ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Contratto e Covid-19. Dall'emergenza sanitaria all'emergenza economica.
Vincenzo Roppo e Roberto Natoli
Giustizia Insieme ha il piacere di raccogliere le riflessioni di due autorevoli studiosi del diritto civile che indagano a tutto tondo il rapporto contrattuale per coglierne sapientemente la forza di resistenza, ma anche il lato più debole e vulnerabile rispetto agli effetti prodotti dall’emergenza epidemiologica.
L’analisi di Roppo e Natoli si alimenta in questo modo di contributi importanti che per un verso indugiano sulle risposte di ordine normativo della legislazione dell’emergenza per verificarne la congruità e coerenza con l’originario impianto -prevalentemente codicistico- del contratto e, per altro verso, si soffermano sul come la fissità del regolamento negoziale voluto dalle parti in una condizione di normalità possa essere messa in discussione per le sopravvenienze pandemiche per l’appunto non soltanto correlate a fattori sanitari, ma anche e soprattutto rivolte a scrutinare il mutamento di contesto economico e sociale nel quale il rapporto contrattuale è destinato a vivere.
La ricerca di risposte ulteriori rispetto a quelle che le parti avevano predeterminato, all’atto della conclusione del contratto, con un orizzonte non comprensivo dell’emergenza, volge così lo sguardo attento dei due giuristi verso altri territori che mettono in gioco le categorie giuridiche tradizionali, attingendo ai principi costituzionali, croce e delizia dei civilisti.
In questa prospettiva, il rinvio ai canoni della solidarietà e della buona fede sembra così confermare una prospettiva che amplia il contenuto del rapporto e che, pur guardando comunque alla libertà negoziale come elemento cardine della negoziazione, affida al legislatore ed al decisore di turno ruoli e compiti di straordinaria rilevanza, mettendo non soltanto in discussione la fisionomia stessa dell’intesa e di chi è chiamato a ridefinirla, ma anche delineando una configurazione del contratto che entra in dialogo con il tradizionale dogma della «sanctity of contract».
Il tempo futuro sarà probabilmente quello in cui si misureranno le spinte che Roppo e Natoli hanno sapientemente ipotizzato, senza peraltro dimenticare che l’impianto codicistico venuto alla luce nel ’42 ha resistito, indenne, alla seconda guerra mondiale proprio attraverso l’opera adeguatrice del diritto vivente, capace di introiettare progressivamente i canoni costituzionali all’interno del contratto, offrendone una visione idonea a salvaguardare comunque i diritti della persone, oggi più che mai considerati per l’effetto concentrico prodotto dalle Carte nazionali e sovranazionali.
Il compito del giurista e del giudice si arricchirà dunque, come sempre più spesso siamo soliti constatare, di ulteriori complessità.
Forse alla teorizzazione , assai intrigante, seguirà ancora una volta un segmento non secondario che andrà lasciato ai singoli casi ed alle dinamiche che, volta per volta, consentiranno di misurare i principi, gli istituti e le categorie vecchie e nuove.
Roberto Conti
1) Qual è, a vostro avviso, l’impatto di Covid-19 sul diritto dei contratti? Si apre una stagione dell’emergenza contrattuale?
Vincenzo Roppo
Il contratto su cui l’emergenza Covid-19 impatta con il massimo di forza e di estensione è ovviamente il contratto di lavoro. L’impossibilità di rendere materialmente e materialmente ricevere nei modi tradizionali la prestazione lavorativa altera nel profondo il fisiologico svolgimento del rapporto contrattuale, inducendo laddove possibile una significativa trasformazione delle sue modalità (smart working). Per altro verso, la situazione di difficoltà economica e finanziaria in cui molte imprese si trovano (e/o si troveranno al momento della “ripresa”) minaccia di pregiudicare la continuità aziendale e con essa la conservazione del rapporto (licenziamenti), chiamando massicciamente in causa gli ammortizzatori sociali che lo presidiano. Tutto questo non in modo puntiforme, ma a scala di massa. I giuslavoristi avranno di che farsi fumare il cervello a ripensare la loro materia, ben più dei civilisti.
Quanto ai contratti di “puro” diritto civile o commerciale, direi che Covid-19 segna il trionfo dei regimi delle sopravvenienze (impossibilità ed eccessiva onerosità sopravvenuta) e dell’inadempimento.
Penso soprattutto all’inadempimento di obbligazioni pecuniarie: banalmente, le imprese che contano su flussi di cassa generati dall’attività quotidiana, nel momento in cui subiscono il blocco dell’attività e quindi il blocco dei flussi finanziari in entrata, si trovano in un difetto di liquidità che gli rende impossibile pagare i fornitori di beni e servizi. Noi insegniamo che l’impotenza finanziaria non giustifica l’inadempimento delle obbligazioni pecuniarie, assistite da un regime di responsabilità oggettiva che prescinde per definizione dalla colpa del debitore. Ma saremmo disposti ad applicare senza battere ciglio questo principio ai mancati pagamenti che ho appena richiamato? O invece la straordinarietà della “fattispecie Covid-19” ci indurrebbe a cercare vie concettuali per sfuggire al suo rigore?
Per ciò che riguarda le prestazioni contrattuali non pecuniarie, Covid-19 è la tipica “sopravvenienza” che da un lato giustifica l’inadempimento sollevando da responsabilità il debitore inadempiente, dall’altro può mettere in discussione il rapporto contrattuale: nella sua persistenza (prospettiva risolutoria) ma anche e soprattutto nei suoi contenuti (modifiche della prestazione dovuta).
Il produttore che non esegue le forniture promesse in quanto la capacità produttiva della sua impresa è azzerata per l’ordine dell’autorità che chiude le aziende, è evidentemente esonerato da responsabilità per l’impossibilità di prestare – a lui non imputabile – determinata dal factum principis. E per sapere se il contratto si scioglie o vive, si applicherà la norma sull’impossibilità temporanea (art.1256, comma 2 c.c.).
Covid-19 moltiplica altresì le fattispecie di impossibilità sopravvenuta ex latere creditoris, quando cioè la sopravvenienza mette il creditore nell’impossibilità di fruizione della prestazione: fattispecie non prevista normativamente, ma trattata in giurisprudenza secondo criteri che l’accostano alla disciplina della sopravvenuta impossibilità di prestare. Del tema si è occupato specificamente il legislatore dell’emergenza, con norme che ricorderemo più avanti.
E chissà che per certe situazioni non possa venire in gioco la vecchia buona figura della presupposizione. Penso ai contratti di locazione immobiliare. Per le locazioni abitative la pandemia valorizza la prestazione attesa dal conduttore (state tutti a casa!). Esattamente il contrario per le locazioni aziendali: se l’attività d’impresa è bloccata, il conduttore non se ne fa nulla di avere a disposizione l’immobile; e se ciononostante paga il canone, questa per lui è una perdita secca, senza corrispettivo di utilità.
Ebbene, per queste ultime non potrebbe soccorrere la presupposizione? Forse che il contratto non è stato stipulato “sul presupposto” di un impiego dell’immobile per l’effettivo svolgimento di attività produttiva? Forse che la fattispecie non è abbastanza simile ai coronation cases (locazione di finestre per assistere al corteo reale, poi cancellato per indisposizione del sovrano) che si considerano un po’ i progenitori – in ambiente di common law – della presupposizione di diritto continentale? E se si applica la presupposizione, quali le conseguenze sul rapporto contrattuale? Magari a quest’ultimo interrogativo mi capiterà di rispondere con la prossima domanda.
Infine. Nelle cronache sportive di queste settimane si è letto che Roberto Stellone, allenatore dell’Ascoli, è stato “esonerato” dalla società (e sostituito in panchina da Guillermo Abescal fino a quel momento allenatore della Primavera) con la motivazione che Covid-19 avrebbe determinato a carico della società la “eccessiva onerosità” del rapporto col tecnico. Per dare un giudizio bisognerebbe saperne di più.
Roberto Natoli
Indubbiamente sì. Covid-19 ha messo in crisi intere filiere produttive e le filiere produttive sono regolate da contratti. L’impossibilità di adempiere prestazioni contrattuali — o impedite per fatto dell’autorità, o impedite di fatto da difficoltà finanziarie impreviste e imprevedibili — ha generato un pernicioso effetto domino. L’emergenza, dunque, non riguarda il singolo contratto e sarebbe sbagliato intenderla in modo atomistico. Tanto per dire che, di fronte a un’emergenza sistemica, il diritto contrattuale è niente più che un ufficiale di complemento per un duplice ordini di ragioni. A un livello generale, perché è un diritto della microrelazione economica, tendenzialmente disinteressato all’intrecciarsi delle relazioni contrattuali tra soggetti diversi (pur se si registra qualche apertura recente, ad esempio in tema di prestiti personali finalizzati, in cui l’inadempimento del fornitore reagisce, travolgendolo, sul finanziamento: art. 125-quinquies TUB). A un livello particolare, perché, almeno nella parte generale (la disciplina dei contratti tipici è, infatti, assai più variegata), i rimedi sinallagmatici prestano poca attenzione alla “cura” del contratto, privilegiando opzioni risolutorie: di fronte all’alterazione dell’economia dello scambio (per impossibilità o per eccessiva onerosità sopravvenute della prestazione), la tradizionale risposta codicistica è nel senso di sciogliere il vincolo, piuttosto che di mantenerlo in vita, adeguandolo al mutato scenario.
Rispetto all’emergenza economica figlia dell’emergenza sanitaria generale, i contratti sono, al più, uno strumento di attuazione della politica economica generale. Lo sono, in particolare, i contratti di credito, posto che l’helicopter money, cioè il trasferimento diretto di risorse monetarie, è stato attuato solo in favore delle famiglie (la nota misura dei 600 euro), mentre, per il trasferimento alle imprese, la cinghia di trasmissione delle politiche economiche emergenziali è offerta, more solito, dalle banche. In questo scenario, un ruolo determinante hanno le regole di condotta precontrattuale: penso, anzitutto, alla valutazione del merito di credito, che oggi, nell’emergenza, dovrebbe rispondere a criterî meno stringenti di quelli tradizionalmente utilizzati, e ciò a maggior ragione in presenza di garanzie forti come quella statale, diretta e/o indiretta (per il tramite della SACE). È notizia di stampa che le procedure standardizzate con cui operano le banche rappresenta però un grave ostacolo all’erogazione di credito “emergenziale”, lasciando già intravedere l’ampio contenzioso che con ogni probabilità si aprirà nel dopo emergenza, quando non poche imprese lamenteranno di non essere state prontamente soccorse dal sistema bancario (sul tortuoso iter nel quale si imbatte un’impresa che abbia diritto al credito agevolato, tutt’altro che semplificato, v. Dario di Vico sul Corriere Economia del 20 aprile 2020: Coronavirus e decreto liquidità: cosa si chiede a un’azienda per avere il prestito).
D’altro lato, però, ci sono i contratti in essere, “pensati” per la normalità economica e stravolti dall’emergenza, il cui funzionamento si è inceppato a causa del lock down: rispetto ai quali le recenti regole dettate dal legislatore d’urgenza mi sembrano ancora più inappaganti delle regole codicistiche. Ma di questo dirò più avanti.
2) In che modo i principi costituzionali, oggi, possono venire in soccorso del civilista?
Vincenzo Roppo
Quali principi? Non ho esitazione nell’indicarne uno su tutti gli altri, come particolarmente prezioso per gestire le problematiche civilistiche – e soprattutto quelle contrattuali – aperte da Covid-19: il principio di “solidarietà… economica e sociale” che l’art. 2 Cost. indica come materia di “doveri inderogabili” cui tutti sono tenuti.
Proviamo ad applicarlo al caso della locazione non abitativa, vanificata per il conduttore dall’impossibilità di usare l’immobile aziendale; e immaginiamo di approdare all’idea che – in forza della presupposizione – non sia civilisticamente né razionale né giusto fare finta di nulla, cioè lasciare che il contratto proceda indisturbato, e che il conduttore (abbia o non abbia la possibilità di usare l’immobile, poco importa) continui a essere tenuto al pagamento del canone contrattuale. E che si debba trovare una soluzione diversa, più conforme a razionalità e giustizia. Bene, ma quale?
Mi viene da rispondere: una soluzione ispirata al principio costituzionale di solidarietà. Una soluzione cioè che parta dal rilievo che il fenomeno della pandemia non solo non è imputabile né all’una né all’altra parte, ma per la sua natura “globale” neppure può dirsi intervenuto nella sfera di una parte piuttosto che nella sfera dell’altra. E su questa base allochi le conseguenze negative in modo appunto “solidaristico”, secondo la logica per cui le perdite derivanti dall’evento siano sopportate non da una sola parte e totalmente evitate dall’altre, ma distribuite “un po’ per uno”.
Questa impostazione da un lato esclude che il rapporto contrattuale resti intatto e proceda come se nulla fosse, perché il risultato sarebbe addossare tutta la perdita al conduttore, mentre il locatore ne uscirebbe totalmente immune da perdite. Ma a mio avviso dovrebbe escludere anche un’indiscriminata facoltà del conduttore di sciogliere il contratto (salve, naturalmente, le eventuali previsioni che gli accordino un diritto di recesso): una soluzione che al contrario metterebbe l’intero peso della sopravvenienza di Covid-19 a carico del locatore.
Come può tradursi in regole operative? Limitandomi a un paio di indicazioni grossolane (un’esplorazione più approfondita della questione è offerta, peraltro in prospettiva un po’ diversa, da A. A. Dolmetta, Locazione di esercizio commerciale (o di studi professionali) e riduzione del canone per misure di contenimento pandemico, in il caso.it, 23 aprile 2020), direi così:
* accordare al conduttore, interessato a proseguire la locazione in vista della “riapertura”, una riduzione del canone per il tempo dell’impossibilità di utilizzare l’immobile (di quanto? in mancanza di altri più appropriati e attendibili criteri, direi del 50%, espressione aritmetica di una “solidarietà” perfettamente paritaria);
* se invece il conduttore fosse interessato a chiudere il rapporto, sottoporre la sua pretesa risolutoria a uno scrutinio secondo buona fede, che porti a respingerla tutte le volte che si riveli come una pretesa puramente opportunistica (cioè tutte le volte che lo sbocco risolutorio non sia giustificato dall’incidenza di Covid-19 sul business del conduttore, ma corrisponda a qualche suo particolare interesse – non tutelato dal contratto – che prescinde dall’evento pandemico).
Ho richiamato la buona fede: ed è noto che i migliori maestri legavano strettamente la buona fede civilistica alla solidarietà costituzionale.
Roberto Natoli
Premetto che non ho mai nutrito particolare affezione per l’uso che dei princìpi costituzionali si è fatto negli ultimi anni, nel ragionamento civilistico non solo teorico ma, soprattutto, pratico. Sostengo da tempo l’idea (che ancora recentissime pronunce della Cassazione, come quella delle sezioni unite sulle c.d. nullità selettive, mi confermano) che l’evocare i princìpi costituzionali serva fin troppo spesso a sottrarsi alla fatica del concetto, raggiungendo per vie brevi soluzioni che si potrebbero razionalmente argomentare attraverso il richiamo puntuale a norme positive. Tanto premesso, sono però convinto che se c’è un momento nel quale i princìpi costituzionali possono venire in soccorso del civilista, quel momento è l’attuale. E non mi riferisco soltanto al principio di solidarietà, giustamente evocato dai non pochi autori (me compreso: v. Benedetti – Natoli, Coronavirus, emergenza sanitaria e diritto dei contratti: spunti per un dibattito, in dirittobancario.it, Editoriale del 25 marzo 2020) che si sono fin qui cimentati nel tentativo di articolare riflessioni civilistiche per affrontare il tempo dell’emergenza; penso, forse ancor prima, al principio lavorista, fondativo della nostra comunità repubblicana, dal quale, credo, emergano fondamentali corollarî per affrontare il tempo attuale e quello che verrà. Ho già detto che la crisi dei contratti è una crisi di sistema, conseguente alla drammatica contrazione del prodotto interno lordo nazionale ed estero: sì che la contrazione della ricchezza prodotta si riflette direttamente sull’intera catena produttiva, coinvolgendo indistintamente tutti i suoi anelli. Ora, di fronte a una simile emergenza, è necessario operare una scelta di fondo e decidere chi, e in che misura, debba sopportare una distruzione di ricchezza che a nessuno può essere imputata. Trattandosi di una scelta di fondo, non operabile tramite il richiamo a norme e istituti pensati per la normalità economica, l’interprete non può che farsi guidare dalle opzioni di vertice dell’ordinamento giuridico. La prima delle quali è la tutela del lavoro, in tutte le sue forme (subordinato o autonomo). Se la possibilità del lavoro si comprime per fatti straordinari e imprevedibili, non si può chiedere al lavoratore di attingere ai propri risparmi per preservare la possibilità dell’attività futura. Così, per esemplificare e dare corpo al ragionamento: nel conflitto tra il proprietario dell’immobile che reclama il suo canone e il conduttore che oppone la chiusura (di diritto o semplicemente di fatto: si pensi ai professionisti legali, la cui attività giudiziale è stata sostanzialmente sospesa) dell’attività, accordare tutela al proprietario, sul rilievo che l’obbligazione di corresponsione del canone, avendo natura pecuniaria, non è mai impossibile, significa privilegiare, contro i principi fondativi del sistema, la rendita sul lavoro. Con l’aggravante che, superata l’emergenza, la rendita potrà riprendere il suo corso, mentre il lavoro potrà nel frattempo essere scomparso. Ed è probabilmente superfluo aggiungere che nel prossimo futuro, considerato il crescente indebitamento cui lo Stato dovrà ricorrere per affrontare l’attuale fase avversa del ciclo economico, occorrerà fare di tutto per preservare ogni attività capace di creare ricchezza e produrre gettito fiscale.
3) Come giudicate le prime risposte normative in materia privatistica?
Vincenzo Roppo
La legislazione dell’emergenza Covid-19 ha toccato diverse aree del diritto privato (lato sensu inteso): dalla già menzionata materia del lavoro alla materia societaria (blocco degli obblighi di ricapitalizzazione a fronte di perdite di capitale, neutralizzazione del criterio di continuità aziendale, disapplicazione della postergazione dei finanziamenti soci e intragruppo); dalle crisi d’impresa (slittamento di un anno dell’entrata in vigore del “codice Rordorf”) a numerosi interventi in materia contrattuale. Ha minacciato di toccare anche la responsabilità sanitaria, e lo avrebbe fatto se fossero passati emendamenti intesi a deresponsabilizzare operatori e strutture sanitarie per eventi infausti legati al contagio da coronavirus.
Io però vorrei concentrarmi sugli interventi nella materia contrattuale. La previsione in apparenza più notevole, per la sua portata sistemica, è quella introdotta dall’art. 91 del decreto legge 18/2020, per cui “Il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è sempre valutata ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”. Norma che (a parte le perplessità suscitate da alcuni passaggi, come quello relativo alle “decadenze”) mi sembra avere due difetti. Da un lato, il richiamo all’art. 1218 c.c. appare perfettamente superfluo. Anche in assenza di essa, quale giudice – senza bisogno di sentirselo dire espressamente dal legislatore - avrebbe mancato di “valutare” il rispetto delle misure di contenimento del contagio (impossibilità di spostamenti, blocchi produttivi ecc.) quali possibili cause di esclusione della responsabilità? Dall’altro lato, il richiamo all’art. 1223 c.c. si presenta oscuro e difficilmente decifrabile. La norma riguarda il nesso di causalità “giuridica” (fra danno-evento e danno-conseguenza) ai fini della determinazione del risarcimento dovuto e della necessaria selezione fra danni risarcibili e non risarcibili. Cosa significa che il lockdown deve essere valutato al fine di escludere la risarcibilità del danno? L’unica risposta sensata sembra essere: che il lockdown interrompe il nesso di causalità giuridica, rendendo irrisarcibili i danni che il creditore (o in genere il danneggiato) avrebbe ugualmente subito per effetto dell’inadempimento (o dell’illecito extracontrattuale) anche in assenza di lockdown. Ma se è così, il richiamo appare di nuovo superfluo memento di una chiara regola già esistente.
Più fornita di senso l’introduzione di una norma settoriale come l’art. 28 del decreto legge 9/2020. Essa riguarda tutti coloro che abbiano acquistato titoli di viaggio (biglietti ferroviari, aerei, per autobus di linea, navi, traghetti ecc.) e non siano in grado di utilizzarli per ragioni di impedita mobilità da misure anti-contagio (soggetti in quarantena, abitanti in zone rosse, diretti in paesi stranieri che negano l’ingresso) oppure non abbiano più interesse a utilizzarli per altre ragioni legate a dette misure (il concorso o la manifestazione o lo spettacolo per cui intendevano spostarsi sono stati cancellati o rinviati). La previsione è che il vettore rimborsi il prezzo del biglietto o emetta un voucher di pari importo da utilizzare entro un anno. Ovvio che (trattandosi di obbligazione alternativa, in cui la scelta spetta al debitore ex art. 1286, comma 1) il vettore sceglierà di emettere il voucher piuttosto che restituire i soldi (mentre il viaggiatore altrettanto ovviamente preferirebbe i soldi). Ma è la soluzione più equa perché, salvando il contratto di viaggio anziché cancellarlo, ripartisce il peso dell’evento in modo “solidaristico”. Non sono sicuro che possa dirsi lo stesso per la regola sui pacchetti turistici, per cui è dato sì al viaggiatore diritto di recesso, ma in tal caso l’organizzatore è facoltizzato ad attribuirgli – in luogo del denaro da lui pagato come prezzo del pacchetto – un voucher di pari importo da utilizzare entro un anno: data la differenza empiricamente registrabile fra l’acquisto di un pacchetto turistico e quello un semplice titolo di viaggio, la soluzione mi pare un po’ sbilanciata a favore dell’organizzatore (che certamente si libererà col voucher) e a danno del viaggiatore: un migliore equilibrio si sarebbe raggiunto prevedendo un voucher di valore in qualche misura (10%? 20?) superiore al prezzo del pacchetto.
L’art. 88 del decreto legge 18/2020 estende questa disciplina ai contratti di soggiorno (in strutture alberghiere o assimilate), ai contratti per l’accesso a spettacoli di ogni genere, nonché a musei o altri luoghi della cultura.
Si può notare una cosa: il legislatore riconduce tutte queste situazioni sotto l’ombrello dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione, richiamando espressamente l’art. 1463 c.c. In realtà qui vengono in gioco casi in cui è impossibile non già l’erogazione della prestazione ad opera del debitore ma la fruizione di essa da parte del creditore. Il legislatore non è così sottile da distinguere: ma nella sostanza non fa altro che allinearsi alla giurisprudenza, la quale riconduce entrambe le fattispecie sotto il medesimo ombrello normativo.
E può porsi una domanda: si possono lamentare omissioni, buchi di disciplina che sarebbe stato bene riempire? Forse sì, forse almeno uno. La legislazione dell’emergenza si fa carico delle difficoltà finanziarie indotte dalla pandemia a carico di chi risulta debitore periodico di moneta nell’ambito di contratti di durata: e così stabilisce una moratoria nel pagamento delle rate e dei canoni in determinati contratti di mutuo e di leasing. Non dispone nulla di analogo a favore dei conduttori, e si può capire: qui il creditore non è una robusta entità finanziaria come una banca o una società di leasing, ma può essere una persona fisica che vive dei proventi del suo immobile locato. Però il legislatore avrebbe almeno dovuto codificare quella riduzione dei canoni delle locazioni non abitative, che ho patrocinato sopra: se la soluzione convince, conviene che sia affidata a una puntuale previsione normativa di applicazione facile e sicura, piuttosto che all’alea e alle varietà delle decisioni giudiziali.
Un altro problema civilistico emerso con la pandemia riguarda, nei casi di separazione o divorzio, le modalità di frequentazione dei figlia da parte del genitore non affidatorio: problema aperto soprattutto dai divieti di mobilità. Ma qui il mancato intervento del legislatore appare giustificato: le modalità alternative alla frequentazione fisica (sessioni skype o quant’altro) potranno emergere dall’accordo fra i genitori interessati, o nei casi estremi (e si confida rari) di mancato accordo essere fissate dal giudice.
Roberto Natoli
A parte una disposizione nel primo d.l. dell’emergenza sul rimborso dei titoli di viaggio (art. 28, d.l. 9/2020), e una disposizione sui contratti di prestazione dei servizi direttamente travolti dall’emergenza sanitaria (spettacoli, musei e altri luoghi culturali: art. 88, d.l.18/2020), la risposta che ambirebbe a essere generale è contenuta nell’art. 91 del d.l. 18/2020, c.d. Curaitalia. Si tratta, però, di norme non solo disorganiche e frammentate, ma potenzialmente produttrici di più problemi di quanti siano in grado di risolvere. Il punto è che il diritto civile è un sistema e, quando si interviene su di esso, anche in un’ottica emergenziale, bisogna tenerlo a mente. Provo a spiegarmi con un esempio. Dicevo che il legislatore d’urgenza è intervenuto con una norma (l’art. 91 cit.) di portata tendenzialmente generale, perché non confinata nel perimetro di alcun singolo contratto; anzi, neppure confinata nel perimetro della parte generale del contratto perché, ancora più a monte, ha ad oggetto la disciplina generale dell’obbligazione. Con questa norma, dettata sotto la rubrica “Disposizioni in materia ritardi o inadempimenti contrattuali derivanti dall’attuazione delle misure di contenimento”, si dispone che “il rispetto delle misure di contenimento di cui presente decreto è sempre valutato ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”.
La norma, proprio per il suo richiamo alla disciplina della responsabilità da inadempimento e del conseguente danno, è o assai banale o potenzialmente sovversiva. Il riferimento all’esclusione dell’art. 1218 c.c. in caso di rispetto delle misure di contenimento è banale perché ribadisce quanto già previsto dall’art. 1256, cpv., c.c. (“se l’impossibilità è solo temporanea, il debitore, finché essa perdura, non è responsabile del ritardo nell’adempimento”). Il richiamo all’art. 1223 c.c. è, invece, potenzialmente sovversivo perché la disattivazione del dispositivo dell’art. 1218 porta con sé anche la disattivazione della conseguente responsabilità per l’ovvia ragione che se non c’è responsabilità, non può esserci danno: pertanto, un’interpretazione che potrebbe dare un senso alla norma, altrimenti di dubbia utilità, è di estendere il richiamo all’art. 1223 alla responsabilità da fatto illecito, giusta l’espresso rinvio operato — per regolare il quantum debeatur aquiliano — dell’art. 2056 c.c. Non si tarda però a comprendere che, ritenendo la sospensione dell’art. 1223 c.c. operante anche in quell’àmbito, se ne dovrebbe dedurre — con un’interpretazione probabilmente ostile alla mens legis, ma non al dato testuale e sistematico — come il rispetto delle misure di contenimento escluda la possibilità, per il danneggiato, di ottenere il risarcimento del danno che sia conseguenza immediata e diretta della condotta, pur gravemente colposa, del danneggiante: con tutte le ovvie ripercussioni sul futuro (e già prevedibile) contenzioso in materia di responsabilità medico-sanitaria.
Certamente più opportuna sarebbe stata, invece, una norma relativa ai rimedi sinallagmatici, tesa a stabilire se, e in che misura, l’emergenza (che non è data solo dal rispetto delle misure di contenimento, posto che nelle filiere produttive tutto si propaga) possa giustificare la sospensione della prestazione, sterilizzando così non tanto la richiesta di risarcimento, quanto la domanda di risoluzione: magari distinguendo contratto da contratto, perché — com’è evidente — non tutte le operazioni economiche sono uguali, e per tipologia e per qualifica dei soggetti contraenti.
La Germania, ad esempio, è prontamente intervenuta con la “Legge per la mitigazione delle conseguenze della Pandemia COVID-19 nel diritto civile, fallimentare e della procedura penale” del 27 marzo 2020, prontamente tradotta su dirittobancario.it (https://www.dirittobancario.it/sites/default/files/allegati/articoli_1_-_5_legge_tedesca.pdf), il cui art. 5 ha introdotto delle “Norme contrattuali contingenti alla pandemia Covid-19” che consentono, ad esempio, una sospensione dei pagamenti a consumatori e microimprese (come disciplinate dalla Raccomandazione della Commissione Europea 2003/361/EC del 6 maggio 2003); un termine di grazia per i conduttori di immobili non in condizioni di corrispondere il canone; un differimento di tre mesi dell’ammortamento dei prestiti al consumo. Un’attenzione molto opportuna, nella legislazione tedesca dell’emergenza (invece assente nell’analoga legislazione italiana), è dedicata a reprimere fenomeni di moral hazard dei debitori, in questa fase straordinariamente inclini a sospendere o ridurre il flusso dei pagamenti anche se non versano in una crisi di liquidità, adducendo quale pretesto l’emergenza sanitaria. La sospensione dei pagamenti da parte dei consumatori è, infatti, subordinata alla duplice dimostrazione che la difficoltà di adempiere è conseguenza di circostanze connesse alla pandemia e che l’adempimento regolare metterebbe in pericolo il livello di vita adeguato per sé e per la propria famiglia. In generale, si tratta di norme apprezzabili perché ancorate a parametri misurabili (dunque giudizialmente sindacabili ex post) e perché espressive di valori di rango costituzionale, come la dignità personale, che, in quanto tali, offrono solide basi all’effetto redistributivo che producono.
Non solo per il pessimo confronto nel paragone comparatistico, il legislatore italiano dell’urgenza ha dunque dato pessima prova di sé nel dettare norme privatistiche. E, purtroppo, non c’è neppure da stupirsi, se si considera che, nella compagine delle innumerevoli task force chiamate a governare l’emergenza (certamente non nella commissione Colao), non mi pare compaiano civilisti, giuscommercialisti, né processualcivilisti.
4) Covid-19 può essere l’occasione per ripensare alcune categorie ordinanti del diritto civile o per costruirne di nuove?
Vincenzo Roppo
In un certo senso le categorie, le regole, i principi contenuti nel codice (specie quelli su inadempimento, responsabilità e sopravvenienze), con le integrazioni e gli affinamenti operati dagli interpreti, potrebbero sembrare idonei a coprire le esigenze e i problemi aperti da Covid-19, senza necessità di rilevanti innovazioni sistematiche. È significativo che lo stesso legislatore dell’emergenza dichiari (sia pure in modo ridondante) l’applicabilità – nella presente congiuntura – di norme fondamentali del codice come gli artt. 1218, 1223 e 1463. E come non ricordare che dopotutto il codice del 1942 è stato elaborato e varato nel bel mezzo di una guerra mondiale?!
Questo però vale nella sola misura in cui – di fronte a inadempimenti e soprattutto sopravvenienze – l’unico rimedio concepibile per affrontare questi fattori di disturbo del rapporto contrattuale sia lo scioglimento di questo. È la logica del codice. Ma è logica insufficiente, nel momento in cui emerge che in tante occasione il rimedio appropriato per gestire i disturbi del rapporto non è la sua cancellazione ma piuttosto la sua manutenzione con aggiustamenti: in principalità per via di rinegoziazione, in subordine per via di aggiustamento giudiziale. Ecco, questo mi pare il più significativo “ripensamento ordinamentale” ricavabile dall’emergenza (e v. in tal senso anche l’editoriale di A. M. Benedetti e R. Natoli, Coronavirus, emergenza sanitaria e diritto dei contratti: spunti per un dibattito, in dirittobancario.it, 25 marzo 2020). Che però non sarebbe una novità assoluta, visto che lo si trova assunto come una delle linee direttive da impartire al legislatore delegato in base al disegno di legge delega dell’anno scorso (n. 1151/2019) per la riforma del codice civile.
Ma voglio aggiungere che annusando l’aria che si respira con la pandemia, soprattutto nella prospettiva delle sue conseguenze economiche di medio periodo, forse può cogliersi il preannuncio (o almeno la possibilità) di un’altra notevolissima novità di forte impatto sistemico, destinata a incidere profondamente sui “fondamentali” dell’ordinamento privatistico. E non solo di quello italiano.
Nella sua lettera aperta al Financial Times, pubblicata dal quotidiano inglese il 25 marzo 2020, Mario Draghi delinea gli scenari dell’economia mondiale che saranno presumibilmente determinati dall’esigenza di affrontare le conseguenze della pandemia. Fra l’altra rileva che “livelli di debito pubblico molto più alti diventeranno un aspetto permanente delle nostre economie”, ma soprattutto – questo mi sembra più impressionante – “saranno accompagnati da una cancellazione di debiti privati” (“will be accompanied by private debt cancellation”). Verso la fine del suo contributo, l’ex presidente della BCE riprende il concetto in termini ancora più specifici e circostanziati: osserva che alcune imprese le quali pensino di riuscire ad assorbire la crisi potranno essere indotte ad “aumentare il loro indebitamento per poter mantenere la propria manodopera occupata”, ma “se l’esplosione del virus e i conseguenti lockdown dovessero protrarsi” allora queste imprese “potrebbero realisticamente rimanere sul mercato solo se i debiti fatti per mantenere nel tempo l’occupazione fossero alla fine cancellati” (“… only if the debt raised to keep people employed during the time were eventually cancelled”).
Non c’è bisogno di aggiungere molto. Quella che Draghi ipotizza con estrema chiarezza è una gigantesca esdebitazione di massa: di portata – sembra di capire – enormemente più estesa di quella che siamo abituati ad associare all’esito di procedure concorsuali (pur con le notevoli estensioni del meccanismo prefigurate dal nuovo codice delle crisi d’impresa). Se l’ipotesi si avverasse, ci sarebbe da rimeditare nel profondo la figura stessa dell’obbligazione, col suo carattere di vincolatività e col presidio della garanzia patrimoniale che l’assiste.
Roberto Natoli
Assolutamente sì, e lo dimostra proprio quanto ho detto fin qui. Da un lato nella parte generale del contratto non v’è alcuna tensione verso la manutenzione dei contratti (in particolare, di durata) e questo è un limite (da tempo denunciato dalla moderna dottrina civilistica) che, nella drammaticità del momento attuale, sta emergendo con prepotenza. Dall’altro lato, le risposte del legislatore dell’urgenza tradiscono la fretta indotta dall’emergenza e si risolvono, nella migliore delle ipotesi, in un sostanziale nulla di fatto.
La prima categoria ordinante del diritto contrattuale che andrebbe sottoposta a revisione è quindi quella espressa nella formula pacta sunt servanda: proprio il dibattito svoltosi negli ultimi due decenni (che proprio in questo periodo di emergenza contrattuale ha sùbito ripreso piede) sull’obbligo di rinegoziazione è spia della necessità, se non del superamento del principio, quanto meno di un suo contemperamento con altri non meno rilevanti, come quello rebus sic stantibus. Tutto ciò mostra l’opportunità di introdurre per via legislativa un generale obbligo di rinegoziazione che non debba cercare la sua fonte nelle pieghe della fin troppo usurata buona fede integrativa e il suo rimedio in obblighi di contrarre di dubbia plausibilità. Si potrebbe, al riguardo, accelerare l’approvazione della norma sul tema contenuta nell’art. 1, lettera i), del d.d.l. delega n. 1151 del 2019 di riforma del codice civile, magari stralciandola dalla complessiva riforma per introdurla immediatamente: «prevedere il diritto delle parti di contratti divenuti eccessivamente onerosi per cause eccezionali e imprevedibili di pretendere la loro rinegoziazione secondo buona fede o, in caso di mancato accordo, di chiedere in giudizio l’adeguamento delle condizioni contrattuali in modo che sia ripristinata la proporzione tra le prestazioni originariamente convenuta dalle parti».
Il ripensamento generale che l’allentarsi del principio pacta sunt servanda sottende collima con le esigenze delle filiere produttive, nelle quali i contratti sono per lo più destinati a spiegare i propri effetti nel tempo e che pertanto sono esposti al variare anche significativo delle circostanze sulla cui base furono conclusi. Si tratta, del resto, di un meccanismo già noto all’ordinamento, sebbene sperimentato nel territorio del diritto della famiglia: lì dove l’art.710 c.p.c. dà sempre la possibilità, tanto all’obbligato quanto al creditore, di chiedere al giudice la revisione delle condizioni della separazione. La necessità di un rimedio per adeguare il contenuto dei contratti all’impreveduto mutamento di circostanze, che l’attuale emergenza ha fatto affiorare, potrebbe dunque portare in dono al futuro diritto dei contratti questo frutto: uno strumento informato al principio di conservazione del valore economico della relazione contrattuale, da mantenere in vita anziché da abbandonare a una risoluzione che, in tanti casi, altro non comporta se non distruzione di ricchezza e perdita di investimenti che neppure il ritorno al mercato (idea implicita nella risoluzione ex art. 1467 c.c.) potrebbe consentire di recuperare se non, ma non sempre, in parte.
Al di là di ciò, credo che andrebbe definitivamente ripensato il rapporto tra diritti e tecniche, soprattutto non processuali, di attuazione. L’incredibile sospensione delle attività giurisdizionali (sostanzialmente limitate, per il settore civile, ai soli procedimenti che investano diritti fondamentali della persona: art. 83, comma 3, lett. a, d.l. 18/2020), oltre ad aver messo a nudo l’inadeguatezza tecnologica (anzitutto in termini di cybersecurity) delle infrastrutture che governano il PCT, ha altresì dimostrato che l’astratta proclamazione di diritti, in assenza di pronti rimedi per attuarli, è un vano esercizio retorico. Il risultato sotto gli occhi di tutti è che da mesi, nell’emergenza e dunque quando ci sarebbe più bisogno di regole, gli operatori economici sono abbandonati a sé stessi. A una tale esigenza di regole — non necessariamente eteroimposte ma, anzitutto ed auspicabilmente, negoziate tra i contraenti — potrebbero fruttuosamente rispondere sistemi di ADR governati da terze parti (penso, ad esempio, a camere arbitrali amministrate) o affidati agli stessi avvocati (penso, in questo caso, alla negoziazione assistita).
Un altro frutto che l’emergenza potrebbe portare in dono è dunque la definitiva messa a punto di un serio, organico e coerente quadro di sistemi di risoluzione alternativa delle controversie, che non siano visti dalle parti come inutile e costoso ostacolo all’esercizio del diritto di azione costituzionalmente tutelato, ma come effettivo strumento di rapida ed efficace soddisfazione di interessi che troppo spesso appaiono soltanto astrattamente tutelati dalle norme sostanziali.
Purtroppo, però, allo stato — al di là di alcune condivisibili iniziative promosse dal mondo accademico (v., ad es., il Manifesto della Giustizia Complementare alla Giurisdizione, pubblicato il 28 marzo 2020 a firma del Prof. Mauro Bove e di altri colleghi: in http://giustiziacivile.com/arbitrato-e-processo-civile/editoriali/manifesto-della-giustizia-complementare-alla-giurisdizione) — il legislatore dell’urgenza, nella sua bulimia normativa, pur avendo immediatamente pensato a serrare le porte dei Tribunali persino per i procedimenti cautelari, non ha, almeno fin qui, ritenuto di introdurre un meccanismo di negoziazione assistita tra debitori e creditori o qualsiasi altra forma di ADR per affrontare l’emergenza (per alcune proposte in merito v. Rabitti, Pandemia e risoluzione delle future controversie. Un’idea “grezza”, in dirittobancario.it, Editoriale del 23 aprile 2020).
Flick: la pandemia e la pari dignità sociale nella città*
intervista di Michele Roda a Giovanni Flick https://inchieste.ilgiornaledellarchitettura.com/le-case-citta-coronavirus/
«Questa emergenza ci aiuta a ricordare come le città – con una competenza già oggi ed in futuro necessariamente ben più ampia di quelle della città tradizionale – abbiano nel loro DNA l’esigenza di gestire la convivenza riducendo la conflittualità. Proprio a tal fine gli architetti hanno il compito di mettere in relazione la città degli uomini con la città delle pietre e di realizzare l’equilibrio tra gli spazi urbani dedicati rispettivamente all’uso privato, a quello pubblico e al godimento comune. La situazione che stiamo vivendo ci deve spingere ad una riflessione su questi temi e sulle loro premesse». Giovanni Maria Flick, 79 anni, professore di diritto penale, presidente emerito della Corte costituzionale, già ministro della Giustizia nel primo governo Prodi, è un attento e critico osservatore dei risvolti sociali delle questioni urbane. Recentemente ha pubblicato un libro (Elogio della città? Dal luogo delle paure alla comunità della gioia), da noi recensito, il cui titolo, riletto oggi, sembra un auspicio per il futuro. Sulla città in tempi di Coronavirus ha scritto un saggio che viene pubblicato in questi giorni da La Nave di Teseo (in un e-book che conterrà interventi di Franco Purini, Salvatore Settis, Margherita Petranzan e Luca Bergamo). Un’intervista con Flick è un modo per portare la città al centro del dibattito, in questo momento di tempo sospeso, in cui l’emergenza sanitaria prima ed economica poi sembra travolgere tutto.
Professore, l’attuale emergenza sta modificando radicalmente percezione e fruizione delle nostre città. Quali sono gli elementi più rilevanti del fenomeno?
La risposta muove da una premessa che condiziona tutti gli aspetti di questa riflessione: la necessità di distinguere l’eccezione dall’emergenza. La prima è una deroga “ordinaria” alla normalità delle regole. La seconda è una situazione in cui l’eccezionalità e la deroga alle regole sono legate ad un contesto temporaneo e particolare di necessità. L’eccezione – come si dice – “conferma la regola”; non così invece l’emergenza. Insomma, l’eccezione è una deroga “normale ma minoritaria” alla regola. L’emergenza è una “situazione temporanea” destinata a venire meno con la scomparsa delle sue motivazioni in fatto; quindi richiede il ritorno alla normalità delle regole. Soprattutto in situazioni drammatiche come quella del Coronavirus che stiamo vivendo nelle nostre città, vi può essere la tendenza a confondere fra loro l’emergenza e l’eccezione. Con conseguenti timori e problemi rilevanti per un futuro in cui, scomparsa l’emergenza, potrebbe tuttavia restare l’eccezione, soprattutto con riferimento alla compressione dei diritti fondamentali. Quest’ultima può essere entro certi limiti necessaria nell’emergenza; ma non può diventare un’eccezione “ordinaria” alla regola generale. Tenendo conto di questa premessa, due aspetti dell’impatto fra città ed epidemia sembrano oggi prevalenti fra i tanti, nel contesto tipico urbano. Il primo riguarda il fatto che la città è una realtà che organizza ed eroga servizi, materiali ed immateriali che siano. Qualcuno, in questo senso, paragona impropriamente la città ad un’impresa, con il rischio di esaltarne soprattutto la dimensione del profitto. Tra i servizi da organizzare in maniera efficiente c’è quello relativo alla sanità, che intendiamo sia come diritto personale e fondamentale di ciascun individuo alla propria salute, sia come interesse collettivo alla salute di tutti. In quest’ultimo aspetto emerge la componente della solidarietà verso il più debole, che connota e delimita il diritto del singolo alla salute e correlativamente quello alla sua capacità di autodeterminazione ed il suo consenso necessario per un trattamento sanitario. Quindi – come ci insegna l’articolo 2 della Costituzione – la salute è un diritto che riguarda ciascuno di noi, in una duplice direzione: degli altri verso di me e mio verso gli altri. Le criticità e i contrasti emersi in questo periodo nell’erogazione dei servizi sanitari preoccupano perché rischiano di trasformarsi, nelle nostre città, in fattori di scontro e competizione tra centro e periferia, tra Stato e autorità locali. Rischiano di accentuare una dimensione “istituzionale” della città in senso deteriore; nel senso cioè di una realtà giuridica in frequente contrasto con altre realtà con essa concorrenti (lo Stato, la Regione e la Provincia ove c’è ancora) per compiti, attribuzioni e responsabilità; nel senso attualizzato e soprattutto burocratico di una polis come centro di potere politico e giuridico.
Il secondo aspetto, invece?
La città non è soltanto un ente erogatore di servizi. Ma anche – è ancora la Costituzione a spiegarcelo – una “formazione sociale ove si svolge la personalità”, si riconoscono e garantiscono i diritti inviolabili e si richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà. In questa dimensione, dunque, la città ha il ruolo di coltivare le relazioni sociali, affrontando e cercando di risolvere i molteplici problemi della convivenza e gestendo le inevitabili conflittualità. L’obiettivo dovrebbe essere quello di una città giusta, di una città per tutti, di una città inclusiva e partecipata; non quello di una “coesistenza armata”, o al più di una “non belligeranza” tra ghetti dei ricchi e ghetti dei poveri. Nella fase che attraversiamo la dimensione essenziale del contatto personale viene radicalmente messa in discussione, nel tentativo di ridurre il pericolo di contagio della pandemia provocato dal contatto umano (l’unico in sostanza e finora indicato dalla scienza, in attesa di scoprire un vaccino). Oggi stiamo cercando di supplire a queste relazioni di necessità interrotte accentuando quelle tecnologiche e digitali. Lo facciamo anche per le grandi istituzioni del paese, ad esempio con la sperimentazione del voto a distanza, come si è cercato di fare con il Parlamento e come si è recentemente deciso di fare per la Corte Costituzionale e l’amministrazione della giustizia. Credo che però sia necessario essere cauti e attenti a questo fenomeno: la necessità di limitare il contatto sociale rischia di trasformarsi in un’esaltazione pericolosa delle relazioni esclusivamente digitali. Dobbiamo allontanarci dalla suggestione di una città solo tecnologica, dominata da digitalizzazione e dematerializzazione, che rischia di farci dimenticare quello che è il DNA delle relazioni umane, attraverso il dialogo, il confronto, il contraddittorio e, se necessario, lo scontro. Prime a soffrire sarebbero l’umanità e la democrazia.
A quale periodo della storia possiamo accostare il momento attuale?
Ce ne sono stati tanti; le epidemie hanno sempre scandito la storia dell’uomo. Dalla peste di Atene a quella Antonina del primo impero romano o alle successive che hanno squassato le città: da quella del Trecento raccontata dal Boccaccio a quella seicentesca, magistralmente narrata dal Manzoni. Fino all’epidemia più recente, alla fine della prima guerra mondiale, la cosiddetta spagnola (chiamata così perché la Spagna era l’unico grande paese europeo non in guerra, da cui potevano arrivare quindi le notizie). La storia dell’umanità e della città è caratterizzata prevalentemente da angoscia e paura. Le mura venivano costruite per difendersi dai pericoli esterni. Ma ci sono anche aggressioni che avvengono dall’interno, che mettono a rischio il nostro vivere insieme. Le epidemie rientrano in entrambi casi; la danza macabra rappresentata più volte nel medioevo – con l’incontro tra la carovana festante dei cacciatori e la processione degli scheletri – restituisce un’immagine efficace della città, delle sue paure e del tentativo di esorcizzarle con le processioni religiose o con le danze, o con il lavoro e con le istituzioni, come nella rappresentazione del “buon governo” delle città e delle campagne proposta da Ambrogio Lorenzetti. Le città possono morire – si dice – per l’occupazione di esse da parte di chi viene da fuori; per il loro abbandono da parte degli abitanti; per una specie di Alzheimer collettivo con la perdita della memoria del loro passato. Ma possono morire anche a causa delle epidemie. Ne è testimonianza la caduta di Roma, che era la grande metropoli del primo secolo dopo Cristo descritta dal Carmen saeculare di Orazio e divulgata dall’Inno a Roma di Puccini, di mussoliniana memoria: “Sole che sorgi placido e giocondo … tu non vedrai nessuna cosa al mondo maggiore di Roma …”. Le cause di quella caduta – fra cui le invasioni barbariche, la peste Antonina (il vaiolo) e quella di Cipriano – non sono poi così lontane dal turismo “mordi e fuggi”, dalla speculazione edilizia di tutti i colori, dalla pandemia del Coronavirus di questi tempi.
Si sarebbe mai aspettato oggi un evento globale di questa portata?
Ormai è da qualche tempo che molti esprimono perplessità rispetto ad un percorso della storia umana che sembra aver sostituito l’idolo biblico del vitello d’oro con una sorta di logaritmo d’oro. Globalizzazione è una parola semplicistica per un fenomeno complesso in cui predomina l’idea del profitto. A fronte di qualche vantaggio ci sono anche numerosi effetti collaterali. Oggi, con questa epidemia, ci accorgiamo di un fatto che tuttavia avrebbe dovuto essere abbastanza evidente: la velocità della globalizzazione è la stessa che il virus ha utilizzato per diffondersi. Viviamo un’emergenza che ci può aiutare a ridimensionare il ruolo del profitto, anche nella costruzione e nella vita delle nostre città. Ci può aiutare a capire la nostra fragilità, nonostante il percorso, le agevolazioni, le suggestioni della scienza e le sue applicazioni a partire dalla gestione e dall’utilizzazione dei big data. Queste ultime ci hanno trasformato da cittadini in consumatori, in fornitori inconsapevoli di dati e informazioni sulle nostre identità ed al tempo stesso in destinatari di messaggi (politici o commerciali) che nascono dalla gestione di quelle informazioni.
Ora siamo nel pieno dell’emergenza ed è quindi facile farsi trascinare nella retorica del cambiamento. Ritiene che questo sarà un punto di svolta nelle politiche urbane?
Rispondo con un grande punto interrogativo e con molti dubbi; anche se lo spero per il futuro delle mie figlie, dei miei nipoti e dei loro figli. È il punto interrogativo con cui ho segnato il titolo del mio Elogio della città, a differenza di altri miei precedenti “elogi” della dignità, della Costituzione, del patrimonio culturale, storico e ambientale. Sicuramente dalla pandemia possiamo trarre una lezione rispetto ad un elemento fondamentale delle nostre città: le diseguaglianze, che certamente crescono. Oggi tre sono fra quelle più emblematiche nella nostra realtà contemporanea: l’odio per l’ebreo; il senso di possesso per la donna che si traduce in violenza; la paura che il migrante mi possa portare via ciò che mi spetta. In questa condizione crescono altre due forme di diseguaglianza altrettanto pericolose: la prima è quella verso gli anziani, una delle categorie più colpita dal virus. Le vicende delle residenze assistite, di cui stiamo leggendo in questi giorni, sono inquietanti. Il fatto di pensare di destinare le risorse (in questo caso le cure) prima ai giovani piuttosto che agli anziani e soprattutto di codificare questa prassi in una “regola”, potrebbe portare a discorsi pericolosi. Sono giuste, e rientrano nelle responsabilità e nelle decisioni del medico, le scelte di destinare l’intervento o il presidio medico a chi possa trarne il maggior giovamento fra i due “contendenti” rispetto a una risorsa limitata a disposizione. Ma in primo luogo occorrerebbe non dover arrivare a simili estremi, grazie all’intervento pubblico nella disponibilità delle risorse (statale o regionale che sia). In secondo luogo è molto discutibile (a me fra molti sembra inaccettabile) la codificazione preventiva e generale di una “carta di sopravvivenza” in base all’età. Essa può risolversi nell’anticamera di una prospettiva in cui gli anziani non devono più votare (anche questo è stato detto, come una battuta di pessimo gusto); in una prospettiva secondo cui l’anziano non produce, è lento, perde tempo, quindi non serve. In una prospettiva secondo cui l’esperienza, la saggezza, la memoria accumulata dall’anziano in un’intera vita non hanno alcun valore di fronte alle esigenze e alle urgenze del “presentismo”. In una prospettiva in cui l’esigenza di un flusso ordinato nel ripristino della libertà di circolazione – una volta superata la pandemia – sotto il pretesto di una difesa della sua salute, si risolva per l’anziano in un protrarsi di un isolamento da lui non voluto e per lui forse più nocivo del pericolo di contagio. Un principio fondamentale della nostra Costituzione ci ricorda che attraverso la cultura dobbiamo tutelare la memoria e il passato per progettare il futuro. Chi dimentica il passato è condannato a ripeterlo. Il “presentismo” imperante che ha cancellato passato e futuro non è la ricetta adatta per l’uomo. I tanti decessi tra gli anziani, che muoiono nelle residenze sanitarie assistite per indifferenza o per sciatteria, colpevoli anche se non volute (con le quali sembra si possano “nascondere” le vittime dell’epidemia, secondo le indiscrezioni dei media e le denunzie nelle inchieste in corso) – soli, senza il conforto di un famigliare vicino e senza una pietas tradizionale e consolidata verso il defunto – possono essere considerati emblematici di questo fatto.
La seconda disuguaglianza che cresce?
C’è una seconda categoria di persone colpite in maniera particolare da questa epidemia: i detenuti. C’è chi dice in maniera sconcertante che le carceri sono un luogo sicuro, più protetto del restare fuori. Anzi, i detenuti sarebbero “privilegiati” di per sé in una situazione in cui, con la minaccia di sanzioni, si vogliono costringere anche gli altri ad una sorta di “arresti domiciliari” ben diversa nelle sue modalità, per evitare il contagio. Nulla di più sbagliato: il sovraffollamento delle carceri è un fattore di estremo pericolo che mette a repentaglio la dignità umana (v https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/988-superare-il-carcere-intervista-da-giovanni-maria-flick). Lo ha detto il papa, lo ha sottolineato più volte la Corte di Strasburgo. Eppure noi continuiamo a tenere i detenuti in celle piccole ove il contatto da cui nasce il pericolo di contagio è una caratteristica dominante. Affermare che dal punto di vista tecnico la distanza prevista dalle regole carcerarie fra le persone non vale in un luogo chiuso e non pubblico come il carcere è un’acrobazia giuridica a mio avviso inaccettabile. Abbiamo maturato in questi mesi già troppi errori e ritardi nel decidere provvedimenti drastici (di chiunque possa essere stata la colpa) per affrontarne un altro in questo campo, come stiamo facendo nell’indifferenza generale, mentre i casi di contagio fra detenuti e fra operatori continuano a crescere ed i morti cominciano purtroppo a doversi contare anche in carcere, un ambiente chiuso ma anche poroso nei suoi contatti con l’esterno.
Però la nostra è una società che sta rispondendo in maniera matura a quella che è la più grande privazione della libertà che una generazione ricordi. Le immagini delle nostre città vuote sono simboliche in questo. Condivide?
Credo che la storia dell’uomo abbia conosciuto fenomeni ben più gravi di quelli provocati dalla pandemia di questi giorni, nella privazione della libertà e prima ancora della vita: dalla deportazione degli ebrei nei campi di concentramento alla schiavitù. Oggi noi stiamo vivendo una situazione diversa: una tollerabile e marginale limitazione non della libertà personale in sé, ma della libertà di movimento del singolo per la tutela della salute sua e di tutta la società. Cosa che la stessa Costituzione ammette, a condizione che questa limitazione sia formulata in maniera chiara, precisa e comprensibile e prevista da una legge, ancorché non convalidata da un giudice. Ciò mi sembra stia iniziando a verificarsi, in linea generale, sia pure dopo una serie di tentativi maldestri, peggio comunicati e tuttora esitanti, di raggiungere l’uniformità nel regime delle regole. Detto questo, condivido il fatto che la popolazione italiana stia dimostrando consapevolezza e rispetto – grazie anche alla minaccia di sanzioni più ragionevoli, se pure con talune eccezioni di egoismo – in misura forse maggiore di coloro che hanno il compito di regolare i movimenti, più che quello di affermare le proprie competenze o contestare quelle altrui.
Quali lezioni pensa che gli architetti possano trarre da questo momento?
Dobbiamo ricominciare a parlare di città in termini di polis, mettendo in relazione la città delle pietre con quella degli uomini. Le polis nascono e si sviluppano anche per moderare la conflittualità. E questo campo d’azione sarà tanto più sollecitato se pensiamo che nel 2050, tra soli 30 anni, ben l’80% della popolazione mondiale vivrà nelle città, che assumeranno (anzi, già lo vanno facendo) forme diverse: di grandi megalopoli urbane rispetto alle “città storiche” e alle cosiddette aree metropolitane. Le città sono oltretutto un bene comune e per questo il nostro paese ha bisogno di tutelarle, fra l’altro con regole adeguate all’oggi, non di cento anni addietro come la nostra legge urbanistica. Una legge per la città e sulla città. E c’è anche urgenza di un’altra legge sull’architettura come lavoro professionale, che rimetta al centro esattamente il ruolo dell’architetto come principale interprete del linguaggio delle pietre e dell’equilibrio fra gli spazi privati, quelli pubblici e quelli per l’uso di tutti, se pure contemperando quel linguaggio alle esigenze sociali, economiche ed estetiche attraverso la sua professionalità.
*Pubblicato il 17 aprile 2020 su su Il giornale dell’architettura by Michele Roda https://inchieste.ilgiornaledellarchitettura.com/le-case-citta-coronavirus/
POTERE E LIBERTA’
Il ruolo del giudice amministrativo nell’emergenza sanitaria
di Sibilla Ottoni
Nel contesto emergenziale conseguente all’epidemia di Covid-19 assistiamo ad un susseguirsi e ad un moltiplicarsi di misure, normative ed amministrative, adottate a tutti i livelli. Tutte riguardano, in modo più o meno diretto, una sfera di libertà personale la cui intangibilità eravamo soliti dare per scontata. Forse la disabitudine a dover difendere tale spazio, felice privilegio dei periodi di pace, ha portato a trascurare e talvolta a dimenticare alcuni principi elaborati in altre fasi storiche, e che oggi probabilmente sarebbe molto utile tenere in mente. La riflessione prende spunto dalla storia di un bracciante agricolo sottoposto a quarantena e isolamento presso la propria residenza, con ordinanza sindacale, per essersi recato nei campi per lavoro in violazione di un’ordinanza regionale.
Sommario – 1. Va tutto bene?; 2. Diritti, libertà e loro limiti; 3. Ruolo della giurisdizione e strumenti del giudice amministrativo; 4. Giudice amministrativo e diritto dell’emergenza;5. Occhi aperti sul presente.
1. Va tutto bene?
La sensazione che molti giuristi hanno, osservando il susseguirsi di provvedimenti adottati a tutti i livelli a partire dalla dichiarazione dello stato di emergenza del 31 gennaio scorso[1], è di una leggera, latente distonia con l’assetto costituzionale.
La forte compressione delle libertà individuali che si sta sperimentando, con il disagio (umano innanzitutto) che ne consegue, potrebbe certamente giustificare tale sensazione anche laddove la stessa fosse, in termini giuridici, infondata.
La questione tuttavia si pone, sia con riguardo alla costituzionalità dei provvedimenti normativi, sia con riguardo alla legittimità di quelli amministrativi (https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/1005-il-non-processo-amministrativo-nel-diritto-dell-emergenza-covid-19) [2].
Rinviando per la prima questione a più autorevoli commenti (già ospitati anche su questa rivista https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/961-la-pandemia-aggredisce-anche-il-diritto [3]), questo contributo intende focalizzarsi su tale ultimo profilo, anche alla luce delle più recenti prese di posizione del giudice amministrativo che, pur incidentalmente, ha avuto occasione in sede cautelare di affermare una sorta di prevalenza dell’interesse alla tutela della salute pubblica su determinati diritti e libertà individuali[4].
Il tono piuttosto tranchant con cui tale affermazione è stata veicolata impone qualche riflessione. L’attuale stato di emergenza non può infatti comportare alcun allentamento dei parametri di giudizio ordinariamente impiegati, quasi come se il diritto, nell’emergenza, potesse tradursi sul piano processuale in forme di controllo altrettanto “emergenziali”, attraverso strumenti di valutazione imprecisi, o quasi che la macroscopica prevalenza delle eccezionali circostanze sanitarie su qualsiasi altro diritto o interesse fosse tale da potersi pesare ad occhio nudo, senza bisogno di impiegare strumenti più raffinati. E quasi come se il nostro ordinamento, e per prima la magistratura amministrativa, non disponesse di tali strumenti, da tempo elaborati e lungamente cesellati.
2. Diritti, libertà e loro limiti.
Per evitare di male interpretare le parole del Consiglio di Stato, è utile ripercorrere alcuni punti fermi nell’evoluzione del sindacato del giudice amministrativo, che inducono ad escludere la possibilità di affermare la prevalenza secca di un diritto o interesse su qualsiasi altro.
Tale esigenza è tanto più forte quanto più eccezionali sono le circostanze del caso concreto, e quanto più fondamentale appare l’interesse pubblico tutelato, come nel caso della salute pubblica nell’attuale situazione di pandemia globale.
La salute pubblica, così come la sicurezza pubblica e l’ordine pubblico, costituisce infatti un presupposto per l’esercizio dei diritti e delle libertà proprie dell’ordinamento democratico: alcun diritto può dirsi realmente tutelato, né può realizzare le propria funzione sociale, se lo stesso non è certo, ossia se non sono garantite le condizioni minime per il suo esercizio[5].
La salute pubblica, in tal senso, potrebbe a sua volta qualificarsi come autonomo diritto, la cui necessità di tutela giustifica la compressione dei diritti e delle libertà individuali che lo minacciano. Ma tale elevazione dell’interesse alla salute pubblica al rango di autonomo diritto comporta il rischio, analogo a quello che si configura rispetto alla nozione di sicurezza pubblica[6], che misure volte garantire le condizioni basilari per l’esercizio dei diritti e delle libertà possano tradursi in una minaccia per gli stessi.
L’idea di libertà, in un ordinamento democratico, porta ontologicamente in sé l’idea dei propri limiti, volti a garantire la coesistenza degli individui e delle singole libertà garantite a ciascuno. Decisivo diventa quindi individuare quei limiti, posto che da essi dipende l’ampiezza dello spazio libero che contengono; tanto più determinati e precisi saranno, quanto più ampio e quanto più certo sarà quello spazio. Non a caso, le libertà costituzionalmente garantite incontrano solo limitazioni specifiche[7]: incolumità pubblica e sanità alla libertà domiciliare (art.14 Cost.), sicurezza e sanità alla libertà di circolazione e soggiorno (art. 16 Cost.) e, insieme alla incolumità pubblica, alla libertà di riunione in luogo pubblico (art. 17 Cost.), buon costume a libertà di culto e manifestazione del pensiero (artt. 19 e 20 Cost.) [8].
La stessa Corte Costituzionale ha più volte riaffermato che la disciplina delle modalità di esercizio di un diritto non equivale ad una lesione dello stesso[9], a meno che non giunga al punto di snaturarlo[10]. La necessità che lo Stato appresti misure e mezzi per l’esercizio dei diritti, imposta dalla pluralità di soggetti titolari, avvicina i diritti di libertà a quelli di prestazione o sociali[11]: se tradizionalmente i primi postulano una mera astensione dei poteri pubblici mentre i secondi ne richiedono un intervento, necessario a predisporre le risorse che soddisfino le corrispondenti pretese, l’esercizio collettivo delle libertà individuali richiede un intervento volto a porre le condizioni per il loro godimento.
Se quindi l’ordinamento democratico non è di per sé incompatibile con l’esistenza di limiti a diritti e libertà, che anzi presuppone, tali limiti vanno intesi in senso costituzionalmente orientato, escludendo da un lato un primato indiscusso delle libertà, incompatibile con la pluralità e la coesistenza dei soggetti titolari, ma imponendo d’altro canto un loro corretto bilanciamento con gli interessi pubblici di volta in volta configgenti, dei quali è specularmente esclusa la necessaria prevalenza.
Non è quindi mai possibile affermare una gerarchia fissa tra valori, astrattamente posta; nonostante il carattere primario di alcuni, questi dovranno sempre, nella loro applicazione concreta, essere bilanciati con tutti gli altri.
3. Ruolo della giurisdizione e strumenti del giudice amministrativo.
Nel momento in cui, concretamente, libertà e diritti vengono compressi in ragione di un interesse pubblico, il ruolo del giudice diventa cruciale al fine di verificare in concreto la prevalenza di questo, o la misura di tale prevalenza, e quindi la legittimità del sacrificio imposto al privato.
Questo ruolo della giurisdizione, nell’attuale stato di emergenza, è parimenti importante a livello nazionale e a livello eurounitario[12], dove la Corte da sempre interpreta le possibili limitazioni poste dagli Stati membri ai diritti ed alle libertà fondamentali[13], ed in primis quella di circolazione delle persone, come strettamente ancorate a criteri di necessità e proporzionalità[14], tanto nel senso della sussistenza di mezzi alternativi a evitare il pericolo di lesione dell’interesse tutelato attraverso la limitazione, che nel senso di proporzionalità tra l’adozione dell’eccezione ai principi e il risultato atteso[15].
A livello nazionale il controllo di proporzionalità, cui il giudice ordinario è poco avvezzo, è uno strumento classico del giudice amministrativo, frutto del percorso che, partendo dal vaglio di ragionevolezza dell’azione, ha portato tutti i paesi europei, seppure in fasi diverse e attraverso tecniche distinte, verso la piena sindacabilità del potere amministrativo discrezionale.
Il giudice amministrativo, storicamente, ha dimostrato la capacità di adattare il proprio sindacato al suo oggetto. Le sue tecniche di controllo sono state fortemente influenzate dalle trasformazioni intervenute nel sistema delle fonti e sono strettamente connesse alla struttura della norma[16]; più la formulazione è diventata ampia, più i criteri di valutazione si sono fatti elastici, ed il sindacato sulla discrezionalità è diventato pervasivo[17]. Ragionevolezza e proporzionalità sono clausole generali, che operano ben diversamente dalle rigide figure sintomatiche di fine ottocento, collocandosi nel punto di approdo dell’evoluzione e dell’affinamento delle tecniche di controllo.
Sebbene il principio di proporzionalità si sia sviluppato nell’ambito delle libertà e dei diritti costituzionalmente garantiti[18], nella dottrina amministrativistica la prospettiva è in qualche modo ribaltata rispetto a quella costituzionalistica, posto che non si discute tanto di limiti alla compressione di un diritto o libertà, quanto di prevalenza di un interesse pubblico sui diritti ed interessi individuali[19]. Progressivamente, dal diritto di polizia e dagli altri settori in cui si pongono istanze di tutela delle libertà fondamentali, il sindacato di proporzionalità si è così allargato fino a riguardare ogni ambito di esplicazione del potere discrezionale[20], consentendo il passaggio da un concetto di proporzionalità identificata essenzialmente con la mitezza dell’azione ad un più corretto inquadramento in termini di equilibrio complessivo degli interessi.
L’azione proporzionata non è infatti la più mite, bensì quella equilibrata, poiché il bilanciamento postula sempre un rapporto plurilaterale, in cui la prevalenza di un interesse si misura sullo stesso terreno della recessività degli altri; allo stesso modo, più che alla mitezza e moderazione del potere si dovrà far riferimento alla sua corretta intensità, che ben può significare una severità estrema, qualora appunto dal bilanciamento emergesse una tale necessità[21].
Il principio di proporzionalità si atteggia quindi come principio di riequilibrio tra forze in contrasto, e si esplica nei tre momenti dell’idoneità, della necessarietà, e dell’adeguatezza dell’azione[22]: essa deve essere tale da condurre al raggiungimento del fine, non deve eccedere l’ambito del necessario, deve garantire l’equilibrato bilanciamento degli interessi in gioco[23].
L’applicazione del principio in sede giurisdizionale si traduce nel soppesare l’intensità del potere esercitato, che deve risultare adeguata rispetto al concreto assetto di interessi, nell’ottica del perseguimento della giustizia sostanziale dell’azione[24], che guardi al contenuto valoriale degli interessi confliggenti[25]. Si è parlato, in tal senso, di rapporto tra ius iussum e ius iustum, ovvero tra astratta regola di diritto che disciplina la fattispecie, e sua applicazione precettiva al caso concreto, come concreta definizione di un dato assetto giuridico[26]: per elaborare il precetto, estrapolandolo dalla norma, è necessario procedere alla ponderazione degli interessi, perché la giustizia sostanziale attiene all’equilibrio orizzontale tra gli elementi che entrano in contatto – o in conflitto – nell’ambito della fattispecie richiamata dalla norma.
Un tale sviluppo coincide col superamento della concezione monistica dell’interesse pubblico e con il riconoscimento della pluralità dei valori e degli interessi tutelati dall’ordinamento[27]; il sindacato del giudice amministrativo si è evoluto di conseguenza da vaglio dell’esistenza, esattezza e qualificazione dei fatti a vaglio di completezza degli interessi considerati[28].
4. Giudice amministrativo e diritto dell’emergenza.
Il giudice amministrativo ha affinato i propri strumenti anche esercitandoli sul terreno dei provvedimenti amministrativi extra ordinem, che il nostro ordinamento prevede come “strumento valvola”, quali le ordinanze di necessità sindacali e prefettizie[29].
Anche rispetto a tali strumenti si è assistito ad una evoluzione ampiamente debitrice dell’interpretazione offerta dalla Corte Costituzionale delle norme che li prevedono[30], che possono essere considerate costituzionalmente legittime solo in quanto vincolate al rispetto dei principi dell’ordinamento giuridico, quindi, in primis, in quanto i poteri dalle stesse previsti non intacchino le libertà garantite in Costituzione[31].
Fermo il ruolo del giudice costituzionale, quello amministrativo interviene necessariamente ex post rispetto all’adozione dell’atto emergenziale, e quindi rispetto alla compressione del diritto individuale. Anche in quest’ambito emerge il principio fondamentale per cui il bilanciamento tra valori non possa mai essere effettuato a priori e in astratto[32], posto che il giudice è sempre chiamato a vagliare il bilanciamento effettuato nel caso singolo, pur non potendo prescindere dal complesso dei valori costituzionali, che fungono da parametro[33].
Il giudice amministrativo, adito in sede cautelare o comunque nel merito, è come sempre chiamato a valutare il contenuto (e la durata) del provvedimento, in relazione ai presupposti che ne hanno legittimato l’adozione; più rigidamente tali presupposti sono definiti dalla normativa, più stringente sarà l’obbligo di motivazione, attraverso il quale potrà esercitarsi il controllo di ragionevolezza e di proporzionalità.
Tuttavia il diritto dell’emergenza, in ogni campo, ha sempre la peculiarità di essere un diritto necessariamente elastico, posto che l’emergenza è tale proprio in quanto difforme – e difforme in modo imprevedibile – dall’ordinario. Lo stesso vale in ambito amministrativo: il presupposto dell’emergenza, di norma e almeno in parte, scioglie l’amministrazione dalla rigidità dei vincoli procedimentali, ivi incluso il dovere di motivazione, cosicché da un lato il controllo giurisdizionale è di fatto limitato all’eccesso di potere ma, dall’altro, un eventuale difetto di motivazione non necessariamente ridonda in tale vizio[34].
Paradossalmente, quindi, laddove più forte è l’evenienza di una compressione dei diritti, delle libertà e degli interessi individuali, e quindi più forte è l’esigenza di un controllo, quest’ultimo rischia di essere pregiudicato dall’allentarsi dei vincoli procedurali. Ciò rende ancora più importante la rigorosa valutazione del presupposto che ha legittimato l’esercizio del potere, rispetto al quale l’esigenza di accertare la necessità, la proporzionalità e l’adeguatezza del sacrificio del singolo è rafforzata[35].
5. Occhi aperti sul presente.
L’applicazione di questo portato all’attuale contesto impone una serie di riflessioni, stimolate dai due decreti del Consiglio di Stato già richiamati.
Come si è visto, l’ordinamento riconosce all’amministrazione dei poteri extra ordinem, caratterizzati dalla possibilità di derogare alle normali regole procedimentali, al ricorrere di stringenti presupposti di necessità e urgenza. Ora, la attuale situazione emergenziale non implica di per sé che tali presupposti ricorrano in ogni caso; conseguentemente, non sembra possibile giustificare a priori, in ragione della gravità del rischio per la salute pubblica, una generale deroga o un allentamento delle regole procedimentali. Le deroghe proprie del diritto dell’emergenza sono legittime solo ove imposte dall’impossibilità di applicazione dei procedimenti ordinari (in primo luogo per quanto attiene all’assetto delle competenze).
In particolare, ad oggi il vizio di motivazione non può e non deve essere valutato con minor rigore rispetto a quanto non lo sarebbe in condizioni ordinarie[36], posto che proprio la motivazione è lo strumento attraverso il quale il giudice amministrativo può realmente conoscere e quindi valutare il processo di bilanciamento e di ponderazione effettuato dall’amministrazione. Il Consiglio di Stato ha forse perso un’occasione per ribadire, sebbene incidentalmente, tale fondamentale concetto, scegliendo di non spendere alcuna parola sul fumus boni iuris pur a fronte del denunciato difetto di motivazione[37].
Ancora, deve escludersi che l’emergenza, ossia la gravità del pericolo per la salute pubblica, legittimi limitazioni delle libertà individuali che non tengano correttamente conto di tutti gli interessi coinvolti e del loro peso relativo. È vero che la misura “giusta” dell’azione amministrativa non necessariamente è quella più mite, bensì sempre quella adeguata, ma alla determinazione di adeguatezza può giungersi sempre e soltanto all’esito di una valutazione comparativa che non escluda nessuno degli interessi coinvolti.
Nelle recenti pronunce del Consiglio di Stato, la sospensione di un ordine di quarantena è stata negata ritenendo non irreparabile e non grave il pregiudizio individuale se comparato con l’esigenza di tutela della salute pubblica https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/1029-ordinanze-emergenziali-regionali[38]. Stridente è il contrasto tra gli argomenti impiegati in motivazione laddove, da un lato, si riconosce ai fini dell’ammissibilità dell’appello il rango costituzionale del bene della vita leso nel caso concreto, individuato nel “libero movimento, al lavoro, alla privacy”, mentre dall’altro si afferma che “le conseguenze dannose per l’appellante non hanno poi il carattere della irreversibilità”, con specifico riferimento all’esistenza di misure di tutela del posto di lavoro e di soccorso emergenziale per esigenze alimentari e di prima necessità.
Sembrerebbe quasi che il bilanciamento sia stato effettuato dal Consiglio di Stato tra un pregiudizio economico (peraltro, qualificato come eventuale) ed un interesse pubblico primario, con ovvia soccombenza del primo in favore del secondo, secondo una impostazione che non è in alcun modo condivisibile, in quanto finisce per espungere dal bilanciamento la libertà individuale del singolo al movimento ed alla circolazione (sebbene nei limiti legalmente imposti dalla attuale normativa emergenziale), direttamente incisa dal provvedimento impositivo della quarantena.
Se tale interesse fosse stato correttamente preso in considerazione, la conclusione sulla non gravità e non irreversibilità del pregiudizio sarebbe stata quanto meno più sfumata.
È evidente infatti che la libertà personale temporaneamente negata al soggetto non può essergli in alcun modo restituita, né può dirsi ristorata dall’eventuale compensazione economica per le giornate di lavoro perse.
Quanto alla gravità di tale lesione, desta perplessità il reiterato riferimento al carattere “limitato” del periodo residuo di efficacia della misura restrittiva di cui il ricorrente invocava in sede cautelare la sospensione, pari a quattro giorni, se si considera che il nostro ordinamento conosce termini ben più stringenti a tutela della libertà individuale, quali quelli per la convalida dei trattamenti sanitari obbligatori, o quelli di convalida di misure restrittive in materia penale, termini che, inutile ricordarlo, non sono sospesi pur a fronte dell’attuale stato di emergenza.
Ecco allora che la mancata corretta considerazione di tutti gli interessi in gioco si traduce in un bilanciamento corretto solo in apparenza, in quanto parziale.
Alla luce di tutto quanto detto, l’affermazione del Consiglio di Stato per cui le “disposizioni fortemente compressive di diritti anche fondamentali della persona - dal libero movimento, al lavoro, alla privacy -”, applicate oggi “per la prima volta dal dopoguerra”, si legittimano “in nome di un valore di ancor più primario e generale rango costituzionale, la salute pubblica” non può che far riflettere. È proprio la configurazione di un astratto e rigido rapporto gerarchico tra valori primari che ingenera, a cascata, le incongruenze appena rilevate nella motivazione dei decreti, che sembrano quasi dire, in ultima istanza, che una compressione (immotivata?) di quattro giorni della libertà di movimento di un soggetto non sia qualificabile come grave, né come irreparabile.
In conclusione, posto che il nostro ordinamento, e in particolare il giudice amministrativo, dispone di strumenti – anche culturali – adeguati, validi anche in una situazione emergenziale ed utili a far fronte ai pericoli che inevitabilmente ne conseguono, ora come non mai è importante che di tali strumenti il giudice (qualsiasi giudice) faccia un attento e rigoroso utilizzo, prendendo seriamente le limitazioni delle libertà individuali che oggi ci sono imposte e valutandole caso per caso con il massimo rigore, senza trincerarsi più o meno frettolosamente e più o meno consapevolmente dietro l’apparente prevalenza di un interesse sugli altri.
Il rischio di resuscitare le implicite clausole generali o ideali di ordine pubblico dell’ordinamento precostituzionale, o di elevare la salute e la sicurezza pubblica ad autonomi diritti, ipertrofici al punto di fagocitare gli altri, non è mai lontano o inverosimile come potrebbe sembrare; ripercorrere gli approdi lungamente e faticosamente raggiunti non è mai un esercizio vano; appigliarsi con forza agli strumenti consolidati della nostra cultura giuridica liberale è, mai come ora, opportuno e necessario.
[1] Delibera del Consiglio dei Ministri del 31 gennaio 2020, recante la “Dichiarazione dello stato di emergenza in conseguenza del rischio sanitario connesso all'insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili”, pubblicata in GU Serie Generale n.26 del 1.2.2020.
[2] Sulle norme che regolano, in questa fase, la continuità dell’operato della giustizia amministrativa, si veda su questa Rivista, www.giustiziainsieme.it, “La giustizia di fronte all’emergenza coronavirus. Le misure straordinarie per il processo amministrativo”, di Fabio Francario.
[3] Si veda, in questa Rivista, www.giustiziainsieme.it , “La pandemia aggredisce anche il diritto?”, Intervista a Corrado Caruso, Giorgio Lattanzi, Gabriella Luccioli e Massimo Luciani, di Franco De Stefano.
[4] Cfr. Cons. St., decreti “gemelli” n. 1553 del 30 marzo 2020 e n. 1611 del 31 marzo 2020, nei quali si legge che “la gravità del danno individuale non può condurre a derogare, limitare, comprimere la primaria esigenza di cautela avanzata nell’interesse della collettività, corrispondente ad un interesse nazionale dell’Italia oggi non superabile in alcun modo”, e decreto n. 2028 del 17 aprile 2020, in cui si legge che “la valutazione, quale priorità nazionale, dell’interesse generale alla rigorosa prevenzione anti-Covid19, non consenta di ritenere irragionevolmente compressi, per il periodo della emergenza, diritti, pur rilevanti e fondamentali, dei privati istanti in relazione ad esigenze (quali le modalità di approvvigionamento alimentare, come nel caso di specie) che ovviamente possono essere regolate quanto ai tempi e criteri, nell’interesse collettivo sicuramente prevalente su quello individuale”.
[5] La prima delle condizioni per cui sia assicurata ai singoli la libera fruizione dei diritti loro riconosciuti dall’ordinamento è l’incolumità, elemento che accomuna salute e sicurezza attraverso la componente di fisicità implicita in quest’ultimo concetto. Sul tema, ampiamente, si veda Denninger E., Cinque tesi sull’architettura della sicurezza, in particolare dopo l’11 settembre 2001, in Sicurezza e stato di diritto: problematiche costituzionali, a cura di Baldini V., Cassino, 2005, 37 e ss.
[6] Denninger E., Diritti dell’uomo e legge fondamentale, Torino, 1998, 38, per cui l’idea di un diritto fondamentale alla sicurezza suona quasi come la minaccia di “una procura in bianco affidata allo stato per ogni possibile intervento sulla libertà”. Ancora, con riferimento al dibattito sull’esistenza di un diritto alla sicurezza pubblica in Francia, si è scritto che l’accento posto sulla sicurezza all’interno dell’agenda politica a partire dagli anni ’70 è venuto dalla destra, ed ha avuto l’effetto di giustificare, in nome della sicurezza, un controllo della polizia in ambiti in cui gli era precluso in nome della libertà Lepineux B., Approche institutionnelle de l’ordre public: les fondements idéalistes de la notion à l’épreuve de son contenu réaliste, Clermont-Ferrand, 2008.
[7] “Sia pure comunemente ritenute accezioni circostanziate dell’ordine pubblico”, Famiglietti F., La sicurezza pubblica come interesse unitario. Aspetti problematici di un’organizzazione federalistica della “pubblica sicurezza”, in Sicurezza e stato di diritto, problematiche costituzionali, a cura di Baldini V., Cassino 2005 , 277.
[8] Significativo è che il riaffermarsi in sede costituzionale dei diritti di libertà è accompagnato da una (nuova) frammentazione della nozione di ordine pubblico o, addirittura, da una sua espunzione dal testo, almeno fino alla l. cost. 2/2001, quasi che l’associazione col fascismo e con l’uso indiscriminato di tale concetto al fine di comprimere le libertà fosse così forte da renderlo ripugnante in seno all’Assemblea costituente. Una ricostruzione del dibattito sul tema in seno all’Assemblea Costituente è riportata da Corso G., voce Ordine pubblico nel diritto amministrativo, in Dig. disc. pub., Torino 1995, X, 438, in cui l’autore analizza la vicenda dell’art. 19 (libertà di culto) e dell’art. 17 (libertà di riunione) testimoniando come la locuzione “ordine pubblico”, originariamente inserita, sia stata poi espunta perché giudicata “pericolosa” e sostituita dalle formulazioni che oggi conosciamo.
[9] La giurisprudenza costituzionale ha in qualche modo ripristinato un limite di portata generale alle libertà costituzionali, recuperando una nozione unitaria di ordine pubblico che renda per così dire fungibili i singoli limiti posti in Costituzione; si vedano le sentenze della n. 168/1971, n. 218/1988, n. 1013/1988, n. 115/1995.
[10] La stessa Corte Costituzionale si è preoccupata di qualificare tale concetto di ordine pubblico in senso democratico: si vedano le sentenze n. 1/1956, n. 121/1957, n. 38/1961, n. 48/1964, n. 49/1965, n. 129/1970, 138/1985.
[11] Così Corso G., voce Ordine pubblico nel diritto amministrativo, cit., 441.
[12] Nei Trattati, sicurezza e ordine pubblico – da intendersi secondo le accezioni proprie di ogni Stato membro - sono menzionati ripetutamente come cause di eccezione all’applicazione della disciplina comunitaria della libera circolazione, in favore delle discipline nazionali. Quel che tali norme intendono riconoscere agli Stati è, in definitiva, un “margine di apprezzamento”, e non la totale libertà in materia, proprio perché “non si può […] negare che la nozione di ordine pubblico varia da un paese all’altro e da un’epoca all’altra”, C. Giust., causa 41/74, Yvonne Van Duyn c. Home Hoffice, punto 18 della motivazione. Cfr. anche ANGELINI F., voce Ordine pubblico nel diritto comunitario, in Dig. disc. pub., Torino 1995, Agg., 504.
[13] La Corte si preoccupa di qualificare l’ordine pubblico comunitario in senso democratico, richiamando il rispetto dei principi democratici e dei diritti fondamentali così come garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, fin dalla sentenza 14 maggio 1974, causa 4/73, Nold, Racc., 1974, 491.
[14] C. Giust., causa 36/75, Roland Rutili c. Ministre de l’Intérieur, Racc., 1975, 1219. La Corte richiama espressamente la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, agli artt. 8, 9, 10, 11 e all’art. 2 del quarto protocollo, secondo i quali le restrizioni apportare, per esigenze di sicurezza ed ordine pubblico, ai diritti che tutelano, non possono eccedere quanto necessario a garantire tali esigenze “in una società democratica” (punti 31 e 32 della motivazione).
[15] Vedi, a titolo esemplificativo, C. Giust., causa 231/83, Cullet e Chambre sindacale des rèparateur automobiles c. Détaillants de produits pétroliers, Racc., 1985, 305; causa 154/85, Commissione c. Repubblica italiana, Racc., 1987, 2717; causa 352/85, Van Andersteen c. Stato olandese, Racc., 1988, 2805.
[16] Il sistema CEDU, i Trattati comunitari, le Costituzioni nazionali costituiscono altrettanti “strati”, attraverso i quali un ricco complesso di diritti e libertà ricevono tutela rafforzata. Sul punto, si veda A. Bouveresse, Le pouvoir discrétionnaire dans l’ordre juridique communautaire, Bruylant, Bruxelles, 2010, 16 ss., e dottrina ivi citata, spec. a pp. 22 e 23. La giurisprudenza, nell’elaborare le fonti appena richiamate, ne ha estrapolato ulteriori principi inespressi, contribuendo alla perdita di centralità della legislazione ordinaria. È questa seconda tendenza evolutiva che impatta sul principio di legalità. Esso muta, trasformandosi da principio di rispetto della legge a principio di rispetto del diritto in senso lato. Sul punto, si veda S. Cognetti, Profili sostanziali della legalità amministrativa. Indeterminatezza ella norma e limiti della discrezionalità, Milano, 1993 nonché, sul principio di legalità dal punto di vista comparato, S. Flogaitis, La notion de principe de légalité, in Rev. eur. dr. Publ., 1998, X, p. 655 ss. Cfr anche M. D’Alberti, Diritto amministrativo comparato, cit., 41, ed A. Sandulli, La proporzionalità dell’azione amministrativa, Padova, 1998, 13 ss. e 18 ss., e dottrina ivi citata.
[17] A riguardo, ex multis, V. D. Lochak, La justice administrative, Montchrestien, Paris, 1992, 118, e F. Ledda, L’attività amministrativa, in Il diritto amministrativo degli anni ’80, Milano, 1987in particolare 89 ss.
[18] A. Sandulli, La proporzionalità dell’azione amministrativa, cit., 45.
[19] Si veda, in tal senso, M. D’Alberti, Diritto amministrativo comparato, cit., 128 e 136, che delinea un parallelismo tra democratizzazione del diritto amministrativo italiano a fine ‘800 ed il progressivo ampliamento del sindacato giurisdizionale cui si assiste nel periodo successivo, attraverso il sindacato sui motivi agli estremi inizi del ‘900 e poi negli anni ’30 attraverso il sindacato sulla completezza degli interessi. Si veda anche A. Sandulli, La proporzionalità dell’azione amministrativa, cit., 16 ss., per cui il passaggio dallo stato di diritto allo stato costituzionale ha comportato la necessaria conformità della legge ad una serie di principi fondamentali, ed ha quindi implicato una maggiore elasticità della ponderazione.
[20] Si rinvia alla ricostruzione di D.U. Galetta, Il principio di proporzionalità quale principio generale dell’ordinamento (Commento a Cons. st., sez. V, 14 aprile 2006, n. 2087), in Giorn. Dir. Amm., n. 10/2006, 1107 ss.
[21] Si utilizza fin da subito la terminologia di G. Zagrebelsky, Il diritto mite. Legge diritto giustizia, Torino, 1992. Il diritto mite di Zagrebelsky era il diritto dello Stato costituzionale in cui principi e valore svolgano una funzione integrativa delle norme, in contrapposizione con lo Stato di diritto positivista, considerato “organizzazione della coercizione”.
[22] Riguardo la tripartizione del principio, si veda già D.U. Galetta, Discrezionalità amministrativa e principio di proporzionalità, (nota a Cons. St., sez. V, 18 febbraio 1992, n. 132), in Riv. It. Dir. Pubb. Com., n. 1/1994, pp. 146 ss.
[23] La tripartizione ha origine nel diritto tedesco di polizia, e si è diffusa negli altri paesi grazie all’elaborazione della corte di Giustizia delle Comunità Europee. Cfr. A. Sandulli, La proporzionalità dell’azione amministrativa, cit., 66. Nello stesso testo, si trova anche una compiuta indicazione bibliografica della dottrina tedesca (pp. 1 ss. e 58 ss.). Si veda pure D.U. Galetta, Principio di proporzionalità e sindacato giurisdizionale nel diritto amministrativo, Milano, 1998, 20 ss.
[24] Tale concetto di giustizia non è da intendersi in senso giusnaturalistico, bensì come componente immanente al concetto di diritto. Cfr. a riguardo R. Alexy, Concetto e validità del diritto, Torino, 1997. Individua questo concetto come base filosofica per lo sviluppo del principio J. Schwarze, Droit administratif européen, Bruylant, Bruxelles, 2009, 723. Ancora, sul concetto di giustizia sostanziale cfr. C. Perelman, Traité de l’argumentation: la nouvelle rhétorique, Parigi, 1958. L’Autore afferma che il giudice, nella decisione del caso concreto, è orientato da due direttrici: il contenuto precettivo della norma e l’”equità”. Si veda anche N. Bobbio, Perelman e Kelsen, in Diritto e potere, Saggi su Kelsen, Napoli, 1992, 179 ss..
[25] Si veda, per tutti, P.G. Jaeger, Valutazione comparativa di interessi e concorrenza sleale, in Riv. dir. ind. 1970, I, 7 ss.
[26] S. Cognetti, Principio di proporzionalità: profili di teoria generale e di analisi sistematica,Torino, 2010, 16 ss.
[27] Per l’evoluzione italiana, in prospettiva storica, si veda M. D’Alberti, Diritto amministrativo comparato, cit., 136, che riporta il caso Concetti, C.d.S., sez. IV, 10 settembre 1926.
[28] La dottrina degli anni ’30 del secolo scorso ha definito l’apprezzamento discrezionale come “comparazione qualitativa e quantitativa degli interessi pubblici e privati, in modo che ciascuno di essi venga soddisfatto secondo il valore che l’autorità ritiene abbia nella fattispecie”: M.S. Giannini, Il potere discrezionale della pubblica amministrazione, cit, 73. Sulla genesi di quell’impostazione, si veda anche M. D’Alberti, Intervista a M.S. Giannini, Discrezionalità amministrativa e pluralismo, in Quaderni del pluralismo, 1984, 2, 104.
[29] Migliarese F., voce Ordinanze di necessità, in Enc. Giur. Treccani, Roma, 2004 XXII, p. 3.
[30] V. le sentenze della Corte costituzionale nn. 8/1956 e 26/1961. Per un approfondimento sulla giurisprudenza sul tema, v. Caia G., L’ordine e la sicurezza pubblica, in Trattato di diritto amministrativo a cura di Cassese S., Milano, Giuffrè, 2003, I, p. 301.
[31] La direzione seguita dalla Corte - ed accolta dalla maggior parte della dottrina - è pacificamente ritenuta suscettibile di estensione a tutte le ordinanze di necessità, anche se pronunciata in riferimento specifico all’art. 2 TULPS, e tende a salvare le ordinanze di necessità e urgenza da accuse di totale incostituzionalità, dichiarandole compatibili con l’assetto costituzionale purché si attengano ad una serie di canoni elaborati dalla Corte stessa: “efficacia limitata nel tempo in relazione ai dettami della necessità e dell’urgenza, adeguata motivazione, efficace pubblicazione nei casi in cui il provvedimento non abbia carattere individuale, conformità del provvedimento stesso ai principi dell’ordinamento giuridico”, C. cost. sent. n. 8/1956.
[32] Cavallo Perin R., Romano A., Commentario breve al testo unico sulle autonomie locali, Padova, 2006, p. 54.
[33] Sulla necessità di riportare al contesto dell’attuale ordinamento giuridico la discussione sulle ordinanze di necessità, mossa necessaria per evitare le perplessità che altrimenti sorgerebbero in relazione ad alcune impostazioni, Rescigno G.U., voce Ordinanza e provvedimenti di necessità, in NN.D.I., Torino, 1998, 92, che suggerisce di trascurare la trattazione delle ordinanze quali erano prima della Costituzione e quali “purtroppo molto spesso in dispregio della Costituzione continuano ad essere”.
[34] Cavallo Perin R., Romano A., Commentario breve, cit., pp. 369 ss., anche per un’analisi di casi giurisprudenziali specifici.
[35] Si rimanda a Rescigno G.U., voce Ordinanza e provvedimenti di necessità, cit., pp. 101-103, per un approfondimento ulteriore delle questioni di cui si è dibattuto e di quelle che, a questo punto, sembrerebbero prospettarsi, in primis l’individuazione, nel sindacato sul presupposto per l’esercizio del potere, del limite tra la legittimità e il merito.
[36] Riguardo la possibilità di derogare ai principi procedimentali in materia di motivazione, in relazione ai provvedimenti straordinari ed urgenti, si veda Cerase M., Ordinanze di urgenza e necessità, cit., p. 3990.
[37] Sul punto, il Cons. St., nei decreti n. 01553 del 30 marzo 2020 e N. 01611 del 3 marzo 2020, non ha ritenuto di spendere alcuna parola, essendo del resto la questione assorbita dalle ragioni del rigetto, basato sulla mancanza dei requisiti di gravità ed irreparabilità del danno lamentato, e quindi sulla mancanza di periculum in mora.
[38] Si vedano ancora i decreti del Consiglio di Stato n. 01553 del 30 marzo 2020 e n. 01611 del 3 marzo 2020: si tratta, in entrambi i casi, di decisione originata da un’istanza di sospensione dell’ordinanza sindacale con cui era stato imposto l’isolamento o quarantena ad un lavoratore agricolo, adottata a seguito di una non precisata violazione da parte di questo di un’ordinanza regionale (provvedimenti sulla cui legittimità non c’è in questa fase spazio per soffermarsi, ma rispetto ai quali si rimanda a “Sull’uso (e abuso) delle ordinanze emergenziali regionali”, Intervista di Filippo Ruggiero a Antonio Bartolini, su questa Rivista, www.giustiziainsieme.it). Il Consiglio di Stato ha ritenuto ammissibile l’appello, posto che gli interessi lesi avevano ad oggetto libertà costituzionalmente garantite (essendo altrimenti esclusa l’appellabilità di decreti monocratici) ma lo ha rigettato nel merito, per mancanza dei requisiti di gravità ed irreparabilità del danno.
Coltivazione di marijuana e uso personale dopo le Sezioni Unite
di Lorenzo Miazzi
PARTE SECONDA Le caratteristiche della coltivazione non punibile.
Sommario: 7. “Minime dimensioni svolte in forma domestica” - 8. La destinazione in via esclusiva all’uso personale e i suoi indici sintomatici - 9. Le tecniche di coltivazione: cosa vuol dire “rudimentali” - 10. Lo “scarso” numero di piante: sì, ma quante? - 11. Una previsione difficile: il quantitativo ricavabile - 11 a. Il quantitativo “modestissimo” - 11 b. Il prodotto “ricavabile” - 12. La mancanza di indici di inserimento nell’ambito del mercato -13. Il concetto di uso personale e gli indici sintomatici - 14. Uso personale anche se la coltivazione è di gruppo?
7. “Minime dimensioni svolte in forma domestica”
Allora esaminiamo il “core business” di questa importantissima e condivisibile sentenza: la non punibilità della “coltivazione domestica” destinata all’uso personale. Lo si deve fare riportandosi passo passo alla densa elaborazione della Corte[1].
Esaminando la massima della sentenza, emerge che la coltivazione scriminata deve essere una “coltivazione di minime dimensioni svolta in forma domestica… destinata in via esclusiva all’uso personale”.
Sono dunque due gli elementi costitutivi che vanno accertati in fatto: le caratteristiche della coltivazione e la destinazione esclusiva all’uso personale.
Partendo dalle caratteristiche della coltivazione, si deve trattare di una “coltivazione di minime dimensioni svolta in forma domestica”. La locuzione “di minime dimensioni svolte in forma domestica” significa a mio avviso che la coltivazione deve essere personale, svolta in luoghi di disponibilità del coltivatore, di dimensioni minime (ci si chiede immediatamente quante piante: sul punto si rinvia al par. 10).
Ora, il recupero del termine “coltivazione domestica” rimanda direttamente all’orientamento (disatteso dalle SS.UU. Di Salvia) che contrapponeva la coltivazione tecnico-agraria a quella domestica[2]. La sentenza Caruso più volte richiama quei concetti.
A mio avviso perciò, rifacendosi a quell’orientamento, la coltivazione domestica è quella che è effettuata in via approssimativa e rudimentale e i cui frutti sarebbero funzionali ad un utilizzo meramente personale, posta in essere preferibilmente in vaso con semina e governo della coltivazione manuali, senza la disponibilità di attrezzi, strutture e sostanze da cui desumere un approccio tecnico-agrario, cioè imprenditoriale, alla coltivazione.
Un cenno sulle modalità materiali della semina. La sentenza Di Salvia riferiva la coltivazione domestica a quella in vaso; è chiaro che si tratta di una visione “urbana” della coltivazione[3]. Ritengo che non cambi la natura della coltivazione se avviene su minime porzioni di terreno proprio (la classica pianta in giardino) o altrui, specie se terreno pubblico (rimando ai miei ricordi di giudice del Delta del Po, negli anni ’90, quando molti fumatori di marijuana avevano le piantine seminate sugli argini dei canali). La coltivazione non può essere considerata domestica, al contrario, quando è effettuata su un terreno per uso agricolo di cui si ha la disponibilità professionale.
Forse è bene sottolineare che la sentenza, nella sua accezione letterale, non scrimina tutte le coltivazioni “destinate all’uso personale”, ma solo quelle “di minime dimensioni svolte in forma domestica”: quindi rimangono punibili le coltivazioni di dimensioni non minime, anche se a uso personale. In questo vi è differenza rispetto alla detenzione per uso personale, in cui il limite quantitativo è solo un indice (vedi par. 17).
8. La destinazione in via esclusiva all’uso personale e i suoi indici sintomatici
Più ancora del recupero del concetto di coltivazione domestica, è questo il fulcro della rivoluzionaria sentenza: la non punibilità non dipende dal tipo botanico (che è un presupposto), ma dipende dalla destinazione!
Ma quali sono gli indici della destinazione all’uso personale? La sentenza si premura di darne alcune indicazioni, allo scopo di indirizzare il giudice di merito: non considerando penalmente rilevanti “le attività di coltivazione... che per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore.”
Analizziamo perciò specificamente i singoli indici.
9. Le tecniche di coltivazione: cosa vuol dire “rudimentali”
La sentenza parla di tecniche rudimentali. Una preziosa indicazione potrebbe ricavarsi, a contrario, da Cass., Sez. VI, 10.5.2007, n. 17983, Notaro, che riteneva non punibile la coltivazione domestica distinguendola dalla “coltivazione in senso tecnico-agrario ovvero imprenditoriale, che è caratterizzata da una serie di presupposti, quali la disponibilità del terreno, la sua preparazione, la semina, il governo dello sviluppo delle piante, la presenza di locali destinati alla raccolta dei prodotti.”
Fatto salvo l’inciso sulla disponibilità di terreno, di cui si è parlato sopra, possono quindi ritenersi “rudimentali” le tecniche che non prevedono un approccio agricolo imprenditoriale, ad esempio le coltivazioni in cui:
- non c’è una preparazione specifica del terreno (esclusa la predisposizione del vaso, o la buca nel terreno all’aperto, in cui piantare il seme);
- la semina avviene con modalità manuali e non meccaniche;
- il governo dello sviluppo delle piante è manuale e meramente intuitivo (irrigo la pianta quando ha sete, estirpo le erbacce che la soffocherebbero, effettuo una concimazione con quei prodotti che si vendono in ogni fioreria, e egualmente difendo la pianta dai parassiti) senza macchine agricole, senza strumenti professionali di misurazione (dell’umidità del terreno, della composizione chimica…) e senza pianificazione di interventi (concimazioni, disinfestazioni…);
- non vi è infine la presenza di locali destinati alla raccolta e conservazione dei prodotti (destinazione in via esclusiva, deve intendersi: non cambia la natura della coltivazione se l’essicazione viene fatta in un garage, se la conservazione avviene in una cantina dell’abitazione etc.).
10. Lo “scarso” numero di piante: sì, ma quante?
L’indicazione della sentenza (“scarso numero di piante”) evoca subito il problema del numero delle piante stesse.
Ora, la casistica del numero di piante considerate dalla giurisprudenza nelle sentenze di questi decenni, nel processo di valutazione della sussistenza del reato, è molto vasta, ma non direttamente utilizzabile ai fini considerati dalla sentenza Caruso.
Infatti, nel caso di contestazione del reato di coltivazione di sostanze stupefacenti, la valutazione del numero di piante era finalizzata all’esistenza di un principio attivo che soddisfacesse la condizione di offensività richiesta da Corte costituzionale 360/1995 e dalle sentenze pedisseque sopra ricordate[4]. In questo senso, quella giurisprudenza non è più utilizzabile acriticamente, in quanto per le SS.UU. il discrimine non è la quantità di principio attivo ma la destinazione ad uso personale (di cui la quantità di principio attivo è solo un indice).
Più interessante e utile ai fini della presente indagine può essere invece l’esame della giurisprudenza in materia di particolare tenuità del fatto applicata alla coltivazione di marijuana; infatti la destinazione all’uso personale della sostanza stupefacente coltivata è stata per la giurisprudenza un elemento decisivo per escludere la punibilità[5].
La casistica da me rinvenuta vede ritenere il fatto particolarmente tenue, essendo la sostanza destinata all’uso personale, dalla Suprema Corte per 3, 5, 13 piante e dai giudici di merito per 1 e 9 piante; mentre viene esclusa la particolare tenuità da parte della Cassazione in un caso di rinvenimento di 26 piante[6].
In conclusione: per quanto possa essere possibile ragionare in analogia fra gli istituti della particolare tenuità e della destinazione ad uso personale, si può ritenere che in materia di coltivazione, un numero di piante che non superi la decina può essere considerato “scarso” anche ai fini della non tipicità della coltivazione secondo i principi della sentenza Caruso.
11. Una previsione difficile: il quantitativo ricavabile
La Cassazione segnala come indice della destinazione all’uso personale “il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile” dalla coltivazione.
E’ questo il più instabile degli indici suggeriti, perché basato a sua volta su due concetti, uno dei quali generico - il “modestissimo quantitativo”, che non viene… quantificato - e l’altro incerto - la prevedibilità del “prodotto ricavabile”, che è applicabile solo con ampi margini di tolleranza.
11 a. Il quantitativo “modestissimo”
Partendo dal primo concetto: riferito a un quantitativo, “modestissimo” può voler dire tutto e niente, è ovvio. Si può però provare a utilizzare - in questo contesto - come punto di riferimento, anche per la coltivazione, la giurisprudenza sulla detenzione per uso personale (che ha sempre ritenuto che il dato ponderale da solo non costituisce prova decisiva dell'effettiva destinazione della sostanza allo spaccio, ma può comunque legittimamente concorrere a fondare, unitamente ad altri elementi, tale conclusione).
Un primo elemento certo è che l'eventuale superamento dei limiti tabellari indicati dall'art. 73 bis comma primo, lett. a) d.P.R. n. 309 del 1990 (25 mg per la dose singola, 500 mg per il quantitativo massimo detenibile) non determina alcuna presunzione di destinazione della droga detenuta ad un uso non personale, potendo essere considerato solo un mero indizio[7]. Perciò la giurisprudenza in materia di detenzione era giunta a ritenere sussistente l’uso personale per il possesso di hashish o marijuana con quantità di principio attivo di gran lunga superiore a quello che, in materia di coltivazione, soddisfaceva per la giurisprudenza quella condizione di “minima offensività” al di sotto della quale si assolveva dal reato.
Un secondo elemento da considerare è che la giurisprudenza sulla coltivazione era pesantemente condizionata dal contrasto di orientamenti successivi a Corte costituzionale n. 360/1995 sopra descritto; per cui vi erano casi di condanna per quantitativi minori rispetto ad altri casi oggetto di sentenze di assoluzione (ricordando che il dato ponderale è comunque solo uno degli elementi considerati dalle sentenze).
Scendendo all’applicazione pratica e limitandoci all’ultimo decennio, l’uso personale in ipotesi di detenzione è riconosciuto per un principio attivo di 0, 363 g di D9-THC, pari a 14 dms; per 48 grammi di hashish, pari a “161 dosi medie”; gr. 38,736 di sostanza stupefacente (hashish e marijuana) contenente gr. 1,328 di principio attivo da cui potevano essere ricavate 53,1 dosi medie giornaliere; per 97 grammi di marijuana; per grammi 11,711 di hashish, con principio attivo pari a grammi 1,312; per hashish del peso complessivo di 11,485 grammi, da cui è possibile ricavare 39 dosi medie singole; per circa 50 grammi di hashish[8].
L’uso personale invece è escluso per 50,360 grammi di hashish da cui erano ricavabili circa 2033 dosi medie singole; per 17 grammi di principio attivo nella marijuana, corrispondente a quasi 700 dosi; per 88 grammi netti di marijuana, da cui erano ricavabili circa 200 dosi di sostanza drogante; per 353 grammi lordi di marijuana[9].
11 b. Il prodotto “ricavabile”
Instabile è anche l’altro concetto, quello del “prodotto ricavabile” dalla coltivazione. Nei fatti, la coltivazione di marijuana, in quanto “coltivazione” non è un gesto unico, ma un percorso lungo nel tempo e soggetto a innumerevoli variabili, per cui ha caratteristiche diversissime caso per caso; e la coltivazione di marijuana in sé ha agronomicamente uno sviluppo complesso, con risultati incerti, che può portare o meno un dato quantitativo del principio attivo apprezzabile. Trattandosi di un’attività di fatto agricola, le variabili concrete sono tali da rendere per sua natura imprevedibile l’esito finale; e gli accorgimenti e le tecniche di coltivazione che riducono questa imprevedibilità (preparazione del terreno, irrigazione programmata, lotta chimica alle infestanti etc.) sono proprio quelle attività che non sono compatibili con le “rudimentali tecniche” che la Cassazione ritiene connotare la coltivazione a uso personale.
Di tutto questo è pienamente consapevole la sentenza Caruso, che prende espressamente in considerazione l’ipotesi in cui “si verifichi ex post che la coltivazione ha effettivamente prodotto una sostanza inidonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile”. Dunque, secondo le SS.UU., “la verifica dell'offensività in concreto deve essere diversificata a seconda del grado di sviluppo della coltivazione al momento dell'accertamento”; e quindi:
- qualora il ciclo delle piante sia completato, l'accertamento dovrà avere per oggetto l'esistenza di una quantità di principio attivo necessario a produrre effetto drogante;
- nelle fasi pregresse di coltivazione, rileva penalmente la coltivazione a qualsiasi stadio della pianta che corrisponda al tipo botanico, purché si svolga in condizioni tali da potersene prefigurare il positivo sviluppo.
In conseguenza, più lontana è la fase terminale della trasformazione della pianta in prodotto utilizzabile, tanto più difficile sarà individuare con precisione l’esito. In una coltivazione domestica, i semplici germogli, la pianta di pochi centimetri, la pianta senza infiorescenze possono poi dare quale esito finale un preparato vegetale senza un principio attivo apprezzabile. Nell’ipotizzare il “quantitativo ricavabile” di marijuana con effetto stupefacente perciò, occorrerà una valutazione prudenziale. Con l’importante specificazione che mentre il quantitativo massimo è identificabile con sufficiente precisione (una pianta di un certo tipo può dare in condizioni ottimali non più di un certo quantitativo di principio attivo), il quantitativo minimo può essere fino a zero, in caso di imperizia del coltivatore.
A questo punto sorge il problema di come calcolare la sostanza stupefacente ricavabile dalla pianta coltivata. Fino a una ventina di anni fa si poteva dire con sufficiente tranquillità che una coltivazione media forniva un risultato con una percentuale di principio attivo intorno al 2%; tanto che nella legge del 1990 la cannabis indica veniva specificata come “2% Delta9 THC”.[10] Ora però non sono infrequenti sequestri di cannabis con una percentuale di principio attivo superiore al 15%; nella ultima Relazione Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia anno 2019 (dati 2018), si stima una percentuale di purezza alta, del 12% in media per la marijuana e del 17% per l’hashish[11].
Ora è ovvio che - se il fine è quello di determinare il prodotto ricavabile, nel senso di sostanza stupefacente, secondo l’insegnamento delle SS.UU. - ritrovare una pianta con il 2% di D9-THC o una con il 20% fa una grandissima differenza, perché nel secondo caso è come se la coltivazione fosse di dieci volte più grande.
Per conoscere esattamente il dato del principio attivo è necessario un’analisi chimica; certamente però questa è una procedura corretta ma costosa e lunga[12], e che dà risultati certi solo nelle ipotesi di ciclo colturale completato. In alternativa si può calcolare il principio attivo, presuntivamente, dal dato grezzo, per avere una prima idea del fatto e ragionare, a grandi linee, sulla destinazione ad uso personale sulla base anche del dato ponderale. In questo caso si può applicare il metodo suggerito dalla giurisprudenza degli anni ’90, moltiplicando il dato grezzo per il valore di principio attivo medio[13].
Invece sono due i passaggi presuntivi che si devono fare di fronte a una coltivazione non matura, cioè a germogli o piante piccole: un calcolo presuntivo di quanto peso potrebbe avere la pianta adulta, tenendo conto però di modalità di coltivazione rudimentali; e poi un calcolo presuntivo sulla percentuale di principio attivo che quella piantagione potrebbe sviluppare. Questo è un passaggio ancora più ardito, perché il dato medio (che è a questo punto il 12%) comprende proprio quelle coltivazioni professionali che sono escluse dall’atipicità, mentre l’ultimo dato normativo utilizzabile (il 2% della legge n. 162/1990) è superato dal punto di vista botanico.[14]
12. La mancanza di indici di inserimento nell’ambito del mercato
La sentenza pone in evidenza anche, come criterio indicativo “la mancanza di ulteriori indici di un loro (delle attività di coltivazione, ndr.) inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti”.
Questa circostanza è davvero di libera valutazione. Possono essere esaminati i più comuni risultati dell’attività investigativa, come la presenza o meno di numerosi contatti telefonici con consumatori conosciuti. Potranno essere valutate le dichiarazioni di terzi: si può trattare di dichiarazioni di acquirenti (riferite ovviamente al passato, dato che la coltivazione per cui si procede è ancora in corso) ma anche di altri (fornitori dei semi, amici etc.) che sappiano che la coltivazione era stata avviata per cessione a terzi o uso personale. Dovranno essere valutate le circostanze soggettive, quali la qualifica di forte assuntore, i precedenti penali, la conoscenza da parte del SERD…
Molto facilmente, questo indice sarà recessivo rispetto agli altri, più significativi e più stabili.
13. Il concetto di uso personale e gli indici sintomatici
Valutate tutte le circostanze sopra descritte (quindi, riassumendo, “le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, (...) le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti”) il giudice dovrà decidere se la coltivazione appaia “destinata in via esclusiva all’uso personale del coltivatore”.
Ma questo rinvia a un concetto che è a sua volta fra i più discussi dell’intera giurisprudenza: quando si ha la destinazione all’uso personale? Anche se domanda è finalizzata alla coltivazione, non si può non fare riferimento all’art. 75, anzi al “nuovo” art. 75 uscito dalle riforme di questo decennio, tutto improntato alla detenzione. Attualmente il legislatore ha ridotto gli “indici sintomatici” della destinazione all’uso personale dello stupefacente detenuto (diversi dagli indici sintomatici della destinazione della coltivazione, sia ben chiaro: sui quali vedi par. 7) a due: il dato ponderale e le modalità di presentazione della sostanza.
Ebbene, gli indici sintomatici normativi non aiutano molto. Una volta che con il referendum del 1993 si è eliminata la presunzione di legge, il mero dato quantitativo - e l'eventuale superamento dei limiti tabellari indicati dall'art. 73 bis comma primo, lett. a) d.P.R. n. 309 del 1990 - non determina alcuna presunzione di destinazione della droga ad un uso non personale, potendo essere considerato solo un mero indizio. Si apre perciò il dilemma: ma quanta sostanza stupefacente (da intendersi come peso netto, cioè principio attivo, dato che il peso lordo rientra nelle “modalità di presentazione”) posso detenere ad uso personale? Posso fare una scorta? Di quanto? Nella giurisprudenza, come si è detto al par. 11 a), si ritrovano pronunce molto diverse, che legittimano la detenzione di decine di dosi o che ne puniscono poche.
Ancora, la valutazione della destinazione dipende dalle “modalità di presentazione delle sostanze stupefacenti o psicotrope”, i cui indici sono ancora il peso lordo complessivo, il confezionamento frazionato (che nella coltivazione non ci può essere) ovvero le ancora più indefinite “altre circostanze dell'azione”.
In conclusione, gli indici sintomatici della destinazione della detenzione all’uso personale non aiutano molto a individuare la destinazione all’uso personale della coltivazione, richiesta dalla sentenza Caruso. Il quadro dunque rimane incerto.
14. Uso personale anche se la coltivazione è di gruppo?
Si riapre però anche la interminabile questione del rapporto fra uso personale e c.d. uso di gruppo; in altri termini la possibile applicazione della categoria dell’uso di gruppo alla coltivazione di gruppo, così come la destinazione a uso personale della detenzione è stata estesa alla coltivazione personale. E’ un capitolo nuovo e avvincente…
Ricordo soltanto che nel 2013 le SS.UU. hanno indicato, opportunamente e con grande precisione, quali sono le condizioni per ritenere sussistente l’uso di gruppo[15] in materia di detenzione di sostanze stupefacenti. Da allora la giurisprudenza si è uniformata ed è costante direi quasi monolitica nel riconoscere in astratto la non rilevanza penale dell’uso di gruppo.
Le condizioni individuate sono tre: a) che l'acquirente sia uno degli assuntori; b) che l'acquisto avvenga sin dall'inizio per conto degli altri componenti del gruppo; c) che sia certa sin dall'inizio l'identità dei mandanti e la loro manifesta volontà di procurarsi la sostanza per mezzo di uno dei compartecipi, contribuendo anche finanziariamente all'acquisto.
Orbene, sostituendo la parola “coltivazione” alla parola “acquisto” (e non c’è dubbio che alla luce di SS.UU. Caruso ciò avrebbe una certa coerenza) si apre un mondo di possibilità per la “coltivazione di gruppo destinata all’uso personale”.
Si potrebbe dire cioè che si è difronte ad una “coltivazione di gruppo destinata all’uso personale” quando: a) il coltivatore o i coltivatori siano fra gli assuntori del prodotto finito; b) la coltivazione avvenga da parte di tutti o avvenga da parte di uno o alcuni del gruppo ma sin dall'inizio anche per conto degli altri componenti; c) sia certa sin dall'inizio l'identità dei mandanti e la loro manifesta volontà di procurarsi la sostanza per mezzo di uno dei compartecipi, contribuendo anche finanziariamente alle spese occorrenti per la coltivazione.
E’ presto per dare una risposta certa. Ci sarà ancora da parlare di questa sentenza.
[1] Ricordiamo che per la sentenza non sono punibili “le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore…”
[2] Riprendendo il sunto contenuto nella motivazione Di Salvia: “per un terzo orientamento, infine, sarebbe stato necessario distinguere tra due forme di coltivazione. Sarebbe certamente punibile quella definita tecnico-agraria, caratterizzata da un elevato coefficiente organizzativo desumibile dal tipo di coltivazione posta in essere (se in terreno o in vaso), dal tipo di semina e di governo della coltivazione, dalla disponibilità di attrezzi, strutture e sostanze da cui desumere un approccio chiaramente imprenditoriale nella coltivazione. Al contrario, la coltura c.d. domestica, effettuata in via approssimativa e rudimentale e i cui frutti sarebbero funzionali ad un utilizzo meramente personale, sarebbe equiparabile, sul piano del trattamento penale, alla mera detenzione e, come tale, non assumerebbe rilievo penale, attesa la destinazione ad uso personale della sostanza estraibile dalla pianta coltivata.”
[3] Ad esempio, Cassazione penale, sez. VI, sentenza 26/09/2016 n° 40030, ritenne non punibile “la coltivazione, all'interno di un terrazzo ed in un contesto urbano, di una sola pianta di canapa indiana”.
[4] Per alcune sentenze, come si è detto, bastava che vi fosse la dimora del seme e non era neppure necessario alcun numero minimo per ritenere sussistente il reato. Neppure le sentenze ispirate all’opposto orientamento però possono essere prese come riferimento, in quanto in esse l'assoluzione dal reato di coltivazione avviene sì in conseguenza dell'esiguità del numero delle piante coltivate, ma ciò in funzione della minimalità del principio attivo, contenuto o ricavabile, nell’orizzonte della detenzione per uso personale.
[5] Con l’avvertenza che non possono essere utilizzate in questo esame le sentenze ispirate a quella giurisprudenza che esclude la tenuità del fatto perché considera la coltivazione un reato abituale (e quindi la esclude anche per una piantina).
[6] Sez. 4, Sentenza n. 27524 del 10/05/2017 ritiene applicabile la causa di esclusione della punibilità alla coltivazione di “diverse piante di marijuana da cui si ricavavano gr. 92 di sostanza (con un principio attivo di THC pari a 3,66%)” (quindi un peso lordo di 2.513 grammi, compatibile con un numero di piante fra 3 e 5); Sez. 4, Sentenza n. 30238 del 10/05/2017 la riteneva applicabile alla coltivazione di “tredici piante di "cannabis indica" nel giardino di casa”; Sez. 6, Sentenza n. 51615 del 09/11/2016 ha rigettato la richiesta di applicazione della causa di non punibilità relativamente al reato di coltivazione di sostanze stupefacenti, per la coltivazione di sette piantine di cannabis già poste a dimora e di altri diciannove pronte per essere impiantate; Cassazione penale sez. IV, 21/05/2019 la applica per 5 piante. Nel merito, Tribunale S.Maria Capua V., 11/10/2018 la riconosce per 9 piantine; Tribunale Napoli sez. fer., 04/09/2015 la applica per una pianta.
[7] Sez. 6, Sentenza n. 39977 del 19/09/2013; è giurisprudenza ormai consolidata.
[8] Le sentenze citate sono le seguenti: l’uso personale è riconosciuto per un principio attivo era 363 mg di D9-THC, pari a 14 dms (Corte d'Appello Cagliari, sez. II penale, sentenza 19.12.2013 n° 1510; per 7,5 gr di eroina pari a 48 dmg (Cassazione penale , sez. IV, sentenza 21.06.2013 n° 27346; per 48 grammi di hashish, pari a “161 dosi medie”. Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 11 settembre 2012 n. 34758 ; gr. 38,736 di sostanza stupefacente (hashish e marijuana) contenente gr. 1,328 di principio attivo pari al 3,4%, da cui potevano essere ricavate 53,1 dosi medie giornaliere. Sez. 6, Sentenza n. 12146 del 12/02/2009 ; 97 grammi di marijuana, Sez. 6, Sentenza n. 28720 del 03/06/2008; grammi 11,711 di hashish, con principio, attivo pari a grammi 1,312 - Cassazione penale sez. III, 19/09/2019, n.43262; hashish del peso complessivo di 11,485 grammi, da cui è possibile ricavare 39 dosi medie singole, Cassazione penale sez. IV, 26/06/2019; circa 50 grammi di hashish, Cassazione penale sez. III, 09/10/2014, n.46610.
[9] Le sentenze citate sono queste: per 50,360 grammi di hashish da cui erano ricavabili circa 2033 dosi medie singole, Sez. 3, Sentenza n. 43496 del 02/10/2012; 17 grammi di principio attivo nella marijuana, corrispondente a quasi 700 dosi, Sez. 4 - sentenza n. 35963 del 07/05/2019; 88 grammi netti di marijuana, da cui erano ricavabili circa 200 dosi di sostanza drogante, Sez. 6, Sentenza n. 9723 del 17/01/2013; grammi 353 lordi di marijuana, Cassazione penale sez. IV, 08/06/2016, n.34834.
[10] Il significato di questa indicazione nella legge n. 162/1990 non è mai stato precisato. Si fa riferimento ad un contenuto medio di THC nella marijuana, probabilmente, ma potrebbe riferirsi alle inflorescenze (in sintonia con la Convenzione di New York) o all’intera pianta (come sembrano fare i laboratori di analisi); una volta fissato in 50 mg. il limite massimo di THC (tetraidrocannabinolo) che deve essere contenuto nel quantitativo definito come “dose media giornaliera”, non si dice se le “foglie e infiorescenze” che hanno un contenuto di THC inferiore al 2% siano classificabili egualmente come “cannabis indica”.
[11] L’aumento della percentuale di principio attivo è conseguenza in parte dell’evoluzione dei sistemi di coltivazione, passati sia in Italia che nei paesi di tradizionale provenienza (Libano, Albania, Marocco …) da una modalità molto naturale a impianti sofisticati in serra; in parte dalla selezione genetica delle piante, che si spinge sempre più avanti nella identificazione di specie ad alto contenuto di THC.
[12] Basti pensare che nel 2018 (ultimi dati disponibili) sono state sequestrate 523.176 piante di cannabis, per comprendere i costi di un’analisi sistematica.
[13] Sez. 4, Sentenza n. 5355 del 25/03/1992: “In tema di sostanze stupefacenti da "cannabis indica", previste dalle prime due voci della tabella II, allegata al decreto del Ministero della sanità 12 luglio 1990, n. 186, richiamato dall'articolo 78 del d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309, la dose media giornaliera (in grammi), riferita a un dato prodotto grezzo, si determina moltiplicando lo standard tabellare (d.m.g. in grammi) per il valore del titolo di principio attivo esemplificato in tabella (rispettivamente, 2 per cento per la marijuana (foglie e inflorescenze di "cannabis indica") e 10 per cento per l'"hashish") e dividendo il prodotto per l'indice (valore percentuale) di Delta-9- THC repertato nella sostanza in indagine.”
[14] Va detto che il D.M. applicativo della legge n. 49/2006, oggi abrogata, prevedeva una percentuale media nel prodotto lordo del 10%. Però si riferiva cumulativamente a tutti i prodotti derivati dalla cannabis, per cui non sarebbe comunque applicabile così alla sola marijuana.
[15] Sez. U, Sentenza n. 25401 del 31/01/2013 Ud. (dep. 10/06/2013 ) Rv. 255258
Anche all'esito delle modifiche apportate dalla legge 21 febbraio 2006, n. 49 all'art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, il c.d. consumo di gruppo di sostanze stupefacenti, sia nell'ipotesi di acquisto congiunto, che in quella di mandato all'acquisto collettivo ad uno dei consumatori, non è penalmente rilevante, ma integra l'illecito amministrativo sanzionato dall'art. 75 stesso d.P.R., a condizione che: a) l'acquirente sia uno degli assuntori; b) l'acquisto avvenga sin dall'inizio per conto degli altri componenti del gruppo; c) sia certa sin dall'inizio l'identità dei mandanti e la loro manifesta volontà di procurarsi la sostanza per mezzo di uno dei compartecipi, contribuendo anche finanziariamente all'acquisto. (In motivazione, la S.C. ha precisato che con il riferimento all'uso "esclusivamente personale", inserito dall'art. 4-bis del D.L. n. 272 del 2005, conv. in legge n. 49 del 2006, il legislatore non ha introdotto una nuova norma penale incriminatrice, con una conseguente restrizione dei comportamenti rientranti nell'uso personale dei componenti del gruppo, ma ha di fatto ribadito che la non punibilità riguarda solo i casi in cui la sostanza non è destinata a terzi, ma all'utilizzo personale degli appartenenti al gruppo che la codetengono).
Sull’uso (e abuso) delle ordinanze emergenziali regionali.
Intervista di Filippo Ruggiero a Antonio Bartolini (prof. ordinario di diritto amministrativo Università di Perugia)
Filippo Ruggiero: La babele normativa è andata amplificandosi con il proliferare di ordinanze regionali. Alcune sembrano anche spingersi oltre la casistica e i presupposti stringenti previsti dall’art. 3, d.l 25 marzo 2020, n. 19, perché non fondate su situazioni di aggravamento sopravvenute; perché con un’efficacia che supera il momento di adozione del d.p.c.m.; perché adottano misure non ricomprese nel catalogo di cui all'art. 1 del d.l. o non adottano misure ulteriormente restrittive, ma misure volte ad affievolire le misure del d.p.c.m.. Professore qual è il suo punto di vista?
Antonio Bartolini: la domanda tocca uno dei problemi più seri che si sono manifestati durante l’emergenza pandemica, ovvero quello del rapporto tra potere di ordinanza statale e regionale.
Preliminarmente sembra opportuno vedere come la dialettica tra Stato e regioni si è venuta a sviluppare durante il periodo emergenziale.
In una prima fase il rapporto tra le “fonti emergenziali” aveva trovato una risposta nel d.l. 23 febbraio 2020, n. 6, conv. in l. 5 marzo 2020, n. 13. Come noto, questo decreto-legge ha attribuito al Presidente del Consiglio dei ministri un vasto ed amplio potere di ordinanza volto a fronteggiare l’emergenza: in particolare, attribuiva al Presidente del Consiglio, da un lato, il potere di impartire misure tipicamente previste e predeterminate (possibilità di perimetrare le zone rosse, chiudere le scuole, i musei, etc., al fine di assicurare il c.d. distanziamento sociale), dall’altro lato, consentiva di adottare un potere atipico consistente nella possibilità di disporre “ulteriori misure di contenimento e gestione dell’emergenza” (art. 2, d.l. 6/2020).
A tal fine, va, peraltro, osservato che le ordinanze statali in materia di Covid-19 sono fondate sulla potestà legislativa esclusiva riguardante la profilassi internazionale e sulla materia concorrente della salute, in forza del quale lo Stato può determinare i principi fondamentali che, secondo la giurisprudenza costituzionale, si possono spingere ad un punto tale da vincolare le regioni a standard uniformi per tutto il territorio nazionale (su questi profili v. la ricostruzione di M. Luciani, Il sistema delle fonti del diritto alla prova dell’emergenza, in Liber amicorum Pasquale Costanzo, in www.giurcost.org). E’, però, anche vero che il predetto potere di ordinanza statale ha sottratto alle regioni rilevanti poteri normativi in materie di potestà concorrente quali, oltre la salute, il commercio, artigianato ed industria, agricoltura, l’istruzione, il turismo, le politiche culturali. Sicchè laddove vi sia un intervento statale che impinge su un intreccio di materie appartenenti sia allo Stato che alle regioni, dovrebbe soccorrere il principio di leale collaborazione, che impone allo Stato di negoziare con le regioni secondo un giusto procedimento che dovrebbe sfociare in un’intesa. La leale collaborazione va maggiormente ricercata nei casi in cui si assiste ad una chiamata in sussidiarietà, di poteri regionali come emerge a mio modo di vedere platealmente nel caso in esame (v. da ultimo Corte cost., 2 dicembre 2019, n. 246).
Al fine di cucire i rapporti tra Stato e regioni il d.l. 6/2020 aveva previsto dei raccordi sia in fase ascendente che discendente. Per quanto concerne la fase ascendente, il d.p.c.m. doveva seguire un 2 procedimento leale fondato sulla previa acquisizione del parere dei Presidenti di regione interessati o del Presidente della Conferenza Regioni nel caso in cui la misura fosse da estendere a tutto il territorio nazionale (art. 3, comma 1).
E così arrivò il primo d.p.c.m. 23 febbraio 2020 che delimitò, dopo la scoperta del paziente zero, le c.d. zone rosse di Codogno e Vo’ Euganeo.
Successivamente il Presidente della Regione Marche (Luca Ceriscioli) ritenendo insufficiente le misure addottate a livello nazionale, con propria ordinanza 25 febbraio 2020, n. 1, decretò la sospensione dell’attività scolastica di ogni ordine e grado compresa quella universitaria. E così si inaugurò la stagione delle ordinanze regionali. Il Governo impugnò di fronte al Tar Marche. Il Presidente del Tribunale amministrativo marchigiano con decreto n. 56 del 27 febbraio 2020 dispose la sospensione dell’ordinanza Ceriscioli, evidenziando come il potere atipico riconosciuto alle autorità competenti (e quindi anche ai Presidenti di Regione come autorità sanitarie e di protezione civile) poteva essere si esercitato, ma con poteri meno invasivi di quelli tipizzati.
Dall’assetto normativo del d.l. 6/2020 emergeva dunque un potere del Presidente del Consiglio dei Ministri di adottare le misure tipizzate; in casi di necessità ed urgenza era, peraltro, consentito ai Presidenti di Regione di anticipare l’adozione di tali misure nei casi di estrema urgenza.
Il meccanismo, abbastanza lineare, è entrato in crisi dopo il d.p.c.m. dell’8 marzo 2020, quando le misure di distanziamento sociale, riassunte nello slogan “tutti a casa”, sono state estese su tutto il territorio nazionale. Fino a spingersi con il d.p.c.m. del 22 marzo 2020 al completo lockdown delle attività produttive ed al divieto di uscire dal proprio territorio comunale.
Molti Presidenti di regione hanno ritenuto che le misure previste dal d.p.c.m. non fossero sufficienti, indicando misure più restrittive. Tra le più note, quelle del Presidente della Regione Campania (De Luca), dirette ad imporre un lockdown più stringente di quello disposto con i d.p.c.m. sul territorio nazionale: tali ordinanze, peraltro, hanno superato, anche se in sede cautelare, il vaglio del Tar Campania, che più di una volta ha avuto modo di evidenziare il fumus boni iuris delle ordinanze De Luca essendo fondate sul “potere di adozione di misure correlate a situazioni regionalmente localizzate” (Tar Campania, Napoli, sez. V, decr., 18 marzo 2020, n. 416).
Ordinanze relative a situazioni regionalmente localizzate sono state prese ad es. in Emilia-Romagna, Lazio ed in Umbria, perimetrando i focolai, tramite la creazione di zone rosse, come tali soggette a disposizioni di lockdown particolarmente stringenti.
In alcune regioni del Sud, al fine di arginare il rientro dal Nord, sono state adottate ordinanze dirette a vietare l’ingresso nel territorio regionale: trattasi di ordinanze assolutamente illegittime (ma probabilmente opportune), in quanto contrastanti con l’art. 120 Cost. che vieta alle regioni di “adottare provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose tra le Regioni”.
Alla luce di questa situazione piuttosto articolata, il Governo ha deciso di rivedere le regole con il d.l. 25 marzo 2020, n. 19. In primo luogo, è stata rivista la fase ascendente, stabilendo che il d.p.c.m. possa essere adottato su proposta dei singoli Presidenti di regione o del Presidente della Conferenza Regioni, a seconda che si tratti di provvedimenti riguardanti il territorio regionale o quello nazionale. Rimane, peraltro, confermato anche il procedimento già individuato nel d.l. 6/2020 che prevede come il d.p.c.m. possa essere adottato su iniziativa del Presidente del Consiglio dei Ministri, sentiti i Presidenti delle regioni interessate e se riguardante il territorio nazionale il Presidente della Conferenza.
Per quanto, invece, riguarda la fase discendente ed in particolare il potere di ordinanza dei Presidenti di regione, l’assetto viene completamente rivisto, disponendo l’abrogazione del regime previgente (art. 5, comma 1, lett. a), d.l. 19). E’ l’art. 3 ad assumersi il compito di determinare l’ambito del potere di ordinanza regionale, stabilendo che le regioni, nelle more dell’adozione dei d.p.c.m., possono adottare misure più restrittive - nell’ambito però delle misure tipiche previste dal medesimo decreto legge 19 – laddove vi sia stato un aggravamento della situazione epidemica in tutto o parte del territorio regionale: “nelle more dell'adozione dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri(…), e con efficacia limitata fino a tale momento, le regioni, in relazione a specifiche situazioni sopravvenute di aggravamento del rischio sanitario verificatesi nel loro territorio o in una parte di esso, possono introdurre misure ulteriormente restrittive, tra quelle di cui all'articolo 1, comma 2, esclusivamente nell'ambito delle attivita' di loro competenza e senza incisione delle attivita' produttive e di quelle di rilevanza strategica per l'economia nazionale” (comma 1). Il d.l. 19 si premura di specificare che tali limiti si applicano anche ai poteri di ordinanza attribuiti alle regioni in materia di salute da altre disposizioni di legge: “le disposizioni di cui al presente articolo si applicano altresi' agli atti posti in essere per ragioni di sanita' in forza di poteri attribuiti da ogni disposizione di legge previgente”.
Sicchè il potere di ordinanza regionale ha (n.b.: dovrebbe avere) un ambito di efficacia particolarmente limitato e perdono efficacia con l’adozione del d.p.c.m. successivo.
Interessante è verificare come queste regole siano state applicate. Il panorama, invero, è abbastanza desolante poiché tale disposizione risulta praticamente disapplicata tanto dallo Stato quanto dalle regioni.
A seguito del primo d.p.c.m. successivo al d.l. 19, cioè quello del primo di aprile 2020, le regioni hanno provveduto ad aggirare, in forme più o meno legittime, la tagliola dell’inefficacia con due misure: alcune hanno seguito il procedimento d’intesa con il Ministro della salute, rinnovando le misure delle ordinanze regionali previgenti fino al 13 aprile; altre regioni hanno, invece, scelto, in maniera meno legittima, di confermare le proprie ordinanze previgenti anche in assenza dei requisiti limitativi richiesti dal d.l. 19, disponendo la rinnovazione sempre fino al 13 aprile.
Successivamente è intervenuto il d.p.c.m. del 10 aprile 2020, che pone una clausola di salvezza per alcune ordinanze regionali che invece, avrebbero dovuto, ai sensi del d.l. 19/2020, essere disapplicate: a tal fine viene, infatti, disposto, che “si continuano ad applicare le misure di contenimento più restrittive adottate dalle regioni, anche d’intesa con il Ministro della salute, relativamente a specifiche aree del territorio regionale” (art. 8, comma 3, d.p.c.m. 10 aprile 2020). La disposizione è sommamente opportuna, in quanto una applicazione meccanica della tagliola dell’inefficacia determinerebbe effetti irragionevoli ed incomprensibili, quali, ad es., il venir meno della cintura di protezione adottata per circoscrivere un focolaio (esempi in tal senso possono essere il caso di del comune di Medicina e delle province di Piacenza e Rimini assunta di intesa tra il Ministro della salute ed il Presidente della regione Emilia-Romagna). Difatti, un effetto automatico, sopravvenuto e travolgente del d.p.c.m. nei confronti delle ordinanze regionali appare essere irragionevole poiché farebbe venire meno delle misure di cautela e precauzione volte a contenere il contagio. In verità una interpretazione del decreto-legge volta a prevedere un effetto, così automatico, sarebbe contrario non solo al principio di ragionevolezza, ma anche al principio che obbliga a ponderare gli interessi costituzionalmente forti (l’ordinanza infatti rimane comunque un atto amministrativo): laddove sia di mezzo la salute non è possibile prevedere effetti automatici. Sicchè il d.p.c.m. ha svolto una funzione ortopedica riportando a ragionevolezza una disposizione, quella del decreto-legge, che da un punto di vista letterale risulta chiaramente irragionevole. Non può però farsi a meno di notare che in questo caso sembra che la mano destra del Governo non sappia cosa scriva con quella sinistra! Per un rispetto del principio delle fonti, peraltro, sarebbe opportuno che questo problema venga meglio definito e risolto in sede di conversione del decreto-legge n. 19. Anche perché come correttamente notato il meccanismo genera parecchia confusione (così A. Morelli, Il re del piccolo principe ai tempi del coronavirus, in I diritti regionali, Anno 2020, fascicolo 1, in www.dirittiregionali.it , 517 ss.). Senza tralasciare che rimane irrisolto il problema di vedere, come sempre acutamente notato da Alessandro Morelli (v. suo intervento al webinar Il diritto dell’emergenza nella crisi da coronavirus, 8-9 aprile 2020, in www.radioradicale.it ), se in caso di contrasto tra d.p.c.m. ed ordinanza regionale l’inefficacia sopravvenuta sia un effetto automatico (ndr: come parrebbe), o se, invece, occorra una espressa rilevazione da parte del Presidente del Consiglio della non conformità dell’ordinanza regionale.
Il d.p.c.m. del 10 aprile, nonostante l’intervento ortopedico sopra richiamato è stato platealmente aggirato da numerose regioni. Difatti, tra il 13 ed il 14 aprile 2020 quasi tutte le regioni hanno adottato ordinanze di proroga delle precedenti ordinanze divenute inefficaci (per una panoramica cfr. il dossier Cinsedo, Emergenza Coronavirus: le nuove ordinanze regionali, in Regioni.it, n. 3819, 14 aprile 2020, in www.regioni.it ). Ad onor del vero, va, innanzitutto, osservato che l’impiego del termine “proroga” o “conferma” non appare corretto, poiché trattasi in realtà di ordinanze di rinnovazione, con cui si rinnovano ex nunc effetti esauritisi con lo ius superveniens costituito dal d.p.c.m. sopravvenuto. In secondo luogo, molte di queste ordinanze di proroga introducono elementi di novità rispetto alle precedenti ordinanze, innovando, pertanto, il quadro giuridico, contribuendo ad aumentare lo stato di confusione già di per sé elevato.
E così possiamo passare al nocciolo della risposta.
Da un punto di vista tecnico si deve distinguere tra la questione della legittimità delle ordinanze regionali, da quello della loro efficacia.
Non vi è dubbio che le ordinanze regionali siano illegittime quando: a) non hanno come presupposto di fatto situazioni di aggravamento sopravvenute; b) prevedano un'efficacia temporale che non è limitata al momento dell'adozione del d.p.c.m.; c) adottino misure non ricomprese tra quelle di cui all'art. 1, co. 2, o non adottino misure ulteriormente restrittive, ma misure volte ad affievolire le misure del d.p.c.m. Il campo del potere di ordinanza è, infatti, chiaramente delimitato dal decreto-legge: può riguardare solo le misure di lockdown individuate dal d.l., in relazione a specifiche situazioni sopravvenute di aggravamento del rischio sanitario verificatesi nel loro territorio o in una parte di esso, individuando misure più restrittive di quelle individuate dal d.p.c.m., e per un periodo limitato di tempo che non può oltrepassare quello di entrata in vigore del d.p.c.m. sopravvenuto.
Naturalmente questi limiti non valgono per quelle ordinanze, come ad es. quella dell’Emilia-Romagna del 3 aprile 2020, oggetto di un’intesa tra il Ministro della salute ed il Presidente della regione.
Occorre, peraltro, interrogarsi sul piano degli effetti e della realtà effettuale.
A tal fine, va rammentato che le ordinanze emergenziale sono veri e propri atti amministrativi (v. da ultimo E. C. Raffiotta, Norme d’ordinanza, Bologna, 2019, 248 ss.), e come tali ne condividono i caratteri dell’imperatività ed esecutorietà, sicchè i destinatari sono tenuti ad ottemperarvi anche se illegittime (su questi caratteri si veda qualsiasi Manuale di diritto amministrativo).
Il privato di fronte ad una ordinanza illegittima, quindi, cosa può fare?
Ha a disposizione essenzialmente due rimedi. In primo luogo, può ricorrere immediatamente al giudice amministrativo chiedendone la sospensiva anche ricorrendo con richiesta di misure cautelari monocratiche: si tratta di una strada seguita più di una volta nel corso dell’epidemia, come dimostrano le numerose decisioni assunte in questi pochi mesi (a tal fine si rinvia al portale www.giustizia-amministrativa.it in cui sono raccolte le decisioni assunte nel periodo emergenziale). Anche se l’orientamento prevalente è stato ed è quello di negare la sospensione poiché in sede cautelare è prevalente la valutazione sul periculum in mora, piuttosto che quella sul fumus boni iuris (v. per tutti Cons. St, sez. III, decr. 30 marzo 2020, n. 1553). Sicchè al cittadino non rimane altro che l’arma spuntata del rimedio risarcitorio.
In secondo luogo, può esercitare il diritto di resistenza (V. H. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato, Milano, 1966, 163), non ottemperando al precetto dell’ordinanza, ma assumendosi il rischio di doversi difendere in giudizio, chiedendo la disapplicazione dell’ordinanza regionale illegittima, o di fronte al giudice ordinario (in caso di sanzione amministrativa come previsto dall’art. 4 del d.l. 19), o innanzi al giudice penale (rispondendo del reato di cui all’art. 650 c.p. in caso di inosservanza di ordinanza regionale).
Esiste poi il potere tutorio dello Stato, ed in particolare, del Governo che deve garantire l’unità dell’ordinamento. Il Governo ha, infatti, un potere antico, risalente al periodo post-unitario, consistente nella possibilità di annullare, in via straordinaria, gli atti illegittimi degli enti locali, compresi quelli delle regioni. Questa possibilità è stata di recente ribadita Cons. St., sez. I, 7 aprile 2020, n. 735, per i Comuni, ma pare estensibile sulla base dell’art. 120, comma 2, Cost. anche alle regioni (in tal senso v. le argomentazioni condivisibili di A. Pitino, Il potere governativo di annullamento straordinario degli atti amministrativi illegittimi. Riflessioni a margine dell’annullamento disposto dal Governo delle norme dello Statuto del Comune di Genova riguardanti l’elettorato attivo e passivo degli stranieri, in Le regioni, 2006, 1147 ss.).
Inoltre, il Governo ha, sempre, la possibilità di chiedere al giudice amministrativo la sospensione e l’annullamento delle ordinanze regionali illegittime, come del resto è avvenuto per l’ordinanza Ceriscioli sopra richiamata.
L’esecutivo, peraltro, in questa fase, non sembra voler impiegare i poteri tutori, né ricorrere di fronte al giudice amministrativo, tollerando, nei fatti, le ordinanze illegittime delle regioni, accontentandosi della tagliola dell’inefficacia sopravvenuta prevista dal d.l. n. 19, che, tuttavia, come visto viene aggirata con il rinnovo (di sovente illegittimo) delle ordinanze nel frattempo divenute inefficaci.
Vige lo “stato di eccezione”!
Si assiste così ad un ordinamento emergenziale di carattere duale e concorrenziale, in cui Stato e regioni, anziché collaborare, si mettono a litigare non riconoscendo gli uni nei confronti del’altro: una confusione istituzionale senza precedenti, in cui si scontrano i nodi irrisolti del nostro paese tra destra e sinistra, tra nord e mezzogiorno, tra centro e periferia.
Come uscirne? Occorre tornare alla Costituzione ed all’equilibrio di poteri. Occorre, innanzitutto, che la crisi, come da più parti invocato, venga parlamentarizzata, dando al Parlamento ciò che gli spetta, ovvero la centralità nella gestione dell’epidemia: una crisi di questo genere non può essere condotta a suon di decreti-legge e decreti presidenziali dalla tolda di Palazzo Chigi. Occorre un ruolo più attivo di Montecitorio. Il riferimento d’obbligo è all’art. 78 Cost., che se anche non si dovesse applicare alla lettera, costituisce il riferimento necessitato, in forza del principio di ragionevolezza, per crisi emergenziali come questa, in cui si sono disposte misure paragonabili al coprifuoco e che richiedono risposte da economia di guerra (cfr. il mio Torna il coprifuoco? in www.diriamm.it; su posizioni non dissimili Sabino Cassese, Conte avrebbe dovuto rifiutarsi di firmare decreti così contraddittori, in Il Dubbio, 14 aprile 2020).
In secondo luogo, occorre maggiore equilibrio tra Stato ed Autonomie. L’ordinamento emergenziale ha innescato una concorrenza tra livelli territoriali senza eguali, che rischia di lacerare il tessuto democratico, con conseguenze inimmaginabili per la tenuta del paese. Il modello dell’emergenza, da Zamberletti in poi, è fondato su un equilibrio istituzionale di collaborazione tra centro, periferia e volontariato, massimizzando leale collaborazione, sussidiarietà verticale ed orizzontale. Questo modello non si riesce a capire il perché è stato abbandonato relegando la nostra Protezione civile ad un mero megafono del bollettino giornaliero di guerra. Al suo posto si sono create task force, commissariati di vario genere, team di esperti, che hanno contribuito, nella confusione di ruoli, ad esasperare la conflittualità ed a svuotare il ruolo del sistema nazionale di protezione civile. E così le regioni da alleate sono diventate nemiche. E così sono proliferate le ordinanze illegittime, non bisogna nasconderlo, anche per una certa smania di protagonismo di alcuni Presidenti.
Dopo questa prima fase di sbandamento, dovuta all’impreparazione, da parte di tutti, per una epidemia così inaspettata e grave, occorre interrompere il corto circuito istituzionale e ripristinare l’osmosi tra poteri.
Bisogna ripartire dal modello di regionalismo cooperativo, così come disegnato dalla Corte costituzionale, dove la leale collaborazione è presa a modello informatore dei rapporti tra Stato e Regioni (vedilo in Il principio della leale collaborazione tra Stato e regioni. Atti del Seminario organizzato dalla Conferenza Regioni presso il Cinsedo, Roma, 6 aprile 2017), Torino, 2018.
Se i meccanismi conferenziali previsti per l’ordinaria amministrazione possono sembrare bizantini e barocchi (di questo, peraltro, il sottoscritto non ne è convinto) e non ritenuti all’altezza del clima emergenziale, si trovino strumenti alternativi. A tal fine va benissimo la cabina di regia, purchè porti ad una celere composizione degli interessi.
Andrebbe valorizzato il potere di proposta riconosciuto ai Presidenti di regione dal d.l. 19/2020, per ora invece lettera morta! Come anche andrebbe meglio disciplinato il rapporto tra ordinanze regionali e d.p.c.m. che al momento prevede meccanismi automatici di inefficacia di carattere eccessivamente tranchant. Probabilmente andrebbe ampliato il potere dei Presidenti di regione per disciplinare al meglio le questioni di prossimità territoriale, sia in caso di aggravamento che in caso di affievolimento della crisi pandemica, in una cornice naturalmente unitaria. Inoltre, occorrerebbe ripristinare la regola aurea (una volta) prevista per le situazioni emergenziali, ovvero quella di imbrigliare i Presidenti di regione nominandoli commissari statali sub-delegati: appare, infatti, più “congrua una soluzione che, per un verso ricorrendo al principio di sussidiarietà e per l’altro reinterpretando l’individuazione con legge nazionale dei livelli essenziali delle prestazioni, individuasse funzioni amministrative statali di indirizzo sulla tutela della salute, e facesse poi leva sulla disposizione, lasciata nel testo per mancato coordinamento fra la l. cost. n. 1 del 1999 e la l. cost. n. 3 del 2001, secondo cui il Presidente della Giunta “dirige le funzioni amministrative delegate dallo Stato alle Regioni, conformandosi alle istruzioni del Governo della Repubblica” (art. 121, quarto comma, Cost.)” (Cesare Pinelli, Il precario assetto delle fonti nell’emergenza sanitaria e gli squilibrati rapporti fra stato e regioni, in www.astrid-online.it ).
Occorre tornare alla leale collaborazione. Altrimenti come non dare ragione al sommo Dante Alighieri! “Ahi serva Italia, di dolore ostello, / nave sanza nocchiere in gran tempesta, / non donna di provincie, ma bordello!” (Purgatorio, Canto VI, vv. 76-78).
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Filippo Ruggiero:In talune regioni le ordinanze sono adottate da organi "scaduti" o quasi. Questo può comportare qualche problema sul piano della legittimazione democratica?
Antonio Bartolini È vero, molte regioni (Veneto, Liguria, Val d’Aosta, Toscana, Marche, Puglia, Campania) sarebbero dovute andare al voto prossimamente. Ma è anche vero che proprio in questi giorni dovrebbe arrivare un decreto-legge che farà slittare le elezioni tra luglio ed il prossimo autunno.
Quello delle elezioni durante il periodo emergenziale è un tema che ad esempio è stato ampiamente dibattuto in Francia quando si sono svolte le elezioni municipali lo scorso 15 marzo: e la volontà di farle svolgere, comunque, ha comportato un’astensione del corpo elettorale da record. Sicchè mi sembra preferibile far spostare le elezioni di qualche mese, in modo da favorire la massima partecipazione possibile da parte del corpo elettorale.
Non vedo, peraltro, un problema di legittimazione: io sono uno di quelli che pensa che i poteri vanno esercitati fino all’ultimo giorno, atteso che una volta eletti si ha un mandato pieno per tutto l’arco della legislatura.
La Costituzione, inoltre, non prevede semestri bianchi per i Presidenti di regione e l’ordinaria amministrazione scatta solamente al momento della loro scadenza che sarebbe, per la gran parte (ad eccezione della Valle d’Aosta che è già in ordinaria amministrazione), a fine maggio di quest’anno. Ragione per cui, al momento, i Presidenti sono nella pienezza dei propri poteri, assumendosi, tra l’altro, la responsabilità politica delle loro decisioni.
Aggiungo che esiste un noto parere del Prof. Ainis diretto a sostenere che anche in regime di ordinaria amministrazione, comunque, possono essere assunti dalle regioni gli atti indifferibili ed urgenti: esistono infatti i principi di continuità e di necessità che impongono di provvedere laddove vi sia un’estrema urgenza come in un periodo pandemico.
Questo sul piano giuridico naturalmente. Se ci si sposta sul piano politico, non si può nascondere che certe posizioni estreme hanno sullo sfondo la competizione elettorale che si terrà tra qualche mese: qui, più che un problema di legittimazione democratica, c’è da augurarsi un forte richiamo di tutti al senso di responsabilità istituzionale.
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Filippo Ruggiero: Alla luce del quadro emerso, quale è secondo lei l’odierno significato del regionalismo in Italia e quali sono i rischi di un ritorno alla frammentazione politica dell'Italia?
Antonio Bartolini Nel rispondere è opportuno rammentare che quest’anno ricorre il 50° anniversario della nascita delle regioni e che c’è ancora la speranza di poterlo celebrare nella forma più solenne.
Il regionalismo è sicuramente appannato e a molti pare che la loro funzione storica si sia esaurita.
Ma le cure proposte sono le più differenti.
Da un lato, come in questo periodo riaffiorano spinte neo-centraliste volte a riportare al centro le funzioni decentrate con la riforma del Titolo V della costituzione del 2001. Spinte neo-centraliste che erano state bloccate con la mancata approvazione della riforma costituzionale Renzi-Boschi da parte del referendum del 2016.
Si è anche proposto di accorpare le regioni in un sistema di macro-regioni: è un tema, come noto, caro alla Fondazione Agnelli che propose questo tipo di riforma già nel 1992 e rilanciata da Morassut nel 2015
Dall’altro, i referendum di Lombardia e Veneto sull’autonomia differenziata hanno portato all’apertura di una trattativa, per molti versi dai contorni indefiniti, che si è arenata al momento in cui si è toccato uno dei nodi irrisolti del nostro paese, ovvero quello degli squilibri tra nord e sud.
Il rischio che avverto in questa fase è quello, come dice il detto popolare, di “buttar via l’acqua sporca con il bambino dentro”.
Il regionalismo ha avuto ed ha indubbi meriti. Innanzitutto, ha rafforzato il tessuto democratico del paese. Ha, inoltre, contribuito, a tenere unito il paese nelle differenze. È stato, soprattutto in passato, luogo di sperimentazione. Cosa c’è che non va: l’eccessiva conflittualità tra Stato e regioni, come dimostrano i numeri ricorsi in via diretta di fronte alla Corte costituzionale. Il nodo irrisolto delle regioni meridionali che faticano ad identificarsi nel regionalismo o ne esasperano il significato. L’eccessiva differenziazione tra regioni ad autonomia speciale e regioni ad autonomia ordinaria, sicchè la specialità viene oggi percepita come una situazione di privilegio.
Occorrerebbe, pertanto, salvaguardare il regionalismo introducendo correttivi che da tempo sono stati individuati, ma che stentano (anche per l’immaturità politica del paese) ad attuarsi.Innanzitutto, occorrerebbe introdurre il Senato delle regioni oppure rafforzare il sistema conferenziale, dando a quest’ultimo dignità costituzionale: in Conferenza regioni, mi ricordo, qualcuno sosteneva autorevolmente la necessità ed opportunità di spostare la sede della Conferenza a Palazzo San Macuto, istituzionalizzandone la sede all’interno del cuore dello Stato. Personalmente preferisco questa seconda ipotesi, ovvero la costituzionalizzazione del sistema delle conferenze, opzione, che consente una gestione del principio di leale collaborazione, rafforzando, nella reciproca negoziazione, sia il governo centrale che quelli regionali. In questa direzione va la proposta di legge costituzionale di Ceccanti. E questo, secondo me, è un aspetto la cui mancanza si è sentita nell’attuale crisi emergenziale. Ma su questo avrò modo di tornare.
In secondo luogo, attraverso una ripulitura del Titolo V. Dovrebbero essere meglio definite le materie che devono spettare allo Stato e, invece, quelle da affidare alle regioni: un esempio eclatante è quello degli assetti infrastrutturali quali strade, porti, etc. che sono condivisi tra Stato e regioni (potestà concorrente), mentre dovrebbero essere di esclusiva spettanza statale, al quale spetta di individuare in chiave strategica ed unitaria gli assi portanti viari e di comunicazioni del paese.
In terzo luogo, occorrerebbe definire meglio il ruolo dello Stato come garante del bene supremo, ovvero l’unità nazionale. Sotto questo profilo la proposta di riforma costituzionale abortita nel 2016 mi sembra una buona pase di partenza, dove si prevede l’introduzione di una clausola di supremazia.
La questione dell’introduzione della clausola di supremazia mi consente di entrare nel vivo del tema centrale che oggi viene posto al giudizio dell’opinione pubblica, ovvero se l’attuale assetto di riparto di competenze tra Stato e regioni in materia di sanità debba essere rivisto.
Da più parti si è infatti alzata la voce sostenendo che l’organizzazione sanitaria ed il riparto di competenze in materia di sanità tra Stato e regioni vada ricentralizzato (v. ad es. Sabino Cassese, Le regioni fanno troppe cose e male, il servizio sanitario deve essere nazionale, intervista al Messaggero, 3 aprile 2020).
A tal fine, non posso fare a meno di notare che questo tema ha forti connotazioni di natura politica, in cui il gioco della ricentralizzazione, nasconde in realtà uno scontro politico tra un centro che è connotato da un colore politico e le regioni che in gran parte oggi sono di un altro colore. Sicchè la contrapposizione è il riflesso del contrasto politico, piuttosto che la risultante degli effetti giuridici derivanti dall’attuale assetto del regionalismo italiano.
In secondo luogo, molti si dimenticano che la mancanza dei posti letti di rianimazione, che è il vero e proprio casus belli, non dipende esclusivamente da scelte regionali, poiché il taglio dei posti letto è comunque il frutto di un’intesa tra Stato e regioni, concordato in Conferenza mediante la definizione dei livelli essenziali di assistenza (lea). Come ha notato una valente collega, Alessandra Pioggia, “il numero dei posti letto pro capite negli ospedali è calato di circa il 30 per cento, collocandosi ben al di sotto della media europea e questo vale anche per le terapie intensive, nelle quali all’inizio dell’epidemia in Italia erano presenti all’incirca 5.100 posti letto, con una disponibilità che è fra le più basse d’Europa”.
Inoltre, a mio modo di vedere, si è confuso il piano dell’emergenza con quello degli assetti istituzionali contenuti nel Titolo V. Ad essere carente nella Costituzione non è tanto l’assetto dei poteri tra Stato e regioni (che va indubbiamente ritoccato ma non abbattuto con una furia iconoclasta), ma l’assetto dei poteri in situazioni di emergenza, specie per quanto riguarda emergenze eccezionali, come queste che riguardano una dimensione territoriale non localizzata territorialmente, ma di livello globale. Si tratta non di una epidemia, ma di una pandemia.
L’assetto costituzionale sotto questo profilo è risultato assolutamente deficitario, come si è potuto vedere anche dalle difficoltà derivanti prima dall’uso disinvolto dei d.p.c.m. e poi dal concantenarsi tra decreti legge e legge con l’assoluta latitanza del Parlamento.
In altri ordinamenti esiste una disciplina costituzionale dell’emergenza, in cui sono determinati analiticamente i presupposti, le condizioni, le modalità e i criteri di riparto di potere sul territorio.
Anche il dibattito sulla “clausola di supremazia” è fuori luogo, poiché questa riguarda la chiamata in sussidiarietà in situazioni ordinarie.
È dunque l’emergenza a dover essere rivista: in questo quadro dovrebbe essere anche definito il ruolo di chi e di cosa si fa tra stato e regioni, ma ripeto in situazioni di emergenza. Nell’ordinario c’è il Titolo V, che richiede un semplice lifting, e comunque non una risposta in termini centralistici.
I temi posti dall’emergenza Covid a mio modo di vedere non riguardano tanto la questione stato/regioni, quanto il rapporto/pubblico privato ed il modello di organizzazione sanitaria sul territorio. È poi mancata la reciproca leale collaborazione tra Governo e regioni, e viceversa, come anche tra regioni e regioni: non è vero, a mio modo di vedere, che in una situazione di emergenza la leale collaborazione venga meno come principio costituzionale. Occorre certamente riflettere su questo aspetto: resta il fatto che la mancanza di collaborazione tra i vari livelli di governo, in mancanza di uno Stato che proprio non è nelle condizioni di poter provvedere per tutti, ha disintegrato il sistema istituzionale che in questo momento
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