ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
LE SPERANZE DEI MAGISTRATI. Aspettando .....un nuovo magistrato
di Rosario Russo
«L’errore italiano è stato quello di dire sempre: “Aspettiamo le sentenze”. Se invito a cena il mio vicino di casa e lo vedo uscire con la mia argenteria nelle tasche, non devo aspettare la sentenza della Cassazione per non invitarlo di nuovo».
Esempi, iperboli, metafore, guizzi intellettuali sono formidabili ordigni retorici, ma non sempre assurgono a principi di verità, storica o giuridica. Ce ne rendiamo subito conto a volere ipotizzare un altro caso: in pieno giorno cento persone testimoniano di avere visto un uomo mentre, a distanza ravvicinata, con una pistola sparava ripetutamente mirando al capo di un clochard adagiato sulla panchina di un parco pubblico. Bisogna “aspettare la sentenza”? Certamente sì, perché l’autopsia può rivelare se, prima degli spari narrati dai testimoni, il clochard fosse già deceduto ovvero fosse stato ucciso da un’altra arma.
Ma torniamo alla metafora ormai famosa del ladro di argenteria. Se mi accorgessi che il mio ospite nel corso del pranzo avesse sottratto le mie posate non solo difficilmente reitererei l’invito a pranzo, ma soprattutto avrei il diritto di invocarne la condanna; ma a questo scopo dovrei inevitabilmente “aspettare la sentenza”. Da qualche millennio ormai, infatti, Giustizia e potestà punitiva spettano alla Stato, e precisamente (da qualche secolo) all’Ordine giudiziario.
Di tutto ciò è sicuramente ben avvertito l’autore della stessa metafora. Il suo messaggio va dunque correttamente interpretato. Egli intende più propriamente richiamarci ad una spontanea legalità diffusa e proattiva, senza la quale l’Ordine giudiziario resta sostanzialmente impotente, perché altrimenti occorrerebbe (come diceva Carnelutti) che Carabinieri e Magistrati fossero in numero superiore a quello della popolazione. In teoria generale si chiama principio di effettività dell’ordinamento giuridico: perché esso correttamente funzioni è necessario che la maggior parte dei cittadini si adegui spontaneamente alla legge democraticamente emessa e se ne faccia paladino. Pertanto, se i dirigenti di un partito politico o di una istituzione pubblica abbiano sicura evidenza di un abuso o di un illecito maneggio, dovrebbero intanto essi stessi espellere le “mele marce”, senza attendere che lo faccia l’apparato punitivo. Il che ovviamente – giova aggiungere – vale a maggior ragione per la Magistratura e i magistrati. Soltanto in questo senso è plausibile affermare che fisiologicamente non dovrebbe essere necessario attendere la sanzione della sentenza (penale o disciplinare), per fare cessare l’illiceità di una condotta. In verità, com’è persino lapalissiano, se magistrati, Cittadini e Autorità lungi dal violare la legge la legge, se ne facciano attivi paladini e custodi, di certo non sarebbero necessarie così tante (sentenze e) sanzioni.
Ma l’ingenuo candore di queste notazioni filologiche si dimostra inattuale nella presente congiuntura storica, perché lo scandalo delle Toghe sporche ha schiacciato quello di Mani Pulite. La ‘casa’ della giustizia, disvelata da un trojan, ha esibito che trame, linguaggio («la casa dell’essere», secondo Heidegger) e spregiudicatezza di molti magistrati chiamati a governare il C.S.M. non sono affatto diversi da quelli che i magistrati di Mani Pulite avevano contribuito a sanzionare, segnando addirittura una fase della nostra storia repubblicana. Nel 1992 fu colpita, ma non debellata, la pandemia etica della corruzione ambientale; nel 2019 il virus che ha infettato molti magistrati apicali è quello dell’ambizione sfrenata, assolutamente incompatibile con l’indipendenza dell’Ordine giudiziario.
Di fronte a cotale ‘disfatta’ della Giustizia (o della giustizia), non basta sostenere che la maggior parte dei magistrati sono onestissimi servitori dello Stato. Il che è verissimo ma non basta, sia perché costoro non sono in grado di incidere minimamente sulle decisioni del C.S.M. (che anzi il più delle volte passivamente subiscono), sia perché al postutto essi (tra cui lo scrivente) non hanno saputo scegliere i propri rappresentanti e vigilare in tanti anni sulla loro condotta.
Di fronte a cotale ‘disfatta’ della Giustizia (o della giustizia), allora non basta sostenere «L’errore italiano è stato quello di dire sempre: “Aspettiamo le sentenze”. Al contrario, in questo caso non solo legittimamente aspettiamo da un anno le pertinenti e pubbliche decisioni penali e disciplinari sui protagonisti della sciagurata vicenda, ma soprattutto auspichiamo che, con umile saggezza, i magistrati tutti ripensino le ragioni della ‘disfatta’ e ne diano conto all’Utente finale della Giustizia, nel cui nome giudicano. Una crisi epocale, come quella attraversata dalla magistratura italiana, ha bisogno non di trionfali invettive, ma di una radicale e fattiva palingenesi (personale e professionale) dei magistrati tutti (auspicata dal Capo dello Stato), senza la quale anche le inevitabili riforme legislative sarebbero vane. Occorre una nuova Magistratura, ma soprattutto un nuovo Magistrato: umilissimo, colto, riservato, tanto solerte quanto profondo nei giudizi, consapevole e pensoso del proprio ruolo di «condannato a decidere» (per dirla con F. Cordero), soprattutto impermeabile a ogni ambizione che non sia quella di applicare imparzialmente la legge e la Costituzione, agguerrito e sapiente difensore della propria indipendenza (interna ed esterna). Occorre altresì un Consiglio Superiore della Magistratura capace di interpretare ed estrinsecare la propria ‘superiorità’ nel preservare realmente l’indipendenza dei magistrati perfino dalle loro personali ambizioni. Tutto ciò aspettiamo e speriamo, mentre attendiamo - e con pari forza auspichiamo - la positiva metamorfosi anche degli esponenti politici con cui non a caso tramavamo i magistrati inquisiti.
Purtroppo la ‘disfatta’ della giustizia (o Giustizia) svela la crisi della legalità e perciò del sistema democratico, sancito dalla Costituzione ma smentito dal sistema spartitorio rivelato dalle intercettazioni[1].
Il diritto va preso sul serio.
[1] Sia consentito rinviare a R. RUSSO, Giustizia è sfatta. Appunti per un accorato necrologio, 8 gennaio 2020, sul sito Judicium.it, diretto dal prof. B. Sassani.
Sui poteri di necessità e di urgenza della Regione Siciliana nell'emergenza Covid e migranti (nota a Tar Sicilia - sez. III- decreto cautelare 27 agosto 2020 n. 842) di Alessandro Cioffi
Sommario: 1. L’ordinanza del Presidente della regione Sicilia - 2.La decisione cautelare del Presidente del Tar Sicilia - 3. L’emergenza Covid-19 e i poteri di necessità e urgenza- 4. Il problema delle fonti.
1. L’ordinanza del Presidente della regione Sicilia
Con il decreto cautelare 27 agosto 2020 n. 842, il presidente della terza Sezione del Tar Sicilia sospende l’ordinanza 22 agosto n. 33, emessa dal presidente della regione Sicilia al fine di contenere il contagio del Covid-19 nei centri di accoglienza dei migranti. L’ordinanza regionale dispone lo sgombero dei centri e il divieto di ingresso nel territorio siciliano. Precisamente, ordina lo sgombero “immediato degli hotspot e dei Centri di accoglienza dei migranti … entro le ore 24 del 24 agosto 2020”, con il trasferimento “in altre strutture fuori dal territorio della Regione Siciliana”; e ordina il divieto di “ingresso, transito e sosta nel territorio della Regione Siciliana” ad “ogni migrante che raggiunga le coste siciliane”.
La prima parte del dispositivo è motivata dal fatto che non è “allo stato possibile garantire la permanenza nell'Isola nel rispetto delle misure sanitarie di prevenzione del contagio”. La seconda disposizione è motivata dalla necessità di “tutelare e garantire la salute e la incolumità pubblica, in mancanza di strutture idonee di accoglienza”.
L’ordinanza regionale richiama a suo fondamento lo Statuto siciliano, l’art. 32 della legge 23 dicembre 1978 n. 833, l'art. 117 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, l'articolo 11, comma 1 ter, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286. Ricordiamo che l’art. 32 attribuisce al presidente della regione il potere di adottare ordinanze contingibili e urgenti in materia di igiene e di sanità pubblica, l’art. 117 attribuisce alle regioni funzioni per la tutela della salute umana, l'articolo 11, comma 1 ter, vieta il transito e la sosta di navi per motivi di ordine e sicurezza pubblica[1].
E’ dunque una questione di poteri quella sollevata dal ricorso presentato dalla presidenza del Consiglio dei ministri e dal ministero dell’Interno. Ed è una questione molto delicata: i poteri dello Stato e della Sicilia, in materia di migranti e di emergenza Covid, sul piano dell’ordinamento generale e su quello particolare dell’autonomia.
Accanto ad essa, si pone anche la questione di natura processuale sull’impiego del decreto monocratico. Ovvero, l’estensione dei poteri cautelari presidenziali, il sindacato di legittimità e la sua profondità in sede monocratica, la possibilità di un appello immediato. E’ già programmato un approfondimento scientifico e tematico di quest’ultimo profilo nell’ambito delle Giornate di studio sulla giustizia amministrativa, ragion per cui limiterò le presenti note solo al primo profilo problematico sopra indicato.
2. La decisione cautelare del Presidente del Tar Sicilia
Sul danno e sulla sua “estrema gravità”, nella motivazione del decreto si legge che il potere di provvedere in materia di emergenza Covid -19 è ora regolato dal decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19. In particolare, si dice che il potere regionale è stato “limitato e conformato” dagli articoli 1 e 3 del decreto-legge. L’art. 1 stabilisce che sia il presidente del Consiglio dei ministri a disporre in materia, mentre l’art. 3 stabilisce che “Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano altresì agli atti posti in essere per ragioni di sanità in forza di poteri attribuiti da ogni disposizione di legge previgente”.
E’ rispetto a queste due norme che il provvedimento regionale è giudicato “esorbitante”. Sarebbe inoltre esorbitante anche rispetto alle norme sull’immigrazione: difatti il trasferimento dei migranti dalla Sicilia ad altre strutture al di fuori dell’Isola finisce per impattare “sul territorio “nazionale” e sull’immigrazione, che è materia riservata allo Stato, ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. b, della Costituzione[2].
In conclusione, l’ordinanza regionale va oltre i limiti dei poteri attribuiti[3]. Inoltre, al di là della questione del potere, il decreto presidenziale ravvisa che il contenuto del provvedimento sia viziato, perché manca una “idonea istruttoria”. Pertanto, secondo le conclusioni del decreto, non risulterebbe l’esistenza di un concreto aggravamento del rischio sanitario legato alla diffusione del Covid-19 tra la popolazione locale, quale conseguenza del fenomeno migratorio[4].
3. L’emergenza Covid-19 e i poteri di necessità e urgenza
Può la regione Sicilia provvedere sui migranti in situazione di emergenza Covid ?
Questo è l’interrogativo di fondo. La risposta dipende da come si guardi la materia. La materia, precisiamo, è salute e immigrazione. Se di questa materia si considera non l’ambito materiale ma una sua qualità, un suo apice o particolare carattere, la risposta è agevole: si considera l’emergenza Covid. Quindi si applica il decreto-legge 25 marzo 2020, n. 19, che considera l’emergenza come situazione straordinaria. E’ una normativa speciale e quindi prevale. In particolare, prevale sulle altre norme di legge e sulle competenze ordinarie[5]. E’ questo l’effetto giuridico proprio dell’emergenza, intesa come fatto giuridico straordinario.
In questo senso, sul piano della stretta legalità e del sindacato giurisdizionale, il decreto presidenziale può ritenersi corretto.
Il punto sottinteso, su cui spendere qualche parola di spiegazione in più, è un altro: è il potere che si esercita in emergenza. E’ da vedere sul piano costituzionale e, non dimentichiamo, sul piano dell’ordinamento e delle autonomie, il piano dell’ordinamento generale e dell’ordinamento particolare, quello dello Stato e quello dell’autonomia speciale della Sicilia. Su questo piano, che è istituzionale, il punto è identificare il potere di cui si parla. Tutti i fattori che sono in gioco portano ad un solo punto: il potere amministrativo in emergenza. A questo ci si può avvicinare già sul piano lessicale, leggendo il decreto cautelare nel punto in cui intuisce l’essenziale: il problema è che il potere regionale è stato “conformato e limitato” dalle norme sopravvenute del decreto-legge[6]. L’espressione sembra esatta, perché il “conformare” il potere afferra subito il problema teorico sottinteso: in teoria tutti i poteri di emergenza sono unitari e sono un tutt’uno. E questo perché dipendono tutti dalla necessità. La necessità, secondo l’insegnamento di Santi Romano e della giuspubblicistica italiana, costituisce il fondamento di ogni potere emergenziale[7]. Dunque, nella prospettiva della necessità, il potere emergenziale è uno solo: e può spettare alla Regione o allo Stato, a seconda delle esigenze e della gravità dei fatti, ma resta che il potere di necessità è un potere unitario.
Non a caso, guardando gli atti amministrativi in questione, la loro natura è simile: l’ordinanza regionale impugnata è qualificata come ordinanza contingibile e urgente[8], mentre il d.p.c.m., ovvero l’atto che secondo l’ordine delle competenze dovrebbe stare al posto dell’ordinanza regionale, è, in teoria, assimilabile al genere delle ordinanze di necessità e urgenza[9]. Si può dunque parlare del potere di necessità come di un potere unitario, che si esprime con atti omogenei e risponde ad un identico criterio. Ne consegue, in termini di esercizio del potere e di interessi da valutare, che l’uso del potere emergenziale “scorre” tra Stato e Regione, secondo un principio di sussidiarietà. In fondo, obbedisce alla logica dell’art. 120 Cost. e della sostituzione ivi prevista: per motivi di pericolo, il Governo si può sostituire alle Regioni. E’ questo il principio e, diremmo, lo spirito, del potere in emergenza. E non è altro che il riflesso della necessità. Soprattutto, è il riflesso di un interesse generale. Difatti, non solo per il criterio, ma anche per l’oggetto su cui il potere si esercita, immigrazione e sanità, siamo davanti alla manifestazione di un interesse generale. L’immigrazione è materia riservata allo Stato, ai sensi dell’art. 117 Cost. lett. b); e se ne trae il difetto assoluto di attribuzione, a discapito degli enti locali, secondo una consolidata interpretazione del giudice amministrativo[10]. Lo stesso vale per la sanità: in emergenza, è intesa come salute della persona, ai sensi dell’art. 32 Cost., e assume il valore di interesse della collettività, secondo l’interpretazione che il giudice amministrativo ha dato in materia di misure amministrative di emergenza Covid e di prevalenza sulle libertà personali[11]. Si tratta, dunque, di un interesse generale, che supera l’art. 32 Cost. e le altre singole norme costituzionali, perché è un interesse di tutti e verso tutti, che riguarda tutta la vita della comunità nell’ordinamento generale[12]. Difatti, comprende non solo alcune specifiche materie dell’art. 117 Cost., come la protezione civile o la profilassi, bensì il piano generale dell’art. 120 Cost., come la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni e la tutela della Repubblica. Il che spiega, altresì, il fatto che in questa emergenza il giudice amministrativo abbia riconosciuto la prevalenza del potere di governo dello Stato sul potere delle Regioni e dei Comuni, in casi come quello del divieto comunale di attraversare lo stretto di Messina o nel caso dell’ordine regionale che dava apertura anticipata agli esercizi commerciali in Calabria[13].
In conclusione, in questa luce si spiega il fatto che il potere emergenziale si possa trasferire dalla Regione allo Stato, senza violare il piano costituzionale. Si spiega altresì il fatto di fondo: a prescindere dal decreto-legge e dalla natura speciale delle sue norme, la necessità non è il riflesso di un fatto giuridico speciale, ma è un fatto normale. Precisamente, la necessità è quel fatto giuridico che riflette i principi istituzionali, ovvero, quei valori e quelle garanzie vitali che permettono all’ordinamento giuridico di sopravvivere e di tutelare i suoi valori fondamentali in casi di pericolo[14]. E’ dunque naturale che in questo caso sia lo Stato a provvedere. Anche in questa luce, la soluzione data dal decreto presidenziale sembrerebbe corretta.
4. Il problema delle fonti
Lasciando da parte la questione processuale, rimarrebbe comunque da affrontare il problema delle fonti. In particolare, due questioni: il potere di necessità come materia di decreto-legge e di d.p.c.m.; il potere di necessità come materia che è regolata dalla Costituzione e dallo Statuto siciliano.
Il primo punto del problema è molto generale ed è nel fatto che il decreto-legge dispone di una materia che ha evidenti riflessi sulle libertà personali. In particolare, il decreto-legge dispone delle libertà stabilendo che si provveda con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri. In questo caso, secondo larga parte dei costituzionalisti, vi sarebbe violazione del principio di legalità sostanziale e violazione della riserva di legge[15]. Ne è sorto un dibattito[16] e, a soluzione di esso, la teoria della necessità è una delle possibili spiegazioni[17]. Fa l’ipotesi che vi sia un doppio limite, che investe le libertà e i poteri amministrativi di urgenza[18]. Specie quando la necessità significa tutela della Repubblica ai sensi dell’art. 120 della Costituzione. Il che investe anche l’ordine pubblico.
Qui si presenta il secondo punto del problema, con riguardo al caso specifico. Se della materia “salute e immigrazione” si guarda un profilo particolare, viene fuori l’ordine pubblico. Non a caso, nell’ordinanza regionale, nelle considerazioni preliminari, si legge che gli sbarchi dei migranti possono pregiudicare “l’ordine e la sicurezza pubblica”[19]. Dunque, considerando l’ordine pubblico come motivo del provvedere, verrebbe fuori un riflesso diverso della cosa, e, probabilmente, un’interferenza delle fonti. Potrebbe essere una duplice interferenza, che, ritengo, si può sciogliere nel modo seguente.
Il punto di partenza è che vi è una precisa attribuzione costituzionale: lo Statuto della Sicilia, art. 31, primo comma, prevede che spetti al Presidente della regione il “mantenimento” dell’ordine pubblico nell’Isola. Ora, tra ordine pubblico in sé considerato e “mantenimento” dell’ordine pubblico corre una sottile ma precisa distinzione, nel senso che lo Stato definisce cosa sia l’ordine pubblico[20] e la Sicilia lo attua, ossia lo mantiene[21]. Inoltre, sempre nel gioco delle fonti, non si può dimenticare che lo Statuto della Sicilia è del 1946 e quindi è anteriore alla Costituzione. Pertanto, sul punto del mantenimento, viene fuori un interrogativo: davvero lo Statuto prevale, come norma anteriore e come norma speciale?
Il problema è molto delicato e solo in apparenza si risolve con la regola che scioglie in un senso preciso l’antinomia tra norme di pari rango, con la conseguenza, ovvia ma apparente, che lo Statuto prevalga sulla Costituzione. Qui non ci può essere una regola di prevalenza speciale. Difatti, il rapporto non è di prevalenza, ma è istituzionale. Lo Statuto è, sì, norma di rango costituzionale, e per giunta speciale, ma è espressione di autonomia; e l’autonomia, qualsiasi autonomia, non è mai prima, ma è sempre dopo e dentro l’ordinamento generale[22]. L’autonomia deriva dall’ordinamento generale, che è l’ordinamento originario[23]. Non può essere diversamente, altrimenti bisognerebbe pensare che l’autonomia speciale della Sicilia sia un ordinamento a titolo originario. Addirittura, un ordinamento derivante, da cui la Costituzione deriva, almeno in certi punti. Invece è il contrario: la Costituzione, che sopravviene nel 1948, costituisce l’ordinamento generale.
Ogni ordinamento generale valuta l’autonomia e le “sue” esigenze, secondo l’art. 5 della Costituzione[24]. E pone dei limiti. Sono limiti istituzionali e sono limiti insuperabili. Tutto questo si riflette oggi nel nostro ordinamento e, nel concreto, funziona come principio di “assorbimento”. Concretamente, nella giurisprudenza costituzionale, si dice che l’ordinamento che sopravviene “assorbe” l’ordinamento particolare, lo Statuto speciale, mettendo limiti alle sue parti, quelle non compatibili. Così è avvenuto, per esempio, per l’Alta Corte per la regione siciliana, prevista nell’art. 25 dello Statuto[25]; parte evidentemente incompatibile con l’ordinamento costituzionale odierno, parte che non poteva non essere assorbita[26].
Nel caso in esame, l’assorbimento potrebbe funzionare in modo simile. Potrebbe riguardare l’ordine pubblico. Investirebbe non tutta la materia, bensì il suo mantenimento. Ovvero, il modo di esercizio, la valutazione degli interessi; ed è qui che l’idea che il potere di necessità sia unitario può dare un contributo; e, inoltre, è qui che l’espressione del decreto presidenziale - “conformare il potere”- sembra centrare la questione. Difatti, conformare un potere, un potere che sia unitario, significa che l’interesse di fondo è sempre lo stesso e che la sua visione resta unitaria. Così, la titolarità dell’ordine pubblico spetta allo Stato, ma il mantenimento spetta alla Sicilia. E così l’esercizio concreto del potere spetta al Presidente della regione, valutando gli interessi della Sicilia; ma quella valutazione non può essere esclusiva, perché deve considerare anche l’ordinamento generale, l’interesse dello Stato. Emblematico, nel caso concreto, è un punto che compare sia nel testo dell’ordinanza regionale sia in quello del decreto presidenziale, e rappresenta il problema del disegno unitario: in un passo del decreto si dice che il potere regionale è “conformato” dalle norme sull’emergenza, mentre nell’ordinanza regionale si dice che l’ordine di trasferimento dei migranti investe il “territorio nazionale” – verrebbe quasi da dire “continentale”-, come se la Sicilia non fosse territorio nazionale. In questo punto s’impone il potere di necessità come potere unitario. Significa duplice visione degli interessi e disegno unitario. Non a caso Santi Romano diceva che ogni potere di necessità -e ogni suo atto urgente, che sia un’ordinanza comunale o un decreto del Governo- si esprime a mezzo di un atto giuridico che è unitario e identico. E’ figlio della necessità. Pertanto, qui l’interesse è sempre lo stesso e non esistono, in questo caso, poteri diversi, affari della Sicilia o interessi particolari, tipicamente emergenti secondo la logica di prevalenza che è propria della norma speciale; qui c’è in gioco un interesse generale: è un interesse generale dello Stato ed è un interesse che, a superare ogni particolarismo o complesso postunitario, grazie alla coscienza di sé e della grande cultura siciliana, si deve interpretare come interesse generale della Sicilia stessa.
In conclusione, il criterio di esercizio dovrebbe essere identico e quindi l’unica regola istituzionale da osservare è quella del parlarsi prima, ovvero quella del dialogo preventivo, che, modernamente inteso, in termini costituzionali, si chiama principio di collaborazione e si ispira alla logica dell’art. 120 della Costituzione.
Sono considerazioni che meriterebbero un più ampio e approfondito sviluppo che non può per il momento essere svolto in questa sede. Anche la pronuncia in commento deve del resto essere approfondita e confermata in sede collegiale.
* * *
[1] L'art. 32 la legge 23 dicembre 1978 n. 833 dispone che “il Ministro della sanità può emettere ordinanze di carattere contingibile e urgente, in materia di igiene e sanità pubblica e di polizia veterinaria, con efficacia estesa all'intero territorio nazionale o a parte di esso comprendente più regioni" e “nelle medesime materie sono emesse dal presidente della giunta regionale e dal sindaco ordinanze di carattere contingibile e urgente, con efficacia estesa rispettivamente alla regione o a parte del suo territorio comprendente più comuni e al territorio comunale”; l'art. 117 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, dispone relativamente alle funzioni attribuite alle regioni per la tutela della salute umana; l'articolo 11, comma 1 ter, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, dispone che “il Ministro dell'interno ... può limitare o vietare l'ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale, salvo che si tratti di naviglio militare o di navi in servizio governativo non commerciale, per motivi di ordine e sicurezza pubblica”.
[2] Secondo il decreto cautelare, l’ordinanza regionale impatta “in modo decisivo sull’organizzazione e la gestione del fenomeno migratorio nel territorio italiano, che rientra pacificamente nell’ambito della competenza esclusiva dello Stato ai sensi dell’art. 117, co. 2, lett. b), della Cost, e, peraltro, sono certamente idonee a produrre effetti rilevanti anche nelle altre regioni e, quindi, sull’intero territorio nazionale, nel quale dovrebbero essere trasferiti, nell’arco delle 48 ore decorrenti dalla pubblicazione dell’ordinanza, i migranti allo stato ospitati negli hotspot e nei centri di accoglienza insistenti sul territorio regionale”
[3] Secondo il decreto cautelare, “ dal delineato quadro normativo si evince che la disciplina emergenziale in atto ha inteso attrarre allo strumento del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri e all'esito del procedimento delineato dal comma 1 dell'art. 2, la competenza all'adozione delle misure di contenimento dell'emergenza epidemiologica da Covid-19 in atto e che, invece, è rimessa alla responsabilità delle regioni esclusivamente l'adozione di eventuali misure interinali e di ulteriore profilassi, che si rendano necessarie e siano giustificate da specifiche situazioni sopravvenute di aggravamento del rischio sanitario a livello locale, su cui possono provvedere, tuttavia, soltanto in via di urgenza e nelle more dell'adozione di un nuovo D.P.C.M. in materia, e sempre che attengano esclusivamente all'ambito delle attività di competenza delle regioni stesse”.
[4] Precisamente, nella motivazione del decreto si dice che “non è dato ricavare, dalla lettura testuale dello stesso nella sua interezza, che sia stata svolta un’idonea istruttoria al riguardo a supporto del provvedimento, in mancanza di specifici riferimenti o richiami agli accertamenti svolti e alle relative risultanze; --- in definitiva, l'esistenza di un concreto aggravamento del rischio sanitario legato alla diffusione del Covid-19 tra la popolazione locale, quale conseguenza del fenomeno migratorio, che, con il provvedimento impugnato, tra l’altro, si intende regolare, appare meramente enunciata, senza che risulti essere sorretta da un’adeguata e rigorosa istruttoria, emergente dalla motivazione del provvedimento stesso e altrettanto sembra potersi affermare anche in relazione alla diffusione del contagio all’interno delle strutture interessate.”
[5] Questo spiega anche la capacità dispositiva del decreto-legge, quella di spostare una competenza e di derogare a una norma legislativa ordinaria. E’ una riserva e una attribuzione di carattere particolare; e deriva da una norma speciale, quella del decreto-legge, per un’esigenza speciale, l’emergenza. In questo senso ci sembra corretta l’espressione per cui si dice che il potere regionale è stato ridimensionato, ovvero conformato e limitato: non è stato sottratto alle regioni, ma solo temporaneamente sospeso.
[6] Cfr. questo passo della motivazione del decreto: “il relativo potere regionale risulta essere stato limitato e conformato, quanto ai relativi presupposti, limiti e oggetto, come di seguito specificato, proprio dalla sopravvenuta e speciale normativa di pari rango primario contenuta nell'art. 3, co. 1, del predetto D.L., come, peraltro, espressamente confermato dall'art. 3, co. 3, del medesimo, a chiusura del sistema (laddove è ulteriormente specificato appunto che “Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano altresì agli atti posti in essere per ragioni di sanità in forza di poteri attribuiti da ogni disposizione di legge previgente”), e in relazione ai quali presupposti, limiti e oggetto il provvedimento impugnato si presenta esorbitante”
[7] v. SANTI ROMANO, Sui decreti-legge e lo stato di assedio in occasione del terremoto di Messina e di Reggio-Calabria, ora in Scritti minori, Milano, 1950, I, 287; v. SANTI ROMANO, Principii di diritto costituzionale generale, Milano, 2 ed., 1946, ora in L’ “ultimo” Santi Romano (a cura di ALB. ROMANO), Milano, 2013, 173 ss., spec. 516-517: tutti gli atti urgenti del governo – decreto-legge, decreto di stato d’assedio, ordinanze urgenti di altre autorità amministrative- sono espressione della medesima situazione: la necessità. Questo per dire che il potere extra ordinem è unitario e quindi i suoi atti hanno la stessa natura e, soprattutto, rispondono allo stesso criterio.
[8] E’ questo il titolo che figura nel testo del provvedimento regionale; e in questo senso è qualificato anche dal decreto presidenziale.
[9] Così R. CAVALLO PERIN, Pandemia 2020: decreti e ordinanze d’emergenza, in Giustiziainsieme, 2020, 9; F. CINTIOLI, Sul regime del lockdown in Italia (note sul Decreto legge n. 25 del 19 marzo 2020), in Federalismi, 6 aprile 2020; A. ILACQUA, Il potere derogatorio delle recenti ordinanze di protezione civile, del Commissario Straordinario per l’Emergenza Covid-19 e la vigilanza collaborativa dell’ANAC, in G. PALMIERI (a cura di), Oltre la pandemia. Società, salute, economia e regole nell’era post Covid-19, Napoli, 2020, III, 999 ss.
[10] Cfr. l’indirizzo che ritiene che vi sia difetto assoluto di attribuzione in caso di ordinanze contingibili e urgenti adottate da enti locali in materia di immigrazione e asilo v. Tar Sicilia, Catania, IV, 6 agosto 2018 n. 1761; Tar Liguria, II, 2 maggio 2018 n. 410; Tar Abruzzo, Pescara, I, 21 giugno 2018 n. 208.
[11] Per tutti v. Cons. St. sez. III – decreto cautelare 30 marzo 2020 n. 1553.
[12] v. M. RAMAJOLI, Potere di ordinanza e stato di diritto, in Studi in onore di Alberto Romano, Napoli, 2011, I, 735, 754.
[13] Sull’annullamento governativo dell’ordinanza comunale che chiudeva lo stretto di Messina v. Cons. St., sez. I, parere 7 aprile 2020 n. 735; sull’annullamento dell’ordinanza che anticipava l’apertura dei negozi v. Tar Calabria, sez. I, 9 maggio 2020 n. 841.
[14] Cfr. ALB. ROMANO, Presentazione, in SANTI ROMANO, Il diritto pubblico italiano, Milano, 1988, I ss., LIII-LIV: “Principi generali che sì, dalle frasi che seguono, vengono puntualmente dedotti da esplicite norme statutarie dettagliatamente individuate; ma che paiono avere diversa natura e più elevato livello di quei principi generali del diritto, che dalle norme scritte sono desumibili … E sono questi principi i fattori non normativi dell'ordinamento, che nei confronti delle sue evoluzioni esercitano la massima influenza: il massimo di vincolo e di predeterminazione; perché è attraverso questi principi, che l'ordinamento medesimo, l'istituzione medesima, arriva perfino a muovere le sue stesse norme «quasi come pedine in uno scacchiere»…”.
[15] M. OLIVETTI, Coronavirus. Così le norme contro il virus possono rievocare il «dictator», in Avvenire, 10 marzo 2020; G. AZZARITI, Il diritto costituzionale d’eccezione, Editoriale, in Costituzionalismo.it, fasc. 1, 2020. 14; G. GUZZETTA, E se il caos delle norme anti-contagio fosse un trucco per toglierci la voglia di libertà, in Il Dubbio, 4 aprile 2020; L. MAZZAROLLI, «Riserva di legge» e «principio di legalità» in tempo di emergenza nazionale. Di un parlamentarismo che non regge e cede il passo a una sorta di presidenzialismo extra ordinem, con ovvio, conseguente strapotere delle pp.aa. La reiterata e prolungata violazione degli artt. 16, 70 ss., 77 Cost., per tacer d’altri, Federalismi, 23 marzo 2020; F. RESCIGNO, La gestione del coronavirus e l’impianto costituzionale. Il fine non giustifica ogni mezzo, AIC, 19 maggio 2020 ; M. BELLETTI, La “confusione” nel sistema delle fonti ai tempi della gestione dell’emergenza da Covid-19 mette a dura prova gerarchia e legalità, AIC, 28 aprile 2020; F. RATTO-TRABUCCO, Le limitazioni ai diritti costituzionali a mezzo atto amministrativo nell’avvio dell’emergenza pandemica da COVID-19, Amministrazione in cammino, 7 maggio 2020; G. TROPEA, Il Covid-19, lo Stato di diritto, la pietas di Enea, in Federalismi, 18 marzo 2020.
[16] In senso contrario v. M. LUCIANI, Il sistema delle fonti del diritto alla prova dell’emergenza, AIC, 10 aprile 2020; F.S. MARINI, Le deroghe costituzionali da parte dei decreti-legge, Federalismi, 22 aprile 2020; U. ALLEGRETTI, Il trattamento dell’epidemia di “coronavirus” come problema costituzionale e amministrativo, Quaderni costituzionali, 25 marzo 2020; E.C. RAFFIOTTA, Sulla legittimità dei provvedimenti del governo a contrasto dell’emergenza virale da coronavirus, BioLaw Journal, Rivista di Biodiritto, n. 1/2020.
[17] Cfr. A. CIOFFI, Emergenza e teoria della necessità. Il caso del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, in G. PALMIERI (a cura di), Oltre la pandemia. Società, salute, economia e regole nell’era post Covid-19, Napoli, 2020, III, 941 ss. Nell’ambito del suddetto dibattito, sull’inquadramento della necessità, con varietà di impostazioni e diversi punti di vista, v. anche MARIA AUSILIA SIMONELLI, La potenza dei fatti: la necessità come fonte di diritto, ibidem, 899; MARIA ANTONELLA GLIATTA, Brevi considerazioni sull’uso dei DPCM nella gestione dell’emergenza sanitaria, ibidem, 959; ANTONINO ILACQUA, Il potere derogatorio delle recenti ordinanze di protezione civile, del Commissario Straordinario per l’Emergenza Covid-19 e la vigilanza collaborativa dell’ANAC, ibidem, 999; ROBERTA PICARDI, Coronavirus, “stato d’eccezione” e “nuda vita”, ibidem, 909; SERGIO ZEULI, Il contrasto del governo al Covid-19 fra responsabilità politica e sistema delle fonti, ibidem, 921; MICHELE BARONE, Ordinanze sindacali e valore della ‘necessità’: prima, durante (e dopo?) la pandemia, ibidem, 1015; FRANCESCO RAFFAELLO DE MARTINO, Governo dell’emergenza e revisione costituzionale, ibidem, 965; ILARIA ROBERTI, L’informativa parlamentare al tempo del Covid-19, ibidem, 983; RUGGIERO DIPACE, Situazioni di emergenza e attività negoziale delle pubbliche amministrazioni, ibidem, 1027.
[18] Cfr. A. CIOFFI, Emergenza e teoria della necessità. Il caso del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri … cit., 945 ss.
[19] Cfr. pag. 5 della delibera regionale.
[20] Si noti la distinzione: non l’ordine pubblico in sé considerato, ma il “mantenimento” dell’ordine pubblico. Sul punto “Sussiste una riserva di competenza esclusiva dello Stato in materia di ordine pubblico e sicurezza pubblica con riguardo a funzioni primariamente dirette a tutelare beni fondamentali quali l’integrità fisica o psichica della persona, la sicurezza dei possessi ed ogni altro bene che assume prioritaria importanza per l’ordinamento” (ex plurimis, Corte Cost., sentenza n. 290/2001; all’origine, C.cost. n. 131/1963; di recente v. anche C. cost. n. 208/2018).
[21] Cfr. i materiali della Commissione paritetica Stato – Regione siciliana per l’attuazione dello Statuto, presieduta da A. Ilacqua; in particolare v. anche l’ordinanza 26 marzo 2020 n. 123 della Giunta regionale siciliana, recante “Schema di norma di attuazione dell'art.31 dello Statuto della Regione Siciliana. - Approvazione”.
[22] v. SANTI ROMANO, Autonomia, Frammenti di un dizionario giuridico, Milano, 1983, rist., 14 ss.
[23] v. ALB. ROMANO, Autonomia nel diritto pubblico, Dig. Disc. pubbl., Torino, 1987, II, 30 ss.
[24] cfr. L. RONCHETTI, L’autonomia e le sue esigenze, Milano, 2018, spec. 265 ss.
[25] Cfr. C. cost. sentenza n. 38/1957 e sentenza n. 116/1958.
[26] Cfr. M.S. GIANNINI, Corte costituzionale e Alta Corte per la regione siciliana, Giur. Cost., 1956, fasc. 6, ora in M.S. GIANNINI, Scritti, vol. IV, Milano, 2004, 49 ss.
Segnalazione di legislazione “oscura, imperfetta od incompleta” da parte del Consiglio di Stato
(nota a Cons. Stato, sez. Consultiva, 9 luglio 2020 n. 1271 e 10 luglio 2020 n. 1278)
di Andrea Crismani
Sommario: 1. Premessa sulla funzione consultiva e giurisdizionale del Consiglio di Stato. 2. La compatibilità della normativa nazionale sull’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale con la normativa euro-comunitaria. 3. La disapplicazione della normativa nazionale. 4. L’ambito di discrezionalità del Giudice. 5. I limiti della supplenza giudiziaria. 6. La segnalazione di norma oscura, imperfetta od incompleta. 7. Conclusioni sull’unitarietà delle funzioni del Consiglio di Stato.
1. Premessa sulla funzione consultiva e giurisdizionale del Consiglio di Stato
Il caso affrontato dal parere del Consiglio di Stato reso in sede di ricorso straordinario al Capo dello Stato[1] riguarda la segnalazione al Presidente del Consiglio dei Ministri che la normativa sulla revoca delle misure di accoglienza[2] risulta in qualche parte “oscura, imperfetta od incompleta” a seguito della sentenza della Corte di Giustizia[3] che ne ha determinato la disapplicazione. La vicenda è interessante in quanto è stata affrontata sia in sede giurisdizionale e sia in sede consultiva e traccia gli ambiti del potere decisorio del giudice.
La sentenza del giudice amministrativo[4] e i citati pareri del Consiglio di Stato si inseriscono in quella latitudine applicativa del principio di legalità che da “principio di regolazione delle fonti del diritto” si è sviluppato in “principio di certezza oggettiva del diritto degli atti amministrativi e legislativi” e in “principio di prevedibilità soggettiva delle decisioni”, principi che molto spesso sono attuati con l’aiuto dell’interpretazione del giudice[5]. La questione è di notevole attualità e in più sedi si sono instaurati dibattiti sul tema. Vi è stato un serrato confronto nelle Giornate di Studio sulla Giustizia Amministrativa a Modanella nel 2017 proprio sulla (ri)lettura del principio del giusto processo “nella prospettiva dell’assicurazione della giustizia intrinseca della decisione, piuttosto che della sua correttezza” e pertanto della sua declinazione “non più limitata alla procedura ma estesa alla sentenza”[6], e nel 2018 in continuità del tema dell’anno precedente è stato innescato il dibattito sul “diritto alla sicurezza giuridica” posto in relazione alla “ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali”[7].
Il caso complessivamente considerato nella sua sequenza evolutiva evoca la teoria di Santi Romano sulla “unità funzionale” del Consiglio di Stato nella sua conformazione consultiva e giurisdizionale[8].
Com’è noto uno dei fattori di rischio per lo sviluppo di un Paese è costituito dall’incertezza delle regole che presiedono al corretto esercizio dei poteri pubblici (amministrativi e giurisdizionali) con i quali i cittadini e non, gli operatori e gli investitori sono costretti a rapportarsi[9]. Spesso il legislatore risulta essere “incapace, impotente o rinunciatario”[10] in quanto spesso non esercita la funzione d’indirizzo politico e per converso si pecca nell’eccessiva esaltazione del ruolo del giudice nella soddisfazione dei bisogni della collettività creando così la ibridazione della regola dello stare decisis con quella della nomofilachia[11].
Negli ultimi decenni il Consiglio di Stato ha posto una particolare attenzione sulla qualità “sostanziale” della regolazione. Si è notato che una “normazione di qualità implica non solo coerenza e chiarezza da un punto di vista giuridico-formale (regole leggibili sia per gli operatori che per i cittadini) ma anche essenzialità e minore onerosità da un punto di vista economico-sostanziale”[12].
Il Consiglio di Stato dalle sue lontane origini si occupa della qualità della normazione. All’inizio (1831-1859) ha volto solo funzioni consultive, fino al 1865 ha svolto funzioni consultive e giurisdizionali, dopo l’abolizione del contenzioso amministrativo nel 1865 ritornò a svolgere solo le funzioni consultive e in seguito alla creazione della IV sezione nel 1889 e fino ai nostri giorni svolge funzioni consultive e giurisdizionali.
Si può sostenere che l’esercizio delle funzioni consultive fu anche la ragione per la quale nel 1889 furono (ri)attribuite le funzioni giurisdizionali[13].
Oggi la funzione consultiva s’inserisce nel contesto della complessità normativa dovuta a molteplici fattori tra quali vi rientra il fenomeno della delegificazione che ha portato verso una importante trasformazione delle fonti facilitando al contempo un notevole sbilanciamento a favore del Governo a discapito del Parlamento. Essa inoltre s’inserisce nel contesto della qualità e della fattibilità dell’attività normativa e regolamentare, la quale non è più solo una tecnica meramente redazionale ma è diventata materia oggetto di politica generale di Governo[14]. Ad essa si collega l’obiettivo di ridurre il contenzioso per il quale la qualità della normazione costituisce uno snodo fondamentale[15].
Il Consiglio di Stato “si occupa della normativa” non solo “a monte”, nella fase nomogenetica, attraverso l’esercizio della funzione consultiva ma anche a valle in sede giurisdizionale di applicazione delle regole[16]. Infatti, il Consiglio di Stato nell’ambito della sua funzione consultiva è un “formidabile osservatorio sul contenzioso amministrativo”, in quanto è in grado di effettuare ex ante le valutazioni individuando i profili a maggior rischio di litigiosità[17]. Quest’aspetto circolare ed unitario delle funzioni si è palesato in modo particolare nella materia dei contratti pubblici e nell’attuazione della c.d. legge Madia.
Quale sia però oggi il rapporto, e se vi sia un rapporto, tra la funzione consultiva e quella giurisdizionale è un aspetto che fa riemergere il pensiero di Santi Romano, secondo cui la funzione consultiva e quella giurisdizionale implicano entrambe un sindacato sugli atti amministrativi, l’uno preventivo, l’altro repressivo.
2. La compatibilità della normativa nazionale sull’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale con la normativa euro-comunitaria
Nel concreto la questione affrontata nei pareri che si commentano si inserisce nel contesto della compatibilità della normativa nazionale sull’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale con la normativa euro-comunitaria e, in particolare, riguarda l’approccio assunto dal giudice nazionale di fronte ad una pronuncia della Corte di Giustizia emessa in sede di rinvio pregiudiziale in un altro Stato. In queste ipotesi, com’è noto, la Corte europea non risolve la controversia nazionale, ma spetta al giudice nazionale sciogliere la questione conformemente alla decisione del giudice europeo che vincola egualmente gli altri giudici nazionali nel caso in cui è sottoposto un problema simile.
La Corte di Giustizia si è espressa sulla portata dell’art. 20, par. 4, della direttiva 2013/33[18] che attribuisce agli Stati membri il diritto di stabilire le sanzioni applicabili quando un richiedente protezione internazionale si sia reso colpevole di una grave violazione delle regole del centro di accoglienza presso cui si trova o di un comportamento gravemente violento[19].
Il caso riguardava un richiedente protezione internazionale ospitato in Belgio in un centro di accoglienza che è stato coinvolto in una rissa fra residenti di origini etniche diverse. A seguito di tali fatti, il direttore del centro di accoglienza ha deciso di escluderlo, per un periodo di quindici giorni, dall’assistenza materiale. Il giudice d’appello chiamato a decidere sulla pronuncia di primo grado che respingeva il suo ricorso contro la decisione di esclusione, ha sottoposto alla Corte di Giustizia il quesito sulla possibilità per le autorità belghe di ridurre o revocare le condizioni materiali di accoglienza di un richiedente protezione internazionale.
La Corte ha stabilito che la disposizione normativa belga, letta alla luce dell’art. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, non consente agli Stati membri di infliggere una sanzione consistente nel revocare, seppur temporaneamente, le condizioni materiali di accoglienza del richiedente relative all’alloggio, al vitto o al vestiario.
Essa ha innanzitutto precisato che le sanzioni di cui all’art. 20, par. 4, della direttiva 2013/33 possono, in linea di principio, riguardare le condizioni materiali di accoglienza e conformemente all’art. 20, par. 5, devono essere obiettive, imparziali, motivate e proporzionate alla particolare situazione del richiedente, e devono, in tutte le circostanze, salvaguardare un tenore di vita dignitoso.
Pertanto la revoca, seppur temporanea, del beneficio di tutte le condizioni materiali di accoglienza o delle condizioni materiali di accoglienza relative all’alloggio, al vitto o al vestiario è da considerarsi incompatibile con l’obbligo di garantire al richiedente un tenore di vita dignitoso. Una simile sanzione priverebbe il richiedente asilo della possibilità di far fronte ai suoi bisogni più elementari. Inoltre, violerebbe il requisito di proporzionalità.
Da quanto precede ne consegue che il diritto giurisprudenziale europeo sia una realtà da cui non si può più prescindere ed essa si assume il ruolo di regolare i fenomeni rilevanti per lo spazio europeo nel quale circolano persone e cose imponendosi sugli ordinamenti nazionali.
3. La disapplicazione della normativa nazionale
Il caso è altresì significativo in quanto evoca il ruolo e i limiti del giudice (nazionale) in presenza di anomalie legislative (rilevate in sede euro-comunitaria).
In concomitanza alla celebrazione del giudizio in sede europea si è posta la questione davanti al Tar Toscana. Il caso riguardava un richiedente protezione internazionale, ammesso alle misure di accoglienza, che nel corso della permanenza sul territorio nazionale è stato deferito all’Autorità Giudiziaria per il reato di furto aggravato in concorso con altre tre persone (anch’esse richiedenti protezione internazionale). Conseguentemente, con provvedimento prefettizio è stata revocata la sua ammissione alle misure di accoglienza in base alla lett. e) dell’art. 23 del d.lgs. n. 142/2015, la quale prevede che “in caso di violazione grave o ripetuta delle regole delle strutture in cui è accolto da parte del richiedente asilo, compreso il danneggiamento doloso di beni mobili o immobili, ovvero comportamenti gravemente violenti” il Prefetto dispone, con proprio motivato decreto, la revoca delle misure d’accoglienza.
Inizialmente il Tar aveva disposto il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia la quale nelle pendenze del ricorso al Tar si era pronunciata con la sopra menzionata sentenza nel caso belga. Alla luce di quanto statuito dalla Corte di Giustizia il Tar Toscana si è pronunciato e ha disposto che deve essere disapplicata nel caso concreto la norma di cui alla lett. e) dell’art. 23 del d.lgs. n. 142/2015, con conseguente accoglimento dei ricorsi e annullamento dei provvedimenti impugnati[20].
In dettaglio ha disposto che “le norme interne degli Stati dell’Unione Europea contrastanti con quelle euro-comunitarie, come interpretate dalla Corte di Giustizia, recedono a fronte di queste ultime e, pertanto, devono essere disapplicate nel caso concreto sia in sede giudiziaria che dalla pubblica amministrazione”.
In tale contesto, infatti, osserva il giudice amministrativo che le posizioni giuridiche create dall’Unione “devono essere tutelate in modo uniforme in tutti gli Stati membri” in quanto deve essere garantita “la corretta interpretazione delle norme comunitarie ad opera della Corte di Giustizia le cui pronunce devono irrevocabilmente trovare applicazione all’interno degli Stati”. Di conseguenza “le norme interne contrastanti con quelle eurounitarie non possono trovare applicazione nel caso concreto”.
In sintesi, si può osservare la “statualità del diritto ha ceduto il passo alla globalizzazione dei diritti e delle tutele” nella quali il giudice, nell’ambito della concezione del diritto integrato è chiamato a leggere e interpretare la norma interna in modo che sia compatibile con l’ordinamento configgente.
4. L’ambito di discrezionalità del giudice
Le considerazioni che seguono in merito alla normativa sull’immigrazione in senso lato evocano aspetti che sono di carattere generale e in gran parte rispecchiano la situazione generale inerente la quantità e la qualità della normativa e l’influenza sulla dinamicità e capacità di innovazione del sistema sociale ed economico.
Molte leggi, tra cui quelle che si occupano di immigrazione, sono soggette a un processo in continua rivisitazione legislativa dovuto a una molteplicità di fattori che la rendono spesso instabile.
Nello specifico i mutamenti legislativi sono dovuti alla spinta di situazioni eccezionali derivanti dall’imponente fenomeno dei flussi migratori che toccano i confini esterni della Ue (ad es. nel Mediterraneo) e anche quelli interni (ad es. la rotta Balcanica)[21]. Ad essi si sommano i cambiamenti politici che hanno affrontato il fenomeno in modo diverso, e di recente, in un’ottica di politiche securitarie, che per certi versi sono ignare della matrice personalistica del diritto costituzionale e, potenzialmente in conflitto con i principi dell’ordinamento nazionale ed eurocomunitario[22].
Vi si aggiunge a livello esterno il legislatore euro-comunitario il cui approccio per la questione migratoria, al pari di molti legislatori nazionali, è relegato “dentro un orizzonte geopolitico ristretto e stabile, popolato di individui e Stati nazionali dai confini ben precisi”[23].
In un contesto generale va invece considerata la pluralità dei centri di normazione e la tipologia delle fonti che spesso spostano il baricentro delle competenze dal Parlamento al Governo sia in occasione della decretazione di urgenza e sia in ambito c.d. delegificatorio con fonti governative primarie (decreti legislativi) e fonti di rango secondario (regolamenti).
Alla fine però, molto spesso, è lo sforzo interpretativo della giurisprudenza (in rapporto diretto con il fatto) e della dottrina (che invece procede dal diritto al caso) a dare o cercare di dare una soluzione tra le tante possibili[24]. Infatti, le questioni migratorie non di rado sono oggetto di contenzioso sia avverso provvedimenti o azioni dell’amministrazione pubblica (in ambito amministrativo e ordinario) sia nei contesti (penali) volti a sanzionare comportamenti penalmente rilevanti dei soggetti coinvolti in vicende migratorie, degli immigrati stessi e dei cittadini nei rapporti con gli immigrati[25].
Talchè la legge molto spesso lascia al giudice ampi margini di discrezionalità interpretativa tanto che l’attività giurisdizionale, nei suoi momenti volitivi e cognitivi, è chiamata a svolgere un ruolo determinante identificando “l’interpretazione più plausibile fra molteplici (inevitabilmente) plausibili”[26] che però non possono prescindere dalle “coordinate segnate dalla necessaria attualizzazione e contestualizzazione del disposto normativo”[27].
Tuttavia accade che queste coordinate mancano in quanto il caso è difficile[28] e spesso è reso tale da un quadro normativo oscuro, non chiaro e impreciso o la disciplina normativa è aperta a clausole generali o manca la disciplina sul caso oppure ancora il giudice è tenuto applicare le sentenze della Corte di Giustizia o della Cedu per cui, in sede di giudizio, si richiede al giudice di interpretarle, ricostruendone il significato[29].
Quando il caso non è facile, cioè al di fuori di applicazione di norme puntuali e specifiche, il giudice dispone di “estesi spazi di discrezionalità”[30] che variano a seconda dei casi ora esposti ed è chiamato a decidere enunciando la regola del caso entro dei limiti (esterni) ben definiti.
Il giudice, innanzitutto, non può rifiutarsi di dare la soluzione alla lite (divieto di non liquet).
Recente giurisprudenza si è espressa sulla questione critica che si rinviene nella difficoltà di trovare la soluzione in quanto rimane però “irrisolta la questione di fondo”. Essa ha evidenziando che il giudice assume comunque una decisione in quanto “al giudice non è consentito pronunciare un sostanziale non liquet” sebbene a causa della “infelice formulazione della norma” (…) “la scelta di un criterio interpretativo in luogo dell’altro implica un risultato finale diverso”[31].
Inoltre la sentenza non può peccare di astrattezza.
Significativa è la posizione del Consiglio di Stato secondo la quale “non esiste regola del caso concreto – e tale è, per definizione, la statuizione giudiziale atta a costituire cosa giudicata – che si presenti, già nella sua stessa formulazione, perplessa, incerta, periclitante, perché ciò contraddice l’essenza stessa della funzione giurisdizionale, che deve essere chiara, sintetica, in funzione della sua certezza e della sua intelligibilità”[32].
In effetti “una motivazione non convinta, da parte dell’organo giudicante, è anche una motivazione non convincente, incapace di esprimere, cioè, in modo sufficiente (…) la pur concisa esposizione delle ragioni in fatto e in diritto che sorreggono la statuizione impugnata”.
5. I limiti della supplenza giudiziaria
Nei casi in cui la norma è aperta oppure è oscura o manca la disciplina sul caso concreto il giudice è chiamato a svolgere una sorta di “supplenza giudiziaria”[33]. Si parla anche di “giudice nomoteta”[34].
In queste ipotesi però si palesa il rischio di uno sbilanciamento del potere giudiziario sugli altri poteri, in particolare quando il giudice è chiamato a colmare un vuoto normativo e gli è chiesto di disciplinare un accadimento non normato sebbene si versi nella contraddizione che in un sistema di civil law non possa darsi un diritto di produzione giurisprudenziale[35]. Sempre più spesso il giudice è, infatti, costretto ad assumere l’improprio ruolo di supplente del legislatore ed è poi esposto al rischio di vedersi accusato di compromettere l’efficacia e l’efficienza dell’azione amministrativa con i suoi interventi[36].
Il discorso è molto più ampio e in questa sede ci si limita solo ad accennare.
In particolare si profilano le varie teorie sull’interpretazione del diritto che il giudice è chiamato a svolgere nell’ambito della sua attività discrezionale che comunque non può prescindere dall’accertamento del fatto.
Una prima teoria avallata maggiormente dalla dottrina muove dal postulato che il creatore della norma non sia il legislatore, ma l’interprete le cui pronunce sarebbero fonti (creazionismo integrale). Una seconda teoria più moderata e accolta dalla giurisprudenza ravvisa l’esistenza di momenti creativi dovuti alla complessità dell’ordinamento o all’ambiguità del linguaggio naturale (creazionismo moderato).
Tuttavia il discorso, ad opinione della dottrina più attenta[37], va impostato su un binario più prudente. In effetti, il fenomeno giuridico è alimentato da una pluralità di centri a cominciare dai privati e dalla pubblica amministrazione fino ad arrivare, in caso di conflitto o di richiesta di tutela, alla giurisprudenza per cui essa è fonte di diritto non perché crea le norme, ma rispettivamente perché “il significato della norma si ricava osservando la quotidiana opera del giudice”[38] o perché “la norma vive nell’interpretazione data dal giudice”[39].
Nel caso del Tar Toscana il giudice ha esaurito il potere decisorio non potendo fare altro che accogliere il ricorso esternando la consapevolezza del rischio di un vuoto normativo in quanto a seguito della disapplicazione della sanzione di ci all’art. 23, d.lgs. n.142/2015, l’ordinamento non prevede alcuna altra sanzione a carico degli stranieri richiedenti protezione internazionale e ammessi alle misure di accoglienza, i quali pongano in essere violazioni gravi delle regole dei centri in cui sono inseriti o comportamenti gravemente violenti.
Il giudice ha così segnato il suo limite e ha constatato che la sua sentenza era in grado di produrre una lacuna venutasi a creare a seguito della sentenza della Corte di Giustizia.
Null’altro ha potuto fare se non rivolgersi indirettamente al legislatore scrivendo nella sentenza che è “responsabilità del legislatore colmare tale lacuna non potendo questo Giudice esimersi dal rispettare l’interpretazione del diritto comunitario così come fornita dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea”.
Il giudice di merito ha instaurato un canale di interlocuzione, sebbene indiretta, con il legislatore.
In una recentissima sentenza in materia di informazione antimafia e garanzia della partecipazione procedimentale, il Consiglio di Stato si rivolge al legislatore affidandosi “alla saggezza” di questi affinchè “nell’ottica di un delicato bilanciamento tra i valori in gioco che hanno una rilevanza, ormai, non solo nazionale” si adoperi per “valutare simili o altri percorsi normativi, che evitino un sacrificio del diritto di difesa sproporzionato, in talune ipotesi che non siano contrassegnate dall’urgenza (…) rispetto alla pure irrinunciabile, fondamentale, finalità del contrasto preventivo alla mafia”[40].
È evidente che in taluni casi il rapporto tra giudice e legislatore è complesso.
Un dato di fatto assodato è che “(è ovvio) che il potere di fare le leggi spetta al Parlamento (art. 70 Cost.), ma è empiricamente falso affermare che il giudice non crei diritto”[41].
Un altro dato di fatto è che l’attività interpretativa del giudice “non può ridursi, come pur si era tentato di prospettare, ad una mero applicatore della legge scritta” in considerazione del “dinamismo insito in tutti i fenomeni umani e, dunque, anche sociali e, conseguentemente, giuridici”[42].
Dall’altro lato però si palesa la preoccupazione “di una dominanza del potere giudiziario sugli altri poteri, sovente amplificata, per ragioni politiche, dalla non regolazione del fenomeno da parte del naturale potere a ciò preposto (il Parlamento) che impone (al giudice) di colmare un vuoto normativo”[43].
Il giudice, in particolare quello di merito, si trova in un contesto in cui da un lato non può non decidere e dall’altro non può sostituirsi al legislatore ma è chiamato, al di là del dato letterale, a capire “l’intenzione” del legislatore ai sensi dell’art. 12 Preleggi e comunque è chiamato a “compiere ogni sforzo (senza limitarsi al dato letterale) per dare alla norma un significato conforme a Costituzione, a pena di inammissibilità della sollevata questione di legittimità costituzionale”[44].
Talchè il suo perimetro è molto ampio e non di rado è foriero di incertezze in quanto, come appena visto, vi sono casi in cui la norma è “oscura, imperfetta od incompleta”.
Il discorso va comunque ripreso nell’ambito dal principio di certezza del diritto che ha riconfigurato il principio di legalità a cui si lega e il rapporto giudice – legislatore va comunque considerato in una logica collaborativa e non di contrapposizione[45].
6. La segnalazione di norma oscura, imperfetta od incompleta.
La norma può risultare oscura, imperfetta od incompleta non solo per fattori formali ma anche a causa di “fattori patologici e fisiologici”. Acuti osservatori notano il momento patologico nella “traslatio dal momento legislativo a quello applicativo, della mediazione del conflitto” che generano la regola poco chiara o ambigua in quanto “non si è riusciti a comporre il conflitto a livello politico”[46]
L’ambito naturale in cui si palesano le questioni sulla qualità normativa è quello consultivo del Consiglio di Stato in forma tecnica al Governo e anche, ove previsti, in forma di indirizzo alle Camere[47], mentre quello giurisdizionale lo è di meno in quanto situazioni patologiche inerenti la norma demandano al giudice la creazione della regola e non già la mera applicazione[48].
Il profilo soggettivo di Magistratura permette oggi di ritenere che la funzione di consulenza giuridico-amministrativa, possa attribuire al Consiglio di Stato - come alla Corte dei conti nell’esercizio della funzione di controllo - la qualità di Organo, non dello Stato-apparato, ma dello Stato ordinamento.
In tal modo l’attività consultiva è ritenuta un’attività di garanzia, al pari di quella giurisdizionale, secondo i canoni dell’assoluta autonomia e indipendenza, “nell’interesse pubblico” e non “nell’interesse della pubblica amministrazione”[49]. È stato rilevato[50]. che questa sua attribuzione andrebbe inoltre utilizzata “in via continuativa, pur nel rispetto delle attribuzioni di altri organi, amministrativi o legislativi” e questo “non per avidità di esercitare più vasti compiti, ma nella convinzione che ciò sia conforme all’interesse pubblico” [51].
Tra le sue funzioni consultive, per quanto ci riguarda, emerge l’art. 58 del R.D. 21 aprile 1942, n. 444 il quale prevede che qualora nel corso degli affari da esso discussi il Consiglio di Stato si avveda “che la legislazione vigente è in qualche parte oscura, imperfetta od incompleta” può farne rapporto al Capo del Governo[52].
Carlo Anelli nel discorso pronunciato in occasione dell’insediamento del nuovo presidente del Consiglio di Stato, osservava che “di questa norma” (cioè dell’art. 58) “si è fatta rara e limitata applicazione, più che altro per segnalare, in sede di emissione di pareri sull’interpretazione di norme oscure o contraddittorie, l’opportunità di un intervento del legislatore”. Auspicava che “tale forma di ausiliarietà venga, in un prossimo futuro, affinata e incrementata”. Egli palesava le potenzialità della funzione consultiva in quanto “la globale unitaria visione di una normazione secondaria in via di continuo ampliamento meglio consentirà al Consiglio di Stato di indicare, anche alla luce dell’esperienza giurisprudenziale di primo e di secondo grado, imperfezioni o incompletezze della normazione primaria e prospettare ipotesi migliorative e innovative”[53].
Non mancano però occasioni in cui il Consiglio di Stato abbia fatto uso di questo specifico strumento sebbene, da quanto risulta, molto di rado nell’ambito del ricorso straordinario.
Di recente il Consiglio di Stato in occasione del parere sullo schema di decreto del Presidente della Repubblica recante disposizioni in materia di istituzione e funzionamento del registro pubblico dei contraenti che si oppongono all’utilizzo dei propri dati personali e del proprio numero telefonico per vendite o promozioni commerciali, ha disposto la segnalazione in base all’art. 58, cit., in quanto “non può sottacere il fatto che il quadro normativo di riferimento sia di difficile interpretazione”. Il Consiglio notava che “la stessa soluzione prospettata dal Ministero nei suoi chiarimenti appare piuttosto il frutto di un’interpretazione manipolativa del testo normativo primario che, se applicato nelle modalità regolamentate, potrebbe generare dubbi sul piano della tenuta costituzionale in relazione al principio di legalità desunto dagli articoli 3, 25 e 97 della Costituzione”[54].
Un altro caso si riferisce al parere chiesto dal Ministero della salute sull’interpretazione dell’art. 2, c. 160, d.l. n. 262/06, in relazione all’incarico di Direttore generale dell’Agenzia per i servizi sanitari regionali (AGENAS)[55]. Il Consiglio di Stato si è avvalso dell’art. 58, cit., in quanto “emerge la differente posizione del direttore generale di AGENAS rispetto a tutte quelle figure cui fisiologicamente deve applicarsi il meccanismo dello spoils system, con conseguente dubbio di compatibilità della norma tuttora in vigore con gli artt. 95, 97 e 98 Cost.” e pertanto il Collegio ritiene necessario trasmettere il parere alla Presidenza del Consiglio dei ministri per l’eventuale assunzione delle iniziative legislative in materia.
Si evidenzia anche il quesito del Ministero dell’interno in materia di valutazioni medico-legali effettuate dalle commissioni medico-ospedaliere in applicazione della normativa riguardante le vittime del dovere, del terrorismo e delle stragi di tale matrice, nonché della criminalità organizzata, delle estorsioni e dell’usura. Sul punto ritenuto necessario tutelare le aspettative dei destinatari dei benefici e considerata la complessità del quadro normativo di riferimento, che necessita di un intervento volto a coordinare, semplificare e rendere verificabili da chiunque i parametri da prendere in considerazione per i diversi trattamenti previsti, la Sezione ritiene che ricorra l’ipotesi di cui all’art. 58 del regio decreto 21 aprile 1944 n. 444[56]. Da qui emerge in modo vigoroso la qualità del Consiglio di Stato di Organo, non dello Stato-apparato, ma dello Stato ordinamento e la preoccupazione della tutela delle aspettative dei cittadini.
In materia di schemi di polizze tipo per le garanzie fideiussorie previste dagli articoli 103, c. 9, e 104, c. 9, del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 il Consiglio di Stato ha ritenuto di segnalare al Ministro richiedente l’opportunità, per il futuro, di assicurare un adeguato coinvolgimento di tutte le categorie interessate, se del caso valutando anche la necessità di una modifica della norma primaria[57].
In tema di applicabilità al ricorso straordinario dell’istituto del patrocino a spese dello Stato per i soggetti non abbienti si era posta l’incongruenza normativa tra la possibilità che il ricorrente non abbiente non paghi alcun contributo unificato in caso di accoglimento del ricorso in sede giurisdizionale, mentre tale possibilità non appare sussistere per il rimedio alternativo del ricorso straordinario[58].
Significativo è anche il parere sul Conferimento della cittadinanza italiana ai sensi degli artt. 5 e 7 della legge 5 febbraio 1992, n. 91 nell’ambito del quale il Consiglio di Stato si è avvalso dell’art. 58, cit., per stimolare un’eventuale iniziativa di modifica normativa[59].
7. Conclusioni sull’unitarietà delle funzioni del Consiglio di Stato
Notava Santi Romano che la consulenza del Consiglio di Stato trova luogo anche nell’esercizio di una funzione, che ha pure carattere amministrativo, almeno secondo l’opinione che sembra più esatta, ma confina con quella giurisdizionale, cioè nella decisione dei ricorsi straordinari (…)”[60].
Le pronunce rese dal Consiglio di Stato in sede consultiva nel ricorso straordinario fanno emergere un potenziale rapporto tra la funzione consultiva e quella giurisdizionale del Consiglio di Stato.
Il caso affrontato in due pareri concomitanti riguardanti comportamenti penalmente rilevanti dei richiedenti protezione internazionale[61], al di là della questione già nota sull’applicazione dell’art. 23, c.1, lett. e), d.lgs n. 142/2015, è ulteriormente avvincente in quanto il Consiglio di Stato si è espresso nell’ambito di un ricorso straordinario al Capo dello Stato e non già nell’ambito dell’attività consultiva pura previa richiesta di parere dell’amministrazione interessata.
In questo caso, a differenza del giudice amministrativo toscano (cit. supra) che si è rivolto indirettamente al legislatore evidenziandone la responsabilità di colmare la lacuna, il Consiglio di Stato avvalendosi dell’art. 52 ha riferito al Presidente del Consiglio di ministri e al Ministro dell’interno, competente ratione materiae per l’eventuale assunzione delle iniziative normative trasmettendone il parere.
Santi Romano evidenziava l’“unità funzionale” del Consiglio di Stato nella sua conformazione consultiva e giurisdizionale.
In tale contesto specifico il ricorso straordinario rappresenta un interessante banco di prova in quanto è un procedimento fortemente “giurisdizionalizzato” in cui il parere del Consiglio di Stato assume i connotati di una vera e propria decisione vincolante. Com’è noto questa connotazione ha assunto maggiore valore a seguito dell’abrogazione della potestà del Governo di discostarsi rispetto al parere espresso dal Consiglio di Stato e dopo l’introduzione della possibilità, per il Consiglio di Stato in sede consultiva, di rinviare alla Corte costituzionale questioni di legittimità costituzionale.
Lo snodo tra funzione consultiva e funzione giurisdizionale va indubbiamente visto come un valore dato dall’esperienza del Consiglio di Stato in sede giurisdizionale. La funzione consultiva è svolta “in favore dello Stato-comunità e nell’interesse alla legittimità dell’azione amministrativa: quindi, nella medesima posizione di terzietà richiesta al giudice”[62]. Inoltre secondo il pensiero di Caianiello la differenzia tra il giudizio/parere e il giudizio/sentenza non è nella struttura logica, ma nell’uso che ne fa l’ordinamento e nell’efficacia che quest’ultimo gli attribuisce.
Pertanto da questa premessa, e considerando che il giudice amministrativo quando la norma presenta anomalie comunque tende a rivolgersi (sebbene indirettamente) al legislatore (inteso senso lato), sorge chiedersi se l’assunto formulato da attenta dottrina[63] per cui il Consiglio di Stato possa anche indipendentemente da una richiesta di parere segnalare ex art. 52, cit., di sua iniziativa quali settori o aspetti della legislazione vigente meritino di essere riveduti o integrati trovi applicazione nell’ambito della funzione consultiva e in sede di ricorso straordinario oppure possa essere ulteriormente esteso alla sede giurisdizionale.
* * *
[1] Cons. St., sez. Con., 9 luglio 2020, n. 1271 reso sull’affare n. 633/2019 e 10 luglio 2020, n. 1278 reso sull’affare n. 275/2019, in https://www.giustizia-amministrativa.it.
[2] Cfr. art. 23, d.lgs. 18 agosto 2015, n. 142.
[3] Corte di Giustizia Ue, Grande Sezione, 12 novembre 2019 in C 233/18
[4] Tar Toscana, Sez. II, 6 maggio 2020, n. 540, in https://www.giustizia-amministrativa.it.
[5] Relazione sull’attività della giustizia amministrativa e discorso di insediamento del Presidente del Consiglio di Stato Filippo Patroni Griffi, 12 Febbraio 2019, in https://www.giustizia-amministrativa.it; Id. Modelli normativi aperti, argomentazione giuridica e giudice amministrativo, in http://www.unioneamministrativisti.it/wp-content/uploads/2019/10/articolo-Patroni-Griffi-1.pdf.
[6] F. FRANCARIO, M.A. SANDULLI, La sentenza amministrativa ingiusta e i suoi rimedi. Premessa, in I.d., La sentenza amministrativa ingiusta e i suoi rimedi, Napoli, 2018, p. 7-8.
[7] F. PATRONI GRIFFI, “Principio di ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica”. Introduzione al tema, in F. FRANCARIO, M.A. SANDULLI (a cura di), Principio di ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica, Napoli, 2018, p. 4.
[8] Discorso di insediamento del nuovo Presidente del Consiglio di Stato Santi Romano con l’intervento del Capo del Governo, Adunanza generale del 22 dicembre 1928 - VII.
[9] M. A. SANDULLI, Principio di ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica, Conclusioni delle Giornate di Studio sulla Giustizia Amministrativa, Castello di Modanella, Rapolano Terme/Siena, 8-9 giugno 2018, in F. FRANCARIO, M.A. SANDULLI (a cura di) Principio di ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica, cit.
[10] F. FRANCARIO, Diritto alla sicurezza giuridica. Note in tema di certezza giuridica e giusto processo, in F. FRANCARIO, M.A. SANDULLI (a cura di), Principio di ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica, cit., p. 26.
[11] Ibidem
[12] M. TORSELLO, Le funzioni consultive del consiglio di stato, in https://www.giustizia-amministrativa.it/documents/20142/261561/nsiga_008062.pdf/97a60ba6-1780-09d2-0a85-df9f900a969a
[13] Ibidem
[14] S. LOMBARDO, La politica di governo a supporto della qualità della normazione, in P. CAPPELLO, A. CIAMMARICONI, G. LOMBARDI, S. LOMBARDO, in Il drafting statale, in P. COSTANZO (a cura di), Codice di Drafting, in http://www.tecnichenormative.it/draft/stato4.pdf, p. 31.
[15] Ibidem
[16] G. CARLOTTI, La “nuova” attività consultiva del Consiglio di Stato, in Rass. Avvocatura dello Stato, 2, 2018, p. 31.
[17] Ibidem
[18] Dir. 2013/33/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, in GU 2013, L 180, p. 96.
[19] C. Giust. Ue, Grande Sezione, 12 novembre 2019, C 233/18.
[20] Tar Toscana, Sez. II, 6 maggio 2020, n. 540, in https://www.giustizia-amministrativa.it.
[21] M. NOCCELLI, Il diritto dell’immigrazione davanti al giudice amministrativo, in Federalismi, 5, 2018. F. FRANCARIO, Pubblica amministrazione e multiculturalismo, in Corr. del mer., 2012, 7, p. 643 ss.
[22] C. SBAILÒ, Immigrazione: il fallimentare approccio europeo e i limiti della risposta neo-sovranista. (Note sui profili di costituzionalità e sulle criticità applicative del decreto-legge 113/2018 /c.d. "decreto sicurezza"), in Federalismi, 3, 2019, p. 1
[23] Ibidem
[24] M. LUCIANI, L’errore di diritto e l’interpretazione della norma giuridica, in Questione Giustizia, 3, 2019, p.16 ss e 31.
[25] Va considerato inoltre, che per la molteplicità di istituti e diversità di situazioni giuridiche soggettive il riparto di giurisdizione anche in questa materia, tuttavia, è ben lungi dal potersi definire chiaro e lineare.
[26] Ibidem.
[27] M. LUCIANI, Interpretazione conforme a Costituzione, in Enc. dir., Annali, vol. IX, Giuffrè, Milano, 2016, p. 436 ss.
[28] Sul caso facile A. Barak, La discrezionalità del giudice, trad.it. Milano 1995; F. Patroni Griffi, Interpretazione giurisprudenziale e sicurezza giuridica, in Lo Stato, 12, 2019.
[29] F. PATRONI GRIFFI, op. et loc. ult. cit.
[30] F. PATRONI GRIFFI, Modelli normativi aperti, argomentazione giuridica e giudice amministrativo, cit., p. 5.
[31] Tar Marche, Sez. I, 23 giugno 2020, n. 394, in https://www.giustizia-amministrativa.it.
[32] Cons. St., sez. III, 27 novembre 2018, n. 6711, in https://www.giustizia-amministrativa.it. In particolare il passaggio: “L’iter motivazionale della sentenza impugnata non deve riflettere un irrisolto e tortuoso travaglio interiore del giudice che, proprio in quanto tale, deve rimanere interno alla sfera del proprio convincimento, ma esprimere, con la chiarezza e la sinteticità dovute (art. 3, comma 2, c.p.a.), le ragioni che lo hanno indotto a superare il dubbio, sul piano della ricostruzione dei fatti e della interpretazione delle norme, e a giungere alla soluzione della controversia, enunciando la regola del caso concreto secondo il nostro ordinamento”.
[33] F. PATRONI GRIFFI, Modelli normativi aperti, argomentazione giuridica e giudice amministrativo, cit., p. 6
[34] F. FRANCARIO, Diritto alla sicurezza giuridica. Note in tema di certezza giuridica e giusto processo, in F. FRANCARIO, M.A. SANDULLI (a cura di), Principio di ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica, cit., 26.
[35] A. RUGGERI, Diritto giurisprudenziale e diritto politico, in Consulta on line, 3, 2019, p. 708.
[36] F. FRANCARIO, “Disputare de potestate”: giustizia nell’amministrazione e giusto processo, in La sentenza amministrativa ingiusta e i suoi rimedi, Napoli, 2018, 13.
[37] M. LUCIANI, L’errore di diritto e l’interpretazione della norma giuridica, in Questione Giustizia, 3, 2019, pp.16 e 17.
[38] F. PATRONI GRIFFI, Interpretazione giurisprudenziale e sicurezza giuridica, cit., il quale sostiene che “il significato della norma si ricava soprattutto osservando la quotidiana opera del giudice”, e riconosce che la supplenza nomopoietica del giudice è patologica e la giustifica solo in forza della crisi della legislazione (cfr. anche M. LUCIANI, L’errore di diritto e l’interpretazione della norma giuridica, cit.).
[39] G.P. CIRILLO, Sistema istituzionale di diritto comune, Wolters Kluwer-Cedam, Milano, 2018, p. 20.
[40] Sez. III, 10 agosto 2020, n. 4979, in https://www.giustizia-amministrativa.it.
[41] L. BIGLIAZZI GERI, L’interpretazione, 1994, p. 120.
[42] S. GLINIANSKI, Crisi della rappresentanza e metamorfosi del ruolo del Giudice in un contesto di Stato costituzionale europeo, in Lexitalia, 4, 2019.
[43] Ibidem.
[44] A. LAMORGESE, L’interpretazione creativa del giudice non è un ossimoro, in https://www.questionegiustizia.it.
[45] S.GLINIANSKI, op. et loc. ult. cit.
[46] F. PATRONI GRIFFI, “Principio di ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica”. Introduzione al tema, cit., p. 7.
[47] Cfr. Cons. St., Ad. Gen. 25 ottobre 2004, n. 2/04: “L’unica eccezione a questa regola generale può essere costituita dai pareri delle Camere parlamentari, laddove previsti, poiché tali avvisi costituiscono il frutto di una valutazione di natura ontologicamente differente da quella prevista per il parere del Consiglio di Stato dall’art. 17 della legge n. 400 del 1988 o dall’art. 17 della legge n. 127 del 1997. Tali pareri, infatti, negli sviluppi più recenti della prassi, vengono considerati non come atti endoprocedimentali in senso tecnico ma piuttosto come pareri in funzione “politica”, di indirizzo del Parlamento al Governo, in quanto tali estranei al procedimento amministrativo inteso come serie di atti funzionalmente collegati in vista del provvedimento finale, sicché rientra solo nella responsabilità politica del Governo il tenerne o meno conto”.
[48] La rinuncia o l’impossibilità del legislatore di definire preventivamente, in via generale ed astratta, le regole sostanziali destinate a risolvere i possibili conflitti tra gli interessi”, in effetti, lasciano al giudice la creazione della regola e non già la mera applicazione, cfr. F. FRANCARIO, M.A. SANDULLI, La sentenza amministrativa ingiusta e i suoi rimedi. Premessa, in I.d., La sentenza amministrativa ingiusta e i suoi rimedi, Napoli, 2018, 8.
[49] Discorso pronunciato in occasione dell’insediamento da Pasquale de Lise a Presidente del Consiglio di Stato 22 settembre 2010, egli aveva notato che sotto un profilo finalistico - ai pareri del Consiglio è estranea qualsiasi considerazione o rappresentazione di interessi di parte, ivi compresi quelli dell’amministrazione procedente che richiede il parere.
[50] Discorso pronunciato in occasione dell’insediamento di Giorgio Crisci a Presidente del Consiglio di Stato, 20 marzo 1986, in https://www.giustizia-amministrativa.it.
[51] V. DI CIOLO, Riflessioni sulla qualità giuridica delle leggi e degli atti normativi, cit., p. 574. Si consideri però, che in sede costituente la posizione assunta era diversa. In Assemblea Costituente si era aperto il dibattito sulla collaborazione del Consiglio di Stato, organo anche giurisdizionale, all’elaborazione delle leggi. Dopo l’approvazione della formula “Il Consiglio di Stato è organo di consulenza giuridico-amministrativa del Governo”, fu discusso il seguito della formula che aggiungeva “e del Parlamento” che venne bocciata nel “timore che essa avrebbe diminuito la libertà di azione del Parlamento”.
[52] Aggiornando il tenore di tale disposizione, l’art. 6, d.P.R. 19 luglio 1989, n. 366, prevede che l’Ufficio Centrale per il coordinamento dell’iniziativa legislativa e dell’attività normativa del Governo si avvalga dei rapporti del Consiglio di Stato al fine di segnalare al Presidente del Consiglio le iniziative legislative necessarie per rimuovere incongruenze normative ed antinomie.
[53] Anche Giannini rilevava che è “molto male” lo scarso ricorso del Governo al Consiglio di Stato per curare la tecnica legislativa, cfr. M.S. GIANNINI, Istituzioni di diritto amministrativo, Giuffrè, Milano, 1981, p. 136.
[54] Cons. St., Sez. Cons., 9 luglio 2020, numero affare 158/2020, n. 1339/2020, in https://www.giustizia-amministrativa.it.
[55] Cons. St., Sez. Cons., 20 novembre 2019, numero affare 1580/2019, n. 2925/2019, in https://www.giustizia-amministrativa.it.
[56] Cons. St., Sez. Cons. 4 marzo 2015, numero affare 3105/2013, n. 2881/2015, in https://www.giustizia-amministrativa.it.
[57] Cons. St., Sez. Cons. 12 luglio 2017, n. 1665 in https://www.giustizia-amministrativa.it.
[58] Cons. St., Sez. Cons. 26 novembre 2014 e 10 giugno 2015, numero affare 03162/2013, n. 1958/2015, in https://www.giustizia-amministrativa.it.
[59] Cons. St., Sez. Cons, 27 gennaio 2010, numero affare 5217/2009, n. 1003/2010, in https://www.giustizia-amministrativa.it.
[60] SANTI ROMANO, Le funzioni e i caratteri del Consiglio di Stato, in Il Consiglio di Stato. Studi in occasione del centenario, I, Roma, 1932, p. 20.
[61] Protesta sfociata in atti di aggressione fisica e verbale nei confronti del responsabile della struttura, degli operatori nonché degli altri ospiti del centro.
[62] Relazione sull’attività della giustizia amministrativa e discorso di insediamento del Presidente del Consiglio di Stato Filippo Patroni Griffi, 12 Febbraio 2019, in https://www.giustizia-amministrativa.it.
[63] M. TORSELLO, op. cit.
Il lascito di Marta Cartabia alla Corte Costituzionale
di Oreste Pollicino
“To be the faithful guardian of the Constitution in this multicultural context, requires the ability to listen to a number of subjects, speaking with different voices and to develop a mindset oriented toward the search for harmony among them through the integration of the multiple factor in play”
Queste quattro righe, contenute nell’ultima pagina del volume pubblicato qualche anno fa da Oxford University Press[1], che Marta Cartabia, nella sua veste accademica, ha firmato insieme a Vittoria Barsotti, Paolo Carozza e Andrea Simoncini, possono a mio avviso rappresentare, se non un manifesto, certamente un distillato della visione che ha caratterizzato il suo essere prima giudice e poi presidente della Corte costituzionale.
Più precisamente, il passaggio prima ricordato è emblematico perché in grado di sintetizzare alcuni degli elementi distintivi della formazione accademica e culturale della prof.ssa Cartabia che non possono non riconoscersi, poi, nelle modalità con cui la Corte, durante il suo mandato presidenziale, ha, da una parte, proseguito il processo di evoluzione e, dall’altra, ha innovato strutturalmente rispetto allo status quo, anche a causa della necessità di assicurare la continuità delle sue funzione essenziali durante la stagione pandemica.
Quali questi elementi?
In primo luogo, la fiducia che Marta Cartabia ha sempre riposto tanto nella dimensione relazionale che lega la Corte ai suoi differenti interlocutori, non solo istituzionali, quanto nella capacità di adattamento della giustizia costituzionale ad un assetto giuridico, sociale ed economico in continua evoluzione, in cui il pluralismo diffuso richiede una sintesi armonica e corale di unità nella diversità.
Si tratta di una visione della giustizia costituzionale e, prima ancora del ruolo della Corte, in una società complessa e sempre più interconnessa, che non dovrebbe stupire chi conosce Marta Cartabia ed il suo essere studiosa, docente e intellettuale impegnata nel dibattito culturale italiano ed europeo.
Il principio di leale collaborazione tra le istituzioni repubblicane, l’attenzione alla tutela dei diritti fondamentali cercando sempre l’equilibrio, assai mobile, tra tensione all’universale della protezione e il rispetto del relativismo culturale e un pluralismo assiologico allergico a qualsiasi apodittica tirannia dei valori sono elementi portanti della carta di identità scientifica, intellettuale e culturale della Presidente uscente.
Come tale dimensione relazionale, che caratterizza, come si è visto, tutto il percorso culturale e scientifico di Marta Cartabia, in cui interconnessione, dialogo e coralità sono le parole chiavi, si è poi concretizzato nei tratti distintivi del suo mandato presidenziale?
Qui è necessario operare una distinzione, a proposito di detto mandato, tra il suo primissimo periodo di fisiologia pre-pandemica e il secondo in cui la Corte costituzionale ha dovuto invece operare in un contesto del tutto nuovo legato all’esplodere della stagione dell’emergenza sanitaria.
A gennaio, la decisione di aprire la Corte alla società civile, e quindi, per un verso, all’ascolto, in linea con la prassi di molte Corti supreme e costituzionali di altri paesi, ai cosiddetti amici curiae e, dall’altra, la possibilità di convocare degli esperti in caso si ritenesse necessario acquisire pareri o informazioni aggiuntive su particolari discipline, ha, a ben vedere, una doppia valenza.
In primo luogo, quella di proseguire lungo il percorso, avviato durante la presidenza di Giorgio Lattanzi, in cui vi era stata l’apertura dei portoni delle carceri ai giudici della Corte, di “umanizzazione” della Consulta.
In secondo luogo, tale umanizzazione si colora anche di profonda umiltà. I giudici costituzionali, pur rappresentando il meglio del patrimonio giuridico italiano, non sono omniscienti. Spesso le questioni in ballo hanno implicazioni scientifiche e tecnologiche assai complesse. In questi casi, il momento della scrittura è preceduto da quello dell’ascolto degli esperti.
L’avvio della stagione pandemica ha richiesto una certa dose di creatività e di adattamento per la Consulta. Capacità che non sono mancate durante la presidenza di Marta Cartabia e che, come si osserva nel volume richiamato in apertura in cui lei è co-autrice, è, a ben vedere, un segno distintivo dell’intero atteggiarsi della Corte costituzionale. Sin dalla sua prima udienza pubblica di una Corte sconosciuta ai più, il 24 aprile del 1956, in cui, a detta del primo presidente Enrico de Nicola, non vi erano neanche le sedie. Una Corte che, cosi come allora ha fatto delle difficoltà uno stimolo per affinare la sua capacità relazionale, anche a marzo scorso, con l’esplodere della pandemia e il necessario distanziamento fisico, sotto la guida della Prof.ssa Cartabia, ha dato prova di grande capacità di adattamento.
Si è deciso di proseguire da remoto i lavori di deliberazione in camera di consiglio, le letture di sentenze e, per un periodo, anche le udienze pubbliche. Lo stesso si dica per tante altre attività interne della Corte, senza dimenticare la firma digitale apportata alle sentenze, i podcast a cura dei differenti giudici costituzionali su temi assai attuali e l’applicazione mobile che consente di avere la giurisprudenza costituzionale nel proprio smarhphone.
Qui si è in presenza di una grande discontinuità rispetto allo status quo. La Corte ha saputo utilizzare, e non era scontato, visto il contesto in cui opera, lo strumento digitale (nell’ambito di un processo di digitalizzazione amplificato dalla pandemia) per garantire, come la stessa Marta Cartabia ha fatto notare, qualche giorno fa, in occasione dei suoi saluti di commiato, il pieno funzionamento della giustizia costituzionale. Molte di queste novità possono a mio avviso e devono essere interiorizzate come fisiologiche nella futura attività della Corte. La dematerializzazione dei flussi documentali è un grande obiettivo raggiunto, a prescindere da qualsiasi pandemia. E si sta lavorando alla realizzazione di un processo costituzionale interamente telematico.
“La piena attuazione della Costituzione richiede un impegno corale, con l’attiva, leale collaborazione di tutte le Istituzioni, compresi Parlamento, Governo, Regioni, Giudici. Questa cooperazione è anche la chiave per affrontare l’emergenza. La Costituzione, infatti, non contempla un diritto speciale per i tempi eccezionali, e ciò per una scelta consapevole, ma offre la bussola anche per “navigare per l’alto mare aperto” nei tempi di crisi, a cominciare proprio dalla leale collaborazione fra le istituzioni, che è la proiezione istituzionale della solidarietà tra i cittadini”.
Mi piace chiudere con queste parole con cui la Presidente Cartabia, in occasione dell’ultima relazione annuale, ha messo in chiaro, attingendo a quei principi che si è visto essere geneticamente legati alla sua formazione, come, tanto nel mare in tempesta quanto nei tempi di bonaccia, la bussola da seguire rimane unica: la nostra Carta costituzionale.
Credo che questo possa essere un grande insegnamento anche per gli studenti dell’Università Bocconi che avranno la fortuna, dal prossimo anno accademico, di partecipare al suo corso di diritto costituzionale italiano ed europeo.
[1] V. Barsotti, P. G. Carozza, M. Cartabia, A. Simoncini, Italian Constitutional Justice in Global Context , OUP, 2016.
Nuovi orizzonti per l’azione di classe?
di Elisabetta Silvestri
Sommario: 1. Introduzione – 2. La Cina è vicina (ma forse no) – 3. I nuovi procedimenti collettivi: considerazioni sparse – 3.1. L’adesione – 4. Conclusioni.
1. Introduzione
Tra i tanti effetti collaterali della crisi economica mondiale scatenata dalla pandemia da Covid-19 vi è senza dubbio un aumento vertiginoso della litigiosità: è prevedibile, infatti, che nei mesi a venire un vero e proprio tsunami di cause nuove si abbatterà sui sistemi giudiziari, mettendone a dura prova la tenuta. Naturalmente, il problema sembra essere particolarmente preoccupante nei Paesi in cui la giustizia formale è quasi da sempre in affanno e ha navigato con grandi difficoltà le acque poco esplorate della gestione delle cause da remoto, resa indispensabile dalle regole stringenti imposte per evitare l’ulteriore diffondersi del contagio. Pur volendo astenersi da un poco costruttivo catastrofismo, sembra possibile affermare che, in futuro, la situazione italiana si presenterà molto critica: il “resettaggio” del sistema giustizia nei momenti più critici della pandemia, infatti, ne ha messo in evidenza le croniche fragilità, che rischiano di aggravarsi in futuro. Ciò nonostante, nelle stanze della politica non sembra che ci si impegni nel manifestare una vera progettualità, con l’elaborazione di possibili strategie per affrontare in maniera adeguata la prevedibile crescita della litigiosità che è ragionevole attendersi nei prossimi mesi. Sotto questo profilo, infatti, non pare che l’avere previsto una nuova ipotesi di mediazione obbligatoria per le cause in cui l’inadempimento di obbligazioni contrattuali (o il ritardo nel loro adempimento) è stato determinato dalla necessità di adottare le misure di contenimento del contagio costituisca una misura risolutiva, mancando qualunque riferimento alle materie in cui la disposizione dovrebbe trovare applicazione[1]. In altre parole, chi scrive non ritiene che affidarsi alle supposte virtù salvifiche della mediazione obbligatoria possa risolvere i problemi, complessi e in parte imprevedibili, di controversie originate da situazioni che il nostro ordinamento non ha mai sperimentato prima d’ora. In che misura la mediazione potrà contribuire a ridurre la pressione che il flusso dei nuovi casi eserciterà sui tribunali è tutto da dimostrare: com’è noto (e come anche la prassi insegna), rendere la mediazione obbligatoria non significa che le parti saranno necessariamente indotte a raggiungere un accordo.
Ferma restando l’importanza dei metodi alternativi di risoluzione dei conflitti nel ridurre il volume del contenzioso, occorre rilevare che fuori dall’Italia il problema di come gestire il flusso delle nuove controversie in qualche modo connesse con la pandemia e le sue conseguenze è da mesi oggetto di approfondimenti: sotto questo aspetto, sono interessanti le osservazioni di chi, pur augurandosi un ritorno al processo “in presenza”, esorta a non disprezzare le opportunità offerte dalla tecnologia e a non sprecare il bagaglio di conoscenze acquisite nei mesi caratterizzati da udienze virtuali e collegamenti da remoto[2].
In molti ordinamenti, il problema che sembra preoccupare maggiormente gli operatori del diritto è rappresentato dalle azioni giudiziarie intraprese in forma collettiva: più precisamente, negli ordinamenti in cui è previsto l’istituto della class action (nelle sue molteplici varianti, determinate dalle diverse legislazioni nazionali) si è già registrato un aumento esponenziale nelle azioni di classe proposte in collegamento con accadimenti riconducibili al diffondersi del Covid-19 e si paventa che il numero di questo tipo di azioni continuerà a crescere nell’immediato futuro. Negli Stati Uniti, in particolare, il numero delle class actions già proposte è elevatissimo, al punto che la American Bar Association ne ha stilato un elenco dettagliato, suddiviso per materie e in continuo aggiornamento: si va dalle azioni proposte per la cancellazione di voli e la mancata restituzione di quanto pagato per l’acquisto del biglietto aereo, alle azioni relative agli aumenti di prezzo subiti da prodotti disinfettanti; dalle azioni intentate contro le università per la mancata restituzione delle tasse universitarie, il cui versamento è stato comunque richiesto, nonostante i corsi si siano svolti online nel secondo semestre dell’anno accademico appena concluso, alle azioni intentate da dipendenti di varie attività commerciali per licenziamenti intimati senza l’osservanza delle disposizioni previste in condizioni normali[3]. Insomma, scorrendo il lungo elenco delle class actions americane instaurate ai tempi del Covid-19 si è tentati di classificarle come espressione di una vera “fantasia al potere”, talmente ampio (e, per certi versi, incredibile) è lo spettro delle situazioni sottoposte al vaglio dei giudici nelle forme di un’azione di classe. Naturalmente, sembra inevitabile domandarsi se qualcosa di simile possa accadere anche da noi, ovviamente in scala più ridotta, ma comunque segnalando l’inizio di una nuova stagione per l’italica azione di classe che, fino ad ora, non ha dato buona prova di sé, rivelandosi uno strumento poco adatto alla tutela dei diritti condivisi da una pluralità di individui e pregiudicati da una stessa condotta lesiva posta in essere da un unico soggetto responsabile.
2. La Cina è vicina (ma forse no)
Qualche mese fa, si diffuse la notizia relativa alla possibilità di aderire ad un’azione di classe promossa contro il governo cinese per ottenere il risarcimento dei danni “morali e materiali subiti” a causa della diffusione del Covid-19. Secondo la onlus impegnata a promuovere l’azione, esistendo prove della responsabilità del governo cinese nel non avere impedito la diffusione del Coronavirus e, allo stesso tempo, risultando poco probabile che i governi occidentali avrebbero assunto iniziative giudiziarie contro la Cina, l’unica possibilità di tutela per i cittadini (italiani e non) era costituita da un’azione di classe, promossa dinanzi a tribunali italiani, ma anche presso non ben identificati “tribunali internazionali”[4].
Non è dato sapere quanti siano coloro che, ad oggi, hanno compilato il modulo a disposizione sul sito della onlus promotrice, modulo che valeva quale manifestazione di interesse, nella prospettiva di aderire all’azione di classe nel momento in cui sarebbe stata effettivamente proposta. Ugualmente, non si sa se le difficoltà sperimentate dai tribunali italiani abbiano ritardato o meno l’instaurazione dell’azione di classe appena menzionata o di altre iniziative analoghe promosse da associazioni di consumatori[5]. Sia come sia, e senza neppure considerare gli ostacoli che rendono problematico, se non impossibile, convenire uno Stato straniero innanzi ad un giudice italiano, sembra difficile ipotizzare che un’azione di classe di questo genere riuscirebbe a superare indenne il vaglio iniziale di ammissibilità, previsto dall’art. 140-bis c. cons. Né pare possibile che un’azione di gruppo contro il governo cinese per non avere fornito le informazioni necessarie a prevenire il dilagare della pandemia abbia sorte migliore quando entrerà in vigore la nuova disciplina dell’azione di classe, dettata dalla legge n. 31 del 12 aprile 2019. Com’è noto, l’entrata in vigore della legge di riforma, originariamente prevista per l’aprile di quest’anno, è stata prorogata al 19 novembre 2020, ufficialmente a causa dei ritardi nella predisposizione dei sistemi informativi necessari per rendere possibili le procedure informatizzate (nell’ambito del portale dei servizi telematici gestito dal Ministero della Giustizia) previste per vari passaggi del procedimento. Non sembra potersi escludere l’eventualità di un nuovo rinvio e, in ogni caso, va tenuto a mente che l’art. 7, c. 2, l. 31/2019 prevede espressamente che le nuove disposizioni trovino applicazione soltanto “alle condotte illecite poste in essere successivamente alla data [dell’]entrata in vigore” della legge, mentre “Alle condotte illecite poste in essere precedentemente continuano ad applicarsi le disposizioni vigenti prima della medesima data di entrata in vigore”.
A tacere delle complicazioni cui darà vita la coesistenza delle nuove norme con quelle previgenti, per le azioni di classe già pendenti oppure proposte con riferimento a fatti anteriori all’entrata in vigore della legge 31/2019, va sottolineato che, se l’intento del legislatore era quello di rivitalizzare la tutela collettiva, superando i molti ostacoli procedurali che la disciplina del Codice del consumo frapponeva ad una sua più ampia utilizzazione, i risultati non sembrano esaltanti, soprattutto se si considera la lunga gestazione della riforma. Se è vero che “l’azione di classe è [...] strumentazione complessa quanto vitale, non tanto e non solo per i creditori ma a più ampio raggio, per la società moderna”[6], allora sembra inevitabile rilevare che nella nuova disciplina prevale l’elemento della complessità e non, invece, l’attenzione per la “vitalità” dell’istituto, votato probabilmente ad un destino non diverso da quello che ha reso ben poco significativo quello tuttora vigente.
3. I nuovi procedimenti collettivi: considerazioni sparse
Come si è appena accennato, la disciplina della nuova azione di classe, risarcitoria e inibitoria, è notevolmente complessa: considerati i numerosi contributi dottrinali che hanno già dissezionato la nuova normativa[7], in questo scritto si tratteggeranno solo alcuni aspetti della riforma, nella consapevolezza che gli approfondimenti necessari per dare conto in maniera compiuta di una disciplina ad alto tasso di tecnicismo richiederebbero sia un esame non superficiale delle disposizioni, sia una verifica delle loro applicazioni concrete: chi scrive, infatti, nutre la convinzione che la qualità delle norme non possa essere valutata in vitro, ma postuli necessariamente un attento studio di come quelle stesse norme sono interpretate e applicate nella prassi.
Un primo dato significativo e non puramente formale è il trasferimento dell’intera disciplina dei ricorsi collettivi (per utilizzare la terminologia adottata dalle iniziative dell’Unione Europea in materia di azioni di gruppo[8]) nel codice di procedura civile, liberandola dal “ghetto” del codice del consumo in cui era relegata[9]. Le norme, infatti, sono poste in coda al Libro Quarto codice, nel nuovo Titolo VIII-bis. Si conferma in questo modo la validità dell’icastica definizione data da Virgilio Andrioli al Libro Quarto: “una specie di upim”[10], un supermercato di tutele, in cui collocare tutti i procedimenti di cui non si sa bene cosa fare.
Detto questo, però, non si può negare che il trasferimento delle azioni collettive nel codice di procedura civile ha, quanto meno, un aspetto positivo, rappresentato dal loro essere configurate come uno strumento di tutela generale, non più riservato ai soli “consumatori ed utenti”, come è previsto ora dagli artt. 140 e 140-bis c. cons. Sempre nella prospettiva di un positivo ampliamento dell’ambito di operatività dell’istituto, l’art. 840-bis c.p.c. – con riferimento all’azione di classe c.d. risarcitoria – parla genericamente di azione proponibile nei confronti dell’autore di una innominata “condotta lesiva”, prefigurando quindi la possibilità che l’azione sia proposta a fronte di un illecito non tipizzato, a differenza di quanto si legge nell’art. 140-bis c. cons., che contiene un preciso catalogo di situazioni tutelabili.
Attraverso la nuova azione di classe, quindi, possono essere fatti valere in giudizio i “diritti individuali omogenei” di coloro che compongono la “classe”, un’entità per così dire ideale, che diventerà concreta nel momento in cui altri soggetti aderiranno all’iniziativa del proponente. Tralasciando qualunque approfondimento sul profilo della legittimazione ad agire (riconosciuta – appunto – ad ogni componente della ipotetica classe, ma anche agli enti iscritti in un apposito elenco del Ministero della giustizia, ex art. 840-bis, cc. 2 e 3 c.p.c.), la disciplina riformata, non diversamente da quella contenuta nel codice del consumo, fa della “omogeneità” dei diritti il criterio dal quale discende la loro tutelabilità in forma collettiva. Ma quando due o più diritti possono considerarsi “omogenei”? Sul punto, la dottrina ha riversato fiumi di inchiostro e questa ricca elaborazione tornerà utile all’interprete che dovrà valutare, in concreto, in presenza di quali condizioni i diritti vantati dagli appartenenti alla classe si potranno qualificare come “omogenei”. In chi scrive, tuttavia, resta l’impressione che un concetto metagiuridico, quale quello di “omogeneità”, non renda un buon servizio alla fruibilità della tutela: in effetti, è stato giustamente sottolineato che la categoria dei “diritti individuali omogenei”, mutuata dal Código Modelo de procesos colectivos para Iberoamérica, è del tutto fittizia e rappresenta una sorta di escamotage creato al solo scopo di giustificare la protezione in forma collettiva di determinati diritti individuali appartenenti ad un numero imprecisato di soggetti[11]. Quanto questa finzione risulti utile nella pratica appare comunque dubbio e rende condivisibile l’opinione di chi sostiene che il legislatore della riforma ha perso una buona occasione per fornire “una definizione legale ben più specifica del concetto di «omogeneità»”[12].
Come si è detto, esula dai limiti di questo saggio un’analitica ricognizione della nuova disciplina. Per l’azione di classe risarcitoria è confermata la scansione in più fasi: due, la prima delle quali riservata alla verifica dell’ammissibilità dell’azione o, secondo un’altra opinione[13], tre, si si vuole considerare come autonoma la fase successiva alla pronuncia di accoglimento dell’azione, quando tale pronuncia conclude in senso favorevole alla classe la fase di trattazione della causa.
Quanto al procedimento, per le azioni di classe risarcitorie la scelta è caduta sul procedimento sommario di cognizione ex artt. 702-bis ss. c.p.c., ma con alcune, non trascurabili “variazioni sul tema”, come stabilito dall’art. 840-ter, c. 3 c.p.c. Inspiegabile appare la diversa soluzione prevista per l’azione inibitoria collettiva (art. 840-sexies c.p.c.), sottoposta alle “forme del procedimento camerale, regolato dagli articoli 737 e seguenti, in quanto compatibili” (art. 840-sexesdecies c.p.c.): se l’intento del legislatore era quello di inaugurare una disciplina generale dei procedimenti collettivi davvero user-friendly, non si comprendono le ragioni sottese alla previsione di procedimenti diversi, ognuno dei quali, fra l’altro, caratterizzato da deroghe più o meno marcate rispetto al modello codicistico di riferimento. La semplificazione, evidentemente, non è nelle corde del legislatore italiano.
Vi sono altre novità che meritano di essere segnalate, innanzi tutto, quelle in materia di mezzi istruttori utilizzabili, con particolare riferimento al possibile uso di dati statistici e all’ordine di esibizione di prove “rilevanti” nella disponibilità del convenuto e al relativo corredo di sanzioni (pecuniarie e non) applicabili in caso di inottemperanza all’ordine, su modello di quanto previsto con riguardo alle azioni per il risarcimento del danno derivante da violazioni della normativa antitrust dagli artt. 3 e 6, d. legisl. 19 gennaio 2017, n. 3. Interessanti sono anche le due nuove dramatis personae nominate dal giudice nella sentenza che accoglie l’azione di classe (art. 840-sexies, c. 1, lett. f) e g) c.p.c.), ossia il giudice delegato per la procedura di adesione e il rappresentante comune degli aderenti alla classe. Dell’adesione all’azione si tratterà nel paragrafo che segue: per ora, sembra sufficiente ricordare che è con l’adesione che prende effettivamente corpo la classe, fermo restando che spetta al giudice definire nella sentenza con cui l’azione è accolta “i caratteri dei diritti individuali omogenei [...], specificando gli elementi necessari per l’inclusione nella classe” e stabilendo la documentazione da prodursi per dimostrare la titolarità dei diritti stessi (art. 840-sexies, c.1, lett. c) e d) c.p.c.). Qui, le cose si fanno molto complesse, perché i ruoli svolti dal giudice delegato e dal rappresentante comune degli aderenti si intrecciano: se, da un lato, spetta al primo pronunciarsi sull’accoglimento delle domande di adesione e condannare il convenuto al pagamento delle somme spettanti ad ogni aderente con un decreto dotato di efficacia esecutiva (art. 840-octies, c. 5 c.p.c.), dall’altro lato è il secondo che deve redigere un “progetto dei diritti individuali omogenei degli aderenti” (art. 840-octies, c. 2 c.p.c.). In realtà, i còmpiti assegnati all’uno e all’altro si affastellano in una sola norma – appunto, l’art.840-octies c.p.c. – in cui è difficile rinvenire una sequenza logica. Altrettanto difficile è comprendere quale sia esattamente la veste del rappresentante comune degli aderenti, che viene scelto tra soggetti aventi i requisiti per la nomina a curatore fallimentare ed acquista lo status di pubblico ufficiale: un pubblico ufficiale sui generis, posto che ogni aderente all’azione deve conferirgli poteri di rappresentanza e, specificamente, il potere “di compiere nel suo interesse tutti gli atti, di natura sia sostanziale sia processuale” relativi al diritto individuale omogeneo di cui l’aderente si afferma titolare (art. 840-septies, c. 2, lett. h) c.p.c.).
Molte sono le altre novità che meriterebbero un approfondimento: dalle norme sulle impugnazioni esperibili contro i provvedimenti che chiudono le diverse fasi del giudizio alle disposizioni in materia di spese; dalla disciplina dell’esecuzione forzata in forma collettiva promossa dal rappresentante comune degli aderenti alle peculiarità proprie delle disposizioni in tema di accordi transattivi. Come si è detto, però, una trattazione esauriente dell’intera riforma richiederebbe ben altro spazio e, soprattutto, ben altro studio della materia.
3.1. L’adesione
Tra le molte ragioni che hanno reso l’azione di classe risarcitoria disciplinata dall’art. 140-bis c. cons. uno strumento velleitario e di trascurabile utilità pratica, si annovera, in particolare, il meccanismo dell’adesione, in virtù del quale i potenziali membri della classe si affiancano al soggetto che ha proposto l’azione e, in questo modo, diventano soggetti agli effetti della decisione finale che, in caso di accoglimento dell’azione, sancirà il loro diritto al risarcimento o alle restituzioni che il convenuto, accertata la sua condotta lesiva, è tenuto a soddisfare. Come si è detto, il sistema del c.d. opt-in adottato dal nostro legislatore non è la sola causa del fallimento dell’azione di classe risarcitoria, come disciplinata dal codice del consumo. Tuttavia, si tratta certamente di un elemento che limita di molto la “appetibilità” dello strumento: l’onere di adesione per i potenziali membri della classe che intendano trarre profitto dall’azione intentata dal proponente può essere gravoso, specie se la pretesa che il soggetto vanta è di entità modesta, nonostante l’art. 140-bis , c. 3 c. cons. preveda che l’adesione non necessita dell’assistenza di un difensore. Nella sostanza, il gioco non vale la candela, soprattutto in un sistema come quello italiano, in cui i tempi della giustizia sono oltremodo lunghi e non vanno certo a vantaggio dei c.d. one-shotters, ossia individui (consumatori o non) che non hanno contatti frequenti con le istituzioni e, in particolare, con il sistema giustizia, e che, in genere, non dispongono di grandi risorse finanziarie[14]. Com’è noto, all’estremo opposto rispetto all’opt-in sta l’opt-out (caratteristico della class action secondo il modello statunitense[15]), in virtù del quale tutti i soggetti che rientrano nel perimetro della classe, alla luce dei requisiti individuati dal quadro normativo di riferimento, sono considerati membri della classe stessa e, senza che sia loro richiesto di assumere iniziative o di partecipare al procedimento, possono beneficiare della decisione, nel caso in cui l’azione sia accolta e la classe risulti vittoriosa in giudizio: questo, a meno i membri della classe non se ne dissocino espressamente, allo scopo di conservare il diritto di promuove un’azione individuale.
Anche la nuova disciplina dei ricorsi collettivi ripropone il meccanismo dell’opt-in, con nuove regole relative alle modalità di adesione (che dovrà avvenire mediante una procedura informatizzata, ex art. 840-septies c.p.c.) e al tempo dell’adesione (possibile in due momenti diversi[16]), ma con i problemi che già erano stati evidenziati con riferimento all’art. 140-bis c. cons. Uno fra i tanti è quello relativo alla qualificazione giuridica dell’adesione, problema che, a sua volta, solleva altre questioni, ad esempio quella relativa agli effetti dell’adesione e al ruolo che gli aderenti possono concretamente svolgere nel procedimento o anche quella riguardante la natura del rapporto che lega gli aderenti al loro rappresentante comune[17].
Per quanto l’opt-in sembri contribuire a rendere l’azione di gruppo uno strumento di tutela ben poco user-friendly, va comunque riconosciuto che la scelta compiuta dal legislatore italiano nel confermare il sistema dell’adesione è in linea con gli orientamenti delle istituzioni europee in tema di ricorsi collettivi. In particolare, nella Raccomandazione del 2013 con cui la Commissione ha elaborato principi comuni in materia di ricorsi collettivi sono previste espressamente una serie di regole in materia di “Costituzione della parte ricorrente secondo il principio dell’adesione (opt-in)”[18]. In altre parole, per le azioni collettive risarcitorie, secondo la Commissione la classe “dovrebbe essere costituita sulla base del consenso espresso delle persone fisiche o giuridiche che pretendono di avere subito un pregiudizio (principio dell’adesione, o opt-in)”[19]. Nel manifestare una indiscussa preferenza per il meccanismo dell’opt-in, la Commissione fa riferimento al fatto che l’adesione appare maggiormente rispettosa delle diverse tradizioni giuridiche degli Stati membri[20]. In realtà, anche la scelta a favore dell’adesione e contraria, almeno in linea di principio, all’opt-out rientra nella strategia della Commissione volta ad “evitare che si sviluppi una cultura dell’abuso del contenzioso nelle situazioni di danno collettivo”, rischio che può essere prevenuto soltanto evitando l’importazione in Europa del “toxic cocktail” statunitense delle class actions [21], composto dai “risarcimenti «punitivi», [dal]le procedure invadenti di accesso ai mezzi probatori prima del processo (pre-trial discovery procedures) e [da]i risarcimenti eccessivi riconosciuti dalle giurie”[22]. A torto o a ragione, infatti, sembra che le istituzioni europee abbiano sviluppato una vera idiosincrasia nei confronti del modello statunitense di class action, modello che, ovviamente, non è perfetto, ma non sembra neppure tale da giustificare timori irrazionali, anche in considerazione dell’insuperabile difficoltà di ipotizzare che un suo trapianto integrale nei sistemi giuridici dell’Unione risulti possibile.
4. Conclusioni
L’esperienza decennale dell’azione di classe risarcitoria prevista dal codice del consumo si è rivelata fallimentare e, come si è cercato di illustrare nei paragrafi che precedono, anche la nuova disciplina (se e quando entrerà in vigore) presenta molti aspetti che non consentono di prevedere ottimisticamente un vero “cambio di rotta” nella fruibilità della tutela collettiva.
In un famoso saggio sulle class actions statunitensi, Arthur Miller suggeriva l’opportunità di discutere dell’istituto in maniera obiettiva, abbandonando l’approccio “emozionale” che, a seconda dei casi, fa sì che le class actions siano considerate come “Frankenstein monsters” oppure come “Shining Knights”[23]. Chissà se, in futuro, anche da noi, il dibattito sulle azioni di gruppo assumerà toni di una querelle ideologica. Per ora, e per il futuro prossimo venturo, non sembra proprio che l’azione di classe nostrana possa ragionevolmente essere considerata (rimanendo nella metafora di Miller) alla stregua di un “cavaliere senza macchia e senza paura”. Al contrario, molti elementi della sua disciplina vigente – ma anche di quella riformata – inducono tristemente a ritenere che si tratti più che altro di un novello mostro di Frankenstein, apparso nel panorama delle tutele giurisdizionali messe a disposizione dal nostro ordinamento.
[1] Cfr. art. 3, c. 1-quater, d.l. 30 aprile 2020, n. 28, convertito, con modificazioni, in l. 25 giugno 2020, n. 70. Con riferimento alla mediazione, ma anche agli altri strumenti di risoluzione delle controversie alternativi al processo, cfr. le osservazioni di F. Cuomo Ulloa, La mediazione al tempo dell’emergenza, all’indirizzo https://www.aulacivile.it/documento/it/pubblicazione/maggioli/processo.civile/approfondimento/2020/app106/scheda.approfondimento E. Dalmotto, L’arbitrato, la mediazione, la negoziazione assistita e gli altri ADR durante il Covid-19, all’indirizzo http://www.ilcaso.it/articoli/1264.pdf (29 luglio 2020); S. Cusumano, Mediazione online e firma digitale: il d.l. “Cura Italia” consente di superare il formalismo di Cass. 8473/2019?, all’indirizzo http://www.judicium.it/mediazione-line-firma-digitale-d-l-cura-italia-consente-superare-formalismo-cass-84732019/ (7 luglio 2020).
[2] Particolarmente interessante è il saggio di Richard Susskind, The future of courts, consultabile all’indirizzo https://thepractice.law.harvard.edu/article/the-future-of-courts/. L’autore, professore presso l’Università di Oxford e presidente della Society for Computers and the Law, fra l’altro, è l’ideatore di un sito, costantemente aggiornato, che illustra la risposta dei diversi ordinamenti alle sfide della pandemia nel campo dell’amministrazione della giustizia: il sito è liberamente accessibile all’indirizzo https://remotecourts.org/.
[3] Cfr. A. Merminod & N. Awj, Covid-19 class actions forecast (Summer 2020 newsletter), all’indirizzo https://www.americanbar.org/groups/tort_trial_insurance_practice/publications/committee-newsletters/covid-19_class_actions_forecast/.
[4] Si fa riferimento alle informazioni pubblicate sul sito della onlus ONEurope, all’indirizzo https://www.covid19classaction.it/covid19-class-action/
[5] Cfr., ad esempio, la proposta di preadesione ad una azione di classe risarcitoria da proporsi sempre contro il governo cinese pubblicata sul sito del Codacons, all’indirizzo https://codacons.it/risarcimento-cina/.
[6] Così C. Consolo, La terza edizione della azione di classe è legge e entra nel c.p.c. Uno sguardo d’insieme ad una amplissima disciplina, in Corr. giur., 2019, p. 737.
[7] Cfr., ad esempio, I. Speziale, La nuova azione di classe: riflessioni critiche sulla riforma, in Corr. giur., 2020, p. 963 ss.; C. Consolo, L’azione di classe, trifasica, infine inserita nel c.p.c., in Riv. dir. proc., 2020, p. 714 ss.; G. Caruso, La nuova azione di classe: una peinture d’impression (14 luglio 2020), all’indirizzo http://www.judicium.it/?s=caruso; A. Carratta (a cura di), La Class action riformata – I nuovi procedimenti collettivi: considerazioni a prima lettura, in Giur. it., 2019, p. 2297 ss.; F. Tedioli, Tra nuove regole e vecchi problemi la class action trova collocazione nel codice di procedura civile, in Studium Iuris, 2019, p. 1413 ss.; A. Giussani, La riforma dell’azione di classe, in Riv. dir. proc., 2019, p. 1572 ss.
[8] Cfr. infra, par. 3.1.
[9] Parla di “procedimento collettivo non più ghettizzato nel Codice del consumo e percorso da qualche (inelegante ma) vivida velleità di riuscire incisivo” R. Pardolesi, La classe in azione. Finalmente, in Danno resp., 2019, p. 301 ss.
[10] Cfr. V. Andrioli, Diritto processuale civile, I, Jovene, 1972, p. 52.
[11] Cfr. A. Gidi, Derechos Difusos, Colectivos e Individuales Homogéneos in A. Gidi-E. Ferrer Mac-Gregor (coordinadores), La tutela de los derechos difusos, colectivos e individuales homogéneos. Hacia un Código Modelo para Iberoamérica2, Editorial Porrua, 2004, p. 35, con riferimento all’art. 1, c. 2 del Código Modelo de procesos colectivos para Iberoamérica, nel quale i diritti individuali omogenei sono definiti come “el conjunto de derechos subjectivos individuales, provenientes de origen común, de que sean titulares los miembros de un grupo, categoria o clase”. Il Código Modelo è disponibile all’indirizzo https://fislem.org/codigo-modelo-de-procesos-colectivos-para-iberoamerica/
[12] Così R. Donzelli, L’ambito di applicazione e la legittimazione ad agire, in B. Sassani (a cura di), Class action – Commento sistematico alla legge 12 aprile 2019, n. 31, Pacini Editore, 2019, p. 12.
[13] Cfr. C. Consolo, L’azione di classe, trifasica, infine inserita nel c.p.c., cit., p. 719 s.
[14] L’espressione one-shotters è presa a prestito dal famoso saggio di Marc Galanter, Why the “Haves” Come Out Ahead: Speculations on the Limits of Legal Change, in R. Cotterrell (ed.), Law and Society, Dartmouth, 1994, pp. 165 ss. Nel saggio (pubblicato per la prima volta nel 1974), Galanter contrappone questa categoria di litiganti ai repeat players, che hanno migliori probabilità di risultare vittoriosi in giudizio, grazie alla maggiore familiarità con il sistema giudiziario e alla superiore disponibilità di risorse finanziarie, non temono il rischio di grande perdite economiche: tutto ciò li rende pronti ad affrontare i costi di un processo che, al contrario, potrebbe avere conseguenze devastanti per coloro che sono qualificabili come one-shotters.
[15] Non è possibile concentrare in una nota la vastissima letteratura in argomento: tra gli scritti più recenti e interessanti, anche per comprendere come il tema possa essere trattato da diverse angolazioni e con opinioni molto diversificate, cfr., ad esempio, B. T. Fitzpatrick, Why Class Actions Are Something Both Liberals and Conservatives Can Love, in Vanderbilt L. Rev., vol. 73, 2020, p. 1147 ss.; S. B. Burbanks & S. Farhang, Class Actions and the Counterrevolution against Federal Litigation, in U. Pennsylvania L. Rev., vol. 165, 2017, p. 1495 ss.; R. Marcus, Brending in the Breeze: American Class Actions in the Twenty-First Century, in DePaul L. Rev. , vol. 65, 2016, p. 497 ss.; L. S. Mullenix, Ending Class Actions as We Know Them: Rethinking the American Class Action, in Emory L. J., vol. 64, 2014, p. 399 ss.
[16] L’adesione è possibile non solo dopo che l’azione è stata dichiarata ammissibile (come previsto anche dall’art. 140-bis, c. 9, lett. b) c. cons.), ma pure successivamente, dopo che è stata pronunciata la sentenza che accoglie l’azione (art. 840-sexies, c. 1, lett. e) c.p.c.): in entrambi i casi, sono fissati dal giudice i termini per l’adesione, termini rispetto ai quali il legislatore ha previsto che siano compresi tra un minimo ed un massimo.
[17] In tema, cfr. diffusamente R. Fratini, L’adesione, in B. Sassani (a cura di), Class action – Commento sistematico alla legge 12 aprile 2019, n. 31, cit. p. 121 ss., con ampi riferimenti bibliografici.
[18] Raccomandazione della Commissione dell’11 giugno 2013 relativa a principi comuni per i meccanismi di ricorso collettivo di natura inibitoria e risarcitoria negli Stati membri che riguardano violazioni di diritti conferiti dalle norme dell’Unione, art. V (§§ 21-24), consultabile all’indirizzo https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52013DC0401&from=EN. Sulla Raccomandazione e sulla Comunicazione che la accompagnava, sia consentito il rinvio a E. Silvestri, Group Actions ‘À la Mode Européenne’: A Kinder, Gentler Class Action for Europe?, in C. B. Picker – G. I. Seidman (eds), The Dynamism of Civil Procedure – Global Trends and Developments, Springer, 2016, p. 203 ss.
[19] Cfr. Raccomandazione della Commissione dell’11 giugno 2013, cit. supra, nota 18, § 21.
[20] Ivi, considerando (13).
[21] La definizione della class action come “toxic cocktail”, ossia come una venefica combinazione di elementi pericolosi, compare per a prima volta (almeno in Europa) nel comunicato stampa relative alla pubblicazione, nel novembre 2008, del Green Paper on Consumer Collective Redress, presentato dalla Commissione e consultabile all’indirizzo https://ec.europa.eu/transparency/regdoc/rep/1/2008/EN/1-2008-794-EN-F1-1.Pdf.
[22] Cfr. Raccomandazione della Commissione dell’11 giugno 2013, cit. supra, nota 18, considerando (15).
[23] Cfr. A. R. Miller, Of Frankenstein Monsters and Shining Knights: Myth, Reality, and the “Class Action Problem”, in Harvard La. Rev., vol. 92, 1979, p. 664 ss.
To install this Web App in your iPhone/iPad press icon.
And then Add to Home Screen.