ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Protezione della salute pubblica, restrizioni della libertà personale e caos normativo
di Antonio d’Andrea
Sommario: 1. Il tempo del Coronavirus - 2. La necessaria normativa statale per restringere legittimamente la libertà personale 3. Le buone ragioni delle Regioni e il rispetto della riserva di legge statale: due esigenze costituzionali
1. Il tempo del Coronavirus
Per cercare di orientarsi nella mole di disposizioni statali e regionali introdotte nell’ordinamento a partire dal d.l. 24 febbraio 2020 n. 6 così da cercare di contenere gli effetti della grave pandemia che nel nostro Paese si sono disvelati con dati impressionanti nella loro drammatica progressività nell’ultimo mese, bisogna, in primo luogo, riconoscere l’insidiosità rappresentata dalla modalità di propagazione del contagio (il tema è quello dei “portatori sani” e inconsapevoli della loro positività) e ricordare l’assenza, al momento, di cure specifiche che lo possano prevenire e in ogni caso consentire il superamento delle forme più acute della patologia che cagiona. Queste semplici considerazioni di contesto sono utili per richiamare come dal mondo medico-scientifico più accreditato – e al di là di quanto sperimentato, si dice con efficacia, in Cina da dove l’epidemia diffusiva è partita ed è stata poi esportata – si sia insistito sulla necessità da parte delle autorità pubbliche di “governare” questa emergenza, almeno nell’immediato, con drastiche misure di riduzione dei contatti sociali tra le persone (molte delle quali veicoli involontari della diffusione dell’infezione) a partire dalla loro libera circolazione nel territorio nazionale. Lo scopo di tali misure sarebbe quello di ridurre il più possibile il numero dei contagi così da consentire al personale delle strutture sanitarie di dedicarsi con maggiori probabilità di successo all’assistenza di ammalati che nei casi più gravi (si tratta, com’è noto, spesso anche se non solo, di soggetti affetti da precedenti patologie e comunque indeboliti, ad esempio, dall’età avanzata) presuppone lunghe degenze in reparti dotati di sofisticate tecnologie (ad esempio i respiratori artificiali) e che poterebbero, dilagando il virus, non essere sufficienti, come in parte verificatosi, per fronteggiare la montante emergenza sanitaria.
Un altro dato preliminare da richiamare è l’immediata emersione nel territorio nazionale di “zone rosse” nelle quali si è da subito manifestato una peculiare e intensa diffusione del contagio registrandosi un’alta percentuale di ricoveri e decessi così concentrati prevalentemente in Lombardia e in alcune zone del Nord del Paese: dapprima, in alcuni Comuni del Lodigiano e del basso Veneto sino poi a spingersi con rapidità impressionante in una fascia più estesa che oramai coinvolge buona parte delle Provincie di Cremona, Bergamo, Brescia e della stessa Emilia. Ciò al contrario di quanto inizialmente è accaduto in altre Regioni, che sembrano perciò “preservate” dal dilagare del contagio e che, pur essendosi modificate le condizioni inziali, ancora adesso non affrontano emergenze sanitarie di quella portata pur avvertendone gli echi, drammatici ma territorialmente distanziati. Questo solo per ricordare come, in tale caso, la differente posizione delle tre Regioni ordinarie Lombardia, Veneto, Emila Romagna (che da tempo spingono per ottenere, ai sensi dell’art. 116 co 3, Cost., una più avanzata autonomia rispetto alle altre), deve in effetti essere valutata come peculiare per tragici motivi oggettivi che hanno indotto i rispettivi Presidenti, insieme alle altre autorità di governo locale (si pensi ai Sindaci coinvolti), a mettere in atto forme di intensa interlocuzione istituzionale, per certi versi inevitabilmente conflittuale, tanto con il livello di governo centrale quanto con gli altri Presidenti di Regioni nelle quali l’epidemia era ed è meno dilagante, la cui preoccupazione adesso sembra essere piuttosto quella di evitare gli ingressi di cittadini che si trovano nelle zone di maggior diffusione del contagio, propensi – si potrebbe dire istintivamente – in molti casi a ritornare nei luoghi di provenienza o di origine considerati, non si sa quanto a ragione, più sicuri (certo non per i familiari che li hanno accolti, per come purtroppo si è già dimostrato).
2. La necessaria normativa statale per restringere legittimamente la libertà personale
A parte l’attuale, richiamata diseguale distribuzione del contagio sul territorio nazionale, sono inevitabilmente “uniche” le coordinate costituzionali che dovrebbero consentire di affrontare con equilibrio, ma soprattutto legittimamente il tema delle misure restrittive della libertà personale dei consociati per fronteggiare al meglio la grave emergenza sanitaria. L’evoluzione dell’epidemia su scala planetaria non può ovviamente che essere affrontata nell'ordinamento italiano come una cruciale questione di rilievo nazionale.
Si parte dunque dalla necessità di osservare da parte delle autorità politiche statali il rigoroso rispetto della c.d. riserva di legge che necessariamente accompagna qualsiasi limitazione dei diritti di libertà individuale, a partire da quello che viene immediatamente in considerazione del caso di specie e che incide sulla libertà di muoversi liberamente su tutto il territorio nazionale e perfino di uscire e rientrare dal Paese, quale che sia la motivazione che induce il soggetto a lasciare il luogo di residenza o di domicilio per raggiungerne altro, da solo o in compagnia, da un comune all’altro, da una Provincia o da una Regione, percorrendo da Nord a Sud e viceversa, con qualsiasi mezzo privato o pubblico che sia, il territorio statale. Da questo punto di vista è solo la legge parlamentare a stabilire “in via generale per motivo di sanità e sicurezza” (art. 16, co 1, Cost.) le limitazioni di circolazione e soggiorno che interessano le persone, anche eventualmente avendo riguardo di preservare questo o quel territorio e così circoscrivendo, ove ritenuto utile, il diffondersi dell’epidemia. Egualmente è la legge statale ad obbligare – proprio perché la salute costituisce non solo un diritto individuale ma un interesse della collettività – le persone a sottoporsi, ai sensi dell’art. 32, co 2, Cost., ad un “determinato trattamento sanitario (alludo eventualmente alla "prova" imposta del c.d. tampone per accertare la positività al virus e perciò la contagiosità dei soggetti da obbligare a restrizioni più stringenti di movimento) così come ricade pur sempre nella piena responsabilità del legislatore statale e non già regionale, ai sensi dell’art. 117, co 2, lett.h, Cost., disporre in materia di “ordine pubblico e sicurezza” (si pensi alla "chiusura" di determinate attività produttive, alla riduzione dei trasporti e di tutto quanto venga ritenuto utile al miglioramento della salute collettiva).
Quando vengono in questione, per ragioni certo contemplate dalla stessa normativa costituzionale, limiti che toccano la libera (e di per sé lecita) determinazione comportamentale di ciascun individuo – che coinvolge non solo la libertà di muoversi, ma anche di svolgere attività di impresa, di commercio e altro ancora – come pure ogni qualvolta si attenuano le garanzie individuali non è, in linea di principio, legittimo prevedere una statuizione regionale fatalmente produttiva di effetti limitati in questo o quel territorio (del tipo, per semplificare “non si entra e non si esce” dalla Regione) neppure ove si deleghi la facoltà di disporre in tal senso in forza di una (illegittima) norma legislativa statale. Non a caso è previsto che la Regione non possa “adottare provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose tra le Regioni” (art. 120, co 1, Cost.)
3. Le buone ragioni delle Regioni e il rispetto della riserva di legge statale: due esigenze costituzionali
Nel contempo è bene che nessuno, a partire dalle istituzioni statali, sottovaluti la concorrente competenza legislativa regionale garantita costituzionalmente (art. 117, co 3, Cost.) concernente la "tutela della salute", la "protezione civile", il "governo del territorio" così come la loro esclusiva competenza regolamentare, dunque di carattere secondario, in queste stesse materie.
Le Regioni, in generale, sono evidentemente gravate di diretta responsabilità anche nel governo dell'emergenza sanitaria in atto sebbene prevalentemente con implicazioni nella sfera della gestione amministrativa del fenomeno più che non nella scelta di indirizzi politici strategici o di fondo (affrontare e cercare di risolvere l'emergenza sanitaria è, come detto, primariamente una questione nazionale). Tuttavia, e anzi proprio per questo, lo Stato non solo non è affatto esentato dal supportare logisticamente e finanziariamente il gravoso compito gestionale che ricade, al momento, sulle principali Regioni del Nord del Paese ma dovrebbe, prima di tutto secondo buon senso, provare a condividere almeno con queste stesse le strategie di contrasto dell'epidemia in nome di quella leale collaborazione che spesso viene evocata a sproposito ma che, al contrario, nelle relazioni Stato-Regioni ha sempre trovato la sua vera ragion d'essere e oramai persino la sua stessa "cristallizzazione" costituzionale (art. 120, co 2, Cost). Il coinvolgimento nelle scelte politiche nazionali degli Enti locali toccati da vicino dall'epidemia e dunque in prima linea nell'affrontare l'emergenza sanitaria è anche l'unica strada che potrebbe scongiurare ulteriori "fughe" in avanti di tali Regioni che certamente ci sono già state, incalzate peraltro da una pressante domanda al loro interno di "fare qualcosa" per invertire la maledetta curva dei contagi e dei morti. Inoltre solo dal "centro" sembra potersi irradiare un senso effettivo e non solo caricaturale (tra balli e canzoni) di appartenenza nazionale che consolidi vincoli comunitari che altre realtà regionali, sorprendentemente ma comunque illegittimamente, dimostrano di aver dimenticato innalzando, a loro volta, "muri interni" che oltretutto non potrebbero, da soli, evitare il propagarsi dell'epidemia partita dalla Cina e purtroppo annidata ovunque nel mondo.
Resta tuttavia prioritario chiedersi anche sul piano logico se la costituzionalmente indispensabile normativa statale di rango primario (non certo i convulsi numerosi decreti del Presidente del Consiglio - DPCM - così come pure le ordinanze ministeriali del responsabile del dicastero della Salute piuttosto che di quello dell'Interno in qualche caso persino contestuali o sfalsati di qualche ora l'uno dall'altra) contenuta essenzialmente nel d.l.n. 6/2020, subitaneamente convertito nella legge n. 13/2020, abbia davvero soddisfatto il richiamato e noto requisito della riserva di legge, sia pure relativa, disciplinando compiutamente le restrizioni che ormai si spingono, in definitiva, ad impedire alle persone, tranne le sempre più circostanziate eccezioni, di "uscire di casa"; in secondo luogo ci può interrogare, naturalmente retoricamente, se la normativa statuale richiamata sia in effetti considerata dalle Regioni, specie quelle in prima linea nel fronteggiare l'epidemia, come un'apprezzata e accettata "base legale " da rispettare e da implementare. Per le considerazioni peraltro da subito richiamate è facile rispondere che l'attivazione normativa regionale contenuta in improbabili - sul piano della sistematica delle fonti - ordinanze dei rispettivi Presidenti (da "tutti a casa", "tutto chiuso", "nessun arrivo") finisce per essere, almeno spero, niente altro che lo stimolo provocatorio nei confronti del Governo affinché affronti con il maggiore rigore possibile il tema del "distanziamento sociale". Quel che è certo è che proprio recentemente, tra sabato 21 e domenica 22 marzo, a distanza di poche ore da quanto deliberato dal Presidente della Regione Lombardia, è in effetti arrivato un nuovo, ennesimo DPCM che ha finito per irrigidire le precedenti misure restrittive generali, valide sull'intero territorio nazionale, circa "lo stare fuori casa" (ad esempio per svolgere attività fisica) nella direzione reclamata dai governi regionali e in particolare da quello lombardo che, invertendo la ratio del c.d.potere sostitutivo, aveva ritenuto di poter disporre in autonomia la "blindatura" del territorio regionale (egualmente aveva così proceduto in quel frangente la stessa Regione Calabria).
Ad onor del vero a me pare comunque poco in linea con l'ortodossia costituzionale non tanto l'uso dello strumento della decretazione d'urgenza per fronteggiare l'emergenza sanitaria in atto - la dottrina ha sostenuto autorevolmente la fungibilità a certe condizioni del decreto legge rispetto alla legge ordinaria - quanto l'auto-delega prevista nel citato decreto convertito in legge in favore del solo Presidente del Consiglio (senza perciò l'emanazione del Capo dello Stato prevista per i regolamenti governativi adottati dall'organo governativo collegiale) affinché, attraverso norme di rango sub-secondario, si possa dare sostanza normativa alle impalpabili disposizioni primarie che quella sostanza non hanno per nulla. Non solo questo in verità; nel testo del decreto legge n. 6 si introduce una sorta di "delega" a generiche "autorità istituzionali" (inclusi i Presidenti delle Regioni?), cosicché, pur non essendo questo il tempo dei sofismi e dei distinguo, si ricava la disarmante impressione che "il governo" della grave emergenza sanitaria che sicuramente suggerisce drastici e opportuni mutamenti comportamentali di ciascuno di noi e un inevitabile affievolimento della nostra libertà personale, finisce per essere lasciato, certo non proprio in sintonia con il dettato costituzionale vigente, nella indeterminatezza di regole cangianti rapidamente e rimesse in esclusiva al solo Presidente del Consiglio (ma il Parlamento è, in tali delicati frangenti, in grado di funzionare?) e a chi lo affianca "tecnicamente" ma, verrebbe da pensare, consegnate principalmente al buon senso di ciascuno e di quanti sono chiamati a fare rispettare i confusi divieti e a comminare sanzioni. Speriamo che almeno basti e che ci si possano presto consentire toni meno concilianti per stigmatizzare le evidenti deroghe "emergenziali" all'applicazione dei precetti costituzionali vigenti.
Diritto di informazione e dovere di verità al tempo di COVID-19
di Giovanni Magrì
Sommario: 1. Nuove tecnologie e dimensione “orizzontale” del diritto di informazione - 2. Il dibattito sui “diritti aletici”: una rassegna- 3. Un esempio dal coronavirus: “fatti”, teorie, decisioni politiche
1. Nuove tecnologie e dimensione “orizzontale” del diritto di informazione
È quasi un luogo comune della filosofia politica e del diritto pubblico comparato: nella tradizione liberale (diciamo, semplificando: soprattutto anglosassone) i natural rights, e più tardi i fundamental rights, vengono sanciti e fatti valere essenzialmente nei confronti del potere; più precisamente del potere politico, che – costituito per stabilire (con le leggi) e conservare (con il monopolio della forza legittima) un ordine entro cui a ciascuno sia garantita la sicurezza della vita e a tutti la pace, onde meglio perseguire i propri interessi individuali – rischia di contraddire il suo stesso fondamento di legittimazione se, in nome dell’ordine e della pace sociale, nega e comprime quelle stesse libertà individuali, cui ordine e pace dovevano in ultima analisi essere funzionali. È, in buona sostanza, lo spauracchio del potere assoluto, che opera tanto al cuore dello stesso meccanismo logico e giuridico liberale di legittimazione del potere (il contrattualismo), quanto nella memoria storica dei popoli anglosassoni, degli inglesi come degli americani.
È di meno immediata comprensione, entro quella tradizione politico-culturale, l’idea che i diritti fondamentali possano essere lesi, e perciò meritino di essere protetti, anche da altri soggetti privati che tengano comportamenti i quali peraltro, rientrando nella loro sfera di libertà rispetto al potere politico, in prima approssimazione dovrebbero essere inquadrati come atti di esercizio di un loro diritto. Insomma: «se è riconosciuto ad un diritto fondamentale effetto diretto, tale riconoscimento dovrebbe essere caratterizzato da una doppia dimensione: quella verticale (autorità vs. libertà) e quella orizzontale (nei rapporti tra privati)»[1]; ma le Corti anglosassoni tradizionalmente resistono a trarre le conseguenze applicative del riconoscimento di tale ultima dimensione “orizzontale”, nell’assunto che «the judicialisation of relations between private persons [is] as an intolerable intrusion of the state into the sphere of private autonomy»[2].
L’assunto è arcinoto, discusso e studiato da diverse prospettive (di diritto costituzionale, di diritto internazionale e, da ultimo, anche di diritto civile). Ad abundantiam, valga la testimonianza autorevole di un intellettuale che, pure, non ha una formazione giuridica. Circa vent’anni fa, Jürgen Habermas, il grande sociologo e filosofo tedesco epigono della Scuola di Francoforte, cominciò a formulare le sue tesi su “i rischi di una genetica liberale” ed ebbe l’occasione di discuterle nel seminario di “Law, Philosophy & Social Theory” diretto da due altrettanto illustri colleghi, Ronald Dworkin e Thomas Nagel, presso la New York University Law School. Ne riportò l’impressione di una «differenza interessante» tra l’approccio dei filosofi tedeschi e quello dei colleghi americani[3], e ipotizzò che essa derivasse «da una fiducia ininterrotta nello sviluppo scientifico e tecnico, nonché dall’ottica di una tradizione liberale che risale a John Locke. La tutela delle libertà individuali dei soggetti di diritto viene fatta valere contro le interferenze dello stato, mentre – nell’analisi di ogni nuova sfida – si sottolineano soprattutto le minacce portate alla libertà nelle relazioni che collegano verticalmente i membri privati della società al potere dello stato. Di fronte al pericolo principale di una illecita invadenza del potere politico, passa in secondo piano la paura dell’abusivo potere esercitabile da privati contro privati nella dimensione orizzontale delle loro relazioni. Il diritto del liberalismo classico è estraneo all’idea di un “effetto su terzi” (Drittwirkung), ossia all’idea di un’efficacia orizzontale dei diritti fondamentali nei confronti di soggetti privati»[4].
Credo di non sbagliare se dico che un analogo “strabismo” si sarebbe potuto osservare, fino a poco tempo fa, anche nella discussione pubblica intorno al diritto/dovere di informazione. In proposito, la prima “minaccia” a cui tutti per decenni abbiamo pensato è stata quella della censura, o più in genere della limitazione o manipolazione delle informazioni da parte del potere politico; ci siamo rappresentati come caso-limite le modalità operative seguite da Goebbles nella Germania nazista[5] e abbiamo guardato con ironia alla testata sovietica Pravda (letteralmente, la “Verità”) o ai dazibao o tazebao maoisti. I più avvertiti tra noi hanno sempre saputo che, almeno in tempi di guerra, anche i regimi democratici non si astengono dall’esercitare un certo controllo sull’informazione, sulla divulgazione culturale e persino sull’intrattenimento; ma hanno anche sperato che, in tempo di pace, la libertà di informazione (appunto: libertà “verticale”, dalla censura e dal controllo del potere politico), insieme con il pluralismo delle fonti, fosse un antidoto sufficiente a quella “inclinazione” apparentemente irrefrenabile di qualsiasi potere politico.
La dimensione “orizzontale” della tutela del diritto di informazione è stata per lo più circoscritta, invece, alla protezione, anche in sede civile, dei diritti della personalità (nome, immagine, integrità morale, onore e reputazione, più avanti identità personale e riservatezza) nei confronti di chi sia individuato come civilmente responsabile dei danni cagionati diffondendo informazioni false o riservate. Tutti abbiamo studiato, fin dall’inizio dei nostri percorsi di formazione giuridica, le posizioni rispettive del “direttore responsabile” e dell’editore di una testata giornalistica, come destinatari di provvedimenti di tutela preventiva (inibitoria, rettifica) e successiva (risarcimento del danno, patrimoniale e non patrimoniale) dei diritti della personalità eventualmente lesi, o posti in pericolo, da un’attività “imprenditoriale” o comunque “professionale” nell’ambito dell’informazione[6].
Anche in questa materia, le nuove tecnologie hanno recato con sé un cambiamento radicale. Il “tradizionale” pluralismo delle fonti, infatti, muta essenzialmente di portata (e, per evocare di nuovo e per l’ultima volta Mao, la quantità si trasforma in qualità), laddove ogni privato cittadino può diventare “fonte di informazione”, a vario titolo: di solito perché la riceve e la reinvia (ai suoi “contatti” sociali, in una connessione di “rete”), abbastanza spesso anche perché la rielabora e, volendo, la “manipola”, infine (relativamente meno di frequente, forse) perché la produce, in qualità di vera e propria “sorgente” (nella terminologia canonica di Shannon e Weaver), creando un messaggio del tutto nuovo. In ognuna di queste eventualità, ciascuno di noi può incidere sulla forza di propagazione e sulla credibilità del messaggio, se non altro perché tutte le sue azioni in rete vengono computate dagli algoritmi che fanno funzionare i cd. motori di ricerca e così ci restituiscono, in un certo ordine, le informazioni che cerchiamo tra quelle rese disponibili sul web (ma i meccanismi di selezione delle “notizie” sui social network, coi relativi algoritmi, hanno reso le cose ancor più complicate e potenzialmente pericolose).
Ora, la tradizione giuridica liberale si è comportata davanti a questi nuovi fenomeni… esattamente come ci si poteva aspettare che si comportasse. Attrezzatissima a difendere il diritto di informazione del singolo dalle ingerenze “verticali” del potere politico, per il resto ha trattato per lo più l’emissione indiscriminata di informazioni in rete come una radicalizzazione delle vecchie questioni di giustizia che si erano già poste ai tempi dei giornali di carta e, tutt’al più, dei network televisivi privati. Negli Stati Uniti, il principio generale seguito dalla Corte Suprema è rimasto quello per cui «con particolare riferimento al I Emendamento che riconosce la libertà di espressione (right to free speech), l’efficacia orizzontale (inter privatos) dello stesso è negata dall’applicazione della c.d. state action doctrine, in forza della quale le garanzie previste dai diritti sanciti dal Bill of Rights federale possono essere fatte valere soltanto nei confronti dei poteri pubblici e non dei privati»[7]. Perciò, ricordiamo tutti che a lungo uno dei problemi giuridici più dibattuti è stato se Facebook, nella persona del suo co-fondatore e CEO Mark Zuckerberg, potesse o no essere considerato responsabile (alla stregua di “editore”) delle notizie che circolano sul network; e la risposta è stata per molti anni negativa, dovendosi considerare Facebook un ambiente libero e completamente “orizzontale” (paritario, “P2P”), in cui ogni singolo utente decide (ed è responsabile) dell’attendibilità e delle conseguenze delle notizie che “posta” e condivide.
In tutto questo, è sfuggito a lungo che i diritti della personalità non sono gli unici “contro-valori” in gioco nella produzione e diffusione di informazioni; che la circolazione, e l’amplificazione nelle “camere di risonanza” virtuali[8], di informazioni false può limitare altresì l’esercizio di fondamentali diritti civili e politici, alterare l’esito di consultazioni elettorali, indurre a scelte errate e dannose per la convivenza[9] e, ad esempio – ma l’esempio non è mai stato così pertinente come in questi giorni –, per il diritto alla salute.
2. Il dibattito sui “diritti aletici”: una rassegna
Poi, ovviamente, anche su questo piano qualcosa è cambiato, sia nel dibattito pubblico, sia in sede teorica e dottrinale. Vorrei portare senza indugi l’attenzione sulla proposta di una filosofa, Franca D’Agostini, che, a partire da un articolo uscito sulle pagine di “Biblioteca della libertà”, ha elaborato una teoria complessiva dei cd. “diritti aletici”[10]. Questi sarebbero da intendere, in prima approssimazione, come articolazioni e specificazioni di un presunto e generalmente accettato «diritto alla verità» degli individui e dei popoli, necessarie per evitare che l’appello a quel diritto «valga solo come un accenno generico o un ”retorico strumento salvifico”»[11]. Per D’Agostini, dunque, «non si tratta soltanto del diritto di conoscere la verità, o di essere informati in modo veridico, ma di un gruppo di beni e valori diversi, tutti riportabili al rapporto di adeguatezza (o corrispondenza) tra le credenze e la realtà che esprimiamo con il predicato “è vero”». A titolo indicativo, l’autrice propone di isolare sei “diritti aletici”: essi «riguardano tre aree in cui il bene verità si rivela essere un bene socialmente importante: l’area dell’informazione, l’area della scienza e della conoscenza condivisa, l’area della cultura»; e sono, secondo D’Agostini, «progressivamente correttivi, nel senso che la salvaguardia dell’uno serve a correggere o limitare la sproporzionata osservanza dei precedenti»[12]. Tanto premesso, questi sono i sei diritti aletici proposti da D’Agostini: 1. «diritto di essere informati in modo veridico»; 2. «diritto di essere nelle condizioni di giudicare e cercare la verità»; 3. «diritto di essere riconosciuti come fonti affidabili di verità»; 4. «diritto di disporre di autorità aletiche affidabili, dunque di avere un sistema scientifico i cui criteri di valutazione sono truth-oriented»; 5. «diritto di vivere in una società che favorisca e salvaguardi ove necessario l’acquisizione della verità»; 6. «il diritto di vivere in una cultura (e una società) in cui è riconosciuta l’importanza della verità (in positivo e in negativo) per la vita privata e pubblica degli agenti sociali»[13].
Franca D’Agostini è una filosofa, con un particolare interesse per la logica e la filosofia della scienza. Non è una giurista. E non lo sono neanche alcuni di coloro che, sullo stesso fascicolo di “Biblioteca della libertà”, hanno discusso la sua proposta. Così, non deve stupire una qualche incertezza nell’identificare i “diritti aletici” come situazioni giuridiche soggettive con un preciso standard di tutela: nei commenti si oscilla tra la posizione “minimalista” di Elisabetta Galeotti, secondo cui «c’è un diritto collettivo, nel senso di un interesse generale fondamentale, a non avere informazioni false, manipolate e tendenziose»[14], e la posizione “massimalista” di Maurizio Ferrera, il quale interpreta il testo di D’Agostini nel senso per cui diritto aletico è una regola «che titola un attore sociale a pretendere giustificatamente verità dagli altri attori sociali (asse orizzontale) e dalle autorità politiche (asse verticale)»; ma nota che questa è un’accezione «debole» del concetto, mentre l’accezione forte configurerebbe «i diritti come poteri garantiti», cioè provvisti di «enforcement autoritativo»[15]. L’autrice sembra confermare l’interpretazione di Ferrera, sia pure con una riserva («non parlerei esattamente di ‘pretendere’ verità»[16]) di cui non chiarisce il senso.
Tuttavia, alcuni degli interlocutori di Franca D’Agostini hanno invece una formazione giuridica, e non possono che essere portatori di una nozione scientificamente determinata di “diritto” (soggettivo): non è un caso, dunque, se siano proprio costoro che, anziché chiedersi cosa intenda l’autrice per “diritti” aletici, sollevano dubbi per lo più fondati sull’opportunità, e sulla perseguibilità “tecnica”, di una strategia di “giuridificazione” così pervasiva della materia della “verità” nell’informazione. Come riferisce la stessa D’Agostini, «la perplessità più ovvia riguarda il fatto che non sempre si vuole sapere la verità e non sempre è giusto e utile saperla o ricordarla, da cui segue che un “diritto incondizionato alla verità” non è difendibile. Rodotà[17] segnala precisamente questa difficoltà, che è alla base di almeno due ordini di diritti opposti ai DA: il diritto individuale alla privacy, o a non conoscere verità sgradevoli; e il diritto collettivo alla pace sociale, dunque a dimenticare verità che potrebbero generare conflitto. In secondo luogo, frode, calunnia, falsa testimonianza sono tipiche fattispecie che coinvolgono la verità: ma è difficile isolare l’atto di “far credere” il falso o il non vero come un crimine, comportante un danno di per sé. Un caso esemplare è la legge sul “plagio” nel codice italiano (art. 603 del C.p.)»[18].
Se intuisco bene, vanno in una direzione convergente con questa i rilievi critici di Alessandra Facchi. La quale esordisce mettendo in chiaro qualcosa che, per noi giuristi, dovrebbe essere abbastanza ovvio: «che la verità costituisca un bene danneggiabile e espropriabile non implica che questo bene possa tradursi in un diritto soggettivo alla verità, inteso come pretesa legittimata e garantita in norme giuridiche. Non soltanto non è necessario ricorrere ai diritti individuali per sostenere un interesse collettivo, ma quest’ultimo non è sufficiente per sostenere un diritto soggettivo: ci vogliono bisogni e interessi individuali»[19]. Poi, però, Facchi si sposta sul terreno “epistemologico” più proprio di D’Agostini: «Innanzitutto mi pare importante circoscrivere l’oggetto del diritto: su cosa può vertere il diritto alla verità? Correttezza, esaustività, sincerità… rispetto a quali proposizioni o rappresentazioni possono essere giuridicamente tutelate?». E risponde: «A me pare che un ipotetico diritto alla verità come riferimento per giudici e legislatori possa vertere su proposizioni falsificabili. Si può cioè pretendere di sapere se è vera o falsa in modo giuridicamente rilevante l’affermazione che qualcosa si è verificato o si verificherà o no e con quali caratteri, o l’affermazione che un’opinione è stata espressa o no, in quali contesti e in quali forme; o l’affermazione che una norma – giuridica e/o sociale – esiste (è valida e/o vincolante). In tutti questi casi si tratta di fatti. Di una norma giuridica non si può dire se è vera, ma solo se è valida, cioè se esiste secondo i criteri dell’ordinamento in cui è inserita. Di un’espressione di fede non si può dire se è vera ma solo se esiste all’interno di un sistema di credenze». E Facchi conclude (questa parte del ragionamento) con una domanda che non può non richiamare alla memoria di tutti noi la fondazione “hobbesiana” del diritto positivo moderno: «Possiamo auspicare un ordinamento che in nome del diritto alla verità punisca o anche solo ostacoli una fede assumendola falsa, indipendentemente da altri danni che ha provocato o può provocare? È facile immaginare come potrebbe finire»[20].
Non me ne vorranno i lettori se abbandono qui la cronaca del dibattito. I testi sono tutti disponibili in rete, sul sito web del Centro Einaudi. Ai nostri fini, però, abbiamo già molta carne al fuoco. Tutt’al più, può essere utile riportare un’ultima affermazione di Franca D’Agostini, la quale, proprio in risposta ad Alessandra Facchi, coglie puntualmente un’esigenza teoretica assai stringente quando scrive, forse un po’ temerariamente, che «il fatto che la falsificazione di credenze complesse non sia facile non vuol dire che sia impossibile; il fatto che verità sottodeterminate non siano valutabili come verità categoriche non significa che non abbiano nessun valore di verità»[21]. E, soprattutto, vale la pena di riferire un ultimo passaggio di Alessandra Facchi, che, nel concedere a D’Agostini una premessa comune, afferma: «Correttezza, sincerità, esaustività, trasparenza hanno un ruolo centrale nella comunicazione, nella fiducia e nella cooperazione sociale, nella partecipazione democratica, nella salvaguardia della dignità e dell’autodeterminazione delle persone […] credenze condivise e stabili nel tempo contribuiscono all’integrazione sociale. Dal punto di vista soggettivo la verità è strettamente legata alla sicurezza, sapere di conoscere la verità ha una funzione di stabilità sociale e benessere individuale»[22]. Ecco una bella esemplificazione di tutti quei beni, interessi, valori, eccedenti la tutela in senso stretto di un diritto della personalità, che potrebbero meritare di essere tutelati non solo nei confronti del potere politico, ma anche in una “dimensione orizzontale”, di rapporti tra soggetti privati e pari ordinati. Ed ecco, soprattutto, un’ottima rassegna (compilata in tempi non sospetti, come si dice!) di tutti i profili del “bene giuridico” informazione (o, se si vuole: verità nell’informazione) che in qualche modo sono venuti in gioco nella recente vicenda dell’epidemia da COVID-19.
3. Un esempio dal coronavirus: “fatti”, teorie, decisioni politiche
Infatti, nel selezionare testi, opinioni, argomenti, ho avuto finora davanti sempre l’attuale stato delle cose, e del dibattito, intorno alla “corretta” informazione sul coronavirus. Di questo dibattito ora, a volo d’uccello, richiamerò alcuni profili, ritengo noti a tutti. In un primo momento, si è tornati a discutere del controllo politico sull’informazione: dei danni globali (ma, anche, ad avviso di qualcuno, dei vantaggi comparativi su scala nazionale) ascrivibili alla censura cinese; della strategia informativa seguita dall’amministrazione tedesca, che secondo alcune fonti di stampa avrebbe iniziato ad adottare provvedimenti restrittivi locali senza dare evidenza generale ai primi contagi, evitando in questo modo che all’emergenza sanitaria si sommasse fin da subito un’emergenza economica; o, ancora, dei “casi” rappresentati dalla Corea del Nord, dall’Iran, in misura diversa dalla Russia (in paesi connotati da una così scarsa trasparenza informativa, è possibile credere ai dati ufficiali sulla diffusione del virus?). In un secondo momento, si è iniziata una – difficile – operazione di fact checking sulle notizie immesse e condivise in rete da (sempre più numerosi) privati cittadini senza particolare competenza né scientifica né istituzionale, e lo si è fatto soprattutto con l’intento di persuadere la generalità degli “utenti” a conformarsi alle indicazioni delle autorità sanitarie e amministrative, senza lasciarsi fuorviare da fake news più o meno interessate. Sullo sfondo, tuttavia, è rimasta la generica convinzione che “loro sanno, e non ci dicono tutto quel che sanno”, via via specificantesi in svariate, e tra loro contraddittorie, “teorie del complotto” (virus prodotto in laboratorio per obiettivi strategici cinesi, e sfuggito di mano? Virus prodotto in laboratorio dagli Stati Uniti, o per loro conto da Israele, per ostacolare le strategie “imperiali” di Pechino? Virus diffuso dal “capitale internazionale” per piegare alcune economie nazionali, per completare il passaggio dall’industria manifatturiera all’economia digitale, per conculcare le libertà civili? E così via).
Vorrei allora isolare, e discutere brevemente, un esempio, che ritengo possa consentirmi di porre in evidenza i fondamentali problemi, sia epistemologici, sia giuridico-sociali, cui il dibattito teorico che ho riportato continuamente allude, ma che forse meritano di essere messi ancora più precisamente a fuoco.
L’esempio riguarda le politiche seguite, fino a pochi giorni fa, dal governo britannico presieduto da Boris Johnson. Mi pare che, ad oggi (20 marzo), nel Regno Unito non siano ancora state adottate misure coercitive di cd. “distanziamento sociale” per arginare la diffusione del coronavirus. Ma hanno fatto scalpore alcune dichiarazioni del premier, rilasciate lo scorso 12 marzo in conferenza stampa a Downing Street: l’ormai tristemente famoso «molte famiglie perderanno i loro cari», punta d’iceberg di un ragionamento più articolato secondo cui «il Paese si trova di fronte alla più seria emergenza sanitaria in una generazione» e tuttavia «prendere misure “draconiane” non farebbe grande differenza e potrebbe addirittura risultare controproducente»[23]. Il ragionamento sembrava chiarirsi alla luce della tesi espressa l’indomani a Sky News da Sir Patrick Vallance, medico, membro della Royal Society ma, soprattutto, Consigliere scientifico capo del governo del Regno Unito: secondo cui il Covid-19 «è una brutta malattia ma nella maggioranza dei casi ha soltanto sintomi lievi, […] il virus sarà stagionale e tornerebbe anche il prossimo inverno. Per questo è importante sviluppare un’immunità di gregge, per tenere sotto controllo il virus a lungo termine» e «con il 60% della popolazione infetta dal virus, avremmo una immunità di gregge»[24].
Nei giorni successivi, per lo meno in Italia, è stato tutto un mettere in discussione, nella comunità scientifica, la fondatezza delle tesi del dottor Vallance, evidenziando come il 60% di contagi ipotizzato per sviluppare l’immunità di gregge sia una percentuale del tutto aleatoria, in presenza di un virus del quale ancora non conosciamo il comportamento nel lungo periodo, che l’organismo umano non ha ancora mai imparato a riconoscere e contro il quale non disponiamo, ad oggi, di alcun vaccino; e come, d’altra parte, il numero di decessi cui si andrebbe incontro, mentre si attende di conseguire quella percentuale di contagi stimata utile per l’immunità di gregge, sia a tutti gli effetti incalcolabile, e forse molto superiore a quello che la popolazione britannica sarebbe disposta a tollerare.
Dibattito scientificamente del tutto legittimo, interessantissimo e molto utile; ma, questa è la mia impressione, dibattito che ha pochissimo a che vedere con una qualsiasi declinazione giuridica del tema della correttezza dell’informazione, o con il contenuto di un qualsiasi “diritto alla verità” della stregua di quelli ipotizzati da Franca D’Agostini. Per due ordini di motivi. Il primo: i “dati” presentati da Vallance non sono stati oggetto di una rilevazione empirica, ma sono stati generati da modelli matematici che presuppongono una “teoria” scientifica sull’evoluzione dell’epidemia. Ebbene, nei suoi aspetti “qualitativi” la teoria presupposta da Vallance (ed evidentemente accolta, almeno in un primo momento, dall’amministrazione Johnson) è pressoché identica a quella presupposta dagli scienziati di molte altre parti del mondo: secondo cui la curva del numero dei contagi può essere più “ripida” se non si adottano misure di cosiddetto “lockdown” (da noi, “quarantena”) ed esserlo molto meno se si adottano quelle misure; ma il numero complessivo delle persone che dovranno essere contagiate prima che l’epidemia raggiunga il suo “picco” non varia, mentre varierà il tempo occorrente per raggiungerlo, molto più lungo nel secondo caso, con evidenti effetti positivi per le capacità di cura del sistema sanitario ed evidenti effetti negativi per le capacità produttive della comunità nazionale (oltre che per l’esercizio delle libertà individuali). È in virtù di questa stessa (forma generale della) teoria, che l’OMS già da molte settimane ha raccomandato di adottare misure di contenimento per “rallentare” il contagio o “ritardare” il raggiungimento del picco, perché altrimenti i sistemi sanitari nazionali rischierebbero di non reggere all’impatto di troppe richieste di presa in cura e dovrebbero negare l’assistenza ad alcuni, o a molti. Rispetto a quest’ultimo punto, che è quello cruciale per la valutazione politica richiesta alle società democratiche, è certamente vero che con più tempo a disposizione si potrebbero escogitare e sperimentare protocolli terapeutici e di vaccinazione, o che il clima più caldo potrebbe mitigare la virulenza dell’epidemia: ma su entrambi questi aspetti ci troviamo attualmente in una situazione di assoluta incertezza, in cui (per definizione) è impossibile assegnare un valore numerico alla probabilità che gli eventi sperati si verifichino[25], e perciò è corretto non tenerne conto nell’elaborare una teoria scientifica con ambizioni predittive. In conclusione: quella che Vallance ha presentato è in buona sostanza una teoria, e come tale può e deve, in effetti, essere comunicata. E le teorie scientifiche si verificano (secondo l’epistemologia neo-empirista o neo-positivista, ancora in buona parte seguita nelle prassi della “comunità scientifica” in medicina o in biologia), ovvero si falsificano (secondo l’impostazione popperiana), ovvero, ancora, resistono finché ha presa nella società un insieme più generale di rappresentazioni con cui quelle teorie sono solidali, e che chiamiamo, con Thomas Kuhn, paradigma. Ma, allo stato attuale, nelle grandi linee, nulla di “definitivo” sappiamo della teoria corrente sulla propagazione del Covid-19; sicché non c’è materia per lamentare la violazione di un diritto alla verità dell’informazione, fino a quando le tesi di Vallance sono presentate, appunto, come dipendenti da una teoria. Purché l’utente (o meglio, dal mio punto di vista, il cittadino) sia preparato a capire cosa sia e che valore abbia, appunto, una “teoria”: ed è questo ciò di cui, semmai, si può e si deve dubitare.
Quel che ho detto finora, circa il sostanziale consenso sulle linee “qualitative” della teoria, non toglie che invece molto si possa discutere dei suoi aspetti “quantitativi”: che un’immunità di gregge prevista al 60 o al 90% di contagiati possa fare molta differenza, così come certamente la fa un numero atteso di 80, 8mila o 8 milioni di morti. Ma, così, veniamo al secondo ordine di motivi per cui il problema della “verità”, o anche solo della “trasparenza”, dell’informazione in questo caso è assolutamente marginale o, così come lo si vuole impostare abitualmente, è fuorviante. Ed è che, come sopra ho accennato, vi è una scelta politica la cui responsabilità grava sui governi e, indirettamente, sull’opinione pubblica delle società democratiche: ma questa scelta non è immediatamente tra economia e salute, o tra più morti probabili e meno morti sicuri. Piuttosto, se su un piatto della bilancia c’è la facile previsione di un forte rallentamento del ciclo economico, addirittura di un depauperamento della capacità produttiva dei paesi in termini di capitale umano e di infrastrutture, sull’altro piatto della bilancia c’è, se vogliamo limitarci a quel che possiamo razionalmente prevedere, la deliberata scelta (o quanto meno l’assunzione consapevole di un rischio elevato) di mettersi nella situazione in cui dover negare a qualcuno quel diritto all’assistenza sanitaria che, nelle nostre Costituzioni e nelle nostre culture civili, è configurato come diritto universale. Poiché i diritti, e specialmente quelli cd. “sociali”, hanno sempre un costo, ed è fattualmente possibile trovarsi in una situazione di scarsità di risorse, affermare che un diritto è universale significa orientare le politiche pubbliche in modo che ci siano sempre risorse per soddisfare le pretese di chiunque, derivanti dal riconoscimento di quel diritto (“pretese”, e non “aspettative”, è dunque il termine appropriato, con buona pace di Franca D’Agostini). E un diritto sancito come universale è violato quando anche una sola persona rimane senza cura per una scelta amministrativa discrezionale, sia pure dovuta ad obiettiva scarsità di risorse. Non importa quale aspettativa di vita abbia quell’unica persona. Non importa se alla scelta seguirà o no la morte di quell’unica persona. Non importa se a quella persona ne seguiranno altri milioni, o non ne seguirà nessun’altra. È questo, nella sua purezza, il conflitto di valori che ci si para davanti, in cui siamo chiamati a scegliere se rimanere fedeli alla nostra identità, costituzionale e culturale, ovvero optare per nuovi equilibri. I criteri di cui possiamo servirci per “inquadrare” l’alternativa, e scioglierla, si ritrovano nella tradizione secolare dell’etica normativa (penso, ad esempio, alla distinzione tra “uccidere” e “lasciar morire”) come del diritto della responsabilità civile e penale (penso, ad esempio, all’ardua distinzione tra “colpa cosciente” e “dolo eventuale”). Nella prassi, è perfino ovvio che gli aspetti quantitativi di una previsione possibile incidono, eccome, sulla nostra scelta; che più numerosi, e più vicini a noi, saranno i morti, più inclineremo a dare peso, nel bilanciamento, alla tutela del diritto all’assistenza sanitaria come diritto universale; che nessun diritto “sociale” può mai essere coerentemente tutelato in universale e che qualsiasi società si fa carico del rischio (calcolabile) di un certo numero di morti in nome della prosperità economica e del libero accesso dei più a beni anche voluttuari[26]. Ma, in linea di principio, i numeri in cui si concretano le capacità di previsione di una teoria “scientifica” non fanno alcuna differenza, rispetto all’opzione di valore che Johnson e i cittadini britannici (ma, anche e specularmente: Conte e i cittadini italiani) si stanno trovando a dover adottare. E, di nuovo, l’informazione è “corretta” se riesce ad isolare e ad evidenziare quest’opzione di valore, che una conoscenza dei “fatti” la più ampia possibile può supportare, ma dalla responsabilità della quale nessuna “notizia” ci può esonerare.
Per riassumere: oggi il capo del Governo presenta alla cittadinanza uno scenario prevedibile e le decisioni politiche che intende adottare (o non adottare) in vista di quello scenario; domani il suo consigliere scientifico presenta delle ragioni teoriche che sembrano suffragare la previsione di quello scenario, e indirettamente l’adozione di quelle decisioni politiche. Quanto ai profili della veridicità e della trasparenza, il dovere di una fonte di informazione è di presentare la seconda comunicazione come una teoria, con l’autorevolezza e i limiti di una teoria; e la prima come una decisione, che non è mai (per definizione, proprio in quanto è “decisione”) la conseguenza automatica di una teoria scientifica, ma il frutto di un bilanciamento di valori; e di chiarire quali siano questi valori, cioè quale sia, come si dice, la posta in gioco. Che queste distinzioni vengano recepite dai destinatari dell’informazione, sembra molto difficile, in virtù di una nostra tendenza spontanea a cercare “risposte” definitive che ci sollevino dall’onere di interpretare il messaggio e di attribuire (sotto la nostra responsabilità) un “peso” e un “valore” alle diverse possibilità. Ma non è una difficoltà che si superi attraverso l’istituzionalizzazione di una pretesa azionabile alla verità dei contenuti informativi.
Ce n’è abbastanza per abbozzare qualche conclusione. Credo che abbia perfettamente ragione Alessandra Facchi: un ipotetico diritto alla verità come riferimento per giudici e legislatori può vertere solo su proposizioni falsificabili. E non credo che colga nel segno Franca D’Agostini, quando obietta che «il fatto che la falsificazione di credenze complesse non sia facile non vuol dire che sia impossibile»[27]. Sul piano teoretico, io sarei ancor più prudente di quanto lo sia Facchi: non solo tra le credenze “complesse”, ma anche tra quelle più “semplici”, sono pochissime quelle rigorosamente “falsificabili” e, al tempo stesso, ricche di contenuto informativo. Ma, in più, direi che il piano su cui siamo invitati a discutere non è tanto quello teoretico, ma quello normativo: non si tratta di “cosa c’è davvero” (ed eventualmente di “com’è fatto quel che c’è”), ma di quali ragioni (più o meno forti o valide e coerenti) abbiamo per qualificare normativamente una proposizione, attribuendole la modalità deontica del vietato o dell’obbligatorio o del facoltativo, attraverso le specifiche sanzioni. Ora, tra i professionisti intellettuali che lavorano con il linguaggio, il giurista è probabilmente, per formazione e per esperienza, il più attrezzato a comprendere due tesi (in sé non strettamente giuridiche, ma di filosofia teoretica), di cui sono profondamente convinto, e che adesso enuncerò. La prima: che è molto più facile determinare (tipizzare, per il giurista; semantizzare, per il logico) cosa sia “dire il falso”, e sanzionarlo per il danno che, eventualmente, può produrre, piuttosto che determinare cosa sia “dire il vero”; e questo, tra l’altro, perché non tutte le proposizioni che non sono false sono allora, per ciò solo, vere, dato che esiste un gran numero di proposizioni, in ogni momento nel tempo, che non sono né (sicuramente) false né (sicuramente) vere (per esempio, secondo Facchi «si può pretendere di sapere se è vera o falsa in modo giuridicamente rilevante l’affermazione che qualcosa […] si verificherà o no», ma il vecchio problema metafisico dei “futuri contingenti”, discusso già da Aristotele, dovrebbe dimostrare il contrario, e il molto più recente paradosso quantistico del “gatto di Schrödinger” dovrebbe dare il colpo di grazia a questa pretesa). Ed ecco la seconda tesi: nella vita sociale i “fatti”[28], o gli “stati di cose”, su cui vertono le proposizioni puramente descrittive (cd. verofunzionali), si intrecciano continuamente con livelli molteplici di qualificazione, o di attribuzione di senso, che possono essere “interpretativi” (i concetti e i relativi “piani di immanenza concettuale”, di cui parla Deleuze; le “teorie”; le “rappresentazioni”; in fin dei conti, qualsiasi vera “informazione”, in quanto messa-in-forma[29]) o “prescrittivi” (i giudizi di valore o di disvalore su certi comportamenti, cui si imputano normativamente determinate conseguenze); da questi molteplici livelli di qualificazione i fatti non saranno magari “inestricabili”, ma, senza di essi, sono ben poco interessanti, ben poco utili e per lo più, a dire il vero, anche ben poco dannosi.
Proprio da queste due tesi derivano come conseguenza logica, a me pare, due conclusioni, che in ultimo sottopongo alla discussione: che la strategia dei doveri negativi (di punire chi, dicendo il falso, arreca un danno) sia giuridicamente più percorribile rispetto alla strategia dei diritti (di pretendere la verità delle comunicazioni cui siamo esposti, in via generale e astratta); e che un’eccessiva enfasi sui fatti e sulla loro comunicazione veritiera rischia di indebolire l’appello alla responsabilità degli utenti-cittadini per i giudizi che, a partire dalle informazioni ricevute, essi sono chiamati a formulare, facendosene carico, senza che nessuno possa somministrare loro soluzioni preconfezionate, sull’assunto (falsamente) fattualistico che “non c’è alternativa”.
[1] O. Pollicino, L’efficacia orizzontale dei diritti fondamentali previsti dalla Carta. La giurisprudenza della Corte di giustizia in materia di digital privacy come osservatorio privilegiato, in MediaLaws – Rivista dir. media, 3, 2018, pp. 138-163, qui p. 139 con riferimento a R. Alexy, Teoria dei diritti fondamentali, tr. it. Il Mulino, Bologna 2012, pp. 570 s.; ma nello stesso testo si può trovare un’ampia bibliografia, rappresentativa del più recente dibattito (specie in lingua inglese) su un tema fondamentale del diritto costituzionale comparato.
[2] M. Tushnet, Shelley v. Kraemer and Theories of Equality, in New York Law School Law Review, 33, 1988, pp. 383 ss.
[3] «Mentre i filosofi tedeschi, facendo uso di un concetto di persona normativamente saturo e di un concetto di natura metafisicamente sostanzioso, discutono con un certo scetticismo se sia il caso di sviluppare ulteriormente la tecnica genetica (soprattutto per quanto riguarda la coltivazione di organi e la medicina riproduttiva), i colleghi americani si preoccupano invece di come si possa implementare uno sviluppo che in linea di principio non viene più messo in discussione e che, passando per le terapie genetiche, sembra destinato a sfociare nello “shopping in the genetic supermarket”. Queste tecnologie produrranno senz’altro interferenze sconvolgenti nel nesso delle generazioni. Ma agli occhi dei colleghi americani – che la pensano in modo pragmatico – le nuove pratiche, lungi dal sollevare questioni di tipo inedito, si limitano a radicalizzare vecchie questioni di giustizia distributiva».
[4] J. Habermas, Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, tr. it. Einaudi, Torino 2002, pp. 77 s. Sulla «teoria di matrice tedesca» della Drittwirkung dei diritti fondamentali, che «dopo aver preso il via dalla giurisprudenza coraggiosa, appunto, delle corti tedesche a partire dagli anni ’50, è diventata familiare anche per altre corti costituzionali europee ma anche per la Corte europea dei diritti dell’uomo nonché […] per la Corte di giustizia dell’Unione europea» (O. Pollicino, op. cit., p. 140), v. ora, in italiano, almeno gli Atti del Convegno a cura di E. Navarretta, Effettività e Drittwirkung. Idee a confronto, Pisa, 24-25 febbraio 2017, Giappichelli, Torino 2017.
[5] Ma nel nostro dibattito storico-politico si è affermata come formula emblematica quella del “MinCulPop”, abbreviazione per il “Ministero per la Cultura Popolare”, succeduto nel 1937 al Ministero per la Stampa e la Propaganda ed affidato a lungo ad Alessandro Pavolini.
[6] Nel diritto civile italiano, i riferimenti sono, da un lato, l’art. 21 Cost., dall’altro gli artt. 7-10 cod. civ., la l. 22 aprile 1941, n. 633 (sul diritto d’autore), la l. 8 febbraio 1948, n. 47 (sulla stampa), la l. 3 febbraio 1963, n. 69 (sull’ordinamento della professione di giornalista), con i successivi aggiornamenti; v., per un primo e generalissimo inquadramento, F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, ESI, Napoli 200310, pp. 175-189. A partire dal D. lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (recante il “Codice in materia di protezione dei dati personali”), si è poi aggiunta una legislazione copiosa ed eterogenea sul “diritto alla privacy”.
[7] O. Pollicino, op. cit., p. 139.
[8] Sugli effetti di quei fenomeni che nella letteratura anglosassone si chiamano “echo chambers” e “filter bubbles” v., in prima approssimazione, S. Bentivegna-G. Boccia Artieri, Le teorie delle comunicazioni di massa e la sfida digitale, Laterza, Roma-Bari 2019; importanti prospettive critiche in P. Dominici, Dentro la società interconnessa. La cultura della complessità per abitare i confini e le tensioni della civiltà ipertecnologica, FrancoAngeli, Milano 20192.
[9] Per alcuni esempi in questa direzione, in una bibliografia vastissima mi piace suggerire il breve e puntuale articolo di S. Panero, Libertà di stampa e responsabilità dei media, postato il 25 novembre 2019 sul sito del Movimento Studentesco per l’Organizzazione Internazionale: v. https://www.msoithepost.org/2019/11/25/liberta-di-stampa-e-responsabilita-dei-media.
[10] F. D’Agostini, Diritti aletici, “Biblioteca della libertà”, LII, n. 218, gennaio-aprile 2017, pp. 5-42; v. anche Ead., Risposte, chiarimenti e ipotesi, ivi, pp. 89-126.
[11] Ead., Diritti aletici, cit., p. 6, con riferimento a S. Rodotà, “Il diritto alla verità”, in Il diritto di avere diritti, Laterza, Bari-Roma 2012, pp. 211-231, qui 217.
[12] Ead., Diritti aletici, cit., pp. 14 s.
[13] Ivi, pp. 15-25.
[14] A. E. Galeotti, La difficile convivenza di veritò e inganno, “Biblioteca della libertà”, LII, n. 218, gennaio-aprile 2017, pp. 81-87, qui p. 84.
[15] M. Ferrera, L’anima aletica della democrazia liberale, ivi, pp. 67-79, qui p. 74.
[16] F. D’Agostini, Risposte, chiarimenti e ipotesi, cit., p. 101.
[17] Il riferimento è a S. Rodotà, “Il diritto alla verità”, cit., pp. 226 e ss.
[18] F. D’Agostini, Diritti aletici, pp. 7 s.
[19] A. Facchi, La verità come interesse collettivo, “Biblioteca della libertà”, LII, n. 218, gennaio-aprile 2017, pp. 51-65, qui p. 53.
[20] Ivi, pp. 55 s.
[21] F. D’Agostini, Risposte, chiarimenti e ipotesi, cit., p. 102.
[22] A. Facchi, La verità come interesse collettivo, cit., p. 51.
[23] Così la corrispondenza di Luigi Ippolito sul “Corriere della Sera” del 14 marzo 2020.
[24] I virgolettati sono tratti dalla corrispondenza di Antonello Guerrera su “La Repubblica” del 13 marzo 2020.
[25] Sulla distinzione tra “rischio” e “incertezza”, fissata dall’economista F. H. Knight nel 1921, v. dal punto di vista epistemologico almeno S. O. Funtowicz-J. R. Ravetz, Uncertainty and Quality in Science for Policy, Kluwer, Dordrecht 1990, nonché, degli stessi autori, Uncertainty, complexity and post-normal science, “Environmental Toxicology and Chemistry”, vol. 13, n. 12, 1994, pp. 1881-1885.
[26] Lo ha dimostrato Guido Calabresi in due libri fondamentali, Scelte tragiche (Tragic Choices, con Philip Bobbitt, W.W. Norton & Company, New York 1978; tr. it. Giuffrè, Milano 1986), e soprattutto Il dono dello spirito maligno (“The gift of the Evil Deity”, in Ideals, Beliefs, Attitudes and Law, Syracuse University Press, New York 1985; tr. it. Giuffrè, Milano 1996; un’interessante ripresa è in S. Amato, Coazione, coesistenza, compassione, Giappichelli, Torino 2002). Sulla situazione attuale v. lo scritto breve ma folgorante di Luciano Sesta, Conte per l’epidemia, Johnson per la tabaccheria, disponibile all’indirizzo https://sfero.me/article/conte-epidemia-johnson-tabaccheria.
[27] Sulle buone ragioni teoretiche che inducono Franca D’Agostini a questa replica v., oltre ai suoi scritti (in particolare, e in prima approssimazione, Introduzione alla verità, Bollati Boringhieri, Torino 2011), il dibattito contenuto in M. De Caro-M. Ferraris (a cura di), Bentornata realtà. Il nuovo realismo in discussione, Einaudi, Torino 2012 in cui sono discusse molte cose interessanti e che trova forse il suo punto filosoficamente meno soddisfacente proprio nel contributo di Maurizio Ferraris (del quale comunque v., proprio sul nostro tema, Postverità e altri enigmi, Il Mulino 2017).
[28] Uso le virgolette, per alludere alla tesi (che sostengo) per cui la stessa “empiricità” del fatto è sempre frutto di un’interpretazione. Questo, nessuno lo sa bene come i giudici; ma, nella letteratura filosofica, v. per esempio le lezioni di Wilfrid Sellars del 1956, The Myth of the Given, poi in Empiricism and Philosophy of Mind (1963), ora con introduzione di R. Rorty e un saggio di R. Brandom, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1997; tr. it. Empirismo e filosofia della mente, Einaudi, Torino 2004. V. anche D. Sacchi, Evidenza e interpretazione. Argomenti per una riflessione sulla struttura originaria del sapere, Vita e Pensiero, Milano 1988; e, per un approfondimento storico, i due testi epocali di M. Cacciari, Krisis. Saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein, Feltrinelli, Milano 1977, e A. G. Gargani, Il sapere senza fondamenti, Einaudi, Torino 1975.
[29] Come ha ricordato Bruno Montanari nel suo contributo di una settimana fa a “Giustiziainsieme”, Informazione e comunicazione: tra reattività e riflessione.Giovanni Magrì
Tra Roma e Monaco di Baviera, un grande giudice: Vincenzo Di Cerbo
di Guido Raimondi
Quando Paola Filippi e Roberto Conti mi hanno detto che Giustizia insieme non poteva lasciar passare il 70° compleanno di Vincenzo Di Cerbo senza che la Rivista celebrasse degnamente la conclusione del suo percorso in magistratura, e di aver pensato a me per la redazione di uno scritto a lui dedicato, ho avuto qualche preoccupazione per la responsabilità che gli amici Paola e Roberto consegnavano nelle mie mani. Mi sono sentito però, oltre che onorato, felice di avere l’occasione di esprimere, una volta di più, la mia immensa considerazione per le straordinarie qualità professionali e umane di un grande magistrato, per l’appunto Enzo Di Cerbo.
Mi sia consentita una notazione personale. Sono da sempre un ammiratore di Enzo Di Cerbo, che è un esempio per tutti i magistrati e quindi anche per me. Un esempio per la passione sempre profusa per il lavoro di giudice, inteso come servizio per la collettività e di elemento essenziale della democrazia, per il rigore dei comportamenti, la continua tensione verso lo sviluppo e l’affinamento delle proprie competenze professionali e l’assoluta integrità. Non avevo però avuto modo di frequentarlo molto, sino all’anno scorso, quando, nel mese di maggio, ho fatto ritorno alla Corte di cassazione dopo un’assenza notevolmente lunga. In quel momento Enzo, Presidente titolare della Sezione Lavoro, mi ha accolto in sezione, prima come consigliere, poi come presidente non titolare, accordandomi subito una fiducia e un credito che non davo assolutamente per scontati. Sebbene avessi ricoperto durante la mia assenza responsabilità di un certo rilievo, sarebbe stato del tutto legittimo dubitare, da parte sua, delle mie reali capacità di riadattarmi ad una Corte che, nel frattempo, aveva conosciuto riforme profondissime. Non è stato questo il caso. Enzo mi ha fatto sentire subito di nuovo a casa, integrandomi in quella meravigliosa struttura che è la Sezione Lavoro della Corte di cassazione, e facendomi il dono prezioso della sua amicizia. Un gran colpo di fortuna per chi scrive!
La carriera di Vincenzo Di Cerbo, nel cui contesto la Corte di cassazione e il diritto del lavoro occupano un posto assolutamente eminente, è molto ricca e rivela la varietà dei suoi interessi culturali, oltre che la sua capacità a guardare al di là dell’orizzonte puramente nazionale e la sua passione per l’innovazione, con costante attenzione ai modi di utilizzazione delle nuove tecnologie a servizio della funzione giurisdizionale.
Tre principali direttrici sono evidenti nello straordinario percorso professionale di Enzo Di Cerbo: il diritto del lavoro, praticato da giovane magistrato come giudice monocratico di primo grado, in seguito, ancor giovane, ma con una già lunga esperienza, da giudice di appello, poi al Massimario della Corte di cassazione, ed infine alla Corte, prima come consigliere, poi come presidente di sezione e Presidente titolare della Sezione Lavoro; il diritto della proprietà intellettuale, del quale si è occupato ad altissimo livello come giudice dei Boards of Appeal dell’Ufficio europeo dei brevetti di Monaco di Baviera; l’informatica giuridica e le nuove tecnologie, settore nel quale egli ha esercitato le importantissime funzioni di Direttore del C.E.D., il Centro elettronico di documentazione della Corte di cassazione.
Tutti e tre questi campi hanno poi offerto a Vincenzo Di Cerbo spunti per una vasta produzione scientifica e per un’importante attività nel campo della formazione, in particolare assicurando per molti anni l’insegnamento del Diritto del lavoro presso la scuola di perfezionamento per le professioni legali - Università degli Studi di Roma "La Sapienza" e contribuendo a molteplici attività della Scuola della Magistratura e delle strutture di formazione decentrata.
La lunga esperienza di Enzo Di Cerbo come giudice lavorista è stata importante nei gradi di merito, ma ha certamente raggiunto la sua piena maturità presso la Cassazione. La Corte di cassazione deve molto a Di Cerbo, il cui contributo in tutte le responsabilità assunte presso il giudice di legittimità, dal Massimario a quella di consigliere e di presidente, e a quella di Direttore del C.E.D., senza contare quella di componente del Consiglio direttivo, di Presidente della Commissione Flussi e tante altre, è stato sempre offerto a livelli di eccellenza. Tra queste responsabilità, la più visibile è senza dubbio quella – che egli ha appena lasciato – di Presidente titolare della Sezione Lavoro.
Non è questa la sede per analizzare l’imponente azione svolta sul piano organizzativo da Enzo Di Cerbo nel quadro della Sezione Lavoro della Corte di cassazione. Basti dire che, come ha osservato egli stesso, sotto la sua guida la Sezione Lavoro ha cercato in particolare di cogliere le potenzialità gestionali offerte dalla legge 26 ottobre 2016 n. 197, di conversione del D.L. n. 168 del 31 agosto dello stesso anno, aumentando l’impegno relativo all’esame preliminare dei ricorsi garantito dall’Ufficio spoglio sezionale in stretto coordinamento con quello sotto sezionale corrispondente presso la Sezione Sesta, e all’inserimento dei relativi risultati nel sistema informatico della Corte, in modo da rendere possibile un’analisi immediata e allo stesso tempo articolata dell’intero contenzioso sulla base dello strumento informatico. Ciò al fine di consentire una gestione del contenzioso che, anche in deroga rispetto al tradizionale criterio della trattazione dei processi secondo l’ordine cronologico stabilito dalla data di presentazione del ricorso, consenta l’agevole accorpamento delle cause sulla base dell’identità delle questioni giuridiche trattate, delle materie affrontate e delle relative problematiche. Tutto questo in coerenza, del resto, con le indicazioni contenute nelle “Tabelle di organizzazione” vigenti, nelle quali viene esplicitamente espresso un orientamento favorevole ad un modello organizzativo che privilegi, nell’ambito della singola sezione, oltre alle udienze seriali, anche le udienze monotematiche.[1]
Ho posto l’accento su quest’azione, una tra le tante iniziative realizzate da Di Cerbo sul piano organizzativo, perché essa riflette una sua costante preoccupazione, che chi scrive condivide profondamente, circa la funzione della Corte di cassazione. L’esigenza cioè, per usare le sue parole, del “… formarsi di una giurisprudenza di legittimità che, evitando contrasti giurisprudenziali che non siano frutto di un approfondito dibattito all’interno del collegio o, nei casi più rilevanti, dell’intera sezione, offra agli operatori del diritto e, in particolare ai giudici del merito e al foro, principi di diritto più coerenti ed affidabili.”[2]
Sia consentito a chi scrive sottolineare non solo la grande importanza di questo obiettivo in una società democratica, ma anche la sua piena sintonia con una delle affermazioni sulle quali la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo insiste con maggior forza, quella cioè della sécurité juridique, senza la quale non vi è un buon funzionamento dello Stato di diritto, e che riposa sulla stabilità e sull’affidabilità della guida che le corti supreme devono offrire alla comunità giuridica con la loro giurisprudenza.
Come componente giurista delle Camere di ricorso (Boards of Appeal) dell’Ufficio europeo dei brevetti, Enzo Di Cerbo ha partecipato da membro del collegio giudicante alla trattazione e decisione di oltre quattrocento procedimenti. In particolare, è stato estensore di alcune rilevanti decisioni che sono state pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale dell'Ufficio Europeo dei Brevetti (EPO Official Journal). Fra queste merita di essere ricordata la decisione T 1173/97 IBM - Computer program product, la prima in tema di brevettabilità del software, decisione che ha avuto larga eco in Europa e negli Stati Uniti.
Le realizzazioni di Enzo Di Cerbo nell’ambito del C.E.D. sono innumerevoli, e non è possibile ricordarle tutte in questa sede. Una però mi sembra particolarmente importante, anche perché in linea con la sua costante preoccupazione sulla qualità e la coerenza della giurisprudenza di legittimità. Mi riferisco al cosiddetto "ARCHIVIO RUOLI" - all'interno del SIC (Sistema Informativo della Cassazione). Si tratta di un programma di "navigazione", pienamente operativo, attraverso i singoli fascicoli processuali; il programma consente, fra l'altro, di effettuare, in modo rapido, facile ed intuitivo, ricerche incrociate attraverso parole chiave e altri elementi identificativi, così da migliorare, anche facilitando l'opera di accorpamento dei ricorsi, le capacità di gestione del contenzioso e ad evitare contrasti inconsapevoli di giurisprudenza.
A proposito dell’attività scientifica e di formatore di Enzo Di Cerbo, senza riprodurre qui l’elenco delle sue numerosissime pubblicazioni e delle sue molteplici attività accademiche e di formazione, vorrei semplicemente esprimere una volta di più la mia ammirazione per la sua parola – scritta e non – una parola sempre chiara, sempre competente, sempre accessibile.
* * *
Si dice che siamo tutti necessari, ma nessuno è indispensabile. Forse è vero, quando si pensa ad istituzioni importanti e complesse come la Corte di cassazione, ma lasciatemi dire, ed è un pensiero strettamente personale, che per me questa Corte non sarà la stessa senza Enzo.
Fortunatamente non sarà senza Enzo la mia vita, e quella dei tanti colleghi della Corte – e di tanti altri – che sono onorati dalla sua amicizia e che potranno goderne, è un auspicio forte e sincero, per tanti, tantissimi, anni a venire.
A lui e alla sua bellissima famiglia gli auguri più affettuosi.
[1] V. DI CERBO e AMENDOLA, Misure organizzative per la nomofilachia: l’esperienza della sezione lavoro della Corte di Cassazione, in Lavoro, Diritti, Europa, Rivista on line, pubblicato il 25 luglio 2019, disponibile in rete.
[2] DI CERBO, Informatica e giudizio di cassazione, in ACIERNO, CURZIO e GIUSTI (eds.), La Cassazione civile, Lezioni dei magistrati della Corte suprema italiana, Bari, 2015, p.586.
Roberto Giovanni Conti
Intervista a Luigi Ferrajoli, Emerito di Filosofia del diritto, Università di Roma Tre
Antonio Ruggeri, Emerito di Diritto costituzionale, Università di Messina
Luciano Eusebi, Ordinario di Diritto penale, Università Cattolica di Milano
Giorgio Trizzino, medico, parlamentare
1.Le domande. 2. La scelta del tema. 3. Le risposte. 4. Le conclusioni.
1. Le domande
1. Le notizie drammatiche in questi tempi veicolate dalle autorità coinvolte e dai mass media hanno fortemente insistito sul fatto che la maggiore pericolosità del Covid-19 coinvolge le persone in età avanzata, al punto da diffondere le notizie circa i decessi sempre collegate all’età anagrafica avanzata.
Rispetto all’emergenza di una terapia intensiva tra pazienti di diversa età affetti da gravi patologie respiratorie, la scelta rimessa al sanitario o all’equipe che si dovesse trovare a non potere soddisfare contemporaneamente le urgenze di diversi pazienti gravi deve seguire delle regole deontologiche, sanitarie ed etiche. Queste scelte sono condizionate dall’età del paziente, dalla gravità delle sue condizioni, dalle prospettive di successo dell’intervento sanitario. Qual è la sua opinione?
2. In questo periodo si è spesso tornato a riflettere sul rapporto fra scienza e diritto. Il tema della prima domanda può secondo Lei essere affrontato dando prevalenza alle regole tecniche della medicina o della scienza e in che misura espone il soggetto chiamato a scegliere a responsabilità di natura giuridica o etica?
3. Dal punto di vista filosofico la decisione di posporre l’intervento sanitario in un caso di impossibilità di fare fronte a diversi interventi è governata secondo Lei da un’etica dei diritti? La scelta tragica fra diversi diritti che non possono trovare tutti contemporanea soddisfazione merita un esame comparativo di tipo soggettivo ovvero una prospettiva più ampia? In altri termini, la scelta va fatta unicamente orientando l’indagine sul profilo del singolo paziente e dei tempi di ricovero o deve coinvolgere anche una prospettiva solidaristica che guarda alla società, al beneficio che essa potrebbe avere in relazione alle scelte adottate dal sanitario?
4. Nell’ipotesi in cui il diritto alla assistenza sanitaria venisse limitato secondo criteri di priorità dal legislatore, riterrebbe opportuno anche riconoscere e garantire ai sanitari un diritto alla obiezione di coscienza come normativamente previsto, ad esempio, nei casi di sperimentazione animale, procreazione medicalmente assistita e interruzione volontaria di gravidanza? Ed in caso di mancato riconoscimento normativo di un diritto di “obiezione” quali scenari pensa si aprirebbero in concreto negli ospedali italiani?
2.La scelta del tema
Roberto Giovanni Conti
L’emergenza nazionale ed internazionale prodotta dal Covid-19 sta ponendo interrogativi bioetici e biogiuridici di grande spessore. Giustizia Insieme intende offrire al suo pubblico di lettori delle riflessioni su alcuni dii questi interrogativi, coinvolgendo filosofi del diritto, giuristi bioeticisti e medici.
3. Le risposte
1. Le notizie drammatiche in questi tempi veicolate dalle autorità coinvolte e dai mass media hanno fortemente insistito sul fatto che la maggiore pericolosità del Covid-19 coinvolge le persone in età avanzata, al punto da diffondere le notizie circa i decessi sempre collegate all’età anagrafica avanzata.
Rispetto all’emergenza di una terapia intensiva tra pazienti di diversa età affetti da gravi patologie respiratorie, la scelta rimessa al sanitario o all’equipe che si dovesse trovare a non potere soddisfare contemporaneamente le urgenze di diversi pazienti gravi deve seguire delle regole deontologiche, sanitarie ed etiche. Queste scelte sono condizionate dall’età del paziente, dalla gravità delle sue condizioni, dalle prospettive di successo dell’intervento sanitario. Qual è la sua opinione?
Luciano Eusebi
Ritengo innanzitutto che la drammaticità della situazione – scrivo da una delle zone lombarde più tremendamente colpite – non debba giustificare soluzioni semplificatorie, che possano far pensare, o aprire la strada, a comportamenti di selezione a priori tra categorie di malati. La vicenda del coronavirus non deve davvero essere utilizzata per dare una parvenza di eticità, anche per il futuro, a prospettive di questo genere. I medici in prima linea hanno continuato a ripetere, in questi giorni, che le valutazioni di futilità o comunque di proporzionatezza circa l’utilizzo delle risorse sanitarie disponibili sono riferite, caso per caso, all’insieme delle condizioni di salute di una data persona, e non a un solo fattore (per esempio l’età) da solo discriminante. E proprio in questo senso hanno cercato di dilatare al massimo, anche nei modi più impensabili, le risorse disponibili, soprattutto con riguardo alle postazioni di terapia intensiva e semintensiva: senza che in alcun momento si sia ceduto a considerare tali risorse come un presupposto dato, rispetto al quale vi fosse, asetticamente, da operare una selezione.
Semmai, si tratta di trarre da tutto questo qualche insegnamento per il futuro (una gran bella parola, che eravamo troppo abituati a dare per scontata). È necessario tornare a valorizzare lo Stato sociale, anche rispetto all’enfasi su certi diritti solo individuali, che rischiano di volatilizzarsi come neve al sole di fronte a difficoltà del tipo di quella attuale, che si possono affrontare soltanto “insieme”. Ed è necessario tornare a riflettere, altresì, sul rapporto tra Stato sociale e mercato: è inaudito il fatto per cui stiamo rischiando di rimanere – addirittura – senza personale sanitario in prima linea nella battaglia contro il coronavirus perché in Italia nessuna impresa aveva interesse a produrre mascherine e camici per uso medico, che invece sarebbero necessari per tutti i cittadini (in Cina sono stati utilizzati con successo da tutti i cittadini). E ciò vale, almeno in parte, anche per i respiratori. Che lo Stato si occupi di tutelare, in primis, la sicurezza delle persone non vuol dire essere contro il mercato, ma contro l’esasperazione delle sue logiche. Abbiamo le scorte di gas e di petrolio, ma ci siamo accorti di non avere risorse banali ma essenziali per fini sanitari, nonostante la qualità del nostro impagabile Sistema Sanitario Nazionale.
E allora bisogna dire che, per scongiurare ogni tentazione di rottamazione futura dei soggetti deboli (in altre parole, la Caporetto dell’art. 2 della Costituzione), dobbiamo accettare l’idea che le risorse prioritarie devono essere destinate alla tutela delle persone, piuttosto che all’incentivazione dei consumi voluttuari. Del resto, anche produrre respiratori genera PIL. Ciò, tuttavia, rimanda a un nodo di fondo: dobbiamo accettare di essere più poveri, dal punto di vista dei beni di consumo, per essere più ricchi, dal punto di vista della tutela delle condizioni di vita (dalla sanità, al lavoro, all’istruzione, alle pensioni).
Ma c’è un altro punto, che forse proprio il giurista può meglio intendere. Da sempre, insegnando diritto penale, cerco di far capire come la giustizia non si identifichi con dinamiche di corrispettività, secondo le quali a un giudizio negativo nei confronti dell’altro sarebbe logico rispondere in modo altrettanto negativo. Le dinamiche di competizione tra Stati e tra sistemi socio-economici stanno portandoci alla distruzione: e non solo perché da tre quarti di secolo disponiamo degli strumenti capaci di por fine alla storia dell’umanità. Quando vedo volteggiare sopra la mia casa, perché vivo nelle vicinanze di uno dei più importanti aeroporti militari italiani, un F15 o qualcosa di simile, non posso non pensare, in questi giorni, a quanti posti di terapia intensiva corrisponda (non fate il conto, rimarreste esterrefatti) il suo costo. Eppure non possiamo, da soli, rinunciare alla difesa. E allora c’è la necessità di un movimento dal basso tra tutti i popoli il quale porti a dire ai Governi che non ce ne importa più nulla delle logiche di competizione, le quali sottraggono risorse indispensabili per il bene delle persone e dei popoli, perché ormai avvertiamo ciò che papa Francesco e il grande iman di al-Azhar hanno definito, insieme, come il senso di una fratellanza universale.
Luigi Ferrajoli
Siamo di fronte a un tipico caso di scelte tragiche. Considero peraltro inaccettabile assumere l’età del paziente come criterio di scelta in tali decisioni. Un simile criterio contraddice il principio del valore e della dignità della persona in quanto tale, quali che siano le sue caratteristiche personali. Il solo criterio accettabile, a me pare, è quello rappresentato dalle prospettive di successo dell’intervento sanitario. È poi evidente che un simile criterio favorirebbe – di solito, ma non sempre – le persone più giovani: ma non in quanto più giovani, bensì per le maggiori probabilità di guarigione che su di loro avrebbe l’intervento.
Antonio Ruggeri
Desidero fare una duplice premessa prima di rispondere al quesito che ci è stato posto.
La prima si richiama alla magistrale lezione teorica schmittiana, secondo cui ogni valore costituzionale tende – come si sa – alla propria tirannica affermazione: i conflitti tra i valori fanno, dunque, parte delle quotidiane esperienze giuridiche, in ispecie di quelle che si svolgono presso le aule in cui si amministra la giustizia, comune o costituzionale che sia. Si dà un canone fondamentale, diciamo pure una sorta di “metavalore”, che presiede alle dinamiche dei valori quali prendono forma in occasione del loro “bilanciamento”, ed è quello della ricerca – non di rado assai impegnativa e sofferta – del punto ottimale di sintesi e di appagamento dei valori stessi, ovverosia, in buona sostanza, dei beni della vita evocati dai casi; il che, poi, equivale alla ricerca dell’affermazione magis ut valeat della Costituzione nel suo insieme, quale tavola dei valori fondamentali di una comunità politicamente organizzata e delle regole di articolazione dei poteri al servizio degli stessi. Insomma (e più semplicemente), si tratta di puntare ad un esito del “bilanciamento” stesso che comporti il minor costo possibile per i valori nel loro fare “sistema” o – il che è praticamente lo stesso – che porti a fissare il più in alto possibile il punto di sintesi degli stessi.
Deve, poi, essere chiaro che “bilanciare” non è – ahimè – molte volte dare congiunta e paritaria soddisfazione ai beni suddetti (ed è, perciò, che reputo giusto riportare tra virgolette il termine); purtroppo, molte volte i casi della vita obbligano, infatti, a scelte dolorose, talora tragiche, che inducono a mettere da canto – sia pure solo per un caso – un bene per far posto ad un altro, giudicato meritevole di prioritaria protezione, fermo restando che in casi oggettivamente diversi la soluzione può presentarsi parimenti diversa. Un giudizio, poi, che fatalmente risente dell’ideologico (o, più largamente, culturale) preorientamento di chi lo compie e che, nondimeno, richiede pur sempre di andare soggetto al sindacato secondo ragionevolezza, qui intesa in una delle sue più dense, genuine e qualificanti espressioni, vale a dire quale congruità, a un tempo, rispetto alla situazione di fatto vista nel suo complesso ed alla tavola dei valori, essa pure riguardata nel suo insieme, per il modo con cui i valori stessi fanno – come si diceva – “sistema”. Ragionevole, insomma, è ogni soluzione che comporti il minore stress possibile per la Costituzione e gli interessi da questa protetti, dai casi della vita portati ad entrare in reciproco conflitto.
La seconda premessa riguarda il “posto” che è da riconoscere alle situazioni di emergenza nelle operazioni di “bilanciamento”. Non mi soffermo qui, non essendovene la necessità, sul problema definitorio di ciò che propriamente può dirsi “emergenza”, quali ne sono i confini concettuali e gli indici esteriori idonei a darne un sia pur relativamente sicuro riscontro. Considero, infatti, fuori discussione che la condizione del tempo presente rientri a pieno titolo in tale categoria[1].
Desidero, nondimeno, fare al riguardo una precisazione[2]. Non so se la diffusione del virus che ci affligge avrebbe potuto essere arginata con l’adozione di misure ancora più tempestive ed incisive di quelle draconiane e assolutamente inusuali poste in essere; so, però, che alcune emergenze, in ambito sanitario come pure in altri campi, avrebbero potuto essere evitate o, quanto meno, contenute nei loro effetti devastanti sol che si fossero adottati per tempo i necessari provvedimenti. Vi sono emergenze, quali quelle conseguenti ai terremoti, che risultano ad oggi imprevedibili ed altre invece, quali quelle riportabili al dissesto dei territori o alle malattie trasmesse dagli animali agli uomini (le c.d. zoonosi), dovute alla insipienza degli uomini stessi[3]. Ho più volte deplorato il modo di pensare e di operare di chi, muovendo dall’assunto che la situazione di fatto è quella che è, rinvengono in essa la giustificazione a “copertura” di misure straordinarie e gravosissime poi adottate per farvi fronte. Se, per fare ora solo il primo esempio che viene in mente, lo svolgimento dei processi (perlomeno di alcuni) continua a protrarsi troppo a lungo, non è di certo colpa di un evento della natura improvviso ed irreparabile ma di regole farraginose e della mancanza di strutture, mezzi, personale adeguati al bisogno complessivo e viepiù imponente dell’amministrazione della giustizia. E se – venendo al tema che oggi ci occupa – il numero dei posti-letto in terapia intensiva in tutta Italia è assai limitato, di sicuro inadeguato a far fronte ad un’emergenza sanitaria ingravescente, non lo si deve di sicuro ad un fatto naturale avverso bensì ad una politica sanitaria colpevolmente non lungimirante.
Invece, il sillogismo che sovente si fa è il seguente: a) premesso che la situazione è quella che è, b) si giustifica l’adozione di misure extra ordinem, alle quali poi c) i giudici (e, segnatamente, quello costituzionale) sono obbligati – lo vogliano o no – ad offrire il loro benevolo e generoso avallo, considerando pertanto abilitata la disciplina positiva prodotta per contrastare l’emergenza a derogare, anche in modo vistoso, ai disposti della Carta costituzionale.
Se n’è avuta conferma in occasione di vicende pregresse, nel corso delle quali la giurisprudenza costituzionale ha avallato misure legislative pure riconosciute come abnormi (o, come le si è pudicamente definite, “insolite”[4]), premurandosi nondimeno di precisare che esse rinvenivano giustificazione unicamente nella sofferta congiuntura che aveva portato alla loro adozione e che, pertanto, sarebbe stato irragionevole il loro mantenimento una volta cessata l’emergenza stessa.
Ricordo solo, al riguardo, il caso emblematico della disciplina varata per contrastare il terrorismo rosso, fatta salva da una nota pronunzia della Consulta, la n. 15 del 1982, con la quale in particolare è stata mandata assolta una disciplina positiva che prolungava per un tempo insopportabile lo stato di detenzione in carcere per persone sospette di appartenere alle BR sol perché v’era il fondato timore che, non riuscendosi a celebrare i processi per tempo e liberate per scadenza dei termini, esse potessero darsi alla macchia e tornare a prendere per bersaglio cittadini incolpevoli.
Insomma, ciò che – a dire del giudice delle leggi – è ragionevole (e, anzi e per ciò stesso, imposto) prima può divenire irragionevole poi[5].
Venendo a ciò che è qui di specifico interesse, le pratiche mediche sono assai di frequente obbligate a misurarsi con situazioni di emergenza, per far fronte alle quali gli operatori sono chiamati a scelte, alle volte bisognose di essere adottate in un lasso temporale ristretto, gravide di valenze per la vita stesse delle persone affidate alla cura dei sanitari, scelte che devono ispirarsi alle indicazioni date dal codice deontologico alla cui osservanza i sanitari stessi sono tenuti[6] (qui la questione si intreccia con quella evocata dal quesito immediatamente seguente e, dunque, la riprenderò con maggiore svolgimento di qui ad un momento).
Riguardata la questione alla luce della premessa sopra fissata, la ricerca della soluzione meno gravosa per la Costituzione e i suoi valori dispone di alcuni punti di riferimento ai quali far capo. E così, il “bilanciamento” tra diritti costituzionalmente protetti va fatto avendo costantemente presenti i valori fondamentali della vita e della dignità della persona umana. Quest’ultima, anzi, secondo una sua felice rappresentazione teorica[7], è la “bilancia” stessa su cui si dispongono i beni della vita in campo al fine della loro reciproca ponderazione, ovverosia – come si è tentato di argomentare altrove[8] – è un valore “supercostituzionale”, da cui ogni altro valore trae luce, alimento, giustificazione.
Il punctum crucis è, però, che fare quando si è in presenza non già di un conflitto tra valori diversi, di cui si facciano portatori soggetti parimenti diversi, bensì di un conflitto di un valore con… se stesso, che si appunti sul capo di più persone[9].
Qui, la scelta si fa tragica perché idonea a risolversi nell’atroce locuzione mors tua vita mea.
Soccorre, tuttavia, al riguardo il dovere di solidarietà nel suo fare tutt’uno con quello di fedeltà alla Repubblica[10]. L’uno spinge vigorosamente nel senso di perseguire una soluzione che, portandosi oltre l’interesse individuale, risulti la meno gravosa possibile per l’intera collettività; l’altro, in situazioni di autentica crisi ordinamentale, induce ad optare per una soluzione che metta al riparo la continuità del gruppo sociale, assicurandone la trasmissione – per quanto possibile, integra – nel tempo.
Spetta alla scienza ed agli operatori che alle sue indicazioni fanno richiamo suggerire i percorsi da battere al fine di pervenire, sia pure in modo assai sofferto, alla meta illuminata dai doveri suddetti, essi pure al tirar delle somme riportabili al “metavalore” della sopravvivenza della specie e della identità assiologicamente qualificata di una comunità organizzata.
La “medicina delle catastrofi” offre alcune indicazioni al riguardo, nella tristissima congiuntura che stiamo vivendo riprese da alcune Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione, in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili, formulate dalla Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva (SIAARTI) il 6 marzo scorso[11]. Il punto centrale è dato – a me pare – dal non esclusivo ed assorbente rilievo che è da assegnare al criterio first come, first served. In condizioni di assoluta eccezionalità, è infatti giocoforza privilegiare – si dice – il criterio della “maggior speranza di vita”, peraltro soggetto a costante verifica, nell’intento del conseguimento del massimo beneficio per il maggior numero possibile di persone[12]. Ciò che appunto induce – troviamo scritto nelle Raccomandazioni in parola – ad una “quotidiana rivalutazione dell’appropriatezza, degli obiettivi di cura e della proporzionalità delle cure”. I sanitari sono, dunque, abilitati, “in uno scenario di afflusso eccezionalmente elevato di pazienti” a non posticipare una decisione di “desistenza terapeutica” e di “rimodulazione delle cure da intensive a palliative”.
In larga misura, peraltro, si tratta di criteri da tempo invalsi nella cultura biomedica[13], oggi nondimeno bisognosi di essere riconsiderati alla luce degli sviluppi della scienza e della tecnologia.
È fondamentale, ad ogni buon conto, non perdere mai di vista che le persone non sono cose e che in nessun caso si giustifica lo svilimento della loro dignità per effetto della disumanizzazione delle pratiche giuridiche e mediche.
Giorgio Trizzino
Non si tratta, per l’appunto, di avere un’opinione sul tema quanto di seguire delle linee guida. La prassi prevede una scelta che è figlia di un’analisi che passa per tre fasi:
La prima fase è quella della ventilazione non invasiva, che si chiama Niv.
Il secondo passo prevede un parere sanitario che si basa su una comparazione tra fattori ed in particolare l’età in relazione al quadro clinico generale del paziente.
L’ultimo passo merita una breve premessa, quella indotta dal Covid 19, infatti, è una polmonite interstiziale molto aggressiva che impatta tanto sull’ossigenazione del sangue. La ventilazione non invasiva, quindi, è solo una fase di passaggio. Ad un certo punto, quindi è necessario ventilare meccanicamente e quelli su cui si sceglie di proseguire vengono tutti intubati e pronati. A questo punto, dunque, in base al numero di pazienti gravi, è necessaria una scelta che si basa sull’analisi della capacità del paziente di guarire. In sostanza si guarda alla speranza di vita.
2. In questo periodo si è spesso tornato a riflettere sul rapporto fra scienza e diritto. Il tema della prima domanda può secondo Lei essere affrontato dando prevalenza alle regole tecniche della medicina o della scienza e in che misura espone il soggetto chiamato a scegliere a responsabilità di natura giuridica o etica?
Luciano Eusebi
La scienza si sostanzia nell’acquisizione di conoscenze e dunque, di per sé, non indica scelte. Le scelte dipendono sempre da valutazioni di carattere razionale ed etico. Ma simili valutazioni non potrebbero essere tali se non tenessero conto dei dati scientifici. Vaccinare i bambini contro certe malattie costituisce una scelta razionale ed etica, ma questa conclusione si fonda proprio sulla considerazione scrupolosa dei dati scientifici. Talora il diritto recepisce e formalizza certe scelte che appaiono incontrovertibili, anche per ragioni organizzative. Ma sarebbe un’illusione pericolosa pensare che il diritto possa e debba dirimere, al di là dei principi di fondo, ogni caso concreto: sono troppe le variabili in gioco. Tanto che non a caso le stesse linee guida, e le norme di buona pratica clinica, cui sono chiamati ad attenersi i medici costituiscono pur sempre meri criteri orientativi, e purché le raccomandazioni in esse previste, come precisa la legge Gelli-Bianco, «risultino adeguate alle specificità del caso concreto». Del resto, il primo caso italiano di contagio da coronavirus è stato individuato, purtroppo in ritardo, proprio perché una dottoressa ha ritenuto di dover «adeguare» la lettura delle linee guida alle condizioni di polmonite particolarmente gravi del paziente interessato. Il diritto descrive dei binari di principio, e la medicina attraverso quei summenzionati criteri, come pure attraverso lo stesso codice di deontologia medica (nonché attraverso i codici afferenti alle altre professioni sanitarie), orienta alle scelte più appropriate circa i diversi contesti patologici, ricostruiti alla luce delle conoscenze scientifiche. Non riterrei utili contrapposizioni. Né tantomeno una giuridicizzazione sistematica dell’attività medica.
Luigi Ferrajoli
È chiaro che la risposta data alla domanda che precede può essere fornita con cognizione di causa soltanto sulla base di valutazioni di tipo medico. Chi è chiamato a simili scelte è ovviamente un medico: lo stesso medico cui compete la valutazione sulle maggiori probabilità di successo del suo intervento e che non mi pare, perciò, che possa essere esposto, per una simile valutazione e per la conseguente decisione, a responsabilità di tipo morale o giuridico, se non – come in qualsiasi altro intervento medico – per imperizia o negligenza, l’una e l’altra ingiustificate.
Antonio Ruggeri
Il rapporto tra scienza e diritto in genere (e, per ciò che di mia specifica competenza, diritto costituzionale in ispecie) è estremamente complesso, non facile da rappresentare con la necessaria sintesi nello spazio ristretto di cui oggi disponiamo. In breve (e sia pure col costo di una eccessiva schematizzazione), a me pare che tra i termini della relazione in parola si dia (e debba costantemente darsi) mutuo soccorso ed alimento. Per un verso, infatti, le disposizioni normative, con particolare riferimento a quelle concernenti i diritti direttamente interessati dallo sviluppo scientifico e tecnologico (potremmo dire: i diritti scientificamente sensibili), richiedono di essere intese e fatte valere alla luce delle indicazioni venute dalla scienza. Per un altro verso, però, quest’ultima non può restare impermeabile alle indicazioni venute dai principi espressivi dell’etica pubblica repubblicana, nei quali nel modo più immediato e fedele si rispecchiano i valori fondamentali dell’ordinamento.
È interessante fermare un attimo l’attenzione sul punto, chiarendo il senso complessivo delle affermazioni appena fatte, avvalendomi allo scopo del richiamo agli esiti di alcune recenti pronunzie del giudice costituzionale in tema di esperienze d’inizio-vita.
Sappiamo che la legge 40 del 2004 è stata, in buona sostanza, riscritta in alcuni punti di particolare rilievo, attingendo proprio agli esiti fin qui raggiunti dallo sviluppo scientifico e tecnologico[14]. Ancora non molto tempo addietro, poi, la Consulta ha avuto modo di precisare (e il punto è di speciale interesse ai nostri fini) che, laddove la scienza non abbia ancora raggiunto al proprio interno la necessaria stabilità e i più larghi e convinti consensi, la Costituzione è, in buona sostanza, obbligata a restare “muta”, vale a dire non offra essa pure, di conseguenza, sicure indicazioni agli operatori di diritto (v., part. sent. n. 84 del 2016, in relazione alla vessata questione riguardante la eventuale destinazione degli embrioni crioconservati alla ricerca scientifica). La Corte, insomma, rigetta la questione per inammissibilità, allo stesso tempo però – e il punto ha suscitato un vespaio di discussioni – rimettendosi al discrezionale apprezzamento del legislatore in ordine alla scelta giudicata più opportuna, con la conseguenza che il divieto riguardante gli embrioni in parola, quale stabilito dalla legge 40, non è, ad avviso del giudice costituzionale, in sé e per sé irragionevole. Altri divieti, poi, della legge suddetta sono stati fatti salvi, quale quello che impedisce alle coppie composte da persone dello stesso sesso di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita – sent. n. 221 del 2019 –, sempre in nome del rispetto della discrezionalità del legislatore, malgrado qui – com’è chiaro – la scienza e la tecnologia non rimangano silenti, a conferma del fatto che il ruolo da queste ultime giocato non è comunque assorbente e sempre risolutivo. Non indugio, poi, qui, al fine di non portarmi troppo oltre l’hortus conclusus in cui questa riflessione è tenuta a stare, sui casi, il più eclatante dei quali si è di recente avuto con Cappato[15], in cui invece la Corte non si è fatta scrupolo di menomare la discrezionalità del legislatore, fino al punto di azzerarla del tutto, facendo luogo ad una scrittura “a rime libere” (e non già “obbligate”, secondo la fortunata metafora crisafulliana) della disciplina sin dall’origine mancante[16]. Se ne ha, dunque, una eloquente testimonianza dell’uso alquanto disinvolto fattosi della categoria della “discrezionalità”, dilatata ovvero contratta a fisarmonica secondo congiunturali convenienze e, per ciò stesso, una testimonianza altresì della connotazione marcatamente politica dei giudizi di volta in volta emessi dal giudice delle leggi[17], non casualmente emersa in modo prepotente in talune esperienze processuali nel corso delle quali si è assistito ad un vistoso scostamento da parte del giudice nei riguardi dei canoni relativi all’esercizio delle sue funzioni[18]. La qual cosa, poi, come si è tentato di argomentare altrove, comporta fatalmente uno stato di sofferenza per la “giurisdizionalità” della giurisdizione, sia costituzionale e sia pure, a ruota, comune, chiamata a dare seguito alle pronunzie della Consulta.
Tornando all’insegnamento venutoci dalla 84 del 2016, al tirar delle somme, come si vede, la Costituzione talvolta non “parla” e, però, ci dice la Consulta, in sua vece “parla” e può parlare la legge le cui previsioni, prive in tesi di un parametro superiore “eloquente”, rimangono – a quanto pare – devolute ad un sindacato di ragionevolezza allo stato puro che, nondimeno, la Consulta pilatescamente si astiene dal fare[19].
Ciò che, nondimeno, ai fini della riflessione che vado facendo maggiormente importa, è il riconoscimento che la Consulta fa del debito culturale gravante sulla Costituzione e i suoi interpreti nei riguardi della scienza, dalle cui risultanze quella e questi costantemente si alimentano. Allo stesso tempo, però, la scienza non può, in alcun caso o modo, menomare o mettere a rischio la dignità della persona, non può – come dicevo – disumanizzarla e, per ciò stesso, disumanizzarsi[20].
Ciò posto, venendo specificamente al cuore del quesito postoci, gli operatori sanitari possono trovarsi obbligati – come dicevo già in relazione alla domanda precedente – a far luogo a scelte dolorose, che interpellano allo stesso tempo la scienza e la coscienza di chi le compie. Alle volte, le sollecitazioni che vengono dalla prima sono abbastanza chiare e ferme nell’orientamento dato a coloro cui si indirizzano, altre volte invece il quadro è confuso ed appannato, quale ad es. si ha ogni qual volta non sia agevole stabilire le probabilità di successo del trattamento medico in relazione alle condizioni complessive del paziente. È proprio in questi frangenti che il peso gravante sulla coscienza di chi comunque una scelta deve compiere si fa insopportabile, lasciando un segno che potrebbe poi non venire mai meno. In ogni caso, occorre produrre ogni sforzo per far convergere ed incanalare assieme gli svolgimenti della scienza e le pratiche ad essi conseguenti per riportarli comunque entro il solco tracciato dai principi dell’etica pubblica enunciati nella Carta costituzionale, salvaguardando a un tempo la dignità delle persone, specie appunto di quelle maggiormente vulnerabili ed esposte, e restando pur sempre fedeli ai doveri di solidarietà e di fedeltà alla Repubblica nel loro fare “sistema”.
Giorgio Trizzino
Credo che nel caso di specie, così come in tutti i casi di grave emergenza sanitaria, scienza e diritto debbano legarsi inscindibilmente. Il tema della scelta non può che fondarsi su linee guide e prassi che tutti i sanitari debbono seguire pedissequamente e che si fondano su principi generali che negli anni si sono consolidati sulla scorta di regole scientifiche orientate a principi bioetici. La scelta, come è normale che sia, non è orientata sulla scorta di un giudizio di valore sull’individuo. Sono scelte effettuate, come già detto, su basi scientifiche orientate alle principali indicazioni bioetiche. E’ chiaro che scegliere può essere moralmente devastante e sono questi i casi in cui il ruolo del medico assurge a livelli di responsabilità che poche altre professioni hanno. Per questo motivo i nostri medici vanno supportati ed incoraggiati cercando, per quanto possibile, di scaricarli anche dal pensiero di eventuali responsabilità.
3. Dal punto di vista filosofico la decisione di posporre l’intervento sanitario in un caso di impossibilità di fare fronte a diversi interventi è governata secondo Lei da un’etica dei diritti? La scelta tragica fra diversi diritti che non possono trovare tutti contemporanea soddisfazione merita un esame comparativo di tipo soggettivo ovvero una prospettiva più ampia? In altri termini, la scelta va fatta unicamente orientando l’indagine sul profilo del singolo paziente e dei tempi di ricovero o deve coinvolgere anche una prospettiva solidaristica che guarda alla società, al beneficio che essa potrebbe avere in relazione alle scelte adottate dal sanitario?
Luciano Eusebi
Ancora una volta, penserei, si tratta di operare valutazioni di proporzionalità circa le esigenze terapeutiche e i rischi connessi a ciascuno stato patologico, in rapporto alle condizioni dei singoli malati. Senza escludere il rilievo di alcuna condizione personale. E, in effetti, anche nei nostri ospedali lombardi più oberati si è continuato a prestare assistenza in questi giorni – pure attraverso le terapie intensive – anche in favore di chi corresse rischi gravi diversi da quelli derivanti dal coronavirus. La tentazione di un certo semplificare giuridicistico (ma non sarebbe espressione di un buon diritto) potrebbe condurre a immaginare che in determinate situazioni si tratti di operare scelte radicalmente alternative: o una cosa o l’altra. Invece si tratta di coltivare la difficile strada dell’ “et-et”, secondo quelle pur impegnative valutazioni di cui s’è detto. Sicuramente, in ogni caso, tutte le volte in cui nella storia s’è immaginato di poter sacrificare a priori, per un supposto bene sociale, singoli individui le conseguenze sono risultate tragiche. Piuttosto, mi sia consentito ripeterlo, dovremo pensare a non ritrovarci più, in futuro, in una penuria nient’affatto inevitabile delle risorse (il che, peraltro, dovrebbe valere, nel quadro di un’effettiva assunzione globale delle responsabilità, anche rispetto ai paesi poveri del mondo).
Luigi Ferrajoli
Il solo criterio e il solo obiettivo morale cui devono informarsi le scelte del medico sono rappresentati dal salvataggio della vita del singolo malato. Considerazioni sociali di altro genere non devono trovare spazio in simili scelte e dilemmi.
Antonio Ruggeri
Credo di aver già implicitamente risposto a questa domanda ma può tornare utile ancora una rapida precisazione. L’idea che si possa (e si debba) “bilanciare” una vita umana con altre vite è, francamente, ripugnante ed insopportabile. Ogni volta che una vita si spegne, l’intera umanità ne esce impoverita senza rimedio; e, quando ciò avviene, i medici cui, in ultima istanza, è demandata la scelta ne risultano comunque sconfitti, anche se grazie al loro operato altre vite sono state risparmiate e recuperate a beneficio dell’intera collettività. Insomma, a conti fatti, la soluzione risulta giustificata dalla “logica” stringente e per vero soffocante del male minore o, per dir meglio in termini costituzionalmente significativi, appare “coperta” dal “metaprincipio” della massimizzazione della tutela nel suo fare tutt’uno con i doveri di solidarietà e di fedeltà alla Repubblica. Non saprei però dire, non essendo un operatore sanitario e non riuscendo a mettermi nei suoi panni, se ciò possa valere a sgravare la coscienza del peso opprimente che viene dalla consapevolezza di aver abbandonato anche una sola vita umana al proprio crudele destino.
Giorgio Trizzino
La domanda è posta bene in quanto si parla di scelta tragica…è ovvio che preferire una vita ad un’altra comporti in sé una enorme carica di emotività e di responsabilità. Di certo, dunque, è una scelta di ampio respiro che guarda alla società ed ai suoi bisogni nonché alle sue prospettive. Credo che in questo caso la scelta prettamente sanitaria sia molto vicina a quella sociale…preferire infatti quadri clinici migliori comporta un risparmio di tempo e di risorse ed è normale che anche la giovane età del paziente incida, sia in considerazione di temi prettamente scientifici che in considerazione di risultanze prettamente sociali.
4. Nell’ipotesi in cui il diritto alla assistenza sanitaria venisse limitato secondo criteri di priorità dal legislatore, riterrebbe opportuno anche riconoscere e garantire ai sanitari un diritto alla obiezione di coscienza come normativamente previsto, ad esempio, nei casi di sperimentazione animale, procreazione medicalmente assistita e interruzione volontaria di gravidanza? Ed in caso di mancato riconoscimento normativo di un diritto di “obiezione” quali scenari pensa si aprirebbero in concreto negli ospedali italiani?
Luciano Eusebi
Non credo che si tratti di una strada auspicabile, perché la medicina possiede già criteriologie di intervento applicabili anche a contesti difficili. Del resto la tutela della popolazione rispetto al diffondersi del coronavirus si fa assumendo tutte le strategie necessarie, anche le più rigorose, per evitare ulteriori contagi, e non decidendo di non curare più, senza distinzione, altri malati. E anche a tal proposito, bisogna evitare messaggi fuorvianti. Resta comunque, in effetti, il principio liberale fondamentale per cui, nel momento in cui il diritto ritiene di autorizzare comportamenti positivi, quali ne siano le ragioni, che abbiano per conseguenza la lesione di uno dei diritti inviolabili dell’uomo, come la vita, non può imporre un tale comportamento al singolo individuo.
Luigi Ferrajoli
Nell’ipotesi, spero inverosimile, che il legislatore dettasse criteri di scelta di natura diversa da quello qui sostenuto dell’uguale valore delle persone e della sola valutazione medica in ordine alle maggiori possibilità di successo dell’intervento, sarebbero, a mio parere, non soltanto giustificate, ma doverose, l’obiezione di coscienza del medico e, prima ancora, una denuncia di incostituzionalità di una simile norma di legge per violazione dell’articolo 3, 1° comma della nostra Costituzione secondo cui tutti hanno “pari dignità sociale” senza distinzioni di alcun genere
Antonio Ruggeri
Trovo forzato, se posso esprimermi con franchezza, l’accostamento tra le scelte tragiche alle quali possono trovarsi (e temo che già oggi si trovino) chiamati a far luogo gli operatori sanitari in conseguenza dell’emergenza del coronavirus (o altre analoghe) e le vicende relative alla sperimentazione animale o alla procreazione medicalmente assistita ed all’interruzione della gravidanza (ma allora – e perché no? – anche a quelle di fine-vita[21]). In questi ultimi casi, infatti, non si dà una vera e propria emergenza, le strutture sono in grado di funzionare e non v’è motivo di non mettere al riparo la coscienza degli operatori stessi da scelte per essa laceranti. Nel caso invece di carenza dei posti-letto rispetto al flusso imponente dei pazienti che ne avrebbero necessità, la scelta va purtroppo fatta e riguarda non soltanto il singolo operatore ma la stessa struttura di appartenenza. E vengo così alla prima parte del quesito postoci. L’ordine delle priorità non può essere in modo praticamente insindacabile stabilito dal legislatore. Dico così, dal momento che non riesco a prefigurarmi lo scenario di un eventuale sindacato di costituzionalità su norme di legge adottate per far fronte ad una ingravescente emergenza, con i tempi allo scopo richiesti e gli effetti propri delle pronunzie emesse in chiusura del giudizio. Sarebbe – per fare un esempio altrettanto clamoroso – come immaginare un controllo di costituzionalità sulla legge o altro atto con cui le Camere deliberino lo stato di guerra (se, ad es., ricorrano le condizioni al riguardo stabilite nella Carta costituzionale, nel mentre il nemico c’invade o invia missili distruttivi sul nostro territorio).
A me pare, insomma, che qui più che altrove, proprio perché le scelte da prendere riguardano diritti scientificamente sensibili, fino a coinvolgere la stessa vita umana, ci si debba rimettere al prudente apprezzamento degli operatori idoneo a manifestarsi nella cornice di indicazioni essenziali conformi, a un tempo, alla scienza ed all’etica costituzionale. Non mi sembra, poi, praticabile un diritto di obiezione di coscienza del singolo medico, che nel caso della messa a disposizione dei posti-letto di terapia intensiva non vedo come possa esprimersi. Se, poniamo il caso, un posto è già occupato e si tratta di scegliere se liberarlo o no a beneficio di un altro paziente, facendo valere il (supposto) diritto in parola, il medico in buona sostanza si laverebbe le mani (ma non pure – credo – la coscienza), portando al risultato di lasciare il posto a chi già lo occupa. Detto altrimenti, la scelta è comunque posta in essere (nell’esempio appena fatto, in applicazione del criterio first come, first served), non v’è dunque una “non scelta”.
In conclusione, a me pare che le Raccomandazioni di etica clinica, sopra richiamate, forniscano già ai medici, unitamente alle altre indicazioni risultanti dal codice deontologico dell’ordine di categoria, le necessarie indicazioni di base; di lì in avanti, poi, sta all’intelligenza ed alla sensibilità di chi opera sul campo adottare i comportamenti ad esse conseguenti.
Voglio chiudere con una nota di ottimismo, malgrado la spinosa congiuntura del tempo presente, esprimendo l’auspicio, ed anzi la ferma convinzione, che già oggi ed ancora di più nel prossimo futuro la stragrande maggioranza dei medici e del personale che li assiste facciano e faranno quanto è in loro potere per portarci fuori dal tunnel, sempre che sorretti dal necessario senso civico e del bene comune dell’intero consorzio civile, chiamato ad una collettiva prova di responsabilità, a mia memoria, senza precedenti. L’emergenza del coronavirus è, forse, l’occasione giusta per dimostrare tutti assieme che siamo e vogliamo restare comunità animata da spirito di reciproco servizio, all’insegna di quei doveri di solidarietà e di fedeltà alla Repubblica che soli possono traghettarci oltre la sfortunata congiuntura presente[22].
Giorgio Trizzino
È difficile rispondere ad una simile domanda e di certo bisogna considerare che gli esempi da voi riportati riguardano sfere un po’ diverse rispetto ad uno stato emergenziale paragonabile ad una guerra.
Credo che la valutazione vada fatta in questo senso e di certo non è facile rispondere in poche righe… Credo sia un argomento troppo complesso che merita riflessioni ed approfondimenti di un certo livello.
È vero però allo stesso tempo che è difficile fare delle reali previsioni circa la portata di questa epidemia che ormai sembra avere tutte le caratteristiche di una pandemia e che può essere combattuta solo con l’aiuto dei nostri medici. Credo sia il caso di concentrarci sul complesso scenario cui già i nostri ospedali sono sottoposti.
4. Le conclusioni
Roberto Giovanni Conti
Tempi bui quelli che stiamo vivendo che, tuttavia, non possono far recedere dalla necessità di riflettere sull’emergenza, fotografare quanto sta accadendo per poi riservare magari ad un futuro (si spera) migliore i frutti (se ve ne sono) e le macerie che sembrano già evidenti.
Le risposte qui raccolte hanno assunto il sapore della tragicità delle domande e offrono lo spaccato del costituzionalista, dell’accademico penalista, del medico e del filosofo del diritto.
Riflessioni importanti, profonde e sicuramente tali da costituire una guida sul tema che Giustizia insieme ha inteso affrontare.
Dietro al tema, tuttavia, rimangono le persone, e la consapevolezza della vulnerabilità estrema nella quale esse si trovano quando il sistema Paese è chiamato ad offrire loro protezione e assistenza.
La premessa è che il Paese deve oggi più che mai la sua vita al personale sanitario.
Di questo tributo in termini di sacrifici, di abnegazione, di senso del dovere e di solidarietà ci siamo costantemente nutriti in questi giorni e dovremo continuare a nutrirci nei mesi a venire, consapevoli che il sistema sanitario ha rappresentato e deve comunque rappresentare la spina dorsale del Paese. Magari questo aiuterà a riflettere di più sulle spinte che in questi anni hanno condotto, sul piano giudiziario, ad accelerare sulla leva risarcitoria avendo di mira il diritto alla salute. Leve sulle quali, onestamente, il mondo sanitario ha reiteratamente insistito senza incontrare, anche nel mondo giudiziario, interlocutori capaci di raccogliere il messaggio.
Non può né deve essere questa la sede per rileggere criticamente il passato, fortemente caratterizzato da logiche rivolte alla protezione del malato in nome della salvaguardia del diritto alla salute rispetto alla posizione del sanitario che lo ha in cura, ma semmai di sollecitare una riflessione aggiuntiva e più partecipata e dialogata sui temi che ruotano attorno alla salute delle persone, soprattutto di quelle più vulnerabili, forti dell’esperienza in questi frangenti maturata.
Detto questo, il paradosso al quale assistiamo si nutre di fotogrammi distonici.
Per un verso, un Paese impegnato commendevolmente, con le sue massime autorità istituzionali, al senso di responsabilità dei nipoti e dei figli affinché si adottino comportamenti idonei a salvaguardare la salute degli anziani e dei beni preziosi che essi custodiscono. Un altro Paese, tuttavia che, per mezzo di chi è chiamato, in un certo dato momento della vita, a decidere sul se sia possibile o meno praticare una terapia (i medici, appunto), sembra in certi momenti avere parimenti il “bisogno” e la “necessità” di posporre quella vulnerabilità di fronte ad altri valori concorrenti, di pari o prevalente valore.
Ora, dietro tutto questo cosa governa le scelte, chi le governa, sulla base di quali protocolli, con il coinvolgimento di chi, del medico-anestesista del reparto dell’ospedale, dell’intera equipe, dei congiunti o del paziente stesso, dei comitati etici? Quale formalizzazione è prevista per le attività che determinano l’ingresso o il non ingresso nelle terapie intensive?
La logica emergenziale che ci è stata fornita dagli organi di informazione fa pensare che tutto questo non sia accaduto per protocolli che alla base abbiano avuto il supporto scientifico delle diverse branche sanitarie coinvolte, ma sia stato necessariamente governato, appunto, dall’emergenza.
La mia generazione non ha vissuto il periodo della guerra ma, semmai, quello della riflessione in vitro su certi argomenti scottanti e tragici per lo più del passato e comunque mai di “massa”, presi al più come parametro ipotetico e astratto sul quale misurare un’elaborazione teorica, una riflessione, una scelta astratta.
Oggi, alla diffusione dei bollettini della Protezione civile, questa stessa generazione si stringe sulla sedia e rimane attonita, vive a contatto – spesso solo a distanza e più spesso virtuale per le notizie diffuse sui media o sui social – con una realtà che registra un numero imponente di medici infettarsi o addirittura perdere la vita nell’esercizio della professione e che ha visto e vede i medici costretti ad adottare scelte appunto tragiche, rivolte ad aprire o chiudere le porte della vita a malati che non possono contemporaneamente accedere a cure destinate a rappresentare una chance di sopravvivenza per il paziente.
Una generazione che sconta dunque la propria impreparazione emotiva rispetto a tali vicende.
Nulla di paragonabile, certo, alla realtà crudele che avvolge chi opera nei reparti di terapia intensiva, lapidariamente descritta dal primario della medicina d’urgenza dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII Roberto Cosentini quando ha qualche giorno addietro dichiarato che “anche non potere aiutare tutti, uccide”.
Proprio in una logica di sostegno rispetto a queste scelte tragiche si sono inserite le “raccomandazioni della SIAARTI, nelle quali si sono individuati, da parte dell’organismo rappresentativo degli anestesisti-rianimatori, dei criteri della massima utilità, da mediare in relazione alla presenza di altre malattie pregresse dei malati ed all’età anagrafica.
Sul significato di tali Raccomandazioni si stanno confrontando i medici e gli studiosi, fornendo letture non omogene, come emerge da alcuni documenti (nota del Comitato tecnico Scientifico COVID 19 istituito presso la Regione Veneto del 13.3.2020; M.Balistreri, Gli anestesisti e la legge del mare: “Prima le donne e i bambini”, in Quotidiano sanità, 15.3.2020; M. Cozzoli, A chi dare la precedenza? Riflessioni etiche sulle Raccomandazioni della Siaarti, in Quotidiano sanità, 19.3.2020; M. Mori, Le Raccomandazioni degli anestesisti e la fine dell’eguaglianza ippocratica; F. Anelli, Coronavirus. Fnomceo sul documento anestesisti: “Nostra guida resta Codice deontologico. Non dobbiamo metterci nelle condizioni di applicare questi inaccettabili triage di guerra”; in Quotidiano sanita, 8 marzo 2020, Coronavirus. Geriatri: “No a Rupe Tarpea, la soluzione non è sacrificare gli anziani”; in Quotidiano sanita, 8 marzo 2020).
Vi è poi stato chi ha apertamente criticato il documento anzidetto arrivando a sostenere che i criteri di massima utilità stilati dalla SIAARTI “con difficoltà si conciliano con il modello personalista sul quale si fonda la Costituzione italiana, che assume la salute come un diritto fondamentale della persona e ambito inviolabile della dignità umana” (C. Di Costanzo, V. Zagrebelsky, L’accesso alle cure intensive fra emergenza virale e legittimità delle decisioni allocative, contributo al Forum su Diritto, diritti ed emergenza ai tempi del Coronavirus, in BioLaw Journal, 2/2020, 16 marzo 2020).
L’attuale contesto impedisce di potere giudicare o valutare criticamente ciò che sta accadendo oggi negli ospedali di frontiera. Di fronte ad una scelta dilemmatica che avvantaggia l’un individuo a scapito dell’altro non si può, in verità, né si deve ragionare in termini di responsabilità di chi adotta la scelta, se è vero che la condotta di chi agisce tende inevitabilmente a sacrificare un interesse a vantaggio di altro interesse di pari valore, semmai ponendosi un problema nel futuro del quale lo Stato dovrebbe farsi carico in via di indennizzo per le scarse risorse destinate al servizio sanitario (decisioni di primo grado, seguendo la bipartizione operata da Guido Calabresi e Philip Bobbitt nel loro Scelte tragiche, Milano, 2006, 11 ss.) che hanno condizionato la decisione di secondo grado del medico /equipe-cfr., sul punto, P. Tincani, I dilemmi morali e le scelte tragiche, in Non è giusto! Dilemmi morali e senso della giustizia nelle rappresentazioni degli adolescenti, a cura di P. Ronfani, Urbino, 2007, 55-.
Invece questo contesto ad imporre di fare memoria su queste tragiche vicende e di interrogarsi, quando verrà il momento- pur sperando che non si debba più vivere esperienze simili a questa – su come hanno agiti i singoli operatori sanitari nell’emergenza in una prospettiva di costruzione di protocolli condivisi che, seguendo una prospettiva multidimensionale e multidisciplinare, aperta a raccogliere le indicazioni delle diverse branche di specialisti medico sanitari coinvolti ma anche del corpo dei giuristi e bioeticisti al fine di individuare a priori ed in via generale i parametri da considerare – criterio utilitarista, criterio cronologico (c.d. first come, first served, G. Calabresi e P. Bobbitt, Scelte tragiche, cit., 39) criterio casuale (c.d. lottery- G. Calabresi e P. Bobbitt, Scelte tragiche, cit., 38 ss.), o criterio terapeutico terapeutico correlato alle maggiori probabilità di successo dell’intervento medico o della maggiore speranza di vita – e le priorità che devono eventualmente governare tali criteri pur nella necessaria valutazione delle concrete condizioni del paziente, non potendosi comunque sottovalutare il ruolo del consenso del suddetto al compimento o al non compimento del trattamento medico prospettato come necessario dai sanitari. Ciò in vista dell’identificazione dei criteri di accesso alla terapia non più condizionati dalla situazione emergenziale o, malauguratamente, da fattori non omogenei rispetto alle diverse strutture sanitarie che la fragilità delle persone coinvolte non merita.
Merita in ogni caso oggi sottolineare il sacrificio di quelle persone estremamente vulnerabili e fragili che hanno donato la loro vita per il benessere degli altri più fortunati.
Quelle persone (e i loro cari) che sono arrivate a sirene spiegate nelle aree di emergenza con la speranza di essere affidate alle cure dei medici, che pensavano di incontrare i loro salvatori e che, invece, hanno trovato al momento del triage una risposta implacabile, probabilmente non immaginata e quasi sicuramente non voluta.
Una risposta che probabilmente ha lasciato impietriti i loro cari, già tormentati dalle prevedibili angosce collegate alla paura del contagio e tenuti a sopportare nella tragicità del momento il peso di una notizia ancora più insopportabile da accettare per le motivazioni che l’hanno resa tale.
Insieme al sistema sanitario quei morti sono gli eroi di questo tempo, i sacrificati del terzo millennio che se ne sono andati e se ne vanno silenziosamente, dando la mano e lasciando il testimone a chi è più fortunato.
La logica dell’età anagrafica correlata alla spes di vita è sicuramente rispettabile, ma non pare possa fare recedere dalla necessità di regimentare il futuro in modo più attento proprio grazie al sacrificio dei molti che non ce l’hanno fatta ed alla cui memoria andranno dedicati i passi successivi che la scienza medica e gli operatori del diritto faranno insieme.
Ma siamo sicuri che l’assenza di indicazioni non possa indurre a scelte tragiche con diverso orizzonte? Pensiamo alla scelta tragica fra due pazienti entrambi afflitti dal virus e che veda coinvolti un medico che potrebbe salvare tante vite ed un altro anziano, sia esso o meno anziano, ma comunque “non utile” alla società. Interrogativi tremendi. Il rango e la fonte delle raccomandazioni SIAARTE, se sicuramente contribuisce a sgravare il medico dal peso della scelta (v. C. Baldi, Il medico rianimatore: “È un’emergenza e dobbiamo scegliere i criteri per le cure in terapia intensiva”), è dunque altrettanto appagante per chi la subisce?
Questo non può e non deve essere il luogo della verifica a posteriori delle scelte tragiche, quanto quello della riflessione pro futuro, rispetto alla quale non ci si potrà accontentare di un documento proveniente da una categoria degli operatori sanitari per regolamentare, in condizioni diverse da quelle hanno originato le Raccomandazioni di cui si è detto, il fine vite delle persone più fragili. Occorrerà un coinvolgimento più ampio di diverse categorie di medici, di giuristi e di bioeticisti, come hanno opportunamente suggerito Caterina Di Costanzo e Vladimiro Zagrebelsky nel loro recente L’accesso alle cure intensive fra emergenza virale e legittimità delle decisioni allocative, ricordato in nota da Antonio Ruggeri.
Sembra davvero che “fare memoria” dei singoli casi accaduti in questi frangenti aiuterà a capire in che direzione si sono orientate le scelte, quali condizioni di salute e di età hanno preso in considerazione, se le stesse si sono verificate in condizioni di contemporanea presenza di malati ovvero sono state effettuate con filtri effettuati a monte. Anche la formalizzazione di ciò che è accaduto in relazione alla peculiarità delle situazioni potrà essere di estremo aiuto per il futuro, proprio al fine di ponderare riflessioni e decisioni migliori, allocazioni di risorse più maggiormente orientata alla salvaguardia delle persone.
Sottolineare una particolare cura e attenzione su questi aspetti, anche di natura formale, non vuol dire ribaltare su quei medici che si trovano ad operare in condizioni di carenza di presidi da offrire a tutti coloro che vengono accolti in una struttura sanitaria ulteriori adempimenti, ma solamente dare un senso alla dignità di quei pazienti che non hanno potuto fruire delle terapie.
Una dignità che, dunque, richiede di soffermarsi anche sui particolari, sui minimi particolari che accompagnano un malato in fin di vita. Basti pensare alla solitudine di chi muore o è sul punto di morire, alla solitudine di chi, parente, accompagna ma par di capire fino ad un certo punto il proprio caro in ragione delle esigenze di contenimento e diffusione dei contagi, alla solitudine dei lutti vissuti in isolamento, all’isolamento nel momento della decisione su quale terapia praticare a quel malato.
Occorre, forse, fermarsi un attimo e pensare.
E questo rallentamento che prioritariamente concerne coloro che guardano ab externo ciò che sta accadendo, impone il tentativo di ricollocare le vicende, o meglio ogni singola, nel paradigma normativo adeguato.
Occorre, così ritornare alla legge sulle relazioni di cura fra medico e paziente a quella necessità di presidiare la tutela della vita e della dignità sulla quale il legislatore edificò le disposizioni a tutela dell’autodeterminazione e, per quel che qui più importa, del consenso.
Disposizioni alle quali venne opportunamente affiancato un quadro normativo che si occupa, anche, delle situazioni di emergenza.
L’art.1, c.7 della legge n.219/2017 così dispone: Nelle situazioni di emergenza o di urgenza il medico e i componenti dell’equipe sanitaria assicurano le cure necessarie, nel rispetto della volontà del paziente ove le sue condizioni cliniche e le circostanze consentano di recepirla”
Si tratta, dunque, di una previsione che si innesta in un articolo dedicato al consenso informato che anche per le situazioni di emergenza fissa dei paletti insopprimibili a presidio delle persone, ma che lascia altresì al sanitario la possibilità di prescinderne “ove le circostanze” non consentano di recepire quella volontà.
Ecco allora l’esigenza di mettere in chiaro che il bene della vita in gioco ogni volta ed in modo ovviamente cangiante per quanto risulti diversa la singola vicenda proprio in ragione di quella carnalità dei fatti sulla quale ritorna spesso in modo illuminante Paolo Grossi impone una straordinaria attenzione su ciò che accade a chi è talmente fragile e solo da non potere pretendere nulla.
Basti riflettere sul fatto che se un ospedale ha inteso fissare al proprio interno una direttiva che guarda a certi criteri in sede di triage, le conseguenze che derivano da quella scelta bloccano in radice la possibilità di tentare un dirottamento del paziente su altre strutture che magari hanno a disposizione i presidi capaci di offrire una chance di vita al paziente. In altri termini i canali della solidarietà tra strutture mediche dislocate in ambiti territoriali diversi delle quali pure si è sentito parlare potrebbero essere attivate solo se, a monte, vi sia una direttiva che impone comunque di salvaguardare la vita del paziente, al di là della speranza di vita o dell’età anagrafica.
Ora viene da chiedersi quanto le strutture sanitarie abbiano fatto fino a ieri per formare ed informare i medici sui contenuti della legge che si è appena ricordata, quanto quella legge sia stata praticata ed attuata negli ospedali.
Ed in questa prospettiva anche le Raccomandazioni SIAARTI qui più volte ricordate in alcuni punti non sembrano affatto brillare per chiarezza quanto al ruolo dei malati ed al loro coinvolgimento nelle scelte terapeutiche.
Un altro punto di riflessione che dovrà necessariamente aprirsi è quello della comparazione fra i diversi Paesi chiamati a fronteggiare l’emergenza coronavirus, in Europa e nel mondo.
Il dopo richiederà uno studio dei casi, un’analisi di ciò che si è fatto, delle modalità di reazione, della comparazione sulle scelte tragiche volta per volta adottate.
Ed occorrerà, ancora una volta, chiedersi se la vita possa valere di più o di meno in un Paese della nostra Europa a seconda della nazione in cui quella vita è in gioco.
Occorrerà dunque chiedersi se l’allocazione delle risorse in ambito sanitario debba essere lasciata integralmente alle scelte dei singoli Stati ovvero se occorra ragionare su standard minimali comuni a livello europeo.
Insomma occorrerà riflettere, prepararsi, essere attenti a raccogliere tutte le sollecitazioni che la tragicità del momento richiede, in nome dei valori rappresentati dalle radici comuni e dalla fratellanza che a livello europeo devono rimanere comuni.
Ecco che, al tirare delle somme, ci si accorge del valore incommensurabile di quelle vite interrotte dal coronavirus e dalle scelte tragiche subite.
Quelle persone che non ci sono più danno quindi il senso dell’essere uomo, offrendo ancorché inconsapevolmente e spesso senza essere state interpellate la loro vita, il cui valore non può dirsi recessivo in alcun modo rispetto a quello del più giovane e/o meno grave e perciò fortunato in quanto titolare di un’aspettativa di vita superiore, avendo anzi dimostrato, tragicamente, di valere molto di più, per chi ce l’ha fatta al loro posto e per l’intera comunità.
Sulle loro vite occorrerà dunque fare memoria per un futuro più attento ai bilanciamenti delle risorse, come hanno sottolineato gli intervistati, più rispettoso dell’esistenza umana, fine e confine – come ha ricordato Marco Dell’Utri nel suo splendido saggio apparso su questa Rivista (Saepe in periculis Note in tema di persona e comunità ) – di ogni intervento normativo e di ogni applicazione giudiziaria di un comando che va ineludibilmente plasmato in modo da salvaguardare i beni ed i valori fondamentali della persona.
[1] Cfr. in tema, i non coincidenti punti di vista di V. Baldini, Emergenza sanitaria e Stato di prevenzione, in Dir. fond. (www.dirittifondamentali.it), 1/2020, 27 febbraio 2020, 590 ss., e, dello stesso, pure ivi, Lo Stato costituzionale di diritto all’epoca del coronavirus, 10 marzo 2020, 683 ss., e, ora, Emergenza sanitaria nazionale e potere di ordinanza regionale. Tra problema di riconoscibilità’ dell’atto di giudizio e differenziazione territoriale delle tutele costituzionali, 20 marzo 2020, e A. Candido, Poteri normativi del Governo e libertà di circolazione al tempo del COVID-19, in Forum di Quad. cost. (www.forumcostituzionale.it), 10 marzo 2020, nondimeno espressi non già con riguardo allo stato di fatto quanto in relazione al modo con cui è stato ad oggi fronteggiato; inoltre, C. Buzzacchi, Coronavirus e territori: il regionalismo differenziato coincide con la “zona gialla”, in La Costituzione.info (www.laCostituzione.info), 2 marzo 2020; G.L. Gatta, Coronavirus, limitazione di diritti e libertà fondamentali, e diritto penale: un deficit di legalità da rimediare, in Sistema penale (www.sistemapenale.it), 16 marzo 2020; F. Petrini, Emergenza epidemiologica Covid19, decretazione d’urgenza e costituzione in senso materiale, in Nomos (www.nomos-leattualitaneldiritto.it), 1/2020 e, pure ivi, G. Stegher, In considerazione dell’emergenza sanitaria: Governo e Parlamento al banco di prova del Covid-19; G. Di Gaspare, Effetto domino del coronavirus. 6 proposte di contrasto ad impatto immediato, in La Costituzione info (www.laCostituzione.info), 16 marzo 2020; e ancora P. Pasquino, IL coronavirus contro il Parlamento, in La Costituzione info (www.laCostituzione.info), 17 marzo 2020; B. Caravita, L’Italia ai tempi del coronavirus: rileggendo la Costituzione italiana, Editoriale, in Federalismi (www.federalismi.it), 6/2020, 18 marzo 2020 e nella stessa Rivista, gli interventi che sono nell’Osservatorio emergenza Covid-19; I. Massa Pinto, La tremendissima lezione del Covid-19 (anche) ai giuristi, e F. Gianfilippi, Le disposizioni emergenziali del DL 17 marzo 2020 n. 18 per contenere il rischio di diffusione dell’epidemia di COVID19 nel contesto penitenziario, entrambi in Giustizia insieme (www.giustiziainsieme.it), 18 marzo 2020; F. Balaguer Callejón, Solidarietà dimenticata: il fallimento della narrazione pubblica sul coronavirus, in La Costituzione info (www.laCostituzione.info), 20 marzo 2020, e, pure ivi, P. Carrozzino, Il sistema delle fonti alla prova dell’emergenza sanitaria da Covid-19; M. Dell’Utri, Saepe in periculis. Note in tema di persona e comunità, in Giustizia insieme (www.giustiziainsieme.it), 22 marzo 2020. Infine, i numerosi contributi al Forum su Diritto, diritti ed emergenza ai tempi del Coronavirus, destinato al fasc. 2/2020 di BioLaw Journal (www.biodiritto.org), e gli altri al Forum su La gestione dell’emergenza sanitaria tra Stato, Regioni ed enti locali, in Dir. reg. (www.dirittiregionali.it), 1/2020, e, per i profili di diritto eurounitario, F. Casolari, Prime considerazioni sull’azione dell’Unione ai tempi del Coronavirus, in Eurojus (www.rivista,eurojus.it), 1/2020, 2 marzo 2020, 95 ss., e, pure ivi, C. Sanna, Il COVID-19 ferma i trasferimenti Dublino da e per l’Italia.
[2] La si può vedere, ora, anche nel mio Il coronavirus contagia anche le categorie costituzionali e ne mette a dura prova la capacità di tenuta, in Dir. reg. (www.dirittiregionali.it), 1/2020, 21 marzo 2020, 368 ss., spec. 371.
[3] Con riguardo a queste ultime, v., ora, la succinta ma densa riflessione di M. Carducci, Il corpo “malato” del Sovrano, in La Costituzione info (www.laCostituzione.info), 19 marzo 2020.
[4] Così, nella decisione subito di seguito richiamata.
[5] Così, con riguardo al caso odierno, anche G. Azzariti, Le misure sono costituzionali a patto che siano a tempo determinato, in La Repubblica, 8 marzo 2020.
[6] Sul rilievo del codice in parola e sui suoi possibili conflitti con le discipline legislative in vigore, v., ora, E. Pulice, Riflessioni sulle dimensioni della normatività: etica, deontologia e diritto. Il ruolo della deontologia in prospettiva comparata, in BioLaw Journal (www.biodiritto.org), 1/2020, 173 ss.
[7] G. Silvestri, Considerazioni sul valore costituzionale della dignità della persona, in AIC (www.associazionedeicostituzionalisti.it), 14 marzo 2008.
[8] A. Ruggeri - A. Spadaro, Dignità dell’uomo e giurisprudenza costituzionale (prime notazioni), in Pol. dir., 1991, 343 ss.
[9] Se ne tratta nel mio Fonti, norme, criteri ordinatori. Lezioni5, Giappichelli, Torino 2009, 45 ss., dal quale, volendo, possono aversi maggiori ragguagli.
[10] Sul primo, v., almeno, F. Giuffrè, La solidarietà nell’ordinamento costituzionale, Giuffrè, Milano 2002, e, dello stesso, I doveri di solidarietà sociale, in AA.VV., I doveri costituzionali: la prospettiva del giudice delle leggi, a cura di R. Balduzzi - M. Cavino - E. Grosso - J. Luther, Giappichelli, Torino 2007, 3 ss., nonché, ora, Alle radici dell’ordinamento: la solidarietà tra identità e integrazione, in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 3/2019, 4 settembre 2019, 555 ss.; V. Tondi della Mura, La solidarietà fra etica ed estetica. Tracce per una ricerca, in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 00/2010, 2 luglio 2010; A. Spadaro, in più scritti, tra i quali L’amore dei lontani: universalità e intergenerazionalità dei diritti fondamentali fra ragionevolezza e globalizzazione, in Forum di Quad. cost. (www.forumcostituzionale.it); Dai diritti “individuali” ai doveri “globali”. La giustizia distributiva internazionale nell’età della globalizzazione, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, e I diritti sociali di fronte alla crisi (necessità di un nuovo “modello sociale europeo”: più sobrio, solidale e sostenibile), in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 4/2011, 6 dicembre 2011; S. Rodotà, Solidarietà. Un’utopia necessaria, Laterza, Roma-Bari 2014; A. Morelli, I principi costituzionali relativi ai doveri inderogabili di solidarietà, in AA.VV., Principi costituzionali, a cura di L. Ventura e A. Morelli, Giuffrè, Milano 2015, 305 ss., e dello stesso, Solidarietà, diritti sociali e immigrazione nello Stato sociale, in Consulta OnLine (www.giurcost.org), 3/2018, 24 ottobre 2018, 533 ss.; L. Carlassare, Solidarietà: un progetto politico, in Costituzionalismo (www.costituzionalismo.it), 1/2016; F. Polacchini, Doveri costituzionali e principio di solidarietà, Bononia University Press, Bologna 2016; A. Apostoli, Il consolidamento della democrazia attraverso la promozione della solidarietà sociale all’interno della comunità, in Costituzionalismo (www.costituzionalismo.it), 1/2016, 20 aprile 2016, 1 ss., e, della stessa, pure ivi, La dignità sociale come orizzonte della uguaglianza nell’ordinamento costituzionale, 3/2019, 4 dicembre 2019; D. Porena, Il principio di sostenibilità. Contributo allo studio di un programma costituzionale di solidarietà intergenerazionale, Giappichelli, Torino 2017; G.L. Conti, Il pendolo della solidarietà nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in AA.VV., Ricordando Alessandro Pizzorusso. Il pendolo della Corte. Le oscillazioni della Corte costituzionale tra l’anima ‘politica’ e quella ‘giurisdizionale’, a cura di R. Romboli, Giappichelli, Torino 2017, 463 ss.; G. Bascherini, La doverosa solidarietà costituzionale e la relazione tra libertà e responsabilità, in Dir. pubbl., 2/2018, 245 ss.; J. Ansuátegui Roig, Solidariedad, deberes y Constitución: algunos apuntes conceptuales, in Dir. cost., 2/2019, Doveri costituzionali, a cura di A. Morelli, 11 ss.; con specifica attenzione ai bisogni delle generazioni future, A. Saitta, Dal bilancio quale “bene pubblico” alla “responsabilità costituzionale democratica” e “intergenerazionale”, in Giur. cost., 1/2019, 216 ss., spec. 223 ss., nonché, per le questioni di biodiritto, M. Tomasi, Genetica e Costituzione. Esercizi di eguaglianza solidarietà e responsabilità, Editoriale Scientifica, Napoli 2019. Quanto, poi, al secondo dovere, dopo i noti studi G. Lombardi e L. Ventura, per tutti, A. Morelli, I paradossi della fedeltà alla Repubblica, Giuffrè, Milano 2013, e, più di recente, G.M. Salerno, La fedeltà alla Repubblica: alla ricerca dei caratteri essenziali, in Dir. cost., 2/2019, 85 ss.
[11] Su alcune questioni riguardanti la natura delle Raccomandazioni in parola e sul significato di alcune loro espressioni, v., part., C. di Costanzo - V. Zagrebelsky, L’accesso alle cure intensive fra emergenza virale e legittimità delle decisioni allocative, contributo al Forum su Diritto, diritti ed emergenza ai tempi del Coronavirus, cit., in BioLaw Journal, 2/2020, 16 marzo 2020.
[12] Da notizie di stampa ho notizia che l’assessorato alla sanità della Regione Piemonte si accinge ad inviare alle direzioni sanitarie un “documento vincolante” avente ad oggetto l’ordine delle priorità nella gestione dei posti di terapia intensiva ove ciò si renda necessario (A. Mondo - A. Rossi, Emergenza coronavirus, la Regione: “Un codice blu per regolare le terapie intensive”, in La Stampa, 12 marzo 2020). Sono inoltre venuto in possesso di una nota del Direttore Generale dell’Area Sanità e Sociale della Regione Veneto del 13 marzo 2020, prot. 120693, che richiama alla osservanza delle Raccomandazioni suddette.
[13] V., per tutti, T.L. Beauchamp - J.F. Childress, Princìpi di etica biomedica, ed. it. a cura di F. Demartis, ed. Le Lettere, Firenze 1999, 363 ss., spec. 377, con riguardo al carattere relativo della regola first come, first served, e C. Petrini, Triage in public health emergencies: ethical issues, in Intern. Emerg. Med., 5/2010, 137 ss.
[14] In tema, per tutti, i numerosi ed approfonditi studi di S. Agosta, tra i quali, ora, Procreazione medicalmente assistita e dignità dell’embrione, Aracne, Roma 2020.
[15] In generale, sulle vicende di fine-vita, nella ormai incontenibile letteratura, richiamo qui solo i noti studi di R.G. Conti, Scelte di vita o di morte: il giudice è garante della dignità umana? Relazione di cura, DAT e «congedo dalla vita» dopo la l. 2019/2017, Aracne, Roma 2019; G. Razzano, La legge n. 219/2017 su consenso informato e DAT fra libertà di cura e rischio di innesti eutanasici, Giappichelli, Torino 2019 e, della stessa, ora, Nessun diritto di assistenza al suicidio e priorità per le cure palliative, ma la Corte costituzionale crea una deroga all’inviolabilità della vita e chiama «terapia» l’aiuto al suicidio, in Dir. fond. (www.dirittifondamentali.it), 1/2020, 3 marzo 2020, 640 ss. Infine, S. Agosta, Disposizioni di trattamento e dignità del paziente, Aracne, Roma 2020, e lett. ivi, cui adde i contributi che sono ora in BioLaw Journal (www.biodiritto.org), 1/2020.
[16] Così, nel mio Rimosso senza indugio il limite della discrezionalità del legislatore, la Consulta dà alla luce la preannunziata regolazione del suicidio assistito (a prima lettura di Corte cost. n. 242 del 2019), in Giustizia insieme (www.giustiziainsieme.it), 27 novembre 2019. V., inoltre, ora, F. Politi, La sentenza n. 242 del 2019 ovvero della rarefazione del parametro costituzionale e della fine delle “rime obbligate”? Un giudizio di ragionevolezza in una questione di costituzionalità eticamente (molto) sensibile, in Dir. fond. (www.dirittifondamentali.it), 1/2010, 6 marzo 2020, 661 ss., e, nella stessa Rivista, con diverso orientamento, A. Morelli, La voce del silenzio. La decisione della Corte sull’aiuto al suicidio e il «perdurare dell’inerzia legislativa», 11 marzo 2020, 746 ss., nonché N. Colaianni, La causa di giustificazione dell’aiuto al suicidio (rectius: dell’assistenza nel morire), in Quad. dir. pol. eccl., 3/2019, 591 ss., e, pure ivi, A. Licastro, L’epilogo giudiziario della vicenda Cappato e il ruolo «sussidiario» del legislatore nella disciplina delle questioni «eticamente sensibili», 609 ss. Notazioni di vario segno, infine, nei contributi che sono in BioLaw Journal (www.biodiritto.org), 1/2020.
[17] Questo trend è rilevato da molti con non celata preoccupazione (riferimenti in C. Drigo, Giustizia costituzionale e political question doctrine. Paradigma statunitense e spunti comparatistici, Bononia University Press, Bologna 2012; R. Basile, Anima giurisdizionale e anima politica del giudice delle leggi nell’evoluzione del processo costituzionale, Giuffrè, Milano 2017; AA.VV., Ricordando Alessandro Pizzorusso. Il pendolo della Corte. Le oscillazioni della Corte costituzionale tra l’anima ‘politica’ e quella ‘giurisdizionale’, cit.; G. Bisogni, La ‘politicità’ del giudizio sulle leggi. Tra le origini costituenti e il dibattito giusteorico contemporaneo, Giappichelli, Torino 2017; M. Raveraira, Il giudizio sulle leggi: la Corte costituzionale sempre più in bilico tra giurisdizione e politica, in Lo Stato, 11/2018, 123 ss.; A. Morrone, Suprematismo giudiziario. Su sconfinamenti e legittimazione politica della Corte costituzionale, in Quad. cost., 2/2019, 251 ss., sul cui pensiero, criticamente, v. R. Bin, Sul ruolo della Corte costituzionale. Riflessioni in margine ad un recente scritto di Andrea Morrone, in Quad. cost., 4/2019, 757 ss., e, nella stessa Rivista, E. Cheli, Corte costituzionale e potere politico. Riflessioni in margine ad un recente scritto di Andrea Morrone, 777 ss.).
[18] Su di che, v., part., R. Romboli, che ne ha trattato a più riprese (ad es., in Il diritto processuale costituzionale: una riflessione sul significato e sul valore delle regole processuali nel modello di giustizia costituzionale previsto e realizzato in Italia, in Studi in onore di F. Modugno, IV, Editoriale Scientifica, Napoli 2011, 2995 ss.; Natura incidentale del giudizio costituzionale e tutela dei diritti: in margine alla sentenza n. 10 del 2015, in Quad. cost., 3/2015, 607 ss., e Le oscillazioni della Corte costituzionale tra l’anima “politica” e quella “giurisdizionale”. Una tavola rotonda per ricordare Alessandro Pizzorusso ad un anno dalla sua scomparsa, in AA.VV., Ricordando Alessandro Pizzorusso. Il pendolo della Corte. Le oscillazioni della Corte costituzionale tra l’anima ‘politica’ e quella ‘giurisdizionale’, cit., 10 ss.); inoltre, R. Pinardi, La Corte e il suo processo: alcune preoccupate riflessioni su un tema di rinnovato interesse, in Giur. cost., 3/2019, 1897 ss., e R. Di Maria, Brevi considerazioni sul rapporto fra tutela sostanziale dei diritti (fondamentali) e rispetto delle forme processuali: la Corte costituzionale e gli “animali fantastici”. The final cut, in Consulta OnLine (www.giurcost.org), 1/2020, 7 gennaio 2020, 1 ss.
[19] Maggiori ragguagli critici sulla questione, volendo, nel mio Questioni di costituzionalità inammissibili per mancanza di consenso tra gli scienziati (a margine di Corte cost. n. 84 del 2016, in tema di divieto di utilizzo di embrioni crioconservati a finalità di ricerca), in BioLaw Journal (www.biodiritto.org), 2/2016, 245 ss.; cfr., poi, ora, S. Agosta, Procreazione medicalmente assistita e dignità dell’embrione, cit., spec. 70 ss. e 215 ss.; inoltre, ex plurimis, A. Spadaro, Il “concepito”: questo sconosciuto…, in BioLaw Journal (www.biodiritto.org), Special issue, 2/2019, 429 ss.
[20] Cocente è il ricordo degli esperimenti compiuti dai nazisti su persone svilite ad oggetti in una stagione segnata da collettiva follia e cecità distruttive.
[21] Una vigorosa sottolineatura dell’obiezione di coscienza con riguardo a queste ultime vicende può ora vedersi in G. Razzano, Nessun diritto di assistenza al suicidio e priorità per le cure palliative, ma la Corte costituzionale crea una deroga all’inviolabilità della vita e chiama «terapia» l’aiuto al suicidio, cit., 645 ss.
[22] Se n’è avuta una emblematica, incoraggiante testimonianza dalla disponibilità generosamente offerta da quasi ottomila medici alla richiesta di trecento unità da destinare alle zone maggiormente colpite dal virus: una testimonianza davvero illuminante a riguardo alle formidabili risorse di cui non la sola corporazione medica ma l’intero corpo sociale dispone, alle quali poter attingere a beneficio dell’intera collettività.
La società globale del rischio e i limiti alle libertà costituzionali
Brevi riflessioni a partire dal divieto di sport e attività motorie all’aperto
di Giovanni Pitruzzella
SOMMARIO: 1.- La “società globale del rischio” come sfida al costituzionalismo. 2.- Il principio di precauzione e le sue ambiguità. 3.- I limiti alla libertà del “runner” e il bilanciamento dei rischi. 4.- Processo decisionale di selezione dei rischi, motivazione della scelta e ruolo degli esperti.
1.- La “società globale del rischio” come sfida al costituzionalismo.
L’epidemia da Covid 19 ci pone di fronte una realtà che, fin ora, avevamo fatto in modo di non vedere: viviamo in quella che Ulrich Beck chiama la “società globale del rischio”. Una società in cui, anche per effetto delle conseguenze indesiderate dell’azione umana, si moltiplicano i rischi, rispetto ai quali le nostre conoscenze sono insufficienti. Rischi finanziari, economici, connessi ai flussi migratori, al terrorismo globale, alle minacce per la salute derivanti dalle sempre più frequenti epidemie.
Passiamo da una crisi all’altra pensando che siano fasi transitorie mentre, ci piaccia o no, c’è un cambiamento strutturale delle nostre società, ben sintetizzato dalla formula coniata da Beck, che richiede un adeguamento della politica, delle istituzioni e dell’organizzazione giuridica. Le categorie che abbiamo ereditato dal glorioso costituzionalismo novecentesco sono ancora attuali?
In questo contesto come potranno sopravvivere la democrazia parlamentare, l’integrazione europea, le libertà individuali?
Fino a ieri nella cultura giuridica dominava l’idea di una necessaria espansione illimitata dei diritti individuali ben espressa da formule come “l’età dei diritti” (N. Bobbio) e “il diritto di avere diritti” (S. Rodotà). Ma quando è minacciata la vita, cioè la premessa di ogni libertà, tutto il bagaglio concettuale elaborato dalla cultura, dalla dottrina e dalla giurisprudenza sembra di colpo inservibile.
A chi può interessare la libertà di circolazione o la riserva di legge come condizione irrinunciabile per la limitazione delle libertà costituzionali, quando un virus che uccide si diffonde grazie ai contatti sociali e il bollettino giornaliero dei morti a causa del coronavirus richiede decisioni particolarmente rapide? A chi può importare della privacy se per evitare la crescita dei contagi è necessario controllare la vita di ciascun di noi anche ricorrendo all’uso massiccio dei dati personali (la Sud Corea è l’esempio che tende a essere imitato).
Quando l’emergenza sanitaria sarà passata, il virus potrebbe tornare a colpire, come ipotizzano alcuni esperti, ci saranno purtroppo nuove epidemie e vivremo altri rischi e nuove crisi: una forte crisi economica seguirà la crisi sanitaria e poi abbiamo solo messo tra parentesi i rischi legati alle migrazioni, al riscaldamento globale, al terrorismo islamico e tanti altri.
Se la “società globale del rischio” è il mondo in cui viviamo dobbiamo rassegnarci ad assistere ad un processo di strutturale restrizione delle nostre libertà oppure possiamo cercare di adeguare ai caratteri dei tempi presenti le istituzioni e anche la cultura giuridica in modo da salvaguardare, per quanto possibile, i valori della nostra civiltà?
A questo interrogativo non possiamo sfuggire anche se è di quelli da far tremare i polsi. Dovremo affrontare la questione con riguardo alla nostra architettura istituzionale e giuridica. Per esempio sarà difficile gestire i rischi e fare fronte alla lunga ricostruzione economica in presenza dei tanti poteri di veto che rendono l’Italia un Paese bloccato. Di fronte a rischi globali bisognerà rivedere il modo come funziona l’Unione europea e le sue politiche (il che confusamente sta già avvenendo), ma anche capire quale ruolo dare agli scienziati e agli esperti nel processo decisionale.
Con riguardo alle libertà bisogna chiedersi di fronte ai rischi e alla loro gravità se e come esse potranno avere un livello accettabile di tutela. Proprio con riguardo a quest’ultimo aspetto, possiamo svolgere qualche breve considerazione partendo da una questione apparentemente minore ma che potrebbe avere un valore paradigmatico nella gestione futura dei rischi e delle crisi: la questione dei limiti alle attività motorie e sportive all’aperto progressivamente estesi fino ad arrivare al divieto assoluto introdotto dalle ordinanze di alcuni presidenti di regione.
2.- Il principio di precauzione e le sue ambiguità.
Il virus si diffonde grazie ai rapporti sociali e quindi il distanziamento sociale è l’arma principale per contenerne la diffusione. Stare a casa è considerato dagli esperti come la principale strategia per controllare l’epidemia evitando la saturazione del sistema sanitario. Com’è noto, i primi provvedimenti del Governo permettevano lo sport e le attività motorie all’aperto purché fossero mantenute le distanze di sicurezza tra una persona e l’altra.
Di fronte alla crescita esponenziale dei contagi si è detto che ancora troppe persone erano fuori casa e che quindi la strategia del distanziamento sociale non funzionava pienamente. A questo punto un numero crescente di ordinanze dei Presidenti di regione ha limitato fino a impedire del tutto lo sport e le attività motorie all’aperto anche se svolte da una persona singola senza contatti con altri. Poi è intervenuto anche il Governo introducendo la previsione secondo cui si può fare sport solamente nelle vicinanze della propria abitazione.
L’idea sottesa a questo progressivo restringimento è che bisogna stare comunque a casa perché più persone si trovano all’esterno più aumenta il rischio di diffusione del virus. Quindi quello che, nel nostro caso, entra in giuoco è il principio di precauzione. Principio che è destinato a crescere di importanza nella società del rischio. Se un comportamento porta con sé il rischio di una conseguenza dannosa – nel nostro caso, estremamente dannosa per la salute – l’attività va vietata.
Tutto ciò è apparentemente molto persuasivo e può fare facilmente breccia nel nostro animo turbato da un’epidemia che minaccia la vita nostra e dei nostri cari. In questo contesto può facilmente attecchire l’idea secondo cui il runner è un potenziale untore e per questo va fermato e se, malgrado tutto, esce di casa commette un illecito ed è sottoposto ad un forte stigma sociale.
Se, però, nonostante il turbamento emotivo che tutti ci coinvolge, guardiamo al problema con più calma e attenzione vediamo che la questione è più complessa e che diversi sono i valori in giuoco. Tutti sappiamo bene che il principio di precauzione è un principio fondamentale del diritto dell’Unione europea, che è poi trasmigrato negli ordinamenti nazionali ed è presente in una corposa giurisprudenza delle Corti europee e nazionali. Certamente non ce ne vogliamo privare rinunciando alle garanzie che offre a fondamentali valori, come la tutela della salute e dell’ambiente. Ma questo non può impedirci dal vederne le ambiguità o, se si preferisce, la complessità. Il costituzionalista americano Carl Sunstein, che ha dedicato al tema uno studio approfondito, ci dice che il principio di precauzione è paralizzante perché, in buona sostanza, imponendo il divieto di una determinata attività porta con sé altri rischi che derivano proprio dal mancato svolgimento di quella attività, per impedire i quali bisognerebbe invece consentirla. Allora cosa fare? Quale rischio consentire? In base a quali criteri e procedure effettuare la scelta?
Riporto qui brevemente qualche esempio proposto dallo stesso Sunstein, al fine di rendere più chiaro quanto appena osservato. Primo esempio: molti hanno paura del nucleare, ritenendo che le centrali atomiche determinano seri rischi per la salute e la sicurezza, a causa della possibilità di incidenti nucleari. Ma una nazione per non ricorrere al nucleare potrebbe essere indotta a utilizzare i combustibili fossili per produrre energie, aggravando altri tipi di rischi, in particolare quelli associati al riscaldamento globale. Secondo esempio: la durata e il tipo di sperimentazione richiesta prima che sia autorizzato l’immissione in commercio di nuovi farmaci. Per evitare il rischio di danni (i cosiddetti danni iatrogeni) derivanti da farmaci non sufficientemente testati, si impedirà a una parte della collettività di ottenere i benefici potenziali di questi nuovi farmaci aggravando i rischi per la salute cui è soggetta questa parte della popolazione. Terzo esempio: il dibattito sull’attitudine di certi antidepressivi di generare un piccolo rischio di tumore al seno, suggerisce un approccio precauzionale diretto a scoraggiare l’uso di questi farmaci da parte dei consumatori. Tuttavia non assumere antidepressivi può essere a sua volta un fattore di rischio, certamente di tipo psicologico, ma in certi casi anche fisico, perché il malessere psicologico si associa sovente a problemi fisici. Quarto esempio: molti ritengono che impedire la modificazione genetica di prodotti diretti all’uso alimentare possa ridurre il rischio di malattie e decessi che l’uso di questi alimenti, secondo alcuni, potrebbe provocare. Al contempo, però, omettere la produzione più economica e in maggiore quantità di prodotti di tal tipo potrebbe privare una parte importante della popolazione di alcuni Paesi poveri e in via di sviluppo di avere a disposizione una quantità sufficiente di cibo per non morire di fame.
Questi esempi dimostrano come certi divieti a volte contraddicono il principio di precauzione perché determinano rischi sostitutivi nella forma di pericoli che si materializzano o aumentano in conseguenza della scelta regolativa.
3.- .- I limiti alla libertà del “runner” e il bilanciamento dei rischi.
Se applichiamo le precedenti considerazioni alla questione dei limiti alla libertà del runner, possiamo fissare qualche punto interessante. Vietare in modo assoluto lo sport e l’attività motoria all’aperto anche in forma individuale esclude il rischio che in concreto il runner possa approfittare, in modo più o meno consapevole, del suo stare fuori casa per interagire con altri oppure che correndo da solo diffonda nell’aria il virus o sia egli stesso contagiato. Quale è la probabilità concreta di quest’ultimo rischio? Fin ora gli esperti hanno detto – se ho capito bene – che il virus non sta nell’aria che respiriamo ma è trasmesso tramite i contatti sociali, e cioè che il virus si sposta con le persone che ne sono affette, le quali avendo rapporti con altre persone lo trasmettono a queste ultime. Perciò se chi corre, va in bicicletta o fa una camminata a passo svelto non ha alcun contatto con altri e mantiene con le altre persone che eventualmente incontra una distanza significativa il rischio di contagio sarebbe estremamente limitato o addirittura inesistente.
Di fronte a un rischio di contagio estremamente improbabile, il divieto assoluto di sport e attività motorie all’aperto accentua il rischio di aggravamento di alcune patologie che riguardano una parte non piccola della popolazione, il cui trattamento normalmente richiede un minimo di attività fisica giornaliera. Il rischio per la salute di cardiopatici, ipertesi, diabetici, obesi subisce un aumento che è certo. Si potrebbe pure considerare come un’attività all’aria aperta di qualche ora a settimana potrebbe pure diminuire con riguardo alle persone che non hanno le patologie suddette, il rischio che dopo settimane o mesi di isolamento in casa il loro equilibrio psicofisico ne risulti compromesso, o che le loro difese immunitarie subiscano un abbassamento consistente.
Come si vede c’è un problema di rapporto tra due rischi, che riguardano comunque la salute. Il primo è un rischio che ha un forte impatto sull’immaginario collettivo ma sembra avere una probabilità di tradursi in un evento negativo assai improbabile, mentre il secondo è un rischio certo che però nella percezione comune tende a essere sminuito perché c’è la paura dell’untore.
Resta l’altra possibilità, che è quella, da non escludere, del “runner irresponsabile”, che potrebbe approfittare della libertà di fare attività sportiva o motoria all’aperto per sfuggire alle regole sull’isolamento ed entrare in contatto con altri, magari praticando uno sport collettivo come il calcetto oppure andando a trovare l’amante. Si tratta di un rischio di più probabile concretizzazione, che però potrebbe essere contrastato attraverso il controllo delle forze dell’ordine diretto a evitare assembramenti e a garantire le distanze di sicurezza. Sarebbe opportuno, in ogni caso, capire quanto questi fenomeni siano stati reali oppure amplificati dai media, prima di prendere una decisione sull’equilibrio tra i due rischi coinvolti dal divieto assoluto di sport e attività motorie all’aperto.
Siamo così arrivati ad un terreno delicato che è quello del bilanciamento. Intendiamoci: le limitazioni alla libertà di circolazione sono sacrosante e necessarie per controllare l’epidemia. Stare a casa è un dovere di tutti che va interpretato in modo rigoroso. Ma quanta dose dei rischi legati al divieto assoluto di sport e attività motoria siamo disposti a sopportare? Per limitare al massimo il rischio del “runner irresponsabile” quale livello di rischio connesso a quel divieto vogliamo accettare? Possiamo pure dire che non ci importa nulla dei cardiopatici, degli obesi e di altri malati e tanto meno dell’equilibrio psicofisico o delle difese immunitarie del nostro vicino di casa, che vogliamo eliminare alla radice il rischio del “runner irresponsabile” grazie al divieto assoluto di sport e attività motorie all’aperto. Ma quello che è importante è che bisogna dire in modo chiaro e trasparente quali sono i rischi, quale rischio intendiamo limitare e quale invece accettiamo, esponendo le ragioni della scelta.
C’è un’osservazione da fare a proposito del bilanciamento. Ho parlato di un bilanciamento dei rischi che è cosa diversa dal bilanciamento dei diritti. Le operazioni a cui i giuristi e le Corti sono abituati riguarda il bilanciamento tra diritti che sono entità abbastanza bene individuate nei contenuti e rispetto alle quali si può stabilire con un grado di precisione accettabile quanto sacrificio viene arrecato ad uno per tutelare l’altro. Un compito per il quale i giuristi e i giudici sono ben attrezzati. Quando dobbiamo maneggiare i rischi le cose cambiano. Intanto perché si tratta di fattori molto più indeterminati e incerti, poi perché la loro dimensione, la loro portata, il loro significato, i reciproci rapporti non possono essere definiti con gli strumenti del diritto ma richiedono l’applicazione di un sapere tecnico scientifico. Tutto ciò concorre a spiegare le difficoltà di un sindacato giurisdizionale sulle scelte riguardanti i rischi, mentre il sindacato giurisdizionale probabilmente con più attendibilità e prevedibilità potrebbe spostarsi sui processi seguiti per arrivare a quelle scelte.
4.-Processo decisionale di selezione dei rischi, motivazione della scelta e ruolo degli esperti.
Siamo esposti a molteplici fonti di rischio e il principio di precauzione non ci può salvare da questa che è la realtà in cui viviamo. Possiamo scegliere tra più rischi decidendo di limitare al massimo uno a costo di espandere i rischi che sono aggravati dal divieto. Possiamo pure cercare un bilanciamento dei rischi, dando la prevalenza all’esigenza di contenere quello che viene percepito come il rischio più grave senza arrivare all’espansione eccessiva di altri rischi. Quest’ultima sembra la via intrapresa dal Governo, che cerca di contenere al massimo il rischio del “runner irresponsabile” ma permette un minimo di attività sportiva e motoria sia pure con consistenti limitazioni. Invece molte regioni hanno scelto la via del divieto assoluto circoscrivendo al massimo un determinato rischio a costo di aggravarne degli altri.
Non entro qui nella questione se, visto il riparto delle competenze tra lo Stato e le Regioni, queste ultime possano adottare tale tipo di limitazioni. Ma pur ammettendo che ne abbiano la competenza, quello che probabilmente è cruciale per la tutela delle nostre libertà è la trasparenza del processo decisionale e la motivazione della scelta. Bisogna dire quali sono esattamente i rischi che si hanno di fronte, che tipo di equilibrio creare tra gli stessi, cosa si vuole tutelare, motivarne le ragioni. Ragioni che in questo, come in tanti altri casi che si verificano nella società globale del rischio, si prestano ad un’analisi di tipo tecnico-scientifico. L’epidemia si combatte grazie alla scienza. Sono virologi, epidemiologi, e tanti altri scienziati e medici che ci possono dire cosa fare. Certamente le conoscenze scientifiche sono incomplete, ma comunque soltanto il sapere tecnico-scientifico che gode di maggior consenso nella comunità scientifica internazionale può indicare cosa fare. Le limitazioni delle nostre libertà e quindi le scelte su come gestire i rischi dovranno essere collocate all’interno di un processo decisionale in cui sia istituzionalizzato e ben visibile il ruolo degli scienziati e degli esperti. Altrimenti le scelte su quale rischio privilegiare, su come circoscriverlo, sulle limitazioni da apportare alle nostre libertà saranno dettate solamente dalla paura che di per sé si presta a pericolose strumentalizzazioni politiche.
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