_schengen_area_en.pdf
[3] Statewatch Analysis. The “point of no return”: Interoperability morphs into the creation of a Big Brother centralised EU state database including all existing and future Justice and Home Affairs databases, Tony Bunyan, (aggiornato a luglio del 2018) http://www.statewatch.org/analyses/no-332-eu-interop-morphs-into-central-database-revised.pdf
[4] European Commission non-paper, “No registration no rights”, dicembre 2015, http://www.statewatch.org/news/2015/dec/eu-com-No-registration-no-rights.pdf
[5] Communication from the Commission to the European Parliament and the Council, Progress Report on the Implementation of the hotspots in Italy, Strasburgo, 15.12.2015, COM(2015) 679 final, http://www.statewatch.org/news/2015/dec/eu-com-italy-hotspot-rep-com-679-15.pdf
[6] Member States' Support to Emergency Relocation Mechanism, al 5 febbraio 2018, https://www.statewatch.org/news/2018/feb/eu-com-sop-relocation-5-2-18.pdf
[7] Lettera di Paraskevi Michou a Fabrice Leggeri, ref. Ares(2019) 1755075- 18/03/2019, http://www.statewatch.org/news/2019/jun/eu-letter-from-frontex-director-ares-2019)1362751%20Rev.pdf ; sulla polemica e il suo contesto: https://www.statewatch.org/analyses/no-344-Commission-and-Italy-tie-themselves-up-in-knots-over-libya.pdf
[8] Statewatch news online, “Italy’s redefinition of sea rescue as a crime draws on EU policy for inspiration”, aprile 2019, https://www.statewatch.org/analyses/no-341-italy-salvini-boats-directive.pdf
[9] Il documento del European External Action Service (EEAS), è disponibile qui: https://www.buzzfeednews.com/article/marcusengert/operation-sophia-report-migrants-libya-warning
[10] “Analysis. The revised Returns Directive: a dangerous attempt to step up deportations by restricting rights”, Jane Kilpatrick, settembre 2019, http://www.statewatch.org/analyses/no-346-returns-directive.pdf
[11] L’ultima versione disponibile del testo sulla EBCG (di 532 pagine), http://www.statewatch.org/news/2019/oct/eu-frontex-regulation-ep-approved-corrected-version-2-10-19.pdf
[12] Un esempio riguardante le politiche europee del 18 settembre 2018, http://www.statewatch.org/news/2018/oct/un-joint-communication-eu-migration-asylum-proposals-18-9-18.pdf per il quale qui si trova una selezione di estratti, http://www.statewatch.org/news/2018/oct/un-sr-eu-migration.htm ; e un esempio riguardante l’Italia del 15 maggio 2019, https://www.statewatch.org/news/2019/may/un-it-sr-letter-directive-sar-libya-human-rights-5-19.pdf per il quale qui si trova una selezione di estratti, https://www.statewatch.org/news/2019/may/it-un-sr-directive.htm
[13] Direttiva del Consiglio sul Favoreggiamento (2002/90/CE) del 28 febbraio del 2002, https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32002L0090&from=EN
[14] COUNCIL FRAMEWORK DECISION of 28 November 2002, on the strengthening of the penal framework to prevent the facilitation of unauthorised entry, transit and residence, (2002/946/JHA), art. 1(1), https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/PDF/?uri=CELEX:32002F0946&from=EN
[15] Council Directive 2001/51/EC of 28 June 2001 supplementing the provisions of Article 26 of the Convention implementing the Schengen Agreement of 14 June 1985 https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/PDF/?uri=CELEX:32001L0051&from=EN
La pandemia aggredisce anche il diritto?
Intervista a Corrado Caruso, Giorgio Lattanzi, Gabriella Luccioli e Massimo Luciani[i]
Giustizia Insieme ha sollecitato la riflessione di quattro giuristi, due professori di diritto costituzionale, un presidente emerito della Corte costituzionale ed una presidente emerita della Corte di cassazione, sull’impatto della magmatica legislazione emergenziale sul diritto e, in particolare, sui diritti fondamentali di libertà di ogni individuo, in questo periodo acuto compressi con modalità mai prima sperimentate e foriere di mutamenti radicali.
Al di là dell’innegabile priorità del contenimento del contagio, serpeggia infatti il rischio che, insieme al sovvertimento del nostro modo di vivere e di convivere, possa esserci quello del nostro sistema di valori e di libertà; e gli intervistati sono stati invitati a valutare l’auspicio che, ferme le esigenze di immediato contrasto all’emergenza, i nuovi parametri di sicurezza sanitaria siano contemperati con i valori fondanti di una moderna società democratica, piegando i primi ai secondi e non viceversa, nel nuovo regime di normale convivenza che inevitabilmente si andrà a disegnare dopo questa prima e drammatica fase.
Fino a qual punto l’emergenza può giustificare la limitazione dei diritti fondamentali? In particolare, soltanto in una fase di contenimento dello sfondamento del contagio, oppure anche a regime?
Corrado Caruso
È necessario sgombrare il campo da una serie di fraintendimenti che ricorrono nel dibattito attuale. Trovo del tutto fuori bersaglio il richiamo, per descrivere i provvedimenti atti a fronteggiare la pandemia, allo stato di eccezione e ai suoi epigoni. Simile categoria si presta a usi equivoci, rievocando una sospensione permanente delle libertà fondamentali per motivi che trascendono il benessere della comunità. In passato, lo stato di eccezione ha forgiato la spada della repressione liberticida contro il cittadino, in vista dell’autoconservazione del potere costituito o della trasformazione autoritaria del sistema politico. Sarà ovvio ma ripetere aiuta: non è questa la ratio che ispira i provvedimenti messi in campo sino ad ora, finalizzati, in ultima istanza, a proteggere la persona e la comunità in cui vive.
L’epidemia è un fatto emergenziale, empiricamente individuato e scientificamente provato, che mette in pericolo la salute e le nostre consolidate abitudini.
È la portata straordinaria e transitoria dell’emergenza a consentire forti limitazioni ai diritti fondamentali, a delineare la misura della legittimità delle misure adottate (anche per tale ragione, è da evitare il concetto, carico di presagi sinistri, di “sospensione” delle libertà).
In questo senso, la proporzionalità dei provvedimenti non va valutata in astratto ma in concreto, alla luce della particolare situazione di fatto che giustifica la limitazione (nel nostro caso: alla virulenza dell’epidemia; alla misura del contagio; alla tenuta del sistema sanitario, alla transitorietà dell’evento, etc.).
Anche per questi motivi, trovo politicamente improprio e giuridicamente scorretto il riferimento al conflitto bellico: non solo per le evidenti diversità delle situazioni ma anche perché la guerra trova una specifica disciplina in Costituzione, la quale ammette, in simili ipotesi, una delega in bianco di potere al Governo (art. 78 Cost.).
A prescindere dai provvedimenti recentemente adottati, l’attuale stato di emergenza trova invece una descrizione nel d.lgs. n. 1 del 2018 (Codice della protezione civile), che fa riferimento a «emergenze di rilievo nazionale connesse con eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall'attività dell'uomo che in ragione della loro intensità o estensione debbono, con immediatezza d'intervento, essere fronteggiate con mezzi e poteri straordinari» (art. 7). Nonostante non sia regolata a livello costituzionale, dunque, l’emergenza è già inclusa nei gangli dell’ordinamento, che le riconosce – per così dire - un particolare status da disciplinare con strumenti giuridici puntualmente definiti (cfr., per le emergenze nazionali, gli art. 23 e ss. del d.lgs. n. 1 del 2018). Non è un caso che, proprio sulla scorta di tale apparato normativo, il Consiglio dei Ministri abbia dichiarato lo stato di emergenza sin dallo scorso 31 gennaio, affidando al Capo della protezione civile il compito di adottare ordinanze in deroga alla legge.
Giorgio Lattanzi
Mai ci siamo trovati di fronte a un’emergenza come quella che stiamo vivendo e mai per fronteggiarla siamo stati messi di fronte a provvedimenti come quelli che stanno comprimendo, fino quasi ad annullarli, diritti e libertà garantiti in massimo grado dalla Costituzione. Provvedimenti adottati con decreti legge, decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, decreti di ministri, di presidenti regionali o addirittura di sindaci. È evidente la difficoltà di giustificare questa compressione e soprattutto di giustificare le forme adottate per farlo, eppure, nonostante ciò, anche se con riserve, avvertimenti e distinzioni, si è generalmente convenuto che questa compressione dei diritti e delle libertà, almeno nella sostanza se non nelle forme, è stata resa necessaria per garantire la salute, che l’art. 32 della Costituzione considera «fondamentale diritto dei cittadini e interesse della collettività».
I singoli diritti e le singole libertà convivono e si bilanciano con altri diritti e con altre libertà, ed è in questo rapporto che trovano i loro limiti, giunti nella situazione attuale a un livello che era inimmaginabile.
È vero che la libertà di circolazione può essere limitata «per motivi di sanità o di sicurezza» (art. 16, comma primo, Cost.), ma nel nostro caso più che una limitazione è avvenuta una soppressione. Il diritto di riunirsi può incontrare un divieto «per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica» (art. 17, terzo comma, Cost.), ma solo se le riunioni che avvengono in luogo pubblico mentre sono state rigorosamente vietate anche tutte le riunioni in luoghi privati. Si è giunti a non consentire l’esercizio in comune, sia in pubblico che in privato, della fede religiosa e sono state prese misure che hanno impedito il lavoro e l’attività economica.
Anche la libertà personale è stata limitata, sia con l’«applicazione della misura della quarantena precauzionale ai soggetti che hanno avuto contatti stretti con casi confermati di malattia infettiva diffusiva o che rientrano da aree, ubicate al di fuori del territorio italiano» (art, 1, comma 1, lett. d del d.l. 25 marzo 2020, n. 19), sia con il «divieto assoluto di allontanarsi dalla propria abitazione o dimora per le persone sottoposte alla misura della quarantena perché risultate positive al virus» (art. 1, comma 1, lett. e d.l. n. 19 cit.). E inoltre con l’art. 14 d.l. 9 marzo 2020, n. 14 sono state introdotte una serie di deroghe significative alla normativa sul trattamento dei dati personali.
Per valutare tutte queste misure che hanno inciso sulla nostra vita in un modo che mai ci saremmo potuti immaginare dobbiamo chiederci se possono essere giustificate dalla necessità di tutelare la salute «come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività» (art. 32, primo comma, Cost.) e aggiungerei, più in generale, se si iscrivono con coerenza nel quadro dell’art. 2 Cost., in relazione, sia ai diritti inviolabili dell’uomo, sia ai doveri inderogabili di solidarietà sociale.
A ben vedere contrastare una pandemia come quella in cui siamo immersi è doveroso più che per tutelare il diritto alla salute della persona per un interesse generale, e il sacrifico delle libertà e dei diritti individuali è richiesto per evitare il collasso dell’intera società nei suoi aspetti personali, collettivi, economici e politici.
È da aggiungere che il numero dei morti che ogni giorno incrementa la tremenda contabilità della pandemia rende evidente che vi è non soltanto la necessità di tutelare la salute ma anche e soprattutto la necessità di tutelare la vita, perché se il virus COVID-19 determinasse solo una malattia, ancorché grave, priva degli esiti letali che ha dimostrato di avere potrebbero ritenersi eccessive, e dunque non giustificate, alcune delle misure adottate per impedirne la diffusione.
La situazione che stiamo vivendo mi ha fatto pensare alla causa di giustificazione penale dello stato di necessità che rende non punibili anche fatti gravissimi, come l’omicidio, quando sono avvenuti per la «necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona», non «altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo».
Analogamente ci dobbiamo chiedere se tutti i sacrifici dei diritti fondamentali che ci sono stati richiesti possono considerarsi giustificati da una necessità del genere, se il pericolo esistente non è altrimenti evitabile e se i sacrifici che ci sono rischiesti sono proporzionati al pericolo.
Credo che, tutto considerato, la risposta possa essere affermativa, ma è ovvio che solo un’emergenza eccezionale come quella che stiamo vivendo può giustificare misure come quelle che sono state prese, alle quali non è consentita alcuna assuefazione, così come non dovrebbe esserne consentita l’adozione con provvedimenti della disinvoltura di quelli che sono stati adottati.
Gabriella Luccioli
È noto che la nostra Costituzione, a differenza di altre, non prevede l’ipotesi dello stato di emergenza, né quella dello stato di eccezione, ma soltanto lo stato di guerra, che ai sensi dell’art. 78 deve essere dichiarato dalle Camere, le quali conferiscono al Governo i poteri necessari. I padri costituenti motivatamente scelsero di non inserire nella Carta clausole di emergenza che potessero aprire il varco, in situazioni di per sé imprevedibili e non puntualmente definite, a pericolose lacerazioni dell’ordine costituzionale ed alla compressione dei diritti delle persone.
È la legge ordinaria, e specificamente l’ art. 24 del d.lgs n. 1 del 2018 - Codice della Protezione Civile - che prevede che con delibera adottata dal Consiglio dei Ministri sia dichiarato lo stato di emergenza di rilievo nazionale, ne sia fissata la durata e l’estensione e sia autorizzata l’emanazione di ordinanze di protezione civile, che trovano la propria disciplina nel successivo art. 25.
In applicazione di detta normativa, a seguito del diffondersi del contagio in Italia il Consiglio dei Ministri con delibera del 31 gennaio 2020 ha dichiarato lo stato di emergenza per la durata di sei mesi; hanno fatto seguito una serie di decreti legge, di decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, oltre che numerose ordinanze, circolari e direttive ministeriali, ordinanze della Protezione civile, ed un profluvio di ordinanze regionali e comunali.
In particolare con il primo di detti decreti legge, quello n. 6 del 2020 (immediatamente convertito nella legge n. 13 del 2020), si sono delegate in modo generico le autorità competenti, ed in particolare il Presidente del Consiglio dei Ministri, ad adottare ogni misura di contenimento necessaria e adeguata all’ evolversi della situazione, anche incidente sull’ esercizio dei diritti e delle libertà costituzionali. Si è così demandato al potere di ordinanza e agli strumenti giuridici già presenti nell’ ordinamento il potere di assumere i provvedimenti necessari a contrastare l’epidemia, così fornendo anche una copertura giuridica alle iniziative degli amministratori locali.
A fronte di una così massiccia emissione di provvedimenti, nella loro massima capacità restrittiva delle libertà e dei diritti fondamentali, si pone la domanda se il Presidente del Consiglio fosse legittimato alla loro adozione o se la riserva di legge prevista dall’ art. 16 Cost. per la limitazione del diritto di libera circolazione e soggiorno non imponesse unicamente l’uso dello strumento legislativo ordinario, tenuto conto che il necessario bilanciamento tra valori costituzionali in conflitto costituisce valutazione propria del Parlamento nell’ esercizio della funzione che l’ art. 70 gli affida.
Anche l’uso dei decreti legge, pur corretto in quanto previsto in Costituzione proprio per far fronte a casi straordinari di necessità e d’ urgenza ed in quanto rende possibile il controllo preventivo del Presidente della Repubblica e quello successivo delle Camere e della Corte Costituzionale, appare uno schermo fragile per supportare misure così fortemente restrittive, essendosi detti atti normativi sostanzialmente risolti in una delega in bianco al Governo, cui è stato demandato il potere di scegliere e calibrare le limitazioni delle libertà fondamentali con norme di rango subsecondario destinate a fornire sostanza e contenuto a disposizioni di fonte primaria la cui asettica elencazione le privava di effettiva consistenza.
Come è stato opportunamente rilevato da alcuni commentatori, detta delega ha assunto i caratteri di una sorta di autodelega in favore del solo Presidente del Consiglio, in quanto tale immune da ogni forma di intervento del Capo dello Stato, previsto invece per l’emanazione dei regolamenti adottati dall’ organo governativo collegiale.
Infine va osservato che gli atti amministrativi emessi a livello territoriale, pur teoricamente impugnabili in sede giurisdizionale, presentano non poche difficoltà interpretative ed applicative, non solo per la loro non infrequente difformità, sino al limite della contraddittorietà, ma anche perché contengono in modo confuso sia obblighi che mere raccomandazioni.
Ben diverso è il quadro che il dettato costituzionale ci affida, prevedendo la riserva rafforzata di legge per le limitazioni dei diritti di libertà individuale, a partire da quella di circolazione sia all’ interno che all’ esterno del territorio nazionale (art. 16), e anche imponendo al solo legislatore statale di disporre in materia di ordine pubblico e sicurezza (art. 117, comma 2, lett. h).
La realtà ci consegna dunque una sospensione a scadenza incerta dei diritti fondamentali a colpi di decreti legge e di provvedimenti amministrativi. E se oggi dobbiamo accettare le limitazioni imposte ai nostri diritti in nome dell’emergenza ed a tutela della salute di tutti, non sottovalutando anche l’ idoneità di detti strumenti a spiegare effetti immediati in una situazione che va affrontata con rapidità ed efficienza, abbiamo anche il dovere di percepire come giuristi e come cittadini l’eccezionalità di tali limitazioni, ricordando che un assetto democratico è incompatibile con uno Stato militarizzato e onnipresente che domina le nostre vite e i nostri spazi esistenziali.
Si evoca da alcuni costituzionalisti il pericolo di eclissi delle libertà costituzionali; si osserva che in questa torsione dell’ordinamento anche la Costituzione nella sua integrità finisce per essere soggetta ad un bilanciamento con l’emergenza, in cui fatalmente è la Carta fondamentale a soccombere.
Io credo che non ci si possa sottrarre alla riflessione che tali posizioni sollecitano. Può sembrare surreale discuterne ora, ma è legittimo il dubbio che la disciplina prodotta per contrastare l’emergenza sanitaria possa derogare in modo così forte ai principi costituzionali e se dinanzi ad una emergenza siffatta sia giustificata l’adozione per via amministrativa di misure dirette a farvi fronte, ispirate appunto alla logica dello stato di necessità.
Come ricordava Cesare Mirabelli in un recente intervento, le istituzioni non vanno in quarantena e continuano a svolgere pienamente le loro funzioni. E se è vero che nessun diritto è più fondamentale del diritto di tutti alla vita e alla salute, come ricorda Gustavo Zagrebelsky, è tuttavia altrettanto vero che la centralità del Parlamento non può essere dimenticata affidando il governo dell’emergenza alle quotidiane determinazioni del Capo del Governo e dei suoi esperti.
Di tali esigenze sembra essersi dato carico in qualche misura l’ultimo decreto legge n. 19 del 2020, che ha introdotto una forma di controllo parlamentare, prevedendo che i decreti presidenziali siano comunicati alle Camere entro il giorno successivo alla loro pubblicazione e che il presidente del Consiglio ne riferisca ogni quindici giorni alle Camere.
Massimo Luciani
Nessun fenomeno sociale o naturale è in sé indifferente per il diritto, che può sempre farne oggetto di regolazione ove ciò sia logicamente possibile (non avrebbe senso, che so, normare il diritto di proprietà di porzioni del sole). Specularmente, non v’è fenomeno sociale e naturale che (anche qui nei limiti della logica) non sia potenzialmente idoneo a incidere nel diritto. Nel caso di una pandemia i piani dell’interferenza sono plurimi: del diritto internazionale; del diritto sovranazionale; del diritto interno.
Sul piano del diritto internazionale, la pandemia mostra quanto sarebbe importante un governo globale di fenomeni - come questo - altrettanto globali, ma allo stesso tempo mette in luce la dura realtà della perdurante esattezza del dictum weberiano, che vuole lo Stato unico detentore dell’uso legittimo della forza. Non è il tempo delle illusioni cosmopolitiche alimentate dall’inverosimile global constitutionalism, ma quello del realismo diplomatico, di una rinnovata iniziativa politica e culturale per un nuovo ordine internazionale, cooperativo, sì, ma westfaliano.
Sul piano del diritto sovranazionale emergono impietosamente tutte le insufficienze di un processo di integrazione europea lasciato a metà. La sbilenca costruzione di un sistema economico-finanziario con moneta unica e debiti sovrani plurimi si palesa finalmente a tutti (anche a chi non aveva voluto capire) per quel che è: un moltiplicatore di diseguaglianze all’interno dell’Unione e un potente fattore di disgregazione politica e sociale.
Sul piano del diritto interno le questioni fondamentali attengono ai diritti e all’assetto dei poteri. Dei diritti dirò più avanti, rispondendo alle altre domande. Quanto ai poteri, tre osservazioni.
La prima riguarda il seguito stupefacente che, persino fra i costituzionalisti, ha avuto la strampalata idea di ammettere le sedute parlamentari telematiche. È a mio avviso evidente che, visto che il medesimo problema di sicurezza esiste per il Governo (i suoi componenti sono decine e sono centinaia gli addetti che a Palazzo Chigi sono ogni giorno necessari per assicurarne la funzionalità), non porlo per entrambi gli organi costituzionali significa - puramente e semplicemente - sottintendere l’essenzialità del solo Esecutivo e portare qualche secchio d’acqua in più al già vorticosamente funzionante mulino dell’antiparlamentarismo (come giustificare la protezione rafforzata dei parlamentari quando chi lavora in settori strategici mette a rischio la propria salute?).
La seconda riguarda i rapporti fra Governo e Parlamento, che il d.l. n. 19 tratteggia in modo piuttosto blando, senza prevedere una consultazione parlamentare continua (perfettamente compatibile con l’urgenza, se indirizzata alle commissioni permanenti).
La terza riguarda i rapporti fra livelli di Governo. Il recentissimo d.l. n. 19 del 25 marzo ha reso il quadro ancor più intricato. Prima, era abbastanza evidente che, ai sensi del d.l. n. 6, le ordinanze regionali avrebbero potuto intervenire solo nelle more dei d.P.C.M. Ora, per un verso, si fanno salve quelle adesso in vigore (ma in che limiti?); per l’altro, si ammette un intervento regionale derogatorio di ampiezza eccessivamente indeterminata. Come ha chiarito la Corte costituzionale con la sent. n. 307 del 2003, misure regionali di più rigorosa tutela della salute interferiscono comunque con interessi nazionali essenziali (la produzione, la libera circolazione, etc.), che dovrebbero essere oggetto di bilanciamento da parte del legislatore statale. La chiarezza di cui c’era bisogno in questo delicato momento, per questo specifico profilo, è mancata.
In tempi di emergenza si pone con particolare nettezza un problema che, in realtà, è ordinario, qual è quello del rapporto fra interessi collettivi e diritti individuali. I princìpi da applicare, dunque, a mio avviso, sono quelli consueti. In particolare, comunque, e a tacer d’altro:
a) occorre accertare l’effettiva sussistenza e misura dell’interesse collettivo;
b) conseguentemente, soprattutto il giudice costituzionale, che (tranne alcune recenti eccezioni, che potrebbero essere segno di un opportuno ripensamento) ha sempre usato con eccessiva parsimonia il proprio potere istruttorio, dovrebbe verificare (specie quando sono disponibili evidenze scientifiche) lo stato dei fatti;
c) qui potrebbe aiutare anche il nuovo art. 14-bis, comma 1, delle novellate Norme Integrative per i giudizi innanzi la Corte costituzionale (per altri profili improvvidamente modificate), a tenor del quale “La Corte, ove ritenga necessario acquisire informazioni attinenti a specifiche discipline, dispone con ordinanza che siano ascoltati esperti di chiara fama in apposita adunanza in camera di consiglio alla quale possono assistere le parti costituite [...]”;
d) restano in piedi i comuni controlli di proporzionalità, non eccessività e adeguatezza, sebbene sia evidente che il “peso” dell’interesse collettivo tende, in situazioni emergenziali, a crescere;
e) la temporaneità è uno degli elementi che, per costante giurisprudenza costituzionale, vanno inseriti nell’apprezzamento della legittimità o meno delle misure restrittive dei diritti;
f) non possono essere derogate le garanzie procedimentali previste dalla Costituzione (ad es. agli artt. 13 e 14);
g) il bilanciamento, contrariamente a una diffusa opinione (coerente con l’odierna tendenza all’esaltazione del giudiziario), non è affar del giudice, ma del legislatore, essendo compito del giudice (specie costituzionale) - invece - il controllo “esterno” di ragionevolezza del bilanciamento legislativo.
Quali sono i diritti fondamentali della persona che restano coinvolti dalla pandemia?
Corrado Caruso:
L’emergenza, dunque, richiede un intervento proporzionato alla gravità della situazione e necessario alla tutela di altri valori costituzionali. Tra questi, in particolare, spicca la salute, diritto individuale e interesse collettivo ai sensi dell’art. 32 Cost., valore che consente limitazioni di altre libertà per esplicita dizione della Costituzione.
A tale proposito, non mancano i riferimenti nel teso costituzionale: il domicilio è inviolabile, ma sono ammessi accertamenti e ispezioni per motivi di sanità (art. 14 Cost.); ogni cittadino può circolare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni imposte dalla legge “in via generale” per ragioni sanitarie (art. 16 Cost., i Costituenti pensavano proprio ai cordoni sanitari); i cittadini hanno diritto di riunirsi, salvo le limitazioni giustificate da comprovati motivi di “incolumità pubblica” (art. 17 Cost.); l’iniziativa economica è libera, ma non può svolgersi in contrasto con la dignità e la sicurezza dei lavoratori (art. 41 Cost.).
L’emergenza ha dunque concretizzato fattispecie espressamente disciplinate dalla Costituzione, scatenando una dialettica tra diritti che giustifica l’intervento del potere pubblico in funzione di mediatore del conflitto all’interno dei confini costituzionali.
Deve aggiungersi che, nella nostra Costituzione, non esiste una sfera “innominata” di libertà, capace di ricomprendere e di garantire qualsiasi aspirazione soggettiva del cittadino. Esistono, piuttosto, singole fattispecie di libertà ad oggetto determinato; queste rimandano a specifiche garanzie che riflettono, a loro volta, un determinato assetto di relazioni istituzionali. Al di fuori di queste situazioni soggettive, non esiste un diritto di libertà a contenuto indeterminato ma una semplice sfera di liceità, discrezionalmente comprimibile dai pubblici poteri nelle forme previste dalla Costituzione (a questa sfera fa riferimento, in fondo, l’art. 23 Cost., laddove richiede che le prestazioni personali siano imposte da atti legislativi: v. C. cost, sent. n. 115 del 2011, sulle ordinanze dei cd. “sindaci sceriffi”). Così, ad esempio, non esiste un diritto soggettivo alla socialità entro cui collocare la libertà di bere una birra in piazza o il diritto all’aperitivo nel proprio bar preferito.
Certo, è vero che l’art. 2 Cost., nel riconoscere i diritti inviolabili dell’uomo, richiede una costante opera di aggiornamento del catalogo dei diritti previsto dalla Costituzione. Tale azione integrativa del testo costituzionale deve però avvenire nel rispetto di alcune condizioni, formali e materiali: anzitutto, delle procedure previste dalla Costituzione medesima, che chiama in causa l’intermediazione legislativa o, al più, l’interpretazione estensiva di fattispecie preesistenti ad opera della giurisdizione; in secondo luogo, dell’assetto complessivo dei valori della Costituzione. L’art. 2 Cost., lungi dal tutelare l’individuo astratto emancipato dai concreti rapporti sociali, garantisce la persona concretamente e comunitariamente situata, non a caso richiedendo, nella sua seconda parte, l’inderogabile adempimento dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale. La Costituzione, quindi, non offre una specifica tutela - a maggior ragione in una situazione che mette a repentaglio la vita e la salute dei cittadini più deboli - all’appagamento egoistico di bisogni individuali, magari ispirati dal canto dalle sirene della società dei consumi.
Merita di essere compiuta una ulteriore puntualizzazione. I provvedimenti adottati sino ad oggi incidono in misura assai gravosa sulla libertà di circolazione, mentre non pare essere interessata, almeno per il momento, la libertà personale (se non forse indirettamente dalla contravvenzione di cui all’art. 650 c.p., ipotesi peraltro superata dal d.l. n. 19 del 2020). Non sempre è agevole – me ne rendo conto – distinguere gli oggetti tutelati, rispettivamente, dall’art. 13 Cost. e dall’art. 16 Cost. Può essere utile, a questo proposito, richiamare un criterio adottato da autorevole dottrina circa sessant’anni or sono (da Leopoldo Elia e Augusto Barbera en tête), che riconduceva sotto l’egida della libertà personale (e delle sue garanzie: riserva di legge e – soprattutto – riserva di giurisdizione) le misure di prevenzione ereditate dal passato regime. In base a questa ricostruzione, in parte avallata anche dalla Corte costituzionale, la libertà personale viene in gioco tutte le volte in cui vi sia un provvedimento ad personam che, a prescindere dal grado di coercizione, produca un giudizio di disvalore sulla personalità dell’individuo, degradandone la dignità sociale. Nessuno dei provvedimenti adottati sembra andare in questa direzione, trattandosi di misure generali, formulati in termini determinati, che riguardano la collettività nel suo insieme e giustificate dalla necessità di proteggere la salute dei consociati.
In ogni caso, le compressioni più gravose non vengono portate alle libertà civili, ma a situazioni soggettive che hanno un riflesso economico e sociale. Penso non solo all’iniziativa economica privata, ma anche al diritto al lavoro: se, infatti, le libertà civili sono, per così dire, naturalmente portate a espandersi nuovamente al termine della quarantena, non altrettanto potrà dirsi per le attività che producono reddito. La crisi sanitaria rischia di trasformarsi in una crisi economica: quali saranno, ad esempio, le ricadute dell’epidemia sull’obiettivo della piena occupazione, posto dall’art. 4 Cost.? Allo stato, le ricadute sociali dell’emergenza saranno verosimilmente più gravi delle limitazioni cui stanno andando incontro le libertà civili.
Giorgio Lattanzi:
In primo luogo, come ho già detto, il diritto di circolazione, il diritto di riunione, il diritto di culto, il diritto di lavorare e il diritto di svolgere un’attività economica.
Gabriella Luccioli:
Molti sono i diritti della persona coinvolti dalla pandemia. Non solo, come appare con maggiore evidenza, i diritti di libertà personale, di circolazione, di soggiorno, di riunione, di partecipazione ai riti religiosi, di iniziativa economica, di istruzione, di lavoro, di impresa, di attività politica, sindacale, culturale, ma anche quelli che hanno a che fare con la sfera più intima dell’uomo, come il diritto ad una morte dignitosa.
La morte è diventata un evento clandestino e solitario, che si consuma lontano dagli affetti, e ad essa è negato anche il funerale. La fine della vita per effetto del coronavirus si risolve nell’anonimato di un numero che va ad alimentare una statistica e concorre ad accrescere la paura, perdendo definitivamente il suo significato profondo e la sua simbologia.
Né può costituire valido motivo di conforto il pensare che resta comunque integro il nostro diritto di pensiero, di opinione, di parola, di informazione: può per contro osservarsi che la pandemia stravolge anche i pensieri, l’uso delle parole, la scelta delle letture, obbligandoci a confrontarci continuamente con tematiche lontane dai nostri abituali interessi.
Essa ha trasformato i ritmi esistenziali, i rapporti interpersonali, le consuetudini più innocue e quelle più radicate, il significato degli sguardi, il senso delle amicizie; ha cambiato la nostra percezione del tempo, la nostra visione del mondo.
La sua prepotenza è devastante, la sua violenza è insopportabile in un sistema come il nostro, ispirato ai valori dell’illuminismo, che pone il singolo prima o al centro della società, e che ha una Costituzione ispirata al principio personalistico.
Massimo Luciani:
Nessun diritto può sfuggire alla necessità d’essere bilanciato con gli interessi collettivi alla salute, alla sicurezza, etc. Non ha senso, dunque, a mio parere, fare un elenco di quelli coinvolti dalla vicenda emergenziale sanitaria.
C’è un diritto alla salute in grado di prevalere su qualunque altro?
Corrado Caruso:
La Corte costituzionale, in una importante sentenza di quale anno fa sul caso ILVA, ci ha ricordato che «[t]utti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La tutela deve essere sempre “sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro” (…). Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona» (sent. n. 85 del 2013). Queste affermazioni, pronunciate allora per postergare il diritto alla salute al diritto al lavoro e alla libera iniziativa economica, vanno tenute a mente oggi, in un contesto assai diverso che vede rovesciata quella particolare relazione di precedenza.
Simile ribaltamento non deve stupire: nella nostra Costituzione non esiste una rigida e aprioristica gerarchia dei valori. L’equilibrio tra interessi e diritti costituzionali è mobile e storicamente situato, ed è l’esito di plurimi processi di integrazione politica. Oggi l’equilibrio arride al diritto di salute; domani, appena le condizioni fattuali lo consentiranno, l’odierno assetto di interessi dovrà necessariamente cambiare.
Lo ha lasciato intendere Giovanni Pitruzzella in uno scritto pubblicato su questa rivista: non è possibile comprimere sine die fondamentali diritti della persona in base a un generico principio di precauzione idoneo, in quanto tale, a prevalere assiomaticamente su qualsiasi istanza concorrente. Anzi, potrebbe sostenersi che l’interesse alla salute già incorpori, in una certa misura, simile principio. Conferire autonoma dignità giuridica alle esigenze della precauzione porta con sé il rischio di dare prevalenza, sempre e comunque, alle ragioni dell’emergenza, bloccando qualsiasi attività umana sino a che non vi sia una qualche certezza intorno allo stato di salute collettivo. Un risultato simile, nella odierna società del rischio, è pressoché impossibile da raggiungere; lo stesso giudizio di proporzionalità delle misure va necessariamente incontro ad esiti diversi qualora mutino le proprietà rilevanti dell’emergenza.
Giorgio Lattanzi:
Il diritto alla salute di per sé non è in grado di prevalere su qualunque altro diritto . Nella situazione attuale a me sembra che in realtà venga in questione il diritto alla vita, più che il diritto alla salute, e questo sì forse è un diritto che potremmo considerare “tiranno”, nel senso che è in grado di prevalere su qualunque altro. Ma ovviamente per stabilire se è o meno giustificato il sacrificio di un diritto fondamentale richiesto per garantire la vita non basta considerare in astratto il valore dei due diritti da bilanciare, perché anche se il sacrificio è richiesto in presenza di un pericolo per la vita di una o più persone occorre chiedersi qual è la consistenza del pericolo, se il pericolo può essere altrimenti evitato e se il sacrificio è proporzionato al pericolo.
Gabriella Luccioli:
Il diritto alla salute è il solo diritto che il Costituente ha definito come fondamentale. Ed è significativa la formulazione in termini negativi dell’inciso dell’art. 32 secondo il quale la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana: nel porre quel limite inderogabile ad ogni intervento normativo in tema di sanità il Costituente evoca chiaramente il principio di dignità, con un implicito bilanciamento di valori che non ammette alterazioni. Il rispetto della persona umana e della sua dignità si pone come valore non suscettibile di bilanciamento e come limite estremo dell’esercizio del potere.
L’art. 32 esprime anche la dimensione pubblicistica del bene salute, agganciando al riconoscimento del diritto la sua corrispondenza all’interesse della collettività e garantendo cure gratuite agli indigenti. La configurazione del bene salute sotto i due profili diversi, ma strettamente collegati, aiuta ad intendere la sua reale portata ed il suo proiettarsi in direzione verticale e orizzontale e costringe l’interprete a confrontarsi con una continua comparazione tra valori e diritti, tra i quali si tende in giurisprudenza a riconoscere anche il diritto ad un ambiente salubre, in una prospettiva che deve conciliare la libertà di curarsi o non curarsi e l’interesse pubblico.
In questa prospettiva la legittimità dei trattamenti sanitari obbligatori che il capoverso dell’art. 32 Cost. eccezionalmente consente, in quanto diretti a garantire sia la salute del singolo cittadino sia l’interesse di tutti i consociati, esprime appunto la duplice valenza costituzionale della salute.
Il diritto alla salute viene così ad incrociare e a saldarsi con il principio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., in forza del quale ciascun individuo è chiamato a farsi carico anche della salute altrui, evitando di produrne una lesione con il proprio comportamento.
Massimo Luciani:
Il nostro ordinamento non conosce una generale gerarchia dei valori costituzionali. Non esiste, dunque, una allgemeine Wertordnung quale quella ipotizzata in Germania dal Bundesverfassungsgericht.
Lo stesso contenuto precettivo dell’art. 3, comma 2, Cost. lo esclude: la Costituzione non intende imporre un astratto modello di società futura, dal quale il cittadino sia destinato a essere autoritativamente plasmato, ma, limitandosi a tracciare concrete linee di tendenza, disegna un grande processo di trasformazione sociale, entro il quale ciascuno può costruire e realizzare il proprio progetto di emancipazione personale, ovviamente a condizione di non impedire che gli alternativi progetti degli altri cittadini siano - a loro volta - disegnati e realizzati. Se è così, una rigida predeterminazione di una gerarchia generale dei valori costituzionali è inammissibile, perché escluderebbe la meritevolezza di scale assiologiche alternative, alle quali ciascuno possa ispirare il proprio individuale progetto di sviluppo della personalità.
Nemmeno esiste nella nostra Costituzione una norma paragonabile all’art. 1, comma 1, del Grundgesetz (ove si dispone che la dignità umana è intangibile (“Die Würde des Menschen ist unantastbar”). Nemmeno la dignità umana, pertanto, si atteggia a valore sovraordinato, o, come vorrebbe taluno, a “metavalore” o valore “non bilanciabile” (e in concreto non è forse bilanciato dalla stessa Costituzione quando ammette una pena come quella detentiva, che la dignità umana la comprime in radice?). I valori rilevanti per l’interprete sono solo quelli positivizzati in Costituzione (e dunque tradotti, da valori, in princìpi), sicché nessun principio può logicamente collocarsi al di sopra degli altri (tutti parimenti costituzionalizzati).
È poi un errore teorico ritenere che sia un “metavalore” almeno quello “procedurale” del bilanciamento fra valori, perché un valore solo procedurale è un non-valore, non possedendo (come è proprio dei valori) un autonomo pregio, ma rimandando - evidentemente - al pregio di un non detto valore sostanziale, che è quello in ragione del quale la procedura del bilanciamento dovrebbe essere seguita.
Nemmeno la salute, pertanto, prevale sugli altri diritti o princìpi costituzionali.
Quali i punti di riferimento nella nostra Costituzione?
Corrado Caruso:
Ho in parte già anticipato la risposta. Qui mi interessa sottolineare un dato, e cioè il sostanziale rispetto delle forme previste dalla Costituzione per la limitazione dei diritti fondamentali. Nonostante l’ordinamento avesse già predisposto gli strumenti per affrontare l’emergenza (il già citato d.lgs. n. 1 del 2018), la portata dell’evento e le forti compressioni alle libertà individuali hanno indotto l’esecutivo ad adottare uno specifico atto con forza di legge, il quale ha conferito base legale (d.l. 23 febbraio 2020, n. 6) alle prime misure adottate all’indomani dell’esplosione dell’emergenza. Il compito di integrare gli spazi, inevitabilmente ampi, lasciati dal d.l. è stato affidato ad atti amministrativi, secondo una tendenza che non deve stupire: l’intensità della copertura legale non può non variare in ragione della portata del fatto emergenziale da affrontare. A meno di non indulgere in quel «cretinismo parlamentare» di cui ha acutamente scritto Ilenia Massa Pinto sulla scorta di un antico adagio marxiano, nelle circostanze attuali l’entomologia giuridica non può non cedere il passo a valutazioni complessive circa il significato politico e fattuale delle misure adottate.
Peraltro, è stato da ultimo adottato il d.l. n. 19 del 2020, che ha risolto alcune ambiguità e incertezze che il decreto-legge del 22 febbraio aveva sollevato. Sono state così elencate le categorie di limitazioni consentite alle autorità amministrative, e resi espliciti alcuni principi immanenti all’ordinamento giuridico: ciascun provvedimento deve essere adeguato al raggiungimento dei fini indicati dalla fonte legale e proporzionato al fatto da fronteggiare. Nel caso in cui questi principi generali non siano rispettati, i provvedimenti amministrativi rimangono impugnabili ai sensi dell’art. 113 Cost. che, insieme al principio di legalità, compone la grande regola dello Stato di diritto.
Tornando ai decreti-legge, come ha riconosciuto Gaetano Azzariti, vi sono pochi dubbi che questa sia la fonte adeguata ad affrontare l’emergenza. Si pone, certo, la necessità di garantire, entro i termini previsti dalla Costituzione, la conversione in legge, consentendo la partecipazione dei parlamentari ai lavori delle Camere. Sul quomodo, è in corso una discussione: a chi ritiene che le Camere siano da convocare secondo le ordinarie procedure, si contrappone chi pensa sia possibile esercitare le tradizionali funzioni in via telematica o chi ritiene di convertire le leggi di conversione - previo accordo di tutti i gruppi parlamentati – con il voto in Commissione deliberante, così evitando di mobilitare l’intero consesso. Non può escludersi, comunque, che l’aggravarsi dell’emergenza possa eccezionalmente consentire una reiterazione dei decreti-legge, ricorrendo una di quelle ipotesi già immaginate dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 360 del 1996 (che fece riferimento ai «nuovi (e sopravvenuti) presupposti straordinari di necessità ed urgenza», idonei a consentire, in via eccezionale, la riproposizione di decreti-legge non convertiti).
Giorgio Lattanzi:
Ho già indicato quelli che a mio avviso sono i punti di riferimento, sia per quanto concerne i diritti sacrificati, sia per quanto concerne la possibile legittimità del sacrificio.
Gabriella Luccioli:
Come già ricordavo, l’art. 16 della Costituzione pone come uniche possibili limitazioni alla libertà di circolazione e di soggiorno di ogni cittadino quelle stabilite dalla legge in via generale per motivi di sanità o di sicurezza; l’art. 17 dispone all’ultimo comma che le riunioni in luogo pubblico possono essere vietate dall’autorità solo per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica.
In tali ambiti e in presenza delle suindicate specifiche finalità si configura il potere di porre limiti all’esercizio dei diritti fondamentali di movimento e di riunione: con l’intervento del legislatore attraverso provvedimenti generali nel primo caso; con il limitato potere di veto dell’autorità amministrativa nel secondo. E va sottolineato che il diritto di cui all’art. 16 è oggetto di riserva rafforzata di legge, così che è inibito al legislatore demandare ad altri il potere di regolare la materia per la quale la riserva stessa è prevista.
La libertà di movimento costituisce il valore più direttamente coinvolto nella attuale congiuntura. Si tratta di una libertà funzionale all’esercizio di molti altri diritti sanciti nella Carta, una libertà che attiene all’esistenza delle persone non soltanto nella loro dimensione individuale, ma anche nella loro appartenenza ad una comunità produttiva. In effetti il diritto di circolazione è connesso con la libertà di impresa, di conoscenza, di abitazione, di istruzione, di lavoro. La pregnanza di tale diritto trova puntuale riscontro a livello regionale nell’art. 120 Cost., che vieta alle Regioni di adottare provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose e di limitare l’esercizio del lavoro in qualunque parte del territorio nazionale.
Né può dimenticarsi che il diritto dei cittadini europei di circolazione e di soggiorno in tutto il territorio della UE è stato incondizionatamente riconosciuto nel Trattato e riaffermato nell’art. 45 della Carta.
L’esperienza inoltre ci insegna che l’essenza della democrazia nella percezione collettiva del nostro Paese non sta tanto nell’esercizio dei diritti politici, ma nella possibilità senza limiti di muoverci, di incontrarci, di viaggiare: una possibilità che esprime più di ogni altra la necessità dell’uomo di essere libero e di realizzare le sue infinite potenzialità.
Massimo Luciani:
Considerato quanto osservavo in precedenza, la risposta è semplice: l’intera Costituzione è e resta parametro (e dunque “punto di riferimento”), esattamente come lo è in circostanze ordinarie.
Come un giurista valuta la gestione dell’epidemia da parte dei pubblici poteri?
Corrado Caruso:
Rispetto all’esigenza di conciliare le esigenze del governo dell’emergenza con la tutela dei diritti fondamentali, la valutazione dell’operato del Governo, a maggior ragione a seguito del d.l. n. 19 del 2020, è a somma positiva. Tale atto ha superato alcune zone d’ombra, tra cui il pregresso richiamo all’art. 650 c.p., o l’ambigua formulazione contenuta nell’art. 2, comma 1, del d.l. n. 6 del 2020, che prevedeva come «[l]e autorità competenti [potessero] adottare ulteriori misure di contenimento e gestione dell'emergenza, al fine di prevenire la diffusione dell'epidemia da COVID-19 anche fuori dai casi di cui all'articolo 1, comma 1». Tale disposizione ha legittimato una serie di fughe in avanti da parte delle autorità locali e – soprattutto – regionali, che hanno adottato provvedimenti più restrittivi rispetto a quanto previsto a livello nazionale (ad esempio, le ordinanze di Piemonte e Lombardia concernenti gli studi professionali), con conseguente incertezza circa le regole da seguire. L’art. 3 del d.l. n. 19 del 2020 ha ora ammesso che le Regioni (non gli enti locali) possano adottare ordinanze più restrittive «esclusivamente nell'ambito delle attività di loro competenza e senza incisione delle attività produttive e di quelle di rilevanza strategica per l'economia nazionale», facendo contestualmente salvi i provvedimenti precedenti all’entrata in vigore del d.l.
È stato così riconosciuto alle Regioni un certo margine di azione, garantendo la flessibilità nell’azione dei livelli di governo necessaria ad affrontare il fatto emergenziale da affrontare. Resta fermo che l’intervento regionale è consentito in quanto espressamente autorizzato dallo Stato ed entro i limiti posti dal legislatore statale: non può discutersi che gli interessi toccati dall’emergenza, la sua diffusione sull’intero territorio nazionale interessino competenze dello Stato che vanno dalla «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali» (art. 117, secondo comma, lett. m) Cost.) ai principi fondamentali in materia di tutela della salute (art. 117, terzo comma, Cost.).
Quanto al sostegno al lavoro e alle attività produttive, le misure di sostegno per le famiglie, i lavoratori e le imprese (d.l. 2 marzo 2020, n. 9), e il “reddito di emergenza” recentemente varato rappresentano prime risposte ai problemi sociali innescati dall’epidemia.
Giorgio Lattanzi:
Credo che occorra fare una distinzione tra il contenuto dei diversi provvedimenti adottati per fronteggiare la pandemia, con i relativi sacrifici imposti, da un lato, e la forma in cui tali provvedimenti sono stati adottati, dall’altro. In generale mi sembra che la compressione di diritti fondamentali non possa avvenire in un modo così invasivo attraverso fonti diverse da quella legislativa. Né per legittimare la congerie anche contraddittoria di provvedimenti del Presidente del Consiglio dei ministri, di singoli ministri, di presidenti di regioni o di sindaci che incidono su diritti fondamentali possono bastare le disposizioni di un decreto legge che in modo generico attribuisce poteri in tal senso. Aggiungo che fino ad oggi il Parlamento è rimasto sostanzialmente assente invece di svolgere la sua funzione di controllo sul Governo e di intervenire in sede di conversione del decreto legge n. 6 del 2020 per eliminare i vistosi difetti dai quali era affetto.
In una situazione di emergenza come quella che stiamo vivendo il Parlamento dovrebbe costituire un punto di riferimento per il Paese, anche se le sue riunioni potrebbero essere rischiose per i parlamentari presenti. Invece l’istituzione è stata assente mentre, attraverso i mezzi di comunicazione e i social, sono presenti anche in modo ossessivo i leaders dei vari partiti, con discorsi e dichiarazioni spesso divisivi, dei quali si farebbe con piacere a meno.
Il d.l. n. 6 del 2020, che ha costituito la base per la congerie di provvedimenti emessi, ai vari livelli, fino all’entrata in vigore del d.l. n. 19 del 2020, era destinato a disciplinare gli interventi nelle cosiddette zone rosse ma poi è stato discutibilmente posto a fondamento dei decreti del Presidente del Consiglio che si sono susseguiti per porre limitazioni sempre più stringenti in tutto il Paese, così come è stato posto a base dei provvedimenti delle autorità delle più diverse regioni italiane. Decreti, i primi, di cui il Presidente del Consiglio inopportunamente ha anticipato i contenuti limitativi prima ancora che venissero pubblicati, inducendo così le persone a fare subito quello che si voleva loro impedire.
Attraverso la televisione abbiamo visto la folla di persone che si sono affrettate a lasciare le città dalle quali invece non si sarebbero dovute muovere, ad affollarsi nelle stazioni e sulle strade, con elevate possibilità di contagio, per ritornare nei luoghi di residenza, con il rischio di portare qui il virus di cui tali luoghi ancora erano immuni.
E il d.l. n. 6 del 2020 non solo ha consentito, oltre che al Presidente del Consiglio, ad altre autorità l’adozione di vari tipi di provvedimenti incidenti fortemente su diritti fondamentali, specificati nell’art. 1, comma 2, ma ha aggiunto all’art. 2 che «Le autorità competenti possono adottare ulteriori misure di contenimento e gestione dell’emergenza al fine di prevenire la diffusione dell’epidemia da COVID-19 anche fuori dei casi di cui all’articolo 1, comma 1» riconoscendo così alle autorità amministrative un generico potere di disporre, come poi è avvenuto, anche limitazioni di diritti fondamentali che avrebbero dovuto eventualmente essere adottate con legge o comunque non sulla base di una generica attribuzione di potere.
Il più recente d.l. n. 19 del 2020 ha abrogato il d.l. n. 6 del 2020, facendo salve solo alcune marginali disposizioni, e ha adottato una normativa un po’ meno disinvolta, ma è rimasto, di dubbia costituzionalità, il potere incisivo anche sui diritti fondamentali riconosciuto alle autorità amministrative, oltre al potere, limitativo della libertà personale, di applicazione della quarantena precauzionale (art. 2, comma 1, lett. d) e di allontanamento dalla propria abitazione (art. 2, comma 2, lett. e).
Queste sono misure limitative della libertà personale che dovrebbero avere una disciplina specifica, compatibile con l’art. 13 Cost., «una disciplina dei presupposti di applicazione e della relativa procedura, che preveda appunto una convalida giudiziale, pur semplificata (attraverso un procedimento telematico)»; una disciplina che nel decreto-legge manca e che «non può certamente essere affidata a un d.p.c.m., pur nella situazione di emergenza in atto» (Gatta). È da osservare inoltre che all’inosservanza di tali disposizioni sono collegate delle sanzioni: una di natura amministrativa, quella relativa alla lettera d), e una di natura penale, quella relativa alla lettera e), e c’è da chiedersi se la loro applicazione potrà resistere al momento del controllo giurisdizionale.
Gabriella Luccioli:
È una domanda complessa, cui non è facile dare una risposta netta.
Innanzi tutto va rilevato che la molteplicità e la diversità delle misure adottate dai rappresentanti degli enti locali, oltre ad offrire un quadro scomposto e disorganico, finisce con il costituire un elemento di destabilizzazione e di confusione per la collettività. È certamente vero che le statistiche rivelano grandi difformità nella diffusione del contagio e nel numero dei morti e dei guariti nei vari territori, così come è vero che diverse sono le potenzialità delle rispettive strutture sanitarie, ma è altrettanto vero che quando sono in gioco le libertà personali e la loro limitazione i parametri costituzionali di riferimento restano identici per tutti i cittadini. Non senza considerare sul piano concreto che il proliferare di tanti provvedimenti a livello locale sembra esprimere la presunzione di tanti amministratori di fare da soli, innalzando muri interni non sufficienti ad arginare il propagarsi dell’epidemia.
Non può inoltre non osservarsi che le misure adottate si rivelano gravemente discriminatorie nei confronti di classi di persone. Penso ai bambini di famiglie povere, costretti a passare lunghe giornate nei limiti ristretti delle mura domestiche, penso a tante scuole non attrezzate a fornire lezioni da remoto, con grave danno per gli alunni che le frequentano, penso agli anziani, spesso costretti in solitudine ad affrontare difficoltà che non sono in grado di superare, penso a chi non ha casa, a chi non ha tutele nel lavoro, penso alla realtà dei detenuti, non protetti dalle misure di sicurezza previste per gli altri cittadini: come si afferma efficacemente in Argentina, la romantizaciòn de la cuarantena es privilegio de clase!
Ed ancora, la circostanza che i provvedimenti adottati si fondino su paradigmi scientifici suggeriti da comitati di esperti non esclude la necessità di un riscontro e di un controllo sulle modalità di nomina e sulla validità delle soluzioni prospettate in termini di proporzionalità e adeguatezza, anche in ragione delle divergenze emerse tra gli scienziati sulla natura del virus e sulle strategie più opportune per debellarlo. Se è vero che l’epidemia si combatte con la scienza, è altrettanto vero che anche il dibattito scientifico deve svilupparsi secondo linee controllabili. Va tuttavia dato atto alla politica di aver optato per una strategia che fa leva sul principio di solidarietà, ancorata ad una corretta accezione del diritto alla salute configurato dall’art. 32 Cost. e consapevole che l’appartenenza ad una comunità deve prevalere sull’individualismo, chiaramente ben lontana da quella strategia, adottata da altri Paesi, ispirata dal calcolo bruto tra costi e benefici e dal rifiuto preconcetto di misure troppo restrittive, ritenute dannose per l’economia.
Massimo Luciani:
Difficile dire se i “tempi di reazione” siano stati adeguati, per quanto sia evidente che il nostro Paese ha fatto più d’altri lezione delle esperienze già maturatesi. Semmai, balza agli occhi il ritardo di risposta nel settore dello sport agonistico, in particolare in quello del giuoco del calcio. Incomprensibili rimpalli di competenza fra istituzioni politiche e istituzioni di governo dello sport (incomprensibili perché le prime avrebbero potuto sempre intervenire autoritativamente, come in effetti sono poi intervenute) hanno fatto sì che si siano consentite occasioni di contatto di massa che potevano essere evitate (fermo restando che, allo stato, non è dato sapere se, in effetti, al rischio abbia fatto seguito anche l’effettivo pregiudizio).
Dubbi, semmai, ci sono sulle strategie comunicative. I titolari di funzioni costituzionali dovrebbero annunciare misure di grande portata sulla vita dei cittadini una volta che sono state scritte e sono già nelle rotative dell’Istituto poligrafico dello Stato, non quando sono ancora in itinere. E sarebbe molto utile che ai cittadini venisse distribuita, foss’anche solo indicando dove reperirla sui siti istituzionali, una documentazione completa e sempre aggiornata, che indicasse i dati scientifici, quelli statistici ed epidemiologici, il vademecum di comportamento, etc.
Sul piano della risposta giuridica, c’è stato talora un progressivo e opportuno affinamento (come nel campo della giustizia) e talaltra (come - abbiamo visto - nella disciplina dei rapporti fra livelli di governo) un peggioramento della tecnica normativa. Complessivamente, però, la “catena normativa” è stata rispettata (dichiarazione dello stato di emergenza nazionale ai sensi dell’art. 24 della l. n. 1 del 2018; decreto legge; provvedimenti amministrativi attuativi) e la definizione delle fattispecie è diventata progressivamente più precisa.
Quali gli spazi per una riprogettazione dell’immediato futuro?
Corrado Caruso:
La limitazione delle libertà è collegata a doppio filo alla dimensione dell’emergenza. Per questo la compressione è temporanea (i termini di efficacia delle misure sono indicati nei diversi provvedimenti) e giustificata sino a che la curva epidemica sia in crescita e il tasso di contagi stabilizzato. Di fronte a un progressivo calo di trasmissioni o a una perdita di virulenza della malattia, sarà necessario un progressivo alleggerimento delle misure e persino una loro progressiva applicazione selettiva (nei confronti di soggetti contagiati o a rischio contagio).
Da questo punto di vista, il cd. contact tracing può essere una risposta. Alcuni dei dati necessari per simile operazione sono già in possesso delle multinazionali digitali: non mi pare vi siano particolari problemi a vederli utilizzati, nel prossimo futuro, dal potere pubblico per finalità strettamente necessarie alla tutela della salute, attraverso modalità previste dalla legge che ne garantiscano la anonimizzazione e con la supervisione del Garante della Privacy.
In ogni caso, la prospettiva più difficile che ci troveremo ad affrontare attiene alla dimensione economico-sociale. Un simile blocco delle attività produttive avrà effetti per molti anni a venire, richiedendo imponenti iniezioni di liquidità difficilmente sostenibili da uno Stato come il nostro, altamente indebitato e privo del potere di battere moneta. Per tale ragione, l’attuale discussione sui margini di intervento delle istituzioni europee (tramite gli acquisti della Banca centrale europea o attraverso la creazione di un fondo che emetta strumenti obbligazionari garantiti dagli Stati) non riguarda solo il futuro dell’Unione come soggetto istituzionale ma concerne anche il common welfare dei popoli europei e le future condizioni di vita di tutti noi.
Giorgio Lattanzi:
Credo che nel futuro non potrà mancare una legge che riconsideri le norme oggi in vigore e disciplini compiutamente, in modo conforme alla Costituzione, le situazioni di emergenza, alla luce dell’attuale esperienza e delle indicazioni della Corte costituzionale che verosimilmente non mancheranno.
Gabriella Luccioli:
Una limitazione così forte dei diritti costituzionali può essere accettata soltanto per un tempo limitato. La costrizione imposta alle nostre libertà con la perentorietà della formula state a casa, individuata come fondamentale mezzo di tutela della salute di ciascuno e di tutti, non può non assumere carattere eccezionale, così che il venir meno della sua essenzialità una volta azzerato o circoscritto il pericolo del contagio varrà immediatamente a deprivarla di ogni legittimazione giuridica e consentirà di riespandere automaticamente il regime di ordinaria legalità. È questo un passaggio ineludibile perché i fondamenti democratici del nostro ordinamento rimangano intatti. Il successivo percorso verso la normalità, che non sarà breve e che certamente richiederà gradualità ed attenta modulazione degli interventi, potrà essere gestito attraverso i tradizionali strumenti legislativi ed organizzativi.
Finita l’emergenza, occorrerà verificare lo stato di salute del nostro sistema democratico ed impegnare il Parlamento perché altre future emergenze siano affrontate sulla base di un quadro normativo certo e puntuale, che non consenta più sconfinamenti dell’esecutivo sul legislativo, che definisca i poteri dell’autorità centrale e gli ambiti di intervento di quelle territoriali, fissando ruoli, competenze e procedure da seguire, che individui momenti di cooperazione tra le istituzioni, che delinei strumenti di controllo. Il nostro far parte di una società globale del rischio ci imporrà infine di attrezzarci a gestire i pericoli e le insidie della globalizzazione garantendo un livello accettabile di tutela ai diritti fondamentali nel rispetto delle norme costituzionali, della normativa europea e delle convenzioni internazionali.
Massimo Luciani:
Gli spazi sono enormi e quel che dicevo in precedenza fa intendere in che direzione, personalmente, auspicherei che ci si muovesse. Lo espliciterò, comunque, senza giri di parole.
Sul piano culturale, sarebbe il tempo di abbandonare le illusioni dell’irenismo costituzionale che ha cercato di far credere che ogni problema giuridico possa risolversi sulla scorta dell’aristocratico “dialogo fra le Corti” e che la questione del rapporto fra diritto e forza possa essere rimossa.
Sul piano economico, sarebbe il tempo di rompere al più presto la gabbia (disegnata da un miope neoliberismo) costruita dalle astratte regole della stabilità finanziaria europea e agire per il ripristino dei margini di una vera politica economica (che non vuol certo dire “finanza allegra”), nel contesto di un rafforzato solidarismo fra i popoli europei.
Sul piano politico, sarebbe il tempo di sfuggire all’inesistente alternativa tra sovranismo e cosmopolitismo e agire per la costruzione di un ordine internazionale in cui, se non l’impegno morale, almeno il giuoco degli opposti egoismi e interessi producesse un nuovo equilibrio, entro il quale la razza umana possa vivere, non semplicemente sopravvivere, senza rischiare di estinguersi per la propria stessa dabbenaggine.
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L’ampiezza delle considerazioni degli intervistati offre molti spunti.
Se l’assoluta priorità, in questo momento, è il superamento dell’offensiva del contagio con un impegno e con soluzioni senza precedenti, fin d’ora possiamo almeno tentare di mettere contemporaneamente in sicurezza qualcuno di quei valori che fino a ieri avevamo dati per scontati, per evitare che, passata o attenuata la furia dell’uragano che ancora imperversa, non ci sia più nulla da ricostruire; per attenuare il pericolo che in modo più o meno cosciente si sia minato per sempre il suolo su cui riedificare la nostra civiltà del terzo millennio; che, avvelenati i pozzi, siano irreversibilmente cambiate, col modo stesso di intendere la socialità e le modalità della convivenza quotidiana, anche le Costituzioni.
Ci deve essere di monito l’esempio di vicine realtà di democrazie più giovani e fragili della nostra, dove l’emergenza sanitaria è stata chiaramente eretta a pretesto per una compressione senza precedenti delle libertà fondamentali ed inviolabili.
Quando già il “picco” della pluriennale pandemia terroristica era nella sua fase discendente, avendo toccato il suo acme nella notte della Repubblica del 1978 e poi iniziato il suo declino coi sequestri di alti ufficiali militari alleati, per entrare in magistratura fu necessario affrontare, col tema scritto di diritto amministrativo, una riflessione su: “I diritti di libertà del cittadino. Ammissibilità e limiti dei poteri restrittivi della pubblica amministrazione; tutela giurisdizionale del privato”.
Curiosamente, dopo trentotto anni, quelle riflessioni tornano di stringente attualità, in un contesto sociale globale di inaspettata e sconvolgente novità: la brutalità del dilemma che ci ha piazzato davanti con imprevedibile repentinità questa pandemia è infatti l’alternativa tra la salute di tutti e i diritti fondamentali di ognuno.
E, come latente anch’esso al pari di questo maledetto contagio, c’è il rischio che, insieme al sovvertimento del nostro modo di vivere e di convivere, possa esserci quello del nostro sistema di valori e di libertà.
Il fenomeno cui ci si trova di fronte ha precipitato in poche settimane l’intera civiltà in condizioni radicalmente diverse da quelle dell’Italia e di una parte della civiltà occidentale alla fine degli anni Settanta del secolo scorso: la minaccia di un sovvertimento violento delle istituzioni e delle costituzioni materiali era dovuta all’azione organizzata dell’uomo e non al radicale cambiamento di tutte le sue ordinarie modalità di convivenza imposte da un evento sanitario al di là di ogni previsione.
Questo può giustificare forse risposte più incisive rispetto agli Anni di Piombo e nonostante i rischi di involuzione autoritaria che furono corsi all’epoca, quando pure fu infine condivisa la conclusione dell’assoluta abnormità dell’aggressione ai diritti fondamentali di libertà, definiti inviolabili dalla nostra Carta fondamentale, ad opera della Pubblica Amministrazione.
Oggi è, obiettivamente, diverso e molto si può comprendere quale tentativo scomposto di far fronte ad una situazione priva di precedenti nella storia.
Ma occorre domandarsi fino a che punto possono spingersi l’inesperienza e la sincera volontà di sconfiggere il contagio e di conquistare le condizioni per conviverci stabilmente.
Ci si deve chiedere se l’Italia abbia posto in campo soluzioni adeguate, tanto a livello di rapporti col Parlamento che in ordine ai diversi livelli di governo; se l’interazione tra diritti fondamentali, molti dei quali definiti inviolabili dalla Costituzione, abbia sempre rispettato i principi di adeguatezza e proporzionalità e le garanzie procedimentali costituzionalizzate; se gli interventi normativi a livelli spesso eccessivamente differenziati siano avvenuti, sia pure con la necessaria flessibilità indotta dalla peculiarità di un’emergenza in tumultuosa e imprevedibile evoluzione, con altrettanta chiarezza.
Ci si deve interrogare sull’esistenza di una gerarchia di valori all’interno della Costituzione e, quindi, di una pretesa primazia del diritto alla vita ed alla salute, in nome del quale limitare – sia pure solo in via temporanea – alcuno degli altri, anziché dell’indispensabilità del riferimento alla nostra Carta fondamentale; ed in questo quadro occorre verificare la tenuta dell’imprescindibilità dei diritti inviolabili garantiti comunque e, quindi, anche in tempi di emergenza, salve le sole limitate e precise deroghe imposte da questa.
Rimane poi un capitolo tutto da scrivere quello del futuro di questa nostra società e, nel suo seno, dei rapporti tra diritto e forza, soprattutto una volta perdute da questa, nella sua manifestazione economica immediata, ogni sovrastruttura idealistica e tutte le remore o cautele formali: un ambito nel quale, abbandonati atteggiamenti autoreferenziali, il giurista di questo millennio può avere ancora un ruolo importante.
Insieme, ci si può forse augurare di lavorare, condividendo quest’utopia, per una solidarietà concreta ed effettiva, in una cornice minimale di sicurezza intesa non più quale coppia dialettica protezione-prevaricazione, ma quale espressione di un diritto che sappia rendere davvero effettive, con serietà ed all’occorrenza con rigore, le tutele promesse, a presidio dalla prepotenza della forza bruta, economica o ideologica o altro: una condizione di partenza affinché ognuno possa ancora, pure cambiate le regole dell’interazione coi suoi simili ed accettato perfino un distanziamento fisico permanente, perseguire i suoi obiettivi di evoluzione e soddisfazione che non siano in contrasto con quelli degli altri, in una reciproca limitazione, nel reciproco rispetto.
[i] Corrado Caruso, professore associato di diritto costituzionale all’Università di Bologna - Alma Mater Studiorum,
Giorgio Lattanzi, presidente emerito della Corte costituzionale,
Gabriella Luccioli, presidente onorario emerito della Corte di cassazione,
Massimo Luciani, professore ordinario di diritto costituzionale all’Università di Roma La Sapienza
L'Italia delle stragi, a cura di Angelo Ventrone
recensione di Philip Willan
Il cinquantesimo anniversario della strage di Piazza Fontana ha portato un profluvio di libri sul periodo della strategia della tensione in Italia. Fra i più interessanti è "L'Italia delle stragi", scritto da sette magistrati che hanno indagato sul terrorismo in quell'epoca (Pietro Calogero, Leonardo Grassi, Claudio Nunziata, Giovanni Tamburino, Giuliano Turone, Vito Zincani, Giampaolo Zorzi) e curato da Angelo Ventrone.
Il libro si pone l'obiettivo di chiarire "cosa possiamo dire di sapere con certezza dopo così tanto tempo, quali sono le verità raggiunte e le piste che ancora si possono aprire." Gli attentati di destra hanno provocato 135 morti e circa 560 feriti, un numero di vittime senza paragone in altri paesi occidentali, con l'eccezione del terrorismo separatista e nazionalista in Spagna ed Irlanda del Nord.
Ventrone segnala nella sua introduzione i risultati altalenanti dei processi e il ruolo dei depistaggi, che hanno creato l'impressione che non si è riuscito a scoprire i responsabili delle stragi. Per molti non era ancora chiaro se i tentativi di golpe fossero "colpi di Stato da operetta" oppure "qualcosa di molto serio e minaccioso."
Invece i risultati delle inchieste della magistratura sono andati oltre quello che viene spesso percepito dall'opinione pubblica. "Se non sempre sono riuscito a trovare le prove definitive per individuare i singoli colpevoli, hanno però identificato con precisione gli ambiente politici da cui la strategia eversiva è nata: i gruppi neofascisti e neonazisti, e in particolare Ordine Nuovo," scrive Ventrone.
Ha sicuramente inciso sugli eventi la scomoda posizione italiana nel quadro internazionale dell'epoca e le divisioni all'interno dello stato sul percorso da seguire, divisioni che hanno portato a complicità fra rappresentanti dello stato ed eversori. "Lo Stato si mostra quindi internamente diviso tra chi incoraggia e favorisce i terroristi, e chi li persegue," osserva Ventrone. E conclude: "Certo, c'è ancora molto da fare, in particolare, continua a sfuggire il ruolo degli attori internazionali."
Gli ostacoli che hanno frenato il lavoro dei magistrati inquirenti sono forse difficili da immaginare oggi. Il depistaggio era spesso intrinseco all'ideazione delle stragi, data la volontà dei perpetratori di fare cadere la colpa su i loro nemici politici, la sinistra o gli anarchici. Le inchieste sono poi state intralciate da servitori infedeli dello stato fra i ranghi della polizia, i carabinieri e i servizi segreti, e, in qualche caso, anche dei magistrati.
Per Pietro Calogero, il Sifar del Gen. Giovanni de Lorenzo era "una sorta di succursale della Cia e il gestore degli interessi del governo Usa nella guerra al Partito comunista e ai movimenti di sinistra in Italia." Federico D'Amato, dalla parte del Viminale, era pienamente impegnato, per conto della loggia P2, nell'attuazione di un "programma di guerra non ortodossa contro il comunismo", mentre intratteneva stretti rapporti con la rete informativa dei paesi dell'Occidente e, in modo particolare, con la Cia.
Nel suo capitolo sulla strage dell'Italicus, Leonardo Grassi segnala il ruolo depistante di Mario Marsili, pm ad Arezzo, genero di Licio Gelli, e piduista. Marsili riceve dichiarazioni da una testimone importante, Alessandra De Bellis, che accusa suo marito, Augusto Cauchi, di aver svolto un ruolo nella strage. "Per invalidare le sue accuse contro Cauchi, la De Bellis viene sottoposta a devastanti trattamenti psichiatrici che una successiva perizia ha rivelato essere stati del tutto incongrui," scrive Grassi. Due dei ricoveri della donna coincidono con i tempi in cui il giudice istruttore di Bologna, Vito Zincani, ne ha richiesto la testimonianza.
In un capitolo sull'attentato alla stazione di Bologna, lo stesso Zincani ricostruisce un episodio grottesco che ha riguardato Valerio Fioravanti, l'esponente dei Nar condannato per la strage. Durante il servizio militare Fioravanti trafuga 144 bombe a mano da usare per attentati dinamitardi. "Benchè sia emerso che i Servizi segreti fossero perfettamente al corrente che autore del clamoroso furto era Valerio Fioravanti, nulla viene fatto per rintracciare le bombe e impedire che siano utilizzate," scrive Zincani.
"La vicenda ha dell'incredibile," aggiunge. "Fioravanti, infatti, viene processato e condannato a soli 8 mesi di reclusione con i doppi benefici di legge, unicamente per furto d'uso militare (per aver cioè utilizzato indebitamente nel trasporto delle bombe la Campagnola dell'esercito) e per violata consegna. E quindi lasciato libero di fare uso degli ordigni a proprio piacimento."
Il clima ostile nei confronti degli investigatori viene sottolineato da Giuliano Turone nel suo racconto su "P2 e destra eversiva". Avendo lavorato troppo bene, la Commissione parlamentare sulla P2 non viene rinnovata dopo la pubblicazione della sua relazione nel 1984 e la sua presidente, Tina Anselmi, viene emarginata dalla vita politica. "Nelle successive elezioni politiche, infatti, il suo partito (la Dc) la inserirà volutamente in un collegio perdente," scrive Turone.
Nella sua interessante riflessione sulla Rosa dei Venti, l'organizzazione eversiva da lui scoperta nel 1974, Giovanni Tamburino accenna alla possibilità che chi ha destabilizzato l'Italia per creare quella che Ventrone chiama una "democrazia blindata" abbia passato come strumento dalla destra eversiva all'estremismo di sinistra. Cita una lettera del 18 marzo 1973 a Dario Zagolin, un collaboratore del Sid che utilizzava una società padovana di cosmetici per finanziare la sua rete di informatori.
Zagolin ha stretti rapporti con la Rosa dei Venti e golpisti genovesi, e la missiva riferisce a un "accenno alla concorrenza" in notizie precedentemente fornite. "Ritengo sia meglio accellerare i tempi," scrive l'interlocutore, che si firma con una sigla indecifrabile. Per Tamburino quella "concorrenza" potrebbe riferirsi all'azione sempre più cruenta delle nuove Brigate rosse.
"'Concorrenza' non significa altro che la possibilità di rivolgersi ad altri gruppi da utilizzare per la stessa, irrinunciabile, strategia," scrive il magistrato. "E dunque comprensibile perchè dalla metà del 1974 venga inaugurata una piu sofisticata linea volta a usare le formazioni dell'estrema sinistra in funzione anticomunista." Si tratta di un "cambio di spalla del fucile, dalla destra alla sinistra".
Per Tamburino questo cambiamento di linea è culminato nell'operazione che ha portato all'eliminazione delle idee politiche di Aldo Moro. In un secondo intervento, sul golpe bianco di Edgardo Sogno, osserva: ""La linea concorrenziale condurrà nel marzo 1978 all'uccisione del politico italiano che aveva aperto il dialogo con il Partito comunista." Il progetto originalmente concepito da Sogno, un eroe della Resistanza al nazifascismo che si è dedicato nel dopoguerra al conflitto globale contro il comunismo, "si realizzerà per altra via".
Tamburino suggerisce che ci siano altri fattori, oltre alla politica e l'ideologia, dietro l'uso della violenza terrorista. Tra questi la massoneria e gli interessi economici, ambedue più resistenti nel tempo della politica nell'occupazione del potere. "Sono i grandi interessi economici che conducono a uccidere, a fare le guerre e a realizzare le stragi," osserva. "Troppe volte si è andati infatti alla ricerca della logica del terrorista piuttosto che verificare l'interesse economico retrostante. La domanda 'perchè si uccide?' va spesso tradotta nella domanda 'chi paga per uccidere?'"
Il libro racconta le vicende dei protagonisti del terrorismo e delle forze occulte, anche internazionali, che gli stavano dietro. Vale però la pena di ricordare il clima di violenza spicciola che sottostava agli atti di terrorismo omicidiario e ne offriva il brodo di cultura. La normalità della violenza politica in quell'epoca è messa in evidenza dallo storico Miguel Gotor nel suo libro "L'Italia nel novecento". Sullo sfondo delle azioni eclatanti c'era un interminabile sequela di scontri di strada che lasciavano i parenti "straziati dal dolore, il più delle volte, alla vana ricerca, ormai da decenni, di verità e giustizia."
La mancata chiarezza su quei fatti, secondo Gotor, è stato un fallimento della magistratura e della società, spesso segnato dall'omertà e dalla reticenza di vittime e testimoni. La consequenza è stata un riflusso nel privato e un rifiuto dell'impegno politico o sociale a favore della collettività. "Quelle migliaia di azioni, pressochè quotidiane, sgorgarono da una pratica della violenza politica senza uguali nelle democrazie occidentali e formarono un interminabile e tragico coro di sottofondo, che accompagnò lo stragismo neofascista e gli attentati in serie del "Partito armato", aumentando a dismisura il livello della destabilizzazione in atto e il sentimento di insicurezza psicologica e sociale dei cittadini e delle famiglie italiane," scrive.
I cattivi maestri e i burattinai avranno esasperato ancora di più quelle anime, ma non potevano scrivere certe pagine di sangue senza la partecipazione volenterosa di molti burattini, disposti a prendere a legnate il nemico politico. Il tutto scivolando inesorabilmente verso gli esiti di morte ricercati da chi manovrava dietro le quinte.
Scritta da esperti con esperienza di prima mano, "L'Italia delle stragi" avvicina la documentazione giudiziaria alla storiografia per aumentare la nostra comprensione di un periodo eccezionale - quindici anni di attività cospirative - che non ha paragoni in altre democrazie occidentali. Un capitolo scritto da Guido Salvini, un magistrato al centro di polemiche vivaci e scoperte fondamentali, l'avrebbe forse arricchito ancora di più.
Un libro analogo sulla manipolazione del terrorismo di sinistra, scritto dai magistrati che hanno indagato sul campo, sarebbe un'altra bella sfida. Una vicenda forse ancora più complessa, fatta di tradimenti, ricatti ed inganni, servirebbe a riempire un altro buco nella storia misteriosa dell'Italia del secolo scorso. Passato abbastanza tempo, il ruolo delle due superpotenze, Stati Uniti ed Unione Sovietica, potrebbe forse finalmente essere raccontato, per una storia di ideali stravolti dal realpolitik rivoluzionario.
Informazione e comunicazione: tra reattività e riflessione di Bruno Montanari
Al tempo del “coronavirus” il tema dell’informazione mostra tutta quella sua intrinseca valenza, che in tempi meno apparentemente “contagiosi” sembra non richiamare la medesima attenzione. Segnalo che già in questo secondo rigo della proposizione di esordio ho usato una espressione giocata su quel profilo dell’immediatezza reattiva che l’informazione, non da oggi, prevalentemente insegue; l’espressione è: “meno apparentemente contagiosi sembra…” segnata dall’avverbio “apparentemente” e dal verbo “sembra”.
E’ sull’apparire e sul sembrare, entrambi verbi che incarnano la contingenza, che si determina quell’immediatezza reattiva che l’informazione oggi affida al “linguaggio”; da qui una prima chiarificazione, destinata a distinguere le finalità dei processi comunicativi in generale. Mi spiego.
Ho parlato di “linguaggio” e non di “parola”; tra i due termini vi è differenza. La “parola” è ciò che innerva il pensiero, così come la figura antica e classica del Logos suggerisce. Altra cosa è il “linguaggio”, che è costituito da sequenze di parole, o in quanto insiemi grammaticali idonei all’argomentazione, o, anche, come semplici emissioni sonore, dotate però di capacità suggestiva atte quindi a indurre reattività. Più si assottiglia la “parola”, come luogo di concretizzazione del pensiero, più si accresce la forza suggestiva dei linguaggi. Le tecnologie comunicative, che vanno diffondendosi, proprio a causa della loro struttura ingegneristica, operano percorsi linguistici, linguaggi, che esse stesse organizzano, sempre più suggestivamente efficaci, che annientano la “parola” come consustanziale al pensare ed al “pensiero”. Un linguaggio funzionale a stimolare la reattività si muove sul piano della immediatezza e, sostituendosi al pensare, annulla la categoria della “temporalità”. Ne segue che l’a-temporalità, che ne costituisce il modello espressivo, prende il posto che la temporalità del pensare avrebbe nel decidere e nell’agire di ciascuna persona, destinataria del linguaggio e fruitore dell’informazione in esso contenuta. L’attuale tecnologia comunicativa colpisce direttamente, infatti, le persone, cogliendole nella loro singolarità, e intercettandone im-mediatamente le istanze, i bisogni, i disagi, le paure… Ciò che viene investito e manipolato in maniera anche inavvertita e subliminale è quello spazio di vita che possiamo definire l’ “orto di casa”: quel mondo del quale ciascuno di noi vuole mantenere il controllo, pena lo spaesamento e l’insicurezza. L’effetto è duplice: la sostituzione del c.d. “impatto”, che si concretizza nella “immediatezza” della reattività, alla “lentezza” del pensiero (l’espressione è il titolo di un libro del 2014 di Lamberto Maffei, Elogio della lentezza, Il Mulino, Bologna) e il liquefarsi di ogni spazio relazionale e associativo, come momenti esistenziali di compensazione ed elaborazione della solitudine e del ragionamento. Tutto si risolve in una rete di segnali brevi, che arrivano in modalità reattiva, creando, a livello del proprio privato, l’illusione della “amicizia”; illusione, appunto, poiché non vi sono occhi che si guardano né sonorità di voci che si intrecciano. Al cospetto di un like ognuno resta stretto nella propria singolarità e con la personale solitudine di vita. Maffei insegna che la tecnologia dell’impatto e dell’immediatezza modifica il funzionamento delle aree cerebrali, mettendo a riposo quelle che presiedono al pensiero. Nasce così quella che altrove ho definito l’epoca del “post-pensiero”, nella quale lo smartphone ed il cane-giocattolo hanno preso il posto degli occhi e della voce dell’altro e degli altri.
Ho ritenuto di svolgere questa premessa per mettere in luce su quali aspetti di fondo, propri della struttura linguistica dei messaggi, occorra riflettere quando si parla di comunicazione, prima ancora dei consueti profili della libertà dell’informazione e del diritto-dovere di fornirla da parte degli addetti ai lavori.
Alla questione della “struttura linguistica” ne segue una seconda, anch’essa preliminare agli aspetti “normativi” e che in qualche misura dovrebbe orientarli, perché va ad incidere non sulla modalità espressiva, ma più direttamente sui “contenuti”; anche se “modalità espressiva” e “contenuti” sono interdipendenti.
“Informare” vuol dire “mettere in forma” o “dare forma” ad un “qualcosa”, che può essere un evento della natura, un pensiero, un discorso, uno scritto e così via. Il primo elemento è dunque la centralità costitutiva della “forma”: se la “cosa” non si mostrasse in virtù di una forma non sarebbe osservabile e, poi, leggibile e nel caso comunicabile. Dunque informare significa mettere in forma un “qualcosa” che ha già una sua forma. E’ quanto sperimenta quotidianamente il mondo del diritto con la forma che costituisce il tessuto normativo e, leggendolo, lo interpreta.
Proprio l’analogia con l’operazione interpretativa dei giuristi consente di mostrare i profili che strutturano i contenuti dei processi informativi. Come per l’interpretazione normativa anche l’informazione ha una struttura comunicativa ternaria: una “cosa” da comunicare, un soggetto attore della comunicazione ed un destinatario.
E’ una operazione attraverso la quale viene messa in forma quella che comunemente si chiama “realtà”, cui, altrettanto comunemente, si aggiunge l’aggettivo “oggettiva”. E’ dentro su questo meccanismo, ad un tempo comunicativo e speculativo, che occorre addentrarsi. Innanzitutto, cosa vuol dire “realtà oggettiva”? Vuol dire, nella percezione comune, che le “cose sono” o “stanno” così come vengono comunicate. Il punto, invece, è che una tale “realtà” corrisponde, come sottolineava Cassirer nelle lezioni amburghesi del ‘21 – ’22 aventi ad oggetto la relatività di Einstein, al “punto di vista” dell’attore della comunicazione, reso “oggettivo” dalla legittimazione della sua competenza o posizione professionale. In altre parole, ciò che comunemente definiamo “realtà” è sempre, di necessità, la rappresentazione di una elaborazione mentale del soggetto. Non è, infatti, la “cosa” ad auto definirsi, ma è il soggetto, che la incontra e la osserva, a rappresentarla innanzitutto a sé e poi agli altri. Ed è su questa scissione tra sé e gli altri “destinatari” che può inserirsi un processo di possibile alterazione comunicativa, nel senso che l’attore può decidere, per ragioni sue proprie, di fornire una rappresentazione diversa da quella che egli ha costruito per sé. In ogni caso, però, la “realtà” coincide comunque con una rappresentazione del soggetto; per questo i processi comunicativi hanno bisogno di riferimenti argomentativi per trovare condivisione, oltre che ascolto, ed è ancora per questo che la medesima “cosa” si offre a rappresentazioni diverse. Esattamente come l’interpretazione normativa.
Vi è poi la seconda rappresentazione, quella che si costruisce il destinatario; e questa dipende dalla forma dell’atto comunicativo. Dipende, cioè, da come l’attore della comunicazione usa il linguaggio allo scopo di mettere in forma (in-formare) quella “realtà” che intende diffondere. Per questo ho ritenuto di svolgere le osservazioni sulla funzione comunicativa affidata alla modalità linguistica, la quale, come si ricorderà, può assumere due paradigmi. Quello comunicativo-riflessivo, che Maffei definirebbe “lento”, fondato sulla argomentazione, che induce il destinatario alla riflessione razionale e critica; esercita cioè quella funzione neurale che produce il pensare (è sempre Maffei che lo spiega). E quello, oggi di moda, costruito sulla forza di impatto di termini capaci di suscitare un’ immediata re-azione nel destinatario. Si pensi, come esempio significativo, alla odierna comunicazione politica (sia nostrana che internazionale), fatta di frasi brevi, spesso icastiche ed apodittiche; prive cioè di argomentazione e totalmente assertive. Non è senza ragione che, oggi, la politica non sia più costruita con “visioni del mondo”, progetti, pensieri, e confronti dialettici, ma sulla mera contingenza, messa in forma da leaders alla testa di quelli che il linguaggio dei social definisce followers. E’ un tipo di comunicazione che costruisce una “realtà” priva della struttura argomentativa della discutibilità, poiché la contingenza, coincidendo con il darsi di una fattualità puntistica, è per sua struttura epistemologica non discutibile. E non è senza significato che tale tipo di comunicazione-informazione sia determinata contenutisticamente da esperti di linguaggi dotati di incisività immediata delle rappresentazioni prodotte. Ne segue che per loro costituzione intrinseca tali processi comunicativi aprono ad una alternativa secca: condivisione integrale o conflitto altrettanto integrale. Per questo il mondo politico è popolato esclusivamente da “capi” e “seguaci” e non da persone pensanti.
Ho cercato di descrivere, sia pure sommariamente, la struttura dei processi comunicativi che oggi costituiscono l’informazione genericamente intesa, sia quella messa in opera direttamente dal personale politico, sia quella più generale veicolata dai media. Ho soprattutto cercato di sottolineare che l’espressione “realtà oggettiva” è epistemologicamente priva di significato, poiché ogni atto umano è “per natura” soggettivo, in quanto originato dai sensi ed elaborato dal cervello di un uomo. E’ sempre, dunque, ricordando Cassirer, il “punto di vista” di un soggetto che disegna quella rappresentazione detta “realtà”.
Credo, allora, che la consapevolezza di quest’ultimo profilo sia così decisiva da chiamare in causa la responsabilità dell’attore della comunicazione; responsabilità che si coniuga con due profili: quello della libertà, poiché non si può essere responsabili se non si è liberi; e quello della onestà intellettuale, altrimenti definibile come “lealtà”, che soprattutto i protagonisti dei media dovrebbero avere a cuore. Certo, anche i destinatari dovrebbero porsi un problema che li riguarda in prima persona se vogliono avere la dignità di uomini liberi: quello di saper distinguere le “bufale” a effetto da una informazione e comunicazione che sicuramente è meno immediata ed emotivamente attraente, ma proprio per questo è capace di suscitare riflessione e pensiero; riflessione e pensiero, che non possono che essere quelli propri del soggetto che la riceve, ma giustificati e non soddisfatti da un misero, immediato e contingente like.
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