ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
di Maurizio Bozzaotre
sommario: 1. Cronaca di un’emergenza nazionale: dall’epidemia alla pandemia - 2. I primi provvedimenti di contenimento del virus - 3. Il decreto-legge n. 6 del 23 febbraio 2020 e decreti attuativi - 4. (segue): il DPCM 9 marzo 2020 - 5. (segue): il DPCM 11 marzo 2020 - 6. Gli altri decreti-legge emanati dal Governo - 7. Conseguenze e sanzioni in caso di violazioni - 8. Alcune (provvisorie) valutazioni: le libertà individuali ai tempi del virus.
Stiamo tutti vivendo una situazione del tutto inedita, con significative conseguenze sulla nostra vita familiare, lavorativa e di relazione. Anche sul piano strettamente giuridico, l’impatto del virus COVID-19 e delle misure adottate per contrastarlo sono assolutamente dirompenti. Proviamo a evidenziare gli aspetti più importanti.
1. Cronaca di un’emergenza nazionale: dall’epidemia alla pandemia
È notizia di questi giorni: l’OMS ha dichiarato che il COVID-19 sia ormai da considerarsi una pandemia. Secondo i parametri OMS, una pandemia è la diffusione in tutto il mondo di una nuova malattia coinvolgendo almeno due continenti. Non è la gravità di una malattia il parametro decisivo perché venga dichiarata una pandemia, bensì la facilità con la quale una malattia si diffonde. La dichiarazione di pandemia implica che ogni Paese metta a punto un Piano pandemico e che lo aggiorni costantemente sulla base delle linee guida dell’Oms.
Come siamo arrivati a tutto ciò? Non farà male un breve riepilogo di quanto accaduto in questi ultimi mesi.
Il 9 gennaio scorso l’Organizzazione Mondiale della Sanità comunicava al mondo la scoperta, da parte delle autorità sanitarie cinesi, di un nuovo virus mai identificato prima nell’uomo, il “2019-nCoV” (da “2019-newCoronaVirus”) o “COVID-2019” (da “COronaVIrusDisease-2019”), associato a un focolaio di casi di polmonite registrati nella città di Wuhan, nella parte centrale della Repubblica Popolare Cinese. Il 30 gennaio veniva dichiarata dall’OMS la situazione di emergenza internazionale di salute pubblica a causa dell’epidemia del COVID-19 con una serie di linee guida a livello globale. Allarme giustificato dal fatto che contro questo nuovo virus non ci sono vaccini né farmaci specifici, e si ritiene che il tempo di svilupparli non sarà breve; a ciò si accompagnano un alto grado di letalità ed una grande facilità di diffusione ([1]).
Il giorno successivo, 31 gennaio, il Consiglio dei Ministri del Governo italiano deliberava lo “stato di emergenza nazionale”, situazione prevista e disciplinata dall’art. 24 del d.lgs. n. 1 del 2018 (codice della protezione civile). In particolare, con questo provvedimento il Governo deliberava, per la durata di sei mesi, lo “stato di emergenza in conseguenza del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili”, prevedendo la possibilità di intervenire a mezzo di ordinanze emanate dal Dipartimento della protezione civile, in deroga a ogni disposizione vigente e nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico.
Si deve ricordare che le ordinanze di protezione civile emesse nell’ambito di uno stato di emergenza di rilievo nazionale possono essere adottate «in deroga ad ogni disposizione vigente, nei limiti e con le modalità indicati nella deliberazione dello stato di emergenza e nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico e delle norme dell’Unione europea. Le ordinanze sono emanate acquisita l’intesa delle Regioni e Province autonome territorialmente interessate e, ove rechino deroghe alle leggi vigenti, devono contenere l’indicazione delle principali norme a cui si intende derogare e devono essere specificamente motivate» (art. 25, d.lgs. 1/2018).
Occorre sottolineare che sin da quel momento la situazione veniva inquadrata nel novero degli eventi emergenziali di cui all’art. 7, lett. c), d.lgs. 1/2018, ossia tra le «emergenze di rilievo nazionale connesse con eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall’attività dell’uomo che in ragione della loro intensità o estensione debbono, con immediatezza d’intervento, essere fronteggiate con mezzi e poteri straordinari da impiegare durante limitati e predefiniti periodi di tempo ai sensi dell’articolo 24» ([2]).
2. I primi provvedimenti di contenimento del virus
Nella fase immediatamente successiva si susseguivano una serie di ordinanze da parte di enti locali delle zone prossime ai primi focolai di contagio (ad esempio il Comune di Codogno in data 21 febbraio). Provvedimenti fondati sulle disposizioni contenute nel Testo unico sugli enti locali (d.lgs. n. 267 del 2000). In particolare, all’art. 50 si prevede il potere del sindaco di emanare ordinanze contingibili e urgenti “in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale”. Nel caso in cui l’emergenza superi il territorio comunale, l’art. 50 citato prevede che “l’adozione dei provvedimenti d’urgenza, ivi compresa la costituzione di centri e organismi di referenza o assistenza, spetta allo Stato o alle regioni in ragione della dimensione dell’emergenza e dell’eventuale interessamento di più ambiti territoriali regionali”. Ed è quello che è accaduto, atteso che l’emergenza epidemiologica ha ben presto superato gli ambiti dei singoli comuni per assumere una valenza territoriale assai più ampia.
In questo quadro, occorre ricordare in via generale che, ai sensi dell’articolo 117, terzo comma, della Costituzione, le competenze in materia di tutela della salute e di protezione civile appartengono al novero delle competenze “concorrenti” tra Stato e Regioni, spettando dunque allo Stato fissare i principi generali e alle singole Regioni la normativa di dettaglio. Questa ripartizione ovviamente può porre dei problemi di coordinamento in caso di situazioni di necessità e urgenza che giustifichino il ricorso a misure straordinarie. A tale proposito, l’art. 32 della legge n. 833 del 1978 (istitutiva del servizio sanitario nazionale) prevede che il Ministro della sanità possa emettere «ordinanze di carattere contingibile e urgente, in materia di igiene e sanità pubblica e di polizia veterinaria, con efficacia estesa all’intero territorio nazionale o a parte di esso comprendente più regioni», ed analogo potere di emettere ordinanze nelle medesime materie viene attribuito anche al Presidente della Giunta regionale (oltre che al Sindaco), con efficacia limitata al territorio regionale o una sua parte.
3. Il decreto-legge n. 6 del 23 febbraio 2020 e decreti attuativi
A questo punto, visto l’aggravarsi della situazione, interveniva il Governo con il decreto-legge n. 6 del 23 febbraio 2020, recante “misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19”, convertito, con modificazioni, con legge n. 13 del 5 marzo 2020. Al decreto-legge facevano seguito una serie di decreti governativi di attuazione.
Si tratta di atti oggi in gran parte superati dai più recenti provvedimenti, ma che è utile esaminare sinteticamente per avere un’idea della risposta che progressivamente si è inteso dare per far fronte all’emergenza.
In sintesi, il DL 6/2020 prevedeva che nei Comuni o aree ove vi fossero soggetti positivi al COVID-19, le autorità competenti fossero tenute ad adottare ogni misura di contenimento adeguata e proporzionata all’evolversi della situazione. Le misure comprendevano: divieto di allontanamento e di accesso al comune o all’area interessata; sospensione di manifestazioni, eventi e di ogni forma di riunione in luogo pubblico o privato; sospensione dei servizi educativi e dei viaggi di istruzione; sospensione dell’apertura dei musei; sospensione delle procedure di concorsi pubblici e attività degli uffici pubblici, fatta salva l’erogazione dei servizi essenziali e di pubblica utilità; applicazione di misure di “quarantena con sorveglianza attiva” per chi avesse avuto contatti stretti con persone affette dal virus; sospensione dell’attività lavorativa per alcune tipologie di impresa e chiusura di alcune tipologie di attività commerciali; possibilità che l’accesso ai servizi pubblici essenziali e agli esercizi commerciali per l’acquisto di beni di prima necessità fosse condizionato all’utilizzo di dispositivi di protezione individuale; limitazione all’accesso o sospensione dei servizi trasporto di merci e di persone. Era altresì prevista la facoltà di adottare ulteriori misure di contenimento.
Il testo del DL 6/2020 prevedeva che l’attuazione di tali misure di contenimento dovesse essere disposta con decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM), su proposta del Ministro della salute, sentiti i Ministri e il Presidente della Regione competente ovvero il Presidente della Conferenza dei presidenti delle regioni, nel caso le misure interessassero più Regioni. Si prevedeva che, in casi di “estrema necessità e urgenza”, le stesse misure si potessero adottare, anche prima dell’adozione del DPCM, dalle autorità regionali o locali ai sensi dell’articolo 32 legge 833/78 sopra citato. Si garantiva l’esecuzione delle misure con l’ausilio delle forze di polizia e, ove occorresse, delle forze armate; un espresso richiamo veniva operato all’art. 650 codice penale per il mancato rispetto delle misure di contenimento, salvo che il fatto non costituisca più grave reato.
Al decreto-legge facevano seguito vari decreti attuativi del Presidente del Consiglio.
1) DPCM 23 febbraio 2020 (stessa data del decreto-legge) recante “misure urgenti di contenimento del contagio nei Comuni delle Regioni Lombardia e Veneto”, indicando gli undici Comuni interessati e alcune misure urgenti di contenimento sul piano nazionale.
2) DPCM 25 febbraio 2020, recante ulteriori misure urgenti, con particolare riferimento a misure previste per scuole e università, alcune valide nei comuni delle regioni Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Veneto, Liguria e Piemonte e altre su tutto il territorio nazionale.
3) DPCM 1° marzo 2020, recante ulteriori misure di contenimento del contagio negli undici Comuni già individuati, nelle regioni Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto e nelle province di Pesaro-Urbino, Savona, Bergamo, Lodi, Piacenza e Cremona, assieme a ulteriori misure sull’intero territorio nazionale.
4) DPCM 4 marzo 2020, recante ulteriori disposizioni attuative applicabili sull’intero territorio nazionale. Veniva innanzi tutto disposta la sospensione assoluta di una serie di attività, quali: congressi, riunioni, meeting ed eventi in cui fosse coinvolto personale sanitario o incaricato di servizi pubblici essenziali o di pubblica utilità; eventi e competizioni sportive di ogni ordine e disciplina, svolti in ogni luogo, sia pubblico sia privato; servizi educativi per l’infanzia, attività didattiche nelle scuole di ogni ordine e grado, frequenza delle attività scolastiche e di formazione superiore e universitaria, corsi professionali, master; viaggi d’istruzione, iniziative di scambio o gemellaggio, visite guidate e uscite didattiche comunque denominate, programmate da istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado; divieto agli accompagnatori di pazienti nei dipartimenti emergenze e accettazione e pronto soccorsi di permanere nelle sale di attesa salve diverse indicazioni del personale preposto.
Venivano poi previste una serie di ipotesi di sospensione con eccezioni: manifestazioni, eventi e spettacoli, ivi inclusi cinematografici e teatrali, svolti in ogni luogo, sia pubblico sia privato, che comportassero affollamento di persone tale da non consentire il rispetto della distanza di sicurezza interpersonale di almeno un metro; rimaneva consentito, nei Comuni diversi da quelli della “zona rossa” lo svolgimento di eventi e competizioni, nonché sedute di allenamento degli atleti, all’interno di impianti sportivi utilizzati a porte chiuse, ovvero all’aperto senza la presenza di pubblico, fermo restando l’obbligo di controlli idonei a contenere il rischio di diffusione del virus; sport di base e attività motorie svolte all’aperto ovvero all’interno di palestre, piscine e centri sportivi di ogni tipo, erano ammessi a condizione che fosse possibile il mantenimento della distanza interpersonale di almeno di un metro; erano esclusi dalla sospensione corsi post universitari connessi alle professioni sanitarie, ivi inclusi quelli per i medici in formazione specialistica, i corsi di formazione specifica in medicina generale, le attività dei tirocinanti delle professioni sanitarie, nonché le attività delle scuole dei ministeri dell’interno e della difesa; l’accesso di parenti e visitatori a strutture di ospitalità e lungo degenza, residenze sanitarie assistite (RSA) e strutture residenziali per anziani, autosufficienti e non, era limitata ai soli casi indicati dalla direzione della struttura, tenuta ad adottare le misure necessarie.
5) DPCM 8 marzo 2020 recante ulteriori misure di contenimento, ove si inasprivano sia le misure in atto nella cosiddetta “zona rossa” (Regione Lombardia e province di Modena, Parma, Piacenza, Reggio nell’Emilia, Rimini, Pesaro-Urbino, Alessandria, Asti, Novara, Verbano-Cusio-Ossola, Vercelli, Padova, Treviso, Venezia) che quelle vigenti sull’intero territorio nazionale.
In particolare, con le prime si prevedeva il divieto di spostamento «in entrata e in uscita dai suddetti territori, nonché all’interno dei medesimi territori», salvo spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative, situazioni di necessità o per motivi di salute; consentito il rientro presso il proprio domicilio, abitazione o residenza. Ai soggetti con sintomatologia da infezione respiratoria e febbre (maggiore di 37,5° C) era fortemente raccomandato di rimanere presso il proprio domicilio e limitare al massimo i contatti sociali, contattando il proprio medico curante; divieto assoluto di mobilità dalla propria abitazione o dimora per i soggetti sottoposti alla misura della quarantena ovvero risultati positivi al virus.
Quanto alle misure da applicare sull’intero territorio nazionale, spiccavano le seguenti: sospensione di manifestazioni, eventi e spettacoli di qualsiasi natura, ivi inclusi quelli cinematografici e teatrali, svolti in ogni luogo, sia pubblico sia privato; chiusura di pub, scuole di ballo, sale giochi, sale scommesse e sale bingo, discoteche e locali assimilati; chiusura di musei e altri istituti e luoghi della cultura; svolgimento delle attività di ristorazione e bar, con obbligo, a carico del gestore, di far rispettare la distanza di sicurezza interpersonale di almeno un metro; sport di base e attività motorie in genere, svolti all’aperto ovvero all’interno di palestre, piscine e centri sportivi di ogni tipo, erano ammessi esclusivamente a condizione del rispetto della distanza di sicurezza interpersonale di un metro; qualora possibile, era raccomandato ai datori di lavoro di favorire la fruizione di periodi di congedo ordinario o ferie; ferma restando la sospensione le cerimonie civili e religiose, ivi comprese quelle funebri, l’apertura dei luoghi di culto era condizionata all’adozione di misure tali da evitare assembramenti, tenendo conto delle dimensioni e delle caratteristiche dei luoghi, e tali da garantire ai frequentatori la possibilità di rispettare la distanza tra loro di almeno un metro; divieto assoluto di mobilità dalla propria abitazione o dimora per soggetti sottoposti alla misura della quarantena ovvero risultati positivi al virus.
4. (segue): il DPCM 9 marzo 2020
Visto il carattere particolarmente diffusivo dell’epidemia, con un notevole incremento dei casi sul territorio nazionale, e la necessità di misure volte a garantire uniformità nell’attuazione dei programmi di profilassi, il 9 marzo veniva emesso il sesto DPCM.
Si tratta di un provvedimento di assoluto rilievo, in quanto prevede che le misure di contenimento del contagio stabilite in precedenza per la regione Lombardia e le quattordici province della cosiddetta “zona rossa” si applichino fino al 3 aprile 2020 all’intero territorio nazionale.
Sarà il caso di riassumerle:
a) divieto di ogni spostamento (non si può intendere in altro modo l’applicazione all’intero territorio nazionale dell’espressione “spostamento in entrata e in uscita dai suddetti territori, nonché all’interno dei medesimi territori” contenuta nel precedente decreto), salvo spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative, situazioni di necessità o per motivi di salute. È consentito il rientro presso il proprio domicilio, abitazione o residenza;
b) ai soggetti con sintomatologia da infezione respiratoria e febbre (maggiore di 37,5° C) è fortemente raccomandato di rimanere presso il proprio domicilio e limitare al massimo i contatti sociali, contattando il proprio medico curante;
c) divieto assoluto di mobilità dalla propria abitazione o dimora per i soggetti sottoposti alla misura della quarantena ovvero risultati positivi al virus;
d) sospesi eventi e competizioni sportive di ogni ordine e disciplina, in luoghi pubblici o privati. Resta consentito lo svolgimento dei predetti eventi e competizioni, nonché sedute di allenamento di atleti professionisti e atleti di categoria assoluta che partecipano ai giochi olimpici o a manifestazioni nazionali o internazionali, all’interno di impianti sportivi utilizzati a porte chiuse, ovvero all’aperto senza la presenza di pubblico;
e) si raccomanda ai datori di lavoro pubblici e privati di promuovere, durante il periodo di efficacia del presente decreto, la fruizione da parte dei lavoratori dipendenti dei periodi di congedo ordinario e di ferie, fermo restando la possibilità di svolgere lavoro agile;
f) chiusi gli impianti dei comprensori sciistici;
g) sospese tutte le manifestazioni organizzate nonché gli eventi in luogo pubblico o privato, ivi compresi quelli di carattere culturale, ludico, sportivo, religioso e fieristico, anche se svolti in luoghi chiusi ma aperti al pubblico quali ad esempio, grandi eventi, cinema, teatri, pub, scuole di ballo, sale giochi, sale scommesse e sale bingo, discoteche e locali assimilati;
h) sospesi i servizi educativi per l’infanzia e le attività didattiche nelle scuole di ogni ordine e grado, nonché della frequenza di attività scolastiche e formazione superiore, comprese università, corsi professionali, master, corsi per professioni sanitarie e università per anziani, corsi professionali e attività formative svolte da altri enti pubblici, anche territoriali e locali e da soggetti privati, ferma in ogni caso la possibilità di svolgimento di attività formative a distanza; vengono esclusi corsi per medici in formazione specialistica e di formazione specifica in medicina generale, nonché le attività dei tirocinanti delle professioni sanitarie. Al fine di mantenere il distanziamento sociale, è da escludersi qualsiasi altra forma di aggregazione alternativa;
i) ferma restando la sospensione delle cerimonie civili e religiose, ivi comprese quelle funebri, l’apertura dei luoghi di culto è condizionata all’adozione di misure organizzative tali da evitare assembramenti di persone, tenendo conto delle dimensioni e delle caratteristiche dei luoghi, e tali da garantire ai frequentatori la possibilità di rispettare la distanza tra loro di almeno un metro;
j) chiusi tutti i musei e gli altri istituti e luoghi della cultura;
k) sospese le procedure concorsuali pubbliche e private ad esclusione dei casi in cui la valutazione dei candidati è effettuata esclusivamente su basi curriculari ovvero in modalità telematica; sono esclusi dalla sospensione i concorsi per il personale sanitario, ivi compresi gli esami di Stato e di abilitazione all’esercizio della professione di medico chirurgo, e quelli per il personale della protezione civile;
l) consentite le attività di ristorazione e bar dalle 6.00 alle 18.00, con obbligo, a carico del gestore, di predisporre le condizioni per garantire la possibilità del rispetto della distanza di sicurezza interpersonale di almeno un metro;
m) consentite le attività commerciali diverse da quelle di cui alla lettera precedente a condizione che il gestore garantisca un accesso ai predetti luoghi con modalità contingentate o comunque idonee a evitare assembramenti di persone, tenuto conto delle dimensioni e delle caratteristiche dei locali aperti al pubblico, e tali da garantire ai frequentatori la possibilità di rispettare la distanza di almeno un metro, tra i visitatori, con sanzione della sospensione dell’attività in caso di violazione. In presenza di condizioni strutturali o organizzative che non consentano il rispetto della distanza di sicurezza interpersonale di un metro, le richiamate strutture dovranno essere chiuse;
n) sospesi i congedi ordinari del personale sanitario e tecnico, nonché del personale le cui attività siano necessarie a gestire le attività richieste dalle unità di crisi costituite a livello regionale;
o) nelle giornate festive e prefestive sono chiuse le medie e grandi strutture di vendita, nonché gli esercizi commerciali presenti all’interno dei centri commerciali e dei mercati. Nei giorni feriali, il gestore dei richiamati esercizi deve comunque predisporre le condizioni per garantire la possibilità del rispetto della distanza di sicurezza interpersonale di un metro, con sanzione della sospensione dell’attività in caso di violazione. In presenza di condizioni strutturali o organizzative che non consentano il rispetto della distanza di sicurezza interpersonale di un metro, le richiamate strutture dovranno essere chiuse. La chiusura non è disposta per farmacie, parafarmacie e punti vendita di generi alimentari, il cui gestore è chiamato a garantire comunque il rispetto della distanza di sicurezza interpersonale di un metro, con sanzione della sospensione dell’attività in caso di violazione;
p) chiuse palestre, centri sportivi, piscine, centri natatori, centri benessere, centri termali (fatta eccezione per l’erogazione delle prestazioni rientranti nei livelli essenziali di assistenza), centri culturali, centri sociali, centri ricreativi;
q) sospesi gli esami di idoneità, da espletarsi presso gli uffici periferici della motorizzazione civile aventi sede nei territori di cui al presente articolo; con apposito provvedimento dirigenziale è disposta, in favore dei candidati che non hanno potuto sostenere le prove d’esame in ragione della sospensione, la proroga dei termini;
Si stabilisce inoltre il divieto di ogni forma di assembramento di persone in luoghi pubblici o aperti al pubblico. Ulteriori prescrizioni riguardano lo sport: sono sospesi eventi e competizioni sportive di ogni ordine e disciplina, in luoghi pubblici o privati. Gli impianti sportivi sono utilizzabili, a porte chiuse, soltanto per sedute di allenamento degli atleti, professionisti e non professionisti, riconosciuti di interesse nazionale dal CONI e dalle rispettive federazioni, in vista della loro partecipazione ai giochi olimpici o a manifestazioni nazionali ed internazionali; resta consentito esclusivamente lo svolgimento di eventi e competizioni sportive organizzati da organismi sportivi internazionali, all’interno di impianti sportivi utilizzati a porte chiuse, ovvero all’aperto ma senza la presenza di pubblico; in tutti tali casi, le associazioni e società sportive sono tenute ad effettuare i controlli idonei; lo sport e le attività motorie svolti all’aperto sono ammessi esclusivamente a condizione che sia possibile consentire il rispetto della distanza interpersonale di un metro.
5. (segue): il DPCM 11 marzo 2020
Infine (per ora), nella serata dell’11 marzo è stato emesso un altro DPCM, il settimo in venti giorni, contenente un ulteriore inasprimento delle misure fin qui adottate.
In sintesi si prevede quanto segue.
1) Attività commerciali. Sospese tutte le attività commerciali al dettaglio, fatta eccezione per alcune attività di vendita di generi alimentari e di prima necessità espressamente individuate nell’allegato 1 al decreto (farmacie e parafarmacie, ipermercati, supermercati, discount alimentari; e poi commercio al dettaglio di: prodotti surgelati, prodotti alimentari, bevande e tabacchi, carburante, computer, periferiche, attrezzature per telecomunicazioni, elettronica di consumo audio e video, elettrodomestici, apparecchiature informatiche e per telecomunicazioni, ferramenta, vernici, vetro piano e materiale elettrico e termoidraulico, articoli igienico-sanitari, articoli per l’illuminazione, giornali, riviste e periodici, medicinali non soggetti a prescrizione medica, articoli medicali e ortopedici, articoli di profumeria, prodotti per toletta e l’igiene personale, piccoli animali domestici, materiale per ottica e fotografia, combustibile per uso domestico e riscaldamento, saponi, detersivi, prodotti per lucidatura e affini; vendita di prodotti via internet, televisione, per corrispondenza, radio, telefono, o a mezzo di distributori automatici), sia nell’ambito degli esercizi commerciali di vicinato, sia nell’ambito della media e grande distribuzione, anche ricompresi nei centri commerciali, purché sia consentito l’accesso alle sole predette attività. Sono chiusi, indipendentemente dalla tipologia di attività svolta, i mercati, salvo quelli di generi alimentari.
2) Bar e ristoranti. Sono sospese le attività dei servizi di ristorazione (bar, pub, ristoranti, gelaterie, pasticcerie), ad esclusione delle mense e del catering continuativo su base contrattuale, a patto che garantiscano la distanza di sicurezza. Consentita la ristorazione con consegna a domicilio nel rispetto delle norme igienico-sanitarie per l’attività di confezionamento e di trasporto. Restano aperti gli esercizi di somministrazione di alimenti e bevande posti nelle aree di servizio e rifornimento carburante situati lungo la rete stradale, autostradale e all’interno delle stazioni ferroviarie, aeroportuali, lacustri e negli ospedali.
3) Servizi alla persona. Sono sospese le attività inerenti servizi alla persona (fra cui parrucchieri, barbieri, estetisti) diverse da quelle individuate nell’allegato 2 del decreto (lavanderia e pulitura di articoli tessili e pelliccia, lavanderie industriali e altre lavanderie, tintorie, servizi di pompe funebri e attività connesse). Restano garantiti i servizi bancari, finanziari, assicurativi nonché l’attività del settore agricolo, zootecnico agro-alimentare incluse le filiere che ne forniscono beni e servizi.
4) Trasporti pubblici. Si stabilisce che i Presidenti di Regione possano disporre la programmazione del servizio di trasporto pubblico locale, anche non di linea, con possibilità di riduzione e soppressione dei servizi in relazione alla necessità di contenere l’emergenza coronavirus, tenendo conto delle effettive esigenze e assicurando i servizi minimi essenziali. Il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministro della salute, può disporre, al fine di contenere l’emergenza sanitaria da coronavirus, la programmazione con riduzione e soppressione dei servizi automobilistici interregionali e di trasporto ferroviario, aereo e marittimo, sulla base delle effettive esigenze e al fine di assicurare i servizi minimi essenziali.
5) Lavoro pubblico. Ferma restando la raccomandazione di promuovere la fruizione di congedi ordinari e ferie, e fatte salve le attività strettamente funzionali alla gestione dell’emergenza, le pubbliche amministrazioni assicurano lo svolgimento in via ordinaria delle prestazioni lavorative in forma agile (a domicilio o a distanza) del proprio personale dipendente, e individuano le attività indifferibili da rendere in presenza.
Per tutte le attività che restano aperte deve essere in ogni caso garantita la distanza di sicurezza interpersonale di un metro, invitando ove possibile all’utilizzo di modalità di lavoro agile.
6) Attività produttive e professionali. Per quanto riguarda attività produttive e professionali si raccomanda che:
7) Durata delle misure. Si stabilisce che le prescrizioni del decreto producano effetto fino al 25 marzo 2020 (anteriore, quindi, rispetto a quella del 3 aprile valida per le altre misure adottate in precedenza).
Quel che sembra importante precisare è che non si tratta di una serrata totale o un “lockdown” (blocco della produzione) come scattò a Wuhan dopo l’esplosione del virus. Anzi, l’industria, la grande produzione e tutte le filiere collegate, pur applicando e rispettando le misure anti-contagio, sono invitate a continuare.
Come è stato rilevato dai primi commenti giornalistici (Nadia Fusani) questo decreto è un aggiustamento che le stesse associazioni di categoria (negozianti) auspicavano: infatti, restare aperti per incassare pochissimo appare davvero come uno spreco di energie e risorse. Anche perché, in virtù dei recenti stanziamenti governativi (25 miliardi di euro), nel prossimo futuro saranno previsti indennizzi o risarcimenti, che potrebbero non spettare a chi rimane aperto. Ecco perché, nel dubbio, sono stati gli stessi negozianti ad aver chiesto la serrata dei negozi. Un altro esempio di quanto assurda e paradossale sia la situazione che stiamo vivendo.
6. Gli altri decreti-legge emanati dal Governo
Per completezza, si debbono qui richiamare brevemente gli altri provvedimenti assunti dal Governo dopo il 23 febbraio, questa volta nella forma di decreto-legge. Essi sono:
1) decreto-legge 2 marzo 2020, n. 9, recante misure urgenti di sostegno per famiglie, lavoratori e imprese;
3) decreto-legge 8 marzo 2020, n. 11, recante misure straordinarie ed urgenti per lo svolgimento dell’attività giudiziaria ([3]);
4) decreto-legge 9 marzo 2020, n. 14, recante disposizioni urgenti per il potenziamento del Servizio sanitario nazionale.
Si tratta di misure settoriali che, in virtù delle caratteristiche dei settori su cui vanno ad incidere (si pensi alle misure che incidano su istituti processuali o che comportino aumenti di spesa), necessitano di essere disposte da norme aventi forza e valore di legge.
7. Conseguenze e sanzioni in caso di violazioni
Quali sono le conseguenze in caso di violazione alle prescrizioni sopra elencate? Occorre fare alcune necessarie distinzioni.
Cominciamo dalle persone fisiche.
Come si è visto, nei decreti sopra citati vengono disposti una serie di divieti, che possiamo distinguere in assoluti o relativi. Tra i divieti assoluti spicca quello di uscire di casa per coloro che siano risultati positivi al virus o che siano sottoposti alla misura della quarantena. Per tutti gli altri, il divieto di uscire di casa può considerarsi relativo in quanto soffre di alcune (tre) eccezioni: “comprovate esigenze lavorative”, situazioni di “necessità”, “motivi di salute”; è poi previsto che sia consentito il rientro per coloro che si trovino fuori della propria residenza, domicilio o dimora.
Vi sarebbe poi una terza categoria di soggetti: coloro che siano affetti da sintomatologia da infezione respiratoria e febbre maggiore di 37,5° C, per i quali viene “fortemente raccomandato di rimanere presso il proprio domicilio e limitare al massimo i contatti sociali, contattando il proprio medico curante”. Al di là della dubbia valenza giuridica di una condotta “fortemente raccomandata”, sembra comunque di ritenere che per costoro l’uscita di casa possa dirsi consentita solo nei casi di “necessità”, venendo ovviamente meno sia le esigenze lavorative (quanto meno per i lavoratori dipendenti) che i “motivi di salute” (essendo previsto un vero e proprio obbligo di contattare il medico).
La violazione di questi divieti può comportare, a seconda dei casi, l’applicazione di norme incriminatrici ([4]).
Innanzi tutto, nei decreti viene espressamente previsto (ma in realtà non ve ne era necessità) che il mancato rispetto degli obblighi e divieti verrà sanzionato ai sensi dell’art. 650 c.p., che punisce con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a euro 206 la condotta di chi non osservi un provvedimento legalmente dato dall’autorità per ragioni (fra le altre) di igiene, se il fatto non costituisce un più grave reato. Ma questa non è l’unica fattispecie astrattamente ipotizzabile.
Come si diceva, le misure imposte con i decreti prevedono alcune eccezioni al divieto di uscire di casa (esigenze lavorative, situazioni di necessità, motivi di salute), addossando però all’interessato l’onere di dimostrare la sussistenza delle situazioni che consentono la possibilità di spostamento. Si prevede al tempo stesso che tale onere possa essere assolto mediante un’autodichiarazione ai sensi degli artt. 46 e 47 DPR n. 445 del 2000, resa anche attraverso la compilazione di moduli appositamente predisposti in dotazione agli operatori delle Forze di polizia. Com’è ovvio, la veridicità di tali dichiarazioni sarà suscettibile di verifica, anche ex post. Pertanto, chi avesse dichiarato il falso andrà incontro alle conseguenze previste dall’art. 483 c.p. (“Falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico”), che punisce con la reclusione fino a due anni la condotta di chi attesti falsamente al pubblico ufficiale, in un atto pubblico, fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità.
Ma le conseguenze penali possono essere assai più gravi.
Viene qui in rilievo l’art. 438 c.p., («Epidemia»), che punisce con l’ergastolo «chiunque cagiona un’epidemia mediante la diffusione di germi patogeni». Si tratta di reato doloso, dunque la condotta sarà punibile se vi sia la coscienza e volontà di diffondere germi patogeni, assieme alla rappresentazione di provocare un evento definibile come “epidemia”. Il codice penale prevede anche la fattispecie colposa, all’art. 452 («Delitti colposi contro la salute pubblica»), stabilendo: a) la reclusione da tre a dodici anni se dal fatto deriva la morte di più persone; b) la reclusione da uno a cinque anni, per il solo fatto di aver colposamente diffuso l’epidemia.
Si consideri che, secondo una recente sentenza della Cassazione (Cass. Pen., sez. IV, sent. n. 9133 del 2018), la nozione di “epidemia” sul piano giuridico deve intendersi più ristretta e circoscritta rispetto all’omologo concetto elaborato in campo medico. In ambito medico, per epidemia si intende ogni malattia infettiva o contagiosa suscettibile di rapida ed imponente manifestazione in un medesimo contesto e in un dato territorio colpendo un numero di persone tale da destare un notevole allarme sociale e un correlativo pericolo per un numero indeterminato di individui. Diversamente, il legislatore penale, con la locuzione «mediante la diffusione di germi patogeni» ha voluto circoscrivere l’alveo di punibilità alle condotte caratterizzate da determinati percorsi causali. In altre parole, affinché vi possa essere una condotta penalmente rilevante, occorre che questa si estrinsechi attraverso una precisa modalità di realizzazione, ossia la propagazione - volontaria o colposa - di germi patogeni di cui l’agente sia in possesso. Ciò detto, se il delitto in esame si muove lungo le coordinate di una tipicità oggettiva causalmente orientata, non è possibile determinare in astratto se possa rientrare nella fattispecie anche la condotta di chi, pur consapevole di essere contagiato, se ne vada in giro incurante delle prescrizioni e dei divieti. Ogni valutazione dipenderà, evidentemente, dalle concrete modalità del suo comportamento. In giurisprudenza non si rinvengono precedenti utili al riguardo, e ciò anche perché, fortunatamente, siamo di fronte ad una situazione per tanti aspetti inedita ([5]).
Infine, c’è la possibilità di configurare anche un’ulteriore fattispecie di reato, prevista all’art. 260, RD n. 1265 del 1934 (Testo unico leggi sanitarie), che punisce con l’arresto fino a sei mesi la condotta di chiunque non osservi un ordine legalmente dato per impedire l’invasione o la diffusione di una malattia infettiva dell’uomo, prevedendosi un aumento della pena «se il fatto è commesso da persona che esercita una professione o un’arte sanitaria». Si ritiene che questo reato possa concorrere con quelli previsti agli artt. 438 e 452 c.p., stante la diversità dei beni protetti.
Venendo alle attività commerciali e produttive in genere, può dirsi quanto segue.
Per le attività produttive e commerciali che non sono sospese, la violazione delle norme di precauzione (distanza interpersonale, ecc.) può comportare la chiusura dell’esercizio o dell’attività: lo prevedono espressamente i vari decreti.
Si ricordi anche che l’imprenditore ha il dovere primario di garantire la tutela della salute dei propri dipendenti. In termini generali, l’art. 2087 codice civile prevede che «l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro». Questa previsione trova poi una specifica declinazione in normative specifiche, a cominciare da quella contenuta nel d.lgs. 81/2008 (Testo Unico in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro). In buona sostanza, l’imprenditore è tenuto ad adottare tutte le misure idonee a prevenire rischi per la salute dei lavoratori.
Come si è visto, le misure contenute nei vari DPCM di cui sopra invitano i datori di lavoro a promuovere la fruizione di periodi di congedo ordinario o ferie per i loro dipendenti, oppure a ricorrere a modalità di lavoro agile (a casa o a distanza) qualora possibile. In caso di impossibilità, il datore dovrà assicurare, rispetto a quei dipendenti la cui presenza sul luogo di lavoro è ritenuta necessaria, il rispetto delle cautele e precauzioni tese a garantire la salute degli stessi, (c’è chi ritiene fondatamente che questo valga non soltanto per i luoghi di lavoro ma anche per il tragitto casa-lavoro). Qualora ciò non avvenga, il datore potrà incorrere in responsabilità di tipo civile e penale, in caso di danno alla salute del lavoratore. Si potrebbe ad esempio ipotizzare il reato di lesioni/omicidio colposo commesso con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro. Trattandosi di reati presupposto della responsabilità amministrativa ex d.lgs. 231/2001, con potenziale rischio di una contestazione a carico dell’ente, vi è l’esigenza che le aziende si dotino di procedure interne volte a garantire la più idonea osservanza delle cautele poste a tutela della salute dei dipendenti ([6]).
8. Alcune (provvisorie) valutazioni: le libertà individuali ai tempi del virus
Il quadro normativo che si è cercato di prospettare pone evidentemente una serie di questioni molto delicate, giacché le misure sopra descritte vanno ad incidere pesantemente su libertà e diritti fondamentali garantiti dalla nostra Costituzione, come ad esempio la libertà di circolazione (art. 16), la libertà di riunione (art. 17), il diritto all’istruzione, ecc.
Ora, vista la situazione di indubbia emergenza, non sembra possa dubitarsi che misure eccezionali siano legittime, anche sul piano costituzionale. Non dimentichiamo che lo stato di emergenza sanitaria è stato dichiarato non solo dalle autorità italiane ma anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. È evidente che siffatto stato di emergenza consente, anzi impone, interventi straordinari e urgenti.
Nello specifico, ad esempio, in tema di libertà di circolazione è la stessa Costituzione a prevedere espressamente, all’art. 16, che questa possa essere limitata «per motivi di sanità o di sicurezza», che nel caso in questione sicuramente sussistono. Dal canto suo, l’art. 17 dispone che la libertà di riunione possa essere vietata per «comprovati motivi di sicurezza e di incolumità pubblica». Si consideri poi che l’art. 32 della Costituzione stabilisce che la salute sia tutelata non solo come «fondamentale diritto dell'individuo» ma anche come «interesse della collettività», il che autorizza misure atte a tutelare tale interesse collettivo. Si potrebbe anche menzionare l’art. 120 Cost., ove si prevede espressamente che il Governo centrale possa “sostituirsi” a Regioni, Province e Comuni in caso di «pericolo grave per l'incolumità e la sicurezza pubblica» ([7]).
Questi riferimenti normativi ci consentono di soffermare per un attimo la nostra attenzione su un aspetto di non poca importanza, riguardante la capacità e prontezza di risposta all’emergenza da parte del Governo e dell’apparato pubblico in genere. Come si è visto all’inizio, lo stato di emergenza nazionale è stato dichiarato dal Governo il 31 gennaio, appena un giorno dopo che l’OMS aveva dichiarato lo stato di emergenza internazionale. Dopo di che, il primo provvedimento adottato a livello nazionale si è avuto il 23 febbraio, e da quella data abbiamo avuto una quasi quotidiana escalation di misure sempre più stringenti. Ora, ragionando col senno di poi si può anche ritenere piuttosto lungo il periodo di “silenzio” dal 31 gennaio al 23 febbraio, ma si deve anche considerare che a quest’ultima data i casi di COVID-19 noti erano poche centinaia su tutto il territorio nazionale, in gran parte concentrati in zone circoscritte. Si noti che la Costituzione e i principi generali del nostro ordinamento - come si è visto - autorizzano sì misure limitative di diritti e libertà individuali per motivi di sanità o incolumità pubblica, ma a patto che tali motivi siano “comprovati”, vale a dire evidenti e documentati. Man mano che l’emergenza cresceva e la situazione si andava aggravando si sono adottate misure progressivamente più restrittive, e né poteva essere diversamente se vogliamo rispettare i principi che sono a fondamento del nostro Stato democratico di diritto. Quando si parla di comprimere libertà fondamentali non si può… giocare di anticipo.
Si può dunque ritenere che le misure che si è cercato di descrivere, anche nel loro concreto divenire, siano dotate di “copertura” costituzionale, sia sul piano formale (si rammenti che tutti i vari DPCM trovano la loro fonte legittimante in un atto avente forza e valore di legge come il DL 6/2020, convertito in legge dal Parlamento) sia sul piano sostanziale. A una condizione, ovviamente: che tali misure abbiano carattere determinato sul piano temporale. Abbiano cioè una scadenza (come in effetti è stabilito in tutti i decreti). Va da sé, infatti, che tutti questi provvedimenti sono giustificati fino a quando la situazione rimanga emergenziale; non appena l’emergenza dovesse cessare e la situazione migliorare, tutte le libertà e i diritti che oggi sono compressi dovranno immediatamente tornare a riespandersi in tutte le loro facoltà e possibilità.
In conclusione, pur rimanendo vigili e pronti a denunciare ogni abuso contro i nostri diritti fondamentali, non dobbiamo dimenticare che queste misure hanno lo scopo di tutelare quegli stessi diritti fondamentali, a cominciare dal diritto alla vita e alla salute. È chiaro, però, che l’efficacia di queste misure rispetto agli obiettivi perseguiti dipenderà in modo determinante dai nostri comportamenti individuali. Osservare queste prescrizioni sui nostri luoghi di vita e di lavoro in modo spontaneo e ordinato, da un lato, impedirà che vengano adottate misure ancor più stringenti e repressive (già qualcuno invoca l’intervento dell’esercito nelle strade: davvero vogliamo giungere a tanto?); dall’altro, consentirà un pronto ritorno ad una situazione di normalità che ci faccia pensare a quel che stiamo vivendo come un brutto ricordo.
Ecco, quando l’emergenza sarà finita avremo tutti il dovere di non dimenticare quanto preziose siano le nostre libertà e i nostri diritti, e soprattutto quanto dobbiamo essere grati a tutti coloro che negli ospedali e nelle strutture sanitarie hanno combattuto in trincea questa battaglia, nonché ai tanti che, assicurando una serie di servizi essenziali (sicurezza, trasporti, ecc.), hanno garantito che la nostra vita, pur con grandi limitazioni, tutto sommato potesse continuare. Non dimentichiamolo. Non dimentichiamoli.
([1]) Si veda R. Burioni, Virus, la grande sfida. Dal coronavirus alla peste: come la scienza può salvare l’umanità, Milano, 2020.
([2]) Sul punto G. Battarino, Decreto-legge “COVID-19”, sistemi di risposta all’emergenza, equilibrio costituzionale, in http://www.questionegiustizia.it/articolo/decreto-legge-covid-19-sistemi-di-risposta-all-emergenza-equilibrio-costituzionale_01-03-2020.php.
([3]) Su cui G. Battarino, Misure straordinarie ed urgenti per contrastare l'emergenza da COVID-19. Una prima lettura del Decreto Legge 11 dell'8 marzo 2020 in tema di giustizia, in http://www.questionegiustizia.it/articolo/misure-straordinarie-ed-urgenti-per-contrastare-l-emergenza-da-covid-19_09-03-2020.php.
([4]) Per un primo inquadramento si veda A. Scarcella, Emergenza Coronavirus: conseguenze penali in caso di trasgressione alle regole dettate dal Governo, in Utet Pluris, 10.3.2020.
([5]) Non è certo questa la sede per una trattazione approfondita sui delitti di epidemia dolosa e colposa. In dottrina si vedano, tra i più recenti: Ardizzone, Epidemia, in Digesto pen., IV, Torino, 1990; Id., Comune pericolo (delitti colposi), in Digesto pen., II, Torino, 1988, 390 Bonfiglioli, Epidemia (Art. 438), in Cadoppi, Canestrari, Manna, Papa, Trattato di diritto penale. Parte spec., vol. IV, pp. 390 ss.; Barbalinardo, sub art. 438, in Comm. Lattanzi, Lupo, vol. IX, pp. 507 ss.
([6]) Vedi più diffusamente F. Sbisà, Compliance ex 231/2001: indicazioni operative per il datore dopo i provvedimenti sul Coronavirus, in Utet Pluris, 11.3.2020.
([7]) Per queste e altre lucidissime considerazioni si veda l’intervista al prof. Gaetano Azzariti in “La Repubblica” («Le misure sono costituzionali a patto che siano a tempo determinato») dell’8.3.2020. Primi approfondimenti in A. Candido, Poteri normativi del Governo e libertà di circolazione al tempo del COVID-19, in Forum Quad. Cost., 10.3.2020
La scomparsa silenziosa di Salvatore Mannuzzu: indimenticabile magistrato-scrittore e figura storica del mondo giudiziario italiano
1. Queste mie brevi considerazioni sono dedicate a Salvatore Mannuzzu, magistrato e scrittore sassarese deceduto l’11 settembre 2019, a ottantanove anni, la cui scomparsa – al di fuori dell’ambiente culturale sardo, dove gli sono stati tributati doverosi omaggi – mi sembra sia stata poco ricordata, se non addirittura dimenticata, nonostante la sua grandezza letteraria e la sua importanza per il mondo giudiziario italiano.
Il silenzio calato su Salvatore Mannuzzu, in qualche modo, è figlio dell’atipicità di questa figura intellettuale, presente nel dibattito culturale e istituzionale italiano per oltre un quarantennio, ma con il suo modo di fare volutamente sommesso e controcorrente, che lo ha reso una delle voci più intense e ammirate del panorama giudiziario nostrano.
Il silenzio calato su una figura atipica di magistrato come quella di Salvatore Mannuzzu, però, è un silenzio ingiusto e immemore per la magistratura italiana; ed è per questo che desidero ringraziare la straordinaria apertura culturale di Giustizia Insieme, che mi ha consentito di intervenire con queste brevi considerazioni, anch’esse atipiche, nella speranza di potere stimolare la curiosità dei lettori della rivista, soprattutto quelli più giovani e più lontani cronologicamente dalla vita del magistrato sassarese.
2. Ma chi era Salvatore Mannuzzu?
Cominciamo con l’osservare che Salvatore Mannuzzu è nato nel 1930 e ha sempre vissuto a Sassari, dove è morto qualche mese addietro, dopo una lunga degenza.
Entrato in magistratura nel 1955[1], Salvatore Mannuzzu ha svolto tale professione in Sardegna fino al 1976, quando è stato eletto alla Camera dei deputati, come indipendente, nelle liste del Partito Comunista Italiano. Mannuzzu, quindi, è rimasto in parlamento, per tre legislature consecutive – la settima, l’ottava e la nona –, fino al 1987, rivestendo in tale contesto importanti cariche istituzionali.
L’esperienza parlamentare di Salvatore Mannuzzu meriterebbe di essere commentata con un intervento autonomo, al quale magari mi dedicherò in un’altra occasione, per l’impegno che l’ha caratterizzata e l’importanza degli incarichi svolti, che, nel decennio compreso tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, ne hanno fatto una delle figure più rappresentative del mondo della giustizia italiano. Si consideri, in proposito, che Mannuzzu è stato presidente della Giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera dei Deputati per due legislatore – per un lungo arco temporale, compreso tra il 16 aprile 1980 e l’11 luglio 1983 e tra il 21 luglio 1983 e l’1 luglio 1987 –, ma, nella stessa direzione, non si possono non richiamare gli ottantasei progetti di legge e i centosettantanove interventi del magistrato sassarese, che testimoniano l’intensità del suo impegno e l’importanza della sua presenza nel dibattito parlamentare dell’epoca[2].
Dopo l’esperienza parlamentare, l’Autore ha diretto, per qualche anno, la sezione giustizia del Centro Studi e Iniziative per la Riforma dello Stato – fondato nel 1972 su iniziativa del Partito Comunista Italiano, il cui primo presidente fu Umberto Terracini –, fino a quando, conclusa anche tale ulteriore esperienza istituzionale, non si è essenzialmente dedicato all’attività di narratore e saggista, che ha portato avanti, intensamente e ininterrottamente, quasi fino alla sua morte[3].
Sul piano letterario, Salvatore Mannuzzu diventa noto al grande pubblico con il romanzo Procedura[4], anche se aveva pubblicato il suo primo romanzo Un Dodge a fari spenti[5], scritto nel 1955, qualche anno dopo essere entrato in magistratura, con lo pseudonimo di Giuseppe Zuri.
Tra questi due romanzi, dunque, trascorre un lungo periodo di silenzio, durato ventisei anni, nel corso dei quali Salvatore Mannuzzu svolge un anomalo apprendistato, trascorso tra le aule di giustizia e le aule parlamentari, all’esito del quale la sua vena letteraria emerge in modo definitivo e prepotente, anche grazie a Natalia Ginzburg – conosciuta tra i banchi della Camera –, che fa pubblicare presso la Casa editrice Einaudi il romanzo Procedura.
Al romanzo Procedura, quindi, seguivano numerose altre opere narrative, tra le quali una raccolta di racconti, intitolata La figlia perduta[6] e i romanzi Un morso di formica[7], Le ceneri del Montiferro[8], Il terzo suono[9], Il Famoso Natalino[10], Il catalogo[11], Alice[12], Le fate dell’inverno[13], La ragazza perduta[14] e Snuff o l’arte di morire[15]; nel 2002, inoltre, veniva ripubblicato il suo romanzo d’esordio, Un Dodge a fari spenti[16], non più sotto l’originario pseudonimo, ma con il vero nome dell’autore.
Nella vasta bibliografia di Salvatore Mannuzzu, meritano di essere citati anche la raccolta di poesie Corpus[17] e le opere di saggistica Il fantasma della giustizia[18], Giobbe[19], Cenere e ghiaccio[20], Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio[21], scritto insieme a Goffredo Fofi, e Testamenti[22], che è anche la sua ultima pubblicazione.
La bibliografia di Mannuzzu, in realtà, comprende anche numerose altre opere saggistiche – che riguardano le tre attività svolte dall’Autore sassarese nel corso della sua lunga vita: il magistrato, il politico e il narratore –, che, tuttavia, possiamo ritenere di rilievo secondario rispetto all’inquadramento culturale del magistrato sassarese, che, dal mio punto di vista, è soprattutto uno scrittore di prima grandezza o meglio un ineguagliabile magistrato-scrittore.
3. La grandezza di Salvatore Mannuzzu, a ben vedere, sta proprio nell’essere il più grande dei magistrati-scrittori del panorama letterario italiano, che pure annovera tra le sue fila numerosi esponenti del mondo giudiziario.
Occorre, invero, osservare che, di anno in anno, aumenta il numero di opere narrative scritte da magistrati – ordinari, amministrativi, contabili –, che vede crescere, quasi proporzionalmente, la stanchezza dei lettori verso tali cimenti letterari; stanchezza che, del resto, è la conseguenza del fatto che non sempre le opere narrative dei magistrati nostrani brillano per originalità, al punto che è stata coniata la definizione di magistrato-scrittore, quasi a volere giustificare la qualità non sempre eccelsa di tali lavori, la cui pubblicazione, spesso, finisce per essere giustificata solo dall’esperienza o dalla notorietà professionale dell’autore.
Tutto questo, invece, non si può dire per le opere narrative di Salvatore Mannuzzu, nelle quali i suoi magistrati sassaresi assumono una dimensione universale, finendo per costituire lo spunto per una riflessione sulla condizione degli uomini di giustizia e degli intellettuali moderni, tormentati dai dubbi e logorati dai loro dilemmi, che li fanno dibattere – nel privato come nella professione – tra ciò che è giusto e ciò che è utile, tra lealtà e opportunità e, in ultima analisi, tra Giustizia ed Etica. Questi dilemmi, tuttavia, i protagonisti dei romanzi di Mannuzzu non riescono a risolverli, finendo schiacciati dalla necessità di dovere scegliere tra le varie alternative che gli si pongono e risultando incapaci di compiere una scelta, quale che sia; incapacità che li pone sotto l’occhio del lettore come figure ambigue, sostanzialmente inadatte all’azione, quasi sveviane, come Piero, il giudice del romanzo Procedura, in procinto di trasferirsi dalla Sardegna, chiamato a indagare sulla morte del collega Valerio Garau.
I protagonisti di Mannuzzu, dunque, anche quando non sono magistrati, come Piero – nome ricorrente nelle sue opere –, lo scrittore di Un morso di formica, sono l’incarnazione dell’intellettuale moderno, tormentato dai dubbi e incapace di agire: le sue figure intellettuali, infatti, trascorrono la maggior parte del loro tempo, in modo febbrile, nella speculazione, nella formulazione di ipotesi, nei dubbi e nei ripensamenti, che travagliano le loro sofferte esistenze.
Per questo, i protagonisti delle opere narrative di Salvatore Mannuzzu sono straordinariamente moderni, essendo percorsi da una tensione esistenziale, prima ancora che morale, che colloca i suoi personaggi in una direzione vicina sia a Italo Svevo sia a Fëdor Dostoevskij, con il quale il nostro magistrato-scrittore si è costantemente confrontato nel corso della sua, tardiva ma intensissima, vita letteraria.
Questa tensione esistenziale si riflette in modo esemplare nei magistrati inetti – mutando l’aggettivo dai romanzi di Italo Svevo – descritti nelle opere di Mannuzzu, che, paralizzati dal dubbio e naturalmente portati all’inazione, finiscono per ritenere la verità che dovrebbe costituire il loro obiettivo professionale inarrivabile o comunque introvabile. Come ha detto magistralmente Natalia Ginzburg nella nota scritta per la quarta di copertina del romanzo Procedura, a proposito del magistrato che conduce le indagini sulla morte di Valerio Garau: «Il giudice non sa mai dimenticare che la verità è introvabile, anche quando sembra rivelarsi d’un tratto spoglia e semplice allo sguardo che l’ha inseguita, introvabile perché sopra di essa passano le onde degli anni e del mare»[23].
Il giudice di Procedura – come tutti i giudici dei romanzi di Salvatore Mannuzzu – matura il convincimento che la verità è inaccessibile e che la sua ricerca è resa ancora più problematica dai meccanismi complessi della giustizia, che portano ogni magistrato a scontrarsi con l’ambiente giudiziario in cui è inserito e con i suoi colleghi, che, come nel Processo di Franz Kafka, finiscono per rendere inconoscibile la colpa oggetto dell’accertamento giurisdizionale.
Queste difficoltà, che sono al contempo umane e professionali, accentuano il disagio in cui versano i giudici delle opere narrative di Mannuzzu, che descrivono la condizione di crisi esistenziale in cui si trovano i suoi magistrati, che, in ultima analisi, è la condizione di crisi in cui, negli ultimi decenni, si trova l’intellettuale moderno, che non crede più nella verità o comunque non sa più cercarla. Esemplare, da questo punto di vista, mi sembra una frase pronunciata da uno dei protagonisti de Il catalogo, un’opera ritenuta a torto minore di Mannuzzu, che dice: «Forse sbagliavo: forse la giustizia esiste, anche se cammina per strade tortuose e tarda troppo ad arrivare»[24].
I protagonisti delle opere narrative di Salvatore Mannuzzu, quindi, vivono appieno la crisi dell’intellettuale moderno e la prova di quanto si sta affermando è data dal fatto che questi personaggi letterari sono accomunati, oltre che da un temperamento speculativo e dalla tendenza all’inazione, dallo svolgimento di professioni tipicamente intellettuali, quali quella del magistrato – soprattutto –, quella del docente universitario ovvero quella dello scrittore, come Piero, il già ricordato protagonista del romanzo Un morso di formica.
4. In questa cornice, mi sembrano esemplari rispetto al percorso letterario compiuto da Salvatore Mannuzzu, da Procedura a Snuff o l’arte di morire, sulla crisi degli uomini di giustizia, quali figure intellettuali archetipiche, soprattutto due opere narrative: La figlia perduta e Alice, sulle quali mi vorrei soffermare brevemente.
La figlia perduta, come si è già detto, è una raccolta di racconti pubblicata nel 1992, che, al suo apparire, ebbe un certo successo, tanto da arrivare a comporre la cinquina finale del Premio Strega, che però non si aggiudicò.
I sei racconti de La figlia perduta sono accomunati da un filo conduttore unitario, costituito dal rapporto che il protagonista, un giudice – che abbiamo visto essere per Mannuzzu l’archetipo dell’intellettuale in crisi, esistenziale e professionale – ha con una donna più giovane di lui, che viene narrato attraverso una sequenza di dialoghi serrati, scontri personali e tensioni emotive.
Questo rapporto personale è percorso in una pluralità di direzioni: il personaggio femminile è per due volte la figlia del giudice-narratore, come ne La figlia americana e Videogame; in un’occasione è la compagna del giudice-narratore, come nel lungo racconto di apertura della raccolta Dedica; in un’altra occasione, è una nipote del giudice-narratore, che va a vivere per un lungo periodo a casa degli zii, come nel racconto Vacanza; in Nostalgia, invece, il registro narrativo cambia, atteso che, in questo racconto, troviamo una serie di voci che si rincorrono in una narrazione corale; infine, nel racconto conclusivo Viaggio in mare, che conclude la raccolta e fa riferimento a una traversata marittima, come in una sorta di contrappunto rispetto agli altri cinque racconti, la voce narrante è quella di una donna, che è la moglie di un giudice.
L’esemplarità di questi racconti – che hanno una forte componente autobiografica, soprattutto evidente ne La figlia americana – è data dal fatto che i microcosmi personali e giudiziari narrati dall’Autore ci aprono le porte alla comprensione della cifra narrativa di Mannuzzu, che fa entrare in contatto i protagonisti della narrazione, disvelandone le crisi esistenziali e le tensioni personali, attraverso cui si sviluppano i loro rapporti, minati dalle incomprensioni e dalle malinconie, entrambe stratificate nel tempo, che li caratterizzano. In questo modo, si produce una sorta di rovesciamento delle prospettive narrative tradizionali, che comporta la sovrapposizione del punto di visto di un uomo e di una donna, dalle cui tensioni emerge la natura conflittuale dei loro rapporti; conflitti che possono riguardare i rapporti tra due coniugi come in Dedica, tra padre e figlia come in La figlia americana e Videogame, tra zii e nipote come in Vacanza.
Invero, è lo si capisce dallo stesso titolo della raccolta, è il rapporto tra padre e figlia ad assumere un rilievo centrale nei racconti di Mannuzzu, atteso che è proprio la problematicità di tali rapporti a rendere evidente la crisi del giudice-narratore, che, come si è detto, è un intellettuale moderno, i cui travagli si riverberano in modo esemplare nell’atteggiamento del padre verso la figlia.
La problematicità di questi rapporti, come conseguenza della crisi esistenziale che tormenta i protagonisti del racconto, è descritta in termini esemplari in Videogame, che narra di un’estate “straordinariamente calda” trascorsa da un giudice – un consigliere di cassazione – e sua figlia, nell’innominata città sarda, ma che è naturalmente Sassari, tra i quali vi è un rapporto di sostanziale estraneità, che viene così descritto dal protagonista: «Silvia è mia figlia; non è che poi ci facciamo molta compagnia […]»[25]. Il rapporto tra il padre e la figlia, dunque, si presenta al lettore secondo le modalità tipiche della narrazione di Mannuzzu: si tratta di due soggetti, uno dei quali è un magistrato, che sono tra loro vicini, fisicamente e contingentemente, ma che appaiono divisi dalla reciproca incomprensione, che è la conseguenza della crisi esistenziale che ciascuno di loro patisce, che è descritta anche in La figlia americana.
I due protagonisti, quindi, iniziano a giocare tra loro, appunto con un Videogame, dove dovranno inventare delle trame, che li porterà a svelare, autobiograficamente, i loro disagi e le loro insoddisfazioni personali, che, alla fine del racconto, li avrà allontanati ancora di più, confermando la loro distanza umana, che è contrapposta alla loro, contingente, vicinanza personale.
Ed è, in fondo, questo il messaggio che l’intera raccolta di racconti vuole trasmettere: la crisi dell’uomo di giustizia, quale figura di intellettuale moderno, è il frutto di un travaglio che attraversa la sua esistenza tout court considerata, in tutti i suoi aspetti, professionali, personali e familiari.
5. Altro passaggio fondamentale per comprendere la crisi esistenziale del giudice-intellettuale di Salvatore Mannuzzu è rappresentato dal romanzo Alice, il cui protagonista è un giudice civile cinquantenne, separato dalla moglie, che fin dalle prime pagine ci viene descritto come un tipico personaggio delle sue narrazioni. Come ci dice Alessandro Cadoni, in una bella monografia dedicata al nostro magistrato-scrittore, il «lettore di Mannuzzu che si appresti a leggere questo romanzo già ne conosce il carattere: tiepido, intellettuale, è l’uomo delle decisioni non prese, della reticenza, del rinvio della scelta […]»[26].
Piero è separato ma non divorziato dalla moglie e vorrebbe lasciare Lula, la donna con cui vive, dopo la separazione dal coniuge, a Sassari, anche in questo caso innominata, per andare a vivere con un’altra giovane donna, una collega. Piero, dunque, vorrebbe lasciare Lula, ma, tergiversa, non riuscendo a prendere questa decisione, trascinandosi stancamente, tra una menzogna e l’altra, per tutto il racconto, fino alla tragica, inaspettata, fine – costituita dal suicidio apparentemente inspiegabile di Lula – che è risolutiva rispetto alla sua in-vincibile inazione, ma che comporterà un’ulteriore sconfitta personale per il protagonista.
Un’ulteriore, peculiare, espressione dell’inettitudine sveviana di Piero è rappresentata dal rapporto che ha con la figlia Chicca – che vive in America, come la protagonista de La figlia americana, di cui si è già detto a proposito dei racconti di Mannuzzu –, con cui il protagonista del romanzo ha un rapporto distaccato, ma sofferto, fatto di una lontananza dolorosa, alla quale, per tutto il tempo della narrazione, non riesce a fare fronte. Con la figlia tanto amata, infatti, Piero si limita a comunicare solo via mail, inviandole messaggi laconici ed evitando di esprimerle il suo affetto e il desiderio di rivederla, fornendo, ancora una volta, al lettore la conferma del suo stato di sospensione esistenziale.
Lula, invece, è l’esatto opposto di Piero.
Lula, infatti, è la figura positiva del romanzo ed è animata da uno stato di grazia terrena, che è del tutto sconosciuta a Piero, che, però, finisce per travolgere il partner con la sua accidia, con cui trascina la sua esistenza, schiacciando la compagna e inducendola a suicidarsi, compiendo un gesto disperato e, per il lettore, inaspettato.
Ed è esemplare rappresentazione della condizione di stasi esistenziale del protagonista di Alice, il brigantino francese, che ha lo stesso nome del romanzo e che è ripreso da una fotografia apposta nella copertina dell’opera narrativa in esame, che si incagliava nel 1909, presso la penisola di North Beach, alla foce del Columbia River, nella costa atlantica settentrionale degli Stati Uniti.
Alice è anche la password del personal computer di Lula, accedendo al quale Piero scopre una dimensione sconosciuta della vita della compagna e i malesseri interiori che tormentano la sua esistenza; scoperta che, tuttavia, non induce il protagonista a modificare il suo approccio con la compagna e a rivitalizzare il loro rapporto sentimentale o a troncarlo definitivamente, prigioniero, com’è, dalla sua inazione, che, alla fine del racconto, si rivelerà distruttiva per Lula.
Piero, dunque, si incaglia, come il brigantino francese, nelle secche della sua esistenza, mostrandosi incapace di risolvere i suoi dilemmi esistenziali e sentimentali e aspettando che l’evolversi degli eventi, a prescindere dalle sue condotte, gli dia quelle risposte che lui non riesce a trovare o che forse nemmeno cerca, prigioniero – come tutti i giudici-intellettuali di Mannuzzu – della sua inazione. Citando, ancora una volta Cadoni: «L’Alice è, in ultima sintesi, nel segno della grazia, in uno stato di ubiquità polare, metafora al contempo, della resistenza e del naufragio dei legami più saldi: quelli della famiglia e quelli delle radici. Che sono […] tutto ciò che abbiamo e insieme tutto quello di cui dobbiamo soffrire»[27].
6. Mi sembra, infine, opportuna un’ultima considerazione, a proposito dello stile letterario di Salvatore Mannuzzu, che è caratterizzato da una cura certosina, quasi giurisdizionale, delle parole utilizzate e della costruzione dei periodi, che è il frutto, come lui stesso più volte ha riferito, dalla sua formazione di magistrato e dei decenni trascorsi a “scrivere sentenze”: torniamo così, ancora una volta, al magistrato-scrittore.
Nella prosa di Mannuzzu, infatti, a ogni parola e a ogni segno di interpunzione viene dedicata un’attenzione particolare, come abbiamo detto, quasi giurisdizionale, che è la conseguenza del suo sforzo di ridurre all’essenziale la sua narrazione. Come ha mirabilmente riferito Salvatore Settis in un uno dei pochi commenti sulla morte dello scrittore sassarese: «C’è un segno distintivo della scrittura di Salvatore Mannuzzu […]: sono i due punti. Ciascun segno di interpunzione, per la verità, meritava, in Mannuzzu, un’attenzione supplementare: segno, inequivocabile, della estrema precisione di scelta che egli aveva compiuto, per confezionare, limando fino all’ultimo, postremo segno, ogni elemento che avesse osato “sporcare” il bianco della pagina […]»[28].
In questo modo, l’attenzione alla prosa, alle parole utilizzate per descrivere i suoi personaggi e alla punteggiatura diventa per Salvatore Mannuzzu la testimonianza del rovello della sua scrittura, che è al contempo il rovello dei suoi protagonisti narrativi, prigionieri dell’inazione e schiacciati dal dubbio esistenziale, kierkegardiano, che attraversa le loro vite di intellettuali moderni. La costruzione rigorosa del periodare delle narrazioni di Mannuzzu, dunque, costituisce una delle cifre essenziali delle sue opere letterarie, in cui l’uso meticoloso della punteggiatura e la costruzione del periodo sono indispensabili per narrare i tormenti dell’intellettuale moderno, di cui i magistrati descritti nei suoi romanzi sono esemplare rappresentazione.
Questo stile, personalissimo, di Salvatore Mannuzzu ha reso inconfondibile il suo modo di raccontare i personaggi delle sue opere, sempre lucido, quasi implacabile nel descrivere le debolezze degli intellettuali e dei magistrati che campeggiano nei suoi racconti, che vengono narrati con un acume che è la conseguenza della sua visione del mondo, intrinsecamente antiretorica e per nulla consolatoria.
Nelle opere narrative di Mannuzzu le debolezze dell’uomo di giustizia e dell’intellettuale moderno vengono descritte senza alcuna concessione per i protagonisti dei suoi racconti, che attraverso uno stile asciutto e un periodare che procede in modo quasi inferenziale, come le tante sentenze scritte dal nostro Autore, descrive la crisi esistenziale dei suoi protagonisti, che sono soprattutto magistrati, che attraversano gli anni in cui vivono con il peso insopportabile delle loro debolezze umane.
Lo sforzo incessante di descrivere sintatticamente nel modo più adeguato gli stati d’animo dei suoi protagonisti è, del resto, anche la conseguenza dello sforzo di descrivere lo stato d’animo, contingente, del narratore e ci fa comprendere il senso delle operazioni di riscrittura di alcune opere di Salvatore Mannuzzu. Ci si riferisce, in particolare, al primo romanzo Un Dodge a fari spenti, scritto nel 1955, pubblicato qualche anno dopo il suo ingresso in magistratura con lo pseudonimo di Giuseppe Zuri e ripubblicato nel 2002; nonché a La ragazza perduta, che costituisce una riscrittura del racconto La figlia perduta, di cui ci si è già occupati nell’esaminare l’omonimo libro di racconti.
In entrambi i casi, ma soprattutto ne La ragazza perduta, la riscrittura dell’opera costituisce l’ennesimo tentativo del magistrato-scrittore sassarese di tornare su un tema a lui molto caro, quello della crisi dei rapporti umani come conseguenza della crisi dell’intellettuale moderno, i cui travagli, come si è detto, si riverberano in modo esemplare nel rapporto tra il giudice-narratore e sua moglie Zezi, molto più giovane di lui e, proprio per questo, in qualche misura, compagna-figlia del protagonista.
([1]) I dati relativi agli anni trascorsi in magistratura da Salvatore Mannuzzu non sono abbondanti, anche perché lo stesso, pur continuando a occuparsi di questioni giudiziarie fino alla sua morte, andava fuori ruolo nel 1975 e, dopo l’esperienza parlamentare, la sua attività giurisdizionale assumeva un rilievo secondario rispetto alla notorietà istituzionale acquisita dal magistrato sassarese. Scarni, sul punto, appaiono anche i riferimenti documentali su Mannuzzu consultabili presso l’Archivio centrale dello Stato.
([2]) I dati richiamati nel testo sono estratti dalla scheda di Salvatore Mannuzzu pubblicata in www.storia.camera.it.
([3]) Per consultare la ricca bibliografia di Salvatore Mannuzzu si rinvia a www.scrittori-sardi.uniss.it/index.php/autori/item/salvatoremannuzzu.
([4]) S. Mannuzzu, Procedura, Einaudi, Torino, 1988.
([5]) G. Zuri, Un Dodge a fari spenti, Rizzoli, Milano, 1962.
([6]) S. Mannuzzu, La figlia perduta, Einaudi, Torino, 1992.
([7]) Id., Un morso di formica, Einaudi, Torino, 1989.
([8]) Id., Le ceneri del Montiferro, Einaudi, Torino, 1995.
([9]) Id., Il terzo suono, Einaudi, Torino, 1995.
([10]) Id., Il famoso Natalino, Laterza, Roma-Bari, 1998.
([11]) Id., Il catalogo, Einaudi, Torino, 2000.
([12]) Id., Alice, Einaudi, Torino, 2001.
([13]) Id., Le fate dell’inverno, Einaudi, Torino, 2004.
([14]) Id., La ragazza perduta, Einaudi, Torino, 2011.
([15]) Id., Snuff o l’arte di morire, Einaudi, Torino, 2012.
([16]) Id., Un Dodge a fari spenti, Seconda edizione, Illisso, Nuoro, 2012.
([17]) Id., Corpus, Einaudi, Torino, 1998.
([18]) Id., Il fantasma della giustizia, il Mulino, Bologna, 1998.
([19]) Id., Giobbe, Edizioni della Torre, Cagliari, 2007.
([20]) Id., Cenere e ghiaccio, Edizioni dell’Asino, Roma, 2009.
([21]) Id., Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio, Lindau, Torino, 2012.
([22]) Id., Testamenti, Lindau, il Maestrale, Nuoro, 2017.
([24]) Id., Il catalogo, cit., p. 11.
([25]) Id., La figlia perduta, cit., p. 151.
([26]) A. Cadoni, Il fantasma e il seduttore, Donzelli, Roma, 2017, pp. 171-172.
([27]) Id., Il fantasma e il seduttore, cit., p. 180.
([28]) Si veda S. Settis, Elogio dei due punti: in memoria di Salvatore Mannuzzu, in www.ilsole24ore.com, 11 settembre 2019.
Emergenza coronavirus: le tutele nel settore del trasporto aereo e dei pacchetti turistici
di Alessandro Palmigiano
SOMMARIO: 1. Premessa.2. La tutela del consumatore-viaggiatore. 3.La posizione delle imprese tour operator
1. Premessa
La velocità con cui nelle ultime settimane, in Italia, si è diffuso il contagio da “coronavirus” e la velocità con cui si sono susseguiti provvedimenti del Governo, impone un’analisi dei rimedi contrattuali applicabili in questa particolare situazione di emergenza sanitaria, avuto riguardo non solo ai consumatori, ma anche alle imprese che si trovano costrette a fronteggiare un’ imprevedibile perdita economica. In altri termini, occorre effettuare un bilanciamento tra la tutela del diritto alla salute costituzionalmente garantito e la tutela degli interessi economici delle attività pubbliche e private.
Alla luce del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 9 marzo 2020, le disposizioni dettate ad hoc per la cd. “zona rossa” con il decreto dell’8 marzo 2020, sono state estese a tutto il territorio nazionale con efficacia fino al 3 aprile 2020.
Pertanto, in questo particolare momento storico, fonte normativa di rilievo per la regolamentazione dei rapporti contrattuali aventi ad oggetto viaggi (nella loro concezione più ampia) è rappresentata dai recenti decreti emanati in materia.
2. La tutela del consumatore-viaggiatore
In primo luogo, occorre prendere le mosse dalla sospensione dei viaggi d’istruzione organizzati dalle istituzioni scolastiche del sistema nazionale d'istruzione sia sul territorio nazionale sia all'estero disposta con il D.L. 23 febbraio 2020, n. 6 e, da ultimo, con il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri dell’8 marzo 2020, come integrato dal successivo del 9 marzo 2020 . Il legislatore, in tali ipotesi, ha espressamente richiamato la disciplina dell’art. 41, comma 4, del Codice del turismo, stabilendo dunque l'obbligo di rimborso integrale a favore dei viaggiatori da parte degli organizzatori turistici.
In secondo luogo, occorre condurre un’attenta analisi sul tema dei viaggi individuali con arrivo o partenza programmati in tutto il territorio italiano, nonché di quelli aventi come destinazione Stati esteri in cui sia impedito l’accesso in ragione dell’emergenza epidemiologica.
Al riguardo, bisogna distinguere, a seconda che l’annullamento del viaggio dipenda da un provvedimento del Governo, oppure dipenda dall’organizzatore e/o dal vettore.
Nel primo caso (ad. esempio il blocco voli aerei per la Cina, il divieto di entrata e di uscita in tutto il territorio nazionale e di spostamento all’interno dello stesso) i vettori e/o organizzatori che hanno raccolto la prenotazione non possono pretenderne il pagamento; invece, qualora sia già stato incassato il corrispettivo, hanno l’obbligo di rimborsare al consumatore quanto versato, indipendentemente da quanto previsto in merito nel contratto del singolo servizio e quindi anche se la prenotazione era classificata come non rimborsabile.
Infatti, già l’art. 28, D.L. del 2 marzo 2020, n. 9, aveva elencato una serie di soggetti che, nel caso di contratti di trasporto aereo, ferroviario, marittimo nelle acque interne o terrestre, mediante il richiamo alla disciplina di cui all’art. 1463 c.c., hanno diritto al rimborso per impossibilità sopravvenuta della prestazione.
Si tratta, in particolare, di:
I viaggiatori che appartengono a qualcuna di queste categorie, hanno diritto al rimborso di quanto pagato. Con riguardo alle modalità con le quali richiedere il rimborso, il consumatore deve inoltrare una comunicazione al vettore in cui deve indicare il ricorrere di una delle situazioni elencate al comma 1, e allegare il titolo di viaggio, entro un periodo di 30 giorni che decorre differentemente a seconda della situazione concreta.
Ricevuta la comunicazione, il vettore ha l’obbligo di rimborsare il corrispettivo versato per il titolo di viaggio entro 15 giorni, o in alternativa, entro lo stesso termine, può emettere un voucher di pari importo da utilizzarsi entro un anno dall’emissione.
Altro profilo da analizzare, riguarda l’acquisto di c.d. pacchetti turistici, ovvero i viaggi, le vacanze, le formule “tutto compreso" e le crociere turistiche che risultano dalla combinazione prefissata di almeno due dei seguenti elementi, venduti o offerti ad un prezzo forfetario: trasporto; alloggio; servizi turistici non accessori al trasporto o all’alloggio che costituiscano, per la soddisfazione delle esigenze ricreative del consumatore,una parte significativa del pacchetto turistico. In merito, trova applicazione l’art. 28, commi 5-6, D.L. 2 marzo 2020, n. 9, che prevede in capo al viaggiatore (che rientra tra le categorie sopra richiamate di cui al comma 1) il diritto di recesso e di rimborso ai sensi dell’art. 41 del Codice del turismo, ivi richiamato.
Più precisamente, il diritto di recesso e di rimborso è previsto nelle ipotesi di “contratti di pacchetto turistico da eseguirsi nei periodi di ricovero, di quarantena con sorveglianza attiva, di permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva ovvero di durata dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 nelle aree interessate dal contagio come individuate dai decreti adottati dal Presidente del Consiglio dei ministri ai sensi dell’art. 3 del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6”.
Il legislatore, fa un espresso richiamo alla disciplina del Codice del turismo e in particolare all’art. 41, il quale, al comma 4, dispone che “in caso di circostanze inevitabili e straordinarie verificatesi nel luogo di destinazione o nelle sue immediate vicinanze e che hanno un’incidenza sostanziale sull’esecuzione del pacchetto o sul trasporto di passeggeri verso la destinazione, il passeggero ha diritto di recedere dal contratto, prima dell’inizio del pacchetto, senza corrispondere spese di recesso, ed al rimborso integrale dei pagamenti effettuati per il pacchetto, ma non ha diritto ad alcun indennizzo supplementare”.
In altri termini, la diffusione del COVID-19 rappresenta un’ipotesi di circostanza inevitabile e straordinaria che incide in modo sostanziale sull’esecuzione del pacchetto, e che, in quanto tale, giustifica l’esercizio del diritto di recesso da parte del viaggiatore cui il legislatore collega il diritto di rimborso integrale dei corrispettivi versati, senza pagamento di somme a titolo di penale. Inoltre, ai sensi del comma 6, dell’art. 41, del Codice del turismo, all’esercizio del diritto di recesso consegue la risoluzione dei contratti funzionalmente collegati stipulati con terzi.
Quanto alle modalità di esercizio del diritto, il recesso deve essere effettuato prima dell’inizio del pacchetto e l’organizzatore ha l’obbligo di corrispondere le somme a titolo di rimborso senza ritardo, o comunque entro 14 giorni dal recesso. In alternativa, l’organizzatore può offrire al consumatore un pacchetto sostitutivo di qualità equivalente o superiore oppure può emettere un voucher di pari importo da utilizzarsi entro un anno dall’emissione.
Nel secondo caso, ovvero nelle ipotesi in cui il viaggio venga annullato dal vettore o dal tour operator (se il titolo di viaggio è stato acquistato mediante agenzia di viaggio), il consumatore ha diritto al rimborso integrale di quanto corrisposto.
Sul punto, l’Ente Nazionale di Aviazione Civile, già prima del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri dell’8 marzo 2020, aveva fornito informazioni in merito alla tutela dei diritti previsti dal Regolamento Comunitario n. 261 del 2004 per i casi di cosiddetta “forza maggiore: “I passeggeri che sono in possesso di biglietto aereo il cui volo è cancellato, i passeggeri che, pur non avendo subito la cancellazione del volo, sono comunque soggetti alle restrizioni di Paesi terzi imposte nei confronti delle persone che provengono o che abbiano soggiornato in Italia negli ultimi 14 giorni e i passeggeri che per ordine delle Autorità sono soggetti a misure di contenimento dell’epidemia da Covid19 e che quindi non possono usufruire del biglietto aereo hanno diritto al rimborso del prezzo del biglietto da parte del vettore; non hanno, invece, diritto alla compensazione pecuniaria di cui all'art. 5 del Reg. numero 261 del 2004 che regola i casi di cancellazione, negato imbarco e ritardo prolungato in quanto la cancellazione del volo non è dipendente da causa imputabile al vettore”.
In relazione a quanto fin qui esposto non pare esservi alcun dubbio circa il diritto del viaggiatore al rimborso delle somme versate.
Più problematica è, invece, l’ipotesi in cui il viaggiatore abbia annullato il viaggio, spinto dal timore di un probabile contagio e fuori dalle ipotesi contemplate nel decreto (si pensi a coloro che hanno scelto di non partire sebbene le misure restrittive non riguardassero l’intero territorio nazionale e/o non vi erano impedimenti da parte degli aeroporti di destinazione). In tal caso, in assenza di decisioni prese dal Governo e/o dall’organizzatore, se il servizio era attivabile in concreto, il consumatore che ha deciso di rinunciarvi, in linea di principio, non ha diritto al rimborso, a meno che tale circostanza sia prevista nelle condizioni del contratto stipulato.
3. La posizione delle imprese tour operator
Esaurita la trattazione dei diritti del viaggiatore, occorre adesso prendere in considerazione, la posizione, più complessa, delle imprese tour operator nei confronti dei fornitori con i quali hanno stipulato dei contratti in nome e per conto dei viaggiatori.
La complessità dell’argomento è rappresentata dalla difficoltà, in alcune specifiche circostanze, di stabilire quale sia la legge applicabile al contratto di soggiorno o di trasporto stipulato tra un tour operator italiano e un’impresa fornitrice di servizi (hotel, b&b, vettore) comunitaria.
In relazione ad imprese italiane o imprese estere con contratti la cui legge applicabile sia quella italiana, l’art. 41, comma 6, Codice del turismo, stabilisce che nelle ipotesi di recesso dal contratto di pacchetto turistico da parte del consumatore ai sensi dei commi 4 e 5 dello stesso art. 41, "si determina la risoluzione dei contratti funzionalmente collegati stipulati con terzi." Ne consegue che i contratti con i fornitori dovranno essere considerati risolti e pertanto questi ultimi saranno obbligati a rifondere gli organizzatori turistici i quali, a loro volta, rimborseranno i viaggiatori. Nel caso, invece, in cui il fornitore sia straniero e la legge applicabile al contratto non sia quella italiana, trova applicazione il Regolamento CE n. 593/2008 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali, il quale prevede un criterio generale di libertà di scelta delle parti circa la legge da applicare al contratto, cui si affianca un criterio suppletivo per il quale, in mancanza di scelta delle parti, sarà la tipologia del contratto a determinare i criteri. In particolare, ai sensi dell’art. 4, par. 1, lett b), Reg. CE 593/2008, “il contratto di prestazione di servizi è disciplinato dalla legge del paese nel quale il prestatore di servizi ha la residenza abituale”. Inoltre, “Se il contratto non è coperto dal paragrafo 1 o se gli elementi del contratto sono contemplati da più di una delle lettere da a) ad h), del paragrafo 1, il contratto è disciplinato dalla legge del paese nel quale la parte che deve effettuare la prestazione caratteristica del contratto ha la residenza abituale” (art. 4, par. 2).
Infine, ai sensi dei paragrafi 3 e 4, “se dal complesso delle circostanze del caso risulta chiaramente che il contratto presenta collegamenti manifestamente più stretti con un paese diverso da quello indicato ai paragrafi 1 o 2, si applica la legge di tale diverso paese” e, ancora, “se la legge applicabile non può essere determinata a norma dei paragrafi 1 o 2, il contratto è disciplinato dalla legge del paese con il quale presenta il collegamento più stretto.”
Nel caso di contratti aventi ad oggetto il trasporto di passeggeri, il Regolamento CE, all’art. 5, par. 2, prevede una disciplina ad hoc per determinare la legge applicabile e precisamente: “Nella misura in cui la legge applicabile a un contratto di trasporto di passeggeri non sia stata scelta dalle parti conformemente al secondo comma, la legge applicabile è quella del paese di residenza abituale del passeggero, purché il luogo di partenza o di destinazione sia situato in tale paese. Se tali condizioni non sono soddisfatte, si applica la legge del paese in cui il vettore ha la residenza abituale. Le parti possono scegliere come legge applicabile al contratto di trasporto di passeggeri a norma dell’articolo 3 solo la legge del paese in cui: a) il passeggero ha la residenza abituale; o b) il vettore ha la residenza abituale; o c) il vettore ha la sua amministrazione centrale; o d) è situato il luogo di partenza; o e) è situato il luogo di destinazione”. E inoltre, “Se dal complesso delle circostanze del caso risulta chiaramente che il contratto, in mancanza di scelta della legge, presenta collegamenti manifestamente più stretti con un paese diverso da quello indicato ai paragrafi 1 o 2, si applica la legge di tale diverso paese” (art. 5, par. 3).
Pertanto, se alla luce dei criteri sopraindicati, risulta che la legge applicabile al contratto di pacchetto turistico, di soggiorno o di trasporto sia quella straniera, occorre, da un lato, verificare l'esistenza nell'ordinamento del fornitore di una norma che tuteli l'organizzatore turistico, oppure, dall’altro, verificare che nel contratto con il proprio fornitore, sia inserita una clausola che prevede la risoluzione nelle ipotesi di forza maggiore, con conseguente obbligo di rimborso di quanto pagato in nome e per conto dei viaggiatori.
In conclusione, potrebbe verificarsi la circostanza che il fornitore, prima facie, non riconosca efficacia nella propria sfera contrattuale alla sospensione governativa in atto nel nostro Paese e manifesti il proprio diniego al rimborso. In tale ipotesi, qualora la legge straniera applicabile o il contratto prevedano la possibilità della risoluzione in caso di forza maggiore, il fornitore non potrà sottrarsi al rimborso nei confronti del tour operator.
Si tratta, in ogni caso, di un’analisi da condurre caso per caso, anche in relazione alle diverse modalità di conclusione del contratto che potrebbero comportare deroghe alle regole generali.
Difetto strutturale dell’ordinamento nazionale rispetto al ne bis in idem, tra obblighi di cessazione e di riparazione: qualche osservazione su Corte dir.uomo,Korneyeva c. Russia.
di Diego Mauri
SOMMARIO: 1. Introduzione; 2. Dalla partecipazione alla manifestazione non autorizzata al doppio processo, sino alla doppia condanna: le violazioni degli artt. 5 e 6 CEDU; 3. Ne bis in idem sostanziale e concorso di norme nella CEDU; 4. Le statuizioni ex art. 46, par. 1, CEDU: la portata degli obblighi di riparazione e di cessazione dell’illecito.
1. Introduzione
Con la sentenza resa nel caso Korneyeva c. Russia[1], la Corte europea dei diritti dell’uomo (d’ora in avanti: Corte edu) ha accertato la violazione, da parte della Russia, dei diritti sanciti dagli artt. 5 (diritto alla libertà personale), 6 (equo processo) e 4 Protocollo 7 (diritto a non essere puniti due volte per lo stesso fatto – c.d. ne bis in idem) della CEDU. La ricorrente del caso in esame è una donna russa tratta in arresto, quindi processata e infine condannata, per aver partecipato a una manifestazione non autorizzata contro il presidente della Federazione.
Due sono i profili di maggiore interesse sollevati dalla pronuncia appena citata. Il primo attiene alla portata del diritto a non essere giudicati o puniti due volte per un medesimo fatto (recte, “offesa”, stando alla lettera della disposizione di cui all’art. 4 Protocollo 7 CEDU), rispetto al quale la Corte in realtà conferma – sollevando spunti di rilievo, come si vedrà, anche per l’ordinamento italiano – il proprio indirizzo giurisprudenziale. Il secondo – quello su cui si porrà maggiormente attenzione – involge la questione delle violazioni c.d. “strutturali” della CEDU e, in particolare, degli obblighi incombenti sugli Stati parte di adottare misure individuali e generali per porre fine alla violazione e rimediare alla medesima, ai sensi dell’art. 46 CEDU.
2. Dalla partecipazione alla manifestazione non autorizzata al doppio processo, sino alla doppia condanna: le violazioni degli artt. 5 e 6 CEDU
I fatti da cui è originata la vicenda di specie possono essere riassunti come segue. La ricorrente – appena più che ventenne all’epoca dei fatti – si ritrova coinvolta in una manifestazione di protesta (pacifica, ma non autorizzata dalle competenti autorità russe) a San Pietroburgo, il 12 giugno 2017. Le forze dell’ordine, sopraggiunte sul luogo, accerchiano i manifestanti e ogni altro individuo lì presente (tra cui la ricorrente), li prelevano e li conducono alla stazione di polizia, per procedere alla loro identificazione e alle rispettive contestazioni.
In particolare, alla ricorrente vengono contestati gli illeciti di cui agli artt. 19.3 par. 1 e 20.2 par. 5 del Codice federale russo sugli illeciti amministrativi (d’ora in avanti anche solo “Codice”). La prima disposizione punisce l’inosservanza dell’ordine legittimo dell’autorità nell’esercizio delle proprie funzioni; la seconda, invece, l’inosservanza, da parte dei partecipanti, della procedura prevista per lo svolgimento di un evento pubblico. Anticipando un aspetto di rilievo per le doglianze sollevate dalla ricorrente (e in particolare per quella sub art. 4 Protocollo 7 CEDU), è bene osservare come, a dispetto della qualificazione normativa di tali illeciti (e delle relative sanzioni) come “amministrativi”, la Corte perviene a considerarli come “sostanzialmente” penali alla luce dei noti criteri Engel (cfr. par. 53)[2]. Sulla base di tali contestazioni, la ricorrente – nel frattempo mantenuta in vinculis per poco più di ventiquattro ore – viene processata dalla medesima autorità giudiziaria in due distinti procedimenti e condannata, in data 16 giugno 2017, con due distinti provvedimenti, alle pene pecuniarie corrispondenti, rispettivamente, a Euro 7 e 140.
Nel proprio atto di impugnazione avverso tali statuizioni, la ricorrente solleva due censure. Da un lato, lamenta la mancata possibilità di interrogare come testi, nel corso del giudizio di prime cure, gli agenti di polizia che avevano proceduto all’arresto e redatto il verbale contenente le contestazioni e, dunque, la circostanza secondo cui la condanna sia avvenuta sulla base esclusiva degli atti di indagine, cioè di dichiarazioni extra-processuali. Dall’altro lato, la ricorrente eccepisce la violazione del principio del ne bis in idem, riconosciuto, in effetti, dall’art. 4.1 par. 5 del Codice con riferimento agli illeciti di natura amministrativi ivi disciplinati. Né la prima né la seconda doglianza vengono accolte dal giudice di seconde cure che, con due distinte decisioni, conferma le statuizioni del primo grado.
Esaurite pertanto le vie di ricorso approntate dall’ordinamento russo, la ricorrente avvia il contenzioso convenzionale. Posto che la doglianza sub art. 4 Protocollo 7 sarà trattata funditus e separatamente nel prosieguo, ci si limiterà ora, per mere esigenze di completezza, a riassumere i motivi di ricorso e le relative statuizioni della Corte sub artt. 5 e 6 CEDU.
Quanto alla doglianza relativa al diritto alla libertà personale di cui all’art. 5, par. 1, CEDU, per la Corte è piuttosto agevole rintracciare, nella condotta delle autorità russe coinvolte, gli elementi per affermare l’avvenuta violazione. La Corte analizza separatamente la traduzione della ricorrente alla stazione di polizia ai fini della compilazione del verbale contenente le contestazioni e il suo successivo mantenimento in vinculis: per entrambi i momenti, le autorità russe non hanno fornito adeguate motivazioni circa l’esigenza di comprimere, seppur per un periodo di tempo limitato, la libertà personale della ricorrente.
Quanto alla lamentata violazione del diritto all’equo processo, sotto il profilo della mancata partecipazione alle udienze della parte titolare (alla pari del Pubblico Ministero) dell’accusa e, dunque, del canone di imparzialità, la Corte si limita a richiamare per relationem la propria giurisprudenza[3] e perviene, così, ad affermare la responsabilità della Russia.
3. Ne bis in idem sostanziale e concorso di norme nella CEDU
3.1 Il caso di specie
Il vero epicentro della sentenza in commento e del suo “merito” è costituito dal ne bis in idem quale diritto fondamentale sancito dall’art. 4 Protocollo 7 CEDU. Come si è già detto supra, la ricorrente risulta essere stata soggetta a due distinti procedimenti (sostanzialmente “penali”) per la condotta tenuta in occasione della manifestazione non autorizzata a San Pietroburgo: non aver ottemperato all’ordine di dispersione intimato dalle autorità russe ai partecipanti (rilevante ex art. 19.3 par. 1 Codice) e non aver rispettato gli obblighi relativi allo svolgimento di manifestazione (rilevante ex art. 20.2 par. 5 Codice).
Per impiegare una terminologia vicina all’operatore del diritto italiano, si può dire che il caso di specie solleva un problema di concorso formale di illeciti: con la medesima condotta, infatti, la ricorrente risulta aver violato due diverse disposizioni del Codice.
Non pare inutile, a questo punto, procedere a un rapido richiamo della giurisprudenza convenzionale in punto di ne bis in idem e concorso di norme, tralasciando – ma solo perché non direttamente sollevato dal caso in commento – il filone relativo al c.d. “doppio binario sanzionatorio”, ben presente nella riflessione dottrinale e nella prassi giudiziaria italiana[4]. In effetti, com’è stato correttamente osservato, l’approccio interpretativo dei giudici di Strasburgo è contrassegnato da “significative oscillazioni”[5].
Secondo un primo indirizzo giurisprudenziale[6], oggi abbandonato, il divieto di doppia sottoposizione a processo o pena si declinava in senso prettamente formale: ciò che rilevava era la medesimezza (idem) della contestazione (“infraction” secondo il testo francese, “offence” secondo il testo inglese) e non del fatto materiale in sé. Ne conseguiva che, ai fini del giudizio circa l’idem formale, assumevano rilievo, a seconda dei casi, non solo il fatto storico in sé, ma pure la classificazione normativa della condotta nonché elementi comuni alle fattispecie che venivano, di volta in volta, in rilievo. Insomma, una selva di indici in cui l’interprete si trovava a districarsi con parecchia difficoltà.
Proprio per risolvere tali difficoltà e, in ultima analisi, scongiurare non immateriali pericoli di incertezza giuridica, la giurisprudenza di Strasburgo si decise ad operare un deciso revirement con la sentenza resa, dalla Grande Camera, nel caso Sergey Zolotukhin c. Russia[7]. Qui la Corte edu sposò appieno un approccio fondato non più sull’idem legale, bensì sul c.d. idem factum: ciò che la garanzia di cui all’art. 4 Protocollo 7 CEDU vieta è la doppia sottoposizione a processo o pena per fatti identici o fatti che siano sostanzialmente i medesimi. Assume rilievo, in altre parole, l’identità materiale del fatto, data dalla medesimezza sia della condotta tenuta dall’imputato sia del contesto spaziale e temporale in cui la stessa si colloca, e non le (eventualmente) plurime qualificazioni normative[8]. Volendo rendere ragione di tale mutamento ermeneutico, non può tacersi, in aggiunta alla già menzionata esigenza di evitare applicazioni incerte della garanzia, anche l’opportunità di favorire un’interpretazione teleologicamente orientata della medesima, attenta, cioè, a che la qualificazione normativa della condotta non produca l’effetto di comprimere i diritti individuali e, soprattutto, l’effettività dei medesimi[9]. Vale la pena segnalare che tali rilievi furono costantemente posti alla base della giurisprudenza successiva, anche con riguardo a quella attinente al doppio binario sanzionatorio[10].
Tornando quindi al caso di specie, la Corte in effetti si confronta con l’argomento, sollevato dal Governo russo, circa la necessità di mantenere un approccio formale alla questione: in altre parole, le deduzioni della Russia si concentrano sulla diversità di – per usare, di nuovo, una formula nota – “bene giuridico” protetto dalle due disposizioni del Codice (parr. 45 e 62). L’operatività dell’istituto del concorso formale, insomma, sarebbe giustificato dalla necessità di assicurare “distinct types or areas of protection pertaining to each offense” (par. 62).
Rispetto a tale argomento, la Corte edu ha gioco facile nell’osservare come sia stata, di recente, la stessa Corte suprema russa, nella sua formazione plenaria, ad aver adottato un indirizzo ermeneutico volto, in maniera decisa, a rigettare l’applicazione dell’istituto del concorso formale tra le norme di cui agli artt. 19.3 par. 1 e 20.2 par. 5 Codice. Con sentenza del giugno 2018 (richiamata al par. 60), dunque successiva ai fatti di cui al ricorso di specie, il giudice russo ha infatti ritenuto – pur non facendo espresso riferimento al principio del ne bis in idem – che le due fattispecie si trovino in rapporto di specialità, ritenendo cioè che il disvalore condensato nella condotta sanzionata dalla prima delle disposizioni di cui sopra sia integralmente assorbito dalla seconda disposizione. Dunque, in casi quali quello di specie, solo l’art. 20.2 par. 5 Codice – e la sanzione ivi prevista – deve trovare applicazione.
La Corte edu sposa in toto tale indirizzo ermeneutico e, constatato come, alla luce di questo, la ricorrente sia stata sottoposta a processo e dunque condannata due volte per i medesimi fatti, conclude per l’avvenuta violazione dell’art. 4 Protocollo 7 CEDU. Si tratta, infatti, di condotte “sovrapposte” (par. 62) e di fatti che, al netto delle varie qualificazioni giuridiche, si presentano come “substantially the same” (ibidem).
3.2 Il ne bis in idem nell’ordinamento italiano: qualche rilievo costruttivo e qualche spunto critico
Siano ora consentiti alcuni (fugaci, per il vero) rilievi a partire dall’esperienza italiana, proiettandoci sul piano penalistico in ragione della natura – “sostanzialmente penale” – delle fattispecie analizzate a partire dal caso di specie. Come insegna la più illuminata dottrina, le regole che presidiano gli istituti del concorso formale e del concorso apparente di norme non sono esenti da rilievi critici, quantomeno per quel che attiene al rischio di “incertezze applicative”[11] suscettibili di contrastare col principio del ne bis in idem[12].
Rimanendo sul piano processuale, la garanzia del ne bis in idem è condensata all’art. 649 c.p.p., il quale preclude l’esercizio dell’azione penale per lo stesso “fatto” nei confronti dell’individuo già prosciolto o condannato con sentenza irrevocabile. A fronte di un dato testuale per il quale la diversa qualificazione giuridica – cioè il titolo – del fatto non ne muta l’identità, la giurisprudenza di legittimità ha a lungo seguito un indirizzo ermeneutico che, rispetto a ipotesi di concorso formale, esclude l’applicazione della garanzia[13]. Una decisiva inversione di rotta è stata di recente operata dal Giudice delle leggi, il quale, con la sentenza n. 200 del 2016, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 647, co. 1, c.p.p., per contrasto con l’art. 117, co. 1, Cost. (e col parametro interposto offerto dall’art. 4 Protocollo 7 CEDU), “nella parte in cui esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo procedimento penale”[14]. Con questa pronuncia, la Corte costituzionale ha inteso intervenire in un “diritto vivente” contrassegnato da orientamenti contrapposti, al fine di confutare quello – invero minoritario – che, nel valutare il “fatto”, dava spazio non solo alla “dimensione storico-naturalistica” del medesimo (secondo la triade condotta / nesso causale / evento naturalistico)[15], ma anche alle “implicazioni penalistiche” (cioè, alla qualificazione giuridica) dell’accadimento. Così facendo, tale orientamento finiva infatti per ripiegare su un concetto di idem legale in distonia con l’idem factum elaborato dalla medesima Corte costituzionale (oltre che dal giudice convenzionale)[16].
La pronuncia di costituzionalità, poi, aggiunge importanti rilievi anche per quel che concerne il ne bis in idem sostanziale. Riscontrato che i due profili (processuale e sostanziale) si trovano di fatto “saldati” nel diritto vivente, la Corte costituzionale rileva come l’alternativa tra concorso formale e concorso apparente di norme non possa essere risolta sulla base di un mero raffronto tra “ben[i] giuridic[i] tutelat[i] dalle convergenti disposizioni penali” poiché ciò segnerebbe “l’abbandono dell’idem factum, quale unico fattore per stabilire se sia applicabile o no il divieto del ne bis in idem”[17]. E tutto ciò, si badi, anche alla luce della giurisprudenza convenzionale, vera e propria “stella polare” del ragionamento dei giudici di Palazzo della Consulta.
Analogo discorso vale per la giurisprudenza di legittimità successiva alla censura di costituzionalità di cui sopra. Non mancano infatti, nelle pronunce di cassazione, puntuali raffronti con l’art. 4 Protocollo 7 CEDU così come interpretato dalla Corte edu. Ad esempio, chiamata a pronunciarsi, nel suo massimo consesso, sul rapporto tra truffa aggravata ex art. 640-bis c.p. e malversazione ex art. 316-bis c.p.[18], la Cassazione ha concluso come la giurisprudenza di Strasburgo non imponga l’adozione di criteri di concorso tra norme differenti rispetto a quelli presenti nel codice, segnatamente quello della lex specialis di cui all’art. 15 c.p., e che quindi la soluzione del concorso formale tra le disposizioni di cui sopra non si possa ritenere di per sé convenzionalmente censurabile, posta la diversità strutturale delle fattispecie (cioè: l’assenza di idem factum intesa come medesimezza storico-naturalistica) e fermo il rispetto della proporzionalità della sanzione complessivamente irrogata[19]. Con ciò allineandosi perfettamente a quell’orientamento – favorito, come si è visto, non solo a Roma, ma anche a Strasburgo – che esclude efficacia dirimente alla differenza tra “beni giuridici” protetti dalle due norme incriminatrici[20].
Ritornando ora alla prospettiva convenzionale, dunque, quel che conta ai fini della non duplicazione della risposta sanzionatoria (cioè, del ne bis in idem sostanziale) è il rispetto degli indici formulati dalla Corte edu a partire (quantomeno) dalla celebre pronuncia nel citato caso A e B c. Norvegia[21]. Rilevano, in particolare, quelli del grado di interazione tra procedimenti diversi (soprattutto in punto di valutazione del compendio probatorio), della proporzionalità della sanzione finale e della prevedibilità della duplicazione sanzionatoria come conseguenza, sia di diritto che di fatto, della medesima condotta.
Posto che in sostanza la giurisprudenza italiana in tema di idem factum non pare oggi in contrasto con l’indirizzo convenzionale, un profilo critico cui si dovrebbe porre mente riguarda proprio l’ultimo degli indici che precedono, quello della prevedibilità dell’applicazione dei criteri di concorso, peraltro connesso a stretto filo con il principio di legalità della sanzione (penale)[22]. Infatti, quanto più il ricorso pretorio ai criteri di concorso tra norme (specialità, nelle sue plurime declinazioni; sussidiarietà; consunzione o assorbimento) faticherà a liberarsi dalle “incertezze applicative” di cui sopra, in contrasto con i principi di legalità e tipicità della fattispecie, tanto più la statuizione finale potrebbe non riuscire a porsi al riparo da censure convenzionali. È, questo, un punto che dovrebbe richiamare all’attenzione tutti gli operatori del diritto interno.
4. Le statuizioni ex art. 46, par. 1, CEDU: la portata degli obblighi di riparazione e di cessazione dell’illecito
Il richiamo al recente indirizzo giurisprudenziale della Corte suprema russa fornisce altresì lo spunto per affrontare l’ultima – ma, ai fini del presente scritto, centrale – questione analizzata dalla Corte edu nel caso di specie, vale a dire l’adozione, da parte dello Stato responsabile di una violazione di diritti sanciti nella CEDU, di misure, sia individuali che generali, finalizzate alla cessazione della violazione e alla riparazione dell’illecito commesso.
Ciò su cui pare utile porre l’attenzione, per inserire la pronuncia in esame nel quadro più generale della giurisprudenza convenzionale, è la natura “strutturale” dell’illecito di cui si è accertata, nel caso di specie, l’esistenza. Di essa dunque, si renderà conto per inquadrare gli obblighi derivanti dall’accertamento di siffatta violazione, segnatamente di approntare un adeguato rimedio (4.1) e di cessare la condotta illecita (4.2).
4.1 La nozione e la portata di violazione “strutturale” della Convenzione e l’obbligo di riparazione
L’obbligo di adottare le misure così indicate dalla Corte discende, com’è noto, dal più generale obbligo di conformarsi alle sentenze pronunciate dall’organo di controllo ai sensi e per gli effetti dell’art. 46, par. 1, CEDU[23]. Laddove, infatti, la Corte edu rintracciasse l’esistenza di una violazione c.d. strutturale – derivante, cioè, da un vero e proprio difetto dell’intero ordinamento giuridico dello Stato interessato tale da cagionarne, sia nel caso individuale sia in una pluralità di casi analoghi, un malfunzionamento –, essa, oltre a provvedere in punto di equa soddisfazione per il ricorrente vittorioso ex art. 41 CEDU, potrebbe altresì indicare allo Stato le misure da adottare per porre fine e rimediare a tale difetto strutturale[24]. Ciò in quanto, com’è facilmente intuibile, la mancata correzione di un vizio strutturale dell’ordinamento non può che comportare la violazione “a nastro” di diritti sanciti nella CEDU e, per l’effetto, la presentazione di un numero indefinito (e, tendenzialmente, elevato) di ricorsi a Strasburgo. Detto altrimenti, in materia di diritti umani l’obbligo di riparazione – obbligo c.d. secondario contenuto in una norma consuetudinaria codificata all’art. 31 del Progetto di Articoli sulla Responsabilità dello Stato per illeciti internazionali (d’ora in avanti: Progetto)[25] – non si indirizza unicamente alla vittima (o alla vittime dell’illecito), ma, laddove siano in gioco violazioni “strutturali”, è suscettibile di proiettarsi in una dimensione rimediale “super-individuale”.
Guardando ora alla prassi convenzionale in materia, questa si presenta assai ricca. Rispetto all’esigenza da ultimo menzionata, la Corte, ad esempio, ha avviato, a partire dal noto caso Broniowski, una sperimentazione della procedura c.d. pilota, che prevede la sospensione del procedimento a Strasburgo al fine di consentire, allo Stato, di approntare le misure necessarie per correggere il vizio in questione[26]. Ben più interessanti, però, sono quei casi in cui, pur non attivando la procedura de qua, la Corte nondimeno, nella motivazione o financo nel dispositivo, afferma – sia pure con quello che è stato definito un “lieve tocco di mano”[27] – l’esistenza di violazioni strutturali. Si è parlato, talvolta, di procedure “quasi-pilota”[28] e, in molti altri casi, di violazioni strutturali “invisibili”, in cui, pure a fronte di difetti sistematici dell’ordinamento, la Corte edu non si spinge a imporre allo Stato di adottare misure generali, limitandosi ai soli profili attinenti il rimedio della situazione individuale del ricorrente[29].
Di questo ultimo fascio di casi si potrebbe citare l’esempio offerto dalla recentissima sentenza pronunciata in Viola c. Italia (n. 2)[30], in cui la Corte edu, preso atto dell’esistenza di un difetto strutturale nel nostro ordinamento (segnatamente, il regime ostativo previsto per condannati all’ergastolo per alcuni delitti, ritenuto in contrasto con l’art. 3 CEDU), ha esortato l’Italia a trovare un rimedio “de préférence par initiative législative”[31] pur senza adottare misure generali ex art. 46 CEDU. In Italia, per il vero, il nodo dell’esecuzione delle pronunce convenzionali accertanti un difetto “strutturale” dell’ordinamento – e suscettibili, dunque, di proiettarsi verso una moltitudine di casi analoghi (i c.d. “fratelli minori” del ricorrente vittorioso a Strasburgo) – è già da tempo avviato[32].
Venendo al caso in commento, è facile vedere come la violazione lamentata dalla ricorrente costituisca il diretto precipitato di un difetto strutturale nell’ordinamento russo e, segnatamente, di una scorretta – in quanto incompatibile con la Convenzione – interpretazione degli artt. 19.3 e 20.2 del Codice: applicare la regola del concorso formale tra illeciti e non il criterio della specialità tra i medesimi, si è detto, costituisce violazione del ne bis in idem. Trattandosi allora di “diritto vivente” russo, è ragionevole attendersi che in tale situazione versi una pluralità indefinita di individui – e infatti, la Corte stessa afferma essere pendenti oltre cento ricorsi analoghi a quello di specie (par. 68).
Se così è, ci si poteva aspettare l’adozione di misure generali o, addirittura, l’attivazione della procedura pilota. Così non è stato: la Corte edu ha infatti ritenuto non necessario procedere nei sensi indicati sopra, in quanto un (possibile) rimedio è già presente, in una qualche misura, nell’ordinamento russo, e a questo deve rivolgersi – innanzitutto – la vittima.
Procediamo con ordine. La violazione dell’art. 4 Protocollo 7 CEDU si materializza a partire dall’esistenza – e dalla vigenza, intesa come idoneità a produrre effetti giuridici propri – di due giudicati di condanna (bis) nei confronti del medesimo soggetto e per fatti sostanzialmente identici (idem). Un primo rimedio, dunque, ben potrebbe essere la “rescissione” del giudicato dal quale dipende la violazione convenzionale, da ottenersi mediante l’attivazione delle procedure interne previste per la riapertura dei processi: in numerosi casi, ormai, la Corte edu ha invocato disposizioni interne, sia in ambito penale che civile e amministrativo, per rimuovere la res judicata per gli effetti di cui agli artt. 41 e 46 CEDU[33].
In effetti, nel Codice è disciplinato l’istituto del riesame di pronunce passate in giudicato (art. 30.12); il punto, sollevato dalla Corte, è che, a differenza di altri codici della Federazione, tale disposizione non contempla espressamente l’ipotesi di riapertura del procedimento per conformarsi a una sentenza dell’organo di controllo della CEDU che accerti la violazione di un diritto sancito nella Convenzione (par. 69). Tuttavia, continua la Corte, in seguito alla pronuncia della Corte suprema russa del giugno 2018, almeno un giudice competente per il riesame ex art. 30.12 Codice ha applicato il principio del ne bis in idem contemplato dall’art. 4.1 par. 5 Codice per allinearsi al criterio di specialità enunciato dalla Corte suprema (parr. 70 e 26). In altre parole, al ricorrente è già aperta la via per un riesame avanti la competente corte regionale, ferma restando la possibilità, per il Governo russo, di approntare rimedi ad hoc per correggere il difetto strutturale dell’ordinamento (parr. 71 e 72).
A commento di quanto appena sopra, può dirsi che nell’ordinamento russo il rimedio, a quanto consta, c’è; il punto fondamentale è che, all’indomani dell’accertamento della violazione convenzionale, esso deve anche… vedersi. Come ciò avvenga (se con il rimedio individuato dalla Corte o con altri), dipende(rà) dalla Russia, cui la Corte edu riconosce, come sovente avviene in questi casi, un certo margine di apprezzamento[34]. Tale statuizione si colloca, come pare a chi scrive, nell’alveo di una genuina applicazione del principio di sussidiarietà – vera architrave del sistema convenzionale, anche se, di recente, pretestuosamente invocata per limitare il sindacato dell’organo di controllo[35] – attenta a spingere le autorità interne ad assicurare l’adempimento dell’obbligo di adottare le misure conformative richieste.
4.2 La portata dell’obbligo di cessazione dell’illecito strutturale
In aggiunta all’obbligo di riparazione, nella peculiare configurazione con cui esso si presenta in casi di violazioni strutturali, tra gli obblighi secondari discendenti dalla violazione del diritto internazionale vi è pure quello di cessare la condotta costituente illecito; si tratta, anche qui, di un obbligo consolidato nel diritto consuetudinario (art. 30, lett. a, Progetto). È stato notato come, nello specifico settore dei diritti umani, l’obbligo di cessazione dell’illecito fatica ad acquisire autonomia dall’obbligo di riparazione: molto spesso, infatti, gli obblighi si trovano condensati in una sorta di endiadi senza che l’uno produca effetti distinguibili dall’altro[36].
In effetti, nella giurisprudenza della Corte edu i due obblighi si trovano spesso giustapposti. Quando la Corte intima l’adozione di una misura per interrompere la condotta che incide negativamente su un diritto, questa (misura) è inquadrabile facilmente, al contempo, sia come riparazione/restituzione sia come cessazione dell’illecito. Si pensi al caso Assanidzé, in cui la Corte ha ritenuto che l’unica misura idonea a porre fine (“to put an end”, come nel caso di specie) alla violazione convenzionale (segnatamente, del diritto alla libertà personale) fosse proprio la scarcerazione del ricorrente “at the earliest possible date”[37]. Ugualmente, nei casi concernenti la rescissione del giudicato interno gli obblighi si fondono l’uno con l’altro: rompere una res judicata formatasi in contrasto – o comunque contrastante – con un diritto sancito nella Convenzione vuol dire, al medesimo tempo, riparare e cessare l’illecito.
Si è, a questo punto, del tutto legittimati a chiedersi se, al netto di inquadramenti teorici più o meno convincenti, abbia una qualche… utilità pratica ricondurre la misura individuale o generale de qua nell’alveo dell’obbligo di riparazione in luogo di quello di cessazione.
Dal punto di vista del diritto internazionale generale, la risposta è sicuramente affermativa. L’obbligo di riparazione, nella sua specifica configurazione di obbligo di restitutio in integrum, è infatti soggetto ad alcuni limiti, segnatamente quello della proporzionalità: non si può esigere, dallo Stato autore dell’illecito, la restituzione se essa è materialmente impossibile o troppo onerosa (art. 35 Progetto). Al contrario, l’obbligo di cessazione non è soggetto a limiti di proporzionalità: in altre parole, cessare di commettere un illecito non è mai considerato materialmente impossibile o eccessivamente oneroso, e ciò in quanto, come correttamente messo in luce dalla dottrina, in quanto tale obbligo è strettamente connesso all’adempimento dell’obbligo primario (cioè della norma internazionale che si è violata)[38].
Anche dal punto di vista del diritto convenzionale, peraltro, si è raggiunto un risultato non dissimile. In materia di rescissione del giudicato e, in particolare, di predisposizione di uno strumento ad hoc in ordinamenti che non ne possiedono, la Corte edu, ad esempio nel caso Laska e Lika, si è spinta sino a disegnare un vero e proprio obbligo positivo di introdurre un siffatto strumento[39]: non solo dunque lo Stato non può invocare l’impossibilità materiale o eccessiva onerosità, ma il proprio margine di apprezzamento è, in ogni caso, limitato dall’esigenza di far cessare immediatamente la condotta illecita (che equivale, si è detto, a fornire un rimedio adeguato).
Riportando l’attenzione sul caso di specie, la Corte edu non si spinge sino a tanto. Né ciò deve stupire, in realtà, posta l’esistenza di un possibile rimedio interno cui il ricorrente potrebbe far ricorso per eliminare gli effetti pregiudizievoli del mantenimento di due giudicati di condanna per i medesimi fatti – cioè, per ottenere la cessazione dell’illecito. Vale però la pena mettere in risalto due circostanze.
Primo, se pure è vero che la Corte riconosce un certo margine di apprezzamento alla Russia ai fini dell’adozione di misure ex art. 46 CEDU, ciò non toglie che l’obbligo di predisporre uno strumento di rescissione del giudicato contrario a Convenzione, se inquadrato sotto il profilo dell’obbligo di cessazione, potrebbe essere strategicamente invocato dalla ricorrente in sede di riesame ex art. 30.12 Codice. Pur a fronte di un indirizzo giurisprudenziale interno ancora da consolidarsi, si potrebbe sostenere, nel senso di un’interpretazione convenzionalmente orientata della normativa interna, che la Russia è tenuta a porre immediatamente fine all’azione contraria al ne bis in idem, ciò che potrebbe utilmente prodursi proprio a partire dalla rescissione del giudicato per via pretoria. Uno strumento di diritto vivente (il ricorso alla procedura di riesame) ben potrebbe, nel caso individuale, sopperire all’assenza di una specifica base normativa per la riapertura del procedimento: la cessazione avverrebbe, così, immediatamente e in senso sicuramente conforme, quantomeno, al diritto generale.
Secondo, tali rilievi paiono tanto più convincenti se si pone mente alla circostanza che la Corte fa ritorno sull’obbligo di cessazione anche statuendo in tema di equa soddisfazione ex art. 41 CEDU: qui, infatti, la Corte ritiene che l’obbligo di cessazione derivante dall’accertamento dell’illecito convenzionale non è sufficiente per compensare il pregiudizio subito, di tal che si rende necessario il riconoscimento di una somma di danaro a titolo di danno non patrimoniale (parr. 77 e 78). Si tratta, insomma, di una riconferma della distinzione – a un tempo concettuale e pratica – dei vari obblighi secondari, anche nella prassi applicativa della Corte edu.
5. Conclusioni
Dall’analisi del caso di specie è emersa, con particolare nitidezza, una questione che rimonta ben oltre la sentenza in commento e che rimanda al complesso tema dell’obbligo di conformarsi alle sentenze della Corte e, in generale, all’essenza stessa della tutela multilivello dei diritti fondamentali. Violazioni “sistematiche”, più o meno visibili, di diritti fondamentali – derivanti, come nel caso Korneyeva c. Russia, dall’interpretazione e quindi applicazione del diritto interno in senso contrario alla Convenzione – producono l’insorgenza di obblighi riparatori e di cessazione che, quand’anche affermati a titolo meramente individuale, non possono non spostare la prospettiva anche sul piano generale. In altre parole, gli Stati sono tenuti ad approntare rimedi anche in vista di conformare il proprio ordinamento interno – in generale – agli standard di tutela affermati a livello convenzionale.
Traendo ispirazione dal caso di specie, l’impossibilità di rescindere un doppio giudicato di condanna per i medesimi fatti produce effetti pregiudizievoli sub art. 4 Protocollo 7 CEDU per una pluralità indistinta di soggetti, tra cui, appunto, la ricorrente. Che la sentenza sia resa con riferimento esclusivo al rapporto giuridico tra questa e la Russia non toglie che, sul piano generale, è l’intero ordinamento russo a essere chiamato ad approntare un rimedio per analoghe (e, in potenza, seriali) violazioni[40].
Da ultimo e a chiusura, preme osservare quanto segue. In una congiuntura storica segnata da un sensibile scetticismo nei confronti dei meccanismi di tutela dei diritti umani a livello universale e regionale nonché, in conseguenza, da una progressiva chiusura “su se stessi” degli ordinamenti interni – fenomeno di cui la Russia offre un preclaro esempio[41] –, l’atteggiamento della Corte edu nel caso di specie, attento a valorizzare indirizzi ermeneutici interni in linea, di fatto, con gli standard convenzionali, non pare né timido né remissivo ma, anzi, si premura di seminare in un campo, per così dire, già arato. “Lo chiede Strasburgo”, ma senza chiedere l’impossibile. Ciò che il giudice convenzionale suggerisce, infatti, altro non è che un’interpretazione del diritto interno che possa correggere il difetto strutturale e il suo precipitato a livello individuale, in ottemperanza a tutti gli obblighi secondari (riparazione e cessazione) incombenti sulla Russia in conseguenza dell’illecito accertato: basta questo. Da questo punto in avanti, però, spetta allo Stato – in nome della tanto rivendicata sussidiarietà – prendere le mosse.
[1] Corte dir. uomo, Korneyeva c. Russia, ricorso n. 72051/17, 8 ottobre 2019.
[2] Corte dir. uomo, Engel e altri c. Paesi Bassi, ricorsi n. 5100/71 e altri, 8 giugno 1976, parr. 80 ss.
[3] Corte dir. uomo, Karelin c. Russia, ricorso n. 926/08, 20 settembre 2016, parr. 69-84; mutatis mutandis, anche Mikhaylova c. Ucraina, ricorso n. 10644/08, 6 marzo 2018, parr. 62-67).
[4] In giurisprudenza, v. in particolare Corte cost., sentenza n. 200 del 31 maggio 2016.
[5] Così Cassibba, I limiti oggettivi del ne bis in idem in Italia tra fonti nazionali ed europee, Rev. Bras. de Direito Processual Penal, 4/3, 2018, pp. 953-1002.
[6] Corte dir. uomo, Oliveira c. Svizzera, ricorso n. 25711/94, 30 luglio 1998; Franz Fischer c. Austria, ricorso n. 37950/97, 29 maggio 2001; Sailer c. Austria, ricorso n. 38237/97, 6 giugno 2002.
[7] Corte dir. uomo, Sergey Zolotukhin c. Russia, ricorso n. 14939/03, 10 febbraio 2009.
[8] All’insegna di questo nuovo indirizzo ermeneutico si segnala, tra le molte, Grande Stevens e altri c. Italia, ricorsi n. 18640/10 e altri, 4 marzo 2014.
[9] Corte dir. uomo, Sergey Zolotukhin c. Russia, cit., par. 81; quanto al principio secondo il quale la Convenzione garantisce diritti non teorici e illusori, ma concreti ed effettivi, si v. ad es. Corte dir. uomo, Airey c. Irlanda, ricorso n. 6289/73, 9 ottobre 1979, par. 24.
[10] Corte dir. uomo, A e B c. Norvegia, ricorsi n. 24130/11 e 29758/11, 15 novembre 2016, parr. 121, 122. Infatti, quanto detto sopra non toglie, a ogni buon conto, che uno Stato possa scegliere di adottare risposte sanzionatorie di diversa natura tese a reprimere, sotto plurimi aspetti, una condotta considerata come particolarmente offensiva dalla società. Infatti, non è ritenuto porsi in contrasto con la garanzia convenzionale del ne bis in idem il ricorso a un sistema sanzionatorio integrato, purché siano soddisfatti gli imprescindibili requisiti di prevedibilità e proporzionalità della risposta e, quindi, il destinatario di siffatta sanzione non si ritrovi soggetto a un trattamento “ingiusto”. Insomma, le diverse sanzioni facente parte di un unitario schema punitivo non sono ritenute costituire una doppia punizione se si dimostra l’esistenza di una “sufficiently close connection between them, both in substance and in time”.
[11] Palazzo, Corso di diritto penale. Parte generale, Torino, 2011, p. 561.
[12] Per una disamina generale sul concorso apparente di norme, non si può che rinviare, per completezza, a Marinucci, Dolcini e Gatta, Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, 2018, pp. 539 ss.; con specifico riferimento alla tematica del ne bis in idem sostanziale, si veda Vallini, Tracce di ne bis in idem sostanziale lungo i percorsi disegnati dalle Corti, Diritto Penale e Processo, 4/2018, pp. 525 ss.
[13] V. ad es. Cass. pen. III, ric. Ferrarelli, 15 aprile 2009 e, per ulteriori riferimenti, Cassibba, cit., p. 974.
[14] Corte cost., sentenza n. 200 del 21 luglio 2016, punto 13 in diritto.
[15] Corte cost., sentenza n. 129 del 30 aprile 2008.
[16] Corte cost., sentenza n. 200 del 21 luglio 2016, punto 8 in diritto.
[17] Ibidem, punto 11 in diritto.
[18] Cass. pen. SS.UU., ric. Stalla e Battilana, n. 20644 del 23 febbraio 2017. A commento, si veda Colucci, Le Sezioni Unite tornano sul principio di specialità: al vaglio la questione del rapporto tra truffa aggravata e malversazione, disponibile all’indirizzo https://www.penalecontemporaneo.it , 6 dicembre 2017.
[19] Per ulteriori riflessioni, relativi ad altri arresti giurisprudenziali, si veda Serra, Le Sezioni Unite e il concorso apparente di norme, tra considerazioni tradizionali e nuovi spunti interpretativi, disponibile all’indirizzo https://www.penalecontemporaneo.it, 21 novembre 2017.
[20] Cass. pen. SS.UU., ric. La Marca, n. 41588 del 22 giugno 2017: “l’insegnamento delle Sezioni Unite è consolidato nel ritenere che per “stessa materia” deve intendersi la stessa fattispecie astratta, lo stesso fatto tipico nel quale si realizza l’ipotesi di reato; con la precisazione che il riferimento all’interesse tutelato dalle norme incriminatrici non ha immediata rilevanza ai fini dell’applicazione del principio di specialità (Sez. U., n. 16568 del 19/04/2007, Carchivi, cit.; Sez. U., n. 1963 del 28/20/2010, Di Lorenzo, cit.)”.
[21] Cit. supra, nota n. 9.
[22] Per i profili di criticità, in termini di principio di legalità e, soprattutto, tipicità, dei vari criteri di concorso tra norme, v. amplius Vallini, cit. supra nota 12.
[23] “Art. 46”, in Bartole, De Sena, Zagrebelski (a cura di), Commentario breve alla CEDU, Padova, 2012, p. 703 ss.
[24] La letteratura in materia di violazioni strutturali è ormai corposa. Ci si limita a segnalare, su tutti: Saccucci, La responsabilità internazionale dello Stato per violazioni strutturali dei diritti umani, Napoli, 2018; Cannone, Violazioni di carattere sistemico e Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Bari, 2018.
[25] Commissione di diritto internazionale, Report on the work of its fifty-third session, UN Doc. A/56/10, 10 agosto 2001. Quanto alla distinzione tra obblighi primari e obblighi secondari (che, nel diritto internazionale, viene mutuata dalla teoria hartiana), si veda, tra moltissimi, Crawford, State Responsibility. The General Part, Cambridge, 2013, pp. 64 ss.
[26] Corte dir. uomo, Broniowski c. Polonia, ricorso n. 31443/96, 28 settembre 2005.
[27] Susi, The Definition of a “Structural Problem” in the Case-Law of the European Court of Human Rights Since 2010, in German Yearbook of International Law, 2012, pp. 385 ss., p. 403.
[28] Come nei casi, per limitarci all’ordinamento italiano, Gaglione e altri c. Italia, ricorsi n. 45867/07 e altri, 21 dicembre 2010 (in tema di indennizzo per eccessiva durata del processo) e Cestaro c. Italia, ricorso n. 6884/11, 7 aprile 2015 (in tema di norme incriminatrici per condotte di tortura).
[29] Così v. amplius Saccucci, cit., pp. 42 ss.
[30] Corte dir. uomo, Viola c. Italia (n. 2), ricorso n. 77633/16, 13 giugno 2019. Per alcuni primi commenti alla sentenza, si vedano Pellissero, Verso il superamento dell’ergastolo ostativo: gli effetti della sentenza Viola c. Italia sulla disciplina delle preclusioni in materia di benefici penitenziari, disponibile sul sito http://www.sidiblog.org/, 21 giugno 2019; Mauri, Nessuna speranza senza collaborazione per i condannati all’ergastolo ostativo? Un primo commento a Viola c. Italia (n. 2), disponibile sul sito http://www.sidiblog.org/, 20 giugno 2019.
[31] Corte dir. uomo, Viola c. Italia (n. 2), cit., par. 143.
[32] V. ad es. Cass. pen. SS.UU., sentenza n. 18821 del 24 ottobre 2013, ric. Ercolano, con nota di Viganò, Pena illegittima e giudicato. Riflessioni in margine alla pronuncia delle Sezioni Unite che chiude la saga dei “fratelli minori” di Scoppola, in Dir. pen. cont. – Riv. Trim., n. 1/2014, p. 250 ss.; ma v. anche Biondi, La Cassazione e i fratelli minori di Lorefice, in Dir. pen. Cont., 21 marzo 2019 e, più di recente, con riferimento alla vicenda Contrada (rispetto al quale le motivazioni dell’attesa sentenza della Corte di cassazione, a Sezioni Unite, non sono ancora pubblicate alla data in cui si scrive), le note di Angelillis, su questa rivista.
[33] Per una panoramica sulla prassi in esame, sia consentito il rimando a Mauri, Il ‘mito’ del giudicato civile e amministrativo alla prova degli obblighi internazionali di restitutio in integrum, in Diritti umani e diritto internazionale, 3/2019, pp. 487 ss.
[34] Per il quale si veda, tra i molti, Legg, The Margin of Appreciation in International Human Rights Law. Deference and Proportionality, Oxford, 2012.
[35] V. ad esempio Donald e Leach, A Wolf in Sheep’s Clothing: Why the Draft Copenhagen Declaration Must be Rewritten, disponibile sul sito https://www.ejiltalk.org/a-wolf-in-sheeps-clothing-why-the-draft-copenhagen-declaration-must-be-rewritten/, 21 febbraio 2018.
[36] V. Saccucci, cit., pp. 235 ss.
[37] Corte dir. uomo, Assanidze c. Georgia, ricorso n. 71503/01, 8 aprile 2004.
[38] V. Saccucci, cit., p. 237.
[39] Corte dir. uomo, Laska e Lika c. Albania, ricorso n. 12315/04 e 17605/04, 20 aprile 2010, par. 77: “it is for the respondent State to remove any obstacles in its domestic legal system that might prevent the applicants' situation from being adequately redressed (…) or introduce a new remedy that would enable the applicants to have the situation repaired. Moreover, the Contracting States are under a duty to organise their judicial systems in such a way that their courts can meet the requirements of the Convention”.
[40] Si tratta, in sostanza, di isolare concettualmente un “obbligo conformativo” di portata generale, suscettibile di trascendere il piano meramente individuale per correggere difetti “strutturali” con modalità erga omnes. Si vedano sul punto le riflessioni conclusive di Saccucci, cit., p. 263 ss. (che dimostra come la base giuridica di un siffatto obbligo potrebbe essere rintracciata nell’art. 1 CEDU).
[41] Da alcuni anni la Russia sta dimostrando una certa “resistenza” alle pronunce di Strasburgo. Nel 2015, ad esempio, con Legge Federale n. 7-KFZ, entrata in vigore il 15 dicembre 2015, di modifica della Legge Costituzionale Federale n. 1-FKZ del 21 luglio 1994 (recante la disciplina della Corte Costituzionale federale), si attribuì alla Corte Costituzionale federale il potere di decidere sulla eseguibilità delle decisioni rese da organi internazionali posti a tutela dei diritti umani (tra cui la Corte edu). Vedi amplius Marchuk, Flexing Muscles (Yet Again): The Russian Constitutional Court’s Defiance of the Authority of the ECtHR in the Yukos Case, disponibile all’indirizzo: https://www.ejiltalk.org/flexing-muscles-yet-again-the-russian-constitutional-courts-defiance-of-the-authority-of-the-ecthr-in-the-yukos-case/, 13 febbraio 2017; vedi poi il Parere n. 832/2015 della European Commission For Democracy Through Law (c.d. Commissione Venezia), 107th Plenary Session, 10-11 giugno 2016, disponibile all’indirizzo http://www.venice.coe.int/webforms/documents/default.aspx?pdffile=CDL-AD(2016)016-e. All’indomani della sentenza della Corte resa nel caso OAO Neftyanaya Kompaniya Yukos c. Russia, ricorso n. 14902/04, 31 luglio 2014 (con la quale condannava la Russia a corrispondere al ricorrente, a titolo di risarcimento per il danno patrimoniale, la somma di ben € 1.866.104.634!), la Corte costituzionale russa, con sentenza n. 1-P/17 del 19 gennaio 2017 (disponibile all’indirizzo http://doc.ksrf.ru/decision/KSRFDecision258613.pdf), ha negato l’esecuzione della pronuncia convenzionale per contrasto con la Costituzione russa. A commento, si veda Marchuk e Aksenova, The Tale of Yukos and of the Russian Constitutional Court’s Rebellion against the European Court of Human Rights, in Osservatorio Costituzionale, 2017, pp. 1 ss.
L’emergenza e ‘le’ emergenze secondo un recente climate case.
di Andrea Giordano
Sommario: 1. Un recente climate case olandese. 2. Il prisma delle tutele. 3. L’ellisse della C.e.d.u. e le geometrie multilivello.
1.Un recente climate case olandese.
L’emergenza[1] non ammette l’inerzia degli Stati.
Ciò che plasticamente si constata nel periodo della corrente emergenza epidemiologica da COVID-19[2] è stato, a chiare lettere, sancito dalla Suprema Corte olandese che, con una innovativa sentenza in tema di emergenza climatica[3], ha ritenuto che il Governo olandese debba ridurre al 25% le emissioni di biossido di carbonio e degli altri gas serra[4] entro il corrente 2020[5].
Sulla domanda della Fondazione “Urgenda”, che aveva convenuto in giudizio lo Stato per vederlo condannare alla riduzione delle dette nocive emissioni[6], si erano pronunciate, con sentenze favorevoli, sia la Corte distrettuale, sia la Corte di Appello.
L’orientamento è stato suggellato dalla Suprema Corte, che – contrariamente alla tesi erariale, secondo cui un ordine di “creare legislazione” non sarebbe ammissibile e inciderebbe sullo stesso sistema di separazione dei poteri [7] – ha riconosciuto l’esistenza di una vera e propria obbligazione positiva dello Stato di proteggere la vita e la salute dei cittadini.
Più in particolare, seguendo il ragionamento della Corte, dagli articoli 93 e 94 della Costituzione olandese[8] discenderebbe l’obbligo dello Stato di osservare ogni disposto della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, siccome in ogni sua parte vincolante; essendo l’Olanda sottoposta alla giurisdizione della Corte Edu, le Corti olandesi dovrebbero interpretare gli articoli della Convenzione ai lumi degli stessi parametri ermeneutici impiegati dalla Corte di Strasburgo[9]. Le garanzie scolpite negli articoli e 2 e 8 della Cedu – i diritti alla vita e al rispetto della vita privata e familiare – implicherebbero la doverosità di misure tali da scongiurare, anche nell’ottica del principio di precauzione, i pregiudizi correlati al cambiamento climatico[10].
Dal carattere necessario di misure di mitigazione[11] idonee alla riduzione, nella misura del 25%, delle emissioni di gas serra deriverebbe, quindi, secondo la catena logica sottesa al decisum, la possibilità della Corte di ordinare l’adozione delle medesime misure. Se così non fosse, si finirebbe per vulnerare, insieme a una regola fondamentale delle democrazie costituzionali, lo stesso “diritto a un ricorso effettivo” di cui all’art. 13 C.e.d.u.. [12]
Un “order to create legislation” sarebbe, in definitiva, ammissibile, attesa l’inesistenza di un generale divieto di ingerenza delle Corti nei processi decisionali politici e, comunque, considerata la necessità – imposta dall’art. 94 della Costituzione olandese – di disapplicare le norme contrastanti con obblighi internazionali.
Secondo il Supremo Collegio olandese, conflitti con il principio di separazione dei poteri scaturirebbero soltanto da ordini di riempire la norma di contenuti precisamente determinati[13]; l’individuazione del ‘fine’ di ridurre le emissioni di gas serra non intersecherebbe la libertà del legislatore di forgiare i ‘mezzi’ che all’obiettivo meglio e più efficacemente si attaglino[14].
2.Il prisma delle tutele
Lungi dall’essere una voce isolata, la pronuncia olandese riecheggia una sinfonia condivisa e dall’ordinamento internazionale e da quello europeo.
Le radici delle politiche ambientali volte a contrastare i cambiamenti climatici affondano nella Convenzione di Rio de Janeiro (United Nations Framework Convention on Climate Change – UNFCCC), che aveva, come obiettivo, quello della stabilizzazione delle concentrazioni di gas serra nell’atmosfera onde escludere qualsiasi pericolosa interferenza delle attività umane sul sistema climatico[15]. Mezzo al fine era l’impegno, solo politico, delle Parti di riportare le emissioni di diossido di carbonio ai livelli del 1990. Le politiche di mitigazione – fondate sul rilievo per cui, dipendendo il cambiamento del clima globale dalla quantità dei gas serra riversati nell’atmosfera, la riduzione delle emissioni rallenta il cambiamento, sino a diminuirlo – avevano, dunque, la meglio su quelle di adattamento.
Il quadro internazionale si è, poi, arricchito del Protocollo di Kyoto dell’11 settembre 1997[16], con cui gli Stati contraenti si sono legalmente vincolati a ridurre, nel periodo 2008-2012, le emissioni complessive di gas serra del 5.2% rispetto ai valori del 1990[17].
Tre i fondamentali pilastri del Protocollo: l’International Emissions Trading (IET), che consentiva ai Paesi soggetti al vincolo che avessero ottenuto un surplus nella riduzione delle emissioni di “vendere” il suddetto ad altri Paesi[18]; la Joint Implementation (JI), secondo cui gruppi di Paesi soggetti a vincolo, fra quelli indicati dall’Allegato I del Protocollo, potevano collaborare per raggiungere gli obiettivi fissati accordandosi su una diversa distribuzione degli obblighi, purché l’obbligo complessivo venisse osservato; il Clean Development Mechanism (CDM), preposto a fornire assistenza alle Parti non incluse nell’Allegato I negli sforzi per la riduzione delle emissioni[19].
I dubbi sulla possibilità di conseguire la stabilizzazione delle emissioni, evidenziati dal secondo rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC)[20], le rilevate criticità del Protocollo di Kyoto (specie in relazione alla prevista esenzione dagli obblighi di contenimento dei Paesi in via di sviluppo, agli ingenti costi che avrebbero inciso sugli Stati sviluppati e alla stessa impossibilità di regolare le emissioni globali con un Trattato internazionale[21]), il rifiuto di ratifica da parte degli Stati Uniti (ai tempi responsabili del 36% delle emissioni globali[22]) e il ritardo nell’entrata in vigore del Protocollo hanno condotto a una graduale virata verso le politiche di adattamento o, comunque, verso la sinergica integrazione della mitigazione con le strategie di adattamento[23].
Tale percorso di crescente promozione di queste ultime è culminato con l’Accordo di Parigi del 2015, che si è prefissato di rafforzare la risposta ai cambiamenti climatici, limitando il riscaldamento globale “ben al di sotto di 2° C” rispetto ai livelli preindustriali (fatti salvi gli sforzi di mantenerlo entro 1.5° C[24]) e promuovendo la adaptation[25].
Il diritto europeo ha seguito il sentiero delle Convenzioni internazionali.
L’Unione ha, infatti, aderito alla Convenzione di Rio de Janeiro e ha attuato il Protocollo di Kyoto a partire dal 1998, quando ha dato vita al Burden Sharing Agreement[26].
All’Accordo è seguita, a cascata, la Comunicazione sul cambiamento climatico, adottata dalla Commissione, il Libro Verde sullo scambio dei diritti di emissione di gas ad effetto serra all’interno dell’Unione, la ratifica del Protocollo di Kyoto e la Direttiva 2003/87 istitutiva del sistema per lo scambio delle quote di emissione dei gas serra[27].
Più segnatamente, in consonanza con il diritto internazionale convenzionale, la Direttiva ha introdotto il sistema per cui i gestori di impianti, cui viene assegnato un cap di emissioni producibili, divengono – se diligenti nel rispetto del “tetto” – “creditori di emissioni”, abilitati a cedere i “crediti” agli Stati che abbiano oltrepassato il cap: coloro che non riescono a ridurre le emissioni debbono acquistare “crediti” dai soggetti virtuosi, onde raggiungere il livello del cap superato a causa delle emissioni sovrabbondanti[28].
Allo stato, il c.d. Emissions Trading System – come aggiornato alla luce della Direttiva n. 2018/40 – si inquadra nel cerchio a più ampio diametro del “Pacchetto per il clima e l’energia 2020” e, quindi, del “Quadro per il clima e l’energia 2030”; con quest’ultimo, l’Unione Europea si è impegnata a ridurre entro il 2030 le emissioni di gas serra di almeno il 40% al di sotto dei livelli del 1990[29].
In linea con il trend internazionale, a tale rilevante disegno di mitigazione – i cui mezzi risultano, da una parte, il miglioramento dell’efficienza energetica almeno del 32.5%[30] e, dall’altra, l’aumento della quota di consumo energetica proveniente da fonti rinnovabili di almeno il 32%[31] – si aggiunge la nota “Strategia Europea in tema di adattamento ai cambiamenti climatici”[32], volta alla minimizzazione degli impatti economici, ambientali e sociali derivanti dai mutamenti climatici[33].
3.L’ellisse della C.e.d.u. e le geometrie multilivello
La sentenza olandese[34] ha aggiunto una tessera a tanto uniforme mosaico.
Stando alla predetta, l’obbligo di riduzione del gas serra al 25% vanterebbe una precipua base positiva negli artt. 1, 2, 8, 13 e 32 C.e.d.u., concretamente azionabile dai singoli.
Se il principio sia condivisibile e applicabile al nostro ordinamento è cosa che dipende dalla disamina del detto reticolato di disposti e dalla loro dialettica con i sistemi giuridici interno, unionale e internazionale[35].
Ora, mentre l’art. 1 sancisce il principio per cui le Parti contraenti riconoscono a ogni persona sottoposta alla loro giurisdizione i diritti e le libertà enunciati nel Titolo primo della Convenzione, l’art. 2 consacra il diritto alla vita, implicitamente erigendolo a precondizione di ogni altro diritto[36].
Il predicato di irreversibilità delle violazioni della vita e il carattere di essenzialità della tutela del ‘valore dei valori’[37] rispetto al godimento di ogni altro diritto fanno sì che al concetto di “protezione” venga attribuita una portata ampia[38], tale da far gravare sugli Stati non solo obblighi negativi, di astensione da atti che possano intenzionalmente cagionare la morte delle persone soggette alla giurisdizione statale[39], ma anche positivi di intervento con misure di protezione e repressione[40].
Come la vita, così le sfere dell’autonomia personale, protette dall’art. 8 (che, tanto quanto l’art. 2, impiega ampie locuzioni, quali “rispetto”, “vita privata e familiare” e “ingerenza”), implicano la coesistenza di obblighi negativi e positivi: al divieto di ingerenze arbitrarie dei poteri pubblici e, quindi, al divieto di misure legislative, atti amministrativi e comportamenti materiali che limitino l’esercizio dei diritti garantiti si aggiungono obblighi positivi “di fare”, volti a rendere effettivo l’esercizio delle prerogative di cui alla Convenzione o a proteggerle dalle ingerenze di terzi[41].
Se è, poi, vero che il lessema “ambiente” non trova positiva cittadinanza nella Convenzione, il rispetto della vita e della sfera personale del soggetto non possono prescindere dalla salvaguardia di un bene tanto rilevante[42].
Ciò è stato, a più riprese, affermato dalla Corte di Strasburgo, che, oltre a riconoscere una generale responsabilità dello Stato per violazione dei diritti umani in conseguenza di un danno ambientale[43], non ha esitato ad affermarla con specifico riguardo ai disastri naturali, al ricorrere di un rischio prevedibile e della mancata adozione, da parte della nazione interessata, delle misure rientranti nelle sue possibilità[44].
Il riconoscimento ai singoli dei diritti e delle libertà di cui alla Convenzione passa, infine, attraverso l’effettività dei rimedi[45] e la possibilità del privato di agire individualmente innanzi alla Corte Edu allorché quei rimedi si siano rivelati ineffettivi. Se le Carte internazionali e le fonti europee hanno di norma, come destinatari, gli Stati, nel contesto di una comunità internazionale di governanti più che di governati[46], il sistema introdotto dalla Convenzione[47] rompe i tradizionali schemi, orientato – quale è – verso la diretta protezione di interessi individuali[48].
Vi è, nondimeno, uno speculare fuoco dell’ellisse disegnata dalla C.e.d.u..
Garanzie e tutele trovano un dovuto bilanciamento nel margine di apprezzamento dello Stato; non si sovrappongono al suo assetto costituzionale, per come veicolato dalla dialettica dei poteri e dal sistema delle fonti.
La c.d. dottrina del margine di apprezzamento[49] preserva, infatti, la discrezionalità dello Stato nell’applicare la Convenzione, consentendo al primo di soppesare gli obblighi pattizi con i propri interessi ed esigenze.
I diritti contemplati dalla C.e.d.u. non trovano, dunque, un’estensione incondizionata, risultando, piuttosto, soggetti ai limiti dettati dalle particolari circostanze e condizioni degli Stati contraenti[50] e, in definitiva, dalla sfera di sovranità non abdicata da questi ultimi[51].
Ciò deve, anzitutto, valere in relazione all’assetto costituzionale dei poteri dello Stato, che necessariamente sfugge all’universo dei limiti alla sovranità accettati dai Governi firmatari della Convenzione.
Non può non rilevare, in quest’ottica, il potere dello Stato di legiferare e, soprattutto, di legiferare introducendo nel tessuto delle norme questo o quel contenuto, questa o quella previsione di dettaglio. L’attività legislativa, prerogativa della sovranità nazionale, è istituzionalmente libera nei fini[52]. A riconoscerlo è non solo la giurisprudenza nostrana[53], ma anche, almeno per implicito, quella della Corte di Strasburgo. Lo dimostrano gli indirizzi che fanno dello Stato il sovrano del tempo e del modo di legiferare, avallando finanche la legislazione retroattiva, se suffragata da motivi imperativi di interesse generale[54]. Lo dimostra il rilievo per cui, anche allorché la Corte ha ritenuto esistenti lacune legislative, ha deciso con self restraint, rimettendo al legislatore nazionale il quomodo della regolamentazione normativa[55].
La dialettica della sovranità degli Stati con il sistema C.e.d.u. non è, poi, nel suo atteggiarsi, coincidente con quella che lega lo Stato al sistema unionale, ove il principio di primauté impone la disapplicazione, con sindacato diffusamente attribuito agli organi giurisdizionali, delle norme nazionali confliggenti con quelle europee[56] e la mancata attuazione delle direttive prive di efficacia diretta comporta la responsabilità dello Stato legislatore[57].
Né può la Convenzione – vieppiù in difetto di un obbligo di disapplicazione delle confliggenti norme nazionali[58] (obbligo che la Corte Suprema olandese ha invece desunto, nella pronuncia del 20 dicembre 2019[59], dall’art. 94 della Carta costituzionale olandese) – imporre al giudice interno di fare più di quanto non possa alla luce del disegno costituzionale delle attribuzioni degli organi statali.
L’attività giurisdizionale deve arrestarsi da una parte dinanzi a petita che valichino il perimetro dei poteri decisori, sagomato dal principio di separazione dei poteri, e, dall’altra, a domande sprovviste di condizioni dell’azione, con particolare riguardo ai predicati di attualità e concretezza dell’interesse ad agire[60].
E vi è di più. I fuochi dell’ellisse si inquadrano in un articolato e sofisticato contesto di geometrie multilivello.
Il sistema C.e.d.u. non è una monade isolata, vivendo piuttosto di relazioni osmotiche con l’ordinamento internazionale tutto, con quello eurounitario e con i singoli ordinamenti degli Stati. Applicare gli artt. 2 e 8 della C.e.d.u., imponendo allo Stato di ridurre, di una data misura ed entro un ristretto spatium temporis, le emissioni di gas a effetto serra, pur a fronte, non tanto di un ordinamento nazionale che fissa parametri flessibili nell’ottica di una progressiva e graduale decarbonizzazione[61], quanto di norme unionali che conferiscono margini di discrezionalità a fronte di obiettivi di lungo periodo e a portata transfrontaliera[62], significa dare prevalenza al sistema sovranazionale della Convenzione su quello eurounitario.
Privare lo Stato della flessibilità che le norme europee (e le stesse Carte internazionali) gli attribuiscono (con la generale previsione – in forza del “Quadro per il clima e l’energia 2030” – di un target del 40% entro il 2030, con l’affermazione del principio della responsabilità ‘comune’ o con la valorizzazione dell’impegno nelle strategie di adattamento[63]), per dare peso assorbente ai canoni ‘a rime libere’ della C.e.d.u. rischia di risolversi in una gerarchizzazione di ordini giuridici di pari livello.
Se è vero che la vita merita incondizionata protezione e che l’emergenza – climatica tanto quanto epidemiologica – deve essere contrastata con ogni mezzo, appare discutibile che una Corte nazionale possa veicolare i contenuti della legislazione interna, fissando standards of care ‘individualizzati’ (siccome indirizzati al solo Stato convenuto) e di breve periodo e, così, sovrapponendosi agli obiettivi globali ed europei di lungo periodo[64]; come appare vieppiù discutibile che ciò non avvenga all’esito dei circuiti dialogici di cui all’art. 267 T.F.U.E.[65] e al Protocollo n. 16 alla C.e.d.u.[66], ma nel silenzio di una camera di consiglio.
[1] Segnatamente, climatica, conseguente al fenomeno del riscaldamento globale. Come è noto, determinate attività umane, quali la combustione di combustibili fossili, la deforestazione e l’agricoltura, danno luogo alla produzione dei c.d. gas serra, che trattengono il calore irradiato dalla superficie terrestre e dall’atmosfera e ne impediscono la dispersione nello spazio, così provocando il riscaldamento globale. In argomento, v. M. A. Sandulli, Cambiamenti climatici, tutela del suolo e uso responsabile delle risorse idriche, in Riv. giur. dell’edilizia, n. 4/2019, 291; S. Nespor, L’adattamento al cambiamento climatico: breve storia di un successo e di una sconfitta, in Riv. giur. amb., n. 1/2018, 29; M. Montini, La disciplina settoriale sulla protezione dell’ambiente, in P. Dell’Anno-E. Picozza (a cura di), Trattato di diritto dell’ambiente, Torino, 2015, 43; V. Cavanna, Il cambiamento climatico globale: il Quinto Rapporto IPCC, in Riv. giur. dell’ambiente, n. 3-4/2014, 425; F. Fracchia-M. Occhiena (a cura di), Climate change: la risposta del diritto, Napoli, 2010. Più in generale, sulle dinamiche del diritto dell’emergenza, v., da ultimi, L. Giani-M. D’Orsogna-A. Police (a cura di), Dal diritto dell’emergenza al diritto del rischio, Napoli, 2018.
[2] Su cui si confrontino i molti contributi pubblicati da “Giustizia insieme” (https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19). In particolare, sulla gestione in chiave europea dell’emergenza, v. E. Arbia-C. Biz, L’Unione Europea contro la pandemia di COVID-19, in www.giustiziainsieme.it, 2020.
[3] Hoge Raad der Nederlanden, 20 december 2019, n. 19/00135, visionabile in lingua inglese (trad. non ufficiale) in https://uitspraken.rechtspraak.nl/inziendocument?id=ECLI:NL:HR:2019:2007.
[4] Che – come è noto – riescono a trattenere una parte considerevole della componente nell’infrarosso della radiazione solare che colpisce la Terra ed è emessa dalla superficie terrestre, dall’atmosfera e dalle nuvole; proprietà tale da originare il c.d. “effetto serra”.
[5] Sono, del resto, noti gli effetti negativi del cambiamento climatico; in argomento, v., ad es., S. Nespor, L’adattamento al cambiamento climatico: breve storia di un successo e di una sconfitta, cit., 30-31:“Con il mutare del clima, molti sistemi naturali, e la fauna e la flora che li compongono, si stanno trasformando: i ghiacci si sciolgono, il livello degli oceani aumenta mettendo a rischio isole e aree costiere, aree prima fertili o coperte da foreste si inaridiscono, la desertificazione aumenta, gli ecosistemi si modificano in modo spesso irreversibile”.
[6] Così il § 2.2.1 della sentenza: “Urgenda (‘Urgent Agenda’) is engaged in developing plans and measures to prevent climate change. Urgenda’s legal form is that of a foundation under Dutch law (stichting). Its object according to its Articles is to stimulate and accelerate transition processes towards a more sustainable society, starting in the Netherlands. Urgenda’s view is that the State is doing too little to prevent dangerous climate change. In these proceedings, to the extent relevant in cassation, it is requesting an order instructing the State to limit the volume of greenhouse gas emissions in the Netherlands such that this volume would be reduced by 40% at the end of the year 2020, or at least by a minimum of 25%, compared to the volume in the year 1990. It institutes its claim pursuant to Article 3:305a DCC, which enables interest organisations to bring class action suits. It is pursuing its claim, to the extent relevant in cassation, on behalf of the interests of the current residents of the Netherlands (the inhabitants of the Netherlands) who are being threatened with dangerous climate change”.
[7] § 2.2.2 della pronuncia: “The defences asserted by the State include the following. The requirements of neither Article 3:296 DCC (court order) nor Article 6:162 DCC (unlawful act) have been met. There is no basis in either national or international law for a duty that legally requires the State to take measures in order to achieve the reduction target as sought. The target laid down in AR4 is not a legally binding standard. Articles 2 and 8 ECHR do not imply an obligation for State to take mitigating or other measures to counter climate change. Granting the reduction order being sought would also essentially come down to an impermissible order to create legislation and would contravene the political freedom accruing to the government and parliament and, thus, the system of separation of powers”.
[8] Secondo l’art. 93, “Provisions of treaties and of resolutions by international institutions which may be binding on all persons by virtue of their contents shall become binding after they have been published.”; stando, poi, all’art. 94, “Statutory regulations in force within the Kingdom shall not be applicable if such application is in conflict with provisions of treaties that are binding on all persons or of resolutions by international institutions”.
[9] § 5.6.1 della sentenza: “Pursuant to Articles 93 and 94 of the Dutch Constitution, Dutch courts must apply every provision of the ECHR that is binding on all persons. Because the ECHR also subjects the Netherlands to the jurisdiction of the ECtHR (Article 32 ECHR), Dutch courts must interpret those provisions as the ECtHR has, or interpret them premised on the same interpretation standards used by the ECtHR”.
[10] § 5.6.2 della pronuncia: “Pursuant to the findings above in paras. 5.2.1-5.3.4, no other conclusion can be drawn but that the State is required pursuant to Articles 2 and 8 ECHR to take measures to counter the genuine threat of dangerous climate change if this were merely a national problem. Given the findings above in paras. 4.2-4.7, after all, this constitutes a ‘real and immediate risk’ as referred to above in para. 5.2.2 and it entails the risk that the lives and welfare of Dutch residents could be seriously jeopardised. The same applies to, inter alia, the possible sharp rise in the sea level, which could render part of the Netherlands uninhabitable. The fact that this risk will only be able to materialise a few decades from now and that it will not impact specific persons or a specific group of persons but large parts of the population does not mean – contrary to the State’s assertions – that Articles 2 and 8 ECHR offer no protection from this threat (see above in para. 5.3.1 and the conclusion of paras. 5.2.2 and 5.2.3). This is consistent with the precautionary principle (see para. 5.3.2, above). The mere existence of a sufficiently genuine possibility that this risk will materialise means that suitable measures must be taken.”.
[11] Sul concetto di “mitigazione”, v., da ultimo, S. Nespor, L’adattamento al cambiamento climatico: breve storia di un successo e di una sconfitta, cit., 30: “Il cambiamento climatico può essere affrontato con due diverse strategie: la mitigazione e l’adattamento. La mitigazione interviene sulle cause del cambiamento climatico e consiste in interventi idonei a contenere ridurre le emissioni di gas serra prodotte dall’attività dell’uomo fino al raggiungimento di livelli di emissioni sostenibili. L’adattamento consiste in interventi idonei a ridurre gli effetti e le conseguenze negative del cambiamento climatico e a sfruttare le conseguenze positive”.
[12] § 8.2.1 della sentenza: “If the government is obliged to do something, it may be ordered to do so by the courts, as anyone may be, at the request of the entitled party (Article 3:296 DCC). This is a fundamental rule of constitutional democracy, which has been enshrined in our legal order. As far as the rights and freedoms set out in the ECHR are concerned, this rule is consistent with the right to effective legal protection laid down in Article 13 ECHR referred to above in 5.5.1-5.5.3. Partly in connection with this fundamental rule, the Dutch Constitution stipulates that civil courts have jurisdiction over all claims, so that they can always grant legal protection if no legal protection is offered by another court”.
[13]§ 8.2.4 della decisione: “The first consideration does not mean that courts cannot enter the field of political decision-making at all. In the case law referred to above, therefore, the earlier case law of the Supreme Court has been reiterated, which dictates that, on the basis of Article 94 of the Dutch Constitution, the courts must disapply legislation if any binding provisions of treaties entail such. It has also been decided in that case law that the courts may issue a declaratory decision to the effect that the public body in question is acting unlawfully by failing to enact legislation with a particular content. The first consideration on which the case law referred to in 8.2.2 is based must therefore be understood to mean that the courts should not interfere in the political decision-making process regarding the expediency of creating legislation with a specific, concretely defined content by issuing an order to create legislation. In view of the constitutional relationships, it is solely for the legislator concerned to determine for itself whether legislation with a particular content will be enacted. Therefore, the courts cannot order the legislator to create legislation with a particular content.”.
[14] § 8.2.7 della sentenza: “[…] this order does not amount to an order to take specific legislative measures, but leaves the State free to choose the measures to be taken in order to achieve a 25% reduction in greenhouse gas emissions by 2020. This is not altered by the fact that many of the possible measures to be taken will require legislation, as argued by the State. After all, it remains for the State to determine what measures will be taken and what legislation will be enacted to achieve that reduction. The exception to Article 3:296 DCC made in the case law referred to in 8.2.2 above therefore does not apply in this case”.
[15] Posto che l’influenza dell’uomo è stata rinvenuta nel riscaldamento dell’atmosfera e dell’oceano, nel cambiamento del ciclo globale dell’acqua, nella riduzione di ghiaccio e neve, nell’innalzamento del livello del mare e nei cambiamenti in dati eventi metereologici estremi. V., in argomento, B. Pozzo, Il nuovo sistema di emission trading comunitario. Dalla Direttiva 2003/87/CE alle novità previste dalla Direttiva 2009/29/CE, Milano, 2010, 1; M. D’Auria, L’emission trading e la negoziazione policentrica, in S. Cassese-M. Conticelli (a cura di), Diritto e amministrazioni nello spazio giuridico globale, Milano, 2006, 247.
[16] Sul Protocollo di Kyoto v., ad es., W. Th. Douma-L. Massai-M. Montini (a cura di), The Kyoto Protocol and Beyond, The Hague, 2007; M. Bothe-E. Rehbinder, Climate Change Policy, Utrecht, 2005; D. Freestone-C. Streck (a cura di), Legal Aspects of Implementing the Kyoto Protocol Mechanisms: Making Kyoto Work, Oxford, 2005.
[17] Per l’Europa l’8%; successivamente, tale impegno è stato ripartito in modo diverso tra i singoli Stati, in forza del Burden Sharing Agreement del 16 giugno 1998 (segnatamente, l’Italia si è impegnata a ridurre le proprie emissioni del 6.5% rispetto ai livelli del 1990 nel periodo 2008-2012).
[18] Sullo scambio di quote di emissione, v. amplius V. Jacometti, Lo scambio di quote di emissione. Analisi di un nuovo strumento di tutela ambientale in prospettiva comparatistica, Milano, 2010.
[19] In particolare, i privati o i governi dei Paesi dell’Annex I che forniscono tale assistenza possono ottenere, in cambio dei risultati raggiunti nei Paesi in via di sviluppo, “certified emission reductions” (CERs), il cui ammontare viene calcolato ai fini del raggiungimento del target.
[20] AA.VV, Climate change 1995: Economic and Social dimensions of Climate Change, Cambridge, 1996, 183 e 187-188.
[21] Su tali limiti, si rinvia a R. N. Cooper, The Kyoto Protocol: A Flawed Concept, in FEEM Working Paper No. 52.2001, 2001 in https://ssrn.com/abstract=278536.
[22] S. Nespor, L’adattamento al cambiamento climatico: breve storia di un successo e di una sconfitta, cit., 41.
[23] S. Nespor, op. cit., 42-47.
[24] Art. 2.1 a): “Holding the increase in the global average temperature to well below 2°C above pre-industrial levels and pursuing efforts to limit the temperature increase to 1.5°C above pre-industrial levels, recognizing that this would significantly reduce the risks and impacts of climate change”.
[25] Anche in forza della previsione per cui “Each Party should, as appropriate, submit and update periodically an adaptation communication, which may include its priorities, implementation and support needs, plans and actions, without creating any additional burden for developing country Parties” (v. S. Nespor, op. cit., 49).
[26] “Accordo sulla ripartizione degli oneri”, raggiunto nel Consiglio Ambiente del 16-17 giugno 1998, con cui – come è noto – l’Unione Europea ha ‘ripartito’ l’obiettivo di riduzione delle emissioni di gas serra dell’8% nel periodo 2008-2012, rispetto ai livelli del 1990, previsto dal Protocollo di Kyoto, tra gli allora quindici Stati membri dell’Unione, in base al principio di equità e proporzionalità.
[27] Su cui v., in particolare, C. Fraterrigo, Il diritto dell’energia in un sistema multilivello: legislatori e prassi a confronto, Palermo, 2015, 42; V. Jacometti, La direttiva Emissions Trading e la sua attuazione in Italia: alcune osservazioni critiche al termine della prima fase, in Riv. giur. ambiente, n. 2/2008, 273; M. D’Auria, L’emission trading e la negoziazione policentrica, in S. Cassese-M. Conticelli (a cura di), Diritto e amministrazioni nello spazio giuridico globale, cit., 247.
[28] V., da ultima, la Direttiva 2018/410, che ha stabilito il funzionamento dell’Emissions Trading System europeo (EU-ETS) nella fase IV del sistema (2021-2030).
[29] Https://ec.europa.eu/clima/policies/strategies/2030_it; in tema, v. M. A. Sandulli, Cambiamenti climatici, tutela del suolo e uso responsabile delle risorse idriche, cit., 291 ss.. La strategia ancora successiva risulta delineata nella “Energy Roadmap 2050”.
[30] L’obiettivo originario del 27% è stato rivisto al rialzo nel 2018.
[31] Originariamente del 27%.
[32] Sui cui ancora M. A. Sandulli, Cambiamenti climatici, tutela del suolo e uso responsabile delle risorse idriche, cit., 291 ss..
[33] Si veda, del resto, già il Libro verde della Commissione sull’adattamento ai cambiamenti climatici in Europa: quali possibilità di intervento per l’UE, 2007 in http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=LEGISSUM:l28193, nella cui introduzione si legge: “La modifica del clima è comunque ineluttabile e comporterà impatti significativi legati, tra l’altro, all’aumento delle temperature e delle precipitazioni, alla riduzione delle risorse idriche e all’aumento della frequenza delle tempeste. Le misure di mitigazione devono pertanto essere accompagnate da misure di adattamento destinate a far fronte a questi impatti. L’adattamento deve riguardare sia i cambiamenti in corso sia i cambiamenti futuri che devono essere anticipati”.
[34] Supra, § 1.
[35] In generale, sui rapporti tra C.e.d.u. e ordinamenti europeo e italiano, v., per tutti, D. Tega, La Cedu e l’ordinamento italiano, in M. Cartabia (a cura di), I diritti in azione. Universalità e pluralismo dei diritti fondamentali nelle Corti europee, Bologna, 2007, 69-70; A. Barbera, “Nuovi diritti”: attenzione ai confini, in L. Califano (a cura di), Corte costituzionale e diritti fondamentali, Torino, 2004. Si rinvia, altresì, più di recente, a D. Trabucco, Tutela multilivello dei diritti e sistema delle fonti nei rapporti tra la CEDU e l’ordinamento italiano. Verso un ritorno ai criteri formali-astratti a garanzia della superiorità della Costituzione?, in Osservatorio sulle fonti, n. 3/2018, 1. Sulla c.d. tutela multilivello dei diritti fondamentali, v. F. Sorrentino, La tutela multilivello dei diritti, in Riv. it. dir. pubbl. com., n. 1/2005, 79 e ss.; P. Bilancia, Le nuove frontiere della tutela multilivello dei diritti, in Rivista A.I.C., 16 maggio 2006.
[36] In tema, per tutti, S. Bartole-P. De Sena-V. Zagrebelsky, Commentario breve alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, Padova, 2012, 36: “La disposizione dedicata al diritto alla vita è la prima tra le norme della CEDU relative ai diritti sostanziali, in quanto, come la Corte europea ha più volte affermato, consacra uno dei valori fondamentali delle società democratiche che formano il Consiglio d’Europa. Al diritto alla vita spetta una posizione speciale all’interno della Convenzione: il suo mancato rispetto è una delle più gravi infrazioni in materia di diritti dell’uomo, posto che senza protezione del diritto alla vita il godimento di ogni altro diritto e libertà garantito dalla CEDU è illusorio”; C. Russo, Le Droit à la vie dans le décisions de la Commission et la jurisprudence de la Cour Européenne, in Mélanges en l’honneur de Nicolas Valticos, Parigi, 1999, 509. In argomento, v. anche A. Giordano, Dignità dell’uomo e tutela effettiva. Strumenti e garanzie dal diritto sostanziale al processo, in Studi Senesi, n. 2/2010, 185.
[37] In analoghi termini, Corte Edu, 24 febbraio 2005, ric. nn. 57947/00, 57948/00 e 57949/00, Isayeva, Yusupova e Bazayeva, spec. § 168. Sulla centralità della vita nel sistema della C.e.d.u.: R. Conti, I giudici e il biodiritto, Roma, 2014, 254.
[38] Con l’ulteriore, necessitato, corollario per cui le ipotesi di cui all’art. 2, c. 2, debbano essere intese come rigorosamente tassative e, quindi, di stretta interpretazione (in merito, da ultimi, A. Allegria-D. Di Leo-F. Federici (a cura di), Commentario alla Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo, Padova, 2019, 8-9: “In primo luogo, l’elenco delle eccezioni deve ritenersi avente carattere tassativo e ciascuna di esse è di stretta interpretazione. In secondo luogo, il requisito della necessità deve essere inteso in modo ancor più rigoroso e cogente rispetto agli artt. 8-11 CEDU: infatti, non a caso, la norma fa riferimento alla stretta necessità e non alla necessità tout court. Infine, occorre inserire, in via interpretativa, accanto al limite espresso della stretta necessità, quello aggiuntivo della proporzione nell’uso della forza in relazione alle finalità espresse dalla norma, il quale impone la gradazione della forza in relazione alla gravità del crimine commesso nell’ipotesi in cui si debba impedire l’evasione di una persona detenuta o procedere a un arresto”).
[39] S. Bartole-P. De Sena-V. Zagrebelsky, Commentario breve alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, cit., 36.
[40] S. Bartole-P. De Sena-V. Zagrebelsky, Commentario breve alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, cit., 41-42: “L’art. 2 CEDU, nella sua prima frase, prevede un obbligo di protezione della vita, a partire dal quale gli organi di Strasburgo hanno ricavato una serie di obblighi in capo agli Stati membri di adottare misure positive volte a rendere concreti ed effettivi i valori che l’art. 2 mira a tutelare. Si tratta di prescrizioni che non sono espressamente contemplate nel testo dell’articolo, ma sono ricavate implicitamente dall’art. 2, letto in congiunzione con l’obbligo generale dell’art. 1 CEDU di rispettare i diritti contemplati nella CEDU”.
[41] V., ad es., C. Edu, 8 luglio 2004, ric. n. 48787/99, Ilaşcu, § 313: “gli impegni assunti da una Parte contraente in base all’art. 1 della Convenzione implicano, oltre al dovere di astenersi da qualsiasi ingerenza nel godimento dei diritti e delle libertà garantiti, obblighi positivi di adottare misure adeguate per assicurare il rispetto di tali diritti e libertà sul suo territorio”. Per la dottrina, ad es., S. Bartole-B. Conforti-G. Raimondi, Commentario alla Convenzione Europea per la tutela dei Diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Padova, 2001, 308: “[…] sussiste interferenza non solo quando uno Stato pone in essere comportamenti attivi nei confronti di un individuo, ma anche quando le sue omissioni sono suscettibili di ledere le situazioni giuridiche che si ritengono protette”.
[42] V., in merito, le considerazioni di N. Lipari, in R. Conti, CEDU e cultura giuridica italiana. 5. La Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e i civilisti, in www.giustiziainsieme.it, 2020: “Certo è comunque che la Convenzione europea dei diritti umani si è venuta progressivamente affermando come un organismo vivo, capace di offrire sia alla Corte che ai giudici nazionali la possibilità di estendere la tutela anche a diritti non esplicitamente enunciati nella Convenzione”. Sull’ambiente come valore nell’ottica del diritto europeo, v., per tutti, P. Dell’Anno-E. Picozza (diretto da), Trattato di diritto dell’ambiente. Principi generali, Padova, 2012; M. Renna, I principi in materia di tutela dell’ambiente, in Riv. quadr. di diritto dell’ambiente, n. 1-2/2012, spec. 62-69.
[43] V., per tutti, Corte Edu, 9 dicembre 1994, n. 16798/90, López Ostra.
[44] Sui requisiti della “foreseeability of the risk” e del “best efforts requirement”, v. Corte Edu, 20 marzo 2008, ric. nn. 15339/02, 21166/02, 20058/02, 11673/02 e 15343/02, Budayeva e Corte Edu, 28 febbraio 2012, ric. nn. 17423/05, 20534/05 e 20678/05, Kolyadenko.
[45] Quale “diritto all’efficacia della protezione statale” dei diritti materiali (così, R. Sapienza, Il diritto ad un ricorso effettivo nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Riv. dir. int., n. 2/2001, 281).
[46] B. Conforti, Diritto internazionale, Napoli, 2006, 20.
[47] Che è un trattato internazionale sui generis (ad es., S. Mirate, Giustizia amministrativa e Convenzione europea dei diritti dell’uomo: l’“altro” diritto europeo in Italia, Francia e Inghilterra, Napoli, 2007, 169).
[48] Cosa discendente, anzitutto, dall’art. 1 C.e.d.u.. Sulla finalità della C.e.d.u., non di soddisfare interessi specifici degli Stati, ma di tutelare i diritti degli individui lesi: S. Bartole-P. De Sena-V. Zagrebelsky, Commentario breve alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, cit., 11. Nel senso di una generale personalità internazionale degli individui, v. ancora B. Conforti, op. cit., 20.
[49] Su cui v. P. Tanzarella, Il margine di apprezzamento, in M. Cartabia, I diritti in azione. Universalità e pluralismo dei diritti fondamentali nelle Corti europee, cit., 149.
[50] Y. Arai-Takahashi, The defensibility of the margin of appreciation doctrine in the ECHR: value-pluralism in the European integration, in Revue Européenne de Droit Public, 2001, 1162.
[51] R.ST.J. Macdonald, The margin of appreciation in the jurisprudence of the European Court of Human Rights, in Collected Courses of the Academy of European Law, 1992, 95.
[52] E, quindi, sottratta al sindacato giurisdizionale: Cass. civ., sez. lav., 11 ottobre 1995, n. 10617. Sulla neutralità delle norme, nelle quali è dato veicolare ogni contenuto, v. N. Irti, Nichilismo giuridico, Roma-Bari, 2004, 43.
[53] Sulla insindacabilità dell’atto espressivo della funzione legislativa, v., ad es., Cass. civ., sez. un., 19 maggio 2016, n. 10319 e Cass. civ., sez. un., 14 maggio 2014, n. 10416; sulla incompatibilità della detta libertà nei fini con l’attributo di “ingiustizia” che deve avere il danno per essere soggetto a risarcimento, v. Cass. civ., sez. III, 22 novembre 2016, n. 23730.
[54] Ad es., Corte Edu, 7 giugno 2011, ric. nn. 43549/08, 6107/09 e 5087/09, Agrati; Corte Edu, 31 maggio 2011, ric. nn. 46286/09, 52851/08, 53727/08, 54486/08 e 56001/08, Maggio. Per la giurisprudenza interna, v. C. Cost., 12 luglio 2017, n. 166: “Il riferimento va, per tal ultimo profilo, alla sentenza n. 264 del 2012 (cui ha fatto seguito l’ordinanza n. 10 del 2014), con la quale questa Corte - premesso che ad essa spetta di «opera[re] una valutazione sistemica e non isolata, dei valori coinvolti dalla norma di volta in volta scrutinata» - ha ritenuto che, nel bilanciamento tra la tutela dell’interesse sotteso alla richiamata norma convenzionale (art. 6, paragrafo 1, CEDU) e la tutela degli altri interessi costituzionalmente protetti, «prevale quella degli interessi antagonisti di pari rango costituzionale, complessivamente coinvolti nella disciplina recata dalla disposizione censurata, in relazione alla quale sussistono, quindi, quei preminenti interessi generali che giustificano il ricorso alla legislazione retroattiva»”. Per un confronto con la giurisprudenza della Corte di Giustizia, in punto di discrezionalità nell’adottare, modificare o sopprimere regimi di sostegno (segnatamente, alla produzione di energia da fonti rinnovabili), v., da ultima, la pronuncia C.G.U.E., 11 luglio 2019, cause riunite C-180/18, C-286/18 e C-287/18, Agrenergy S.r.l. e Fusignano Due S.r.l. (in senso consonante, per la giurisprudenza arbitrale internazionale: SCC Case No. ARB/16/132, Sunreserve Luxco Holdings s.a.r.l., Sunreserve Luxco Holdings II s.a.r.l., Sunreserve Luxco Holdings III s.a.r.l. v. Italian Republic, Final Award, 25 marzo 2020; ICSID Case No. ARB/15/40, Belenergia S.A. v. Italian Republic, Award, 17 luglio 2019; ICSID Case No. ARB/14/3, Blusun S.A., Jean-Pierre Lecorcier and Michael Stein v. Italian Republic, Final Award, 27 December 2016, recentemente confermata in appello da Blusun S.A., Jean-Pierre Lecorcier and Michael Stein v. Italian Republic, Decision on Annulment, 13 April 2020).
[55] Corte Edu, 21 luglio 2015, ric. nn. 18766/11 e 36030/11, Oliari, in tema di protezione giuridica offerta alle coppie dello stesso sesso.
[56] Sul principio di supremazia, scolpito dalla nota sentenza C.G.U.E., 15 luglio 1964, C-6/64, Costa c. Enel, v., ad es., L. Daniele, Diritto dell’Unione Europea, Milano, 2018, 313 e F. Fabbrini, Introduzione al diritto dell’Unione europea, Bologna, 2018, 156; sull’obbligo di garantire la piena efficacia delle norme comunitarie mediante disapplicazione di qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale: C.G.U.E., 9 marzo 1978, C-106/77, Simmenthal.
[57] C.G.U.E., 19 novembre 1991, cause riunite C-6/90 e C-9/90, Francovich, su cui, ad es., L. Daniele, op. cit., 302. Più in generale, sulla parabola evolutiva della responsabilità dello Stato per violazione del diritto unionale, v. F. Ferraro, voce Responsabilità dello Stato [dir. UE], in Treccani Diritto on line (2014), § 2, che evidenzia come il risarcimento del danno integri, all’esito della sentenza Brasserie du Pêcheur, un rimedio di carattere generale, esperibile a prescindere dall’efficacia diretta o meno della norma violata. Sulla configurabilità anche di una responsabilità da legislazione incompatibile con il diritto europeo, v. Cons. St., sez. VI, 24 settembre 2010, n. 7124: “Il danno da “adozione di legislazione incompatibile con il diritto comunitario” è in via di principio riconoscibile: ciò però, purché si fornisca la prova della diretta scaturigine del medesimo dalla norma e lo si differenzi da quello asseritamente arrecato dal provvedimento applicativo della medesima; ché altrimenti si postulerebbe una doppia liquidazione di una medesima voce di danno, inammissibile nel sistema (per l’affermazione secondo cui “deve escludersi che dalle norme dell’ordinamento comunitario possa farsi derivare, nell’ordinamento italiano il diritto soggettivo del singolo all’esercizio del potere legislativo - che è libero nei fini e sottratto perciò a qualsiasi sindacato giurisdizionale”, si veda Cassazione civile , sez. lav., 11 ottobre 1995, n. 10617).”.
[58] C. Cost., 24 ottobre 2007, n. 348 e C. Cost., 24 ottobre 2007, n. 349 (diversamente, tuttavia, Cons. St., sez. IV, 2 marzo 2010, n. 1220, su cui, in senso critico, A. Celotto, Il Trattato di Lisbona ha reso la CEDU direttamente applicabile nell’ordinamento italiano? (in margine alla sentenza 1220/2010 del Consiglio di Stato), in www.giustamm.it, 2010); così, del resto, la stessa Corte di Giustizia, che, nella nota sentenza C.G.U.E., 24 aprile 2012, C-571/10, Kamberaj, ha statuito che “il rinvio operato dall’articolo 6, paragrafo 3, TUE alla CEDU non impone al giudice nazionale, in caso di conflitto tra una norma di diritto nazionale e detta Convenzione, di applicare direttamente le disposizioni di quest’ultima, disapplicando la norma di diritto nazionale in contrasto con essa”, precisando che detto disposto “non disciplina il rapporto tra la CEDU e gli ordinamenti giuridici degli Stati membri e nemmeno determina le conseguenze che un giudice nazionale deve trarre nell’ipotesi di conflitto tra i diritti garantiti da tale Convenzione ed una norma di diritto nazionale”. Sui rapporti tra C.e.d.u. e ordinamento interno, v., da ultima, C. Feliziani, Giustizia amministrativa, amministrazione e ordinamenti giuridici. Tra diritto nazionale, diritto dell’Unione europea e Cedu, Napoli, 2018, spec. 159-164.
[59] Supra, § 1.
[60] Sul punto, la stessa giurisprudenza della Corte Edu appare consonante; v. Corte Edu, 22 maggio 2003, ric. n. 41666/98, Kyrtatos, § 52: “[…] the crucial element which must be present in determining whether, in the circumstances of a case, environmental pollution has adversely affected one of the rights safeguarded by paragraph 1 of Article 8 is the existence of a harmful effect on a person’s private or family sphere and not simply the general deterioration of the environment. Neither Article 8 nor any of the other Articles of the Convention are specifically designed to provide general protection of the environment as such”. In generale, sull’articolata quaestio della protezione degli interessi diffusi in sistemi processuali improntati alla tutela delle situazioni individuali, v., ad es., W. Giulietti, Danno ambientale e azione amministrativa, Napoli, 2012, 53.
[61] V., con riferimento al nostro ordinamento, da ultimo, il “Piano nazionale integrato per l’Energia e il Clima” del dicembre 2019, in https://www.mise.gov.it/images/stories/documenti/PNIEC_finale_17012020.pdf.
[62] Del resto, la natura ontologicamente transfrontaliera del fenomeno del riscaldamento globale fa sì che trascolori lo stesso nesso di causalità tra l’azione od omissione del singolo Stato e la violazione invocata.
[63] Che possono essere (e di norma sono) beneficiali agli scopi della mitigazione. V., supra, § 2.
[64] Indispensabili anche in relazione alla corrente emergenza epidemiologica da COVID-19, nel cui contesto il raccordo tra Stati si appalesa quanto mai opportuno, onde evitare che le misure adottate da uno Stato non siano vanificate da antitetiche o comunque distoniche politiche poste in essere dagli Stati confinanti. In generale, sulla necessità di una gestione unitaria dell’emergenza, v., pur con riferimento ai diversi centri di produzione delle norme interni allo Stato (italiano), v. Cons. St., parere 7 aprile 2020, n. 260, il quale si è espresso sulla proposta di annullamento straordinario ex art. 138 d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 di una nota ordinanza del Sindaco di Messina, così, significativamente, statuendo: “In presenza di emergenze di carattere nazionale […] pur nel rispetto delle autonomie costituzionalmente tutelate, vi deve essere una gestione unitaria della crisi per evitare che interventi regionali o locali possano vanificare la strategia complessiva di gestione dell’emergenza, soprattutto in casi in cui non si tratta solo di erogare aiuti o effettuare interventi ma anche di limitare le libertà costituzionali” (§ 8.5), su cui, da ultimo, A. Celotto, Emergenza e ordinanze comunali: l’«isola della ragione nel caos delle opinioni» (a prima lettura del parere 7 aprile 2020, n. 260/2020), in www.giustizia_amministrativa.it, 2020.
[65] La cui rilevanza è stata ribadita anche dalla più recente giurisprudenza costituzionale. Se è vero che – con un obiter dictum – la Corte Costituzionale ha statuito che “laddove una legge sia oggetto di dubbi di illegittimità tanto in riferimento ai diritti protetti dalla Costituzione italiana, quanto in relazione a quelli garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea in ambito di rilevanza comunitaria, [deve] essere sollevata la questione di legittimità costituzionale, fatto salvo il ricorso, al rinvio pregiudiziale per le questioni di interpretazione o di invalidità del diritto dell’Unione, ai sensi dell’art. 267 del TFUE” (C. Cost., 14 dicembre 2017, n. 269), la Corte di Giustizia appare ferma nel sancire la doverosità del rinvio ex art. 267 T.F.U.E. (C. Giust., 20 dicembre 2017, C-322/16, Global Starnet Ltd: “Occorre ricordare che un giudice nazionale investito di una controversia concernente il diritto dell’Unione, il quale ritenga che una norma nazionale sia non soltanto contraria a tale diritto, ma anche inficiata da vizi di costituzionalità, non è privato della facoltà o dispensato dall’obbligo, previsti dall’articolo 267 TFUE, di sottoporre alla Corte questioni relative all’interpretazione o alla validità del diritto dell’Unione per il fatto che la constatazione dell’incostituzionalità di una norma di diritto nazionale è subordinata ad un ricorso obbligatorio dinanzi ad una corte costituzionale. Infatti, l’efficacia del diritto dell’Unione rischierebbe di essere compromessa se l’esistenza di un ricorso obbligatorio dinanzi ad una corte costituzionale potesse impedire al giudice nazionale, investito di una controversia disciplinata dal suddetto diritto, di esercitare la facoltà, attribuitagli dall’articolo 267 TFUE, di sottoporre alla Corte le questioni vertenti sull’interpretazione o sulla validità del diritto dell’Unione, al fine di permettergli di stabilire se una norma nazionale sia compatibile o no con quest’ultimo”) e la stessa Consulta ha, più di recente, ribadito che sono fatti salvi il potere (-dovere) del giudice comune di compiere il rinvio pregiudiziale su ogni questione ritenuta necessaria (C. Cost., 21 febbraio 2019, n. 20: “Resta fermo che i giudici comuni possono sottoporre alla Corte di giustizia dell’Unione europea, sulla medesima disciplina, qualsiasi questione pregiudiziale a loro avviso necessaria. In generale, la sopravvenienza delle garanzie approntate dalla CDFUE rispetto a quelle della Costituzione italiana genera, del resto, un concorso di rimedi giurisdizionali, arricchisce gli strumenti di tutela dei diritti fondamentali e, per definizione, esclude ogni preclusione”), il dovere – ricorrendone i presupposti – di non applicare, nella fattispecie concreta, la disposizione nazionale in contrasto con i diritti sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (C. Cost., 21 marzo 2019, n. 63), il potere (-dovere) della stessa Corte Costituzionale di avviare il dialogo con la Corte di Giustizia, ove la disposizione censurata violi le garanzie riconosciute, al tempo stesso, dalla Costituzione e dalla Carta dei diritti fondamentali e ciò sia necessario per chiarire il significato e gli effetti delle norme di quest’ultima (C. Cost., 10 maggio 2019, n. 117). V., per gli ulteriori riferimenti sul tema, A. Giordano, voce Pregiudiziale comunitaria, in www.ilprocessocivile.it, 5.8.2019.
[66] Secondo cui “Le più alte giurisdizioni di un’Alta Parte contraente […] possono presentare alla Corte delle richieste di pareri consultivi su questioni di principio relative all’interpretazione o all’applicazione dei diritti e delle libertà definiti dalla Convenzione o dai suoi protocolli”; in tema, R. Conti, La richiesta di “parere consultivo” alla Corte europea delle Alte Corti introdotto dal Protocollo n. 16 annesso alla CEDU e il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE. Prove d’orchestra per una nomofilachia europea, in Consulta Online, 2014; O. Pollicino, La Corte costituzionale è una “alta giurisdizione nazionale” ai fini della richiesta di parere alla Corte EDU ex Protocollo 16?, in www.forumcostituzionale.it, 2014; A. Ruggeri, Ragionando sui possibili sviluppi dei rapporti tra le corti europee e i giudici nazionali (con specifico riguardo all’adesione dell’Unione alla CEDU e all’entrata in vigore del Prot. 16), in Rivista AIC, 1, 2014.
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